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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – TERZA SEZIONE CIVILE
SENTENZA 16 dicembre 2014, n. 26365
La Suprema Corte e l’abuso del diritto
A cura di PIETRO ALGIERI
Sommario: 1.Premessa. -2.I fatti di causa. -3.L’abuso del diritto. -4.La decisione della
Cassazione.
1. Premessa
La sentenza oggetto del nostro studio affronta il tema del ’ recesso ad nutum” quale modalità di
esplicazione dell’“abuso del diritto”.
Lungi dal nostro raggio di studio una esposizione delle varie sfaccettature di tale istituto, ci
soffermeremo, delineando seppure brevemente i connotati tipici dell’istituto “de quo”, e
sull’ammissibilità del cosiddetto “recesso ad nutum” nei contratti di durata.
Invero è opportuno sottolinearlo fin da ora, che la sentenza in commento più che affrontare il
delicato tema dell’esercizio del “recesso ad nutum”, si sofferma sull’obbligo di motivazione che
incombe sul giudice di merito qualora si trovi a sindacare l’esercizio del potere di scioglimento
unilaterale di una delle parti del contratto.
Chiarito ciò, giova ricostruire i fatti di causa.
2. I fatti di causa
Nel lontano 1993 una nota casa automobilistica stipulava con un’azienda un contratto per
l’importazione e la distribuzione nel nostro Paese di veicoli e ricambi della suddetta azienda
automobilistica. In forza di ciò, l’azienda di importazione, a sua volta, concludeva con ben trentotto
concessionarie, singoli di contratti di concessione per la vendita dei suddetti veicoli.
Tuttavia nel 1999, la casa automobilistica costituiva in Italia una società sussidiaria finalizzata alla
vendita delle automobili su tutto il territorio della nostra penisola, venendo meno, quindi, l’interesse
alla prosecuzione del contratto con la società di importazione delle proprie automobili e, pertanto,
recedeva dal contratto che a suo tempo aveva concluso con essa.
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Dal canto proprio, la società da ultimo citata, formalizzava nei confronti dei trentotto concessionari
la cessazione immediata del contratto di concessione di vendita, rendendoli, tuttavia, edotti che la
casa automobilistica si impegnava di proporre nei loro confronti un contratto di concessione di
vendita ex novo.
I suddetti concessionari, però, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale ex. art. 1322 c.c., non
accettavano l’offerta contrattuale della casa automobilistica.
Ciò, induceva quest’ultima a citare in giudizio sia la società di importazione che i singoli
concessionari, adducendo una pluralità di motivi a sostegno della propria difesa.
In particolar modo, l’azienda attrice chiedeva:
a) accertare e dichiarare l’illegittimità da parte dei resistenti dell’uso dei segni distintivi,
marchi, denominazioni e “Know-how”;
b) accertare e dichiarare la risoluzione del contratto per mutuo consenso tra la casa
automobilistica e la società di importazione, e inoltre che si era verificata la condizione
risolutiva prevista dall’art. 1.5. lett. a) del contratto di concessione tra la società da ultimo
citata e i singoli concessionari; infine che la società automobilistica, ricorrente, aveva offerto
ai concessionari la stipulazione di un nuovo contratto, rifiutato da questi ultimi;
c) infine, chiedeva il risarcimento del danno.
La società d’importazione, dal canto suo, chiedeva l’accoglimento della domanda di accertamento
di avvenuta risoluzione del contratto.
Mentre le altre parti convenute, (le altre concessionarie) evidenziavano come la clausola
contrattuale di cui all’art. 111.1.5. lett. a) del contratto di concessione di vendita era illegittimo, in
quanto violava l’art. 5del regolamento CEE 1475/95.
Il giudice di prime cure (Tribunale di Torino) nell’esercizio della sua attività giurisdizionale
dichiarava da un lato l’insussistenza del diritto della concessionaria convenuta ad utilizzare i marchi
e segni distintivi, e dall’altro lato asseriva che si era verificata la condizione risolutiva di cui all’art.
111.1.5. lett. a) del contratto di concessione di vendita.
Avverso la sentenza del giudice di primo grado veniva proposto appello innanzi alla Corte d’appello
di Torino.
L’adita Corte, accoglieva l’appello principale e in particolar modo statuiva che: “la clausola di cui
all’art. 111.1.5. lett. a) del contratto di concessione di vendita solo formalmente era classificata
cessazione immediata del contratto ma in realtà il contenuto è quello di un recesso senza preavviso,
ritenuto inefficacia perché contrario alla norma imperativa di cui all’art. 5 del Regolamento CEE
1475/95 e, con riferimento al nostro ordinamento, contrario alla clausola generale di buona fede
ex. art. 1175 c.c.”
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Prima di addentrarci nella disamina della massima esternata dall’Supremo Consesso di Giustizia
Civile, giova ribadire che il “thema decidendum” della controversia de qua è ristretto ai soli rapporti
giuridici intercorrenti tra la società di importazioni della automobili e le singole concessionarie.
Chiarito ciò, è opportuno sottolineare come la difesa della ricorrente, sebbene presentava
argomentazioni giuridiche particolarmente motivate e pregnanti, si distingueva per la proposizione
di quesiti giuridici protesi alla risoluzione della “quaestio iuris”
Ebbene, tra gli interrogativi posti al Collegio giudicante, carattere di priorità logica assumeva il
seguente quesito di diritto” dica la Corte se la clausola contrattuale 1.5. assunta come difforme alle
previsioni del regolamento comunitario n. 1475/95 ed in particolare assunta come difforme
dall’art. 5 paragrafo 2 dello stesso Regolamento, poteva legittimamente essere dichiarata nulla o
inefficace in ragione, meramente, di tale sua difformità da tale fonte normativa, ovvero se questa
difformità aveva come conseguenza la perdita del beneficio dell’esenzione dal rispetto dell’art. 81
del Trattato dell’Unione Europea, il quale, colpisce di nullità e/o inefficacia le clausole contrattuali
non solo perché difformi dal regolamento di esecuzione di volta in volta applicabile, ma perché a
tale difformità abbia fatto seguito, in termini casualmente efficiente, una sensibile alterazione tra
Stati Membri”
L’interrogativo sopra esposto veniva prospettato, in quanto, secondo le deduzioni della difesa della
ricorrente, la Corte territoriale di Torino aveva mal interpretato l’art. 5 del Regolamento CEE
1475/95 con riferimento alla clausola contrattuale più volte citata, la cui nullità e/o inefficacia
rispetto ai principi scolpiti nell’art. 81 del Trattato Ue per alterazione della concorrenza del mercato,
andava, necessariamente accertata in concreto.
Le argomentazioni sopra esposte, a sommesso parere dello scrivente, devono essere integrate con
quelle di cui al n.° 3 del ricorso innanzi al Giudice della nomofilachia, che concerneva la violazione
degli artt. 1373 e 1375 e si basava sul seguente principio di diritto:” se non rientri nell’autonomia
contrattuale ex. art. 1322 c.c. il potere di eliminare del tutto il termine di preavviso di recesso di
uno dei contraenti.”
Ricostruita nei termini che precedono la
questione giuridica affrontata dai Giudici di Piazza
Cavour, ai fini di un quadro il più esaustivo possibile, giova soffermarsi, seppur brevemente e senza
pretese di esaustività, sull’istituto dell’abuso del diritto.
3. L’abuso del diritto
Nella cultura giuridica italiana, l’interesse per la figura dell’abuso del diritto è emerso
sporadicamente in alcuni momenti della storia della nostra cultura giuridica, destando adesioni
entusiaste e critiche anche aspre, per poi vivere momenti di oblio.
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Il problema principale – com’è noto – è che in Italia la nozione di abuso del diritto non è mai stata
codificata né tantomeno siglata a livello costituzionale, a differenza di quanto avvenuto sia in
Francia sia in Spagna
Sennonché l’assenza di una definizione normativa, è stata colmata dal ruolo della giurisprudenza
della Corte di Cassazione che ne ha dettato i connotati.
La figura dell’abuso del diritto si concretizza nell’esercizio di un diritto che, in astratto, spetta
effettivamente a colui che lo esercita o lo rivendica ma che, in concreto, non comporta alcun
vantaggio apprezzabile e degno di tutela giuridica a favore di tale soggetto. Pone in essere, al
contrario, un conseguente danno a carico di un’altra parte giuridica. Tale situazione, tecnicamente
chiamata “divieto di abuso del diritto”, presenta molteplici analogie con i rimedio dell’exceptio doli
generalis1, che riduce le ipotesi applicative alla sussistenza dell’intenzionalità del comportamento,
intesa come conoscenza delle conseguenze del proprio agire o dell’antigiuridicità dell’atto.
Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, quali risultano da una rilevazione degli usi dottrinali e
giurisprudenziali dell’espressione 2, sono i seguenti:
a) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto;
b) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto sia effettuato secondo una pluralità di
modalità non rigidamente predeterminate;
c) la circostanza che in un caso concreto l’esercizio del diritto, anche se formalmente rispettoso
della cornice legale attributiva di quel diritto, si sia svolto secondo modalità che risultano
censurabili («aberranti», «deprecabili», «abnormi», ecc.) rispetto ad un certo criterio di
valutazione, giuridico o extragiuridico;
d) la circostanza che, a causa del fatto che il diritto è stato esercitato secondo modalità
censurabili, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto
e il sacrificio ricadente su una qualche «controparte».
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea
l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi
ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. L’abuso del diritto, in sostanza, risulta
quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio,
si alteri la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale,
eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri,
diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con
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Exceptio doli generalis è un rimedio che non mira ad ottenere una dichiarazione di inefficacia, né
la condanna ad un risarcimento del danno, ma l'estinzione o la reiezione della pretesa altrui, in
quanto manifestazione dolosa dell'esercizio di un diritto su cui la pretesa si fonda
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Cass. civ. n.° 20106 del 2009
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comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la
finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti
connessi - attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la
funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo
nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Con la previsione di tale istituto, per come sopra descritto la giurisprudenza ha dato seguito a quella
nuova lettura del principio di correttezza e buona fede, il quale «richiama nella sfera del creditore
la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo
all'interesse del creditore», deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di
solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione. Tale dovere – operando come un criterio di
reciprocità – esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il
dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici
obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge e dal dovere
extracontrattuale del “neminem laedere”(v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481;
Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n.
10838).
In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone
generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione
dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i
poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Conclusa, pertanto, questa imprescindibile e sommaria ricostruzione dell’istituto dell’abuso del
diritto, bisogna esporre, senza pretese di esaustività, la tematica del recesso “ab nutum” che
l’orientamento ormai dominante in seno alla giurisprudenza 3 inquadra nell’ambito di applicabilità
dell’ “abuso del diritto”, considerata in congiunzione con un altrettanto generale “principio” di
buona fede contrattuale.
Il potere di recesso convenzionale ad nutum, è fondato sul mero ripensamento della convenienza
economica del contratto. Si è ritenuto, a tal proposito, che non possa darsi, secondo la disciplina
positiva, un potere di recesso del tutto svincolato da un interesse (diverso dal mero “ripensamento”)
e che la clausola che eventualmente lo prevedesse sarebbe nulla e lascerebbe, per il resto, in vita il
contratto. Tale conclusione si fonderebbe sul disfavore mostrato dal legislatore, all’art. 1355 cod.
civ., verso l’esposizione di una parte al mero arbitrio dell’altra e sull’assenza di giustificazione
causale (intesa nel senso di mancanza di un interesse apprezzabile) della clausola contrattuale che
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Cass 2009, N. 20106. Cit.
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attribuisse un tale potere. Proprio la considerazione della causa quale elemento necessario (ma
anche sufficiente, entro i limiti della liceità) per il recepimento, da parte dell’ordinamento, degli
effetti contrattuali voluti dalle parti induce invece ad impostare diversamente la questione ed a
giungere alla conclusione opposta.
Si ritiene, pertanto che la validità della clausola di ripensamento della convenienza del contratto,
non trovi il proprio fondamento nell’ “arbitrio” della parte cui sia rimessa la scelta sul perdurare dei
propri obblighi a determinare di per sé l’invalidità della relativa pattuizione, ma il problema della
causa deve porsi, più correttamente, non rispetto alla clausola che attribuisce il diritto di recesso,
quanto rispetto alla obbligazione della controparte di colui che rimane libero di recedere. La
questione cioè impone di individuare la giustificazione causale di una obbligazione ricompensata
soltanto da un vincolo di controparte risolubile ad nutum, mentre per le prestazioni già eseguite
prima dell’efficacia del recesso deve considerarsi pacifico l’obbligo di controparte al pagamento del
relativo corrispettivo. Il permanere del vincolo a carico della parte esposta all’altrui potere di
recesso ad nutum si giustifica proprio perché tale vincolo consente all’obbligato di conseguire in
cambio (non l’obbligo di controparte ma) un chance di prosecuzione del rapporto che dipende anche
dal modo in cui egli riuscirà a dimostrare a controparte le proprie abilità di partner contrattuale.
Proprio la previsione del potere di recesso a vantaggio di una parte incentiva l’altra ad eseguire al
meglio la propria prestazione contrattuale, realizzando così uno scambio più redditizio per entrambi
e ciò rende immediatamente evidente l’interesse (che tuttavia non può definirsi se non come
interesse al “ripensamento”) cui tale pattuizione risponde dal punto di vista del titolare del potere di
recesso n assenza di particolari condizioni di “debolezza”, che fondino speciali ragioni di protezione
della parte esposta al potere di recesso ad nutum, deve ritenersi che essa abbia attribuito a tale
chance un valore maggiore del costo che l’obbligazione contrattuale le impone. Il che vale quanto
dire che essa avrà valutato la convenienza del contratto scontando dal valore della controprestazione
che è destinata a ricevere il costo del rischio derivante dal potere di recesso di controparte (che
incide soprattutto sulla possibilità di ammortizzare gli investimenti eseguiti) e che perciò essa avrà
richiesto un corrispettivo tale da compensarla anche di questo rischio.
Queste considerazioni inducono a considerare pienamente valida e rispondente ad una ben chiara
funzione economica (che comprende costi e benefici per entrambe le parti) la pattuizione che
costituisca il diritto recesso ad nutum fondato sul mero ripensamento soggettivo della convenienza
economica del contratto, senza che residui alcuno spazio per un sindacato giurisdizionale sugli
“interessi” che il singolo atto di recesso in concreto intenda soddisfare. Ciò tuttavia non esclude
affatto, anzi rende pienamente giustificato, data la complementarietà tra funzione economica del
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recesso e funzione economica degli investimenti, che si dia un controllo di tipo “procedimentale”
sulle modalità secondo le quali il recesso sia in concreto esercitato.
Tale controllo giurisdizionale trova la propria ragion’essere, come anticipato nelle righe che
precedono sul divieto di abuso e della buona fede contrattuale.
4. La sentenza della Cassazione
Giunti a questo punto della trattazione, passiamo al commento della sentenza resa dai Supremi
Giudici di Piazza Cavour.
Orbene il Collegio giudicante più che esporre un principio di diritto sul versante sostanziale,
prendeva posizione sul compito, particolarmente arduo che spetta al giudice di merito.
In particolar modo, i giudici statuivano che:” la Corte Territoriale, nell’esercizio del potere, ad essa
riservato, di interpretazione contrattuale, non ha fornito, tuttavia, una motivazione adeguatae
sufficiente circa la portata complessiva delle anzidette clausole negoziali, la quale tenesse conto
anche del modulato operare dei principi della materia implicata”.
Ad onor del vero, sono sufficienti queste poche e incisive righe nel comprendere la portata della
sentenza oggetto del nostro studio.
Difatti, il collegio valorizzava da un lato il dato sostanziale- concernente le norme applicabili al
caso di specie- e da un lato, spostando il baricentro dell’attenzione sul versante processuale- e in
particolar modo sull’obbligo di motivazione che spetta all’autorità giurisdizionale nell’espletamento
della sua attività esegetica.
L’innegabile esaustività motivazione trova giustificazione nella labile differenza di “modus
operandi” tra recesso e condizione risolutiva che caratterizzava la controversia “de qua”, ove il
primo consiste in una facoltà ancorato ad una libera ed unilaterale dichiarazione di volontà di una
delle parti del contratto di sciogliere il negozio giuridico, al contrario la condizione risolutiva opera
in forza di un evento futuro ed incerto il cui verificarsi comporta, inevitabilmente, lo scioglimento
del rapporto contrattuale con effetti retroattivi decorrenti dalla data di conclusione del contratto,
salvo che per espressa previsione dell’art. 1360 c.c., non sia prevista (rectius: stabilita) una
decorrenza diversa.
Orbene, alla luce del principio di buona fede ex. art. 1375 c.c., alla luce di quanto esposto nelle
righe che precedono, secondo il ragionamento della Cassazione non è adeguatamente supportata dal
combinato richiamo della parificazione degli effetti tra recesso e cessazione immediata del
contratto, con la conseguenza che la mera circostanza che la società d’importazione si era
confermata “alla decisioni della casa madre ma dietro compenso” determinava, con tinte ancor più
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accentuate, l’obbligo per il giudice di merito di dare adeguata motivazione dell’eventuale avvalersi
di un evento condizionante- come la cessazione immediata del contratto per mancanza di interesse –
ex. art. 1360.
Detto altrimenti, considerato che il giudice di prime cure, secondo il ragionamento del Collegio,
equiparava la “cessazione immediata del contratto” ex. art. 111.1.5. lett.a) del contratto di
concessione di vendita ad un “recesso senza preavviso” e perciò contrario alla norma imperativa ex.
art. 5 Regolamento CEE n.°1475/95, tale equiparazione richiedeva una motivazione più incisiva ed
esaustiva che non si doveva basare sul mero riferimento alla clausola generale di buona fede ex. art
1375 c.c., ma che valorizzasse, secondo il sommesso parere dello scrivente, la differenza di
disciplina e di effetti tra il recesso e condizione risolutiva, utilizzando quale bussola orientativa il
più volte citato principio di buona fede oggettiva ex. art. 1375 c.c. e interpretato alla luce della
clausola di solidarietà ex. art. 2 Cost.
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