parola canzone Jhonny Hallyday

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parola canzone Jhonny Hallyday
Dopo un percorso alquanto prolisso in quella fiera del libro di Damasco, Igor era giunto
al settore della narrativa siriana dove c’erano esposte tutte le opere del suo amico
narratore Zakarìyya Tàmer. Ce le aveva tutte – dategli lungo gli anni dall’autore stesso
– salvo una raccolta di recente pubblicazione. La stava sfogliando quando notò accanto
a sé una ragazza, dai lunghi capelli neri che scendevano su una blusa altrettanto nera
come pure i pantaloni a pied d’éléphant, stretti alla cintura e che andavano
allargandosi fino a coprire completamente le scarpe, com’era allora la moda per le
giovani vestite all’europea. Anche lei stava sfogliando la stessa raccolta di Tàmer.
Aveva indugiato a guardarla finché lo sguardo della giovane s’era incontrato col suo
soffermandosi per due secondi. Poi lei aveva ripreso a sfogliare il libro che aveva poi
acquistato, infilandolo nella borsa. Allontanandosi aveva sfiorato il giovane con lo
sguardo. Anch’egli prese quel libro, assieme a un paio di opere sulla storia della Siria,
sicuro che un giretto in una libreria mirata sarebbe stato più proficuo. E meno
soggetto a eventuali bombe.
Munà
La mattina dopo la sua visita alla fiera Igor aveva un appuntamento all’università per
un saluto con Muhyi ed-Din, che in Italia si faceva chiamare Amedeo, studente di
letteratura italiana conosciuto a Perugia e ora momentaneamente nel proprio Paese
per sostenere un esame.
Mentre aspettava l’autobus vide in attesa la ragazza che aveva notato alla fiera il
giorno prima. Anche lei lo riconobbe accennando un’ombra di sorriso, ma girando subito
lo sguardo. Salì sul mezzo con lei e le si trovò accanto. Le raccolse un quaderno
cadutole e quando scesero assieme davanti all’entrata dell’università gli venne naturale
rivolgerle la parola.
Due chiacchiere sul loro casuale incontro alla fiera, rilevando il loro comune interesse
per i racconti di Tàmer che Igor le disse d’aver conosciuto attraverso il suo
professore di arabo che aveva pubblicato in passato una scelta di suoi racconti in
traduzione italiana. Lei sorrise: «Italiano?». Notò nei suoi occhi l’interesse per quanto
le stava dicendo. Le chiese cosa studiava all’università. «Secondo anno di diritto.
Voglio diventare avvocato. Ho una lezione proprio ora. Devo salutarti». Le diede la
mano e si salutarono accingendosi ad allontanarsi, quando lui: «Non mi hai detto il tuo
nome». «Munà. E tu?». «Mi chiamo Igor e… mi chiedevo, non avresti mica un po’ di
tempo per aiutarmi su un racconto di Shawqi Baghdàdi, un altro scrittore di Damasco?
Vi sono delle espressioni dialettali che non mi sono chiare». Un largo sorriso si disegnò
sulle labbra di Munà. «Certo. Volentieri. Conosco un bar ad Abu Rummàne dove si può
star tranquilli. E volendo si beve un bicchiere di birra. Anche domani pomeriggio io
sarei libera».
Igor arrivò in caffetteria all’appuntamento con Muhyi ed-Din in lieve ritardo. Felice al
pensiero di poter rivedere Munà. Che probabilmente gli poteva esser veramente
d’aiuto nel risolvere problemi di traduzione.
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Due chiacchiere con l’amico che quella mattina doveva sostenere un esame, il
certificato del cui esito doveva portare in Italia. Amedeo aveva appoggiato sul
tavolino un cestello di vimini che appariva pieno di fichi maturi. «Come mai?», aveva
chiesto Igor. «Bisogna sempre portar qualcosa a un professore con cui si deve fare un
esame. Influisce sull’esito». Smorfia del giovane italiano. Intolleranza?
Nel pomeriggio del giorno dopo s’incontrò con Munà, sempre vestita di nero, al
supermercatino di “Nora” ad Abu Rummàne. Non era lontano da casa sua e ci andava
spesso a far spese. Anche lei lo conosceva abitando con la famiglia nel vicino quartiere
di Rawda.
Il bar “al-Hadìqa”, alias “Au jardin”, insegna bilingue, non era lontano e in effetti c’era
uno spazio esterno che faceva da giardino e che un tempo doveva essere stato un
patio con la fontanella d’obbligo. Ai tavolini quasi tutti giovani, evidentemente
studenti, spesso a coppie o a piccoli gruppi. Come stavano dirigendosi verso un tavolino
libero un ragazzo salutò Munà con un cenno mentre seguiva Igor con lo sguardo.
Canzoni francesi in sottofondo. Edith Piaf per lo più, ma anche Charles Aznavour, Ives
Montand e qualche lento romantico di Johnny Hallyday.
Non s’applicarono più di tanto sul testo del racconto che rimase aperto sul tavolino
accanto a birra e pistacchi ad ascoltare Igor e Munà che si raccontavano di loro
stessi.
Munà, ventuno anni, era di famiglia medioborghese musulmana liberale. I genitori le
avevano dato un’educazione piuttosto laica – diceva – lasciandole una certa libertà
fidandosi del suo buon senso.
Il padre era morto in un incidente da pochi mesi e questo era il motivo per cui vestiva
di nero.
Gli parlò di fratelli e sorelle. Di nipotini. Della sua speranza di sposarsi con ‘l’uomo
giusto’ e di avere anche lei dei figli come le sorelle.
Anche Igor le raccontò di sé in Italia, del suo lavoro all’università che lo portava
spesso nei Paesi arabi e particolarmente in Siria. La incantò parlandole di Venezia, dei
suoi canali con le gondole che lei aveva visto in un documentario televisivo.
Non le tacque il fatto di avere a Venezia un legame affettivo abbastanza importante.
A Igor sembrò di notare un’ombra di delusione nella ragazza a questa sua asserzione.
«Come si chiama?». «Si chiama Luisa e anche lei sta per finire i suoi studi in diritto. Ci
frequentiamo da circa quattro anni. Lei abita coi genitori, ma l’ipotesi è di metterci
insieme, forse di sposarci fra un anno o due, dopo che lei avrà trovato la possibilità di
esercitare la sua professione di avvocato». «E… l’ami?». «Credo di sì. Non sempre
andiamo d’accordo, ma nel complesso mi pare che abbiamo molti punti in comune e che
potremmo avere una discreta vita assieme». In realtà non ne era così certo, specie nel
recente periodo, ma non voleva ammetterlo apertamente neanche a sé stesso. «Pensi
che potresti amarla per sempre?». «Non so dare una misura al mio amore. Comunque
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sono del parere che l’amore eterno sia un’utopia. Me l’ha insegnato la vita, la mia e
quella degli altri». Munà ascoltava dubbiosa, ma non replicò.
In seguito lei non gli chiese più di Luisa e lui non la nominò più.
S’incontrarono un paio di volte ancora al Jardin, riuscendo anche a ripassare un paio di
racconti. Poi lei gli suggerì di vedersi in un altro luogo. La imbarazzava la presenza di
alcuni suoi colleghi di studio che, vedendola frequentare uno straniero, le avevano
rivolto qualche battuta di cui s’era risentita.
Igor – scettico che la ragazza accettasse – le buttò lì d’incontrarsi nella sua stanza
dove sarebbero potuti star tranquilli. Con sua meraviglia lei acconsentì senza pensarci
un istante.
Allora il giovane viveva nello studiolo d’architetto del suo amico Hàssan. L’aveva
conosciuto a Venezia dove studiava urbanistica e l’aveva rincontrato a Damasco anni
dopo. In quel suo soggiorno nella capitale siriana di quell’estate del 1996 l’amico
architetto aveva ceduto volentieri a Igor quella stanza di cui non aveva al momento
bisogno. Essa era parte di un grande appartamento tipicamente damasceno con le due
porte esterne di prammatica: quella che conduceva al haràmlik, mentre l’altra porta
introduceva al salàmlik. Per guadagnarci qualcosa, questa stanza era stata data in
affitto a Hàssan.
Igor trovava comodo avere una porta esterna sua, senza bisogno di dover passare
nell’area di quella famiglia che appariva alquanto tradizionale. Talvolta incontrava sul
pianerotolo le donne di casa, l’anziana madre del padrone, evidentemente cieca,
sempre sottobraccio a quella che doveva essere sua nuora. Irriconoscibili avendo le
facce completamente velate in nero.
Nella stanza c’era un lavandino, ma non un bagno. Per arrivarci egli doveva
attraversare un tratto dell’area di famiglia. Allora s’era convenuto che lui cominciasse
a battere le mani uscendo dalla sua stanza, per un po’ da fermo e poi procedendo verso
il bagno. Di modo che le donne avessero modo di rintanarsi e non potessero,
nell’intimità della loro casa, esser soggette a incontri ‘imbarazzanti’. Imbarazzanti? A
quel punto, più per lui che per quelle donne.
Quando Hàssan aveva avvertito il padrone che avrebbe lasciato per un periodo la
stanza a un amico straniero, per dare a questo lustro e garanzia di serietà si riferiva
all’italiano definendolo ‘duktùr’. Il che non aveva esentato il nostro ‘duktùr’ dal dover
pagare al padrone una piccola tangente.
Poi, il fatto di essere un ‘duktùr’ gli aveva dato, sì, considerazione, ma poteva anche
andar soggetto a fraintendimenti.
(continua alla prossima)
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