Roberto Minardi, “poeta allo sterno”
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Roberto Minardi, “poeta allo sterno”
Roberto Minardi, “poeta allo sterno” Roberto Minardi, classe ‘77, è nato a Ragusa, ma da nove anni vive e lavora a Londra. All’amore per l’inglese, e per la metropoli londinese che “ti offre di tutto e di più”, si aggiunge quello per una ragazza panamense, e quindi una lunga permanenza a Panama, nel 2005, dove trova stimoli per la scrittura in una dimensione di concentrazione e solitudine. Né va taciuta l’amicizia con vari poeti locali, sfociata nella traduzione di loro sillogi e nella pubblicazione di un primo libretto di poesie in versione bilingue. Questa biografia ripartita in tre poli – il profondo sud siciliano, la realtà londinese e l’America Latina – è ben presente in molte sue poesie. Poesie che non puntano a folgorare il lettore, ma con le quali chi scrive si trasmette senza riserve. È stato quindi un grande piacere per me scoprire che Roberto è così anche fuori dai versi, essendoci conosciuti un po’ meglio via mail. Questi suoi versi “sia la foglia che cade in autunno/o il rigoglio del mio pene//traduco/(con poca punteggiatura)/ ciò che respiro/e non so spiegare” (semplice) possono essere uno dei possibili punti di partenza per tracciare la sua poetica. Ho evitato di chiamarli “dichiarazione di poetica”, in quanto non sono programmatici di un modo di scrivere (e di essere), ma lo seguono fedelmente; e il lettore potrà rendersi conto della loro verità alla luce della lettura delle altre poesie. La dichiarazione può essere, tutt’al più, “un poco folle”, come si legge nella raccolta Note dallo sterno (ed. ArchiLibri, 2007), peraltro generosa di autoritratti che rifuggono il compiacimento nell’abbassare il presunto status del poeta (sono un artista o un gallo?) e il mito dell’opera che sopravvive al suo autore (po e sie); altre volte prevalgono toni idilliaci (“Ho imparato a succhiare dal cielo/ – sdraiato – / carezzando col piede la luna”, La lumaca) o di vitalismo romantico (parole). Nella sezione omonima di Note dallo sterno la brevissima Nota all’origine recita così: “scrivo da un posto dove non vivo più/rispolvero appunti dell’esserci/poeta allo sterno”; lo sterno è centro del petto, quindi dell’amore come del respiro. In queste poesie, dalla versificazione sospesa e con qualche intonazione (occasionale assenza di articolo, qualche vocativo, alcune inflessioni di svagato ermetismo) che sparirà dalle poesie più recenti si avvertono già, contrapposti alla rarefazione, quegli elementi del quotidiano che irromperanno poi sempre di più: il “calzino maleodorante” di 8 ore al giorno ne è un chiaro indizio. La seconda sezione è percorsa dall’elemento erotico, a volte sublimato in immagini oniriche (“l’incontro fra stella di miele rosa/e mani impunite//tutto brucia quando penso a te”, le cose ci ingannano). La terza, per quanto provi ad esser mio, mi sfuggo, comprende invece le metapoesie da cui ho iniziato il discorso. In Zolle dal grembo dell’universo, la quarta e a mio avviso miglior sezione, prevale lo sguardo sull’esterno, prima sui genitori (il tono di triste dolcezza di ma’: “i suoi pensieri alla finestra/sono la poesia forte/del terremoto amore/figlio per figlio, rinunciandosi”, e la durissima pa’, dove passione per la caccia e rapporto con la famiglia si coagulano nell’intensa chiusa “il suo volerci deliziare/dopo varie pallottole”) poi sulla realtà londinese (park (Londra): “inverno/le scarpe e l’orlo dei pantaloni/frequentano il sesso del fango […] il freddo insegue le sue mete/ed io mi scordo del freddo”) e su persone incontrate in America Latina. Tema quest’ultimo che, per stessa ammissione dell’autore, trova più giusto spazio e coerenza nella già citata con la testa per aria e senza coltellini in tasca, che infatti ne riprende alcune poesie (Ometepe, piedreros). Qui è evidente l’evoluzione dello stile, che cerca concretezza antiretorica ed estrema sobrietà, col rifiuto di ogni altezza lirica post-simbolista, come nelle pavesiane Ometepe e ragazzini, lunghe poesie narrative: in particolare la prima può leggersi come resoconto di un viaggio in quell’isola, con la consapevolezza che si è “solo turista”; nonostante ciò, la poesia riesce a restituirci l’atmosfera del luogo grazie alla capacità di descrizione e ascolto del poeta. In chirriscos, peones, hormigas la descrizione – sempre scevra di retorica, partecipata ma senza sentimentalismi – riduce la presenza dell’io poetico a mero osservatore e traduttore di una realtà empiricamente esperita. Nella sezione Il mare spinge verso riva ci sono i testi più recenti, che uniscono alla concretezza dei precedenti una sintesi e compiutezza rimarchevoli; la sezione inizia con uno sguardo profondo sul lavoro e la socialità: “ed io, bacucco come gli altri/rispetto i mocassini che indosso” (l’uomo nobilita il lavoro) per concludersi in un ritorno dell’io, ora a contatto con una natura da ascoltare più che da cantare (il grillo, dal ramo, c’è una volpe) ora in un nuovo autoritratto, come nella splendida poesia che dà il titolo alla raccolta e che vi propongo per intero. Con la testa per aria e senza coltellini in tasca Sono tanto cresciuto dai tempi delle preghiere scaramantiche a un’icona cattolica e languida, e le mie mani sono più grandi. Ora, del resto, di ciò che circonda, può darsi che un canto pervada le ossa e la lingua. Fuori dal villaggio, ho messo sottosopra tutto e non ho messo niente sottosopra. Quando la narrativa non è sanguigna rimango a mordere il sipario come l’attore squilibrato alla fine dell’atto. E tanto per guarire torno a smarrire lo sguardo per aria, senza farne parola a nessuno. Pubblicato su «Caleidoscopio», n. 7, febbraio 2008 © Davide Castiglione