Cap. 6 Al servizio dei laici - Fondazione per la Sussidiarietà

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Cap. 6 Al servizio dei laici - Fondazione per la Sussidiarietà
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Al servizio dei laici
I
Quando il Concilio Vaticano II iniziò l’11 ottobre del
1962, vi era chi si aspettava che non sarebbe durato a lungo, forse non più di una sola sessione. Indubbiamente i documenti che erano stati preparati per i vescovi in assemblea sarebbero stati emendati, ma era abbastanza sicuro
che sarebbero arrivati all’approvazione. Il Concilio sarebbe
finito molto presto. Quest’aspettativa non fu tuttavia soddisfatta. Molti vescovi erano critici nei confronti dei documenti, del loro contenuto e del loro carattere. E c’era anche
dell’altro. Ci vollero quasi tutte le otto settimane di quella
prima sessione per articolarlo: quanto era stato preparato
era troppo vago; aveva bisogno di essere messo a fuoco. Il
2 dicembre del 1962, l’arcivescovo di Milano, il cardinale
Giovanni Battista Montini, che neanche sei mesi dopo sarebbe diventato papa Paolo VI, scrisse al suo giornale diocesano, «L’Italia». Descrisse la sessione come un periodo di
rodaggio. Era tuttavia servita al suo scopo. Le prime settimane, concluse, avevano aiutato il Concilio a identificare il
suo tema centrale: la Chiesa 1. Tre giorni dopo precisò la
stessa questione nell’aula del Concilio.
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Quando i Padri del Concilio esplorarono il tema più da
vicino, si concentrarono meno su un approccio che concepiva la Chiesa principalmente per ciò che distingueva i suoi
membri gli uni dagli altri, in altre parole la sua struttura gerarchica, per dare invece priorità a che cosa li unisse, il loro
battesimo comune. Da lì scaturì il concetto di Chiesa come
koinonia o comunione. Si poneva enfasi sull’unità di tutti i
fedeli e, di conseguenza, anche dei fedeli laici. Vi è una frase
piuttosto scomoda nel Decreto finale sull’Apostolato dei
Laici: «All’interno delle comunità ecclesiali l’azione [dei laici] è talmente necessaria che senza di essa lo stesso apostolato dei pastori non può per lo più ottenere il suo pieno effetto» (Apostolicam actuositatem, n. 10). Ciò può essere letto in
senso fortemente clericale, a significare che il povero laicato
completa semplicemente quanto il clero non è riuscito a ottenere da solo; di fatto però, la frase rileva il bisogno essenziale che l’attività della Chiesa sia debitamente integrata.
Quando emerse tale consapevolezza dell’apostolato laico, ci fu chi vide in Newman uno dei suoi pionieri. In particolare si fece riferimento all’articolo che aveva scritto per
«The Rambler» nel 1859, On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine. All’epoca lo scritto gli aveva procurato dei
problemi; ora veniva riconosciuto come profetico 2. Cerchiamo di analizzarlo. Ma sarebbe un errore vedere quell’articolo in un certo senso come un esempio isolato nella
vita e nell’opera di Newman. Il suo impegno verso i laici e
il servizio che prestò loro fu profondo e duraturo.
II
La Oxford di Newman, naturalmente, era prevalentemente clericale. L’università che conobbe sia da studente
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sia da docente era ampiamente nelle mani di sacerdoti non
sposati. Solo chi stava a capo dei college poteva sposarsi.
Quando un giovane docente, solitamente divenuto sacerdote, decideva di sposarsi, doveva abbandonare la sua
condizione di fellow e optare per la vita di parrocchia. Nei
college ve ne erano molti.
Come abbiamo già fatto notare, comunque, anche in
giovane età l’istinto pastorale di Newman lo rese sensibile all’influenza di coloro tra i quali si trovava a vivere 3.
Da serio anglicano evangelico affrontò il suo primo ufficio di curato presso il St Clement, ma il suo rigido punto
di vista fu presto attenuato dall’assoluta bontà delle persone che vi incontrò. Non riusciva a credere che gran parte di loro sarebbe stata dannata. Accettava i suoi parrocchiani per quello che erano veramente. In seguito, da tutor a Oriel, capì che il suo compito andava oltre la sola
istruzione intellettuale; vi era anche una dimensione morale. Chi era contrario vide tale approccio come indottrinamento teologico, ma altri lo paragonarono all’attenzione che solo i migliori precettori privati riservano ai loro
scolari 4. In seguito, all’apice del Movimento di Oxford,
egli era parroco di St Mary the Virgin, la chiesa dell’Università, dove pronunciò le sue Lectures on the Prophetical
Office, seguite dal Corso sulla dottrina della giustificazione.
Non si trattava di lezioni universitarie ufficiali, ma furono tenute presso la cappella di Adam de Brome in St
Mary’s per approfondire la comprensione di coloro che vi
partecipavano. Non si deve inoltre dimenticare la portata
e lo stile dei suoi Sermoni anglicani. Per di più, nel periodo
in cui era parroco di St Mary, fece costruire la chiesa parrocchiale di Littlemore, luogo che sarebbe divenuto particolarmente importante per lui quando decise quale sarebbe stato il suo futuro tra Canterbury e Roma, e dove scris-
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se l’opera Sviluppo della dottrina cristiana. Quando andai a
visitarla per la prima volta nel 1966, fui accompagnato da
una donna il cui nonno da ragazzino, nel 1843, aveva sentito Newman pronunciare il suo ultimo sermone anglicano. Aveva commosso chi l’aveva sentito parlare del Parting of Friends (si veda S.D., pp. 395-409). Tutte queste attività, parte integrante della sua vita anglicana, indicano
il suo impegno al servizio dei laici. Testimoniano inoltre
la sua successiva asserzione – uno di quei temi o preoccupazioni ricorrenti che modellarono la sua vita – che l’istruzione era sempre stata la sua linea (si veda A.W., p.
259).
Oltre a queste caratteristiche della sua vita anglicana,
anche la vocazione che scelse come prete cattolico testimonia il suo approccio nei confronti dei laici. Quando fu inviato a Roma per prepararsi all’ordinazione, non era sicuro
di quale tipo di prete sarebbe dovuto essere. Si domandò
se doveva diventare gesuita o domenicano, vincenziano o
redentorista; ma di fatto si scoprì attirato dalla figura di
san Filippo Neri.
Filippo nacque a Firenze nel 1515, ma poi si trasferì a
Roma in giovane età. Visse in modo semplice aiutando
con generosità le persone che erano attirate dal calore e
dall’altruismo della sua personalità. Il suo ufficio sacerdotale divenne così efficace che venne definito l’apostolo
di Roma della sua epoca. Alcuni di coloro che furono influenzati da lui si incontravano per pregare insieme a lui
nel piccolo oratorio della chiesa di San Girolamo della
Carità. Si trattava per lo più di laici. Quando iniziarono
tali incontri, anche Filippo era ancora un laico. Quando
alla fine nel 1551 fu ordinato prete, lui e i sacerdoti che
aveva riunito intorno a sé furono chiamati oratoriani. No-
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nostante vivessero in comunità, erano preti secolari. Non
prendevano i voti e potevano conservare i propri averi.
Filippo non era interessato a un’esibizione che desse nell’occhio. Il suo ideale era «amare essere ignoti» (si veda
O.S., p. 241). Questo era il modello di vita sacerdotale e di
ministero che conquistò il cuore e la mente di Newman.
Per molti versi il modello rifletteva e ricreava per lui, ora
sacerdote cattolico, la vita nella comunità di sacerdoti
non sposati che aveva avuto tanto cara quando era un fellow di Oriel. E la parrocchia a Birmingham fu un proseguimento del ministero che aveva esercitato a Oxford e a
Littlemore.
Il legame che univa gli oratoriani era quello di amore e
senso della famiglia, piuttosto che la regola dell’autorità e
dell’obbedienza. Tale aspetto era in sintonia anche con l’attitudine che Newman aveva per l’amicizia.
Qui sorge una sorta di paradosso. A volte Newman venne descritto come un uomo che non era mai meno solo di
quando era solo; era in un certo senso riservato e solitario.
Nonostante ciò, aveva un talento straordinario per l’amicizia. Lo testimoniano le sue molte lettere e in particolare
quelle inviate alle donne sue amiche 5. Nella poesia intitolata «Un ringraziamento», scritta nell’ottobre del 1829, parlava di «benedizione agli amici, che alla mia porta / son
giunti, non richiesti, non sperati» (V.V., p. 46). Newman vedeva nell’amicizia la realizzazione dell’amore. Non era
convinto del fatto che sia meglio amare tutti in generale.
Quando due anni dopo predicò del discepolo prediletto,
vide nell’amicizia tra Gesù e Giovanni un esempio da seguire. Dichiarò di essere convinto che «la miglior preparazione per amare il mondo in generale, e amarlo come si deve e saggiamente, [fosse] di coltivare un’amicizia e un af-
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fetto intimo verso coloro che sono immediatamente intorno a noi» (S.A., p. 24).
Sono lieto e grato di riconoscere l’influenza che Newman ha avuto su di me anche in questo aspetto. Queste parole mi colpirono la prima volta che le lessi, molti anni fa.
E ora, guardando al passato, mi chiedo come avrei potuto
superare i lunghi anni di casto sacerdozio senza i miei amici. Oggi vi è naturalmente chi non ritiene sensato tale tipo
di relazioni, prive di attività sessuale. Si dubita persino che
esistano tali relazioni. Ma esistono. Proprio come i matrimoni migliori spesso si basano tanto sull’amicizia quanto
sulla passione, tanti di noi che sono single, che sia per scelta o per caso o per un voto di castità, sanno che cosa significhi provare gioia per i propri amici. Già altrove ho reso
omaggio ai miei e sono lieto di poterlo rifare. Mi offrono
«una promessa di allegria, di buona conversazione, di consigli saggi e di generosa ospitalità […] Li amo e credo di
essere amato da loro. Non diminuiscono il ministero che
offro. Sono un dono puro per cui rendo costantemente grazie» 6. Proprio come nella mia esperienza, anche alla base
della convinzione di Newman vi sono queste parole. Non
possiamo amare in generale se non amiamo in particolare.
Ed egli amava i suoi amici, come apprezzava il matrimonio. Il 12 gennaio del 1854, nella predica durante la cerimonia in cui Mary Anne Bowden – figlia di John Bowden,
suo amico sin dai tempi dell’università al Trinity College
di Oxford e morto nel 1844 – pronunciava i voti come suora della Visitazione, parlò con incisività della sua vocazione religiosa, ma non prima di aver anche descritto il matrimonio come il «legame centrale e supremo al quale nessun
altro è paragonabile». Sono parole molto forti. I figli lasciano i genitori, proseguì, come Gesù lasciò Maria, ma il ma-
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trimonio è indistruttibile e rievoca «l’eterno amore inesprimibile che il Padre nutre per il Figlio che è nel Suo petto e il
Figlio per il Padre che per tutta l’eternità lo ha generato» 7.
Se tali parole sembrano bizzarre e non realistiche in una
società piagata da matrimoni falliti, dovremmo essere ancora in grado di riconoscere l’ideale che portano con sé.
Il suo ministero pastorale da anglicano, la sua vocazione oratoriana, e il suo apprezzamento dell’amicizia e del
matrimonio come percorsi attraverso cui adempiere al
grande comandamento dell’amore, tutto questo indica il
contesto entro cui venne messo in pratica il suo servizio ai
laici. Si trattò di un servizio chiaro negli anni del cattolicesimo, in particolare nel periodo in cui fu rettore dell’Università che fondò a Dublino e in seguito durante il breve e
tumultuoso periodo in cui fu direttore di «The Rambler».
Sono due episodi di per sé distinti, ma in un certo senso legati tra loro.
III
Il 21 gennaio del 1863, Newman scrisse sul diario qualcosa che risulta ancora oscuro. Stava parlando della sua vita da quando nel 1845 era diventato cattolico ed era forse
nel suo momento peggiore. Il suo umore era pessimo, finanche depresso. Riconobbe quanto poco gli sembrava di
aver fatto come cattolico. Si diceva, ad esempio, che Manning e Faber convertivano persone, mentre lui no. Tuttavia,
era riluttante, come scrisse, «a far convertire frettolosamente uomini colti, per paura che non avessero preso in
considerazione quali sacrifici comportasse loro, e che si
trovassero in difficoltà dopo essere entrati a far parte della
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Chiesa» (si veda A.W., pp. 257-58). Proseguiva poi lamentando la condizione in cui versavano i cattolici in Inghilterra, i quali «dalla loro cecità, non riescono a vedere di essere
ciechi». Era desiderio di Newman aiutarli a valutare le argomentazioni che consideravano scontate e a esaminare la
loro posizione per quanto riguardava la cultura del periodo; così, quando avrebbero sviluppato i loro punti di vista,
sarebbero divenuti intellettualmente più maturi. In altre
parole, voleva istruirli. Fu questo il contesto particolare in
cui dichiarò che l’istruzione – la sua quarta principale
preoccupazione o tema – era la sua «linea»: «Dall’inizio alla fine, l’istruzione, nel senso ampio del termine, è stata la
mia linea» (A.W., p. 259).
Tale preoccupazione per l’istruzione fu marcatamente
evidente nelle sue attività per la fondazione dell’Università cattolica a Dublino. Era stato invitato ad andarvi nel
1851. All’inizio di quell’anno aveva, in modo piuttosto indipendente, articolato il suo ideale: «Voglio un laicato, non
arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma
fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che
sanno quello che possiedono e quello che non possiedono,
che conoscono la propria fede così bene che sono in grado
di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da
poterla difendere». Queste parole risuonano profondamente dentro di me. Mi costrinsi a preparare i capitoli del mio
libro The Catholic Faith, pubblicato nel 1986 quando ero
cappellano a Oxford, prima come lezioni. La serie di lezioni era intitolata An Account of Catholicism. E parlai e scrissi
con lo stesso scopo di Newman. Posso rendere mie le sue
parole: «Voglio un laicato intelligente e ben istruito» (Prepos., p. 374). Venni così a conoscenza delle domande poste
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dagli studenti, cattolici o meno, di una generazione più
vecchia, curiosi o sconcertati dal Concilio Vaticano II, e di
una generazione ancora più vecchia che non era mai stata
preparata al cambiamento. Ciascuno a modo suo aveva
esigenze impellenti. Era la preoccupazione di Newman,
ma nel mio contesto.
Newman era stato invitato a Dublino dall’arcivescovo
Paul Cullen di Armagh che poco dopo venne trasferito a
Dublino e in seguito fu creato cardinale. Newman si dedicò al progetto per sette anni senza risparmiarsi.
Il piano in sé era stato proposto dai vescovi irlandesi come un’alternativa ai Queen’s College che Robert Peel aveva fondato in Irlanda. Tali college erano inaccettabili per i
vescovi perché escludevano ogni tipo di insegnamento religioso ed erano ugualmente aperti ai membri di qualsiasi
Chiesa e ai non credenti. Oxford e Cambridge, d’altro canto, all’epoca imponevano ancora esami religiosi, cosa che
le rendeva, almeno in principio, non accessibili ai cattolici.
Vi era così l’opportunità di creare un’università cattolica
per cattolici provenienti dall’intero mondo anglofono.
Newman sperava che l’avrebbero frequentata anche americani. Aveva in mente una sorta di Oxford ideale trasportata
sulle sponde del Liffey. «Sarà curioso – come osservò con
l’amica Catherine Froude – se Oxford viene importata in
Irlanda» (L.D. XIV, p. 389). Era inoltre interessato ad avere
professori laici e in effetti ventisette dei trentadue a cui
diede l’incarico lo erano.
Si dimostrò tuttavia un esercizio straziante. I vescovi irlandesi avevano in mente qualcosa di molto meno ambizioso, più un college di formazione cattolica che una vera e
propria università. Ed erano in disaccordo tra di loro. Allo
stesso tempo, Newman trovò sempre più difficile lavorare
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con Cullen. Le richieste aumentavano anche a Birmingham, per cui alla fine nel 1858 si dimise dall’incarico e
tornò al suo Oratorio.
Attorno a questa iniziativa è sorta una considerevole
letteratura. Al suo centro si trova ciò che molte persone
considerarono un capolavoro, i discorsi di Newman sull’istruzione universitaria, pubblicati con il titolo L’idea di università. Se ne sono occupati le sue biografie, studi specialistici, discussioni e controversie, e nel 1976 Ian Ker produsse la sua magistrale edizione critica. Non è necessario o
fattibile esaminare nuovamente tale questione in questo
contesto. Ma vi sono punti che vale la pena considerare,
punti più immediatamente concernenti il concetto di servizio del laicato nutrito da Newman.
È naturale chiedersi, per esempio, se L’idea di università
ha ancora qualcosa da offrirci. Nel 1990, centenario della
morte di Newman, John Roberts affrontò la questione. Rivisitò i discorsi di Newman ed era idealmente attrezzato
per farlo 8. Roberts, importante storico britannico morto nel
2003, era stato anche vicecancelliere dell’Università di
Southampton e successivamente, dal 1984 al 1994, direttore
del Merton College a Oxford. Di recente aveva partecipato
in modo significativo al dibattito sull’istruzione.
Quindi L’idea di Newman ha ancora qualcosa da offrirci? Roberts non ne era facilmente persuaso. Riconobbe la
finezza dello stile di Newman, le sue argomentazioni attentamente definite che spesso hanno più sfumature di
quanto possa sembrare all’inizio, ma per lui le circostanze
in cui ci troviamo oggi sono troppo diverse, «assolutamente remote dal mondo accademico che per Newman è scontato» (p. 198). Chi potrebbe non essere d’accordo? Possiamo, ad esempio, vedere ancora la conoscenza come un fine
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in sé, ma gran parte di ciò che succede oggi nelle università «è consciamente un mezzo per fini utili», una formazione rivolta a una particolare carriera (p. 201). Newman
era ben lontano da quell’atteggiamento e dalle «realtà delle università moderne alle quali la società richiede di dare
maggiore attenzione all’utilità sociale dei loro “prodotti”»
(pp. 202-203). E ancora, Newman sosteneva che le università avrebbero dovuto in principio insegnare ogni ramo
della conoscenza (si veda Idea, p. [440]), eppure ciò che voleva, osservava Roberts, è nella pratica «impossibile» (pp.
204-205). E in ogni caso, la nostra società frammentaria e
postmoderna è molto diversa dalla visione integrata di società con i suoi valori immutabili in cui credeva Newman.
E molto altro. Non abbiamo bisogno di esaminare tutto in
questo frangente. In breve, Roberts stava dicendo che al
giorno d’oggi le università si sono sviluppate in modi molto diversi da quello immaginato da Newman.
Perciò egli non ha nulla da offrirci? Anche questo però
non sarebbe vero. Qualcosa c’è. Roberts la descrisse come
«una visione con cui chi di noi si preoccupa di istruzione
dovrebbe di tanto in tanto cercare di aggiornarsi». Osservò
che, mentre non dovremmo cercare di fare in modo che L’idea di Newman si adatti alle nostre esigenze, possiamo
sempre continuare a essere ispirati e stimolati da essa. La
sua visione può incoraggiarci a «difendere valori che ora
sono minacciati». E Roberts proseguì: «È utile ricordare
che un uomo istruito non è un uomo che sa certe cose, ma
un uomo la cui mente si è formata in un certo modo e il
quale può assumere un certo atteggiamento quando è messo a confronto con un’esperienza nuova» (pp. 221-222).
Newman e i suoi contemporanei erano spesso incredibilmente colti; sapevano molte cose; per usare termini attuali,
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erano pieni di contenuti; ma oltre ai contenuti avevano eccellenti capacità.
Per cui, se la visione di Newman deve essere rispettata,
è anche importante riconoscerla per quello che è, essere
consapevoli dei suoi limiti, come lo era lui. L’istruzione liberale produce gentiluomini. Nell’Idea, Newman offrì una
descrizione di tale persona che è divenuta molto nota. Vi è
molto da ammirare in «un intelletto educato, un gusto delicato, una mente sincera, equa, spassionata, un contegno
nobile e cortese nella condotta di vita». Queste qualità sono il frutto dell’istruzione liberale difesa da Newman. Egli
dichiarò però anche che esse «non sono garanzia di santità
e neppure di coscienziosità» (Idea, p. 255 [110]). Questa era
la sua preoccupazione. Una maggiore conoscenza e una
cultura più profonda, apprezzabili in sé, non possono garantire un miglioramento morale. E rafforzò tale punto
con immagini indimenticabili: «Tagliate la roccia di granito con un rasoio, o ancorate la nave con un filo di seta; allora potrete sperare, con strumenti fini e delicati come il
sapere umano e la ragione umana, di lottare contro quei
giganti, la passione e l’orgoglio dell’uomo» (Idea, p. 255
[111]). Newman voleva qualcosa di più per la sua università cattolica.
Nel suo desiderio di un’istruzione che fosse al servizio
del laicato, Newman voleva una relazione tra eccellenza
intellettuale e impegno religioso in cui i due aspetti fossero
veramente uniti, pur mantenendo la loro distinta integrità.
Delineò questo punto di vista nel primo di una serie di sermoni che pronunciò a Dublino nel 1856 e nel 1857.
Respinse senza tanti complimenti l’accusa che perorando l’unione tra intelletto e religione egli stesse appoggiando la censura, «la supervisione ecclesiastica» sulle questio-
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ni intellettuali. E non era neanche interessato al compromesso, come se ciascun partner dovesse concedere qualcosa. «Desidero che l’intelletto spazi con la massima libertà, e
che la religione goda di uguale libertà» dichiarò. La sua
preoccupazione fondamentale era personale. Voleva che
l’aspetto intellettuale e l’aspetto religioso fossero propriamente integrati nello stesso individuo. «Non mi soddisferà
ciò che soddisfa molti – spiegò – avere due sistemi indipendenti, quello intellettuale e quello religioso, che vadano
uno accanto all’altro, per una sorta di divisione dei compiti, e che solo accidentalmente siano insieme.» Si opponeva
strenuamente a una tale divisione. E in sintesi il suo ideale
era: «Voglio che i laici intellettuali siano religiosi, e che gli
ecclesiastici devoti siano intellettuali» (si veda O.S., p. 13).
In un successivo sermone della stessa serie, Newman riprese nuovamente il tema. Lo fece dividendo i santi in due
categorie. Per lui vi erano quelli «così assorti nella vita divina» da sembrare completamente slegati dalla vita terrena
e dalle sue vicende, e poi altri «in cui il soprannaturale non
si sostituisce alla natura, ma si combina con essa». In loro
la grazia rinvigorisce, eleva e nobilita la natura. Non sono
«meno uomini per il fatto che sono santi». E proseguì: «Il
mondo è per loro come un libro che li attrae e li interessa, e
che sanno leggere con facilità: però, in virtù della grazia
divina che li abita, essi studiano il mondo, trattano con il
mondo, in vista della gloria di Dio e della salvezza delle
anime» (S.C., pp. 247-248). Di sicuro Newman ammirava il
primo gruppo, ma era ispirato dal secondo.
Tale visione ispirò anche me. Guarda a Gesù di Nazareth come a colui che era tanto divino quanto umano, tanto
umano quanto divino. Così, da cappellano dell’Università,
consiglio ai membri dell’Università che il nostro condivi-
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dere la vita di Cristo non sia a spese della nostra umanità.
«La nostra spiritualità e la nostra testimonianza vivente
devono impegnarsi nel nostro mondo, in ciò che ci circonda, nelle nostre condizioni. In tale senso, non basta essere
nel mondo, ma non appartenervi; dobbiamo essere sia nel
mondo che appartenere a esso. Da estranei non possiamo mai
reclamarlo. Dobbiamo sentirci a casa qui se vogliamo essere testimoni efficaci» 9. E da rettore di seminario ho rimarcato il nostro bisogno di scoprire l’identità di chi viene ordinato riconoscendo il suo ruolo all’interno della comunità, non allontanandolo da essa 10. Riconosco l’influenza di
Newman.
Per questo a Dublino, nonostante parlasse dell’«idea» di
università, Newman non stava semplicemente stendendo
un piano generale, un ideale platonico di istruzione universitaria in senso ampio, ma stava più precisamente rispondendo alle esigenze delle circostanze in cui si trovava,
e incoraggiando una visione in cui la formazione intellettuale, la disciplina morale e l’impegno religioso fossero
uniti. Non fu facile mettere in pratica tale visione. Fu costantemente deluso e alla fine, il 12 novembre del 1858, si
dimise da rettore.
IV
Una volta ristabilitosi a Birmingham, comunque, tornò
presto a essere turbato. Finì implicato nella crisi della rivista «The Rambler» da molti considerata la migliore rivista
cattolica in lingua inglese del suo genere nel mondo. I vescovi erano diventati sempre più intolleranti al suo tono
più liberale. Erano irritati soprattutto dal direttore, Ri-
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chard Simpson, un uomo buono e un cattolico devoto, ma
che non si faceva problemi nel criticarli. Non ne erano contenti. Alcuni di loro espressero, nelle loro lettere pastorali,
il desiderio di censurare la rivista. Per evitare ciò e lo scandalo che ne sarebbe derivato, il vescovo di Newman, Ullathorne, gli chiese innanzitutto di convincere Simpson a
dimettersi. E Newman, che era in buoni rapporti con Simpson, riuscì a farlo. Poi però sorse la questione del successore. Chi sarebbe stato direttore al posto di Simpson? Doveva essere qualcuno che fosse ben accetto sia ai proprietari di «The Rambler» sia ai vescovi. Divenne presto chiaro
che la scelta sarebbe ovviamente caduta su Newman stesso. E fu il suo impegno al servizio dei laci, della loro istruzione in senso ampio e profondo, che aveva guidato la sua
attività anche a Dublino, a portarlo ad accettare.
Anche Newman, come Ullathorne, a volte era stato critico dei toni di Simpson. Tuttavia Simpson gli piaceva e
condivideva i suoi principi. Così, nel primo numero uscito
sotto la sua direzione, nel maggio del 1859, parlò positivamente dell’importanza di consultare i laici per quello che li
riguardava da vicino. Il problema era la controversia sulla
mancanza di una rappresentanza cattolica presso la Royal
Commission on Elementary Education. Probabilmente ne
era responsabile il Catholic Poor Schools Committee, ma
Simpson era sembrato critico nei confronti del modo in cui
i vescovi avevano gestito la questione. Fu uno degli aspetti
significativi della crisi che aveva portato al suo allontanamento. Nel suo primo numero, Newman parlò in modo generoso dei vescovi; chiarì che non vi era stata alcuna intenzione di mancare loro di rispetto. Non era però disposto a
permettere che l’evento passasse senza commenti. Osservò
inoltre: «Se si consultano i fedeli anche nella preparazione
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di una definizione dogmatica, come ultimamente nel caso
dell’immacolata concezione [nel 1854], è almeno naturale
anticipare tale atto di gentilezza e di solidarietà nelle grandi questioni pratiche» come l’istruzione (si veda L.D. XIX,
p. 129, n. 3). Si scusò se le parole utilizzate prima, o il loro
tono, erano sembrate irrispettose, ma proseguì sostenendo
che non vi era mancanza di rispetto nel presumere che i
vescovi volessero conoscere i punti di vista dei laici su una
questione così importante.
Si sbagliava. Le sue parole dosate con attenzione suscitarono la protesta del dottor John Gillow, un prete che operava
presso il seminario dell’Ushaw College, vicino a Durham.
Per Gillow il fatto che i laici potessero esser consultati in questioni dottrinali era virtualmente un’eresia. Ci fu uno scambio di lettere cortesi con Newman e il punto fu chiarito, per
quanto in seguito tornò a scatenarsi. In certi ambienti però,
l’opposizione a «The Rambler» era implacabile.
Lo stesso Ullathorne nutriva qualche perplessità sulla
direzione che le cose stavano prendendo e il 22 maggio
andò in visita da Newman all’Oratorio per discutere della
situazione. Si tratta dell’occasione ben nota in cui, secondo
gli appunti di Newman sull’incontro, a un certo punto Ullathorne gli aveva chiesto: «Chi sono i laici?» e Newman
aveva risposto «che la Chiesa sarebbe ridicola senza di loro» (L.D. XIX, p. 141). Nel corso della conversazione fece
anche notare a Ullathorne che per lui sarebbe stato un sollievo lasciare «The Rambler» e con sua sorpresa Ullathorne
lo incoraggiò a farlo. Non si trattò di un ordine, fu piuttosto un consiglio, ma pronunciato con entusiasmo. Perciò
Newman decise di dimettersi. Naturalmente non poteva
farlo subito. Doveva assumersi la responsabilità di un altro
numero, che sarebbe uscito a luglio, e decise così di coglie-
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re l’occasione per esplorare ulteriormente il problema sollevato da Gillow. Per tale ragione scrisse l’articolo On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine. Lo scritto è ricco
di esempi di vescovi del IV secolo, caduti nell’eresia dell’arianesimo, mentre i laici, fedeli, la combatterono. In tale caso straordinario, la loro fedeltà aveva salvaguardato la fede della Chiesa.
Le conseguenze immediate, per Newman personalmente, furono dolorose. I suoi oppositori si lamentarono a Roma. Fu accusato di insidiare l’autorità didattica dei vescovi. Roma chiese una spiegazione che lui era disponibile a
offrire, ma le domande specifiche poste da Roma non gli
furono trasmesse. Successivamente, seguì il silenzio. Mentre egli immaginava che fosse tutto risolto, Roma pensò
che avesse deciso di non rispondere. A poco a poco, Newman iniziò a rendersi conto che qualcosa non andava. In
quell’oscurità, in quel periodo buio della sua esistenza, il
28 novembre del 1862 scrisse una relazione sul caso di
«The Rambler». Una frase recita: «Tutto sarebbe andato bene, se non fosse stato per lo sfortunato paragrafo sulla gerarchia che si stava arianizzando, apparso sul numero di
luglio» (L.D. XIX, p. 151). La questione non si risolse fino al
1867, quando l’amico e collega oratoriano Ambrose St John
si recò in visita a Roma. L’accaduto è tipico delle vicissitudini che Newman ebbe all’epoca. Non c’è bisogno di discuterne oltre. È già stato analizzato diffusamente altrove 11.
Dovremmo tuttavia occuparci del fulcro della posizione di
Newman, vale a dire che cosa egli intendesse per «consultare i laici». Può ancora esserci utile. Identificò in particolare cinque punti 12.
Gillow era scosso dallo specifico riferimento che Newman aveva fatto alla consultazione dei laici nella prepara-
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zione di una definizione dogmatica. Nel panegirico al suo
funerale, si disse che le lezioni di Gillow e le sue risposte
alle domande avevano «tutta la precisione e l’efficacia di
un problema matematico» 13. A chi pensava in questo modo, le parole di Newman, come gli disse nella lettera del 15
maggio, suggerivano che «la parte infallibile [della Chiesa]
avrebbe consultato la parte fallibile con l’intento di guidare se stessa verso una decisione infallibile» (si veda L.D.
XIX, p. 134, n. 3). Newman però gli rispose insistendo che
tale opinione travisava quello che intendeva dire. Parlava
di «consultare» nel senso comune della lingua, vale a dire
non principalmente quello di chiedere un’opinione ma
piuttosto di scoprire un fatto. Tale era il primo punto. Fece
l’esempio della «consultazione del barometro per capire le
condizioni meteorologiche. Il barometro non ci dà la sua
opinione, ma constata un fatto per noi». E mantenne la sua
posizione, rifiutando di concedere a Gillow che l’infallibilità riposi soltanto nella Chiesa che insegna. Si affidò all’autorità del teologo gesuita Giovanni Perrone, che aveva
conosciuto a Roma nel 1847, per sostenere che l’infallibilità
risiede sia in chi insegna sia in chi impara; sono una cosa
sola, «come un’immagine appare sia nel sigillo sia nella cera» (L.D. XIX, pp. 135-136). I laici vengono consultati come
testimoni, cosicché si conosca la loro opinione. Anni dopo,
durante il Concilio Vaticano I, sostenne la stessa tesi (si veda L.D. XXV, p. 172).
Il secondo punto individuato da Newman fu quello che
chiamò «una sorta di istinto, o fronema, nella profondità del
corpo mistico di Cristo». È un istinto difficile da definire,
ma non altrettanto difficile è riconoscerlo. Corrisponde a
quello che in Grammatica dell’assenso egli definì il senso illativo 14. Anni prima, in uno dei suoi sermoni universitari, vi
AL SERVIZIO DEI LAICI
139
aveva fatto riferimento implicitamente quando notò come,
nelle questioni pratiche «quando la mente è realmente desta, gli uomini di solito non ragionano male» (U.S., p. 395).
Abbiamo un istinto per il giusto modo in cui procedere.
Che si sia «dotati o no», abbiamo una capacità intima. Ciò
ispirò un’altra delle sue immagini indimenticabili. Paragonò tale intima capacità agli sport di montagna, al progredire come «uno scalatore su una parete ripida, che, con
occhio svelto, mano pronta e piede fermo, ascende come
egli stesso non sa, per doti personali e in base all’esperienza, piuttosto che in base a regole, senza lasciare traccia dietro di sé, e incapace di insegnarlo ad altri» (U.S., p. 473).
Newman aveva fiducia nella ragione umana.
Allo stesso tempo però, nasce spontanea una domanda.
Un tale istinto può essere riconosciuto negli individui, ma
può trovarsi anche nelle comunità? Molti sarebbero scettici, io no. Pensate alle comunità che conoscete, ai gruppi ai
quali appartenete. Per anni, quando vivevo a Oxford, vedevo turisti in visite guidate a cui veniva mostrata l’Università. Venivano loro mostrati molti college. Ora di sera,
però, immagino che per loro fosse tutto confuso. Non riuscivano a ricordare come distinguere Exeter da Lincoln e
Jesus, o Trinity e St John’s, o Corpus da Oriel. A loro probabilmente apparivano tutti uguali. Per i membri di tali college però, la loro caratteristica distintiva era evidente.
Ogni comunità ha il proprio carattere, la propria identità e
la propria comprensione di sé. Lo stesso vale per la Chiesa.
Più è ampia la comunità, più complicata è la pratica, di indagine ed esplorazione, ma la realtà è la stessa. Vi è un
pensiero che può essere definito.
La testimonianza dei laici che determina la consultazione e l’istintiva, intima facoltà che la articola, emerge, se-
140
JOHN HENRY NEWMAN
condo Newman, in parte sotto la direzione dello Spirito
Santo e in parte come risposta alla preghiera. Questi sono
il terzo e il quarto punto da lui individuati. La vita autentica della comunità deriva dallo Spirito che vive nei credenti, i quali sono sensibili e reagiscono a ciò che hanno ricevuto. Non è una grazia di poco valore, ma il frutto di un
costoso impegno. Quello che poi percepiscono diventa noto nella loro preghiera, non come la canonizzazione di capricci superficiali, ma come il risultato di un discernimento
scrupoloso.
Tale vita autentica nella comunità mostra un’ulteriore
caratteristica, il quinto punto del processo spiegato da
Newman. La chiamò «diffidenza dell’errore». Detto in modo semplice potremmo dire che, quando la vita è autentica,
capisce molto presto quando qualcosa è andato storto.
Questo accade a volte fisicamente dopo un intervento chirurgico, per usare un esempio che non può essere mai accaduto a Newman: quando viene trapiantato un organo, il
cuore o il rene, vi è il pericolo del rigetto. Così in generale,
quando vengono proposte opinioni o decisioni come proprie, una comunità riconoscerà quasi subito quando in
realtà non lo sono. Il contrasto risulterà evidente.
Questo, in breve, è quanto Newman intendeva per consultare i laici. Era un processo che mirava a determinare a
cosa, nella realtà, la comunità credeva, basato sulla sicurezza che essa conoscesse il proprio pensiero; sicurezza anche
maggiore perché i fedeli laici conducevano una vita radicata
nello Spirito Santo verso il quale erano sensibili nella preghiera. Tale vita spirituale non tollerava l’errore, avrebbe riconosciuto molto presto che cosa non sarebbe suonato vero.
Newman proseguì poi descrivendo il ruolo svolto dalla
testimonianza dei laici nella storia della Chiesa e concluse
141
AL SERVIZIO DEI LAICI
l’articolo dicendo che «ciascuna parte costitutiva della
Chiesa ha una sua precisa funzione, e nessuna parte può
essere trascurata […] vi è qualcosa nella “pastorum et fidelium conspiratio”, che non si trova soltanto nei pastori».
Stava ponendo enfasi sul valore di ciò che veniva compiuto in comune e sosteneva che il clero avrebbe dovuto cercare di incoraggiare i laici fedeli, altrimenti, osservava, escludendoli dallo studio della dottrina e dalla contemplazione,
e richiedendo loro solamente «una fides implicita», tale accettazione senza riflessione «sarebbe sfociata nelle classi
più istruite in indifferenza e in quelle più povere in superstizione» 15. Le persone hanno bisogno di essere coinvolte,
di contribuire, di riconoscere qual è il loro ruolo.
Era la conclusione naturale di quanto aveva appena descritto, ma era una conclusione sorprendente per quei giorni, in cui i laici erano considerati «eterni ragazzi» 16, e l’atmosfera diffusa si nutriva di clericalismo e compiacenza.
Noi però in questo possiamo vedere una modesta anticipazione dell’enfasi sull’unità di tutti i battezzati che in seguito sarebbe stata riconosciuta dal Concilio Vaticano II.
V
Newman dedicò la sua intera vita, sia quella anglicana
sia quella cattolica, al servizio dei laici fedeli. E nel corso
della sua esperienza di vita cattolica, cercò di servire i laici
in molti modi, oltre alle sue attività a Dublino e alla sua direzione di «The Rambler». Fondò, per esempio, la scuola
oratoriana che gli procurò tante preoccupazioni e a volte
molta tristezza; anche il suo tentativo di stabilire un oratorio a Oxford era spinto dalla stessa preoccupazione, quella
142
JOHN HENRY NEWMAN
di essere al servizio dei cattolici che studiavano lì. Ho tuttavia concentrato la mia attenzione su questi due episodi in
particolare, la sua attività per l’Università di Dublino, dove
cercò di stabilire un modo per offrire ai laici fedeli un’istruzione più profonda e completa, e la sua esperienza di direttore di «The Rambler», in cui li sostenne e cercò di difendere il loro ruolo. Entrambi gli episodi gli procurarono grande
dolore. Nessuno dei due, all’epoca, conobbe un chiaro successo. Ma lasciamo la parola finale a John Coulson:
La visione persistente di Newman era che, nei giorni bui che
si stavano avvicinando e che ora inevitabilmente sono arrivati, la pienezza dell’idea cattolica richiedesse che gli intellettuali laici divenissero religiosi e gli ecclesiastici devoti degli
intellettuali. Aveva sperato che la sua vocazione fosse quella
di determinare i mezzi attraverso i quali poter ottenere ciò –
attraverso la sua Università, la sua scuola, la sua casa a
Oxford, e il sostegno per l’opera di «The Rambler». Ma non
sarebbe andata così. Tale rimaneva però la sua grande vocazione: testimoniare, attraverso il modo in cui incontrava e
controllava l’indifferenza, l’ostilità, la persecuzione e il riconoscimento tardivo della sua vita cattolica, l’espressione stessa di tale ideale al quale aveva dedicato la sua vita: la pratica
dell’intelletto santo. 17
1
Si veda Peter Hebblethwaite, Giovanni XXIII: il papa del Concilio, Rusconi, Milano 1989.
2
Si veda l’edizione di John Coulson del 1961, riedita nel 1986, John
Coulson (a cura di), John Henry Newman: On Consulting the Faithful in
Matters of Doctrine, Geoffrey Chapman, London 1961, 1986.
3
Si veda sopra pp. 28-29.
AL SERVIZIO DEI LAICI
143
Si veda A.J. Engel, From Clergyman to Don: the Rise of the Academic Profession in Nineteenth-Century Oxford, Clarendon Press, Oxford 1983, p.
25.
5
Si veda Joyce Sugg, Ever Yours Affly: John Henry Newman and His Female
Circle, Gracewing, Leominster 1996.
6
Roderick Strange, The Risk of Discipleship, Darton, Longman & Todd,
London 2004, p. 161.
7
Placid Murray, (a cura di), Newman the Oratorian, Gill and Macmillan,
Dublin 1969, p. 275.
8
Si veda J.M. Roberts, The Idea of a University Revisited, in Ian Ker, Alan
G. Hill (a cura di), Newman after a Hundred Years, Clarendon Press,
Oxford 1990, pp. 193-222. Per un punto di vista affine ma più positivo si
veda Nicholas Lash, «A Seat of Wisdom, a Light of the World»: Considering
the University, «Louvain Studies», XV, 1990, pp. 188-202.
9
Roderick Strange, Living Catholicism, Darton, Longman and Todd, London 2001, pp. 125-126.
10
Si veda Strange, The Risk cit., pp. 50-53.
11
Si veda in particolare John Coulson, Newman and the Common Tradition,
Claredon Press, Oxford 1970, pp. 113-131.
12
Si veda Coulson, On Consulting cit., pp. 73-75.
13
Citato nell’annotazione su John Gillow, in L.D. XIX, p. 586.
14
Si veda sopra, pp. 57-58.
15
Coulson, On Consulting cit., pp. 103-104 e 106.
16
Si veda Coulson, Newman and the Common cit., p. 96.
17
Coulson (a cura di), On Consulting cit., pp. 47-48.
4