kant: la critica del giudizio - Storia filosofia e lettere
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kant: la critica del giudizio - Storia filosofia e lettere
KANT: LA CRITICA DEL GIUDIZIO L'ARTE E LA NATURA Fra determinismo e libertà Nelle prime due Critiche Kant ha considerato l'uomo come appartenente a due mondi, a due piani della realtà: il mondo naturale, dominato da una ferrea necessità causale, e il mondo della libertà, dell'agire morale. Il primo è oggetto dei giudizi scientifici, il secondo costituisce l'ambito dei giudizi morali. Nel primo è l'intelletto a determinare a priori le leggi fondamentali del mondo fenomenico. Nel secondo è la ragione, come ragion pratica, a esercitare un "dominio" sulle facoltà appetitive dell'uomo, sulle inclinazioni sensibili, mediante l'imperativo morale, trovando accesso alla realtà soprasensibile, al noumeno. Ma se è nell'esperienza morale della libertà che l'esistenza umana trova il suo significato più autentico, come si concilia tale libertà con la necessità che caratterizza il mondo fisico descritto dalla scienza matematica della natura? A tale interrogativo vuol dare risposta la terza "Critica", la Critica della facoltà di giudizio, del 1790. Essa cerca - appunto - di individuare e descrivere il punto di vista che consenta di conciliare il determinismo della scienza con il postulato della libertà morale, cioè di definire una prospettiva unitaria attraverso cui guardare all'insieme degli eventi della natura e delle azioni umane. Tale punto di vista non può avere un valore conoscitivo, poiché in tal caso metterebbe in discussione la concezione scientifica della natura. Ma neppure può avere un valore pratico, perché il fondamento dell'azione morale si ' colloca nella sfera del "soprasensibile", mentre quel punto di vista ha a che fare con il mondo fenomenico. Il sentimento e il giudizio riflettente Secondo Kant, la connessione fra i due piani del mondo naturale e della libertà è possibile grazie ad una specifica facoltà dell'animo umano: il sentimento, o meglio, il "sentimento del piacere e dispiacere". L'uomo, infatti, non soltanto "conosce" ed "agisce", ma "sente". Il sentimento è diverso dal "sentire" proprio della conoscenza sensibile, in quanto poggia su una particolare facoltà, la capacità di giudizio, che si colloca in una posizione mediana fra l'intelletto e la ragion pratica. A differenza di tali due facoltà, questa non ha un suo "dominio" specifico (la natura o la libertà), ma s'inserisce in entrambi gli ambiti, cercando di collegarli l'uno all'altro. In che modo? Kant ritiene che ciò avvenga grazie ad un particolare tipo di giudizio (il giudizio riflettente), che opera in modo nettamente diverso dal giudizio che è alla base della conoscenza scientifica. Quello conoscitivo è un giudizio determinante, in quanto "determina" i fenomeni mediante le leggi dell'intelletto: applica cioè le forme pure a priori per ordinare i dati dell'esperienza, selezionandoli, sussumendoli e inquadrandoli in leggi universali. Il giudizio riflettente, invece, svolge una funzione diversa, non conoscitiva. Mentre nel giudizio determinante l'universale è dato (concetti e leggi dell'intelletto), nel giudizio riflettente l'universale va cercato, costruito. Questo giudizio muove non dall'universale, ma dal particolare, e cerca, partendo da aspetti dell'esperienza, di trovare in essi un fine, un ordine che non è già dato (come è quello delle forme a priori dell'intelletto per i giudizi scientifici), ma che è da trovare. Tale giudizio "riflette" sulle realtà empiriche, considerandole dal punto di vista del fine. Kant distingue due diversi modi di avvertire la finalità nella natura, cioè due diversi tipi di giudizio riflettente: a. il giudizio estetico, nel quale il soggetto considera una data realtà come armonicamente costituita, secondo una interna finalità che la accorda con il soggetto stesso, suscitando in lui un sentimento di piacere; b. il giudizio teleologico, nel quale il soggetto pensa la natura e l'ordine delle cose presente in essa come orientati ad un fine (télos, in greco). ll giudizio estetico Il giudizio estetico può essere di due tipi, riguardando sia il bello che il sublime. Il bello ha a che fare con un limite, una forma; il sublime, invece, con l'illimitato, l'informe. Il bello si esprime attraverso il giudizio di gusto. "Gusto" è la capacità di giudicare il bello, di avvertire, cioè, la bellezza di un oggetto o di un evento (naturale, musicale, ecc.). La bellezza, però, non è "insita" nelle cose, ma ha senso solo in funzione del rapporto delle cose con noi. L'immagine delle cose viene, infatti, valutata in rapporto al sentimento che essa provoca in noi. Così un oggetto o un evento viene percepito come bello, in quanto, agli occhi di colui che osserva, presenta un equilibrio di forme e di rapporti che sembra corrispondere col sentimento interiore della libertà dell'individuo. Nella Critica della facoltà di giudizio il bello si definisce attraverso i seguenti caratteri: 1. un piacere senza interesse; 2. un'universalità senza concetto; 3. una finalità senza la rappresentazione di un fine; 4. una necessità senza concetto. a) Anzitutto, il piacere che si manifesta nell'esperienza estetica del bello è disinteressato, estraneo cioè ad ogni considerazione di "utilità". Conta, infatti, la rappresentazione della cosa, non la capacità di questa di soddisfare un bisogno. Il soggetto contempla la realtà cogliendovi un'armonia interna che induce le sue facoltà (intelletto e immaginazione) ad un libero gioco, che suscita un sentimento di piacere. b) In secondo luogo, il bello "piace universalmente senza concetto", nel senso che quel libero gioco dell'immaginazione e dell'intelletto produce nel soggetto un piacere che è - almeno potenzialmente - universale, in quanto tutti - in date condizioni - potrebbero provarlo. Si tratta, pertanto, di una universalità da intendere non in senso logico (come quella fondata sul concetto), ma come condivisibilità di quel piacere disinteressato con tutti i soggetti dotati di ragione. c) In terzo luogo, nell'oggetto avvertito come bello si coglie una interna armonia, come se le diverse parti concorressero ad un fine che tuttavia non può essere determinato. d) Infine, il giudizio di gusto considera "bella" una cosa nel presupposto che "tutti debbano giudicare così": ma senza assumere in alcun modo la necessità che caratterizza le leggi naturali. Così, in questa 'definizione' del bello la ragione lascia il campo al libero gioco del sentimento e dell'immaginazione: e anche se, in qualche modo, essa interagisce con loro, lo fa comunque non da una posizione dominante. Il sublime e il genio Se già l'imporsi di termini come 'gusto', 'sentimento', 'immaginazione' segnala (in Kant come nel pensiero del Settecento) una nuova concezione del bello, ancor più significativo è lo spazio che viene dato al 'sublime' e al 'genio'. Il sublime si distingue dal bello. Genera -come il bello - un piacere puro, disinteressato, ma attiene a ciò che è informe, senza limite. Mentre il bello produce solo piacere, il sublime presuppone un momento di dispiacere, è cioè un "piacere negativo", che attrae e respinge al tempo stesso. Per comprenderne il senso, bisogna rifarsi alla distinzione kantiana tra sublime matematico e sublime dinamico. Il sublime matematico nasce dallo squilibrio tra immaginazione e ragione, dalla reazione alla contemplazione dell 'assolutamente grande (ad esempio, della volta celeste). L'immaginazione, rispetto alla grandezza infinita della natura, all'assolutamente grande, tende "a proseguire all'infinito", senza mai poter esaurire la grandezza, senza mai poterla "comprendere" nella sua totalità. Il sublime dinamico nasce dallo spettacolo offerto dalla potenza della natura, che genera timore. Tale potenza produce anzitutto un senso di debolezza, un "sentimento di pena". Mille sono gli spettacoli della natura capaci di suscitare questo timore, dall'uragano al terremoto, alla tempesta sull'oceano. Ma a quel senso di pena può sopravvenire un sentimento opposto e cioè "la coscienza di una potenza illimitata dello stesso soggetto", la sua superiorità sul piano morale. Se, infatti, come esseri della natura siamo deboli, troviamo tuttavia in noi "una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura e una superiorità che abbiamo su di essa". Dice Kant: non è sublime la natura con la sua potenza, ma "l'animo che può sentire ia sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura". Anche qui - in questa "potenza illimitata" espressa dalla natura umana sul piano spirituale - Kant riconosce pienamente l'autonomia del soggetto e il primato della ragione come facoltà del soprasensibile. La concezione kantiana del sublime ha influenzato fortemente l'estetica e l'arte del Romanticismo. Analoga influenza ha avuto la concezione del genio, che il Romanticismo svilupperà compiutamente, facendone il centro della propria teoria estetica. L'arte, dice Kant, non è solo contemplazione, ma è anche produzione, creazione del bello. In alcuni individui tale capacità di creare cose belle implica una dote, una facoltà particolare: il genio. Il genio costituisce una facoltà spontanea e ispirata, non trasmissibile ad altri. Chi lo possiede tende a operare al di fuori di regole a lui imposte, anzi, vuole egli stesso fornire regole all'arte e proporre le sue opere come modelli esemplari per tutti gli altri. Meccanicismo e finalismo nella natura Il giudizio riflettente, si è detto, si configura anche come giudizio teleologico, in cui l'universale da ricercare e "costruire" è quello di un ordine finalistico della natura. In nessun caso, comunque, ribadisce Kant, si tratta di un giudizio conoscitivo. Inoltre il fine, nel giudizio teleologico, è un principio di organizzazione interno ad una realtà naturale, e non una considerazione di questa come mezzo verso un fine pratico (ad esempio, come se il frutto di un albero avesse il fine, la destinazione, di cibare l'uomo). L'oggetto naturale è pensato come "essere organizzato e che si organizza da sé", come organismo; solo così inteso, può essere chiamato un fine della natura: "in una cosa, in quanto fine della natura, si richiede in primo luogo che le parti (relativamente alla loro esistenza e alla loro forma) siano possibili soltanto mediante la loro relazione con il tutto". Il paradigma del meccanicismo, in questo giudizio riflettente, soggettivo, appare rovesciato: non sono le parti a spiegare il tutto, ma è il tutto a spiegare le parti. Kant fa l'esempio di un albero, cioè di un organismo nel quale le parti (foglie, radici, tronco...) esistono solo in rapporto al tutto. Così ogni parte è pensata "come esistente solo per mezzo delle altre e in funzione delle altre e del tutto". Mentre è "convinto che la parte fisica della scienza dell'universo raggiungerà, in un prossimo avvenire, la stessa perfezione a cui Newton ha portato la parte matematica", Kant è consapevole del fatto che non si può avere la stessa sicurezza riguardo agli esseri viventi, per spiegare i quali il modello deterministico della scienza si rivela insufficiente: nessuna ragione umana può sperare di comprendere "secondo cause meccaniche la produzione sia pure di un solo filo d'erba". Tale considerazione costituirà - dopo Kant - uno dei presupposti della filosofia del Romanticismo e dell'Idealismo. In campo scientifico solleciterà una riconsiderazione degli esseri viventi non più come automi (cioè come macchine), ma come organismi (cioè come insiemi, in vista dei quali funzionano le parti). Con il giudizio teleologico il concetto di "fine" si applica non solo alla comprensione dell'organismo vivente, ma anche all'ordine generale della natura. Esso esprime l'esigenza soggettiva dell'uomo di pensare se stesso, unico essere dotato di intelletto e capace di "porsi fini ad arbitrio", come fine di una realtà naturale ad esso preordinata. In questa visione, in cui si conciliano i due mondi della necessità naturale e della libertà, la natura assume come "fine ultimo" l'uomo in quanto essere destinato ad affermare nella storia non solo un progresso tecnico, ma soprattutto la "cultura", intesa come autentico progresso morale, dominio della ragione. Finalismo Il dominio della finalità è quello del sentimento soggettivo, con cui la realtà viene concepita come se fosse orientata e regolata da scopi. La convinzione di fondo della terza "Critica" (la Critica della facoltà di giudizio) è che sia possibile usare il concetto di fine, tipico della considerazione morale, applicandolo alla natura, che è il mondo del determinismo meccanicistico. Questo mediante il giudizio riflettente, che non ha un valore conoscitivo, ma esprime un'esigenza radicata nella stessa natura umana. Il giudizio teleologico, in particolare, stabilisce una relazione fra realtà fenomenica e realtà noumenica, fra mondo della natura e mondo della libertà. In tale relazione la natura viene percepita come sede per l'affermarsi della cultura umana, della ragione, della moralità: l'uomo, in tal senso, "merita il titolo di signore della natura". Vi è chi ha voluto vedere, in questo, l'idea del mondo fenomenico come un regno dei mezzi al servizio del regno dei fini, delle finalità morali umane, dell'impegno delle volontà buone a trasformare il mondo in valore. Ma Kant ha considerato quella dei fini della natura semplicemente come un'idea regolativa e orientativa: e proprio questo punto di equilibrio da lui mantenuto gli ha permesso di continuare ad essere - anche ai giorni nostri - punto costante dì riferimento per posizioni di pensiero fra loro molto diverse.