Controversie

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Controversie
ISSN 2038-2839
Editor in chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Anno 7
Numero 2
2010
Seminari
di Ematologia
Oncologica
NEL PROSSIMO NUMERO
LEUCEMIA LINFATICA CRONICA
Storia naturale •
Fattori prognostici•
Linfocitosi B monoclonale•
Pattern evolutivi •
Terapie innovative •
Controversie
EDIZIONI
INTERNAZIONALI srl
Edizioni Medico Scientifiche - Pavia
Controversie
Vol. 7 - n. 2 - 2010
Diagnostica citogenetica
e molecolare
Editor in Chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
5
Fondazione IRCCS Ca’ Granda,
Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Editorial Board
Sergio Amadori
CRISTINA MECUCCI
Università degli Studi Tor Vergata, Roma
Mario Boccadoro
Università degli Studi, Torino
Alberto Bosi
Sindromi mieloproliferative
croniche
Università degli Studi, Firenze
Federico Caligaris Cappio
23
Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano
Antonio Cuneo
Università degli Studi, Ferrara
Marco Gobbi
GIOVANNI BAROSI
Università degli Studi, Genova
Mario Petrini
Università degli Studi, Pisa
Giovanni Pizzolo
Università degli Studi, Verona
Mieloma multiplo
45
STEFANIA OLIVA, ANTONIO PALUMBO,
MARIO BOCCADORO
Giorgina Specchia
Università degli Studi, Bari
Direttore Responsabile
Paolo E. Zoncada
Registrazione Trib. di Milano n. 532
Trapianto di cellule staminali
emopoietiche
65
Edizioni Internazionali srl
Divisione EDIMES
Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia
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Seminari
2
Periodicità
Quadrimestrale
Scopi
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Titolo
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di Ematologia
Oncologica
Periodico di aggiornamento
sulla clinica e terapia
delle emopatie neoplastiche
Bibliografia
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il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform
Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals:
Sample References”.
Es. 1 - Articolo standard
1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes
in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 2847.
Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.)
1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion
DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 3 - Letter
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
[Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 4 - Capitoli di libri
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes.
In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano: MacGrawHill; 2002; p. 93-113.
Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori)
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica. 2002;
19: (Suppl. 1): S178.
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Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA.,
meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo.
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Editoriale
GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS
Fondazione IRCCS Ca’ Granda,
Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Il rapido sviluppo delle conoscenze scientifiche e
delle tecnologie hanno fatto fiorire nell’ultimo
decennio in campo oncoematologico un numero
elevato d’informazioni che hanno portato a modificare classificazioni patogenetiche e cliniche,
nonché proporre nuove strategie terapeutiche. Tali
avanzamenti hanno anche creato nuovi quesiti e
aperto discussioni che Seminari di Ematologia
Oncologica propone in questo numero limitatamente ad alcune neoplasie del sangue. La
domanda è se l’analisi dell’espressione genica, la
FISH, la PCR quantitativa rappresentano un’indispensabile alternativa o sono equivalenti alla tradizionale citogenetica e alle indagini morfologiche
e immunofenotipiche. La risposta è nella maggior
parte dei casi affermativa per la loro documentata utilità nel perfezionamento della diagnosi, nel
monitoraggio della malattia minima residua e
nella stratificazione prognostica. Tuttavia non si
può escludere che ulteriori studi sperimentali e
clinici sono spesso necessari per giustificare e
standardizzare il loro uso nell’ambito di una rou-
tine clinica. Anche la possibilità di valutare il
rischio clinico sulla base di fattori prognostici vecchi e nuovi, e la recente introduzione di farmaci
non citotossici ad attività elettiva sulle lesioni
molecolari o sul microambiente, hanno drammaticamente modificato l’approccio terapeutico di
alcune malattie come il mieloma multiplo, la leucemia mieloide cronica e le sindromi mieloproliferative. Ma nella stesso tempo hanno obbligato
a programmare studi clinici randomizzati con l’obiettivo di definire il trattamento migliore per ogni
singolo paziente. Anche l’opzione trapiantologica
che oggi viene sempre più frequentemente offerta anche a pazienti in età avanzata, non è scevra di controversie per quanto riguarda il tipo di
sorgente di cellule staminali, l’aggressività del
condizionamento e la scelta del donatore.
Per risolvere queste e altre controversie sono in
corso ricerche cliniche che hanno il compito di
raggiungere un parere unanime su quale sia la
migliore scelta in termini di diagnosi circostanziata, sopravvivenza e qualità di vita per i pazienti.
5
Diagnostica
citogenetica e molecolare
CRISTINA MECUCCI
Ematologia, Università di Perugia, Ospedale Universitario
n INTRODUZIONE
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni, grazie al progetto genoma, hanno fatto fiorire un
numero impressionante di nuove informazioni biologiche. L’ematologia, una disciplina all’avanguardia nella ricerca traslazionale, facendo tesoro di
nuove tecnologie e nuove acquisizioni, ne ha
costantemente incorporato e interpretato il significato al fine di arricchire i test diagnostici, migliorare le classificazioni patogenetiche e cliniche,
nonché disegnare nuovi approcci terapeutici.
Nelle prossime pagine saranno discusse alcune
domande ancora aperte e punti di vista sull’utilizzo di approcci diagnostici che forniscono
informazioni sulle caratteristiche biologiche delle emopatie maligne.
I paragrafi che seguono sono dedicati ad alcune domande che a tutt’oggi possono non vedere il totale accordo di vedute e/o necessitino di
ulteriori studi sperimentali e clinici.
Parole chiave: citogenetica, FISH, diagnosi, prognosi.
Indirizzo per la corrispondenza
Cristina Mecucci
Ematologia
Università di Perugia
Ospedale Universitario
P.zza Università, 1 - 06132 Perugia
E-mail: [email protected]
Cristina Mecucci
n IL GENE EXPRESSION PROFILE
(GEP) SOSTITUISCE LA DIAGNOSI
CITOGENETICO-MOLECOLARE
NELLE LEUCEMIE ACUTE?
Mentre l’analisi del DNA ci informa sulle aberrazioni del codice genetico da cui la cellula maligna è affetta, l’analisi dell’espressione genica ci
dice come la cellula stia funzionando, attraverso il riconoscimento e dosaggio degli RNA messaggeri trascritti dall’intero genoma codificante,
e in un singolo test.
Sono state sviluppate varie piattaforme per
ottenere profili di espressione sempre più completi. Affymetrix è una delle prime tecnologie
disponibili e da anni rappresenta la piattaforma
più citata nelle pubblicazioni scientifiche in materia. Illumina è un’altra piattaforma molto interessante che si è affermata più di recente nel campo degli arrays, dalla genotipizzazione al GEP.
Leucemie acute mieloblastiche (LAM)
La classificazione corrente vede l’integrazione
dell’esame morfologico con l’immunofenotipo, la
citogenetica e la biologia molecolare.
L’identificazione dei cosiddetti marcatori citogenetico-molecolari ha modificato a fondo la classificazione (1), dal momento che il riarrangiamento
genico si è dimostrato dominante dal punto di vista
del fenotipo clinico e in particolare della prognosi della leucemia associata, a prescindere anche
dalla morfologia dei blasti, almeno secondo i criteri standardizzati dal Gruppo FAB, e dall’espres-
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Seminari di Ematologia Oncologica
sione di antigeni cellulari rilevati dall’analisi
immunofenotipica con anticorpi monoclonali. La
validazione clinica dell’approccio citogeneticomolecolare è patrimonio dell’ematologia clinica
in tutto il mondo e orienta la scelta sui diversi
approcci terapeutici incluso il trapianto di midollo. Si può ancora migliorare? Probabilmente sì,
e il potenziale informativo del GEP ha ovviamente ulteriormente sollecitato questa domanda. È
indubbio che il raggruppamento unsupervised di
casistiche di LAM sulla base dell’espressione
genica è in grado di selezionare sottogruppi che
coincidono con la lesione citogenetico-molecolari, tipicamente t(8;21); t(15;17); inv(16); mutazioni di NPM1(2-5). Un punto importante nell’analisi di sottogruppi sulla base del GEP è che i clusters vengono estrapolati in considerazione delle somiglianze che però possono prescindere dalla lesione citogenetico-molecolare ed essere
legate ad altri fattori, come ad esempio lo stadio di maturazione delle cellule appartenenti alla
popolazione leucemica, come rappresentato
dalle caratteristiche immunofenotipiche. Questa
è una delle ragioni che potrebbero spiegare le
differenze osservate nel GEP all’interno di sottogruppi molecolari, come ad esempio le leucemie con t(15;17) (6) o leucemie con mutazioni
di CEBPA (7).
Esistono sottogruppi prognostici di LAM definiti dal
GEP e non dall’approccio citogenetico-molecolare? La risposta sembra essere affermativa se si
considerano ad esempio le LAM a cariotipo normale all’interno delle quali Metzeler et al. (8) hanno mostrato che la ipo- o iper-espressione di un
set di 86 geni può identificare due situazioni distinte in termini di sopravvivenza e ricaduta.
Appare abbastanza chiaro che la potenza analitica del GEP abbia un impatto non solo sulla
comprensione della biologia delle LAM ma
anche sulla conduzione clinica e la scelta delle
strategie terapeutiche (9). Il GEP oggi ha quindi un ruolo nell’algoritmo diagnostico a integrazione delle analisi citogenetico-molecolari e
ulteriori avanzamenti sono attesi attraverso validazioni multicentriche e miglioramenti tecnologici che favoriscano la riproducibilità e la facilità di
preparazione del materiale biologico da analizzare, nonché riducano i prezzi dell’analisi. Un ulteriore aspetto affascinante sarà l’arricchimento dei
software con analisi simultanea del GEP e dei
profili di microRNA e SNPs. Tutto ciò in una prospettiva di ricerca di base e applicata.
Leucemie Acute Linfoblastiche (LAL)
L’impatto clinico dei sottogruppi citogeneticomolecolari nelle LAL-B è stato particolarmente
curato nella recente classificazione WHO (1). Il
GEP ha un buon valore predittivo, per ciò che
riguarda la t(12,21) (10), le traslocazioni coinvolgenti il gene MLL (11); la t(1,19) nella fusione
TCF3/PBX1 (11) e la traslocazione Burkitt
t(8;14) - IgH/MYC (12), ma il grande limite di tale
approccio è di non riconoscere uno dei più importanti sottogruppi dal punto di vista prognostico,
segnatamente quello associato alla traslocazione Philadelphia t(9,22)-BCR/ABL1 (13).
Nelle LAL-T i contributi diagnostici della citogenetica convenzionale sono stati scarsissimi,
mentre recentemente si sta delineando una classificazione più completa a partire dai risultati della genotipizzazione, delle mutazioni geniche e del
GEP. Sono stati così proposti quattro grandi raggruppamenti funzionali (difetti del ciclo cellulare,
del differenziamento, della proliferazione e
sopravvivenza e della capacità di autoriproduzione) il cui significato prognostico deve essere però
ancora chiarito (14).
Un’indicazione importante viene dal GEP per la
distinzione della LAL-T dal linfoma linfoblastico
T, in quanto la prima mostra alti livelli di espressione di CD47, mentre il secondo di MLL (15),
evidenziando differenze molecolari in due condizioni cliniche fino ad oggi per lo più considerate come una stessa entità biologica.
n CITOGENETICA, FISH, RQ-PCR:
UNO O PIÙ TEST NEL
MONITORAGGIO DELLA
LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA
IN TRATTAMENTO CON INIBITORI
DELLE TIROSIN CHINASI?
L’introduzione nella pratica clinica del primo inibitore delle tirosin-chinasi (TKI), l’imatinib mesilato, ha modificato completamente le prospettive terapeutiche dei pazienti affetti da leucemia
mieloide cronica Philadelfia positiva (LMC-Ph+)
Diagnostica citogenetica e molecolare
(16, 17). Oltre il 90% delle LMC de novo ottiene
oggi una risposta citogenetica completa. Tuttavia
una frazione di pazienti può mostrare resistenza al trattamento con imatinib dovuta a mutazioni di ABL1, potenziale bersaglio di inibitori delle
tirosin chinasi di seconda generazione.
L’evoluzione delle opzioni terapeutiche per i
pazienti LMC Ph+ ha reso necessario un monitoraggio particolarmente accurato.
Citogenetica convenzionale
La citogenetica convenzionale (CC) al momento della diagnosi è sicuramente ancora il metodo più convalidato e universalmente riconosciuto in quanto permette di definire una serie di informazioni che possono successivamente essere
utili nel monitoraggio.
Circa il 5-10% dei casi di LMC mostra la presenza di traslocazioni varianti o complesse con il
coinvolgimento di uno o più cromosomi/loci oltre
il 9 e il 22 (18) (Figura 1). Tuttavia, se nei pazienti trattati con interferone veniva descritta l’associazione delle traslocazioni varianti con una prognosi più severa rispetto alla t(9;22) classica, questo dato sembrerebbe annullarsi in era imatinib
in termini di risposta al trattamento, durata della risposta, sopravvivenza (19, 20).
L’analisi del cariotipo permette inoltre di evidenziare la presenza di anomalie cromosomiche
addizionali (trisomia del cromosoma 8, doppio
FIGURA 1 - Cariotipo dopo bandeggio G: 46,XX,t(5;9;22)
(q12;q34;q11). Le frecce indicano i 3 cromosomi coinvolti nella
traslocazione complessa che include il cromosoma Philadelphia
con riarrangiamento BCR/ABL1.
Anomalia
Numero (%)
Cromosoma 8
60 (37%)
+8
60
Cromosoma 7
27 (17%)
-7
18
del 7q
8
inv(7)(p15q22)
1
Cromosoma 20
11 (7%)
del 20q
11
Cromosoma Y
29 (18%)
-Y
25
+Y
4
Cromosoma 1
3 (2%)
dup(1)(q21q42)
1
dup(1)(q11q21)
2
Traslocazioni
16 (10%)
t(X;17)(q22;q36)
1
t(15;16)(q15;q24)
1
t(11;17)
1
t(6;7)(p24;q21)
1
t(3;11)(q27;q13)
1
t(7;22)(q22;q13)
1
t(2;3)(q21;p14)
1
t(1;6)(p32;p24-25)
1
t(3;21)(q27;q22)
1
t(3;10)(q26;q22)
1
t(7;17)(q11;q21)
1
t(6;12)(p23;q13)
1
t(10;15)
1
t(4;8)(q22;p22)
1
t(2;6)(p23;q23) + 1 ns
2
Altre
15 (9%)
inv(1)(q12q32),del(7)(q22)
1
ider(20)(q10),t(20;21)(q22;q22)
1
-Y,+15
1
ins(3;4)(q21;q31.1)
1
der(5)ins(5;5)(p15;q22q12),
del(5)(q31q35),del(6)(q23)
1
del(5q),add(21)(p+)
1
add(12)(p13);del(18)(q21)
1
-7,der(17)ins(7;17)(p?;p?)
1
-22+mar
1
+8+mar
1
inv(1)(p?32.3p?31.2), del(10)(q24q24) 1
del(5)(q13q33),add(21)(p11.2)
1
-5,-7,add(12)(p11.2),+mar
1
del(10)(q26) 1
anomalia cromosoma 10 non specificata 1
Totale Pazienti: 3.983
Totale con anomalie emergenti: 161 (4.13%)
TABELLA 1 - Anomalie citogenetiche clonali descritte nelle
cellule Philadelphia negative in pazienti con LMC in
trattamento con imatinib.
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Seminari di Ematologia Oncologica
Philadelphia, isocromosoma 17q e trisomia del
cromosoma 19) che si osservano in corso di
accelerazione di malattia (20-40%) e più frequentemente nell’evoluzione verso la crisi blastica
(>80%) (21). L’impatto clinico delle anomalie clonali addizionali vede le anomalie complesse
associate a cattiva prognosi, mentre tra le anomalie singole la perdita del cromosoma Y si associa ad una buona risposta al trattamento a differenza della trisomia 8, del(5q) e alterazioni a
carico del cromosoma 17 (22).
La valutazione della quantità di cellule
Philadelphia positive effettuata su un numero di
metafasi, convenzionalmente fissato a 20, consente di differenziare il tipo di risposta al trattamento con imatinib: assente (100%), minima
(95%), minore (95%-66%), parziale (65%-36%),
completa (nessuna). L’analisi del cariotipo, durante il trattamento, permette anche di valutare la
possibile comparsa di anomalie addizionali nel
clone Ph- (Tabella 1).
Molti gruppi di lavoro hanno riportato l’insorgenza di queste aberrazioni citogenetiche durante il
trattamento con TKI. È ancora poco chiaro quale sia l’incidenza, l’eziologia e il valore prognostico di tali anomalie (23, 24).
La trisomia del cromosoma 8 è sicuramente
l’anomalia più frequente, in alcuni casi è anche
descritta la monosomia del cromosoma 7 (25,
26). Questi cloni cellulari sembrano mostrare un
andamento fluttuante e sono stati anche descritti casi di negativizzazione spontanea (27). D’altro
canto, nonostante le anomalie che insorgono nel
clone Ph- siano spesso quelle tipiche delle sindromi mielodisplastiche (SMD), l’associazione di
queste aberrazioni con una franca SMD è abbastanza rara, ma definitivamente provata per le
alterazioni del cromosoma 7 e i cariotipi complessi (28-30). Da tutto ciò risulta evidente come al
momento non si possa prescindere dall’analisi di
citogenetica convenzionale alla diagnosi e nel
monitoraggio del paziente in trattamento con TKI.
Con quale frequenza?
Le nuove linee guida proposte dallo European
Leukemia Net (ELN) suggeriscono la valutazione citogenetica a 3 e a 6 mesi dall’inizio del trattamento; poi ogni 6 mesi fino al raggiungimento
della risposta citogenetica completa e successivamente ogni 12 mesi nei casi in cui sia possi-
bile effettuare un monitoraggio molecolare e in
ogni caso in cui si sospetti una risposta sub-ottimale o l’insorgenza di una resistenza alla terapia (31).
FISH: in alternativa o valore aggiunto?
La definizione di risposta citogenetica completa
sulla base del cariotipo richiede l’analisi di un adeguato numero di metafasi e questo non è sempre facilmente ottenibile su campioni di pazienti sottoposti a trattamento. Anche per questo motivo, negli ultimi anni, l’utilizzo dell’ibridazione in
situ in fluorescenza su nuclei interfasici (I-FISH)
è notevolmente aumentato, soprattutto nei casi
privi di metafasi valutabili. La FISH si è dimostrata molto utile per la caratterizzazione di quell’1%
dei pazienti con LMC che mostrano un cariotipo normale e una biologia molecolare positiva per
il riarrangiamento BCR-ABL1.
Un’analisi dettagliata in FISH di questi casi mostra
che il prodotto di fusione BCR-ABL1 si origina
con meccanismi diversi: per inserzione diretta del
gene BCR in ABL1 e viceversa (Figura 2), oppure con riarrangiamenti complessi che possono
FIGURA 2 - La FISH in metafase con la sonda LSI BCR/ABL
dual color dual fusion (Vysis, Abbott) rivela l’inserzione criptica
del gene ABL1/9q34 nel gene BCR/22q11: segnale di fusione
rosso/verde (freccia). I due segnali rossi sui cromosomi 9 corrispondono ad ABL1; il segnale verde sul cromosoma 22 corrisponde al gene BCR non coinvolto nel riarrangiamento.
Diagnostica citogenetica e molecolare
FIGURA 3 - A) Cariotipo dopo bandeggio G: 46,XY,t(9;22)(q34;q11); B) Rappresentazione di un pattern di ibridazione normale e in
presenza del riarrangiamento BCR-ABL1 (LSI BCR-ABL dual color dual fusion, Vysis-Abbott). C) Pattern di ibridazione in paziente
Philadelphia-positivo in cui sono presenti delezioni accompagnanti la traslocazione: perdita del 5’ABL1 (nucleo a sinistra); perdita
del 5’ABL1 e del 3’BCR (nucleo a destra).
coinvolgere materiale cromosomico fiancheggiante i geni BCR e ABL1 e anche altri cromosomi
oltre il 9 e il 22 (32).
I pazienti che mostrano questo tipo di riarrangiamenti criptici in presenza di un cariotipo normale non possono avvalersi della CC per il monitoraggio durante il trattamento e quindi in tutti questi casi la FISH è sicuramente di grande aiuto.
L’analisi in FISH ha anche permesso di evidenziare alcuni pattern di ibridazione anormali che,
in circa il 10-15% dei pazienti con LMC Ph+, coincidevano con delezioni submicroscopiche adiacenti al punto di rottura sul der(9) (33, 34) (Figura 3).
La presenza delle delezioni sul der(9) non correla con caratteristiche cliniche particolari, rischio
Sokal o fase della malattia, ma l’eventuale valore prognostico in pazienti trattati con TKI è ancora motivo di dibattito (34-36).
Uno studio cooperativo tedesco ha concluso per
il valore prognostico della dimensione del tratto
genomico deleto: le delezioni più estese a livello molecolare correlerebbero con una prognosi
sfavorevole (36). Il GIMEMA CML WP (Gruppo
Italiano Malattie Ematologiche Adulto Chronic
Myeloid Leukemia Working Party) ha recentemente pubblicato un lavoro in cui la citogenetica convenzionale viene paragonata alla I-FISH
nella definizione di risposta citogenetica completa durante il monitoraggio.
Storicamente, la definizione del numero di cellule Ph+ presenti in un controllo normale è stata falsata dall’utilizzo di sonde che mostravano
la singola fusione e che determinavano una quota di falsi positivi molto alta, maggiore o uguale
al 5%. L’utilizzo di sonde di nuova generazione
ha permesso di abbassare notevolmente il cutoff fissandolo intorno all’1%.
Pazienti che avevano ottenuto una risposta citogenetica completa sono stati valutati anche con
I-FISH ed è emerso che un 13% avevano una
quota di nuclei positivi compresi tra l’1 e il 5%;
e che il 4% aveva più del 5%, a dimostrazione
che la I-FISH ha una sensibilità maggiore rispetto alla CC nel definire la quota di malattia minima residua durante il trattamento (37). Di rilievo
pratico è che molti lavori mostrano una buona
concordanza nell’utilizzo della I-FISH su sangue
periferico in alternativa al midollo osseo (38-40).
RQ-PCR come unico strumento
di monitoraggio
Le metodologie utilizzate per identificare i trascritti BCR-ABL1 si sono evolute negli anni. All’inizio
era solo possibile identificare la presenza o l’as-
9
10
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 4 - Sensibilità delle
metodiche utilizzate per valutare la risposta al trattamento.
senza dei trascritti attraverso un singolo step di
amplificazione o 2-step nested con primers interni per aumentare la sensibilità (41-43).
Successivamente il numero dei trascritti veniva
espresso come microgrammi di RNA (44) o come
ratio BCR-ABL/ABL in scala logaritmica (45).
Questa metodica è stata poi adattata alla real
time PCR quando questa è diventata disponibile (46, 47). La quantificazione del trascritto BCRABL su scala logaritmica è stato applicato su una
grande casistica di pazienti con LMC seguiti per
un follow-up di 5 anni e arruolati nell’International
Randomized Study of Interferon versus STI 571
(IRIS study).
Questo lavoro ha dimostrato che nessun paziente con risposta citogenetica completa e riduzione del livello di trascritto minimo di 3 log, equivalente ad una risposta molecolare maggiore
(RMM) a 12 e 18 mesi, ha una progressione di
malattia a 60 mesi dall’inizio dell’imatinib. D’altra
parte il residuo della quantità di trascritto a 12
mesi, quantificato attraverso RQ-PCR in termini
di riduzione logaritmica, ha un significato predittivo per il rischio di progressione nei pazienti che
hanno ottenuto la remissione citogenetica completa (48). Molti altri lavori hanno evidenziato che
la rapidità nell’ottenimento della RMM ha un significato prognostico (49-51).
Sulla base di questi dati, visto il suo importante
significato prognostico, ora la RQ-PCR è consi-
derata fondamentale nel monitoraggio dei pazienti con LMC sottoposti a trattamento con TKI e il
non raggiungimento della risposta molecolare
maggiore a 18 mesi dall’inizio del trattamento è
considerata una risposta sub-ottimale e richiede
una attenta rivalutazione e una possibile variazione del trattamento (52).
Proprio per questo motivo un altro aspetto fondamentale è la standardizzazione dei protocolli
internazionali e l’armonizzazione della quantificazione di BCR-ABL1 al fine di riportare i risultati su scala internazionale (53, 54).
Il National Institutes of Health (NIH), ha proposto di eliminare il concetto di riduzione logaritmica introducendo quello di numeric International
Scale (IS) che esprime l’ammontare del trascritto come percentuale rispetto ad un gene di controllo in presenza di 2 controlli interni di valore
noto. Il primo valore, cioè il basale, è stato designato al 100% mentre il secondo rappresenta la
RMM, cioè la riduzione di 3 log dal basale fissato allo 0,1%.
La conversione dei valor i dei singoli laboratori in
IS è possibile con l’applicazione di fattori di conversione specifici per ogni diverso laboratorio
(55). Ovviamente il fine di qualsiasi trattamento
con TKI è l’ottenimento della risposta molecolare completa (RMC), che non significa eradicazione della leucemia ma assenza di trascritto BCRABL determinabile con la PCR. Nella gestione
Diagnostica citogenetica e molecolare
clinica del paziente in trattamento con TKI le linee
guida suggeriscono che la RQ-PCR venga eseguita ogni 3 mesi anche nei pazienti che abbiano raggiunto la RMM. Un incremento sequenziale del livello di trascritto può servire a identificare precocemente i pazienti che stanno perdendo la risposta o suggerire lo studio delle mutazioni di BCR-ABL.
In conclusione, alla luce di quanto sopra è ancora difficile scegliere un solo approccio per il monitoraggio dei pazienti con LMC Ph+ sottoposti a
trattamento con TKI. Va da sé che la PCR quantitativa, in quanto metodica di più alta sensibilità e specificità, deve riscuotere il massimo di
attenzione negli affinamenti tecnologici e validazione clinica (Figura 4).
La citogenetica convenzionale mantiene comunque un suo ruolo, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo anche dopo l’ottenimento
della RMC, almeno fino a quando non si capirà
il significato clinico delle aberrazioni citogenetiche che insorgono durante il trattamento con TKI
nel clone Philadelfia negativo.
n LA DELEZIONE 20Q E LA
MONOSOMIA Y (-Y) ISOLATE
SONO ANOMALIE CLONALI
SUFFICIENTI PER LA DIAGNOSI
DI SINDROME
MIELODISPLASTICA IN ASSENZA
DI SEGNI MORFOLOGICI?
La delezione del braccio lungo del cromosoma
20 è una delle più comuni anomalie cromosomiche associate a disordini mieloidi.
È stato postulato che questa delezione possa
risultare nella perdita di eterozigosi o nell’aploinsufficienza di geni soppressori che potrebbero
contribuire alla patogenesi di disordini mieloidi,
quali le SMD. Sebbene il gene/i target sia (no)
ancora da identificare, l’ampiezza della delezione è variabile e il restringimento con SNP arrays
ha definito due regioni comuni di delezione: la prima di 2.5Mb tra la banda 20q11.23 e 20q12, la
seconda che comprende 1.8 Mb all’interno nella banda 20q13.12 (56, 57).
La delezione del braccio lungo del cromosoma
20 rappresenta generalmente un fattore progno-
stico favorevole soprattutto quando presente
come anomalia citogenetica isolata fin dalla diagnosi. Il significato clinico cambia se un 20q- si
sviluppa più tardivamente, come anomalia addizionale, anche in piccoli subcloni, indicando
un’evoluzione di malattia ed una prognosi infausta (58). Se esistano differenze molecolari tra i
cromosomi 20q- identificati in fasi diverse di
malattia non è noto.
Un’osservazione interessante è che in pazienti
con sindrome di Shwachman, che comprende una
citopenia, neutropenia, e un aumentato rischio di
SMD, una delezione 20q può essere identificata
come anomalia clonale, a volte fluttuante, spontaneamente e senza sviluppo di mielodisplasia
anche in follow-up di molti anni (59, 60). Il 20qè l’anomalia citogenetica più frequente in casi di
SMD che si presentano con trombocitopenia isolata (61) ed è stata inoltre ampiamente documentata in pazienti privi di evidenti segni di displasia
all’analisi morfologica, raramente anche in presenza di disordini autoimmuni (62), o in associazione ad anomalie morfologiche minime nelle prime
fasi dell’evoluzione della malattia (63, 64).
Inoltre una delezione del braccio lungo del cromosoma 20 è stata identificata in pazienti con precedente diagnosi di porpora trombocitopenica idiopatica (ITP) suggerendo la necessità di una precisa diagnosi differenziale (65) con forme di SMD
che si presentino con trombocitopenia isolata. In
quest’ottica uno dei punti chiave del passaggio
tra la terza e la quarta edizione della classificazione WHO (1) è stato quello di identificare una
serie di anomalie citogenetiche clonali che,
quando presenti in pazienti con citopenie refrattarie, consentano di effettuare una diagnosi di
SMD, anche in assenza di segni morfologici
displastici. Tra queste non è compresa la delezione del braccio lungo del cromosoma 20 (1).
La perdita del cromosoma Y (-Y) è un fenomeno fisiologico correlato all’invecchiamento, comune nelle cellule midollari dei soggetti con età
superiore ai 70 anni (66, 67). Ciò nonostante è
stato suggerito che possa rappresentare un evento leucemico clonale come evidenziato dalla
scomparsa del clone-Y e ripristino delle cellule
XY durante la remissione da leucemia acuta (68,
69). L’associazione tra la perdita del cromosoma
Y come anomalia cromosomica isolata ed i disor-
11
12
Seminari di Ematologia Oncologica
dini ematologici, quali LAM e SMD, è stato, ed
è tuttora, oggetto di dibattito scientifico a causa
della correlazione di entrambi i disordini con l’età
avanzata. Un ampio studio su 215 pazienti
maschi che mostravano -Y come anomalia isolata ha evidenziato che soltanto il 10% dei pazienti di controllo perdeva il cromosoma Y in più del
75% delle cellule, in contrasto con il 29% dei soggetti affetti da malattia ematologica. In base a
questi dati gli autori hanno suggerito che soltanto cloni -Y di entità superiore al 75% dovrebbero essere considerati marcatori indicativi di
disordine ematologico (66). In linea con queste
osservazioni, in un recente lavoro finalizzato a
valutare il significato dell’entità del clone -Y, è stato confermato che la perdita del cromosoma Y
isolata correla con patologie mieloidi solo quando la dimensione del clone supera il 75% delle
cellule. D’altra parte negli individui in cui è presente una proporzione di cellule -Y compresa tra
il 75 e il 99% si osserva un incremento dell’incidenza di SMD/LAM di circa 4 volte rispetto ai controlli. Ciò ha spostato l’attenzione sulla completa assenza di cellule midollari normali per l’evidenziazione di SMD/LAM (70).
A complicare l’interpretazione del fenomeno, in
pazienti affetti da disordine ematologico, la perdita del cromosoma Y può comportarsi come
lesione genetica secondaria in associazione a
t(8;21) (71) e t(9;22) (72). A questo proposito è
interessante citare un recente studio retrospettivo multicentrico che ha messo a confronto la
risposta all’imatinib di 30 pazienti affetti da leucemia mieloide cronica (LMC) con -Y in aggiunta a t(9;22) con quella di 30 pazienti maschi di
controllo che presentavano LMC e t(9;22) isolata. L’impatto negativo della perdita del cromosoma Y è risultato estremamente marcato quando
questa era presente come sub-clone dimostrando che tale anomalia dovrebbe essere presa in
considerazione nella valutazione prognostica dei
pazienti maschi affetti da LMC (73). In rari pazienti con leucemia acuta promielocitica (LAP) è stata riportata perdita del cromosoma Y come fenomeno clonale non correlato all’età (74), nonché
descritta come unica anomalia cariotipica in un
paziente affetto da LAP con delezione submicroscopica dell’intera porzione al 3’ di uno dei due
alleli del gene RAR (75).
n LA CITOGENETICA
CONVENZIONALE E LA FISH
SONO EQUIVALENTI NELLA
DIAGNOSI DI SINDROME 5Q-?
La delezione del braccio lungo del cromosoma
5 è un’aberrazione cromosomica che può essere associata a diverse condizioni cliniche e molecolari. Quando la del(5q) è isolata, identifica la
sindrome del 5q-, un’entità clinico-ematologica
specifica, mentre quando è presente in cariotipi
complessi si associa a SMD e LAM, de novo o
secondarie a trattamenti chemio- e/o radio-terapici (1).
Quando isolato il 5q- correla con una buona prognosi (sopravvivenza: 80-145 mesi), la presenza di un’anomalia citogenetica addizionale riduce la sopravvivenza media, mentre la presenza
di un 5q- in un cariotipo complesso conferisce
una prognosi severa con elevato rischio di trasformazione leucemica.
Quindi il contesto citogenetico in cui si configura un 5q- è di fondamentale importanza ai fini del
corretto inquadramento clinico-ematologico del
paziente in termini di stratificazione prognostica
e conseguente scelta terapeutica. Pertanto, la diagnosi di 5q- è imprescindibile dal contesto
genomico in cui l’evento molecolare si inserisce.
Malgrado il 5q- sia caratterizzato da una grande variabilità di estensione da paziente a paziente anche nell’ambito della stessa malattia (76),
gli studi in FISH hanno identificato due distinte
regioni di delezione minima comune, che possono essere perse simultaneamente o alternativamente. In particolare nella sindrome del 5q- è tipicamente deleta la banda 5q33 mentre nelle altre
SMD/LAM con 5q- è deleta la banda 5q31.
Mentre la FISH è stata di enorme aiuto nella
caratterizzazione molecolare del 5q-, permettendo di identificare geni critici nell’aploinsufficienza determinata dalla perdita di materiale del 5q-,
il suo contributo nella diagnosi è ancora piuttosto controverso (77-80). Infatti, la FISH con l’utilizzo delle sonde commerciali attualmente disponibili per le bande 5q31 e 5q33-34 ha mostrato
che in presenza di un esame cariotipico adeguato per numero di metafasi la FISH in interfase correla perfettamente con la citogenetica, mentre,
nei casi con crescita cellulare subottimale, la pos-
Diagnostica citogenetica e molecolare
sibilità di studiare anche le cellule non proliferanti fa aumentare la sensibilità per la diagnosi di
5q- (Figura 5).
La delezione del 5q può rappresentare un evento molecolare criptico, cioè al di sotto del limite
di risoluzione del bandeggio convenzionale nel
2-4% dei casi di SMD/LAM a cariotipo normale
(81, 82). Inoltre, l’applicazione della FISH a casi
di SMD/LAM con cariotipo complesso ha rivelato che la perdita di materiale a livello del 5q può
essere un evento male interpretato a causa della complessità delle anomalie citogenetiche
(83). La FISH, invece, non sembrerebbe più sensibile rispetto alla citogenetica convenzionale nel
monitoraggio di malattia in casi di SMD in trattamento con lenalidomide (79).
Malgrado la FISH determini un aumento della
sensibilità diagnostica per il 5q-, sono state riportate FISH falsamente negative in casi con 5q- alla
citogenetica convenzionale (79, 80). Questo dato
è spiegabile dal fatto che il clone 5q- positivo
potrebbe avere un basso indice proliferativo ed
essere scarsamente rappresentato nel compartimento cellulare non proliferante esplorato dalla FISH in interfase.
Alternativamente le sonde utilizzate per l’analisi
potrebbero non essere appropriate per rilevare
la regione 5q specificatamente deleta nel singolo paziente. Infatti, le differenze di estensione del-
FIGURA 5 - FISH su nuclei interfasici con la sonda LSI
CSF1R(5q31)/LSI D5S721-D5S23 (5p15). Il nucleo in alto a sinistra mostra un pattern di ibridazione normale (2 rossi/2 verdi)
mentre gli altri due un pattern compatibile con una delezione del
locus 5q31 (2 verdi/1 rosso).
le regioni delete pongono il quesito sul tipo di test
da utilizzare per non avere o ridurre al minimo il
rischio di falsi negativi. Un solo studio, a tutt’oggi, ha messo a confronto due sonde, la sonda
per il gene EGR1/5q33 e quella per CSF1R/5q31,
al fine di stabilire eventuali differenze nella sensibilità dell’analisi in FISH del 5q- (80). In sintesi la FISH con sonde genomiche specifiche per
il 5q31-33 ha una sensibilità maggiore del cariotipo per la diagnosi di 5q- nei casi in cui l’evento è citogeneticamente criptico o mascherato;
mentre la citogenetica convenzionale fornisce l’informazione sullo stato genomico globale della cellula leucemica. L’uso integrato delle due metodiche nello screening diagnostico delle SMD/AML
garantisce un’adeguata caratterizzazione patogenetica. Nei casi in cui la citogenetica è informativa la FISH non sembra essere indispensabile per la diagnosi e il monitoraggio.
n L’ARS-T È DA CONSIDERARE
UN’ENTITÀ NELL’AMBITO DELLE
SINDROMI MIELODISPLASTICHE
O DEI DISORDINI
MIELOPROLIFERATIVI CRONICI?
Le SMD sono caratterizzate da ematopoiesi
insufficiente e pancitopenia periferica, mentre le
sindromi mieloproliferative croniche (SMC) sono
tipicamente associate ad una produzione in
eccesso di cellule ematopoietiche mature.
Tuttavia è oggi riconosciuta l’esistenza di condizioni che presentano caratteristiche intermedie
tanto che la classificazione dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità (WHO) prevede la categoria di condizioni borderline SMD/SMC. Tra queste, l’anemia refrattaria con sideroblasti ad anello, associata a marcata trombocitosi (ARS-T), è
un disordine clonale della cellula staminale
caratterizzato da displasia eritrocitaria, eritroblasti con accumulo di ferritina a livello dei mitocondri perinucleari (i cosiddetti sideroblasti ad anello), maturazione eritrocitaria difettiva, anemia e
trombocitosi (84-86).
A supporto della componente mieloproliferativa
di questo disordine è stato ampiamente documentato che pazienti che rispettano i criteri di
classificazione WHO per le ARS-T presentano
13
14
Seminari di Ematologia Oncologica
le mutazioni JAK2V617F e MPLW515L con un’incidenza relativa pari a quella riscontrata nelle
trombocitemie essenziali (TE) (87-90). Esiste
effettivamente una stretta relazione tra ARS-T e
TE, inclusa la prognosi.
La peculiarità che distingue queste due entità è
la proporzione dei sideroblasti ad anello (>15%)
che, comunque, non è specifica dato che può
essere riscontrata in altri disordini mieloidi cronici (86). D’altro canto la morfologia midollare,
megacariociti compresi, dell’ARS-T coincide con
quelle dell’anemia refrattaria con sideroblasti ad
anello (ARS) (91).
È stato suggerito che l’ARS-T si sviluppi a partire da una preesistente ARS in seguito all’acquisizione di anomalie genetiche aggiuntive quali
mutazioni di JAK2, MPL o altri geni (84). Più
recentemente sono state riportate in pazienti con
diagnosi di ARS-T mutazioni nei geni TET2 e
ASXL1 in assenza delle mutazioni JAK2V617F
e MPLW515L, indicando che lo stesso fenotipo
clinico possa originarsi in associazione con diverse anomalie molecolari in presenza di un evento comune da definire (92).
È stato anche proposto che l’ARS-T possa derivare dalla coesistenza nello stesso soggetto di
due condizioni: TE e RARS (93, 94). L’incidenza
annuale della ET è di 0.59-2.53 nuovi casi su 100
000 persone mentre le ARS colpiscono 2 persone su 100 000 ogni anno (95, 96). La probabilità che questi due eventi concomitino è stata calcolata nell’ordine di 109, di gran lunga inferiore all’
incidenza della ARS-T (86). In conclusione se
l’ARS-T rappresenti un’entità clinica distinta, una
forma di progressione da ARS o una particolare
forma di TE rimane a tutt’oggi oggetto di dibattito scientifico. Il bagaglio diagnostico di questa rara
entità è relativamente ricco e gode di informazioni che derivano prevalentemente dall’analisi
mutazionale di geni coinvolti sia in SMD che SMC.
n LEUCEMIA LINFATICA CRONICA:
CITOGENETICA, FISH O
ENTRAMBI?
La valutazione delle anomalie genetiche nella leucemia linfatica cronica (LLC) dà ragione dell’eterogeneità clinica ed è fondamentale per l’indivi-
duazione di sottogruppi prognostici nell’indirizzo
delle scelte terapeutiche. La citogenetica convenzionale a fatica, e solo con lo sviluppo di colture cellulari con stimolazione selettiva dei linfociti B, ha consentito di ottenere informazioni in circa il 40% dei casi. Più recentemente, le tecniche
di coltura delle LLC hanno avuto un sensibile
miglioramento in relazione all’utilizzo dell’interleuchina 2 e del CpG-oligonucleotide DSP30, in grado di indurre la progressione del ciclo cellulare
delle cellule leucemiche di LLC in vitro. È possibile così ottenere metafasi analizzabili in oltre il
90% dei casi (97, 98).
Nel più comune screening di FISH (revisione in
bibliografia n.99) vengono esaminate la delezione 13q14, coinvolgente due microRNA (MIRN15A
e MIRN16-1) che svolgono un ruolo post-trascrizionale negativo su BCL-2; la delezione 11q22q23, coinvolgente il gene ATM, a prognosi negativa e sviluppo di linfadenopatia; la delezione
17p13/TP53 che raggiunge il 30% dei casi resistenti a chemioterapia; la trisomia del cromosoma 12 presente in circa il 15-25% dei casi, con
un indice prognostico intermedio. Questo screening, attualmente praticato in molti centri ematologici, è in grado di identificare anomalie genetiche in circa l’80% dei casi e si è rivelato molto
utile nella stratificazione prognostica. Si tratta pertanto di un eccellente approccio di valutazione del
paziente con LLC. La FISH inoltre, in quanto test
mirato ad evidenziare lesioni specifiche e note,
può essere integrata ad hoc. Un esempio molto
importante è l’indagine del riarrangiamento
IgH/BCL1, peculiare dei linfomi mantellari (MCL)
o di un sottogruppo di LLC a fenotipo atipico (100).
Le due malattie in realtà possono avere molte
caratteristiche comuni, sia dal punto di vista
immunofenotipico che morfologico e clinico.
Caratteristica comune è la positività per l’antigene CD5, oltre che per il CD19 e il CD20. Le LLC
sono tipicamente CD23+, FMC7- e mostrano una
bassa espressione delle immunoglobuline di
superficie (sIg), mentre i MCL sono generalmente CD23-, FMC7+ e mostrano una moderata
espressione di sIg. Tuttavia, alcuni studi segnalano la presenza di casi di LLC CD23-/FMC7+/
alta espressione sIg.
Trovare, quindi, caratteristiche genetiche che possano orientare verso una diagnosi differenziale
Diagnostica citogenetica e molecolare
è senz’altro un obiettivo da raggiungere ai fini prognostici e delle scelte terapeutiche (100). Cuneo
et al. (101) hanno mostrato che circa il 21% dei
casi di LLC atipiche (secondo la classificazione
FAB), ma con caratteristiche cliniche sostanzialmente diverse dalla presentazione leucemica di
linfomi MCL presentava un riarrangiamento
IgH/BCL1, frequentemente associato a delezione del cromosoma 13.
Vizcarra et al. (102) hanno descritto un sottogruppo di disordini linfoproliferativi B, con presentazione clinica indistinguibile da una LLC, positivo
per IgH/BCL1 ed associato ad anomalie addizionali. Haferlach (98) ha confermato questo dato
identificando alcuni casi (circa il 3%) di LLC con
immunofenotipo tipico, t(11;14)(q13;q32) ed anomalie addizionali.
Su 28 casi CD5+,con immunofenotipo tipico di
MCL (alta espressione di CD20, CD23-, FMC7+
ed espressione di sIg), l’applicazione di un set
di sonde FISH tipicamente utilizzate nella diagnosi di LLC e della sonda specifica per la
t(11;14)(q13;q32), ha identificato il riarrangiamento IgH/BCL1, compatibile con la diagnosi di MCL,
nel 57% dei casi (16/28) (100). Inoltre 11/16 casi
presentavano anomalie aggiuntive (6 casi con
delezione 13q14, 1 caso con +12, 3 casi del
TP53, 2 casi del 11q22). Il 32% dei casi non ha
mostrato positività per la t(11;14) mentre presentava anomalie citogenetiche comuni nella LLC.
L’insieme di questi dati ha mostrato un sottogruppo di disordini linfoproliferativi B, con immunofenotipo tipico del MCL, ma con caratteristiche
genetiche peculiari della LLC sottolineando l’impor tanza dell’analisi molecolare IgH/BCL1 per la
diagnosi differenziale tra MCL e LLC.
Nel confronto tra il ruolo della citogenetica convenzionale e molecolare, il cariotipo, tecnica grossolana per l’analisi dei geni, ma molto informativa sull’assetto dell’intero genoma cellulare, viene sempre considerato superiore per l’acquisizione di nuove informazioni oltre alla possibilità
di avere una diagnosi genetica in caso di negatività dei test standard di FISH (103).
Ad esempio, in 500 LLC alla diagnosi, la citogenetica convenzionale ha consentito di individuare anomalie addizionali nel 34% di un sottogruppo di pazienti con delezione del 13q a prognosi
favorevole (definita sulla base dei risultati di
FISH), con importanti risvolti sul piano prognostico e terapeutico (98).
Ancora un nuovo riarrangiamento cromosomico
ricorrente alla CC è rappresentato da un
dic(17;18)(p11.2-p11.2), associato a caratteristiche specifiche di malattia (bassa età alla diagnosi, rapida progressione, e maggiore resistenza
al trattamento) simili ma più aggressive rispetto
ai pazienti con perdita di TP53/del(17p) (104).
Ancora, Haferlach et al. (105) hanno proposto un
sistema di valutazione del rischio prognostico
basato su una serie di parametri (età, conta dei
globuli bianchi, stato mutazionale di IgVH, delezioni di ATM e di TP53, traslocazioni coinvolgenti il locus IgH/14q32) in cui anche la valutazione
del numero di anomalie genetiche, valutate con
la citogenetica convenzionale, ha un impatto prognostico rilevante, specialmente nelle fasi precoci di malattia.
Su questa base è prevedibile che il massimo successo di informazione diagnostica e di conoscenza sarà in un futuro prossimo verosimilmente ricoperto in questa patologia, come in altre, dal cariotipo su microarrays che consente una genotipizzazione completa identificando non solo tutto ciò
che è individuabile con la FISH, ma rivelando
anche anomalie complesse e un fenomeno affatto particolare come la uniparental disomy (UPD)
ignorato da altre tecniche (106).
n DIAGNOSI E STRATIFICAZIONE
PROGNOSTICA DEL MIELOMA
MULTIPLO: SOLO FISH, SOLO
CITOGENETICA CONVENZIONALE
O ENTRAMBI?
La sopravvivenza nel mieloma multiplo (MM) è
notevolmente migliorata nell’ultimo decennio
grazie all’ uso di nuovi agenti per il trattamento.
Nonostante questo il decorso della malattia rimane altamente variabile anche in conseguenza delle diverse anomalie genetiche sottostanti (Tabella
2). È fuori discussione che la I-FISH, in una patologia a basso indice mitotico, presenti un vantaggio tecnico molto importante. La FISH consente inoltre di individuare anomalie criptiche alla CC,
come le traslocazioni atipiche associate alla regione 14q32, ed ha maggiore sensibilità in termini
15
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Seminari di Ematologia Oncologica
Eventi genetici primari
Eventi genetici secondari
Cariotipo non iperdiploide
(ipodiploide, pseudodiploide)
Monosomia 13/delezione 13q
(RB1, D13S319, D13S25, 13q14)
Cariotipo iperdiploide
(numerose trisomie, principalmente
+3, +5, +7, +9, +11, +15, +19, +21)
Delezione 17p (TP53, 17p13)
Traslocazioni IgH
t(11;14)(q13;q32) IGH/BCL1
t(4;14)(p16;q32) IGH/FGFR3-IGH/MMSET
t(14;16)(q32;q23) IGH/C-maf
t(6;14)(p21;q32) IGH/CCND3
t(14;20)(q32;q11) IGH/MAFB
Delezione 1p (p18, 1p32.3)
Delezione 12p (CD27, 12p13)
Delezione 6q (6q21)
Amplificazione 1q (traslocazioni sbilanciate, isocromosomi,
traslocazioni “jumping”, amplificazione CKS1B, 1q21)
Traslocazioni C-myc
TABELLA 2 - Principali anomalie citogenetiche e molecolari nel MM suddivise in eventi genetici primari e secondari, questi ultimi
intesi come fattori di progressione della malattia.
di popolazione minima identificabile affetta dall’anomalia. Tuttavia la FISH prevede l’utilizzo di
sonde locus specifiche e quindi in qualche modo
condiziona l’analisi in regioni già note per essere coinvolte; mentre la CC consente uno studio
genomico completo in ogni paziente, permettendo eventualmente di individuare anomalie più rare
o assolutamente nuove.
Studi di high density aCGH hanno mostrato come
virtualmente il 100% di pazienti con MM presenti anomalie cromosomiche (107, 108), in contrasto con i dati in letteratura relativi alla CC che
individua il cariotipo anormale in meno del 30%
dei pazienti. Questo è spiegato dal basso indice mitotico delle plasmacellule maligne nonché
dalla bassa proporzione di plasmacellule totali nel
preparato biologico per citogenetica.
È da notare come casi precedentemente considerati citogeneticamente normali siano dovuti
all’analisi di metafasi di cellule mieloidi normali.
La FISH risolve questo problema consentendo
la ricerca di anomalie cromosomiche specifiche
in pazienti affetti da MM su preparati arricchiti del
tipo cellulare di interesse, nella fattispecie cellule CD 138+ (109). Diversi gruppi hanno affrontato la controversia FISH/CC risolvendola a favore della prima almeno in studi multicentrici, in termini di risparmio di tempo, e di capacità investigativa estesa alle anomalie criptiche (110).
È interessante che, come recentemente mostrato in uno studio su 290 casi di MM (111), il contributo dei componenti di un modello per la stratificazione prognostica che include FISH, CC, e
labelling index delle plasmacellule, veda un alto
grado di correlazione con la prognosi per la FISH
e la CC, ma non per il labelling index. Un ulteriore dato è che in pazienti stratificati come standard risk da uno dei due test, FISH o CC, il
secondo può aggiungere ulteriori informazioni utili per la classificazione prognostica, evidenziando che le due tecniche possono essere utili quando impiegate in modo integrato in percorsi diagnostici personalizzati. La FISH risulta da preferire come primo approccio grazie alla maggiore
rapidità di realizzazione, alla possibilità di applicazione su popolazioni plasmacellulari arricchite, e all’alto grado di risoluzione/sensibilità in termini di danno genetico rilevato. L’integrazione con
la CC potrebbe essere riservata a casi di difficile inquadramento attraverso la sola FISH.
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23
Sindromi
mieloproliferative
croniche
Giovanni Barosi
GIOVANNI BAROSI
Laboratorio di Epidemiologia Clinica-Centro per lo Studio della Mielofibrosi,
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia
n CLASSIFICAZIONE
DIAGNOSTICA
Le sindromi mieloproliferative croniche, definite nella classificazione WHO del 2008 neoplasie mieloproliferative (1), sono disordini clonali della cellula staminale emopoietica caratterizzati dalla proliferazione di una o più linee mieloidi. Nelle neoplasie mieloproliferative cromosoma Philadelphia
(Ph1) negative classiche, cioè policitemia vera
(PV), trombocitemia essenziale (TE) e mielofibrosi primaria (MF), la scoperta di anomalie molecolari ricorrenti, come JAK2V617F e MPL W515L/K,
ha rafforzato la visione di Dameshek del 1951 (2)
secondo la quale queste malattie hanno un comune meccanismo patogenetico e presumibilmente
appartengono ad un unico disordine.
L’attuale sistema di classificazione diagnostica
WHO delle neoplasie mieloproliferative Ph1 negative è stato influenzato da due fattori: la recente
scoperta che le anomalie genetiche sono influenParole chiave: neoplasie mieloproliferative, policitemia
vera, trombocitemia essenziale, mielofibrosi primaria
Indirizzo per la corrispondenza
Dott. Giovanni Barosi
Laboratorio di Epidemiologia Clinica e Centro per lo
Studio della Mielofibrosi
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo
Viale Golgi, 19 - 27100 Pavia
E-mail: [email protected]
ti nella patogenesi; la convinzione che gli aspetti
istologici del midollo osseo si associano in modo
significativo al fenotipo della malattia, quindi possono essere usati come criteri classificatori
(Figure 1-3). Nonostante siano stati ottenuti con
il consenso di un vasto gruppo di esperti internazionali, i criteri diagnostici WHO non hanno ricevuto completo accordo da parte della comunità
scientifica. Alcuni autori sono rimasti fedeli alla
misura della massa eritrocitaria come strumento
obbligatorio per la diagnosi di PV, ed hanno proposto criteri alternativi basati su un processo diagnostico fisiopatologico (Figura 4) (3). Altri hanno
espresso scetticismo circa l’uso di criteri classificatori prevalentemente istologici che portano a
distinguere la TE dalla variante di MF detta mielofibrosi prefibrotica. Questa distinzione, basata sulla morfologia dei megacariociti, descritti nella TE
come ampi e maturi, mentre nella mielofibrosi prefibrotica di dimensioni variabili, con rapporto
nucleo/citoplasmatico aberrante e nuclei ipercromici, bulbosi, o irregolarmente ripiegati e con formazione di clusters densi (Figura 5), non è stata
riconosciuta in uno studio di concordanza diagnostica fra esperti anatomopatologi (4).
È importante inoltre notare che non tutti i pazienti con MF rispettano i criteri istologici WHO basati sulla iperplasia cellulare e megacariocitaria.
Infatti, varianti rare di MF, quale la mielofibrosi a
midollo grasso (Figura 6) (5), contraddicono questo criterio, rivelando la non ottimale sensibilità della definizione WHO.
24
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 1 - Criteri WHO (2008) per la diagnosi di policitemia vera.
FIGURA 2 - Criteri WHO (2008) per la diagnosi di trombocitemia essenziale.
Sindromi mieloproliferative croniche
FIGURA 3 - Criteri WHO (2008) per la diagnosi di mielofibrosi primaria.
Emoglobina o ematocrito elevato
Misura della massa eritrocitaria e del volume
plasmatico
Massa eritrocitaria elevata
Saturazione O2
>93%
<93%
JAK2 V617F
+
Policitemia Vera
Eritrocitosi ipossica
S-Epo
-
Normale o bassa
Policitemia vera
Mutazione dell’esone 12
Apnea notturna
Mutazione dell’Epo-R
Malattia renale (tumore, cisti)
Emoglobina ad alta affinità
FIGURA 4 - Processo diagnostico delle poliglobulie secondo Spivak e Silver (3).
Massa eritrocitaria normale/ volume
plasmatico diminuito
Uso di tabacco
Androgeni
Diuretici
Ipertensione
Feocromocitoma
Elevata
Malattia renale
Tumore
Mutazione VHL
Emoglobina ad alta affinità
25
26
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 5 - Cluster di megacariociti atipici nella mielofibrosi, variante prefibrotica.
FIGURA 6 - Biopsia ossea di mielofibrosi, variante a midollo grasso.
Tuttavia, se i criteri diagnostici WHO possono trovare critiche e possono dimostrarsi poco sensibili per la classificazione diagnostica del singolo
paziente, ampiamente condivisibile è la filosofia
sottostante che vuole che criteri uniformi di diagnosi siano essenziali per la ricerca e in modo particolare per la inclusione dei pazienti negli studi
clinici.
to trasfusionale e il valore piastrinico sono ulteriori fattori prognostici IPSS-indipendenti, suggerendo che ogni paziente con MF debba essere indagato per questi parametri (7-9). Un parametro che
non ha dimostrato di possedere valore prognostico ma che esprime lo stato proliferativo della MF
e l’alterazione del microambiente midollare è la
misura dei progenitori emopoietici circolanti CD34
positivi (10). Esso è usato in alcuni centri come surrogato di severità della malattia, di tendenza alla
progressione e come criterio decisionale per il trapianto allogenico di cellule staminali.
I recenti studi nella PV e TE mostrano una sopravvivenza media vicina o superiore a 20 anni. Questa
informazione rassicurante per il paziente deve
essere comunicata non appena la diagnosi è stabilita. Allo stesso tempo, il paziente deve essere
informato del rischio potenziale che la malattia produce di trasformazione leucemica o di mielofibrosi, e del rischio di eventi trombo-emorragici. I
pazienti con MF devono essere informati della possibilità che la malattia possa incidere sulla qualità di vita per la comparsa di sintomi costituzionali e prurito, e delle probabilità di risposta al trattamento. I pazienti devono essere informati delle
alternative terapeutiche attuali, delle terapie sperimentali e della indicazioni e controindicazioni al
trapianto allogenico di cellule staminali.
I pazienti sono spesso interessati alla componente ereditaria della malattia e devono essere rassicurati che il rischio per i loro figli di acquisire la
stessa malattia è molto basso, anche se un recen-
n APPROCCIO AL PAZIENTE
L’approccio al paziente con nuova diagnosi di neoplasia mieloproliferativa implica l’acquisizione di dati
di laboratorio e clinici che possano essere utilizzati per stabilire la prognosi, avere un colloquio
informato con il paziente e decidere il miglior
approccio terapeutico.
La prognosi di PV e TE è basata su età e storia di
trombosi, che quindi deve essere accuratamente
indagata. Il valore prognostico aggiuntivo dell’analisi mutazionale JAK2 V617F e della leucocitosi è
attualmente in fase di studio. Tuttavia queste informazioni sono necessarie nel processo diagnostico e quindi acquisite in tutti i pazienti alla diagnosi. Nella MF, il più recente score prognostico (IPSS)
(6) usa età, livello di emoglobina, sintomi costituzionali, globuli bianchi e percentuale di blasti circolanti che quindi devono essere accuratamente
misurati su striscio di sangue periferico. Studi recenti hanno documentato che la citogenetica, lo sta-
Sindromi mieloproliferative croniche
te ampio studio epidemiologico ha rilevato che il
rischio di neoplasia mieloproliferativa è di 5-7 volte più elevato fra i parenti di primo grado dei
pazienti rispetto alla popolazione di controllo. A
conferma della suscettibilità genetica è stata recentemente descritta l’associazione tra il rischio di sviluppare neoplasia mieloproliferativa JAK2V617F
positiva e un aplotipo della linea germinativa (46/1
o CCGG) (11-13). Questi risultati tuttavia non indicano la necessità di determinare di routine il genotipo per le mutazioni JAK2V617F o JAK2 46/1
(CCGG) nei parenti di pazienti in assenza di alterazioni ematologiche o cliniche.
n TERAPIA DELLA POLICITEMIA
VERA
Il decorso clinico dei pazienti con PV è caratterizzato da un aumentato tasso di trombosi arteriose e venose, e dalla propensione alla trasformazione della malattia in mielofibrosi e leucemia acuta. Negli studi classici del Polycythemia Vera Study
Group (PVSG) e nel più recente studio ECLAP
(14), l’incidenza di complicanze cardiovascolari è
risultata più elevata nei pazienti di età superiore
ai 60-65 anni o con una storia di trombosi, rispetto ai soggetti più giovani e asintomatici. Altri fattori potenziali di rischio trombotico, tra cui ipertensione, ipercolesterolemia, diabete mellito o presenza di condizioni trombofiliche sono più controversi. Molti studi non hanno dimostrato una chiara
associazione tra elevato numero di piastrine ed
eventi vascolari maggiori, e un’analisi multivariata dei risultati dello studio ECLAP non ha dimo-
Categoria
di rischio
Età maggiore
di 60 anni o
storia di trombosi
Rischio
cardiovascolare
Basso
No
No
Intermedio
No
Si
Alto
Si
TABELLA 1 - Stratificazione del rischio basata sul rischio
trombotico nella policitemia vera e nella trombocitemia
essenziale.
strato alcuna correlazione tra i livelli di ematocrito (fino a 50%) e trombosi.
Queste conoscenze sui fattori prognostici hanno
portato ad una classificazione della PV sulla base
del rischio trombotico che distingue pazienti a
rischio alto, basso e intermedio (Tabella 1). Recenti
evidenze portano a considerare l’ipotesi che la leucocitosi e un elevato carico allelico V617F possano essere usati per meglio definire il gruppo a basso rischio (15-17) Tuttavia, questa definizione molecolare ed ematologica del rischio non è stata ancora validata da studi prospettici e non può essere
utilizzata nella pratica. Obiettivi della terapia della
PV sono: evitare la prima comparsa e/o reiterazione di complicanze trombotiche e sanguinamento;
evitare la trasformazione in leucemia acuta o mielofibrosi post-PV; gestire le complicanze (trombosi ed emorragia, sintomi sistemici) e le situazioni
di rischio (gravidanze, interventi chirurgici).
La strategia terapeutica usata nella maggior parte dei centri ematologici per la PV è rappresentata nella Figura 7. Il primo cardine terapeutico è
Diagnosi di PV
Salassi per matenere ematocrito
<0.45 più aspirina, 100 mg/die
Se: cattiva compliance ai salassi,
o mieloproliferazione progressiva
(splenomegalia, leucocitosi e
trombocitosi) o alto rischio di trombosi
Terapia citoriduttiva: Idrossiurea come
terapia di prima linea ad ogni età
FIGURA 7 - Trattamento della policitemia vera.
27
28
Seminari di Ematologia Oncologica
il salasso. Nello studio PVSG, i pazienti randomizzati al braccio salasso ebbero una più lunga
sopravvivenza mediana (13,9 anni) rispetto al braccio clorambucile (8, 9 anni) o radiofosforo (11,8
anni) (18). Il target di ematocrito è usualmente fissato al 45%, ma va ricordato che questo limite è
stato posto solo sulla base di un piccolo studio
retrospettivo (19).
Il secondo cardine terapeutico della PV è costituito da basse dosi di aspirina (75-100 mg/die).
Nello studio ECLAP (14), 532 pazienti con PV
sono stati randomizzati a ricevere 100 mg di aspirina o placebo. Dopo un follow-up di circa 3 anni,
l’analisi dei dati ha dimostrato riduzione significativa della frequenza dell’end-point primario combinato, cioè morte cardiovascolare, infarto non fatale del miocardio, ictus non fatale e tromboembolismo venoso maggiore. Inoltre, non vi è stato
aumento significativo dell’incidenza di sanguinamento maggiore.
Nei pazienti ad alto rischio di trombosi o in cui è
evidente la mieloproliferazione, è indicato il trattamento citoriduttivo. Il farmaco di scelta è l’idrossiurea (HU). In uno studio di fase II del PVSG in
pazienti precedentemente non trattati (20), HU è
stata in grado di ridurre l’incidenza di trombosi
rispetto ai controlli storici trattati con salasso. HU
può sviluppare più o meno gravi effetti collaterali:
macrocitosi, neutropenia, ulcere cutanee (malleolari) o mucose (orali), rash cutaneo, secchezza della pelle, pigmentazione delle unghie, cistite, febbre
e sintomi gastrointestinali. Inoltre, è stato riportato un lieve aumento del cancro della pelle nei
pazienti trattati con HU e non è possibile escludere una possibile relazione tra la terapia a lungo termine con HU e la trasformazione leucemica, anche
se la maggior parte degli studi non attribuisce ad
HU un accertato rischio leucemogeno.
Considerando che la leucemia acuta è parte della storia naturale delle neoplasie mieloproliferative,
e che la scelta di trattare con citoriduzione seleziona categorie di pazienti con rischio competitivo di
evoluzione leucemica, è difficile immaginare uno
studio controllato disegnato per accertare se la terapia possa aumentare la trasformazione leucemica.
Farmaci alternativi all’HU sono gli interferoni, il
radiofosforo, il busulfano e il pipobromano.
L’interferone (IFN-a2) è stato usato nella terapia
della PV dimostrando fino all’80% di risposte ema-
tologiche, ma è gravato da elevata tossicità (21).
L’interferone pegilato a-2 (Pegasys) è stato dimostrato in studi di fase II (22) possedere efficacia
clinica misurata in termini di normalizzazione della mieloproliferazione, mancanza di eventi vascolari durante la terapia, e diminuzione del carico allelico JAK2V617F. Nel complesso la tollerabilità di
Pegasys è buona, con tasso di sospensione della terapia per tossicità inferiore al 10%.
L’anagrelide può controllare la conta piastrinica, tuttavia, gli effetti collaterali e la potenziale tendenza emorragica in associazione con aspirina controindicano il suo utilizzo nella PV.
Gli esperti dell’European Leukemia Net (ELN) hanno recentemente sviluppato criteri di risposta al
trattamento della PV (Tabella 2) (23). I criteri sono
stati specificamente scelti per la misurazione della risposta negli studi clinici con nuovi agenti terapeutici potenzialmente in grado di ridurre fino ad
abolire il clone maligno. Dal momento che HU non
è stato dimostrata in modo convincente produrre
riduzione del carico di alleli mutati, non ci sono
attualmente indicazioni rigorose per usare la categoria “risposta molecolare” per il monitoraggio di
routine dei pazienti in questo trattamento. Lo stesso vale per “risposta istologica”. Il criterio clinicoematologico è il più adatto per il monitoraggio del-
Grado di risposta
Definizione
Risposta Completa
Ematocrito <45% senza salassi, e
Conteggio delle piastrine ≤400 x109/L, e
Conteggio dei globuli bianchi ≤10 x 109/L, e
Volume della milza normale all’imaging, e
Assenza di sintomi legati alla malattia*
Risposta Parziale
In pazienti che non soddisfano i criteri di risposta completa:
1. Ematocrito <45% in assenza di salassi, o
2. Risposta in 3 o più degli altri criteri
Non Risposta
Qualsiasi risposta che non soddisfi la risposta parziale
*Sintomi correlati alla malattia: disturbi microvascolari, prurito, cefalea.
Tabella 2 - Definizione di risposta clinico-ematologica nella
policitemia vera secondo ELN.
Sindromi mieloproliferative croniche
la risposta alla terapia citoriduttiva convenzionale nel singolo caso, anche se non vi sono prove
che la terapia debba essere modificata sulla base
di questi end-point.
I pazienti possono manifestare resistenza o intolleranza ad una terapia di prima linea con HU.
Secondo l’ELN, la resistenza al HU è definita quando i pazienti con PV non riescono a raggiungere
il controllo desiderato clinico ed ematologico della malattia dopo 3 mesi di almeno 2 g/die di HU
(Tabella 3) (24). L’intolleranza è stata definita dalla presenza di ulcere cutanee, manifestazioni
mucocutanee, sintomi gastrointestinali, polmonite o febbre a qualsiasi dosaggio di HU. Questi ultimi criteri possono essere usati per decidere le
modificazioni della terapia.
Nei pazienti a basso rischio, progressivo aumento dei leucociti e/o della conta piastrinica, ingrandimento della milza, sintomi sistemici non controllati, regime intensivo di salassi mal tollerato, o sviluppo di importanti complicanze trombotiche o
a) Necessità di salassi per mantenere ematocrito inferiore a 45% dopo 3 mesi di almeno 2 g/die di idrossiurea, o
b) Mieloproliferazione non controllata, cioè piastrine
superiori a 400x109/L e globuli bianchi superiori a
10x109/L dopo tre mesi di almeno 2 g die di idrossiurea, o
c) Mancata riduzione di oltre il 50% del volume della
milza*, misurata con la palpazione, o mancata risposta sui sintomi di splenomegalia, dopo tre mesi di
almeno 2 g/die di idrossiurea, o
d) Conta assoluta dei neutrofili inferiore a 1,0x109/L o
conta piastrinica inferiore a 100x109/L o emoglobina inferiore a 10 g/dL alla dose minima di idrossiurea necessaria per raggiungere una risposta clinico-ematologica completa o parziale**, o
e) Presenza di ulcere alle gambe o altra tossicità non
ematologica inaccettabile, come manifestazioni
mucocutanee, sintomi gastrointestinali, polmonite o
febbre a qualsiasi dosaggio di idrossiurea.
*Splenomegalia cospicua, con milza che deborda oltre 10 cm dal margine costale.
**Risposta completa è definita come: ematocrito inferiore al 45% senza
necessità di salasso, conta piastrinica uguale o inferiore a 400 x109/L,
conta leucocitaria pari o inferiore a 10 x 109/L, e nessun sintomo connesso alla malattia. Una risposta parziale è definita come: ematocrito inferiore al 45% senza salasso, o la risposta in tre o più degli altri criteri.
Tabella 3 - Definizione di resistenza/intolleranza ad HU nei
pazienti con policitemia vera.
emorragiche, sono gli elementi che indicano la
necessità di introdurre una terapia mielosoppressiva. Nei pazienti ad alto rischio, la terapia di prima linea deve essere modificata quando vi è documentata intolleranza. Nei casi resistenti, la decisione di modificare la terapia deve essere presa
considerando le caratteristiche del singolo caso.
L’aspirina dovrebbe essere sospesa in caso di sanguinamento maggiore o in rari casi di allergia o
intolleranza al farmaco.
La scelta della terapia di seconda linea deve essere attentamente valutata in quanto alcuni farmaci mielosopressivi somministrati dopo HU possono aumentare il rischio di leucemia acuta. Nello
studio ECLAP, HU da sola non è stata trovata
aumentare il rischio di leucemia rispetto ai pazienti trattati con solo salasso. Tuttavia, il rischio di leucemia fu significativamente aumentato dall’esposizione a radiofosforo, busulfano o pipobromano
(25, 26). Così, IFN-a, farmaco non leucemogeno,
dovrebbe essere considerato in pazienti con età
inferiore a 65-70 anni. Basse dosi di busulfano rappresentano una opzione terapeutica di seconda
linea nei pazienti anziani che realmente necessitano di modificare la terapia iniziale per grave intolleranza o estrema refrattarietà.
n TERAPIA DELLA TROMBOCITEMIA
ESSENZIALE
Diversi studi di coorte prospettici e retrospettivi
hanno identificato l’età superiore a 60 anni e un
precedente evento trombotico come predittori
importanti di complicanze vascolari nella TE. Il ruolo dei fattori di rischio cardiovascolare, come il
fumo, l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il diabete è più controverso. Il conteggio delle piastrine non è un predittore di eventi trombotici, ma
trombocitosi estreme possono essere associate
a malattia di vonWillebrand acquisita e tendenza
al sanguinamento. Leucocitosi e mutazione JAK2
V617F, sono fattori di rischio per la trombosi, ma
il loro ruolo prognostico indipendente deve ancora essere convalidato in studi clinici controllati (27,
28). I fattori prognostici precedentemente elencati permettono di classificare i pazienti con TE in 3
classi di rischio (Tabella 1). In questa classificazione non compaiono le piastrine, che possono
29
30
Seminari di Ematologia Oncologica
essere considerate a rischio di emorragia qualora siano superiori a 1.500.000/mm3.
In studi di coorte di grandi dimensioni, i pazienti
con TE hanno dimostrato sopravvivenza uguale
o leggermente minore di quella di una popolazione di controllo sovrapponibile per età e sesso, ma
l’attesa di vita dei pazienti più giovani è più breve
dopo un lungo periodo di follow-up (>10 anni).
Principali cause di morte sono le complicanze
trombotiche o emorragiche correlate alla malattia
ematologica e la trasformazione in mielofibrosi o
leucemia acuta sia per la storia naturale della
malattia o, possibilmente, per l’uso di agenti chemioterapici. I disturbi microvascolari, come eritromelalgia, sintomi oculari e neurologici transitori,
sono frequenti e rischiano di compromettere la
qualità di vita dei pazienti.
Nella TE l’obiettivo della terapia è di evitare gravi
complicanze trombotiche e sanguinamento, evitare la trasformazione in leucemia acuta o mielofibrosi post-TE, gestire le complicanze (trombosi
ed emorragia, sintomi sistemici) e le situazioni di
rischio (gravidanze, interventi chirurgici).
Il trattamento della TE deve essere adattato in base
al profilo di rischio vascolare (Figura 8). Nei pazienti a basso rischio, uno studio caso-controllo ha
dimostrato che l’incidenza di trombosi è analoga
a quella osservata in un popolazione di controllo
sana a basso rischio cardiovascolare (29). In
pazienti ad alto rischio trombotico, la decisione
terapeutica può essere presa sulla base dell’evidenza fornita da due trial randomizzati e controllati. Il primo ha dimostrato che HU riduce le complicanze trombotiche rispetto a nessun trattamen-
to (30). Nel secondo (PT-1), HU più aspirina ha
ridotto l’end-point composito di trombosi arteriose e venose, sanguinamento maggiore o morte
per cause trombotiche o emorragiche, rispetto ad
anagrelide più aspirina (31).
La pratica corrente e le linee-guida basate sull’evidenza e sul consenso (32, 33) indicano che i
pazienti a basso rischio non debbano ricevere trattamenti citoriduttivi. In questi pazienti aspirina a basse dosi (75-100 mg al giorno) può essere usata
se sono presenti disturbi microvascolari. Al contrario, nei pazienti ad alto rischio è indicato l’uso di
HU in tutti i casi. L’aspirina a basse dosi è indicata se sono presenti disturbi micro vascolari o dopo
un evento trombotico arterioso. L’anticoagulante
orale è invece indicato se vi è stata trombosi venosa. In tutti i pazienti è indicato un attento controllo dei fattori di rischio cardiovascolare.
I criteri di risposta per la TE sono stati definiti da
un panel di esperti dell’ELN (Tabella 4) (23).
Tuttavia è utile considerare che questi criteri sono
misure surrogate di efficacia, ma non obbligatoriamente identificano gli obiettivi del trattamento.
Inoltre, tali criteri sono stati sviluppati per essere
applicati negli studi clinici. Nella pratica clinica, la
risposta alla terapia è giudicata dalla normalizzazione della conta ematica e dalla scomparsa dei
segni e dei sintomi di malattia. La biopsia del midollo osseo non è indicata come valutazione della
risposta finchè non vi siano farmaci in grado di produrre risposte complete frequenti, ma è utile per
valutare la trasformazione in mielofibrosi o leucemia acuta. Il significato clinico della risposta molecolare nella pratica clinica non è ancora stabilito.
FIGURA 8 - Trattamento della trombocitemia essenziale.
Diagnosi di TE
Storia di o presentazione
con trombosi o emorragie
maggiori o età >60 anni
Terapia citoriduttiva:
Idrossiurea come
prima scelta.
Anagrelide o
interferone come
seconda scelta
No sintomi e conta di
piastrine <1500,00/mL
e età <60 anni
No trattamento citoriduttivo.
Riconsidera se complicazioni
Sindromi mieloproliferative croniche
Grado di risposta
Definizione
Risposta completa
1. Conteggio delle piastrine ≤400x109/L, e
2. Non sintomi legati alla malattia* ì, e
3. Volume della milza normale all’imaging, e
4. Conteggio dei globuli bianchi ≤10x109/L
Risposta parziale
In pazienti che non soddisfano i criteri di risposta completa:
Conteggio delle piastrine ≤600x‘109/L o diminuzione
maggior del 50% dal valore basale
Non Risposta
Qualsiasi risposta che non soddisfi la risposta parziale
Comuni
Grave anemia
Anemia trasfusione dipendente
Splenomegalia sintomatica
Progressivo aumento del volume splenico
Fase accelerata o blastica della malattia
Rari
Ematopoiesi extramidollare non epato-splenica
Ipertensione portale
Ipertensione polmonare
Indeterminati
Sovraccarico di ferro trasfusionale
Tabella 5 - Problemi clinici che richiedono terapie mirate nella
mielofibrosi primaria.
*Sintomi correlati alla malattia: disturbi microvascolari, prurito, cefalea.
Tabella 4 - Definizione di risposta clinico-ematologica nella
trombocitemia essenziale secondo ELN.
I pazienti a basso rischio dovrebbero iniziare un
trattamento citoriduttivo con HU appena vi è transizione alla categoria ad alto rischio per senescenza o per il verificarsi di un evento trombotico o
emorragico maggiore. Nei pazienti ad alto rischio,
HU dovrebbe essere sostituita in caso di intolleranza. Nei casi resistenti, la modificazione della
terapia deve essere giudicata in ogni singolo caso.
L’aspirina dovrebbe essere sospesa in caso di sanguinamento maggiore, più frequentemente del tratto gastrointestinale, o in rari casi di allergia o intolleranza al farmaco. Nella terapia di seconda linea,
per grave intolleranza all’HU o resistenza clinicoematologica, dovrebbe essere considerato un farmaco non leucemogeno come anagrelide o interferone nei pazienti di età inferiore ai 70 anni.
Busulfano non è raccomandato nei pazienti giovani a causa del rischio di leucemia e dovrebbe
essere considerato in pazienti anziani (>70 anni).
n TERAPIA DELLA MIELOFIBROSI
PRIMARIA
La MF è malattia con morbilità e mortalità molto
più elevate di PV e TE, ed i pazienti affetti da questa malattia hanno problemi clinici più variegati
(Tabella 5). La mediana di sopravvivenza della
coorte di pazienti più numerosa pubblicata (6) è
di circa 6 anni ed i pazienti ad alto rischio hanno
una durata di sopravvivenza che non supera i 3
anni. È intrinseco alla malattia un aumentato rischio
di trasformazione leucemica, che si avvicina al
20% nei primi 10 anni di malattia. L’anemia severa spesso richiede frequenti trasfusioni di globuli
rossi con modesti incrementi emoglobinici posttrasfusionali per la marcata splenomegalia associata. Alcuni pazienti hanno anche trombocitopenia grave o neutropenia. Epato-splenomegalia marcata spesso si accompagna a senso di sazietà precoce, gravi disturbi addominali, cambiamenti delle abitudini intestinali, dolorosi infarti splenici, ipertensione portale con ascite e varici esofagee e
gastriche, compromessa mobilità e cachessia. Altri
segni o sintomi sono quelli derivati da emopoiesi
extramidollare extraepatica e splenica che può portare alla compressione del midollo spinale, ascite, ipertensione polmonare, versamento pleurico,
linfoadenopatia o tumori della pelle. Sono spesso evidenti sintomi costituzionali tra cui stanchezza, perdita di peso, cachessia, prurito, sudorazione notturna, febbre moderata e dolore alle articolazioni. I medici devono essere consapevoli di tutta la gamma di manifestazioni cliniche della MF,
compresa la durata della vita significativamente
ridotta e la cattiva qualità della vita. Ciascuno dei
problemi sopra elencati deve essere identificato
precocemente e in modo appropriato.
31
32
Seminari di Ematologia Oncologica
L’International Working Group-Myelofibrosis
Research and Treatment (IWG MRT) ha recentemente analizzato oltre 1000 pazienti con MF ed
ha proposto un IPSS che utilizza parametri clinici
facilmente misurabili (Figura 9) (6). I quattro gruppi prognostici risultanti (basso, intermedio-1, intermedio-2 e alto) permettono di classificare i pazienti in categorie con una sopravvivenza mediana che
va da ~2,3 a 11,3 anni. Al fine di stratificare per
rischio i pazienti quando osservati nel corso della
malattia, l’IWG MRT ha anche usato le stesse variabili IPSS per stabilire un modello prognostico dinamico (DIPSS) (34). Inoltre, studi recenti hanno
dimostrato il valore prognostico indipendente da
IPSS dell’informazione citogenetica, dello stato trasfusionale, della necessità di trasfusione nel primo anno dalla diagnosi e della presenza di anomalie citogenetiche quali +9, del13q o del20q (79). Nei pazienti giovani (età <60 anni), una conta
piastrinica <100x109/L predice scarsa sopravvivenza indipendentemente da IPSS. Recenti studi han-
.
FIGURA 9 - Sistema di score prognostico IWG-MRT (IPSS).
no individuato i fattori di rischio aggiuntivi per trombosi (età avanzata, presenza di JAK2V617F) e di
trasformazione leucemica (trombocitopenia, blasti
circolanti >3%) (35).
Non vi è concordanza in merito al valore predittivo sulla sopravvivenza della mutazione
JAK2V617F nella MF. La mutazione è presente in
circa il 60% dei casi di MF e si associa ad età
avanzata, più elevato livello di emoglobina, più elevato numero di globuli bianchi. Un carico allelico
V617F elevato è stato associato al prurito (36).
Nello studio IWG, la presenza di JAK2V617F non
è risultata correlata nè con la sopravvivenza nè
con lo score prognostico (6). Tuttavia uno studio
di grandi dimensioni ha riportato una associazione fra mutazione e ridotta sopravvivenza (37). Altri
studi hanno dimostrato una associazione fra mutazione allo stato omozigote ed evoluzione leucemica (36). In contrasto, differenti serie di casi hanno riportato che il carico allelico ridotto (primo quartile della distribuzione) è associato con ridotta
Sindromi mieloproliferative croniche
sopravvivenza e con evoluzione in crisi blastica
(38, 39).
L’obiettivo principale della terapia della MF è il prolungamento della sopravvivenza dei pazienti. Allo
stato attuale, solo il trapianto allogenico di cellule
staminali (allo-SCT) è la modalità di trattamento in
grado di prolungare la sopravvivenza o guarire la
malattia. Tuttavia l’allo-SCT è associato a un rischio
relativamente elevato di mortalità e morbilità e il
confronto con la terapia convenzionale non è mai
stato fatto in ambiente controllato. Nel valutare il
beneficio di sopravvivenza di allo-SCT, inoltre, si
deve considerare che la sopravvivenza globale dei
pazienti con MF è migliorata negli ultimi 20 anni e
che la sopravvivenza mediana è attualmente stimata al di sopra dei 10 anni (40). Altrettanto importante nella MF è la necessità di un trattamento diretto alla qualità della vita, indipendentemente dal fatto che tale terapia porti a un miglioramento della
sopravvivenza. Le tre principali determinanti della
qualità della vita nella MF sono anemia, splenomegalia e sintomi costituzionali.
Terapia dell’anemia
A causa dei possibili effetti collaterali dei trattamenti, e dell’impatto modesto che l’anemia moderata
ha sulla qualità della vita e le prestazioni fisiche,
si ritiene comunemente che nella MF un trattamento per l’anemia debba essere iniziato quando la
concentrazione emoglobinica è inferiore a 10 g/dL.
Le trasfusioni di globuli rossi sono la pietra angolare della terapia dell’anemia della MF. Tuttavia, la
necessità di frequenti trasfusioni compromette la
qualità di vita dei pazienti ed è associata a progressivo accumulo di ferro corporeo. I farmaci per
il trattamento dell’anemia nella MF comprendono
androgeni, eritropoietine, ed immunomodulatori.
Androgeni. Nandrolone, fluoximesterolone, metandrostenolone, oximetolone, e metenolone acetato possono migliorare l’anemia della MF nel 3060% dei casi secondo serie classiche. Buona
risposta alla terapia con androgeni è stata confermata recentemente da Shimoda et al. (41) che
hanno riportato 39 pazienti anemici trattati con steroidi anabolizzanti, per lo più metenolone acetato. Gli autori hanno definito una buona risposta
come un aumento di emoglobina ≥1,5 g/dL, la cessazione della dipendenza da trasfusione e una
concentrazione di emoglobina >10 g/dL mantenu-
ta per almeno 8 settimane. Risposte favorevoli
sono state ottenute in 17 pazienti (44%). Nessuna
delle variabili pre-trattamento, come ad esempio
mancanza di dipendenza da trasfusione, concentrazioni di emoglobina più elevate, o assenza di
anomalie citogenetiche, sono state associate
con la risposta. Danazolo, un androgeno sintetico attenuato, è stato proposto come sostituto degli
steroidi anabolizzanti. Esso ha il vantaggio di essere anche in grado di correggere la trombocitopenia in alcuni casi, senza produrre effetti virilizzanti. Cervantes et al. (42) hanno riportato 33 pazienti anemici con MF che hanno ricevuto una dose
iniziale di 600 mg/die di danazolo, con una risposta favorevole nel 37%. Variabili associate con la
risposta sono state l’assenza di necessità di trasfusioni e il livello di emoglobina maggiore di 10
g/dL. Danazolo è generalmente ben tollerato. La
tossicità più frequente è costituita da un moderato aumento degli enzimi epatici durante i primi mesi
di trattamento che migliora a seguito di una riduzione della dose. È consigliato di eseguire uno
screening per il cancro della prostata prima di utilizzare la terapia con androgeni nei maschi, cosi
come monitorare gli effetti tossici sul valore delle
transaminasi è una procedura obbligatoria.
– Eritropoietine. Le eritropoietine sono ampiamente usate per il trattamento dell’anemia associata a
MF, anche se i livelli di eritropoietina sierica (s-Epo)
in pazienti con MF sono appropriatamente elevati per il grado di anemia, il che suggerisce che la
somministrazione esogena di eritropoietine potrebbe avere valore limitato (43). L’esperienza con l’uso
di eritropoietina umana ricombinante (rHuEPO) nella MF è stata riportata in una pool analisi da
Cervantes et al. (44), e in altri due studi per un totale di 96 pazienti. I tassi di risposta in questi studi
si collocano in un range dal 16% al 60%. Livelli di
s-Epo <125 U/L, anomalie citogenetiche favorevoli (13q-20q-), assenza di mutazione JAK2V617F
allo stato omozigote, bassi livelli sierici di beta-2microglobulina e lieve o moderata splenomegalia
sono state le variabili associate con risposta favorevole. L’esperienza della Mayo Clinic è stata recentemente riportata da Huang e Tefferi in 43 pazienti trattati con r-Hu-EPO (45). Definendo la risposta
come l’aumento del livello di Hb minimo di 2,0 g/dL
o la trasfusione-indipendenza per un periodo minimo di 1 mese, il tasso di risposta globale è stato
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Seminari di Ematologia Oncologica
del 23%: 0% (0 di 16) tra i pazienti trasfusionedipendenti e 37% (10 su 27) tra i pazienti trasfusione-indipendenti. In quest’ultimo caso, la risposta è stata osservata solo in presenza di livelli di
emoglobina basale <10 g/dL. La risposta non è stata correlata con il livello basale di s-Epo, i risultati citogenetici, o presenza di JAK2V617F (46).
Darbepoetina è una proteina iperglicosilata con una
maggiore attività in vivo e un’emivita più lunga di
rHuEPO, consentendo somministrazioni meno frequenti. Darbepoetina-a è stata usata in 20 pazienti con MF ed emoglobina >10 g/dL alla dose settimanale di 150 mg per via sottocutanea, aumentata a 300 mg in assenza di risposta emoglobinica
(47). Utilizzando i criteri di risposta EUMNET
(Tabella 6) (48), otto pazienti (40%) hanno dimostrato risposta favorevole al trattamento. Il tempo
mediano alla risposta è stato di 2 mesi. All’analisi
univariata, l’età maggiore è stato l’unico fattore associato ad una risposta favorevole. Il trattamento è stato ben tollerato. Un paziente ha fatto osservare un
moderato incremento della splenomegalia.
– Immunomodulatori. Il razionale per la terapia
con agenti immunomodulatori nella MF è basato
sulla loro attività antiangiogenetica e immunosoppressiva e sulla ipotesi che un meccanismo
autoimmune giochi un ruolo nella patogenesi dell’anemia della MF. Più studi hanno esplorato l’uso
1. Risposta completa
Risposta completa di anemia, splenomegalia, sintomi costituzionali, piastrine e leucociti.
2. Risposta maggiore
1. Qualsiasi risposta di anemia e splenomegalia senza progressione dei sintomi costituzionali o
2. Risposta completa di anemia o risposta parziale di anemia trasfusione-dipendente, e risposta dei sintomi costituzionali
senza progressione di splenomegalia, o
3. Qualsiasi risposta di splenomegalia e risposta dei sintomi costituzionali senza progressione di anemia.
3. Risposta moderata
1. Risposta completa di anemia con progressione di splenomegalia, o
2. Risposta parziale di anemia senza progressione di splenomegalia, o
3. Qualsiasi risposta di splenomegalia senza progressione di anemia e sintomi costituzionali.
4. Risposta minore
Qualsiasi risposta dei globuli bianchi o delle piastrine senza progressione di anemia, splenomegalia, o sintomi costituzionali.
5. Nessuna risposta
Ogni risposta che non soddisfi i criteri della risposta minore
(Risposta completa di anemia: emoglobina >12 g/dL per i pazienti trasfusione-indipendenti o >11 g/dL per i pazienti trasfusione-dipendenti. Risposta completa di splenomegalia: milza non palpabile. Risposta completa dei sintomi costituzionali: assenza di sintomi (febbre, sudorazione notturna, perdita di peso >10%. Risposta completa della conta piastrinica: conta piastrinica 150-400x109/L. Risposta completa della conta leucocitaria: numero dei leucociti 4-10x109/L).
Risposta parziale di anemia: aumento del livello di emoglobina >2 g/dL o diminuzione più del 50% della necessità di trasfusioni. Risposta parziale di splenomegalia: riduzione >50% della dimensione basale della milza se basale >10 cm dall’arcata costale o diminuzione >30% se >10 cm dall’arcata costale. Risposta parziale della conta piastrinica: diminuzione >50%
della conta piastrinica se basale> 800x109/L o aumento della conta piastrinica > di 50x109/L se conteggio basale <100x109/L.
Risposta parziale della conta leucocitaria: diminuzione >50% della conta leucocitaria se basale> 20x109/L o aumento >1x109/L
se basale <4x109/L.
Progressione in anemia: calo di emoglobina >2 g/dl o aumento >50% del fabbisogno trasfusionale o trasformarsi in trasfusione dipendenti; Progressione in splenomegalia: aumento >50% in volume della milza, se splenomegalia basale >10 cm
dall’arcata costale o incremento >30% splenomegalia basale >10 cm dall’arcata costale; progressione dei sintomi costituzionali: comparsa di sintomi costituzionali.
Tabella 6 - Criteri della risposta clinico-ematologica della mielofibrosi primaria secondo EUMNET.
Sindromi mieloproliferative croniche
di talidomide per il trattamento dell’anemia nella
MF. La percentuale più elevata di risposta è stata ottenuta da Mesa et al. (49) con talidomide a
basso dosaggio (50 mg al giorno) associata a
prednisone. Con questo regime, il 40% dei
pazienti con necessità di trasfusioni di globuli rossi è divenuto trasfusione indipendente.
Recentemente, la risposta a talidomide è stata analizzata in base ai criteri EUMNET (Tabella 6) in uno
studio clinico che ha arruolato 15 pazienti (50).
Dopo prednisolone ± talidomide a basse dosi, il
40% dei pazienti ha ottenuto risposte maggiori o
moderate. Tutte le risposte sono state osservate
entro le prime 12 settimane di trattamento, suggerendo che talidomide può essere interrotta in caso
di mancata risposta entro tale periodo. La durata
mediana della risposta è stata di 16 settimane. Gli
effetti indesiderati più comuni di talidomide sono
neuropatia periferica, stipsi, sonnolenza.
Tromboembolismo è raramente segnalato in
pazienti con MF, tuttavia è raccomandata la valutazione del rischio trombotico e la tromboprofilassi di pazienti ad alto rischio.
La lenalidomide e pomalidomide sono immunomodulatori di seconda generazione, creati per trasformazione chimica di talidomide con l’intento di
ridurre la tossicità e migliorare le attività antitumorali e immunologiche. Lenalidomide è stata valutata come singolo agente in un totale di 68 pazienti sintomatici con MF (51). Il trattamento con 10
mg/die per 3 o 4 mesi ha dato un tasso di risposta complessivo del 22% per l’anemia e del 50%
per la trombocitopenia. Lenalidomide è efficace nei
pazienti in cui un precedente trattamento con talidomide era fallito. È stata tuttavia evidenziata una
tossicità della lenalidomide come agente singolo
per lo più costituita da mielosoppressione. Ciò ha
indotto a valutare la sicurezza e l’efficacia della
combinazione di lenalidomide e prednisone in
pazienti affetti da MF (52). In uno studio di fase
II, l’MD Anderson Cancer Center ha trattato 40
pazienti con lenalidomide 10 mg/die (5 mg/die se
la conta piastrinica basale era <100 x 109/L) nei
giorni da 1 a 21 di cicli di 28 giorni per sei cicli, in
combinazione con prednisone 30 mg/die per via
orale durante il ciclo 1, 15 mg/die durante il ciclo
1. Remissione completa (CR):
i) Completa risoluzione dei sintomi e segni correlati alla malattia compresa epato-splenomegalia.
ii) Remissione ematologica definita come livello di emoglobina di almeno 11 g/dL, conta piastrinica di almeno 100x109/L,
e conta assoluta dei neutrofili di almeno 1,0x109/L. Inoltre, tutti i valori ematologici non devono essere superiore al limite superiore della norma.
iii) Formula leucocitaria normale con scomparsa di eritroblasti, blasti e cellule mieloidi immature nello striscio periferico, in
assenza di splenectomia.
iv) Remissione istologica alla biopsia ossea definita come presenza di normocellularità aggiustata per età, non più del 5%
di mieloblasti e grado di osteomielofibrosi non superiore a 1.
2. Remissione parziale (PR):
Richiede tutti i criteri di cui sopra per la CR fatta salva la prescrizione di remissione istologica. Tuttavia, la ripetizione della
biopsia del midollo osseo è necessaria per la valutazione di PR
3. Miglioramento clinico (CI):
Richiede uno dei seguenti criteri in assenza di progressione della malattia
i) aumento del livello di emoglobina di almeno 20 g/L o trasfusione indipendenza (applicabile solo ai pazienti con livello
basale di emoglobina inferiore a 100 g/dL).
ii) riduzione minima del 50% della splenomegalia quando la splenomegalia basale è almeno 10 centimetri dall’arcata, o
milza non palpabile quando al basale la milza è palpabile in più di 5 cm dall’arcata.
iii) aumento minimo del 100% della conta piastrinica e conta piastrinica di almeno 50.000x109/L (applicabile solo per i pazienti con conta piastrinica basale inferiore a 50x109/L).
iv) aumento minimo del 100% nella conta assoluta dei neutrofili (ANC) e un ANC di almeno 0,5x109/L (applicabile solo per
i pazienti con ANC basale inferiore a 1x109/L).
Tabella 7 - Criteri di risposta al trattamento nella mielofibrosi secondo IWG-MRT.
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Seminari di Ematologia Oncologica
2, e 15 mg/die a giorni alterni durante il ciclo di
3. Secondo i criteri IWG-MRT, tre pazienti (7,5%)
hanno avuto risposta parziale e nove pazienti
(22,5%) hanno avuto un miglioramento clinico. Il
tasso di risposta globale è stato del 30% per l’anemia e del 42% per la splenomegalia. Tutti gli otto
responders JAK2V617F-positivi hanno sperimentato una riduzione del carico allelico V617F che
è stata superiore al 50% in quattro, in uno dei quali la mutazione è diventata non rilevabile.
Pomalidomide è stata valutata in uno studio di fase
II, randomizzato, multicentrico, in doppio cieco, con
84 pazienti con MF ed anemia (53). Sono stati
valutati quattro bracci di trattamento: pomalidomide (2 mg/die) più placebo, pomalidomide (2 mg/d)
più prednisone, pomalidomide (0,5 mg/die) più
prednisone e prednisone più placebo. Risposta dell’anemia, secondo i criteri IWG (Tabella 7) (54), è
stata documentata in 20 pazienti (20/84), di cui 15
diventati trasfusione indipendenti. Le percentuali
di risposta nei quattro bracci di trattamento per i
pazienti che avevano ricevuto >3 cicli di trattamento (n=62) sono state 38%, 23%, 40%, e 25%,
rispettivamente. La risposta alla pomalidomide con
o senza prednisone si è dimostrata durevole e
significativamente migliore in assenza di leucocitosi. JAK2V617F o lo stato della citogenetica non
hanno avuto influenza sulla risposta. Tossicità di
grado >3 sono state poco frequenti e prevalentemente rappresentate da neutropenia, trombocitopenia e trombosi.
In assenza di evidenze comparative tra le opzioni di trattamento, è difficile produrre raccomandazioni sulle strategie di trattamento dell’anemia
associata a MF. Molti centri preferiscono gli
androgeni, in particolare il danazolo, come prima
opzione terapeutica per la sua sicurezza e basso costo. In caso di mancata risposta sono considerati la talidomide o le eritropoietine, nella consapevolezza che i risultati degli studi suggeriscono che eritropoietina dovrebbe essere evitata nei
pazienti trasfusione-dipendenti. Altri centri raccomandano come terapia di prima linea le eritropoietine in caso l’Epo endogena sia inferiore a 100
mU/mL, in combinazione con androgeni o basse
dosi di talidomide.
– Trattamento del sovraccarico di ferro trasfusionale. Manca attualmente una prova diretta che il
trattamento del sovraccarico di ferro nei pazienti
con MF porti a riduzione della morbilità o mortalità. In uno studio retrospettivo, la dipendenza da
trasfusione nella MF era associata con sopravvivenza inferiore, e la sopravvivenza globale è stata superiore nei pazienti trattati con chelante del
ferro (55). Tuttavia, nello studio la valutazione del
sovraccarico di ferro è stata effettuata secondo criteri clinici e laboratoristici (livelli di ferritina sierica) piuttosto che per imaging o biopsia. Così, è
difficile essere certi a posteriori che i singoli decessi fossero legati alla tossicità da ferro. In uno studio su 185 pazienti con MF alla diagnosi presso
la Mayo Clinic, il 12% dei casi dimostrava ferritina sierica >1.000 ng/ mL e il 17% dei pazienti erano trasfusione-dipendenti (56). Durante un followup mediano di 28 mesi, il 22% dei pazienti ha fatto osservare un picco dei livelli sierici di ferritina
superiore a 1000 ng/ml. In analisi multivariata, il
fabbisogno trasfusionale al momento della diagnosi, ma non un aumento di ferritina sierica o il carico trasfusionale globale, sono stati associati a ridotta sopravvivenza. Questo risultato è stato interpretato in base all’ipotesi che la presenza di un grave difetto eritropoietico e non il sovraccarico di ferro abbia un valore prognostico negativo.
Sono diverse le opzioni attualmente disponibili per
la terapia chelante, ad esempio desferioxamina per
via sottocutanea, deferasirox e deferiprone per via
orale. Con l’adozione di un principio di precauzione, i medici usano talvolta i chelanti del ferro per
via orale, per lo più deferasirox, in pazienti che raggiungono alti livelli di ferritina sierica dopo 10-20
unità di sangue e che hanno una lunga aspettativa di vita. L’appropriatezza di tale terapia deve
essere valutata prospetticamente.
In segnalazioni aneddotiche nei pazienti con MF,
la terapia chelante del ferro ha provocato miglioramento del livello di emoglobina e riduzione della trasfusione-dipendenza. Questi risultati aprono
nuove prospettive per quanto riguarda il beneficio della terapia chelante del ferro non solo per
ridurre il sovraccarico di ferro trasfusionale dei
pazienti con MF ma anche per aumentare i livelli di emoglobina (57, 58).
Terapia della splenomegalia
– La terapia medica è la prima opzione terapeutica per la splenomegalia sintomatica nei pazienti con MF. Il farmaco di scelta è l’HU (dose inizia-
Sindromi mieloproliferative croniche
le 500 mg due volte al giorno), che è anche utilizzato per il controllo della trombocitosi sintomatica e/o della leucocitosi.
La risposta all’HU è stata analizzata recentemente in base ai criteri IWG-MRT da Shiran et al. (59)
in una coorte di 69 pazienti con MF, il 68% dei quali trattati per splenomegalia sintomatica. Con una
dose mediana giornaliera di 1 g (range da 250 mg
a 3 g) la risposta è stata documentata in 19 (28%)
pazienti: 16 hanno avuto un miglioramento clinico e 3 risposta parziale. Il tasso di risposta è stato del 48% nei pazienti JAK2V617F positivi
rispetto a solo l’8% nei casi negativi. Il fenomeno
della sensibilità all’HU dei pazienti portatori della
mutazione JAK2V617F è stato interpretato come
riflesso della mieloproliferazione quantitativamente e qualitativamente diversa nei pazienti mutati.
L’uso di agenti alchilanti orali come melfalan e
busulfano come trattamento iniziale della splenomegalia nella MF è stato limitato dal loro maggior
rischio di trasformazione blastica e dal profilo di
tossicità sfavorevole. Nel 2002, Petti et al. (60) hanno valutato l’uso di melfalan a basse dosi in 99
pazienti con MF, ottenendo un tasso di risposta
del 66,7%, con il 54% dei pazienti che raggiunse
una risposta sulla splenomegalia. Le dosi usate
sono state 2,5 mg tre volte alla settimana, con progressivo aumento fino ad un massimo di 2,5 mg
al giorno. Tuttavia, trasformazione blastica è stata riportata nel 26% della coorte di studio. Sulla
base di questi risultati, Chee et al. nel 2006 (61),
hanno comunicato la loro esperienza con la somministrazione di melfalan ad un gruppo di 8 pazienti con MF alla dose di 2 mg al giorno tre volte la
settimana, aumentando il dosaggio a un massimo di 2 mg al giorno cinque volte a settimana nei
non-responder o in pazienti che avevano avuto una
recidiva. Con una durata di follow-up mediano di
21,5 mesi, il tasso di risposta globale è stato del
75%. In termini di effetti sulla splenomegalia, nei
sette pazienti valutabili, la risposta è stata osservata in quattro (57,1%).
Gli interferoni (IFN) posseggono una vasta gamma di attività biologiche, molte delle quali forniscono un razionale per l’uso nella MF. L’IFN-a inibisce la proliferazione in vitro di progenitori emopoietici, in particolare dei progenitori megacariocitari. Inoltre, IFN-a è in grado di reprimere direttamente la megacariocitopoiesi inibendo il segnale del
recettore della trombopoietina (MPL). Infine, IFNa antagonizza il fattore di crescita derivato dalle
piastrine (PDGF) e inibisce la crescita dei fibroblasti derivati dal midollo. Molti studi clinici sono
stati condotti nella MF utilizzando varie forme commerciali di IFN-a. Riassumendo gli studi con più
di 10 pazienti, i risultati sono deludenti (62). Nel
30% dei casi, vi è stata diminuzione del volume
della milza, mentre quasi nella stessa percentuale di pazienti il volume della milza è aumentato.
È importante sottolineare che la tossicità da IFN
in questi studi è stata molto elevata, portando ad
una rapida interruzione del trattamento in più del
50% dei pazienti.
L’aggiunta di un polietilenglicole (PEG) alla molecola di interferone ne aumenta l’emivita plasmatica con minore tossicità e maggiore stabilità e
solubilità, senza influenzarne l’attività terapeutica.
Questi cambiamenti si traducono in un miglioramento per i pazienti, soprattutto a causa di intervalli più lunghi tra le somministrazioni (settimanali invece che ogni 24-48 h). L’uso di interferone
pegilato (PEG-IFN) nella MF è stato segnalato in
due studi con risultati molto diversi tra loro. Nello
studio di Jabbour et al. (63) con PEG-IFN- 2b, solo
un paziente su 11 ha ottenuto una risposta completa. Al contrario, in uno studio retrospettivo multicentrico con 18 pazienti trattati con Peg-INF- 2
in sette centri francesi, tutti i pazienti tranne due
hanno ottenuto o remissione completa o risposta
maggiore in base ai criteri EUMNET, e solo due
pazienti hanno interrotto il trattamento a causa della perdita di efficacia. Tuttavia, una risposta sulla
splenomegalia è stata osservata solo in 2 dei 18
pazienti (11%) (64).
Risposte clinicamente rilevanti sulla splenomegalia della MF sono state recentemente ottenute e
riportate (solo in forma di abstract) con l’impiego
di inibitori di JAK2. Esse aprono numerosi interrogativi sulla patogenesi della splenomegalia nella MF e sulla posizione che questi farmaci avranno nella strategia terapeutica della malattia.
– La radioterapia splenica è una possibilità terapeutica per il trattamento della sindrome da splemegalia sintomatica della MF. La dose efficace
totale di un ciclo di trattamento è di 2,5-6,5 Gy, che
può essere somministrata in frazioni da 0,15 a 1Gy
quotidianamente o con un programma di frazionamento intermittente (cioè due o tre volte alla set-
37
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Seminari di Ematologia Oncologica
timana). In generale, l’esperienza dalla letteratura è simile a quello che è stato recentemente riportato in una serie di 23 pazienti della Mayo Clinic
(65). Questi pazienti hanno ricevuto una mediana di 277 cGy (range 30-1.365) in 7,5 frazioni (range 2-17). La risposta iniziale è stata del 93,9% in
termini di riduzione delle dimensioni della milza,
con una durata di risposta mediana di 6 mesi.
Tuttavia, il trattamento è stato associato a mielosoppressione nel 43,5% dei pazienti, fatale nel
13%. Nove pazienti (39,1%) sono stati successivamente splenectomizzati e 5 hanno subito complicanze peri-operatorie compresa emorragia
addominale. Alcuni pazienti sono stati trattati con
successo con cicli di trattamento ripetuti.
– Splenectomia. Di principio, tutti i pazienti con
splenomegalia sintomatica che sono stati trattati
con terapia citoriduttiva senza miglioramento sono
candidati alla splenectomia. Tuttavia, la decisione
di eseguire la splenectomia è il risultato di una
attenta valutazione dei benefici e dei rischi di mortalità e morbilità. Un gran numero di serie di casi
hanno riportato i risultati della splenectomia nella
MF. La raccolta di 314 casi della Mayo Clinic in 3
decenni di esperienza fornisce le percentuali più
rappresentative degli esiti (66). La metà dei
pazienti sono stati arruolati alla splenectomia per
splenomegalia sintomatica dopo un tempo mediano dalla diagnosi di 26 mesi. Anemia trasfusionedipendente, ipertensione portale e grave trombocitopenia refrattaria sono state le altre indicazioni
per la splenectomia. Complicanze peri-operatorie
si sono verificate nel 27,7% dei pazienti, comprendente sanguinamento (14%), trombosi (9,9%) e
infezioni (9,9%). La maggior parte dei sanguinamenti post-operatori si è verificato dalla ferita addominale, mentre la grande maggioranza dei fatti
trombotici si è verificato nella vena porta (67,8%).
Nella serie della Mayo Clinic, la mortalità chirurgica è stata del 6,7%. Causa delle morti chirurgiche furono: infezioni (2,6%), emorragie (2,2%),
trombosi (0,6%) o altre complicanze (1,6%). La
mortalità chirurgica è diminuita nel corso dei
decenni, in modo che nell’ultimo decennio è stata del 5,5%. Dei sopravvissuti, l’81% ha avuto un
beneficio palliativo per l’indicazione primaria, cioè
splenomegalia sintomatica, il 50% per l’indicazione di anemia, e il 40,4% per l’indicazione di ipertensione portale. Dei pazienti sottoposti a splenec-
tomia per trombocitopenia refrattaria, il 77% ha
avuto un beneficio durevole. Il tasso di trombocitosi post-splenectomia è stato del 21%, l’epatomegalia accelerata dell’8% e la trasformazione leucemica dell’11%. Questi esiti non si sono modificati nei tre decenni durante i quali è stata effettuata la procedura. L’epatomegalia sintomatica
dopo splenectomia necessita di alte dosi di
agenti citoriduttivi. I risultati dell’uso dell’analogo
purinico, 2-clorodeossiadenosina (2-CdA), sono
stati riportati dalla Mayo Clinic (67). Il farmaco è
stato usato con successo con uno dei due schemi comunemente impiegati per tale agente (da 4
a 6 cicli mensili di terapia con 0.1 mg/kg/die per
via endovenosa mediante infusione continua per
7 giorni, o 5 mg/m 2 per via endovenosa nell’arco
di 2 ore per 5 giorni consecutivi). In un recente
aggiornamento della esperienza della Mayo,
risposte sono state osservate nel 55% dei pazienti per l’epatomegalia. Le risposte sono state spesso durevoli per una mediana di 6 mesi dopo l’interruzione del trattamento.
L’epatomegalia refrattaria post-splenectomia può
essere eccezionalmente trattata con radioterapia
frazionata sul fegato, al fine di ottenere il controllo dei sintomi (68, 69). Dopo 2 Gy frazionati somministrati ad un campo di trattamento che comprende quasi tutto il fegato, i sintomi possono
migliorare e le dimensioni del fegato possono diminuire senza gravi effetti collaterali.
È stato segnalato un tasso inaspettatamente alto
di trasformazione blastica dopo splenectomia, con
un rischio relativo nei pazienti splenectomizzati che
aumenta da 2,2 a 48 mesi a 14,3 a 12 anni dalla diagnosi (70). La crisi blastica post-splenectomia è stata riportata essere indipendente da fattori connessi con l’assegnazione del paziente alla
rimozione della milza, e quindi interpretata come
effetto diretto della rimozione della milza. Tuttavia,
la recente evidenza che i pazienti con mutazione
JAK2V617F allo stato omozigote hanno maggiore propensione a sviluppare splenomegalia di grandi dimensioni, essere candidati alla splenectomia
e contemporaneamente a evolvere verso la trasformazione blastica (36) potrebbe consentire di
interpretare l’alta incidenza di trasformazione
blastica dopo splenectomia come risultato della
storia naturale della malattia nei pazienti con alta
carica allelica V617F.
Sindromi mieloproliferative croniche
L’evidenza dei risultati e delle complicanze della
splenectomia suggerisce che l’intervento deve
essere considerato principalmente in pazienti con
sintomi significativi, con alta necessità di trasfusioni eritrocitarie, e ipertensione portale sintomatica.
Tuttavia, l’associazione di splenomegalia con citopenie che peggiorano la malattia e impediscono
adeguata terapia citoriduttiva, rafforza l’indicazione alla splenectomia (Tabella 8). La splenectomia
prima del trapianto allogenico di cellule staminali
è stata documentata essere in grado di accelerare l’attecchimento del trapianto, ma senza un significativo miglioramento della sopravvivenza. Dati i
rischi chirurgici, l’intervento non è raccomandato
di routine prima del trapianto.
Tenuto conto dei pericoli potenziali della splenectomia, il procedimento dovrebbe essere considerato solo per i pazienti che, accanto a precise indicazioni ematologiche, soddisfano i criteri per essere candidati adeguati all’intervento chirurgico. I
rischi di incorrere in trombosi post-operatoria o
emorragia dovrebbero essere accuratamente
valutati. Coagulopatia manifesta o occulta e storia di precedente trombosi portale sono i fattori di
rischio principali per episodi trombotici de novo o
ricorrenza di trombosi dopo splenectomia.
Terapia dei sintomi costituzionali
I sintomi costituzionali si associano spesso a marcata splenomegalia, ma non sempre rispondono
al trattamento della splenomegalia. Il dogma corrente implica una aberrante produzione di citochine come causa dei sintomi costituzionali e della
cachessia associati a MF. Pertanto, è prevedibile
l’efficacia degli steroidi e della terapia anti-citochine. Questa affermazione è supportata dai risultati riportati in modo non sistematico della terapia
con steroidi e dall’uso sperimentale di agenti antiTNF e di inibitori JAK2.
Trapianto di cellule staminali
L’allo-SCT è attualmente l’unico approccio terapeutico potenzialmente curativo nella MF. La maggior
parte dei pazienti che sopravvivono all’allo-SCT
raggiunge una remissione ematologica, istologica e molecolare completa. Tuttavia, l’allo-SCT nella MF è complicato da mortalità e morbilità correlate al trattamento relativamente elevate. Diverse
piccole serie hanno riportato la sopravvivenza lib-
Maggiori
1. Splenomegalia sintomatica e refrattaria con anemia
severa trasfusione-dipendente
2. Splenomegalia sintomatica e refrattaria senza citopenie che interferisce fortemente con la qualità di
vita
3. Splenomegalia sintomatica con trombocitopenia o
neutropenia quando la citopenia è un ostacolo al trattamento della splenomegalia
Minori
4. Anemia refrattaria trasfusione dipendente con splenomegalia non significativa
5. Trombocitopenia refrattaria severa, a rischio di
emorragie
6. Ipertensione portale
Incerta
7. Splenomegalia severa prima del trapianto allogenico di cellule staminali
Tabella 8 - Indicazioni alla splenectomia nella mielofibrosi
primaria.
era da malattia a lungo termine: la casistica più
numerosa è quella di 289 pazienti sottoposti ad
allo-SCT tra il 1989 e il 2002 dal Centro
Internazionale di Ricerca per il Trapianto di
Midollo Osseo (CIBMTR) (71). L’età mediana dei
pazienti era di 47 anni (range: 18-73 anni). I donatori erano fratelli HLA identici per 162 pazienti,
donatori non famigliari per 101 e membri della
famiglia HLA non identici per 26 pazienti. I pazienti erano stati trattati con una varietà di regimi di
condizionamento e regimi di profilassi per la malattia da trapianto contro l’ospite (GVHD). La
splenectomia era stata eseguita in 65 pazienti prima del trapianto. La mortalità da trapianto a 100
giorni è stata del 18% per i trapianti da fratelli HLA
identici, del 35% per i trapianti non famigliari, e del
19% per i trapianti da donatori famigliari alternativi. La sopravvivenza globale a 5 anni è stata del
37%, 30% e 40% rispettivamente. La sopravvivenza libera da malattia è stata del 33%, 27% e 22%,
rispettivamente. La sopravvivenza libera da malattia a 3 anni nei pazienti che avevano ricevuto
trapianto con regime di condizionamento ad
intensità ridotta è stata simile: del 39% per i trapianti da donatori HLA identici e del 17% per i donatori non consanguinei. In questa grande serie retro-
39
40
Seminari di Ematologia Oncologica
spettiva, l’allo-SCT è risultato quindi produrre una
sopravvivenza libera da recidiva a lungo termine
in circa un terzo dei pazienti. Questi risultati non
sono diversi da quelli riportati in altre casistiche
europee ed italiane (72, 73). In generale, viene
considerato candidato al trapianto il paziente con
MF la cui sopravvivenza mediana stimata sia inferiore a 5 anni. Ciò include pazienti con rischio IPSS
alto (sopravvivenza mediana ~27 mesi) o intermedio-2 (sopravvivenza mediana ~48 mesi), nonché
quelli con fabbisogno trasfusionale elevato (sopravvivenza mediana ~20 mesi) o anomalie citogenetiche sfavorevoli (mediana sopravvivenza ~40
mesi). Secondo uno score prognostico specifico,
è possibile individuare fattori prognostici che predicono elevata mortalità trapiantologica e recidiva, tra cui l’elevato carico trasfusionale (più di 20
trasfusioni), una marcata splenomegalia (più di 20
cm), e l’uso di un donatore non HLA identico (74).
n IL TRATTAMENTO DELLA
TRASFORMAZIONE LEUCEMICA
La trasformazione in leucemia acuta è l’evento terminale della MF e delle neoplasie mieloproliferative, con sopravvivenza molto breve (in media
meno di 6 mesi) e limitate opzioni terapeutiche.
Al momento, non vi sono evidenze che suggeriscano che la fase blastica della neoplasia mieloproliferativa debba essere trattata in modo diverso da qualsiasi leucemia acuta mieloide, quindi
chemioterapia di induzione seguita da consolidamento con allo-SCT. Tuttavia, Mesa et al. (75) hanno riportato l’esperienza più vasta di trattamento
di MF in trasformazione leucemica, documentando che la sola terapia di supporto o una chemioterapia di induzione a dosi ridotte non hanno avuto esiti diversi da quelli della chemioterapia di induzione aggressiva. Un sottogruppo di pazienti (41%
di quelli trattati con chemioterapia di induzione) è
tornata a una fase cronica della MF.
n LA GRAVIDANZA NELLE NEOPLASIE
MIELOPROLIFERATIVE
La gravidanza è un problema clinico frequente in
donne con TE, meno in quelle con PV o MF. La
presenza di una neoplasia mieloproliferativa
aumenta il rischio di aborti spontanei e di altre
complicazioni gravidiche, come abruptio placentae, pre-eclampsia e ritardo della crescita intrauterina. La perdita fetale nelle donne con TE è di
circa 3-4 volte superiore rispetto alla popolazione
generale. I fattori di rischio includono complicanze delle gravidanze precedenti ed, eventualmente, presenza della mutazione JAK2 V617F (76).
Trombosi venosa può verificarsi, in particolare nel
periodo post-partum, e il rischio è maggiore nelle pazienti con una storia di eventi vascolari. Le
opzioni di trattamento comprendono nessuna terapia, la sola aspirina, eparina a basso peso molecolare e interferone-alfa, ma le evidenze su cui
basarsi per fornire raccomandazioni terapeutiche
sono limitate (77, 78).
La profilassi delle complicanze gravidiche nelle neoplasie mieloproliferative è modulata sulla base della stratificazione del rischio prima dell’inizio della
gravidanza. Almeno uno dei fattori seguenti è
necessario per definire la gravidanza ad alto rischio:
precedente complicanza trombotica o emorragica
maggiore, gravi complicanze della gravidanza precedente (perdita del prodotto del concepimento,
peso alla nascita <5° centile, pre-eclampsia, morte intrauterina o nato morto). Nella gravidanza a
basso rischio delle pazienti con PV l’obiettivo è di
mantenere l’ematocrito al di sotto del 45%. È indicata l’aspirina 100 mg/die ed eparina a basso peso
molecolare (LMWH) alla dose di 4.000 U/die per
sei settimane dopo il parto. Nella gravidanza ad alto
rischio, oltre a quanto indicato nella gravidanza a
basso rischio, vi è indicazione a LMWH per tutta
la durata della gravidanza. In caso di conta piastrinica >1500x109/L deve essere considerato l’uso di
IFN-a.
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43
45
Mieloma multiplo
STEFANIA OLIVA, ANTONIO PALUMBO, MARIO BOCCADORO
Divisione di Ematologia dell’Università di Torino,
Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista, Torino, Italy
Stefania Oliva
n INTRODUZIONE
n CRITERI DIAGNOSTICI
Il mieloma multiplo (MM) è una discrasia plasmacellulare maligna che rappresenta l’1% di tutti i
tumori e il 10% delle neoplasie ematologiche. Nel
mondo l’incidenza varia da 0,4 a 5 casi per
100.000 abitanti, con una maggiore frequenza nei
soggetti maschi residenti in paesi sviluppati, e tra
gli afro-americani. L’incidenza aumenta notevolmente con l’età, con un’età media alla diagnosi
di 66 anni (tassi di incidenza corretti in base all’età:
2,1 e 30,1 nei pazienti di età inferiore e superiore a 65 anni, rispettivamente) (1, 2). Come conseguenza dell’allungamento della vita media della popolazione normale si prevede un aumento
progressivo dei pazienti geriatrici e un conseguente possibile incremento dei casi di MM, essendo
comunque sempre prevalentemente una patologia dell’anziano. L’eziologia è sconosciuta, non
sono stati individuati finora fattori di rischio legati
allo stile di vita, al tipo di lavoro o ai rischi ambientali. Come possibili fattori di rischio sono stati ipotizzati una predisposizione genetica, l’esposizione a radiazioni ionizzanti o a sostanze chimiche,
il fumo di tabacco, l’obesità e l’assunzione di alcool. Nessuno di questi fattori è stata però finora correlato in maniera significativa alla patogenesi del
MM (2).
Negli stadi iniziali difficilmente si riscontrano sintomi di rilievo e il MM in fase ancora asintomatica può essere diagnosticato in maniera casuale,
durante un esame del sangue di routine nel quale si riscontrano alterazioni del quadro proteico.
I criteri diagnostici delle discrasie plasmacellulari più comuni (gammopatia monoclonale di significato incerto-MGUS, MM smoldering, sintomatico e plasmocitoma) sono stati recentemente
aggiornati, e verranno brevemente riassunti nel
paragrafo seguente; la tabella 1 sintetizza invece i criteri diagnostici di altre patologie meno
comuni.
Parole chiave: mieloma multiplo, talidomide, bortezomib, lenalidomide
Indirizzo per la corrispondenza
Antonio Palumbo, MD
Divisione di Ematologia dell’Università di Torino
Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista
Via Genova 3, 10126 - Torino, Italy
E-mail: [email protected]
Gammopatia monoclonale di significato
incerto (MGUS)
La MGUS è la più comune discrasia plasmacellulare, interessa il 3% circa della popolazione con
più di 50 anni e la sua incidenza aumenta con l’aumentare dell’età.
È caratterizzata dalla proliferazione di un singolo
clone di plasmacellule secernenti una proteina
monoclonale (M). Ciascuna proteina M è costituita da una catena polipeptidica pesante (g per le IgG,
a per le IgA, µ per le IgM, d per le IgD e e per le
IgE) e da una singola catena leggera (k o l). È una
condizione asintomatica caratterizzata da:
- proteina monoclonale <3 g/dl;
- plasmacellule (PCs) monoclonali nel midollo
osseo <10%;
- assenza di danno d’organo attribuibile all’azione delle plasmacellule (3).
La MGUS è associata ad un rischio di progressione a MM di circa l’1% annuo. Il suo riscontro
è per lo più accidentale, in seguito all’esecuzione
dell’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) o
46
Seminari di Ematologia Oncologica
Patologia
Definizione di malattia
Leucemia plasmacellulare
Plasmacellule nel sangue periferico >2.0x109/L; >20% nella formula leucocitaria del sangue periferico
Primitiva: si presenta già in fase leucemica;
Secondaria: trasformazione leucemica di un pregresso MM.
Amiloidosi AL sistemica
Presenza in vari tessuti di amiloide derivata dalla porzione variabile delle catene leggere
monoclonali, come risultato di un disturbo proliferativo clonale plasmacellulare; inoltre, evidenza di una sindrome sistemica correlata all’amiloide (renale, epatica, cardiaca, gastrointestinale) o di un coinvolgimento di un nervo periferico.
Macroglobulinemia di
Waldenstrom
Sindrome POEMS
Gammopatia monoclonale IgM con >10% di infiltrato linfoplasmacitico midollare costituito
da piccoli linfociti che mostrano una differenziazione plasmacitoide o plasmacellulare e un
immunofenotipo tipico che escluda altri disturbi linfoproliferativi.
Presenza di un disturbo monoclonale plasmacellulare, neuropatia periferica e almeno uno
dei seguenti 7 criteri: mieloma osteosclerotico, malattia di Castleman, organomegalia, endocrinopatia (escludendo il diabete mellito e l’ipotiroidismo), edema, alterazioni tipiche dermatologiche e il papilledema.
MM: mieloma multiplo; POEMS: polineuropatia, organomegalia, endocrinopatia, gammapatia monoclonale, alterazioni dermatologiche.
Tabella 1 - Patologie delle plasmacellule.
urinarie (UPEP) per un controllo di routine. Nei
pazienti con MGUS vi è unanime consenso ad
astenersi da effettuare alcuna terapia, mantenendo solo un’attenta osservazione. I soggetti possono essere stratificati in base al rischio (basandosi sull’entità del picco monoclonale o sul tipo di
componente monoclonale) per decidere la frequenza dei controlli di follow-up: nei pazienti considerati a basso rischio è indicata una visita 6 mesi
dopo la diagnosi e poi ogni 2 anni fino alla eventuale progressione; negli altri soggetti la prima visita di controllo è indicata dopo 6 mesi dalla diagnosi e poi ogni anno (4).
Smoldering MM (SMM)
Rappresenta circa il 15% dei MM di nuove diagnosi. È una condizione asintomatica che può
essere diagnosticata accidentalmente ed è caratterizzata da:
- proteina monoclonale >3 g/dl;
- infiltrato plasmacellulare monoclonale a livello
midollare >10%;
- assenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione delle PCs.
Il SMM è associato ad un maggior rischio di trasformazione in MM o patologie correlate rispetto
alla MGUS (dal 10% al 20% per anno); pertanto
i pazienti devono essere monitorati più strettamente (ogni 3 mesi circa), nonostante non vengano
trattati finché non vi sia franca progressione in MM
sintomatico. Come per la MGUS, l’entità e il tipo
di proteina monoclonale sono correlati con il rischio
di progressione (3, 5).
MM sintomatico
A differenza di altre patologie neoplastiche, la terapia del MM va iniziata solo quando vi è evidenza
di danno d’organo. Il MM sintomatico è definito dalla presenza di:
- componente monoclonale nel siero o nelle urine (nei pazienti con componente monoclonale
non riscontrabile è indicata la ricerca delle catene leggere libere);
- infiltrazione di PCs a livello midollare maggiore
del 10% e/o diagnosi istologica di plasmocitoma;
- evidenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare (criteri CRAB) (6):
C: ipercalcemia (calcio >10.5 mg/L).
R: insufficienza renale (creatinina >2 mg/dL).
A: anemia (emoglobina <10 g/dl).
B: malattia ossea (lesioni litiche o osteopenia).
Mieloma multiplo
Plasmocitoma
Il plasmocitoma solitario è una manifestazione rara
ed è caratterizzata da:
- lesione solitaria ossea o a livello dei tessuti molli
(nella maggior parte dei casi localizzata nel tratto
respiratorio superiore anche se è possibile il coinvolgimento in qualsiasi organo) con evidenza alla
biopsia di plasmacellule (PCs) monoclonali;
- aspirato midollare non conforme alla diagnosi di
MM;
- normale aspetto radiologico e di RMN della
colonna e della pelvi;
- assenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare.
Il trattamento standard è rappresentato da radioterapia sulla massa. I pazienti sono a rischio di progressione a MM soprattutto in caso di presenza
concomitante di proteina monoclonale persistente dopo la terapia radiante. Generalmente la progressione avviene entro 3 anni (se avviene), ma
i pazienti devono comunque essere monitorati
indefinitamente (3).
n STADIAZIONE E PROGNOSI
In tutti i pazienti con diagnosi di MM devono essere eseguiti alcuni esami per permettere una corretta ed uniforme stadiazione e per seguire l’andamento della malattia. Fra questi vi sono l’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) e urinarie
(UPEP) sul campione di urine delle 24 ore e l’immunofissazione che permette di determinare la
classe della proteina monoclonale e di individuare minime quantità di proteine monoclonali non rilevabili con l’elettroforesi. Per completare il quadro
è necessario quantificare la proteina monoclonale utilizzando l’analisi al nefelometro. La misurazione delle catene leggere sieriche è stata introdotta nella pratica clinica per quantificare le catene k
e l non costituenti una immunoglobulina intatta e
permettere di monitorare i pazienti affetti da MM
oligo/non secernente, MM a catene leggere e l’amiloidosi primaria. Inoltre il dosaggio delle catene leggere al momento della diagnosi rappresenta un fattore prognostico.
La diagnosi di MM si basa anche sulla dimostrazione di un infiltrato di plasmacellule (PCs) monoclonali a livello del midollo osseo, pertanto è neces-
sario eseguire aspirato midollare e biopsia ossea.
Per valutare la presenza di un danno d’organo
occorre eseguire un emocromo completo, alcuni
esami ematochimici come la creatininemia e la calcemia e l’RX sistemica ossea. La risonanza
magnetica nucleare (RMN) è più sensibile dell’RX
nell’evidenziare lesioni ossee, tuttavia al momento attuale la RMN viene considerata un esame di
secondo livello, da eseguire solo se il paziente
accusa dolore osseo senza segni di alterato
segnale all’RX oppure nel sospetto di compressione delle radici nervose. La tomografia computerizzata (TC) e la RMN sono indicate nel sospetto di plasmocitoma. Gli ulteriori esami da eseguire al momento della diagnosi sono rappresentati
dai marcatori prognostici: b2-microglobulina, albumina, LDH e le analisi di citogenetica e FISH sull’aspirato midollare.
L’impiego di parametri laboratoristico-strumentali
direttamente influenzati dall’entità dell’infiltrato
tumorale ha consentito a Durie e Salmon di proporre circa 20 anni fa un sistema di stadiazione
cui ancora si fa riferimento per confrontare i risultati dei protocolli terapeutici (7) (Tabella 2).
Sebbene dal punto di vista istologico vi sia una
certa omogeneità, l’andamento clinico del MM è
abbastanza eterogeneo: alcuni pazienti hanno una
malattia che si presenta da subito estremamente aggressiva, con una sopravvivenza di pochi
mesi nonostante le terapie, mentre altri pazienti
possono vivere per più di 10 anni riuscendo a controllare la malattia per lunghi periodi. Questo aspetto ha spinto i ricercatori a valutare marcatori prognostici che potessero predire la sopravvivenza
e di conseguenza stratificare i pazienti al momento della diagnosi in gruppi con differente prognosi. Occorre ricordare che tali fattori sono stati individuati prima dell’avvento dei nuovi farmaci e appare quindi chiaro come siano necessari nuovi studi per confermarne la validità o identificare altri
markers più adatti alle nuove terapie.
I fattori prognostici universalmente accettati sono:
- l’International Staging System (ISS): è un modello di stratificazione molto semplice, potente e riproducibile che permette di classificare i pazienti in
tre classi in base ai valori di b2-microglobulina e
albumina alla diagnosi. Come rappresentato in
tabella 3, a seconda dei valori di questi due parametri ciascun paziente viene classificato in uno
47
48
Seminari di Ematologia Oncologica
Stadio clinico
Parametri
N. di cellule
Stadio I
Tutti i seguenti:
Hb >10 g/dl
Calcemia normale
Struttura ossea normale o lesione litica solitaria
Bassa produzione di componente M
IgG <5 g/dl
IgA <3 g/dl
BJ <4 g/24 h
<0.5x1012/m2
Stadio II
Nessuno dei criteri dello stadio I e III
0.5-1.2x1012/m2
Stadio III
Uno o più dei seguenti:
Hb <10 g/dl
Calcemia >12 mg %
Lesioni litiche multiple
Elevata produzione di componente M
IgG >7 g /dl
IgA >5 g/dl
BJ >12 g/24 h
>1.2x1012/m2
A o B (A: funzionalità renale normale, creatinina <2 mg/dl, azotemia <30 mg% ; B:funzionalità renale alterata).
Tabella 2 - Classificazione del MM secondo Durie e Salmon (7).
dei seguenti stadi: stadio I con una sopravvivenza media di 62 mesi, stadio II con una sopravvivenza media di 44 mesi e stadio III con una
sopravvivenza media di 29 mesi (8). Oltre ad essere di facile esecuzione, questa classificazione tiene in considerazione due diverse caratteristiche
del tumore: la b2-microglobulina sierica riflette la
massa tumorale e la funzionalità renale, mentre
i valori di albumina sono correlati agli effetti dell’interleuchina-6 prodotta dal microambiente
midollare osseo a livello del fegato;
- le anomalie cromosomiche hanno dimostrato di
avere un impatto sulla sopravvivenza dei pazienti con MM. Una prognosi peggiore è stata osservata nei pazienti con presenza di una traslocazione coinvolgente i geni della catena pesante
delle immunoglobuline t(4; 14), t(14;16), t(14;20)
con delezione del 17p13 o delezione del 13. Al
contrario, una prognosi migliore è stata osservata in presenza di t(11;14), t(6;14) o di iperdiploidia (9-11).
Risultati preliminari sembrano mostrare come i nuovi farmaci quali il bortezomib e la lenalidomide possano superare la cattiva prognosi legata alla delezione del 13 e alla traslocazione t(4:14). In particolar modo il bortezomib sembra essere più attivo della lenalidomide in presenza di delezione del
17p13. La ricaduta negativa di queste alterazioni
cromosomiche sull’andamento clinico non sembra
essere modificata dalla chemioterapia intensiva con
autotrapianto (12). Le indagini di Gene Expression
Profiling, hanno migliorato la stratificazione dei
pazienti e la stadiazione prognostica ma non sono
ancora da considerare esami di routine (13, 14).
Stadio
Criteri
Mediana di Sopravvivenza (mesi)
I
II
III
b2-microglobulina <3.5 mg/L albumina ≥3.5 mg/L
Pazienti in stadio non I e non III (*)
b2-microglobulina ≥5.5 mg/L
62
44
29
*due categorie: b2microglobulina <3.5 mg/L ma albumina <3.5 mg/L; b2microglobulina 3.5-5.5 mg/L indipendentemente dal valore di albumina.
Tabella 3 - International Staging System (ISS) (8).
Mieloma multiplo
Altri parametri che si associano a una prognosi peggiore sono costituiti da un indice di proliferazione
delle PCs maggiore del 3%, il riscontro di cellule
con morfologia plasmoblastica, gli alti livelli di LDH
e un alterato rapporto delle catene leggere (15).
Alla luce di quanto esposto, è fortemente raccomandato che in tutti i pazienti con una nuova diagnosi di MM siano ricercate le traslocazioni
t(4;14) e t(14;16), la delezione del 17p13, e che
sia effettuata la misurazione della b2-microglobulina e dell’albumina (16).
n TERAPIA: CRITERI GENERALI
Un concetto cardine nella scelta della terapia nei
pazienti con discrasie plasmacellulari è l’evidenza che iniziare un trattamento chemioterapico in
pazienti con MM asintomatico non determina un
aumento della sopravvivenza rispetto ad iniziare
un trattamento al momento della comparsa dei sintomi o del danno d’organo. Questo concetto è stato ampiamente dimostrato in passato quando il
trattamento standard era la chemioterapia con melfalan-prednisone (MP) o vincristina-adriamicinadesametasone (VAD). Sono attualmente in corso
studi clinici per determinare se l’utilizzo dei nuovi farmaci (talidomide, bortezomib e lenalidomide)
in fase precoce possa ritardare la progressione del
SMM a MM.
I pazienti con MM sintomatico devono essere invece trattati immediatamente e lo schema terapeutico deve essere scelto in base alle caratteristiche
del paziente (es. età e presenza di comorbidità)
e alle evidenze disponibili. Occorre ricordare che
i trattamenti chemioterapici considerati standard
of care devono essere supportati da un evidenza
scientifica che dimostri un aumento della sopravvivenza libera da eventi (PFS) in almeno un trial
randomizzato. Gli studi non controllati di fase II
sono importanti in quanto dimostrano l’efficacia di
nuove molecole, ma prima di poter essere considerati terapie standard è necessario un trial clinico randomizzato che ne confermi i risultati su
un’ampia casistica.
I pazienti con meno di 65 anni e senza comorbilità rilevanti nell’anamnesi sono candidati ad una
chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali autologhe. Studi randomizzati hanno
infatti mostrato come vi sia una maggiore percentuale di risposte e una più lunga sopravvivenza nei
pazienti trattati con chemioterapia ad alte dosi
rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia convenzionale (17). Nonostante in molti Paesi europei il cut-off di età per considerare un paziente
eleggibile al trapianto sia 65 anni, l’età biologica
Criteri di valutazione
CR
Immunofissazione negativa, scomparsa dell’eventuale plasmocitoma, ≤5% di PCs a livello midollare
sCR
Ai criteri delle CR vanno aggiunti: rapporto catene leggere nella norma, assenza di PCs clonali a livello midollare (in immunoistochimica e immunofluorescenza)
VGPR
Proteina monoclonale riscontrabile all’immunofissazione ma non all’elettroforesi oppure riduzione della proteina monoclonale sierica >90% e livelli di proteina monoclonale urinaria inferiori a 100 mg/24 ore
PR
≥50% di riduzione della proteina monoclonale sierica e riduzioni delle proteine monoclonali urinarie ≥90% o <200
mg/24 ore oppure, qualora i livelli di proteina monoclonale nel siero e nelle urine non siano misurabili, riduzione ≥50% nella differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte oppure qualora non siano misurabili né la proteina monoclonale né le catene leggere libere nel siero, una riduzione ≥50% dell’infiltrato plasmacellulare. In presenza di plasmocitoma è necessaria una riduzione ≥50% del tessuto del plasmocitoma.
SD
Non soddisfa i criteri per CR, VGPR, PR, PD
PD
Aumento di ≥25% dei seguenti parametri: componente monoclonale sierica o urinaria, differenza tra i livelli di
catene leggere coinvolte e non coinvolte, percentuale delle plasmacellule midollari. Sviluppo di nuove lesioni
ossee o peggioramento di quelle presenti oppure plasmocitoma, ipercalcemia.
CR: complete response; sCR: stringent CR; VGPR: very good partial response; PR: partial response; SD: stable disease; PD: progressive disease.
Tabella 4 - Criteri di risposta alla terapia elaborati dall’International Myeloma Working Group (IMWG).
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Seminari di Ematologia Oncologica
e quella cronologica non sempre sono equivalenti: pertanto l’eleggibilità dovrebbe essere valutata
soprattutto sulla base dell’età biologica. Gli altri fattori, oltre l’età, che si devono prendere in considerazione sono il performance status e le comorbilità: funzionalità cardiaca (elettrocardiogramma
ed ecocardiogramma normali, New York Heart
Association [NYHA] di classe I/II), funzione polmonare normale (Rx torace, spirometria e capacità
di diffusione normale), funzionalità epatica e renale normale.
I pazienti non candidabili a trapianto dovrebbero
essere trattati con chemioterapia standard in associazione ai nuovi farmaci il cui impiego è stato correlato con un significativo aumento della PFS e
della sopravvivenza globale (OS), nonché con un
miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
Numerosi studi sono stati condotti negli ultimi anni
e altri sono tutt’ora in corso per valutare l’efficacia di nuove associazioni chemioterapiche che
comprendono uno o più nuovi farmaci. La risposta alla terapia deve essere espressa utilizzando
i criteri di risposta elaborati dall’International
Myeloma Working Group indicati in tabella 4.
Le tabelle 5 e 6 riassumono i regimi di chemioterapia attualmente utilizzati rispettivamente nei
pazienti giovani e nei pazienti anziani o non candidabili al trapianto e le risposte ottenute nei diversi studi clinici.
n TERAPIA DI PRIMA LINEA
NEI PAZIENTI GIOVANI
Induzione
La terapia ad alte dosi seguita da supporto di cellule staminali emopoietiche è ancora considerata
il trattamento standard secondo i risultati di numerosi studi clinici randomizzati i quali hanno dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza
rispetto alla chemioterapia convenzionale (18). Negli
anni ’90, il regime VAD era lo standard. Il tasso di
risposte parziali (PR) al VAD varia fra il 55% e il
60% e solo in un numero limitato di pazienti (fra il
3% e il 13%) sono state ottenute remissioni complete (CR) (19), è stato poi dimostrato come la risposta dopo induzione al VAD non abbia alcuna conseguenza sui risultati ottenuti dopo il trapianto.
Recentemente i nuovi farmaci sono stati incorpo-
rati negli schemi di induzione pre-trapianto allo scopo di migliorare le risposte, in particolare il numero di CR. L’aumento del numero di remissioni complete pre-trapianto potrebbe infatti tradursi in un
aumento di risposte anche post-trapianto. Di seguito vengono illustrati alcuni studi che hanno incorporato i nuovi farmaci nei regimi di induzione.
– Talidomide: usata negli anni ’60 come sedativo
ipnotico, più recentemente è stata impiegata nella terapia di alcune patologie neoplastiche, in particolare il MM. L’uso di talidomide come terapia di
induzione è stato indagato inizialmente in combinazione con il solo desametasone (TD): tale regime si è stato dimostrato superiore allo standard
VAD e all’uso del desametasone da solo in termini di Partial Remission (PR rate) (risposte superiori alla PR), ma non di CR, comprese in un range del 4%-10% (20, 21) (Tabella 5). Uno studio
recente ha dimostrato l’efficacia del TD incorporato nello schema doppio autotrapianto in termini di
un maggior numero di CR, VGPR, un allungamento del tempo alla progressione (TTP), e un prolungamento del PFS rispetto a coloro i quali avevano effettuato un regime di induzione secondo schema VAD seguito da doppio autotrapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe. (ASCT) (22).
Il gruppo di studio olandese e belga (Stichting
Hemato-Oncologie voor Volwassenen Nederland
[HOVON]) ha invece confrontato 2 bracci diversi
di induzione, il primo con talidomide-doxorubicina- desametasone (TAD), il secondo con VAD
seguiti entrambi da alte dosi di melfalan. I pazienti venivano poi ulteriormente randomizzati a ricevere mantenimento con interferone-a (braccio A)
o talidomide (braccio B). La talidomide ha permesso di ottenere un significativo incremento di PR
rate rispetto al braccio VAD sia prima che dopo il
trapianto riportando le seguenti risposte: ≥PR: 84%
vs 76% (p=0.02), ≥VGPR: 54% vs 44% (p=0.03),
EFS mediana: 34 mesi vs 22 mesi (P<0.001), OS
mediano: 73 mesi vs 60 mesi (p=0.77) (23, 24).
Il Medical Research Council (MRC) Myeloma IX
trial, ha confrontato invece l’associazione di ciclofosfamide, talidomide e desametasone (CTD)
come schema di induzione, con ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina, e desametasone (CVAD).
Con il regime CTD sono state riportate percentuali significativamente maggiori di PR pre trapianto
(87%) e post trapianto (88%) e CR/nCR pre (19%)
Mieloma multiplo
Induzione
Regimi e dosi
Risposte
Sopravvivenza
Ref.
VAD
VCR: 0,4 mg giorni 1-4
Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4
Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 per 3/4 cicli da 4 sett.
CR: 2%
≥VGPR: 15-24%
≥PR: 54-71%
PFS: 90% a 12 mesi
OS: 95% a 12 mesi
23, 27
TD
Thal: 200 mg/die
Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20; o 40 mg/die per 4
giorni ogni settimana per i primi 2 mesi, poi una volta
al mese per 2 mesi per 3/4 cicli da 3/4 settimane
CR: 4-10%
≥VGPR: 30-43%
≥PR: 63-76%
PFS/TTP: 61% 4 anni
OS: 69% a 5 anni
20-22
TAD
Thal: 200-400 mg nei giorni 1-28
Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4
Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 per 3 cicli da 4 sett.
CR: 4%
≥VGPR: 33%
OS: NA
TTP:22,6 mesi
>PR: 77%
23, 24
VD
Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11
Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12 cicli 1-2; giorni 1-4 cicli 3-4
per 4 cicli da 4 settimane
CR:15%
≥VGPR: 39%
≥PR: 82%
PFS: 69% at 2 anni
OS: 90% at 2 anni
27
VTD
≥VGPR: 62%
Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11
Thal: 200 mg giorni 1-63
≥PR: 94%
Dex: 40 mg giorni 1-2, 4-5, 8-9, 11-12 per 3 cicli da 3 sett.
PFS: 90% a 2 anni
OS: 96% a 2 anni
29
PAD
Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11
Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4
Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20
CR: 7%
≥VGPR: 45%
≥PR: 79%
PFS/ OS: NA
32
RD/Rd
Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12,
17-20 ogni 28 giorni
Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1, 8, 15,
22 ogni 28 giorni
≥VGPR: 50%
vs 40%
≥PR: 79%vs 68%
PFS: 19.1 vs 25.3 mesi
OS: 75% vs 87% a 2 anni
35
EFS: 31-42 mesi
(tempo mediano)
OS: 47 -61 mesi
(tempo mediano)
18,
39-42
Singolo-EFS: 23-25 mesi
Doppio-EFS:30-35 mesi
Singolo-OS:46-48 mesi
Doppio-OS:43-58 mesi
43, 44
CR: 40-55%
EFS: 21-39 mesi (mediano)
OS: 41-65 mesi (mediano)
55-59
≥VGPR: 62-67%
EFS: 42%-52% a 3 anni, 56%
a 5 anni
OS: 67%,86%,87% a 5, 3 e 4 anni
45-47
Consolidamento
Trapianto
autologo
Mel: 200 mg/m2 + cellule staminali autologhe
Singolo ASCT Mel: 200 mg/m2 + cellule staminali autologhe
vs doppio
ASCT
ASCT seguito Mel: 200 mg/m2 + cellule staminali autologhe + cellule
da trapianto
stamianali da fratello HLA-identico
allogenico a
ridotta intensità
Mantenimento
T-pam/TP/T-IFN Thal: 100-400 mg /die
Pam: pamidronato 90 mg ev ogni 4 settimane
P: prednisolone: 50 mg a giorni alterni
IFN: interferone 3 MU/m2 3/settimana
VAD: Vincristina-Doxorubicina-Desametasone; VCR: Vincristina; Dox: Doxorubicina; Dex: Desametasone; CR: complete response; VGPR: very good partial response; PR: partial response;
PFS: progression free survival; OS: overall survival; TD: Talidomide-Desametasone; Thal: Talidomide; NA: not available; TTP: time to progression; TAD: Talidomide-DoxorubicinaDesametasone; VD: Bortezomib-Desametasone; Bor: Bortezomib; VTD: Bortezomib-Talidomide-Desametasone; PAD: Bortezomib-Doxorubicina-Desametasone;; PLD: Pegilated Lyposomal
Doxorubicin; RD: Lenalidomidea alte dosi di Dexamethasone; Len: Lenalidomide; Rd: Lenalidomide-basse dosi diDexamethasone; Mel: Melphalan; EFS: event free survival; T: Thalidomide;
TP: Thalidomide-Prednisolone; T-pam:thalidomide-pamidronato;T-IFN: thalidomide-interferone
Tabella 5 - Schemi terapeutici di induzione, regimi di consolidamento/mantenimento e risultati attesi nei pazienti giovani.
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Seminari di Ematologia Oncologica
e post-trapianto (51%) rispetto al gruppo CVAD (PR
rate:75%-76%; CR/nCR: 9%-40% rispettivamente pre e post trapianto; p=0.008) (25, 26).
Dall’analisi di tutti questi studi la combinazione TD
appare subottimale, ma l’aggiunta di un altro far-
maco chemioterapico, come la ciclofosfamide o
l’antraciclina, sembra migliorare i risultati ottenuti.
– Bortezomib: è un nuovo farmaco antitumorale largamente utilizzato in numerosi schemi di induzio-
Induzione Regimi e dosi
Risposte
Sopravvivenza
Ref.
MP
Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-7; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 12 cicli
da 6 settimane o
Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 9 cicli
da 28 o 42 giorni
CR: 1-2%
≥PR: 41-50%
PFS/TTP: 45%-48% a 24 mesi
OS: 63-70% a 24 mesi
62, 63
MPT
Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4; Thal: 100-400
mg/die per 12 cicli da 6 settimane
O Mel: 4 mg/m2 giorni 1-7; Pdn: 40 mg/m2 giorni 1-7 per sei cicli
da 4 settimane; Thal: 100 mg/die fino a ricaduta o PD
O Mel: Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 1 mg/kg gioeni 1-5;
Thal: 200 mg/die per 8 cicli da 4 settimane seguiti da Tal:50 mg/die
fino a PD
CR: 2-16%
≥PR: 42-76%
PFS/TTP: 50% a 14-28 mesi
OS: 50% at 28-52 mesi
64-69
TD
Thal: 200 mg/die
Dex: 40 mg giorni 1-4, 15-18 per 9 cicli da 28 giorni
CR: 2%
≥PR: 68&
PFS/TTP: 41% a 24 mesi
OS: 61% a 24 mesi
63
VMP
Mel: 9 mg/m2 giorni 1-4
CR: 22-30%
Pdn: 60 mg/m2 giorni 1-4
≥PR: 71-82%
Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11, 22, 25, 29, 32 per i primi 4 cicli
da 6 settimane; giorni 1, 8, 15, 22 per i successivi 5 cicli
da 6 settimane o Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11, 22, 25, 29, 32
per il primo ciclo 6 settimane; giorni1,8,15, 22 per i successivi 5 cicli
da 6 settimane o
PFS/TTP: 50%-72% t 24 mesi
OS:72%-87% a 36 mesi
12, 71, 72
VTP
T: 100 mg/die
P: 60 mg/m2 giorni 1-4
V: 1.3 mg/m2 2 volte/sett ( 1, 4, 8, 11; 22, 25, 29 e 32) per un ciclo
da 6 settimane, seguite da 1/sett (d 1, 8, 15 e 22) per 5 cicli
da 5 settimane
CR: 27%
≥PR: 79%
PFS/TTP:61% a 24 mesi
OS.84% a 24 mesi
72
CTD
C: 500 mg giorni 1, 8, 15
T: 100-200 mg/die
D: 40 mg giorni 1-4, 12-15 in un ciclo da 3 settimane
CR: 23%
≥PR: 82%
PFS/TTP:ND
OS: ND
25, 26
VMPT
M: 9 mg/m2 giorni 1-4,P: 60 mg/m2 giorni 1-4,V: 1.3 mg/m2 giorni
1, 8, 15, 22
T: 50 mg giorni 1-42 per 9 cicli da 5 settimane seguiti da Bor:
1.3 mg/m2 ogni 15 giorni e T: 50 mg/die come mantenimento
CR: 38%
≥PR: 89%
PFS/TTP:60% a 36 mesi
OS:88% a 36 mesi
74
MPR
Mel: 0,18-0,25 mg/kg giorni 1-4, Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 9 cicli
da 4 settimane
Len: 5-10 mg/ die giorni1-21 fino a ricaduta o PD
CR:18%
≥PR: 45%
PFS/TTP: 55% a 24 mesi
OS: 92% a 12 mesi
78, 79
Rd
R: 25 mg/die giorni 1-21, d: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 in un ciclo
da 4 settimane
CR:ND
≥PR: 70%
PFS/TTP: ND
OS: 87% a 24 mesi
35
MP: Melphalan-Prednisone; Mel: Melphalan; Pdn: Prednisone; CR: complete response; VGPR: very good partial response; PR: partial response; PFS: progression free survival; OS: overall
survival; EFS: event free survival; TTP: time to progression; MPT: Melphalan-Prednisone-Talidomide; Thal: Thalidomide; VMP: Bortezomib-Melphalan-Prednisone; Bor: Bortezomib; MPR: MelphalanPrednisone-Lenalidomide; Len: Lenalidomide.
Tabella 6 - Attuali regimi terapeutici e risultati nei pazienti anziani o nei giovani non eleggibili al trapianto autologo.
Mieloma multiplo
ne che agisce inibendo un complesso multi-catalitico intracellulare chiamato proteasoma responsabile della degradazione dei prodotti cellulari.
Il gruppo francese di studio del mieloma
(Intergroupe Francophone du Myélome [IFM]), ha
valutato la combinazione bortezomib-desametasone (VD) in uno studio randomizzato il cui braccio
di controllo prevedeva l’utilizzo di VAD, e ha ottenuto risultati significativamente superiori con il VD
sia per quanto riguarda le risposte post-induzione
e post-trapianto sia la PFS a due anni (Tabella 5)
(27). Attualmente sono in corso numerosi studi in
cui il bortezomib è integrato in schemi a tre farmaci: l’Italian Myeloma Network (Gruppo Italiano
Malattie Ematologiche dell’Adulto [GIMEMA] si
occupa del confronto delle combinazioni bortezomib-talidomide-desametasone (VTD) e TD somministrati prima e dopo il doppio autotrapianto: gli ultimi risultati indicano una superiorità in termini di
CR+nCR, CR+VGPR e di PFS nei pazienti trattati con VTD rispetto al TD (28) (Tabella 5).
Uno studio di fase III condotto dal gruppo di studio spagnolo sul mieloma (Programa Para El
Estudio y la Terapèutica de las Hemopatìas
Malignas y Grupo Espanol de Mieloma [PETHEMA/GEM]) ha confrontato le risposte ottenute dopo
induzione con VTD con quelle ottenute dopo TD
o VBMCP/VBAD (vincristina, carmustina, melfalan, ciclofosfamide; prednisone/vincristina, carmustina, doxorubicina e desametasone) seguiti da
due cicli di bortezomib, ed ha così dimostrato un
maggior numero di CR post-induzione nel gruppo VTD (31%) rispetto a VBCP/VBAD (22%) e TD
(6%) (P<0.01) (29).
Lo schema VTD è stato valutato anche nell’ambito della Total Therapy 3 (TT3) dal gruppo americano dell’Arkansas. In questo studio il VTD è stato associato come terapia di induzione a un regime polichemioterapico in infusione continua
(cisplatino, doxorubicina, ciclofosfamide e etoposide-PACE). Nel post trapianto i pazienti ricevevano successivo mantenimento con VTD o bortezomib, lenalidomide e desametasone (VRD). I risultati ottenuti sono incoraggianti: con un follow-up
mediano di 39 mesi l’EFS a 4 mesi era del 71%
e l’OS a 4 anni del 78% (30).
Lo studio di fase III del gruppo HOVON e dei
German-Speaking Myeloma Multicenter Group
(GMMG), paragona l’induzione con bortezomib,
doxorubicina e desametasone (PAD) con lo standard VAD, con successivo mantenimento post trapianto con talidomide per i pazienti del braccio VAD
e bortezomib per i pazienti del braccio PAD (31).
Un’analisi preliminare ha evidenziato risposte
migliori in termini di ≥VGPR e di ≥PR con il regime PAD rispetto al VAD.
Infine è in corso uno studio di fase II/III del gruppo tedesco del mieloma (Deutsche Studiengruppe
Multiples Myelom [DSMM]) che sta analizzando
l’associazione bortezomib-ciclofosfamide-desametasone (VCD) come terapia di induzione. Risultati
preliminari ottenuti in 200 pazienti (PR rate: 84%,
CR:12.5%, mortalità correlata alla terapia:1%)
hanno confermato l’efficacia di tale schema terapeutico già dimostrata in precedenti trial in
pazienti ricaduti/refrattari e alla diagnosi (32-34).
– Lenalidomide: è un analogo della talidomide. I
risultati sembrano indicare che sia più efficace e
con un diverso profilo di tossicità (minore tossicità ematologica cumulativa e non neuropatia periferica) rispetto alla molecola capostipite.
Un esteso studio di fase III del gruppo Eastern
Cooperative Oncology (ECOG) ha confrontato la
lenalidomide in combinazione con due diverse dosi
di desametasone nei pazienti alla diagnosi. Il primo braccio della randomizzazione prevedeva
lenalidomide 25 mg nei giorni 1-21 con alte dosi
di desametasone (40 mg nei giorni 1-4, 9-12, e 1720 ogni 28 giorni [RD]) il secondo braccio lenalidomide con basse dosi di desametasone (40 mg
nei giorni 1, 8, 15 e 22 ogni 28 giorni). Dopo i primi 4 cicli i pazienti potevano interrompere tale schema e proseguire con il trapianto o altre opzioni terapeutiche interrompendo lo studio. Nonostante un
più elevato tasso di risposte nei pazienti trattati con
RD: PR rate: 79% vs 68%; p=0.008 e ≥VGPR, 42%
vs 24% p=0.008; la PFS mediana e l’OS a 1 e a
2 anni sono risultate significativamente superiori nel
gruppo Rd: PFS 25.3 mesi vs 19.1 mesi: p=0.026
e l’OS a 2 anni 87% vs 75%, p=0.0002 rispettivamente nei gruppi Rd e RD (35).
Tossicità di grado ≥3 si sono verificate in maggior
misura nel gruppo RD, (36) le più frequenti erano
le trombosi, le infezioni e l’astenia; per tale motivo e per la maggiore mortalità precoce tali pazienti venivano discontinuati dal trattamento e lo studio è stato prematuramente interrotto per permettere una riduzione delle dosi di desametasone in
53
54
Seminari di Ematologia Oncologica
modo tale che i pazienti potessero usufruire dello
schema Rd meno tossico o di altri a base di talidomide; come conseguenza l’OS a 3 anni non differiva nei due gruppi (75% in entrambi RD e Rd).
Una Landmark analysis dello studio si è focalizzata sul confronto dell’OS a 3 anni in tre sottogruppi di pazienti in cui erano utilizzati tre diversi approcci terapeutici e il risultato è stato del 55% nei pazienti che avevano discontinuato la terapia dopo 4 mesi
e che non avevano proseguito con il trapianto, 92%
nei pazienti che avevano interrotto a 4 mesi, ma
che però erano poi stati avviati al trapianto e 79%
in coloro che hanno proseguito anche dopo i 4 cicli.
I risultati di questa analisi suggeriscono l’importanza di estendere il trattamento nel tempo o di optare per un trattamento di breve durata, ma seguito
da trapianto autologo (35).
L’associazione di lenalidomide con altri farmaci
oltre gli steroidi è stata valutata in recenti studi di
fase I/II: in un primo studio era somministrata insieme al bortezomib e al desametasone (36) e i risultati ottenuti in termini di PR rate, risposte ≥VGPR
e ≥CR/nCR sono stati del 98%, 71% e 36% rispettivamente; un altro studio sempre di fase II ha esaminato la combinazione di lenalidomide con
ciclofosfamide (37) e uno studio di fase I/II ha associato bortezomib, desametasone, ciclofosfamide
e lenalidomide, (38) i risultati ottenuti sono stati
rispettivamente i seguenti: PR rate: 80%-100%,
≥VGPR: 40%-68%, ≥CR/nCR: 2%-28%. Sono
necessari ulteriori studi prospettici e randomizzati per confermare i risultati preliminari ottenuti con
le combinazioni a base di lenalidomide.
Trapianto autologo di cellule staminali
periferiche
La terapia ad alte dosi (HDT), basata solitamente sull’utilizzo di melfalan 200 mg/m2, seguita dalla reinfusione di cellule staminali periferiche ha
dimostrato un prolungamento dell’OS se paragonata alla terapia standard in numerosi studi randomizzati condotti dai gruppi francese (IFM) e
inglese (MRC) (18, 39). Tuttavia gli studi americani (SWOG 9321), francesi (MAG91) e spagnoli
(PETHEMA-94) pur confermando il beneficio del
trapianto in termini di risposte e di EFS hanno fornito risultati discordanti per l’OS (40-42) per i
seguenti motivi:
- differente disegno dello studio;
- differente regime di condizionamento;
- differente intensità e durata del braccio di chemioterapia (le dosi degli agenti alchilanti e degli
steroidi erano più alte nello studio spagnolo e
nello studio SWOG e ciò potrebbe in parte spiegare perché l’OS dei pazienti trattati con chemioterapia convenzionale era più lunga in questi due studi rispetto all’IFM e MRC).
Nonostante ciò il trapianto è considerato lo standard di cura dei pazienti giovani con mieloma multiplo. Gli studi randomizzati precedentemente illustrati che utilizzano i nuovi farmaci in induzione,
bortezomib, (27-29, 31) talidomide (23) e lenalidomide (35), sono concordi nel segnalare un incremento della percentuale di CR dopo il trapianto
che si traduce in un aumento della PFS.
Il beneficio correlato a un doppio autotrapianto è
dubbio: un secondo trapianto è indicato in base
ai risultati del gruppo francese IFM e del gruppo
italiano nei pazienti che non hanno raggiunto almeno una VGPR con il primo trapianto (43, 44).
Consolidamento e mantenimento
Per molti anni sono stati utilizzati interferone e/o
corticosteroidi come terapia di mantenimento dopo
trapianto autologo. L’utilizzo è stato poi abbandonato visti i numerosi effetti collaterali e il modesto
vantaggio in termini di sopravvivenza.
L’impiego di nuovi farmaci (in particolare i farmaci orali talidomide e lenalidomide) ha rinnovato il
concetto del mantenimento come procedura finalizzata a prolungare la durata delle risposte dopo
il trapianto. Negli studi del gruppo MRC precedentemente citati (25, 26) i pazienti dopo induzione
o con CTD o con CVAD e successivo trapianto
autologo erano poi nuovamente randomizzati in
un primo gruppo che avrebbe ricevuto terapia di
mantenimento con talidomide e in un secondo che
non avrebbe effettuato mantenimento. I risultati non
hanno dimostrato un miglioramento dell’OS dopo
mantenimento mentre un prolungamento della
PFS è stato osservato solo in un sottogruppo dei
pazienti in cui non era stata raggiunta almeno una
VGPR dopo induzione dimostrando così un beneficio del mantenimento con talidomide solo nei
pazienti con una risposta subottimale.
I principali studi e i relativi risultati in cui è stata
utilizzata talidomide in mantenimento sono illustrati nella tabella 5: il gruppo IFM è stato il pri-
Mieloma multiplo
mo a dimostrare che l’utilizzo di talidomide post
ASCT è correlato a un miglioramento delle risposte se confrontato con l’impiego del solo pamidronato o la sola osservazione (45); il gruppo
australiano ha ottenuto simili risultati paragonando la talidomide (somministrata per 12 mesi) più
prednisone (fino a progressione), con il prednisone da solo (46); tre studi hanno dimostrato
benefici in termini di PFS e OS utilizzando il mantenimento con talidomide (45-47), uno studio ha
riportato un prolungamento del PFS ma non
dell’OS in diversi sottogruppi di pazienti con differenti profili citogenetici (48).
Inoltre ci sono numerosi studi che sconsigliano
l’uso della talidomide come mantenimento al di
fuori di trial clinici, due dei quali suggeriscono che
l’utilizzo a lungo termine potrebbe addirittura
indurre un maggior numero di ricadute (30, 49).
Lo studio GIMEMA ha dimostrato come la combinazione di bortezomib, talidomide e desametasone (VTD) come consolidamento migliori le
risposte ottenute con il trapianto (36% dei
pazienti sono passati da VGPR a CR e 22% hanno raggiunto una remissione molecolare) (50-52).
Il gruppo HOVON ha invece analizzato il bortezomib come terapia di mantenimento ogni 15
giorni dopo il trapianto: risultati preliminari indicano un miglioramento nelle percentuali di CR
dal 23% al 37% (31).
Per quanto riguarda invece la lenalidomide il
diverso profilo di tossicità tale da permetterne l’utilizzo più a lungo rispetto al capostipite lo rende
un farmaco più adatto a una terapia di mantenimento e ciò ha dato il via a numerosi studi tuttora in corso: i dati del gruppo IFM mostrano che
la terapia di mantenimento con lenalidomide prolunga la sopravvivenza libera da progressione
(PFS) nei pazienti precedentemente sottoposti ad
autotrapianto (53); uno studio di fase III (CALGB
100104) ha confrontato pazienti trattati con
lenalidomide di mantenimento dopo singolo
autotrapianto rispetto al gruppo di soggetti trattati con placebo, ottenendo risultati incoraggianti in termini di prolungamento del tempo alla progressione (TTP) nel gruppo lenalidomide con un
simile profilo di tossicità fra i 2 gruppi (54); uno
studio invece affronta un approccio sequenziale di farmaci: induzione con bortezomib, trapianto autologo seguito da consolidamento-manteni-
mento con lenalidomide, dopo un follow-up
mediano di 2 anni il PFS è del 69%, TTP:75%,
OS: 86%, ed un discreto profilo di tossicità durante consolidamento-mantenimento: i principali
eventi avversi di grado 3-4 erano neutropenia
(16%), trombocitopenia (6%) polmoniti (5%) e
rash cutaneo (4%) (55).
Trapianto allogenico di cellule staminali
Il trapianto allogenico offre la possibilità di un
approccio curativo per i pazienti con MM ma è
anche correlato a un’elevata mortalità da trapianto (TRM) (tra il 30% e il 50%) e di morbilità (soprattutto correlata a graft-versus-host disease [GVHD]
cronica). Per questo motivo dovrebbe essere utilizzato sempre nel contesto di studi clinici. Il gruppo francese ha paragonato il doppio autotrapianto con un singolo autotrapianto seguito da allotrapianto con regime di condizionamento a ridotta
intensità (allo-RIC) in pazienti considerati a prognosi sfavorevole (alti livelli di b-2 microglobulina e delezione del cromosoma 13), riportando risultati simili in termini di OS e PFS in entrambi i gruppi (mediana di 35 vs 25 mesi; 41 vs 30 mesi, rispettivamente) (56). Lo studio del gruppo italiano ha riportato
invece un miglioramento della PFS e OS nei pazienti che hanno ricevuto un singolo autotrapianto seguito da Allo-RIC rispetto al doppio autotrapianto (57).
Il gruppo spagnolo ha riportato un incremento delle CR e un prolungamento delle PFS nei pazienti
che hanno ricevuto un allo-RIC, ma una maggiore mortalità correlata al trapianto (TRM 16% vs 5%,
p=0.07), senza differenze statisticamente significative in termini di EFS e OS (58). Il gruppo HOVON
ha trovato risultati simili nei 2 gruppi, (59) mentre
recenti risultati di uno studio EBMT hanno mostrato un vantaggio dell’allo-RIC, con una PFS del 36%
e un’OS del 65% contro un 15% e un 50% nel gruppo trattato con doppio autotrapianto (60).
n TERAPIA DI PRIMA LINEA
NEI PAZIENTI ANZIANI
O NEI GIOVANI NON ELEGGIBILI
AL TRAPIANTO AUTOLOGO
Melfalan + Prednisone
La combinazione orale di melfalan+prednisone
(MP) è stata per anni considerata il trattamento
55
56
Seminari di Ematologia Oncologica
standard per i pazienti non eleggibili alla chemioterapia ad alte dosi con autotrapianto (61). Il tasso di PR a tale terapia è di circa il 50% e la mediana di sopravvivenza è di 2-3 anni. In una metanalisi di 27 studi randomizzati che hanno paragonato MP con combinazioni di più farmaci (combination chemotherapy - CCT) prima dell’avvento dei
nuovi, sono state riportate buone risposte dell’MP
rispetto a CCT, ma ciò non si traduceva in un miglioramento della sopravvivenza (62).
Uno studio randomizzato ha confrontato l’efficacia della combinazione di melfalan e desametasone (MD), alte dosi di desametasone (HD) e HD
più interferon-a rispetto allo standard MP: l’uso di
entrambi gli schemi a base di melfalan (MP e MD)
era correlato con un miglioramento della PFS ma
non con un prolungamento della sopravvivenza.
Gli schemi che includevano il desametasone hanno mostrato una maggiore tossicità, caratterizzata in particolare da infezioni piogene, episodi emorragici, diabete, complicanze gastrointestinali e psichiatriche, e questo ha influenzato negativamente l’OS (63).
Un altro studio randomizzato ha paragonato MP
con talidomide e desametasone (TD) e ha riportato una più alta PFS nei pazienti trattati con TD
contro una sopravvivenza significativamente maggiore nei pazienti trattati con MP. Questo si spiega con la maggiore tossicità e un maggior numero di decessi dovuti a infezioni riscontrati nel gruppo TD da attribuire principalmente alle alte dosi
di desametasone, in particolare durante i primi 12
mesi di terapia (64).
Da questi risultati deriva la considerazione che lo
schema standard rimane MP, al quale aggiungere i nuovi farmaci (talidomide, lenalidomide e bortezomib) con lo scopo di migliorare la sopravvivenza.
Terapie a base di Talidomide
Melfalan, Prednisone, Talidomide (MPT): cinque
studi randomizzati hanno dimostrato come lo schema MPT aumenti il tasso di risposta (PR: 42%76% vs 28%-48%; VGPR e di nCR: 15%-47% vs
6%-8%) (65-70) e la EFS rispetto allo schema MP
(14-27.5 vs 10-19 mesi); in due di questi studi è
stato riportato anche un vantaggio nella sopravvivenza (OS: 45.3-51.6 vs 27.7-32.2 mesi) (68, 69).
Gli schemi MPT sono stati tollerati abbastanza
bene, i più importanti eventi avversi di grado 3-4
erano la neutropenia con un’incidenza compresa
fra il 16% e il 48%, la neuropatia periferica tra il
6% e il 20% e un’incidenza di tromboembolismo
venoso (VTE) compresa fra il 3% e il 12% (6568, 71). I dati ottenuti da questi cinque trial clinici randomizzati hanno dimostrato come MPT sia
superiore allo schema MP e quindi sia da considerarsi lo standard di terapia nei pazienti con più
di 65 anni o in chi non possa essere sottoposto
ad autotrapianto.
Talidomide, ciclofosfamide e desametasone (CTD):
la ciclofosfamide, un altro agente alchilante, è stata studiata in combinazione con talidomide nel
gruppo Medical Research Council [MRC] Myeloma
IX Trial in cui tale combinazione è stata paragonata al vecchio standard MP in 900 pazienti: i
pazienti del gruppo CTD hanno presentato un
maggior numero di risposte ≥PR (83% vs 46%)
oltre che di CR (21% vs 4%) rispetto al gruppo
MP, ma ciò non si è tradotto in un prolungamento della sopravvivenza (25, 26).
Terapie a base di Bortezomib
Melfalan, prednisone e bortezomib (VMP): lo studio Velcade as Initial Standard Therapy Assessment
(VISTA) ha confrontato la combinazione di melfalan-prednisone-bortezomib (VMP) con lo standard
MP e ha confermato la superiorità del primo rispetto al secondo in termini di risposta (le PR o superiori sono state il 71% e il 35% rispettivamente e
le CR sono state il 30% e il 4%, p<0.001), di TTP
(mediano: 24 mesi e 16.6 mesi rispettivamente,
p<0.001) e di OS (a 3 anni: 72% e 59% rispettivamente, p=0.00329). Gli eventi avversi di grado 34 sono stati più frequenti nel gruppo che ha ricevuto bortezomib (53% vs 44%, P=0.02) con un incidenza più elevata nei primi cicli di terapia e nei
pazienti con più di 75 anni: trombocitopenia, neutropenia, neuropatia periferica e infezioni (in particolare la riattivazione del virus dell’herpes zoster
per cui si raccomanda sempre un’adeguata profilassi) (12). Un recente aggiornamento dello studio
VISTA ha confermato i benefici in termini di OS del
VMP (68.5% a 3 anni di follow-up mediano) rispetto all’MP (54,0% a 3 anni di follow-up mediano) (72).
Bortezomib, talidomide e prednisone (VTP): uno
studio randomizzato ha paragonato il nuovo standard VMP con l’associazione di bortezomib tali-
Mieloma multiplo
domide e prednisone (VTP) come terapia di induzione; seguiti da mantenimento con bortezomibprednisone (VP) nel gruppo VMP e bortezomibtalidomide (VT) nel gruppo VTP. Sono state riportate risposte simili nei due gruppi: ≥PR nel 79%
dei pazienti trattati con VMP e VTP, CR del 22%
contro il 27 rispettivamente (p= non significativo).
Dopo un follow-up mediano di 22 mesi non sono
state osservate differenze significative tra i due
gruppi di trattamento in termini di TTP a 2 anni
(VMP 75% vs VTP 70%), PFS (VMP 71% vs VTP
61%) e OS (VMP 81% vs VTP 84%). I pazienti
trattati con VTP hanno presentato un maggior
numero di eventi avversi non ematologici di grado 3-4, in particolare eventi cardiaci, tromboembolici e neuropatia periferica, tradottisi in un maggior numero di pazienti usciti dallo studio per tossicità. Nel gruppo VMP le maggiori tossicità osservate erano neutropenia, trombocitopenia e infezioni. Durante la terapia di mantenimento è stato
osservato un incremento dal 25% di CR (ottenute con sola terapia di induzione) al 42% senza
significative differenze nei gruppi VT e VP (46%
e 38%) (73).
Un recente studio randomizzato di fase III ha invece analizzato la sicurezza e l’efficacia di tre regimi a base di bortezomib (bortezomib-talidomidedesametasone [VTD], bortezomib-desametasone
[VD] e VMP). I risultati sono stati i seguenti: ≥PR
del 60%, 70%, 52% rispettivamente nei gruppi VD,
VTD, VMP; ≥VGPR del 15%, 23% e 24%, Cr/nCR
del 13%, 18% e 15%. La maggior parte di eventi avversi, in particolare neuropatia periferica e
eventi tromboembolici severi, si è verificata nel
gruppo VTD (74).
Bortezomib, talidomide, melfalan e prednisone
(VMPT): dati recenti di uno studio randomizzato
di fase III che ha paragonato la combinazione di
4 farmaci, MP talidomide e bortezomib (VMPT)
seguito da mantenimento con bortezomib e talidomide, con lo standard VMP, mostrano delle
risposte superiori nel gruppo VMPT: ≥PR (89% vs
81%, p=0.01), ≥VGPR (59% vs 50%, p=0.03) e
quote di CR (38% vs 24%, p=0.0008) nei due
gruppi rispettivamente; così come una PFS a 2
anni superiore nel gruppo VMPT (70% vs 58.2%,
p=0.008). Le tossicità non sono state particolarmente diverse nei due gruppi a parte una maggior quota di neutropenia di grado 3-4 e di com-
plicanze cardiache nel gruppo VMPT rispetto al
VMP. Una novità importante di questo studio è stata quella di dimostrare che se l’infusione bisettimanale del bortezomib (1.3 mg/m2 nei giorni 1, 4,
8, 11) veniva ridotta a una dose singola settimanale (1.3 mg/m2 nei giorni 1, 8, 15, 22) il risultato
era una riduzione considerevole di neuropatia periferica di grado 3-4 in entrambi i gruppi VMPT e
VMP (dal 18% al 4%,p=0.0002 e dal 13% al 2%,
p=0.0003 rispettivamente) senza un cambiamento significativo in termini di PFS (74). Questi sono
i risultati del primo studio che ha utilizzato uno
schema di trattamento a base di quattro farmaci
riportandone la superiorità rispetto al nuovo standard VMP e che ha dimostrato l’efficacia e la tollerabilità della schedula di infusione settimanale
del bortezomib (75, 76).
Terapie a base di Lenalidomide
– Lenalidomide e desametasone (RD): l’associazione di lenalidomide e alte dosi di desametasone (RD) è stata analizzata in uno studio di fase
III e confrontata con il desametasone da solo:
nonostante una maggior quota di CR (22.1% vs
3.8%) e un miglioramento della PFS a un anno
(77% vs 55%, p=0.002) nel gruppo RD, non è stata osservata differenza significativa nei due gruppi in termini di OS. I pazienti trattati con RD hanno presentato una maggiore neutropenia di grado 3-4 (14% vs 3%) e di infezioni (19% vs 10%)
(77, 78).
Come già riportato in precedenza per i pazienti giovani di nuova diagnosi, la maggiore tossicità correlata al desametasone ha impedito di proseguire
con lo schema RD e ha evidenziato come l’uso prolungato di basse dosi di desametasone con Rd fino
a progressione o fino a che tollerato, possa essere considerato come una valida opzione nei
pazienti anziani data l’efficacia e la tollerabilità.
Ulteriori studi di fase 3 sono in corso e programmati che paragonano questo regime con i nuovi
standard MPT ed MPV (35).
Lenalidomide, melfalan e prednisone (MPR): tale
associazione è stata valutata in uno studio di fase
I/II in cui la massima dose tollerata è stata: melfalan 0.18 mg/kg, lenalidomide 10 mg/die per 21
giorni, e prednisone 2 mg /kg nei giorni 1-4. A questo dosaggio la percentuale di risposte ≥PR è stata dell’81% comprensiva di un 48% di VGPR e un
57
58
Seminari di Ematologia Oncologica
24% di CR. L’EFS e l’OS a 1 anno sono state del
92% e del 100% rispettivamente (79). Questi dati
preliminari migliori di quelli analizzati nello standard MPT hanno permesso di porre le basi per
lo studio di fase III dell’European Myeloma
Network che ha paragonato MP con MPR come
terapia di induzione seguita o meno dal mantenimento con lenalidomide (MPR-R). Le risposte del
braccio MPR-R sono state: ≥PR nel 77% dei
pazienti, ≥VGPR nel 32% e CR nel 18%, significativamente più alte del gruppo MP: ≥PR:49%,
≥VGPR:11% e CR:5%. L’OS a un anno è simile
nei due gruppi (92%), ma il follow-up è troppo breve per trarre delle conclusioni. Le maggiori tossicità di grado 3-4 osservate erano la neutropenia
(70% vs 30%) e la trombocitopenia (38% vs 13%).
In entrambi i gruppi non è stata osservata alcuna neuropatia di grado 3-4. Per tali motivi, lo schema MPR seguito da mantenimento con lenalidomide può essere considerato un nuovo regime
standard per i pazienti di età superiore ai 65 anni
o per i giovani non eleggibili al trapianto (80).
Melfalan a dose intermedia (100 mg/m2)
I pazienti di oltre 65 anni o i giovani con significative comorbidià sono considerati generalmente non
eleggibili a un trapianto autologo condizionato con
melfalan 200 mg/m2. Tuttavia nella fascia di età fra
65 e 70 anni, sembra indicata una dose intermedia di melfalan (Mel100). Due studi randomizzati
hanno paragonato lo schema Mel100 con lo standard MP. Nel primo studio i pazienti di età compresa fra i 65 e i 70 anni hanno ottenuto migliori
OS e PFS rispetto al gruppo MP (81), nel secondo studio che ha arruolato pazienti fra i 65 e i 75
anni, il trapianto a ridotta intensità era paragonato non solo a MP ma anche a MPT: PFS e OS
erano superiori nel gruppo MPT rispetto a MP e
Mel100 (68).
Un altro recente studio di fase II ha analizzato l’efficacia dei nuovi farmaci incorporati sia negli schemi di induzione pre-trapianto, sia nel consolidamento post trapianto e nel mantenimento, in pazienti
fra i 65 e 75 anni con uno schema di melfalan 100
mg/m2: le risposte ≥PR erano del 94% dopo induzione con PAD e 100% dopo consolidamento con
lenalidomide-prednisone (LP); le CR del 13% dopo
induzione con PAD, 43% dopo Mel100 e 73%
dopo consolidamento-mantenimento con lenalido-
mide; questi dati indicano che bortezomib come
induzione e lenalidomide come consolidamento e
mantenimento aumentano le risposte consentendo di sfruttare delle esposizioni sequenziali a diversi farmaci (82).
n TRATTAMENTO DEI PAZIENTI
RICADUTI/REFRATTARI
Nella recidiva di MM le risposte alla terapia sono
tendenzialmente poco durature nel tempo e
attualmente non vi sono dati definitivi su quale sia
il regime terapeutico migliore (83). La terapia va
iniziata, come per i pazienti alla diagnosi, quando ricompaiano i segni e i sintomi del danno d’organo (criteri CRAB) o anche in presenza del solo
raddoppiamento della componente monoclonale
nell’arco di due mesi; il solo aumento della percentuale di PCs a livello midollare non giustifica
l’inizio della terapia, così come un lento incremento della componente monoclonale.
Se la PFS conseguente alla terapia precedente
è stata superiore ai 18 mesi e la terapia è stata
ben tollerata, in particolare in assenza di tossicità residue, si considera opportuno sottoporre il
paziente al medesimo trattamento. In alternativa,
nel paziente anziano si procede all’uso dei farmaci di nuova generazione che permettono di ottenere buoni risultati sia in termini di risposta sia di
intervallo libero da malattia. I regimi terapeutici più
utilizzati prevedono l’uso di corticosteroidi in
associazione a talidomide, lenalidomide o bortezomib. Eventualmente, al fine di incrementare il tasso di risposta pur tenendo in considerazione la
maggiore tossicità, è possibile aggiungere una
antraciclina alle combinazioni suddette. Di seguito elencati i principali studi svolti nei pazienti ricaduti/refrattari:
– Bortezomib: uno studio di fase III internazionale randomizzato ha paragonato il solo bortezomib
rispetto ad alte dosi di desametasone (HD) riportando un significativo prolungamento del TTP a un
anno nei pazienti trattati con il nuovo farmaco (6.2
vs 3.5 mesi, p<0.001), di OS a un anno (80% vs
66%, p=0.003) e un’efficacia superiore in termini
di PR rate (38% vs 18%, P<0.001). Nella successiva analisi aggiornata dei dati (84), l’OS mediana era di 29.8 mesi nel braccio in cui i pazienti rice-
Mieloma multiplo
vevano il bortezomib rispetto a 23.7 mesi nel braccio desametasone e il 62% dei pazienti trattati con
alte dosi di corticosteroide sospendevano tale regime per ricevere il bortezomib, decisamente
migliore in termini di sopravvivenza.
In un altro studio di fase III sono stati messi a confronto il bortezomib associato alla doxorubicina liposomiale peghilata (PLD) e il bortezomib da solo
dimostrando che l’uso dei due farmaci in combinazione prolunga sia il TTP (9.3 vs 6.5, p=0.000004)
e la PFS (9.0 vs 6.5 mesi, p=0.000026) che l’OS
a 15 mesi (76% vs 65%, p=0.03), nonostante la PR
rate non fosse statisticamente differente nei due
gruppi (44% vs 41%) (85).
Nei pazienti ricaduti e trattati con bortezomib gli
eventi avversi più significativi erano la neutropenia (14% dei pazienti) e la trombocitopenia (dal
15% al 30% dei pazienti). Neuropatia di grado 34 è stata riportata nel 9% dei pazienti appartenenti al gruppo del solo bortezomib e nel 4% dei soggetti in cui il nuovo farmaco era associato a PLD
(84, 85).
Uno studio di fase II ha esaminato un gruppo di
pazienti in cui la prima linea di terapia era basata
sull’utilizzo del bortezomib, che avevano ottenuto
risposte soddisfacenti ed erano ricaduti dopo un
periodo superiore ai sei mesi. Gli stessi pazienti
erano perciò ritrattati con il medesimo farmaco con
o senza desametasone e risultati preliminari hanno mostrato risposte soddisfacenti in circa i due terzi dei soggetti, e soprattutto una buona tollerabilità e una bassa quota di tossicità cumulativa (86).
– Lenalidomide: due studi randomizzati di fase III
hanno paragonato l’efficacia della lenalidomide
associata al desametasone nei pazienti
ricaduti/refrattari rispetto al desametasone da
solo mostrando un miglioramento in termini di
response rate (60%-61% vs 24%-19%, P<0.001)
di TTP (11.3-11.1 vs 4.7 mesi, p<0.001) e di OS
(29.6 mesi di mediana vs 20.2 mesi, p<0.001). In
entrambi gli studi erano riportate tossicità maggiori nel gruppo di pazienti trattati con lenalidomide
rispetto al gruppo placebo e le più importanti erano la neutropenia (29.5%-41.2% vs 2.3%- 4.6%,
rispettivamente) e la tromboembolia venosa
(11.4%-14.7% vs 3.4%-4.6% rispettivamente) (87,
88).
La lenalidomide è stata anche studiata in associazione con altri farmaci, quali doxorubicina, ciclo-
fosfamide, bortezomib e talidomide. In generale,
le risposte ottenute con tali strategie terapeutiche
si sono rivelate superiori alla sola lenalidomide e
steroide; in particolare in uno studio di fase I/II la
lenalidomide associata alla doxorubicina e desametasone è stata sperimentata in 69 pazienti ed
è risultata una PR rate del 73% che include CR
pari a 14.5% e VGPR del 43%. Il TTP mediano è
stato di 10.4 mesi e l’OS a 1 anno dell’88%; è
necessario però un più lungo follow-up per dimostrare gli effetti sull’OS di questa e altre combinazioni di farmaci (89).
– Talidomide: TD è stato studiato in confronto con
HD in uno studio di fase III e i pazienti trattati con
i 2 farmaci rispetto a quelli trattati con il solo desametasone hanno ottenuto risposte migliori (≥PR
del 65% vs 28%, p<0.001) e una PFS a un anno
migliore (46.5% vs 31%, p=0.001). La percentuale di trombosi arteriosa registrata nel gruppo TD
è stata del 22% rispetto al 7% del gruppo HD
(P=0.02). Altri frequenti effetti collaterali erano la
sonnolenza/fluttuazioni del tono dell’umore (58%
vs 21%), costipazione/nausea (43% vs 11%), disidratazione cutanea/mucosale (26% vs 9%) tremori (19% vs 4%) e neuropatia periferica sintomatica (28% vs 7%). Nonostante la maggiore tossicità e la conseguente sospensione della terapia, l’aggiunta della talidomide al desametasone
si è tradotta in un aumento delle risposte ed è stata perciò considerata potenzialmente come una
valida opzione per i pazienti ricaduti (90).
n CONCLUSIONI
La terapia con alte dosi di melfalan seguita da
ASCT nei pazienti giovani e terapie orali a base
di MPT, MPV o MPR nei pazienti anziani rappresentano attualmente la terapia standard del mieloma. La sopravvivenza dopo il trapianto sembra
collegata con il raggiungimento di CR o VGPR. Il
miglioramento delle risposte dopo la terapia di
induzione con i nuovi farmaci quali talidomide,
lenalidomide e bortezomib e prima del trapianto
si traducono in un ulteriore aumento delle risposte dopo terapia ad alte dosi e in un prolungamento della sopravvivenza. Per quanto riguarda il
paziente anziano o il giovane non eleggibile al trapianto per la presenza di comorbilità rilevanti, è
59
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Seminari di Ematologia Oncologica
ormai dimostrato che le terapie orali a base di MPT
o MPV o le basse dosi di desametasone associati ai nuovi farmaci abbia sostanzialmente modificato il paradigma del trattamento di questi pazienti. Studi randomizzati hanno dimostrato che MPT,
MPV e MPR sono migliori di MP e possono quindi essere considerati ormai il nuovo standard di
terapia.
Altre valide opzioni sostenute da risultati preliminari sono Rd e CTD. La scelta di quale sia il trattamento migliore per ogni singolo paziente,
dovrebbe essere basato su studi clinici randomizzati, tenendo sempre presente l’età biologica, le
comorbilità e il profilo di tossicità dei diversi regimi terapeutici.
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(VT) Versus Bortezomib/Prednisone (VP) in Elderly
Untreated Patients with Multiple Myeloma Older Than
65 Years. [Abstract]. Blood 2009; 114: 3.
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63
65
Trapianto di cellule
staminali emopoietiche
ALBERTO BOSI, BENEDETTA BARTOLOZZI
U.F. Ematologia, Dipartimento di Area Critica Medico-Chirurgica,
Università degli Sudi, Firenze
n INTRODUZIONE
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche, metodica nata nei primi anni sessanta (1),
è evoluto da terapia sperimentale a trattamento
d’elezione per molte patologie ematologiche e non
(Figura 1).
L’utilizzo del trapianto allogenico è strettamente
legato alla disponibilità di un donatore compatibile, condizione che, nell’ambito familiare, si verifica con una frequenza del 25% e quindi non così
usuale vista la bassa natalità tipica dei paesi industrializzati.
L’esistenza di registri nazionali, collegati tra loro
su base mondiale, di donatori di cellule staminali (UD) e unità di sangue cordonale (UCB) permette di cercare un possibile donatore anche per
quei pazienti senza un fratello HLA-identico.
L’ultima revisione sull’attività trapiantologica del
Gruppo Cooperatore Europeo (EBMT) riporta
26.850 primi trapianti di cui il 40% allogenici, eseguiti in 615 centri europei nel 2008 (2). In Italia
Parole chiave: trapianto di cellule staminali emopoietiche, sorgente, condizionamento, donatore non familiare compatibile, unità sangue cordonale, donatore
aploidentico
Indirizzo per la corrispondenza
Prof. Alberto Bosi
U.F. Ematologia
Dipartimento di Area Critica Medico-Chirurgica
Università degli Sudi
Viale Morgagni, 85 - 50134 Firenze
E-mail: [email protected]
Alberto Bosi
nel 2009, il Gruppo Italiano Trapianto Midollo
Osseo (GITMO) ha registrato 1.474 trapianti allogenici (Figura 2). Grazie al continuo affinarsi delle conoscenze e delle tecnologie, notevoli cambiamenti sono avvenuti nell’ambito del trapianto allogenico: l’impiego del sangue periferico come sorgente di cellule staminali ha avuto crescente successo e lo sviluppo della metodologia dei condizionamenti non mieloablativi od ad intensità ridotta (RIC) con valenza immunosoppressiva ha portato ad un progressivo incremento di questa tipologia di trapianto consentendo di estendere la procedura anche a pazienti precedentemente considerati non trattabili. Inoltre lo sviluppo della biologia molecolare ha consentito una miglior selezione dei donatori non familiari e la diffusione delle
Banche di sangue placentare ha reso praticabile
e di uso corrente l’impiego del sangue cordonale. Infine le acquisizioni di immunologia e lo sviluppo delle tecniche di selezione delle cellule
CD34+ hanno reso praticabile in maniera più omogenea il trapianto aploidentico.
Tuttavia questo nuovo scenario, che offre praticamente a tutti i pazienti una opzione trapiantologica, non è scevro di controversie per quanto riguarda il tipo di sorgente, il tipo di condizionamento e
il tipo di donatore e non vi è parere unanime su
quale sia la migliore scelta in termini di sopravvivenza e qualità di vita per i pazienti.
Sempre di più vi è necessità di identificare indici
prognostici, valutare rischi/benefici delle procedure e costruire modelli decisionali per indirizzare ciascun paziente alla scelta terapeutica più idonea.
Questo articolo si propone di analizzare alcuni
aspetti di particolare interesse e discussione.
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 1 - Progressi nel campo trapiantologico e numero dei trapianti (dati IBMTR) dal 1957 al 2006 (1).
2500
FIGURA 2 - Numero trapianti allogenici di cellule staminali emopoietiche per anno.
GITMO Trapianto Allogenico
2083
2000
N. Trapianti
Allotrapianti registrati (N=20464)
1500
1000
500
558
471 533
368 446
785 884
670 743
1160 1213
1044 1063
1313 1299
1420 14471490 1474
0
<1
99
1
19
91
19
92
19
93
19
94
19
95
19
96
19
97
19
98
19
99
20
00
20
01
20
02
20
03
20
04
20
05
20
06
20
07
20
08
20
09
66
Anni
n SORGENTE DI CELLULE
STAMINALI EMOPOIETICHE:
MIDOLLO O PERIFERICO?
Dal primo studio che mostrava l’utilizzo di cellule
staminali da sangue periferico a scopo trapiantologico (3), si è verificata una rapida crescita nell’utilizzo di questa sorgente. Nel 57% dei trapianti allogenici, effettuati in Italia negli ultimi 5 anni,
è stato utilizzato il sangue periferico come sorgente di cellule staminali (Figura 3).
Le cellule staminali emopoietiche sono presenti nel
sangue periferico in una percentuale inferiore allo
0.1%. Tale percentuale cresce fino ad un 5% dopo
mobilizzazione. Importanti differenze sia fenotipiche che biologiche esistono tra le cellule staminali da sangue periferico mobilizzate mediante fattori di crescita e quelle da midollo. Le prime esprimono antigeni di superficie maggiormente lineaspecifici (CD13, CD33), hanno una minore percentuale di cellule in fase S e sono metabolicamente meno attive (4). Inoltre vi è una notevole differenza nella composizione del prodotto di cellule
staminali, aferesi e prelievo midollare, soprattutto
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
FIGURA 3 - Trapianti per tipo di sorgente di cellule staminali.
GITMO Trapianto Allogenico
100
Sorgente delle cellule staminali
BM
PBSC
80
BM+PBSC
% Trapianti
CB
60
40
20
0
<1995
1995-1999
2000-2004
2005-2009
Anni
in termini di numero di linfociti T e di cellule CD
34+ raccolte (5, 6). L’aferesi contiene quasi un logaritmo in più di linfociti T rispetto all’espianto midollare; questa caratteristica è responsabile del maggior rischio di malattia trapianto contro ospite
(GVHD) dopo trapianto di cellule staminali periferiche (7). Inoltre, la dose di cellule CD34+ ottenute dopo singola procedura aferetica risulta in numero di circa 3 volte maggiore rispetto a quella ottenuta dopo un espianto di midollo (8). Il maggiore
numero di cellule CD34+ è correlato con una significativa riduzione del tempo di attecchimento (9).
Proprio per questa caratteristica, le cellule staminali periferiche rappresentano la sorgente preferita nell’ambito del trapianto autologo e la sorgente di elezione nei trapianti allogenici con donatore aploidentico, in cui è richiesta un’elevata dose
di CD34+ (10).
Nel trapianto allogenico, il numero di cellule CD34+
è emerso come uno dei fattori più importanti in termini di sopravvivenza. D’altra parte l’utilizzo di cellule staminali periferiche in tale ambito risulta essere maggiormente correlato ad insorgenza di
GVHD cronica (11).
Trapianto da donatore familiare
HLA-identico
Per valutare l’impatto del tipo di sorgente di cellule staminali sull’outcome del trapianto allogenico, numerosi trials clinici sono stati effettuati, riportando tuttavia risultati non univoci (12-21). Nel 2005
il gruppo dei Stem Cell Trialists ha effettuato una
metanalisi basata sui dati individuali di 1.111
pazienti adulti sottoposti a trapianto allogenico mieloablativo da donatore familiare HLA-identico
arruolati in 9 studi clinici randomizzati omogenei
per criteri di inclusione e tipo di trattamento. (22).
Tale metanalisi (Figura 4) ha confermato che l’utilizzo di cellule staminali periferiche porta ad una
significativa riduzione del tempo di attecchimento dei neutrofili (14 vs 21 giorni; p<.00001) e delle piastrine (14 vs 22 giorni; p<.00001) ed a una
più elevata incidenza di GVHD cronica (p<.0001).
Infatti il 47% ed il 68% dei pazienti trattati con sangue periferico hanno mostrato a 3 anni GVHD cronica estesa o a qualsiasi stadio rispetto al 31% e
52% nei pazienti trattati con midollo. Per quanto
riguarda l’incidenza totale di GVHD acuta, non
sono state notate differenze tra i due gruppi (52
vs 53%); tuttavia i gradi 3-4 si sono presentati più
frequentemente nel gruppo periferico (p<.03).
Nonostante la metanalisi non abbia mostrato differenze significative sulla sopravvivenza complessiva (OS) nè sulla mortalità non correlata a ricaduta (NRM) nei due gruppi, una sottoanalisi, sulla base della fase di malattia, ha mostrato una
migliore OS a 5 anni nei pazienti con fase avanzata di malattia trattati con cellule staminali periferiche (39% vs 29%; p<.01) (Figura 5). Inoltre nei
pazienti del braccio periferico è stata osservata una
ridotta incidenza di ricaduta (24% vs 32%, p=.01)
e migliore sopravvivenza libera da malattia (DFS)
67
68
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 4 - Forrest plot della meta analisi su trapianti da cellule staminali periferiche vs midollari. Stem Cell Trialists’ Collaborative
Group 2005 (22).
FIGURA 5 - OS nei trapianti da cellule staminali periferiche vs midollari per fase di malattia (A: precoci; B: avanzati). Stem Cell Trialists’
Collaborative Group 2005 (22).
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
(54% vs 47%, p=.02), fenomeno ancora più evidente nei pazienti con fasi avanzate di malattia
(32% vs 21% p=.01). Il risultato della metanalisi
mostra pertanto una superiorità delle cellule staminali da sangue periferico in termini di DFS e di
OS nelle sole forme avanzate; la maggior incidenza però di GVHD cronica condiziona fortemente
la qualità di vita. Per venire incontro a tali problematiche Pidala et al. (23) hanno recentemente
costruito un modello decisionale basato sui dati
individuali dei pazienti inclusi nella suddetta
metanalisi, valutando la sopravvivenza ma tenendo conto anche della qualità di vita nei pazienti con
GVHD acuta e cronica e nei pazienti ricaduti posttrapianto. Tale modello ha fortemente suggerito
come il trapianto di cellule staminali periferiche rappresenti la strategia ottimale in termini sia di aspettativa di vita che di qualità di vita, con un vantaggio di 7 mesi rispetto al trapianto di cellule staminali midollari. Solo nei pazienti con un rischio di
ricaduta basso (inferiore a 5% ad un anno), il sangue midollare ha dimostrato ottimi risultati.
Trapianto da donatore non familiare
Per quanto riguarda il trapianto da donatore non
familiare, uno studio retrospettivo, basato su dati
di registro, ha confermato la superiorità del periferico nell’attecchimento ma con una maggiore incidenza di GVHD sia acuta che cronica; non è stata tuttavia confermata una superiorità in termini di
OS e DFS neanche nei pazienti in stadio avanzato di malattia (24). È in corso uno studio randomizzato allo scopo di valutare l’impatto della sorgente anche nei trapianti non familiari. Vista la maggior incidenza di GVHD nel trapianto con cellule staminali periferiche, di particolare interesse appare
lo studio randomizzato con o senza l’aggiunta del
siero antilinfocitario alla profilassi con ciclosporina
e metotrexate che ha mostrato una significativa riduzione di insorgenza di GVHD sia acuta (33.0% vs
51.0%; p=0.011) che cronica (12.2% vs 42.6%;
p<0.0001) nei pazienti trattati con il siero (25).
Tipo di patologia
Il sangue midollare mantiene un ruolo primario nel
trattamento delle patologie non neoplastiche,
dove non è richiesto l’effetto graft versus malignancy (GVM). In un recente studio su 692 pazienti con
aplasia midollare sottoposti a trapianto allogeni-
co (26), nei pazienti giovani (<20 anni) l’incidenza di GVHD cronica (p=.002) e di NRM (p=.024)
risultavano significativamente maggiori dopo trapianto di cellule staminali periferiche rispetto a
midollo. Inoltre alcuni studi hanno mostrato la superiorità del midollo nei pazienti affetti da leucemia
acuta in fasi precoci di malattia (27, 28).
Donatore
Anche il donatore e la sua preferenza hanno un
ruolo nella scelta della sorgente di cellule staminali. Se da un lato il prelievo di cellule staminali
periferiche è meno traumatico e non richiede ospedalizzazione, gli eventi avversi seri sono rari e non
sembrano prevalere in nessuna delle due forme
di donazione (29-31). Anche a lungo termine, nei
pazienti che hanno donato cellule periferiche, e
quindi ricevuto fattori di crescita, non sembra vi sia
un incremento di patologie neoplastiche ed ematologiche rispetto alla restante popolazione (32).
n CONDIZIONAMENTO:
MIELOABLATIVO VS
NON-MIELOABLATIVO
Il limite maggiore del trapianto allogenico risiede
nell’importante morbilità e mortalità. Tali aspetti
sono strettamente correlati al regime di condizionamento.
Il condizionamento mieloablativo comprende chemioterapia ad alte dosi +/- irradiazione corporea
totale (TBI); lo scopo di tale trattamento è quello di eradicare la malattia e di immunosopprimere il ricevente per prevenire il rigetto e permettere l’attecchimento (33).
L’osservazione che la presenza di un effetto antileucemico era associato alla GVHD (34, 35), che
la T deplezione era correlata ad una ridotta incidenza di GVHD (36), e che l’infusione di linfociti del donatore (DLI) poteva indurre una remissione in pazienti ricaduti post trapianto (37), ha enfatizzato l’aspetto immunologico del trapianto ovvero l’effetto GVM indotto dai linfociti T del donatore. Questi dati e il fatto che spesso l’eradicazione della malattia non è ottenibile neanche con la
terapia mieloablativa, ha portato allo sviluppo di
RIC e non mieloablativi.
Numerosi sono i regimi RIC caratterizzati da com-
69
70
Seminari di Ematologia Oncologica
binazioni chemioterapiche che spesso includono ciclofosfamide e fludarabina o quelli francamente non-mieloablativi basati su basse dosi di
TBI (200cGy). Alcuni studi hanno voluto paragonare la tossicità dopo trapianto mieloablativo e
non mieloablativo: nonostante l’età più avanzata e la presenza di maggiore comorbidità nel
gruppo dei pazienti trattati con condizionamento non mieloablativo, l’incidenza di GVHD di grado 2-4 era significativamente minore (85% vs
64%; p=0.001) (38).
La riduzione della tossicità e quindi della NRM ha
permesso di estendere l’indicazione trapiantologica anche a pazienti altrimenti ineleggibili, per età
o per presenza di importanti comorbilità. Sorror et
al. (39) hanno ampiamente valutato l’impatto del
comorbidity index (HCT-CI) sull’ esito del trapianto nei pazienti sottoposti a trapianto mieloablativo e non mieloablativo: pazienti con basso indice
di comorbilità non presentano differenze in termini di sopravvivenza globale, sopravvivenza libera
da malattia e NRM, mentre i pazienti con alto indice di comorbilità presentano migliori NRM dopo
condizionamento non mieloablativo (p=.05).
Mentre nel trapianto mieloablativo, vi è necessariamente una fase di aplasia, nel trapianto non
mieloablativo tale fase può mancare o comunque
è meno profonda, seguita da un chimerismo misto
prolungato. Proprio per queste caratteristiche, tale
tipo di procedura può avere successo solo se la
massa di malattia è ridotta al minimo ed in patologie con basso indice proliferativo.
Leucemie acute
Per i pazienti giovani affetti da leucemia acuta, sia
mieloide che linfoide, il trapianto allogenico mieloablativo rimane la scelta di elezione. Tuttavia per
i pazienti con età >55 anni, spesso chemioresistenti, il trapianto mieloablativo presenta una NRM
troppo elevata (40). La fase di malattia risulta
come uno dei fattori prognostici più importanti in
pazienti trattati con RIC: lo studio di Hegenbart
et al (41) su 122 pazienti trattati con fludarabina
e TBI (200cGy) ha mostrato una sopravvivenza
a 3 anni rispettivamente del 46% e 42% per
pazienti in prima CR (CR1) e seconda CR (CR2)
vs una sopravvivenza <20% per il pazienti in fase
avanzata. Risultati simili sono riportati da uno studio retrospettivo del gruppo cooperatore tedesco
(42). In uno studio donor vs no donor su 95
pazienti in CR1 che ricevevano un trapianto ad
intensità ridotta, la sopravvivenza libera da malattia risultava statisticamente migliore nel gruppo
donor (72% vs 24% a 7 anni; p=.002) e la NRM
era stimata intorno al 12% (43). Questo dato conferma l’importante ruolo del trapianto non mieloablativo in questa patologia.
Nelle leucemie linfoblastiche, il trapianto RIC non
è ancora un trattamento con ruolo definito nella
pratica clinica (44), anche in relazione alla relativa rarità della malattia. Mothy et al. (45) hanno
analizzato retrospettivamente 97 pazienti sottoposti a trapianto RIC: la sopravvivenza globale nei
pazienti in CR1 era del 52%, con una sopravvivenza libera da malattia del 42% ed una NRM del
18%. In un altro studio con 27 pazienti, di cui 44%
refrattari e 41% Ph1 positivi con età mediana di
50 anni, la sopravvivenza a due anni è risultata
del 31% con una NRM del 23% (46). Un recente lavoro ha riportato i dati di 22 pazienti con leucemia linfoblastica ad alto rischio, di cui 14 in CR1,
trattati con RIC: la sopravvivenza, la NRM e l’incidenza di ricadute a 3 anni risultano del 50%,
27% e 36% rispettivamente (47).
Anche se i risultati sono incoraggianti, con ridotta NRM, questi studi hanno il limite di avere un
numero esiguo di pazienti con caratteristiche non
omogenee.
Linfomi
In Europa ed in Italia, il numero dei trapianti allogenici ad intensità ridotta è in continuo incremento. Il Lymphoma Working Party dell’EBMT ha riportato un’analisi che comparava l’outcome di pazienti con linfoma di Hodgkin trattati con condizionamento mieloablativo e non mieloablativo: la OS a 5 anni
era rispettivamente del 22% e del 28% (p=.003) e
la DFS del 18% e 20% (p=.007). La NRM era statisticamente più bassa nel gruppo a condizionamento non mieloablativo (p<.001) (48). Una recentissima analisi dell’EBMT su pazienti pediatrici e giovani adulti affetti da linfoma di Hodgkin refrattario,
ha mostrato una NRM ad un anno del 21%, con
risultati simili tra condizionamento ad intensità ridotta e condizionamento mieloablativo; la probabilità
di ricaduta a 2 e 5 anni era del 36% e 44%. Dopo
9 mesi dal trapianto la DFS era migliore nel trapianto convenzionale (p=.02) (49).
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
Nei linfomi follicolari, il trapianto allogenico sia convenzionale che non mieloablativo, con o senza T
deplezione, si è dimostrato un trattamento curativo. Tuttavia non vi è evidenza che regimi di condizionamento meno aggressivi siano più sicuri o
più efficaci.
L’outcome dei pazienti sembra essere maggiormente correlato con lo stato di malattia, performance status e presenza di comorbidità, indipendentemente dal tipo di condizionamento (50). Una
recente analisi retrospettiva dell’EBMT su 131
pazienti con linfoma follicolare sottoposti a trapianto da donatore non familiare, ha mostrato una OS
a 3 anni del 51%; in analisi multivariata, i regimi
ad intensità ridotta erano associati a minore NRM
e migliori OS e sopravvivenza libera da progressione (PFS) (51). Inoltre uno studio prospettico
multicentrico spagnolo, sempre su linfomi follicolari sottoposti ad allotrapianto RIC con fludarabina e melfalan, ha mostrato una OS a 4 anni rispettivamente del 71%, 48% e 29% nei pazienti in CR,
risposta parziale (PR) o in progressione (p=.09)
(52).
Nei linfomi aggressivi ed in particolare nei linfomi
a grandi cellule B, uno studio retrospettivo del GITMO, su pazienti ricaduti post autotrapianto, ha
mostrato una migliore efficacia del trapianto allogenico non mieloablativo in termini di OS (p=.001),
DFS (p=.001) e NRM (p=.03) (53).
FIGURA 6 - Numero trapianti allogenici per tipo
di donatore.
n DONATORI ALTERNATIVI:
MUD VS CB VS APLO
Solo un paziente su 3 possiede un donatore familiare HLA identico, pertanto altre strategie devono essere ricercate per i pazienti che non possiedono un fratello compatibile e che beneficerebbero della procedura trapiantologica. Al momento vi
sono tre opzioni per tali pazienti: la ricerca di un
donatore volontario compatibile (MUD), la ricerca di una o più unità di sangue cordonale (CB)
ed il trapianto familiare parzialmente compatibile
o aploidentico (APLO).
La scelta di una di queste tre opzioni deve essere fatta dal clinico in base ai pro e i contro ed in
base al tipo ed alla fase della patologia del paziente. Molto rilevante nella scelta è il tempo per identificare il donatore ed eseguire il trapianto che con
il donatore non familiare è in media di 3.5 mesi
mentre per un’unità cordonale è di 1.5 mesi; per
quanto poi riguarda il trapianto aploidentico i tempi sono paragonabili a quelli per eseguire un trapianto da fratello HLA compatibile. Visto che la fase
di malattia risulta essere uno dei fattori prognostici più importanti per l’esito del trapianto, per i
pazienti con patologie aggressive, il fattore tempo gioca un ruolo molto importante nella scelta del
donatore. In figura 6 sono riportati i trapianti eseguiti in Italia per tipo di donatore. Attualmente il
GITMO TrapiantoAllogenico
100
Tipo di trapianto
90
80
HLA id. sib.
Consanguineo
Unrelated donor
% Trapianti
70
60
50
40
30
20
10
0
<1995
1995-1999
2000-2004
Anni
2005-2009
71
Seminari di Ematologia Oncologica
Registro GITMO 2010
Attività Trapiantologica Allogenica
800
700
600
Numero trapianti
72
500
400
300
200
100
0
1995 1996 1997 1998
1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
IS
419
447
458
506
532
634
657
685
672
690
682
696
716
634
594
MUD+CB
58
93
159
152
205
255
242
268
336
398
454
508
515
650
659
FIGURA 7 - Numero trapianti per anno: IS vs MUD/CB.
numero dei trapianti da donatore non familiare
insieme a quello da cordone ha superato il numero dei trapianti da donatore familiare HLA identico (Figura 7).
Donatore non familiare
Dalla conoscenza più approfondita del genoma
umano e quindi dalla possibilità di tipizzazione e
dalla creazione di registri internazionali, il trapianto MUD è entrato a far parte della pratica clinica.
Numerosi studi hanno riportato risultati sovrapponibili con trapianti da donatore rispetto a trapianti da fratello (54-56); tuttavia tale tipo di trapianto
è correlato ad un’aumentata incidenza di GVHD
acuta e cronica. Tale dato si riflette in un aumento della NRM (57). Uno studio sugli effetti a lungo termine ha riportato sopravvivenze simili a 12
anni tra pazienti sottoposti a trapianto da fratello
HLA identico e da donatore non familiare (77% vs
67%; p=0.1); l’incidenza di GVHD cronica estesa
(p<0.002), cataratta (p<0.02) e necrosi ossea
(p<0.02) era più elevata nei pazienti sottoposti a
trapianto da donatore non familiare (57). Non vi è
però evidenza che alla GVHD sia correlato un
effetto GVM. (58, 59).
Studi recenti hanno mostrato come l’esito del trapianto sia fortemente influenzato dalla compatibilità: uno studio del National Marrow Donor
Program (NMDP) ha valutato le tipizzazioni donatore-ricevente per HLA A, B, C, DRB1, DQB1,
DQA1, DPB1 e DPA1. La compatibilità per i loci
A, B, C e DRB1 costituiva il livello minimo di compatibilità associato alla massima sopravvivenza;
un singolo mismatch su uno di questi loci era associato ad una più elevata mortalità (p<.001) e la
sopravvivenza ad un anno era del 43% vs il 52%
nei 7/8 compatibili e 8/8 compatibili rispettivamente. Inoltre i mismatch sui loci B e C risultavano
meglio tollerati che sui loci A e DRB1 (60). Un altro
studio del GITMO e del Registro Italiano Donatori
Midollo Osseo (IBMDR) ha confermato tali osservazioni, mostrando come migliori risultati in termi-
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
Allo - trapianti da Cord Blood eseguiti in ITALIA
80
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70
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26
20
Numero TX
50
FIGURA 8 - Numero trapianti CB per età.
ni di sopravvivenza si abbiano in trapianti con compatibilità 10/10 (63%) rispetto a 9/10 (54%) in
pazienti in fase precoce di malattia (61).
Sangue cordonale
Il trapianto di CB è stato inizialmente utilizzato in
campo pediatrico; solo negli ultimi anni l’utilizzo di
tale sorgente è andato via via crescendo negli
adulti (Figura 8). Il numero di trapianti da cellule
staminali cordonali riportati da Eurocord, eseguiti dal 1988 al Marzo 2010, è di 6756, di cui il 42%
in adulti. Il sangue cordonale ha sicuramente dei
vantaggi: è veloce da reperire, non comporta rischi
per il donatore, sottopone a minori rischi infettivi,
e porta ad una minor incidenza e severità di GVHD
acuta e cronica rispetto a quella attesa utilizzando un donatore non familiare con un simile grado di disparità HLA, oltre ad essere di particolare utilità per le minoranze etniche (62).
Tuttavia l’utilizzo di tale sorgente negli adulti è stata intrapresa con maggiore cautela per i dati ripor-
tanti un inferiore e più lento attecchimento, dovuto alla minore dose cellulare infusa (63, 64).
Tuttavia nel 2004, due lavori pubblicati
dall’International Bone Marrow Transplant Registry
(IBMTR) e dall’EBMT (65, 66) hanno mostrato l’andamento pressoché uguale di pazienti sottoposti
a trapianto MUD e quelli sottoposti a trapianto da
sangue cordonale. Nello studio dell’EBMT trapianti mismatched da cordone venivano paragonati a
trapianti da donatore HLA 6/6 identico: i risultati
hanno mostrato che nonostante l’attecchimento
fosse ritardato, il trapianto da cordone portava simili risultati per quanto riguardo NRM e DFS. Lo studio dell’IBMTR invece paragonava trapianti da cordone con trapianti da donatore matched e
mismatched: i trapianti CB erano sovrapponibili ai
trapianti da donatore mismatched per quanto
riguarda NRM e DFS. Pochi anni dopo Takahashi
et al. (67) portavano migliori risultati con trapianto da cordone che con trapianto da donatore parzialmente compatibile. La metanalisi di Hwang (68),
73
74
Seminari di Ematologia Oncologica
eseguita su 161 bambini e 316 adulti sottoposti a
trapianto da cordone (1-2 mismatched) e su 316
bambini e 996 adulti sottoposti a trapianto da donatore non familiare HLA identico, ha confermato nei
trapianti CB un più lento attecchimento, minore
GVHD con però simile incidenza di ricaduta ed
equivalenti sopravvivenze.
Nell’adulto, il maggior limite del trapianto CB risiede nel trovare un’unità con una dose cellulare sufficiente; per cercare di ridurre il tempo di attecchimento e migliorare pertanto i risultati, sono stati
sviluppate nuove tecniche come l’utilizzo di doppio cordone, condizionamenti non mieloablativi,
infusione intramidollare del sangue cordonale ed
infine l’espansione ex-vivo (69).
Nel 2003, il gruppo del Minnesota ha eseguito uno
studio in cui venivano utilizzate 2 unità cordonali, se il numero di cellule in una sola unità non era
sufficiente per il paziente: l’infusione di un doppio
cordone aumentava la percentuale di attecchimento, dava più GVHD e mostrava minor incidenza di
ricadute. Tale studio mostrava come nei pazienti
trapiantati con doppio cordone, il 76% a + 30 giorni dal trapianto ed il 100% a 100 giorni mostravano l’attecchimento di un cordone singolo (70).
Nessuna caratteristica del cordone sembrava correlare con la predominanza del cordone stesso
(71). Sulla scia di questi risultati, il numero dei trapianti con doppio cordone è drammaticamente
aumentato.
Così come per i trapianti da donatore familiare e
da donatore volontario, anche nell’ambito del trapianto CB, vi è stato negli ultimi 10 anni un progressivo incremento del condizionamento non-mieloablativo e ad intensità ridotta. Sempre il gruppo
del Minnesota, ha riportato risultati incoraggianti con
un condizionamento non mieloablativo, che consisteva di fludarabina, ciclofosfamide e TBI 200cGy
RACCOMANDAZIONI SU HLA E DOSE CELLULARE
1) CB 6/6 o 5/6: mismatches su -A o -B sono preferibili ad mismatches su -DRB1
(anche se quest’ultimo potrebbe favorire GVL in pz non in RC)
Patologie neoplastiche
- TNC al congelamento minimo 2.5-3 x 107/kg
- TNC dopo scongelamento: minimo 1.2-2.5 x 107/kg
- CD34 al congelamento o dopo scongelamento: 1.2-1.7 x 105/kg
- CFU: valore e tecnica utilizzata
Patologie non neoplastiche
- Stessa dose di TNC e CD34, evitare mismatches su DRB1
2) CB 4/6: mismatches su -A o -B sono preferibili ad mismatches su -DRB1
(anche se quest’ultimo potrebbe favorire GVL in pz non in RC)
Patologie neoplastiche
- TNC al congelamento minimo 3.5 x 107/kg
- TNC dopo scongelamento : minimo 3 x 107/kg
- CD34 al congelamento o dopo scongelamento: >1.7 x 105/kg
- CFU: valore e tecnica utilizzata
Patologie non neoplastiche
- TNC al congelamento minimo 4-5 x 107/kg
- TNC dopo scongelamento: minimo 3.5 x 107/kg
- CD34 al congelamento o dopo scongelamento: >2-2.5 x 105/kg
- CFU: valore e tecnica utilizzata
3) CB 3/6: dovrebbe essere evitato, da utilizzare in casi estremi di patologie
neoplastiche con dose cellulare elevata
FIGURA 9 - Algoritmo per scelta
di unità cordonale (75).
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
in singola frazione. Questo studio ha mostrato una
percentuale di attecchimento dei neutrofili del 92%
a 12 giorni, e 22% e 23% di incidenza di GVHD
acuta e cronica; NRM, OS e sopravvivenza libera
da eventi (EFS) a 3 anni rispettivamente di 26%,
45% e 38%. Tali condizionamenti hanno permesso l’estensione di tale procedura anche a pazienti più anziani e con comorbilità (72).
Un altro metodo per abbreviare il tempo di attecchimento è quello della infusione intramidollare del
sangue cordonale: Frassoni (73), in uno studio di
fase I/II ha dimostrato la fattibilità della metodica
e ha riportato brevi tempi di attecchimento di neutrofili (26 gg) e piastrine (36 gg) con bassa incidenza di GVHD.
Infine, l’espansione delle cellule staminali da sangue cordonale è una metodica che è in via di sperimentazione, utilizzando diversi mezzi di coltura,
contenenti citochine e fattori di crescita. Gli studi
clinici effettuati fino ad ora, sono stati effettuati reinfondendo le cellule espanse insieme a cellule non
manipolate. Al momento tale tecnica si è dimostrata sicura ma vi è bisogno di ulteriori studi per determinare se vi sia un vantaggio nel ridurre la mortalità post trapianto (74).
Pertanto ad oggi, alcuni dati devono guidare la
scelta di un’unità cordonale: in primo luogo la cellularità, e quindi la disparità HLA. La cellularità non
deve essere inferiore a 2-2.5x107TNC/Kg e sono
da preferire unità cordonali con meno di 2 disparità HLA. Per quanto riguarda i mismatches, sono
da preferire quelli di prima classe. All’aumentare
dei mismatches è raccomandabile aumentare la
dose cellulare infusa. Altri fattori da considerare
sono il numero delle CD34+ (1.2-1.7x105
CD34+/kg) e il numero delle CFU-GM (75)
(Figura 9).
Donatore aploidentico
Il trapianto APLO è un trattamento alternativo per
pazienti con leucemie ad alto rischio che non possiedono un donatore HLA identico. Tale trapianto
ha come attrattiva l’immediata disponibilità di più
di un donatore per ogni paziente. Inoltre, è stato
osservato un ruolo dell’alloreattività delle cellule
natural killer (NK) nel ridurre il rischio di ricaduta
nelle leucemie mieloidi acute. La disponibilità di
più potenziali donatori, rende possibile ottimizzare il trapianto attraverso una attenta scelta del
donatore per età, sesso, sierologia e alloreattività NK (76, 77). Il vantaggio di questo tipo di trapianto sta anche nel fatto che possono essere
immediatamente disponibili terapie cellulari derivate dal donatore e, nel caso di rigetto, è possibile una nuova donazione.
Tale tipologia di trapianto è nata circa 20 anni fa
ed è eseguita in differenti centri con metodiche
diverse: condizionamenti mieloablativi e non,
manipolazione o meno delle cellule staminali. Il
maggior limite tuttavia rimane la ricostituzione
immunologica ed il rischio infettivo. Nonostante i
vari studi siano costituiti da pochi pazienti con
caratteristiche non omogenee, le principali complicanze sono la GVHD nel trapianto aploidentico non manipolato e la lenta ricostituzione immunologica in quello T-depleto (78, 79).
Una revisione dell’EBMT ha analizzato pazienti
affetti da leucemia acuta (173 LAM e 93 LAL) sottoposti a trapianto aploidentico T-depleto. L’85% dei
pazienti era in fase avanzata di malattia.
L’attecchimento era avvenuto nel 91% dei pazienti e la DFS era bassa per i pazienti avanzati con
una sopravvivenza a 2 anni inferiore al 10%. Tali
dati indicano come questo tipo di trapianto possa costituire una opzione trapiantologica non in
fase avanzata (80).
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