Frontiere N. 2 - Shanthi

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Frontiere N. 2 - Shanthi
Anno VII N. 2/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I.
Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c
Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale
di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000
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2008
CHI SIAMO
EDITORIALE
“Mappamondi.
Viaggi e percorsi di carta”
MILLE E UNA NOTTE
Le Vie dei Venti
Racconti di malati di viaggi
Introduzione
“Verde mare di Mongolia”
Kalmykia: Europa o Asia?
Vietnam: il Delta del Mekong
“L’enigma del mare lombardo”:
un libro di Marco Bono
e Maurizio Mosca
L’ANIMA DEL VIAGGIATORE
Club Magellano
Viaggiare missionario
tra i Dinka
DOSSIER
Argonauti Explorers
Mongolia
Mongolia: appunti di viaggio
Un naturalista
nel “Cuore dell’Asia”
“La luna mangia un pezzo di sole
sui Monti Altai”
Tsaatan: Il popolo
degli uomini renna
ITINERARI INSOLITI
Argonauti Explorers
Obiettivo Amazzonia
RACCONTI PER IMMAGINI
Argonauti Explorers
I popoli della Cina meridionale
viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini
FRONTIERE
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ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano
Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo
spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza
direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per
questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati.
www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911
CLUB MAGELLANO - Torino
Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza?
Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel
Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia.
Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina)
ITINERARI AFRICANI - Cuneo
L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché
è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse
iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un
continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania.
Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721
LE VIE DEI VENTI - Varese
L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al
fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore
per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti.
www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente)
MULA MULA - Pontoglio (Bs)
Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come
portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel.
Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected]
OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale
L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come
occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con
il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non
ha perso di vista la filosofia dell’Associazione.
E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli)
SOMMARIO
Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’anima del viaggiatore – Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dossier: Mongolia - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Itinerari insoliti: Obiettivo Amazzonia - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi - I popoli della Cina meridionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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In copertina: Mongolia: Scena di vita degli Tsaatan, gli uomini renna - Enzo Siragusa (Milano)
All’interno foto di: Renato Civitico, Gianluca Torrente, Giovanni Barbieri, Francesco De Ruschi, Marco Di Marco, Alessandro Cereda,
Enzo Siragusa, Roberto Pattarin, Marco Pierli, Marina Buratti, Baldo Sansò, Sergio Pucci.
F
RONTIERE
Editoriale
“Mappamondi. Viaggi e percorsi di carta”
di Renato Civitico
In questo periodo dell’anno, mentre le giornate si stanno accorciando e le temperature iniziano ad abbassarsi, parte dei nostri
pensieri è rivolto a riflessioni e meditazioni. Come marinai in
rada rimaniamo fermi a tessere nuove vele, in attesa di salpare verso nuove avventure. Adesso è importante dedicare un
momento alla riflessione e questa condizione statica ci aiuta a
meditare su vecchi e nuovi progetti. Personalmente, in questo
periodo dell’anno sono attratto
dalla lettura e sovente mi fermo
in libreria a cercare nuove pubblicazioni su diversi paesi o percorsi. Sono i mappamondi mancanti,
inusuali e instabili che scelgo di
percorrere con la mente, perché
illuminati di naturale ebbrezza.
Leggendo di un luogo e dei suoi
elementi mi capita poi di approfondire le ricerche, smarrito tra
le rotte del web, dove ormai tutti
questi mondi si mescolano e si
avvicendano senza posa: le sabbie del deserto, i colori dei mari
del sud, le rocce del Caucaso o le
piramidi dell’Egitto, e se poi mi
soffermo a pensare sul tempo e
sullo spazio che ho trascorso, scopro che il viaggio, qualunque
esso sia è sempre una dimensione accattivante.
“Viaggiando sento che sta accadendo qualcosa d’importante,
che sto partecipando ad un evento di cui sarò allo stesso tempo
testimone e creatore, che adempio ad un dovere, che sono responsabile di qualcosa”, scrive Kapuszinski, e subito sottolinea
Roberto Mussapi, “solo il ritorno consente racconto, memoria,
narrazione”. Ed è il “viaggio di carta” a prendere corpo, attraverso le parole di esploratori e avventurieri, poeti e giornalisti,
scrittori e fuggiaschi, tutti protesi verso un altrove da vivere e
scrivere confrontandosi col mito e la cronaca, con disillusioni
e incantamenti. Incontrarli e leggerli rivela segreti e paesaggi
lontani, predispone l’animo alla fantasia e al gusto della scoperta, suggerisce prospettive diverse anche con i sogni. Sì, i nostri sogni che sono spesso inusuali, profondi e senza confini!
La lettura è quindi sempre un viaggio, un tragitto o un passaggio al quale possiamo fingere di aver posto un primo punto
d’arrivo, ma che in realtà è solo
un transito verso lidi sempre più
lontani, ed in questo numero di
Frontiere vi sono tanti luoghi
dove potersi fermare per ripartire. Viaggiamo dalla Russia al
Vietnam passando per la Mongolia, nelle piane alluvionali del
Sud Sudan assistiamo ai riti ancestrali dei Dinka, per poi ritrovare il silenzio della steppa mongola. Arriviamo infine ai grandi
colori dell’Amazzonia.
Approfitto ancora della vostra
pazienza, per ricordare un uomo
ed un viaggiatore che è venuto a
mancare alcune settimane addietro, un autore che ha raccontato
di sé e del mondo attraverso i suoi viaggi in vespa. Nei suoi
libri il lettore è sempre stato accompagnato e collocato sul sellino posteriore del suo scooter, quasi potesse da quella posizione
osservare il paesaggio ai lati della strada, ed anche a me piace
ispirarmi a “quest’essenza” se scrivo di viaggi. Un affettuoso
saluto a quest’uomo che purtroppo ci ha lasciato, così come
a tutti gli altri spiriti irrequieti, nomadi e inarrestabili che noi
tutti siamo.
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Introduzione
di Gianluca Torrente
“Nel cuore dell’Asia si trova la sconfinata, misteriosa e ricca
Mongolia. Dalle pendici innevate dei Tien Shan e dalle sabbie
roventi della Zungaria occidentale ai boscosi contrafforti dei
Monti Saiani e alla grande Muraglia Cinese, essa si estende
su un’enorme porzione dell’Asia centrale. Culla di innumerevoli popoli, storie e leggende; patria di sanguinari conquistatori che vi hanno lasciato le loro capitali coperte ormai dalle
sabbie del Gobi, i loro misteriosi anelli e le antiche leggi dei
nomadi; terra di monaci e di dèmoni maligni, di tribù erranti
amministrate dai Khan, principi discendenti di Gengis Khan e
di Kublai Khan: tale è la Mongolia.”
Coloro che hanno avuto modo di visitare recentemente la
Mongolia, non possono non trovare le parole dello scrittore e
viaggiatore polacco Ferdinand Antoni Ossendowski alquanto
suggestive e veritiere.
Ossendowski visitò la Mongolia all’inizio degli anni venti, in
un periodo certamente difficile per tutta l’Asia Centrale: per
molti mesi dovette affrontare orrori, violenze, fame e malattie
ai limiti della sopravvivenza.
Incontrò due personaggi molto significativi: il barone e generale dell’armata zarista Roman Ungern von Sternberg che proponendosi quale incarnazione di Gengis Khan, tentò di assoggettare sotto il suo potere tutti i territori abitati dai Mongoli e
Luvsan Dambidjantsan o Dja Lama, noto come il “lama vendicatore”, un calmucco russo che cercò di conquistarsi, quale
amico del Dalai Lama, una posizione di grande influenza nel
nuovo Governo della Mongolia.
“Terra di nude montagne, di pianure arroventate dal sole e gelate dal freddo, ove regnano le malattie del bestiame e degli
uomini, la peste, l’antrace e il vaiolo; terra di sorgenti bollenti
e di valichi montani custoditi dai dèmoni, di laghi brulicanti
di pesci; terra di lupi, rare specie di cervi e di mufloni, di milioni di marmotte, cavalli, asini e cammelli selvaggi, animali
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Mongolia: A cavallo nella steppa
Gianluca Torrente (Varese)
tutti che mai han conosciuto la briglia, terra di cani feroci e di
uccelli rapaci che divorano i cadaveri che quel popolo abbandona nelle pianure: tale è la Mongolia.
Patria di genti che stanno scomparendo e guardano biancheggiare al sole le ossa calcinate degli antenati, genti che conquistarono la Cina, il Siam, l’India settentrionale e la Russia,
e i cui petti si scontrarono con le lance di ferro dei cavalieri
polacchi che difendevano allora la Cristianità dall’invasione
della nomade e selvaggia Asia: tale è la Mongolia.
Terra di grandi ricchezze naturali che pure non produce nulla,
ha bisogno di tutto, e pare soffrire di tutti i mali e cataclismi del
mondo: tale è la Mongolia.”
Come risalta da quest’altro brano tratto dal libro “Bestie, uomini, dei” di Ossendowski, viaggiare in Mongolia significa trovarsi in mezzo al nulla delle steppe, dei deserti, delle alte montagne senza fine popolate solo da nomadi con i loro bestiami
di ovini, bovini, equini e cammelli; falchi e aquile che solcano
ovunque i cieli pronti a lanciarsi sui roditori che popolano la
regione; cavalieri che ritti e fieri appaiono silenti ed improvvisi sui loro piccoli cavalli; gher, tiepide oasi di ospitalità per
il viandante, dove i pastori si riuniscono con le loro famiglie;
tombe sparse nella steppa protette da circoli sepolcrali e da statue di pietra di antichi guerrieri.
Queste sono state le mie impressioni di viaggio in quest’unico
Paese, ma sono convinto che dai racconti che sono stati raccolti
in questo numero di Frontiere dedicato alla Mongolia, emergeranno le stesse visioni.
Concludo con una poesia del poeta mongolo D. Natsagdorj:
“Oceano di steppe desolate e deserti di venti,/ Foreste secolari
e alte montagne innevate,/ La Mongolia si offre incontaminata
all’occhio del viaggiatore/ Su questa terra di orizzonti senza
confini,/ Il vento delle pianure si mescola col blu del cielo/ Per
creare delle pitture impressionistiche/ Fuggitivo come la luce
è il passaggio del cavaliere sulla pista,/ Effimera è la stabilità
della yurta nel cuore della collina/ La Mongolia si merita… e
lascia scoprire il suo splendore…/ Piano piano… passo dopo
passo/ Secondo gli incontri e i capricci del suo clima”.
Mongolia: Un insolito gregge
Gianluca Torrente (Varese)
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
“Verde mare
di Mongolia”
testo e foto di Renato Civitico
Un lungo campo da golf, ecco la prima impressione che avverto percorrendo le strade di questo paese. Un campo da
gioco lungo qualche centinaio di chilometri e delimitato ai
lati da verdi colline. Un accanito giocatore potrebbe quasi
perdersi, in uno spazio così immenso, perché vedrebbe solo
un lungo manto dove poter lanciare la sua bianca pallina, ma
oltre questa fitta coltre d’erba c’è ben altro e nei giorni a
seguire lo avrei capito. Durante questi giorni di viaggio ho
voluto prendere a piccole dosi le immense distanze che la
steppa mi concedeva. A parte l’orizzonte ed il cielo blu, la
terra mongola non dona nulla di facilmente visibile, bisogna
osservare attentamente le variazioni di colore e le piccole differenze del territorio prima di lasciarsi trasportare dalle emozioni. Ho viaggiato per giorni interi attraversando immense
pianure, osservando la natura che mi stava attorno, cercando
di capire questo vasto territorio. Per accedere in questo spazio ho dovuto entrare in una nuova dimensione mentale guardando oltre il nulla apparente, imparando a pensare in maniera diversa, una nuova visione dell’insieme senza l’aiuto di
punti di riferimento. Bisogna aprire lo sguardo dove sembra
che non sia presente nulla, e non sempre è facile. Pian piano
ho immaginato che questa terra non fosse altro che acqua, e
così ho iniziato a visualizzare il mio orizzonte come un enorme mare dal colore verde. Ho capito che mi sarei dovuto far
trasportare da questa marea e dalle onde, che qui sono erba e
roccia. No, non sono diventato folle tutto d’un colpo, ho solo
provato a modificare il mio modo di vedere l’orizzonte, cercando di trovare le piccole sfumature di colore e le differenze
della terra tra le pieghe anonime di un paesaggio qualunque.
Una lunga e faticosa ricerca, fatta di apnea e respiro, alito
e asfissia; una nuotata dedita ad osservare tutto il visibile e
non, cercando di apprendere da tutto quel che c’è sopra, sotto
o accanto a me. Questa terra non è un posto che mostra tutto,
bensì un immenso nascondiglio dove tutto è a disposizione
solo di chi vuole fermarsi ad osservare.
Un mare, sì è proprio un mare questa terra, un mare d’erba
dove sto navigando già da qualche ora sopra questo mezzo
meccanico. Sono a bordo come un mozzo in coperta che osserva dall’oblò il lento susseguirsi delle immagini che lentamente mi si presentano dinnanzi. Un costante dondolio percorre
il mezzo su questa strada sterrata, quella che mi avvicina al
porto di destinazione. Un porto d’attracco, un nome sulla cartina e nient’altro, sovente ho dormito anche sulla nuda terra,
sopra un prato di stelle alpine. Sono un marinaio, come tanti
altri, che affronta questa landa desolata. Al mattino tutto è
perfetto, la luce, il cielo ed anche il mio capitano che si prepara ad affrontare una nuova giornata. C’è tutto su questo va-
scello metallico, acqua, cibo e forza motrice, mi manca solo
il vento alle spalle, ma arriverà. Se apro lo sportello dell’auto
e blocco il finestrino con questa piccola bottiglia posso avere
anche questo. Un costante moto d’aria che improvvisamente
arriva sul mio viso. Oggi il mare è calmo e perfetto, splendido! Ora tutto è alla mia vista, le varie colorazioni dell’erba e
le rocce che affiorano dal nulla, i punti evanescenti che sono
le onde di questo mare verde. Ogni tanto all’orizzonte appare
un punto bianco, una gher solitaria. Una boa o una piattaforma galleggiante che permette al navigante una sosta. Sono i
soli punti d’approdo durante questo viaggio. Il vento soffia
forte dietro alle mie spalle e l’erba ondeggia adeguandosi alla
sua forza, sembra una schiuma che veleggia perdendosi nel
vuoto. In questo paesaggio i cavalli sono al pascolo, e si muovono lentamente immersi nell’aria rarefatta di quest’estate,
assieme a loro e tutt’intorno c’è la vita selvaggia che si manifesta al navigante con tutta la forza che quest’ambiente porta
con sè. La Mongolia è grande cinque volte l’Italia, stretta tra
la nazione più grande al mondo e tra il paese più popolato al
mondo, con nessun sbocco al mare. L’altezza media è di circa
2.500 metri e se penso che molti abitanti di questa terra non
hanno mai visto il mare e non conoscono le sensazioni che
può dare, sorrido! Sto iniziando a capire che le immagini che
ho di fronte mi portano solo fino ad un certo punto, oltre il
quale devo procedere con mezzi nuovi. Conoscere un posto
in modo durevole significa averlo vissuto, immaginato e sognato: solo così posso riuscire a diventare una piccola parte
di questo sterminato territorio, la parte più profonda del termine. Sono pronto!
La nave affronta le asperità di questa landa selvaggia, traballando ad ogni saliscendi della strada, perché navigare tra
le varie correnti di questo mare non è facile. Le onde verdi
non infastidiscono il mezzo meccanico e non generano attriti, però i rumori della strada sono simili a quelli delle onde
quando s’infrangono sulla chiglia della nave, per poi perder-
Mongolia: Uomo al mercato di Altay - Renato Civitico (Torino)
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F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Mongolia: Nella steppa di Erdenet - Renato Civitico (Torino)
si alle mie spalle scivolando via. Sovente veleggiando lungo
questa terra, perdo la direzione scegliendo una corrente sbagliata, e devo tenere la barra ben dritta, perché deviare dal
percorso è facile e non sempre la meta che mi sono prescelto
è la destinazione finale. La rotta viene decisa sul momento
ed il pilota ruota il timone scrutando la sola via che riesce a
percepire dal posto di guida.
Il mondo è un luogo dove ci sono tanti modi di pensare, ed
io ora penso alla Mongolia come ad un grosso contenitore di
vita. La vita è sopra di me, la vita è accanto a me ed anche sotto di me. E’ un immenso raccoglitore dove ogni essere si manifesta secondo le leggi che ha appreso. Nasce, vive, muore e
si rigenera. Questa forza così razionale pervade ogni solidità
circostante e trae origine da ogni essere, sia esso vivo o immobile. Esiste però un’altra forza su questa terra che può far
svanire quasi immediatamente la razionalità. Su questa landa
l’essere e l’illusorio hanno un linguaggio proprio. Un modo
di vivere che però spesso riesce a mescolarsi l’uno nell’altro,
generando realtà e fantasia, sogno e verità. In questo grosso
contenitore io convivo, lasciando a questi elementi un giusto
spazio, senza che questo stato d’animo magico possa prevalere sulla mia razionalità. E’ un equilibrio che raggiungo col
tempo, solo dopo vari giorni, abituandomi lentamente a questi spazi ed al lento defluire delle ore. Così facendo riesco a
KALMYKIA:
Europa o Asia?
testo e foto di Gianluca Torrente
A nord del Caucaso, in Europa, esiste una Repubblica autonoma di nome Kalmykia. Fa parte della Federazione Russa, ma
gode di ampia autonomia. Grande due volte e mezzo il Belgio, ma con una popolazione di poco più di 300mila abitanti, la
Kalmykia appare una regione semidesertica, quasi interamente
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perdere molti punti di riferimento nel quotidiano, ed anche le
mie abitudini personali mutano. Quanti sono i miei bisogni
attuali e quali sono le mie priorità ora? Nell’arco della giornata le distanze si dissolvono lentamente e anch’io cerco di
non dare molta importanza alle consuetudini della mia solita
vita. Sono solito viaggiare avendo in mente un determinato
percorso da seguire, un luogo d’arrivo e sono anche abituato
a calcolare i tempi di percorrenza, ma qui mi diventa difficile
ragionare così. Al mattino, alla partenza, mi chiedo sempre
quanto dista e quanto tempo ci vorrà per raggiungere quel
determinato luogo, ma poi quando davanti a me giace solo
una lunga distesa incolta e priva di punti di riferimento mi
perdo, ed un immenso mare improvvisamente invade la mia
visuale, offrendomi tranquillità. Rimango seduto a guardare
l’orizzonte perdendo ogni informazione utile a capire dove
mi trovo, e percepisco l’energia solo dalla vitalità nascosta di
questa terra. Si diventa energici distaccandosi dal peso della
propria mente, lasciando la zavorra dei pensieri per acquistare leggerezza.
Nuvole bianche, sprazzi di sole e terra umida ai miei piedi. Il
sole oggi fatica ad uscire ed i colori sono privi di sfumature.
Durante la notte ha piovuto a dirotto, il cielo si è sfogato
rovesciando acqua in gran quantità ed io, al riparo sotto la
gher, ho riflettuto su come sarebbe stato il tempo il giorno
seguente. Un’auto bianca in lontananza sta attraversando la
pianura; viaggia in direzione opposta alla mia. E’ la curiosità che obbliga il mio viso a spostare lo sguardo dall’unico
punto fisso che sto osservando, l’orizzonte. Osservo questo
limite infinito quasi perdendomi nell’immagine stessa che ho
di fronte. Ho davanti una lunga strada priva di curve e poi
prati verdi, un mare. Rimango solo a guardare dal finestrino,
io ed il nulla che mi circonda, io ed il nulla al quale mi sono
abituato. Qui vi sono molte strade isolate e molti viaggiatori
solitari, ma tutti sono un solo movimento, reale o immaginario. In questa natura non ci sono altre storie da raccontare
perché gran parte dei pensieri si assomigliano tra loro a fine
giornata e la mia fiaba diventa la favola di tutti. C’era una
volta, ma c’è ancora, un mare verde racchiuso tra le magiche
colline della M…
occupata dalla steppa. Pochi hanno mai avuto modo di leggere
un articolo o guardare un documentario sulla Kalmykia e ancor
meno l’opportunità di visitarla.
Io ne rimasi colpito diversi anni fa quando casualmente il vecchio autobus sovietico che mi stava faticosamente trasportando
da Astrakhan a Stravropoli (la città natia di Gorbaciov) si fermò alla stazione di Elista, la capitale della Kalmykia. Elista mi
parve sin dai primi istanti curiosa: i cartelli ai lati delle vie non
riportavano solo i segnali stradali, ma anche torri, alfieri, cavalli
e tutte le pedine degli scacchi. Dei compagni di viaggio slavi
che erano partiti con noi da Astrakan non vi era più traccia:
F
RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
durante le soste che l’autobus aveva effettuato nel bel mezzo
della steppa, erano saliti al loro posto passeggeri dai tipici tratti
mongoli. La sosta alla stazione di Elista durò solo una trentina
di minuti, il tempo per ripromettermi di tornare in quella regione così poco conosciuta.
Quest’anno tornando via terra dalla Mongolia occidentale, non
mi è parso vero poter dedicare alcuni giorni alla Kalmykia.
Il vecchio autobus sovietico era stato sostituito da un più efficiente e comodo autobus coreano. I cartelli stradali che ricordavano il gioco degli scacchi erano scomparsi, ma in compenso
un grandioso monastero buddista era stato costruito alle porte
della città. Dopo aver trovato un albergo disponibile, ho approfittato delle ultime ore di luce per passeggiare nel centro. La
piazza centrale ospita una grande pagoda con all’interno una
ruota della preghiera che soprattutto bimbi ed anziani fanno girare, mentre tutt’intorno delle grandi porte in stile orientale delimitano l’area. Le statue di Lenin e di Buddha paiono guardarsi
dai due lati opposti. Nel centro, due giocatori si sfidano a scacchi spostando pedine giganti davanti ad un gruppo di persone
in religioso silenzio. Il palazzo del Presidente domina la piazza.
Appare modesto e bruttino per un personaggio che è divenuto
famoso per le sue eccentriche idee e che gode di un discreto
patrimonio frutto del collasso dell’Unione Sovietica.
Il Presidente si riflette nel bene e nel male nell’attuale Kalmykia. Il suo principale hobby ha “a dir suo” resa famosa la
Kalmykia in tutto il mondo e gli ha permesso di finanziare la
costruzione di monasteri buddisti, pagode, teatri e soprattutto
“Chess City”, la città dedicata al gioco degli scacchi. Politico, uomo d’affari, persona di rilievo nel campo degli scacchi
di cui è Presidente della principale associazione mondiale, ha
permeato con le sue idee la storia degli ultimi quindici anni
della Kalmykia. Nel 1997 dichiarò di essere stato rapito dagli
UFO e portato a visitare una galassia lontana; vinse le elezioni
promettendo a ciascun pastore un cellulare; si offrì di pagare 1
milione di dollari per trasferire la salma di Lenin (la cui nonna
sarebbe calmucca) da Mosca ad Elista; crede nell’astrologia a
tal punto che ne ha fatto una disciplina ufficiale; ha istituito
l’apprendimento degli scacchi quale materia scolastica nelle
scuole elementari. Si professa attento discepolo del Dalai Lama
e della sua dottrina ed il Buddismo è religione ufficiale della
Repubblica Kalmykia.
Il Tempio d’Oro, un moderno monastero buddista alto sessantadue metri, costituisce il simbolo della rinascita spirituale
fortemente voluta dal Presidente. All’interno, una fila quasi interminabile di gente segue un percorso rituale davanti ad una
grande statua di Buddha, mentre i monaci suggeriscono pazientemente agli astanti come comportarsi. Ogni tanto, si scorge
qualche occidentale con la testa rasata e una tunica arancione,
che ha raggiunto questa lontana regione per respirare un po’ di
spiritualità buddista.
Gli anni bui del regime stalinista in cui la popolazione calmucca subì la deportazione in quelle stesse aree da cui quattrocento anni prima era partita alla ricerca di nuovi pascoli, vengono
sempre più cancellati dal profondo senso nazionale che permea
tutta la regione. Nei teatri si esibiscono cantanti e ballerini che
rievocano le tradizioni mongole e tibetane. Nei negozi si vendono souvenir provenienti dalla lontana Mongolia e la lingua
mongola viene proposta nelle Università con frequenti scambi
con il Paese d’origine. Nei monasteri, troneggia la figura del
Dalai Lama, nelle piazze si scorgono monumenti dedicati a leggendari eroi nazionali e nei ristoranti il Borg, la versione locale
dei nostri ravioli o meglio dei Momo tibetani o Buuz mongoli,
fa da apripista a brodi con tagliolini di pasta e montone, montone lesso, pezzi di grasso ed interiora di montone e infine una
generosa bevuta di Dzhomba, il te con latte e sale, per poter
meglio digerire il tutto.
Come accade in tante altre parti del mondo, i giovani preferiscono frequentare le locali discoteche ed i ristoranti con cucina
internazionale (o meglio a queste latitudini, russa), dimenticando usi e costumi degli anziani compresa la loro lingua originaria. Nello stesso tempo sono i primi a gioire degli eccessi
nazionalisti del proprio Presidente che con le sue opere, attira
qualche turista nella regione.
Ogni volta che mi trovo a parlare con un calmucco, vengono
messe in rilievo pensieri, opere e azioni del Presidente, non si
sa se seriamente o con un po’ di ironia.
La convivenza con la minoranza slava pare buona ed i Calmucchi, discendenti del popolo degli Oirati, pur fieri delle loro
origini, si sentono perfettamente integrati nella Federazione
Russa. Del resto, i Calmucchi che vivono in questa area, sono i
discendenti di coloro che non riuscirono o non vollero seguire
il loro Khan nella lunga marcia di ritorno verso l’Asia Centrale
alla fine del diciottesimo secolo. Il loro Khan voleva sottrarsi
alla dominazione russa e con una rischiosa migrazione, riuscì
a raggiungere i lontani luoghi natii ai confini fra Kazakhistan,
Mongolia e Siberia, mentre i “Calmucchi”, termine di origine
turca che significa “resti” o “restare”, si assoggettarono definitivamente alla dominazione slava.
Russia - Kalmykia: Ragazzo davanti al tempio buddhista 5
Gianluca Torrente (Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
VIETNAM:
il Delta del Mekong
testo e foto di Giovanni Barbieri
Eccomi a Ho Chi Minh City, l’ex Saigon, chiamata così dal
1975, l’anno della conclusione della guerra del Vietnam, luogo
ideale per organizzare una visita al delta del Mekong.
Uscire dal traffico di Ho Chi Minh City è stata un’impresa: con
il minibus in balia delle moto, ci sono volute 3 ore per fare i 100
chilometri che mi separano dal tempio Cao Dai di Tay Ninh.
Gli automobilisti suonano il clacson ma nessuno bada a loro,
perché sono in minoranza rispetto a moto e biciclette. I mezzi a
due ruote ignorano i semafori, viaggiano contromano, tagliano
la strada alle auto e si fermano solo se l’impatto sembra inevitabile. Ovunque regna l’anarchia e vige la legge del più indisciplinato. Il flusso di moto e biciclette è continuo e assedia la città
dall’alba fino al tramonto. La strada è una giungla e i conducenti
non guardano in faccia a nessuno. I semafori sono un orpello
inutile e la precedenza la conquista chi osa maggiormente, i sensi unici invece, sono un invito ad infrangere le regole.
“Cristo e Buddha guardano in basso dal soffitto”
Il Caodaismo è una religione fondata nel 1926 a Tay Ninh. I
suoi fondatori sostenevano di avere ricevuto, nel corso di una
seduta spiritica, una rivelazione da Dio, il quale ordinò loro
di creare una nuova religione che mescolasse vari elementi di
dottrine religiose orientali e occidentali, e in Vietnam i suoi seguaci sono tra i 7 e gli 8 milioni. Il tempio Cao Dai di Tay Ninh
si trova al centro di una cittadella che vanta un ospedale, scuole, dormitori e templi minori. E’ tutto colorato e colpisce per
la diversità di stili che lo compongono: all’esterno ricorda una
pagoda cinese, ma possiede due campanili e una cupola, proprio come una chiesa cattolica e sul portico d’ingresso c’è un
grande occhio divino. All’interno invece, ci sono tre navate che
fanno ancora venire in mente una chiesa. Qui la brillantezza dei
colori e le policromie rinviano ad un tempio tibetano o ad una
pagoda indù. Il soffitto è un trompe d’oeil che raffigura un cielo
azzurro con le nuvole, mentre le colonne rosa che sorreggono
la struttura, sono avvolte da draghi verdi e al posto dell’altare
c’è un enorme globo blu con al centro l’occhio divino. Nel libro
“L’americano tranquillo”, lo scrittore inglese Graham Greene,
che per un certo periodo aveva considerato la possibilità di convertirsi al caodaismo, scrive del tempio: “Cristo e Buddha guardano in basso dal soffitto del tempio in stile Fantasia Disneyana
in salsa orientale, con draghi e serpenti in technicolor”.
A mezzogiorno si svolge la gran preghiera e i sacerdoti indossano abiti dai colori sgargianti e strani cappelli con al centro
l’occhio divino, i fedeli invece vestono di bianco. L’impatto
cromatico è gradevole, con queste macchie di colore che prendono possesso del tempio. Guardo i riti, che sono accompagnati dalla musica e dal suono del gong: sono affascinato da
quest’ambiente, ma non capisco quello che succede. Di primo
acchito sembra una “non religione”, perché la cosa che colpisce
maggiormente sono i vestiti e i colori del tempio: uno scenario
più adatto ad un musical che ad un luogo di preghiera.
Al pomeriggio sono stato ai tunnel di Cu Chi, a 70 chilometri
da Saigon, tra i pochi che si prestano ad essere utilizzati come
attrazione turistica. Sono costituiti da una vasta rete sotterranea di gallerie, usate dai Viet Cong nella Guerra del Vietnam. I
tunnel si sviluppano per oltre 200 km, e la loro estensione raggiungeva il confine con la Cambogia e continuava anche oltre.
Molti di questi passaggi furono usati per il trasporto di materiale e personale proveniente dalla Cambogia orientale, tramite
il sentiero di Ho Chi Minh. Le gallerie sono così buie e così
strette che occorre camminare accovacciati. All’interno fa un
caldo tremendo, si suda copiosamente e si fa fatica ad andare
avanti. Si soffre di claustrofobia anche percorrendo poche centinaia di metri. La visita è terminata con la sosta al poligono di
tiro, dove era possibile acquistare pallottole e sparare con fucili
mitragliatori, proprio come in un luna park, solo che qui armi
e proiettili erano veri: se si colpivano i bersagli, si vincevano
dei premi. Ero stupito per come in un posto come questo, un
baluardo dell’orgoglio comunista, i vietnamiti erano riusciti a
ricavare un piccolo business, perché erano pochi i visitatori che
rinunciavano a sparare.
“Mekong mon amour”
L’indomani sono arrivato a Mytho, la città da dove partono i
tour sul Mekong, così sono salito in barca per un primo as-
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Vietnam - Delta del Mekong: Mytho
Giovanni Barbieri (Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
saggio del fiume che scorre lento e maestoso, con il suo color
caffelatte, tipico del periodo delle piogge. Mentre navigavo, mi
veniva in mente l’estate del 1998, quando avevo visto il fiume
per la prima volta, entrando nel Laos dal confine thailandese.
Grazie a quell’incontro ho avuto un feeling particolare con il
fiume, perché nei miei viaggi seguenti l’ho incontrato un sacco
di volte, rincorrendolo e vezzeggiandolo come uno spasimante con la sua innamorata. Il fiume è stato il mio compagno di
viaggio di tante avventure, neanche io ormai mi ricordo quante
volte ci siamo rivisti. Incontrarlo qui ha provocato in me una
sensazione strana, perché era come se si chiudesse un ciclo, se
avvenisse la quadratura del cerchio e stessi mettendo la parola
“fine” alla mia rincorsa al Mekong. Strane sensazioni, sensazioni agrodolci che a poco a poco si sono stemperate, nel guardare
l’immensità e la grandiosità del corso d’acqua.
Questi sono i luoghi che Marguerite Duras descrive nel romanzo “L’amante”. Pubblicato nel 1984, il libro narra le vicende
in gran parte autobiografiche della Duras nel periodo in cui,
tra i quindici e i diciassette anni, visse con la madre e i fratelli
nell’Indocina francese, a Vinh Long, piccolo centro situato vicino al Mekong. La storia è quella dell’incontro tra Marguerite
e il figlio di un ricco possidente cinese: un amore proibito non
solo dall’età della ragazza, ma anche dalle differenze di razza
e ceto. E’ un braccio di questo Mekong che la Duras descrive:
durante la traversata sul traghetto, incontra quello che diventerà
il suo amante cinese. La loro relazione, osteggiata dal padre del
giovane cinese e usata dalla famiglia di lei per trovare un po’ di
sollievo ad una povertà frutto d’inganni e sfortune, termina nel
momento in cui la madre della protagonista deciderà di ripartire
per la Francia portando i figli con sé.
Carico di ricordi mi sono imbarcato su una giunca a motore
che dopo avere attraversato i canali della città di Mytho ha circumnavigato le isole che sorgono nelle vicinanze, ma la parte
migliore della navigazione è stata quella del pomeriggio. Con
imbarcazioni prima a motore e poi a remi, mi sono addentrato
per canali sempre più stretti, che facevano aumentare il contatto
con la natura tropicale. I canali erano bordati da alberi di cocco
dagli alti fusti, mangrovie e palme dalle foglie larghe, i cui rami
erano simili ad enormi ventagli, che ricordavano quelli utilizzati dalla servitù per fare aria nelle antiche corti nobiliari.
In autobus sono arrivato a Cantho che con i suoi 33.000 abitanti
è la capitale della regione del delta. Anche dal finestrino il delta è interessante: si attraversano piantagioni di riso e banane,
inframmezzate da una miriade di canali che ricordano la tela
di un ragno. Questa regione, definita in epoca coloniale come
il granaio dell’Indocina, produce il 45% della raccolta di riso
del paese, ed il Vietnam è il terzo esportatore di riso al mondo.
Per cena ho scelto le rane: la specialità del posto. Erano buone
ed appetitose ed avevano un sapore che ricordava il pollo fritto:
altre specialità del delta erano la carne di serpente, il topo di
risaia e le interiora crude. Ho anche assaggiato un liquore al
serpente. C’erano grossi vasi in vetro che contenevano vino di
riso e serpenti d’ogni taglia, con gradazioni alcoliche diverse.
La specialità della casa era il Cobratonic, a base di cobra. A
Cantho ci sono molti i negozi che vendono vino con serpenti
in bottiglia, il ruou ran: tale abbondanza è data dai tanti allevamenti di rettili, che si trovano sul delta del Mekong.
Un viaggio nel passato
L’indomani ho raggiunto il mercato di Cai Rang, il più grande
del delta, che si svolge al centro del Mekong. Il braccio di fiume
era ampio e le imbarcazioni molto distanti tra loro, cosicché
non c’era un’atmosfera caotica e frenetica, come nei mercati
terrestri, e sembrava che le contrattazioni si svolgessero al rallentatore. Le “barche negozio”, grigie e tetre, davano un’idea
d’instabilità e di vecchiume. L’unica nota di colore erano i
grandi occhi bianchi con le pupille nere dipinti sulla prua. Gli
occhi dovrebbero proteggere i naviganti e spaventare i demoni
del fiume. Le contrattazioni avvengono tra questi empori galleggianti e piccole imbarcazioni lunghe e strette, guidate da una
donna ritta in piedi, che protendendosi in avanti, muove due
remi incrociati a X, con un movimento ritmico. I prodotti commercializzati sono appesi ad una lunga asta issata a poppa o a
prua, ma i barconi non vendono solo al dettaglio. Fungono anche da grossisti, perché grandi quantità d’ortaggi sono trasferite
su barche più piccole che si avviano lungo i canali laterali, per
raggiungere negozi e mercati periferici. Più che il mercato mi
ha interessato l’andirivieni di barche lungo il fiume: il Mekong è
come un’autostrada fluviale. Grandi chiatte trasportano la terra
dragata dal letto del fiume, ci sono case galleggianti e traghetti
stipati di moto, biciclette e passeggeri che fanno in continuazio-
Vietnam - Delta del Mekong: Cai Rang
Giovanni Barbieri (Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Vietnam - Delta del Mekong: Mercato di Cantho
Giovanni Barbieri (Varese)
ne la spola tra le due rive. Dopo la visita al mercato di Phong
Dien, a detta di molti il più bello di tutto il delta del Mekong, ho
proseguito in autobus verso Chau Doc, l’ultima città vietnamita
prima del confine cambogiano. Anche oggi il paesaggio è di
campi di riso inframmezzati da una miriade di canali, e l’acqua
“L’enigma del mare lombardo”:
un libro di Marco Bono e Maurizio Mosca
di Marco Di Marco
Fino a pochi secoli fa parte della pianura padana era coperta
da una sconfinata distesa d’acqua: era il lago o mare Gerundo.
Formato dal disordine alluvionale dei fiumi Adda, Oglio e Serio e da risorgive di acqua sotterranea, occupava un ampio territorio tra la bassa bergamasca,
il cremonese ed il lodigiano. Si estendeva per
35 km da Est ad Ovest e per 120 km da Nord a
Sud, e la sua profondità media era di 10 m, con
punte fino a 25.
Le cronache narrano che, quando il mare Gerundo si prosciugò totalmente, per effetto della
bonifica attuata dai frati cistercensi alla fine del
XIII secolo, nel suo letto si trovarono enormi
ossa che sarebbero tuttora custodite in alcune
chiese della zona. Queste ossa (probabilmente
di animali preistorici) furono a lungo considerate i resti dei temibili draghi acquatici da
cui le popolazioni locali ritenevano popolato
il lago. In particolare si narra che in quegli anni gli abitanti
di Lodi fossero spaventati da un grande serpente acquatico
soprannominato Tarantasio. Secondo il folklore meneghino,
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la fa sempre da padrona. Poiché è iniziato a piovere è saltata
l’ascesa al Monte Sam, ricco di pagode e templi rupestri.
L’indomani è iniziata la lenta navigazione verso il confine: le
rive sono di una vegetazione lussureggiante, con le coltivazioni
di riso, irrigate con un ingegnoso sistema che pesca l’acqua direttamente dal fiume. Dopo avere fatto il visto cambogiano, ho
cambiato barca a Kaam Samnor e mi sono diretto verso Phnom
Penh. Il paesaggio è subito cambiato, non tanto per la natura,
ma per gli uomini e l’ambiente in cui vivevano. Era un viaggio nel passato: tutto sapeva d’ancestrale, di notte dei tempi, di
vita al rallentatore e ricordava le gallerie con i bassorilievi del
Bayon, il famoso tempio Khmer d’Angkor Wat che descrive la
vita nell’antico regno. Le abitazioni sono palafitte con il tetto di
foglie di cocco, i bambini e gli uomini vanno in giro seminudi
e si lavavano nelle acque color mattone del Mekong, le barche
sono semplici gusci di legno e le rive del fiume sono popolate da vitelli e bufali d’acqua che mangiano con lentezza. Ogni
volta che la barca passava davanti ai villaggi, i bambini si sgolavano in cantilenanti “hello, hello” e facevano “ciao ciao” con
le manine. Dopo tre ore di navigazione ho abbandonato la barca
per l’autobus: Phnom Penh è ancora lontana, e per arrivarci ci
vogliono ancora due ore di strada, ma questa è tutta un’altra
storia che racconterò in un prossimo articolo.
uno di questi mostri, ucciso da un Visconti, ispirò il simbolo
del Biscione. A questa storia si ispira la prima fatica letteraria di Marco Bono, che i lettori del nostro magazine hanno
avuto modo in questi anni di apprezzare per la passione e la
competenza con cui ha animato la rubrica “L’angolo del naturalista”, affiancando al rigore scientifico la curiosità nel cercare un possibile fondamento alle leggende con cui, in tutto
il mondo, le tradizioni popolari ci parlano di animali strani,
elusivi e finanche mostruosi. “L’enigma del mare lombardo”
– questo è il titolo del libro, scritto da Marco
a quattro mani con l’amico Maurizio Mosca,
che dovrebbe uscire in questi giorni per i tipi di
Aracne Editrice – ha le cadenze del thriller storico-archeologico. La narrazione scorre su due
linee temporali, che si intrecciano e si alternano. Una è una sequenza di vicende avventurose
sospese tra la storia e la leggenda del mare Gerundo e dei suoi mostri. L’altra, ambientata ai
giorni nostri, prende le mosse dal ritrovamento
di alcuni antichi manoscritti, per accompagnarci in un’indagine che coinvolge archeologi, biologi, speleologi, spie, falsi sacerdoti, alla
ricerca della chiave con cui decifrare il mistero
che si nasconde dietro a storia e leggende. Non aggiungendo
altro per non compromettere il gusto della lettura, rivolgo agli
autori i più fervidi auguri per un meritato successo.
F
RONTIERE
Club Magellano
L’anima del viaggiatore
Viaggiare missionario
tra i Dinka
di Suor Caterina Cirimelli
Ho vissuto tra i Dinka circa tre anni. Il giorno che sono partita
da Lokichoggio in Kenya per Agagrial nel Bar El Ghazal, ricordo che la mia mente vagava cercando di immaginarsi dove
sarei atterrata dopo poche ore. Impossibile farsi un’idea, se non
si è mai stati in Sud Sudan e precisamente nella terra Dinka, la
terra dei grandi, maestosi e orgogliosi guerrieri “Mounyjieng”,
il “popolo dei popoli”.
La mia avventura è iniziata il 6 marzo 1999 durante la stagione
secca. Sorvolando la piana semidesertica non vedevo altro che
alberelli bruciati e una landa di polvere rossa. All’atterraggio,
nella striscia di terra che funzionava da pista, creata l’anno prima dall’ ONU per soccorrere quel popolo dallo strazio della
fame, sono arrivata con un Antonov (aereo usato anche dal Governo di Khartoum per bombardare il Sud Sudan). Quando il
portellone anteriore si è aperto, una ventata di afa sembrava
soffocarmi, a tal punto che ho pensato di morire. Sono scesa
dall’aereo e come prima sensazione mi sono sentita persa in
quella terra desolata, arida e senza anima viva. In un minuto
però, la piccola striscia di terra si è popolata di centinaia di
persone, altissime e nere, che brandivano lance e bastoni come
grandi guerrieri pronti alla lotta. Incuriositi dall’arrivo nella
loro terra di una donna bianca, il loro unico scopo era semplicemente quello di riuscire a vedere la faccia della nuova Kawaja.
E così, protetta da un centinaio tra uomini e donne, sono stata
scortata fino alla missione, dove avrei dimorato e lavorato da
quel giorno in poi. Danzando e cantando i loro inni, mi hanno condotto davanti a un grande cancello di bamboo e, sotto
il mio sguardo, una grossa capra venne sgozzata in segno di
benvenuto. Culturalmente, il significato dello sgozzamento di
un animale è molto più profondo e complesso: va al di là della
motivazione più immediata, legata all’accoglienza riservata a
un ospite, a un amico o a un parente che è rimasto lontano da
casa per lungo tempo. Da un punto di vista spirituale, il sacrificio assume il significato di espiazione del peccato (acuol), per
entrare nella vita nuova o in una nuova dimora. I Dinka credono
che una persona che viaggia sia in balia degli spiriti maligni
(Jak rack), da cui bisogna proteggersi mediante il sacrificio
animale di capre o tori. Saltare sopra un animale sacrificato
significa scacciare gli spiriti maligni e far trionfare gli spiriti
buoni (Jack path), a protezione di chi intraprende un viaggio. A
questo rituale della purificazione sono stata sottoposta e, dopo
essere saltata sulla capra morta, calpestandola per bene, sono
stata aspersa con acqua benedetta, contenuta in un recipiente
ricavato da una zucca (calabash). Ero dunque immune dalle influenze negative, purificata a dovere e protetta dagli spiriti buoni. In questo modo è iniziata la mia avventura in terra dinka.
Quasi tutti i nomi dinka derivano dal colore delle loro mucche.
Le mandrie sono sacre perché fonte di benessere: più mucche
si hanno e più si è rispettati. Solo con tante mucche si acquisisce prestigio sociale, in quanto si possono acquistare tante
mogli, quindi avere tanti figli, che perpetuano di generazione
in generazione la stirpe degli antenati. Le ragazze si possono
chiamare in vari modi: Ayen, Yar Ajak, Akur, Achol. I nomi
maschili derivano dal colore dei tori: Mayen, Mabor, Majak,
Makur, Chol. A me hanno dato il nome Yar, corrispondente al
colore bianco, che è il colore della pace. Per i Dinka, Yar non
è il nome di una mucca qualsiasi, ma della mucca bianca più
bella con corna maestose, ed è il nome con il quale si designa
in famiglia la moglie con le migliori qualità. Yar mi è stato dato
in tempo di guerra civile, come simbolo di pace. Anche se i
Dinka sono considerati guerrieri, sono anche un popolo che desidera vivere in armonia nelle relazioni sociali e con il mondo
ancestrale. Anche se all’inizio non ho apprezzato molto il nome
a me attribuito, leggendolo con gli occhi di una europea, lentamente sono riuscita ad accettarlo e ad amarlo perché era ciò
che mi identificava nel loro mondo. Tutti ormai mi conoscono
come Yar e, durante la mia permanenza in terra Dinka, sono
stata addirittura adottata da un clan con il nome di Yar Makuer
Lat. E come qualsiasi altro membro del clan ho ricevuto il mio
totem (paglia usata per costruire le capanne) e il simbolo di un
serpente da conservare e custodire, con il divieto più assoluto
di bruciare la paglia e di uccidere i rettili. Massimo rispetto è
dovuto a chi possiede questi simboli e chi osserva questi tabù
otterrà la benevolenza degli antenati e renderà innocui i serpenti. E’ un mondo affascinante da scoprire. Io ho amato questo
popolo che mi ha insegnato ad apprezzare la vita e mi ha anche
aiutato a capire quanto sia vicino all’Assoluto, al Dio creatore. Un giorno ho ricevuto la visita di un capo spirituale. Ha
profetizzato tanti imprevisti e molte difficoltà nella mia vita
in Sud Sudan, precisando però che dipenderà solo da una mia
personale decisione se continuare e restare o abbandonarlo. Ha
poi lanciato a terra la lancia e ha sputato sulle mie mani benedicendomi. Ho vissuto nove anni intensi in Sudan e nulla mi ha
scoraggiato, né la guerra, né altri imprevisti. Il mio più grande
desiderio è quello di ritornarvi per essere parte integrante di
questo meraviglioso popolo.
Sud Sudan: la cultura Dinka canta canzoni per il bue preferito
Roberto Pattarin (Sondrio)
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
MONGOLIA
di Marco Di Marco
Nell’estate appena trascorsa – segnata da un’eclisse di sole visibile, nella sua spettacolare interezza, dalle creste dei monti Altai – diversi viaggiatori, le cui esperienze in questi anni si sono intrecciate, hanno scelto come meta provvisoria del loro lungo
itinerario di conoscenza la Mongolia, un paese da non molti anni aperto ai flussi turistici, e per questo ancora ricco di inesplorate
suggestioni. Durante il viaggio pressoché nulli sono stati i contatti, ognuno era intento a percorrere il suo differente cammino. Ma
era lo stesso come se si procedesse assieme, con l’ansia di condividere al più presto il caleidoscopio di sensazioni e riflessioni che
man mano si componeva in un disegno organico nella mente e nello spirito di ognuno. Da quest’ansia è scaturita “a caldo” l’idea
di rendere partecipi del nostro confronto anche i lettori di Frontiere. E’ nato così questo Dossier, senza pretese di completezza né
di rigore scientifico, ma per introdurvi alla Mongolia – terra davvero speciale per natura e uomini – in una sorta di viaggio in cui
ognuno di noi cercherà di proporvi un approccio legato alle sue peculiari sensibilità e curiosità. Sperando con ciò di avervi almeno
trasmesso la sensazione di quanto sia complessa la bellezza di questo, apparentemente semplice, paese.
N.B. Di questo Dossier fa parte, a pieno titolo, quanto della Mongolia si dice nei racconti di viaggio proposti nella rubrica “Mille e una notte” in questo numero di “Frontiere”. Compreso il singolare viaggio nella Kalmykia, che dell’universo mongolo è in
Europa un vero e proprio frammento.
MONGOLIA:
appunti di viaggio
testo e foto di Marco Di Marco
Si parla di Mongolia e il pensiero corre subito all’impero di
Gengis Khan (o Chinggis Khan, come sarebbe corretto). Il suo
nome, impresso a caratteri cubitali sulla facciata dell’aeroporto di Ulaanbaatar, costituisce una sorta di biglietto da visita
dell’identità contraddittoria di questo paese.
Se sfogliamo un atlante storico ci appare infatti, nelle carte dedicate al XIII-XIV secolo, un’enorme area che ricopre buona
parte dell’Eurasia, dai mari della Cina fin quasi al Mediterraneo. La geografia attuale ci propone invece una realtà molto più
modesta: una sorta di lunetta incuneata tra i due giganti Cina e
Russia, le cui dimensioni fanno apparire “piccolo” quello che,
comunque, è uno stato grande cinque volte l’Italia. Sembra quasi impossibile che si sia ridotta a queste dimensioni la nazione
di quei conquistatori che, dopo aver terrorizzato Cina, Islam
ed Europa, stabilirono per un secolo da Est ad Ovest uno straordinario regime di tolleranza religiosa e libertà commerciale,
rendendo sicure come non mai le vie degli uomini e delle merci
su tutto il continente.
Ma, piccola la Mongolia lo è di certo per il numero esiguo dei
suoi abitanti, che non arrivano a tre milioni (meno della popolazione di Roma) di cui più di un terzo concentrati nella capitale.
Viaggiando per il paese colpiscono gli spazi interminabili che
separano i piccoli centri abitati, quasi tutti capoluogo di un
sum, o distretto, delle dimensioni di una nostra provincia. Questa definizione amministrativa ci fa pensare ad una fitta rete di
villaggi: in realtà si incontrano al massimo delle gher (è questo
il nome mongolo delle yurte) isolate, mentre scorrono chilometri e chilometri senza traccia di strutture abitative fisse. A
distanze più grandi le città vere e proprie, due (Erdenet e Darkhan) con 70mila abitanti e le altre con al massimo 20-30mila,
tutte capoluogo di un aimag (o provincia). Per avere un’ulteriore sensazione delle dimensioni con cui ci si deve confrontare,
si pensi che l’aimag dello Zavkhan conta circa 80mila abitanti,
sparpagliati su di un territorio delle dimensioni dell’Austria.
Gli spazi si dilatano ulteriormente nelle piane semidesertiche
del Sud, dove il terreno arido non può offrire sostentamento
agli animali.
Un popolo di pastori nomadi
Appare paradossale che, nonostante la bassa densità abitativa,
la Mongolia sia un mosaico etnico. Si contano una ventina di
gruppi, da quello largamente maggioritario, il Khalkha (2 milioni di persone) ai più minuscoli, come gli Tsaatan, il “popolo
delle renne” (250 persone), ognuno con sue peculiari caratteristiche, gli uni spesso con dialetti incomprensibili agli altri. Le
etnie di ceppo mongolo sono predominanti, in presenza comunque di zone del paese - le regioni occidentali - abitate in pre-
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Mongolia: Lago Khar Nuur, nello Zavkhan
Marco Di Marco (Alessandria)
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
valenza da genti di stirpe turca, come gli splendidi kazaki del
Bayan-Ölgiy. In questa molteplicità alcuni tratti fondamentali
sono condivisi da tutti. Il mongolo è infatti un popolo di pastori
nomadi ed il veicolo del suo nomadismo è il cavallo. Il cavallo
è quasi un oggetto di culto per uomini che imparano a stare in
equilibrio sulla sua schiena quasi prima che a camminare. Tra
l’altro alcuni storici fanno risalire al nomadismo l’incapacità
del popolo mongolo di costruire un impero stabile. E, anche se
è antica la tradizione di una grande tolleranza religiosa - alla
corte di Gengis Khan erano accolti buddhisti, cristiani, induisti e musulmani - l’originaria religione sciamanica sopravvive
come potente substrato nel buddhismo lamaista, in cui è stata
incorporata da cinque secoli. Questa tradizione era stata contraddetta in maniera profondamente dolorosa dal regime comunista, che negli anni ’30, quando la Mongolia era di fatto
una colonia dell’URSS, aveva posto in atto un vero e proprio
tentativo di genocidio culturale del suo popolo. Le radici più
autentiche della religiosità popolare erano state violate attraverso la deportazione e lo sterminio dei monaci e la distruzione
di gran parte dei monasteri, e soltanto il coraggio di molte persone, unite in una straordinaria rete di solidarietà, aveva salvato
per decenni, nascondendole, reliquie ed opere d’arte.
Un’esperienza comune e ripetuta per chi viaggia in Mongolia
testimonia in maniera efficace di quanto l’antico sciamanesimo
sia radicato nella spiritualità del popolo mongolo. E’ la sosta
rituale degli autisti agli ovoo, mucchi di pietre con al centro
uno stendardo, spesso siti sui valichi, in ambienti di grande suggestione paesaggistica. Si compiono tre giri in senso orario, si
getta un sasso che andrà ad aumentare le dimensioni dell’ovoo,
autentica casa degli spiriti, cui si lascia in certi casi un offerta
- un drappo colorato, una bottiglia di vodka, una banconota. E
così questa casa è come costruita negli anni dai fedeli attorno ad
un asse che - è stato osservato dagli studiosi - riproduce l’axis
mundi. Ritroviamo la stessa struttura nella yurta (in mongolo
gher) la tenda circolare che da tempo immemorabile costituisce
l’abitazione dei pastori nomadi, in cui il ruolo di asse è assunto dall’apertura centrale attraversata dal camino (è interessante
sapere che la yurta è stata riscoperta negli ultimi anni dalla nostra architettura come modello arcaico di spazio centrifugo e
stellare).
Ed è appunto il bianco delle gher che in larga parte del territorio segnala al viaggiatore la presenza umana. Ma sempre più
spesso a lato della gher si scorgono i segni della modernità. Tali
sono i pannelli fotovoltaici, installati col supporto di numerosi
progetti internazionali che hanno fatto della Mongolia un vero e
proprio laboratorio sperimentale dell’energia solare. Questi impianti, trasportabili agevolmente quando la tenda viene smontata (i pastori cambiano residenza almeno cinque volte all’anno)
hanno un’autonomia di 72 ore in assenza di sole. Le famiglie
dei nomadi dispongono così di energia elettrica sufficiente per
tutti gli usi domestici, fatto che ne aumenta l’integrazione sociale e rende meno appetibile la corsa all’inurbamento. E infatti accanto al pannello solare campeggia simile ad un orecchio
l’antenna parabolica. Qualcuno storcerà il naso, pensando agli
effetti della globalizzazione. Ma, pur con tutte le cautele del
caso, questa esperienza ci invita a riflettere sul possibile ruolo
delle tecnologie eco-sostenibili, quando, lungi dallo stravolgere
gli stili di vita storicamente costruitisi, sanno invece inserirsi
con attenzione e discrezione in essi, aiutandoli ed accompagnandoli nel cammino verso una modernità che sappia innestare il meglio del nuovo sul meglio dell’antico.
La Mongolia post-comunista: luci ed ombre
Da quasi vent’anni, finito in maniera incruenta il regime comunista al potere dal 1920, la Mongolia è una democrazia. Il
cambiamento di regime ha portato alla liberalizzazione economica, i cui effetti sono percepibili anche al viaggiatore che deve
comprimere in poche settimane il proprio itinerario.
Usciti da Ulaanbaatar - un mondo a parte, nella sua corsa a voler essere simile alle metropoli dell’Estremo Oriente, con tutti
i segni esteriori che ciò comporta - nella Mongolia “profonda”
ritroviamo, sbiadite, le tracce di un passato di decenni, che ha
inciso profondamente sull’organizzazione del paese. Quando,
dopo ore ed ore di pista polverosa, ci si approssima ad un capoluogo di sum (distretto), colpiscono subito l’attenzione due
grosse costruzioni: una è la scuola, con annessa foresteria per
gli studenti, l’altro è la fabbrica. Tutte e due appaiono spesso in disuso. Sono testimonianze del tentativo posto in atto dal
passato regime, che aveva costruito dal nulla e nel nulla questi
paesoni con la funzione di essere centri di servizi per i nomadi
sparpagliati nel territorio (fino agli anni ’20 del secolo scorso
la Mongolia non aveva praticamente centri abitati come noi li
intendiamo: la stessa capitale era un enorme accampamento di
gher attorno ad alcuni palazzi e monasteri).
Un’esperienza di chiaroscuri. La scuola, se da una parte indottrinava, dall’altra con la costrizione portava ad un elevato tasso
di alfabetizzazione e di istruzione. Le fabbriche erano di certo
diseconomiche, essendo pianificate al di fuori di regole di mercato e collegate alla capitale da percorsi stradali avventurosi.
Ma, nell’insieme, questi centri rompevano l’isolamento economico e culturale dei nomadi senza spingerli a inurbarsi. Lo
spettacolo di queste strutture in rovina suggerisce che la privatizzazione, seguita alla caduta del regime sovietico e attuata nel
Mongolia: Gher di pastori nomadi
Marco Di Marco (Alessandria)
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
contesto della “terapia shock” imposta dalla Banca Mondiale,
abbia sì avviato la costruzione di un’economia di mercato, che
nel corso dei prossimi decenni dovrebbe dispiegare effetti positivi. Ma, come è accaduto in altre situazioni consimili, per non
aver scelto una transizione più morbida si sia “buttato il bambino con l’acqua sporca”. E la metafora non è fuori luogo. Tra i
tanti costi sociali, elevatissimi, colpisce lo straziante fenomeno
dei bambini di strada di Ulanbaataar, che sopravvivono nelle
fogne fuggendo “situazioni familiari insostenibili: padri ubriachi e violenti, famiglie disastrate, promiscuità, madri single o
vedove, situazioni di miseria e degrado inimmaginabili” (come
testimoniano i Missionari della Consolata). In questa emergenza appare stravolta dai processi di modernizzazione selvaggia
quella che è l’anima più profonda del nomade mongolo, che
sa coniugare la libertà suggerita dai grandi spazi con un forte
senso di coesione familiare, solidarietà e ospitalità. Troppo diversa è la grande città dall’ambiente in cui per secoli si è modellato il suo carattere e si sono costruiti i suoi valori, perché
l’emigrarvi non porti con sé dolorosi esiti di spaesamento e di
disgregazione.
Il viaggio
Lungi dall’essere monotono - nell’immaginario nostro la Mongolia è pensata come una distesa uniforme di praterie verdi - il
paesaggio è molto vario. Da nord a sud si possono schematizzare due zone: una verde di steppe erbose e foreste, l’altra più
a sud con steppe semidesertiche e dune di sabbia. Ma anche
viaggiando da est a ovest di giorno in giorno lo scenario cambia. Seguendo l’itinerario da noi percorso, ci si dirige dapprima verso nord sulla strada che porta in Russia e scorre spesso
parallela alla ferrovia transmongolica. Una breve digressione,
per visitare l’interessante monastero buddhista di Amarbayasgalant, e ci si tuffa verso ovest nelle ampie vallate erbose, che
coprono praticamente tutta l’area centrosettentrionale del paese. Il passaggio da
una vallata all’altra è scandito dai valichi
su cui garriscono al vento gli stendardi
degli ovoo. Le mille sfumature del verde,
le sagome bianche delle gher, le greggi
e le mandrie disseminate nei pascoli, le
silhouette dei cavalieri-pastori, tutto suggerisce al viaggiatore sensazioni indimenticabili di grande spazio e libertà. Intenso è, a tratti, il contatto con il mondo
dei nomadi e la loro ospitalità. Un’altra
digressione dalla rotta est-ovest ci attende, e ci porta, a nord di Mörön, a sfiorare
la taiga siberiana nelle vicinanze del lago
Khovsgol. Del lago, della sua bellezza
di habitat e ricchezza biologica, Marco
Bono ci parlerà più avanti con l’occhio
del naturalista.
Procedendo poi verso ovest si attraversa
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l’aimag di Zavkhan, una delle province meno battute dal turismo, sorprendente per la bellezza suggestiva dei suoi paesaggi.
E’ una sorta di miniatura della Mongolia: deserto, steppa, foreste e montagne, un autentico mosaico. I contrafforti dei monti
Khangai, un mare di colline in cui - anche qui - si aprono ampie
vallate verdi punteggiate di gher e di mandrie. E, poi, gli altopiani semidesertici del sud-ovest, che a tratti si confondono
con immense distese di dune rosa, forse più belle del Gobi. E’
appunto ai margini delle Borkhyarin Els che si possono ammirare alcuni scenari di grande emozione: il Khar Nuur (“Lago
Nero”) letteralmente “pennellato” come un acquerello a più di
duemila metri di altitudine tra le sfumature di pascoli, alture e
dune sabbiose. E più avanti, su un pianoro circondato da vedute
mozzafiato, il Senjit Khad, uno stupendo arco naturale eletto
anche a santuario sciamanico. E ancora la singolare sagoma
semicircolare, simile ad una diga della enorme duna del Mukhartin Gol, alta 300 metri, ai cui piedi, incredibilmente, nasce
un fiume, formando un’oasi sul fondo di un canyon di sabbia.
Cento chilometri più a sud delle Borkhyarin Els scorre parallela
per oltre 200 km una striscia di dune ancora più grande, profonda dai 15 ai 30 km: sono le immense Mongol Els.
Lasciato alle spalle lo Zavkhan ci addentriamo nella depressione dei laghi, dove ampi specchi salini sono immersi in un
paesaggio semidesertico. Sullo sfondo le prime visioni di vette
innevate preannunciano la suggestione dei monti Altai (oltre
4000 m. di altezza). Si entra così in una regione della Mongolia
profondamente diversa. Duemila chilometri ad ovest di Ulaabataar, siamo quasi in Asia Centrale. Sono le terre dei kazaki, forte
minoranza turca e musulmana, i famosi cacciatori che addestrano le aquile ed abitano le stupende vallate dominate dalle grandi calotte bianche dello Tsambagarav e dello Tsast. Dopo alcuni
giorni di intense emozioni vissuti a loro contatto, saggiandone
l’antica ospitalità (e ce ne parlerà ancora Marco Bono), dalla
vastità solenne degli Altai si scende, attraverso un paesaggio che ricorda a tratti
l’Ovest americano, a Khovd. Qui comincia la lunga strada del ritorno, interrotta
solo da una divagazione alla ricerca del
magico lago Ereen Nuur, in cui si riflettono le sinuose dune di Mongol Els. Poi
si riprende il lungo sterrato che scorre
verso oriente in un paesaggio desolato,
una steppa semidesertica sassosa e grigiastra scarsamente abitata, che anticipa
la presenza, più a sud, del Gobi. Sono
centinaia di chilometri di apparente noia,
ma, a rifletterci, ci permettono ancor più
di comprendere la vastità di questo paese. Il tempio lamaista di Erdene Zu, sul
sito dell’antica capitale gengiskhanide
di Karakorum è l’ultima tappa prima di
rientrare nella contraddittoria modernità
di Ulaanbaatar.
Mongolia: Bambina kazaka dei monti Altai
Marco Di Marco (Alessandria)
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier - L’angolo del naturalista
Un naturalista
nel “Cuore dell’Asia”
testo di Marco Bono
Nel centro dell’Asia, ai piedi dei monti Altai, si innalza un altipiano, popolato sin da tempi remoti da sparuti gruppi di nomadi
dediti a seguire le mandrie dei quadrupedi, e costantemente interrotto da una miriade di laghi piccoli e grandi, che riflettono
vividamente il blu cobalto del cielo. Sulla parte settentrionale
si estende, sconfinata, la taiga, la foresta sempreverde siberiana, che arriva quasi ad incontrare il desolato deserto del Gobi.
Questa foresta cela al suo interno un gioiello tra i più preziosi:
il lago Khövsgöl, gemello minore del Bajkal, cui lo collega il
fiume Selenge. Questo specchio d’acqua si estende per una lunghezza di 60 km ed una larghezza di 30, con una profondità
media di 230 m, un’inezia rispetto alle dimensioni del più grande Bajkal (660 km per 80 km, e quasi 1800 m di profondità ).
Dalla superficie emergono due isole, entrambe disabitate, una
spoglia e rocciosa, l’altra ricoperta da un rigoglioso manto di
vegetazione.
Intorno alle sue sponde la foresta esplode di vita. A volte,
penetrando al suo interno, è possibile avvistare cervi, lupi o,
addirittura, alci. Dai contrafforti rocciosi che lo contornano si
può ammirare la sconfinata distesa di questo bacino che va a
perdersi oltre l’orizzonte, senza che si riesca a scorgerne l’altra
sponda. Le spiagge sassose sono bagnate, a differenza di quelle
del Baikal, da acque alquanto fredde, che ospitano un’abbondante fauna ittica, per cui le popolazioni rivierasche sono dedite
principalmente alla pesca. Durante il rigido inverno, sotto la
sferza implacabile del Sarmat e di altri gelidi venti del nord, la
superficie ghiaccia totalmente come quella del gemello siberiano e per tutta la stagione fredda, da una sponda all’altra, viene a
formarsi una lastra di ghiaccio talmente spessa che vi possono
transitare persino i veicoli a motore. Aggirandosi nelle foreste
circostanti e salendo sui pendii montuosi si spera di incontrare
qualche esemplare della fauna vivente nei recessi più impervi,
forse renne allo stato selvatico, parenti strette di quelle allevate
dai nomadi Tsaatan: quegli stessi che avevamo raggiunto, qualche giorno prima, con un impegnativo trekking a cavallo nella
taiga, nel corso del quale, avvicinandoci alle pendici dei Monti
Saiani avevamo sperato di intravedere un leopardo delle nevi, il
più elusivo tra i grandi felini carnivori, presente in sparute popolazioni di alcune decine di esemplari. Stando alla nostra guida, in queste foreste non sarebbe mai giunta la tigre siberiana,
ma la ricchezza di vita di questo ambiente, e la sua estensione,
possono suggerire audaci voli di fantasia.
esemplare di marmotta uscito da una delle tante tane che crivellano i pendii, dai dirupi rocciosi sino alle sponde dei laghetti
e alle rive dei fiumi in secca: questi piccoli mammiferi sono
proliferati in modo esplosivo negli ultimi decenni in seguito
alla scomparsa del loro principale predatore, il lupo, da sempre
acerrimo nemico dei nomadi allevatori con i quali è ancora improponibile parlare di una sua reintroduzione.
La piatta monotonia sassosa è interrotta dal subitaneo apparire in lontananza di una distesa azzurro-blu scuro, che aumenta
gradualmente al nostro avvicinarsi: è il lago Kyargas, il secondo della Mongolia dopo il Khövsgöl, uno specchio d’acqua salata di vaste dimensioni, sulle cui sponde rocciose si affacciano
solo alcuni minuti grappoli di yurte. La sua ampia conca color
ocra è circondata da guglie rocciose e dirupi scoscesi sulle cui
irte pareti si abbarbicano sparuti arbusti. E’ una visione che fa
tornare alla mente altri due enormi bacini lacustri: il Titicaca e
il Turkana.
Ölgiy è una ridente cittadina ai piedi degli Altai, più pulita e
ordinata delle altre, abitata da uomini e donne in maggioranza di etnia kazaka, piena di ristorantini turchi dove si possono
mangiare varie specialità di kebab. Appena fuori di essa si apre
un territorio aspro e stupendo di monti e vallate, che ricorda i
tanti scenari afgani apparsi sugli schermi televisivi. La strada
corre lungo i fianchi dei monti sopra canyon profondi, attraversati nella stagione primaverile da fiumi impetuosi che d’estate
si riducono a minuscoli rigagnoli.
Un’enorme femmina di aquila sta immobile, appollaiata
all’esterno di una yurta di questi cacciatori nomadi, la cui accoglienza è calda e ospitale. L’anziano patriarca, padre di undici figli, alcuni dei quali hanno studiato all’estero, ci parla a
lungo della sua vita dopo averci offerto the, dolci e vodka, poi
ci mostra i suoi cammelli e le aquile usate per cacciare, che docilmente si fanno prendere in mano. Questi rapaci, che possono
vivere anche fino a trent’anni, vengono catturati quando sono
ancora in tenera età, poco più che pulcini, e addestrati a cacciare soprattutto le marmotte, per essere poi lasciati liberi poco
dopo i cinque anni di età. La sera, seduti nella yurta, ascoltiamo
dal patriarca i racconti di questa terra, compreso il presunto avvistamento di un Almas, lo yeti mongolo, che, a detta di molti
Aquile e marmotte
Ad ovest, verso i monti Altai, l’ambiente si fa progressivamente
brullo. Nel cielo terso volano numerose le aquile, lo sguardo
vigile puntato verso il terreno sottostante per avvistare qualche
Mongolia: Cacciatore kazako dei monti Altai
Marco Di Marco (Alessandria)
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F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
altri, non sarebbe che una specie particolare e molto elusiva di
orso.
Le dune mongole
Allontanandosi dagli Altai, il paesaggio diventa sempre più arido e desolato. Soltanto pochi ciuffi d’erba ingiallita crescono tra
i sassi e le pietre. D’improvviso, però, compare all’orizzonte un
branco di antilopi del deserto, quadrupedi molto rari conosciuti
col nome di saiga. All’avvicinarsi dei fuoristrada si mettono a
correre, disperdendosi lungo il vasto orizzonte, salvo una che riusciamo ad avvicinare sino al punto di poterla riprendere con le
macchina fotografiche. Poi, ai piedi di una catena di montagne,
compare una distesa di dune simili a quelle del Sahara: sono le
“Mongol Els”, alte anche un centinaio di metri. Sporadici ciuffi d’erba e arbusti crescono sulle loro cime, attorno alle quali
planano gli avvoltoi. E infatti da quelle sabbie affiorano non
pochi crani e scheletri di quadrupedi. Ci si accampa in un’oasi
ai piedi di contrafforti rocciosi, attraversata dal letto di un fiume
“La luna mangia un pezzo
di sole sui Monti Altai”
testo di Angelita Piatti e foto di Alessandro Cereda
29 luglio. Giorno di partenza, meta Mongolia! Divorante è l’ansia, il senso di mistero, di lontananza, di incredulità. La piccola
compagnia che si raccoglie alla Malpensa sembra subito emettere buone onde di simpatia; la differenza di età, di formazione
dei vari componenti del gruppo - due matematiche, una ingegnere, una prof di filosofia del diritto, una prof di lettere, una
pr, un avvocato, un esperto di finanza, che data la situazione
attuale ha scelto un posto dove non c’è nessuno, due ragazzi,
studenti di giurisprudenza, un fotografo esperto astrofilo e un
geotecnico - non produce effetti di frattura ma di diversità fatta
per amalgamarsi e mettersi in sinergia.
E’ presto notte, andando a oriente. Nero il cielo, nera la terra.
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Mongolia: Eclisse di sole sui monti Altai
Alessandro Cereda (Milano)
quasi totalmente in secca, lungo il quale crescono alcuni alberi.
Calata l’oscurità la volta celeste ci appare trapuntata da miriadi
di stelle tra le quali è ben visibile il nastro argenteo della Via
Lattea.
Le sabbie del Gobi celano ancora non pochi misteri: alcuni naturalisti incontrati parlano di un animale misterioso nascosto
nell’immensità del deserto dal nome di Allghoi Khorkhoi, ovvero “verme intestino”, un essere vermiforme, lungo fino a un
metro e mezzo, che sporadicamente emergerebbe per brevi attimi dalle sabbie del deserto, per scomparire subito senza lasciare
alcuna traccia, o quasi. Stando ad alcuni zoologi si tratterebbe
di un anfisbena, rettile serpentiforme privo di arti.
Lasciate alle spalle le dune, torna ad apparire una distesa pietrosa, desolata e quasi priva di presenza umana: finché, nei pressi
di Ulaanbaatar, il verde riprende gradualmente il sopravvento,
per porgerci l’ultimo saluto di questa terra straordinaria e ancora misteriosa.
Ma ... all’improvviso l’orizzonte è tagliato da una linea chiara,
luminosa e persistente … è l’alba? È il tramonto? È l’aurora
boreale? Niente di tutto questo, è il riflesso della luna, un sottile
spicchio di luna calante che rischiara una folta coltre di nuvole creando questo spettacolo unico. E poi l’alba: nero, rosso,
arancione con righe nere, blu e ancora nero. Colori e linee di
un pittore divino!
Ulaan Bataar, Eroe Rosso, a un primo impatto, risulta essere
una capitale di modesta bruttezza, il cui centro si risolve in una
grande piazza con il palazzo del Parlamento dove campeggia
un’enorme statua di Gengis Khan. Il traffico di gente e auto
é notevole; d’altra parte nella città vive un terzo della popolazione totale della Mongolia, circa tre milioni di abitanti su
un territorio grande cinque volte l’Italia.
Visitiamo il museo dove sono testimoniate le peculiarità delle
venti etnie della Mongolia, ognuna con le sue credenze, tradizioni, vestiti: le pantofole hanno la punta alzata per non ferire
la terra , una treccia distingue la signorina dalla signora che
ne porta due, i kazaki cacciano con l’aquila e sono musulmani e ancora il ricco abbigliamento della shamana corredato di
tamburi che richiamano gli spiriti. Alla sera assistiamo a un
interessante spettacolo di danze, contorsioni, canti, musica prodotta con strani strumenti, che mette in sintonia con la cultura
più antica e tradizionale dei Mongoli e che sembra evidenziare,
soprattutto nei suoni gutturali che vengono dal profondo delle
viscere, la difficoltà di vivere in un ambiente così estremo e
senza ripari, -40 °C d’inverno, tempeste di sabbia e vento in
primavera, caldo acceso durante la breve estate.
Da Ulaan Bataar, Eroe Rosso, volo a Ölgiy. Dall’aereo il paesaggio appare arido, con basse collinette ma, arrivando a destinazione, ci sorprende una vista mozzafiato sulle vette innevate,
i 4000m degli Altai, terra degli Unni, Mongoli, Turchi, Kazaki … Atterraggio su terra battuta, ma molto poco battuta; “ma
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
cosa vuoi che siaaaaaaaa”, “a” lunga da terrore per l’impatto sul
suolo piuttosto rumoroso e travagliato.
Partiamo subito verso un ignoto occidente dove, dopo due ore,
i driver al flebile chiarore della pila, tastando il terreno con le
mani, cercano il luogo più adatto per mettere le tende. Ad un
certo punto, senza che noi riusciamo a capirne la ragione, decidono che possiamo accamparci. Felici ed emozionati, ognuno
con le sue ansie e perplessità (chi ha freddo, chi ha caldo, chi è
la prima volta in tenda …), sotto un cielo da un milione! (fattoriale) di stelle ci addormentiamo.
Primo agosto. E’ il grande giorno. Le quattro jeep, più il camioncino cucina, partono in direzione sud est per arrivare sulla
linea di massima visibilità dell’eclisse; percorriamo circa 150
Km verso il confine con la Cina. Dobbiamo perciò superare
tanti “posto di controllo” che rallentano ma che sono divertenti:
una sbarra è tenuta abbassata da un secchio pieno di pietre e
viene alzata da un guardiano, dopo il controllo dei documenti.
Dato il traffico dei passeggeri, il guardiano è sempre da un’altra parte a fare qualche altra cosa e quindi viene chiamato da
qualcuno che è lì per caso e che, sempre per caso sa dove si può
trovare. Chi è senza permesso deve pagare 100 euro di multa e
lasciare la zona entro 72 ore, pena la galera.
Il paesaggio che ci circonda é straordinario: montagne nude, di
uno strano colore fra il grigio e il marrone; appaiono brucanti
greggi di pecore, cavalli, yak attenti agli sparuti cespugli. Seguiamo la riva di un fiume che consente la crescita di gruppi
di alberi e la formazione di oasi di verde, in tanta aridità dove
campeggiano bianche ger. La strada è molto dissestata, i driver bravissimi sostengono, senza scomporsi per niente, prove
continue di alta abilità . Il cielo terso e il paesaggio modellato
dal vento, sono sempre magici nella loro maestosa ampiezza;
magnifici i laghi cobalto e, in lontananza, vette di montagne
che appaiono innevate. Sobbalzi ed emozioni finché un’ampia radura sembra al “responsabile delle riprese fotografiche
dell’eclisse” “idonea all’istallazione dell’apparato fotografico”.
Si aspetta l’ora; qualche nuvola, in un cielo per tutta la mattina
limpido, agita l’animo già scosso di Alessandro.
Alle 17 un urlo! CONTATTO; ci ritroviamo compatti, in fila,
alcuni sdraiati, ma tutti attrezzati con gli occhialini da eclissi, a
guardare, commentare, attendere e … la luna mangia un pezzo
di sole e lentamente procede alla conquista totale; cresce l’emozione, la luce cambia in un grigio azzurro delicato e teso; ora
il disco nero lascia solo un cerchio luminoso e due stelle, anzi
due pianeti Giove e Venere, si stampano luminosissime in un
cielo scuro, notturno. Meraviglia e magia, sono due minuti di
sospensione … poi si avanza una luce diversa, da alba anomala
e veloce, e il sole riguadagna la sua posizione. La temperatura,
bruscamente abbassata, riprende quota; una famiglia di mucche, frastornate e confuse, si muove ordinata, prima i grandi e
poi i piccoli, accanto a noi.
Si ricompone, in veloce gradualità, il colore del cielo e dell’aria;
il giorno è pieno, l’azzurro compatto e vivido.
Emozione forte, intensa e che dura sempre troppo poco. Ripensiamo intensamente allo spettacolo di cui siamo stati testimoni,
altrimenti fra poco ci sembrerà un’illusione. Si brinda con un
tappo di grappa!! Abbracci di gioia e di riconoscenza; Ale è molto soddisfatto e sorride sornione, le riprese sono tante e belle.
“La fascia di totalità dell’ eclissi di sole del 1 agosto 2008 partiva dal nord del Canada passando per Groenlandia, Nuova
Zemlya, Siberia, Mongolia e Cina.La durata massima della totalità era di 2 minuti e 27sec alle coordinate di long 71°est lat
66.5°nord, in Siberia. L’attività solare non era massima e come
la precedente eclisse nord africana del 2006 presentava una
corona molto sviluppata lungo il meridiano rispetto i poli, a
differenza delle eclissi del 1999 e del 2001.” dice Alessandro.
Lentamente le cose dentro di noi e fuori di noi riprendono la
loro abitualità. Il campo della sera è sulla riva di un fiume e ci
addormentiamo al suono dello sciacquio dell’acqua. Il giorno
dopo, l’addio agli Altai si snoda in mezzo a spazi dilatati con
all’orizzonte una corona di montagne dai colori che passano dal
grigio al verde, a mille tonalità di marrone: è uno scenario multicolore; qualche ger si staglia, col suo bianco contorno, lungo
il fiume, che appare a momenti a creare oasi improvvise e quasi
idilliche.
Mongolia: Alba sul Gobi
Alessandro Cereda (Milano)
Mongolia: Paesaggio dei monti Altai
Alessandro Cereda (Milano)
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier
TSAATAN: Il popolo
degli uomini renna
C’è un popolo, in Mongolia, che prende il nome dall’animale
che alleva da secoli e che gli permettere di sopravvivere ai rigidi
inverni della regione. Si tratta degli Tsaatan, gli uomini renna.
Circa duecento persone vivono nel nord della Mongolia, al confine con la Repubblica di Tuva, in alcune vallate a sinistra del
lago Kuvsgul. Si tratta di una zona difficile da raggiungere perché le poche vie d’accesso sono bloccate dalla neve per molti
mesi l’anno, e solo nella breve estate le condizioni meteorologiche permettono di avventurarvisi a cavallo. Anche i più potenti
veicoli fuoristrada qui non riescono a circolare.
Proprio a causa di questo isolamento, gli Tsaatan hanno mantenuto intatti i loro costumi e le loro tradizioni. La lingua da loro
parlata è il Tuvino, un idioma di ceppo turco che non ha niente
in comune con il mongolo. Per le questioni religiose e mediche
si affidano agli sciamani, che cadendo in trance trovano la soluzione ai loro problemi e sono per questo stimati e rispettati.
Anche le abitazioni degli Tsaatan si differenziano dalle tradizionali yurte o gheer che normalmente punteggiano il paesaggio mongolo. La dimora tipica è una tenda di forma conica fatta
di semplici pali di legno avvolti da strisce di stoffa, molto simili
ai tepee dei nativi americani.
Questa tenda è facilmente smontabile e trasportabile: si lasciano i pali sul posto e ci si limita ad arrotolare il telo per caricarlo
sul dorso di una renna.
Infatti, gli Tsaatan sono un popolo nomade. Per permettere
alle renne ed agli altri animali del loro gregge di foraggiarsi
si spostano fino a sei volte in un anno. D’estate vanno in alto
dove cresce un particolare tipo di lichene di cui le renne vanno
ghiotte. D’estate scendono più in basso, dentro la foresta, dove
si sta più al riparo dal vento e si trova la legna sufficiente per riscaldarsi e cucinare. Qui d’inverno la temperatura può scendere
fino a quaranta gradi sotto zero.
La renna è un animale straordinario ed è in questo ambiente
che le sue qualità vengono maggiormente apprezzate. Il suo
latte è molto nutriente e se ne possono ricavare anche burro e
formaggi. Anche la sua carne per la verità è molto buona, ma
gli Tsaatan preferiscono cibarsi di quella di Yak o di montone e
preservare in vita le renne. Infatti, quando la neve è alta fino alle
ginocchia e persino i cavalli fanno fatica a muoversi, la renna
rimane l’unico mezzo di trasporto utilizzabile.
I suoi palchi, grandi e molto ramificati, possono essere tagliati
una volta l’anno e forniscono materiale pregiato per la fabbricazione di utensili o come merce di scambio. La pelle è ottima
per la realizzazione di scarpe ed indumenti.
L’economia degli Tsaatan è tutta qua: semplice ma sufficiente
per sopravvivere anche in una regione difficile come questa.
L’ospitalità, che in Mongolia è già molto diffusa, qui raggiunge
l’eccellenza. Basta chiedere un’informazione per venire invitati
nella tenda a bere un thè accompagnato da pane e formaggio.
Certo, capirsi senza avere una lingua in comune non è facile,
ma già dai gesti e dagli sguardi si intuisce la voglia di comunicare. Basta solo un piccolo sforzo ancora e si vivono emozioni
che rimangono impresse nella memoria.
Recentemente le mandrie degli Tsaatan hanno avuto problemi
di salute. Lo scarso ricambio genetico e una certa fretta nel tagliare i palchi quando sono ancora giovani ed irrorati di sangue
hanno causato un generale indebolimento e la moria di alcuni
capi. Adesso pare che, grazie a nuovi incroci e ad una maggiore
accortezza nei tagli, i greggi si siano ripresi. E se stanno bene le
renne, stanno bene anche gli Tsaatan.
Certo, rimangono i problemi dell’isolamento. Le scuole sono
lontane ed i bambini che ci vanno devono dormire in un pensionato e rimangono separati dai genitori per mesi interi. Gli
animali richiedono continue attenzioni, domeniche e festività
incluse. Gli inverni sono duri. I giovani sono tentati a trasferirsi
nei centri urbani dove la vita è più agevole. Un po’ come succede anche da noi..
Ma gli Tsaatan resistono. Sono pochi, ma sono molto solidali
tra loro. Noi, quando andiamo a trovarli, non ci dimentichiamo
di portar loro in regalo qualche metro di tessuto per fare una
nuova casa e del thè e del tabacco per rendere la loro vita meno
dura. Bayartai Tsaatan!
Mongolia: Tenda tradizionale Tsaatan
Enzo Siragusa (Milano)
Mongolia: Famiglia Tsaatan nella tenda
Enzo Siragusa (Milano)
testo e foto di Enzo Siragusa
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Itinerari insoliti
Obiettivo Amazzonia
testo e foto di Marco Pierli
Il racconto che vi propongo è il resoconto di una spedizione,
della durata di un paio di settimane, all’interno della foresta
amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù in cui l’accesso è
consentito solo ad antropologi, ricercatori e documentaristi. Lo
scopo principale è quello di entrare in contatto con gli Indios
Marubo e Matiz, che vivono nello stato brasiliano di Amazonas, vicino al confine con il Perù lungo il corso del fiume Javarì
e dei suoi affluenti Curucà e Ipixuma. Per accedere a queste
zone remote è indispensabile essere in possesso di speciali permessi rilasciati dal Funai, l’ente brasiliano che le gestisce, vi
regolamenta l’afflusso di persone e tutela i diritti degli Indios.
Leticia, porto colombiano sull’immenso fiume, è il punto ideale
di partenza.
I Marubo (1.040 individui) sono la comunità più numerosa della zona e vivono disseminati in vari villaggi e agglomerati di
capanne costruite in prevalenza in prossimità di corsi d’acqua,
dove si trovano ancora grandi malocas (case comuni) al cui interno vivono più nuclei familiari. Parlano una loro lingua, anche
se i giovani iniziano a parlare il portoghese e lo spagnolo, e sono
di religione animista. Vivono di caccia e pesca e in prossimità
dei villaggi coltivano piccoli appezzamenti. Fanno uso di tabacco da fiuto, inalato nelle narici tramite una particolare cannuccia a forma di forcella, una cui estremità viene appoggiata sulla
bocca mentre quella opposta, dopo avervi inserito una pallina
di tabacco, viene inserita nella narice; a questo punto si soffia
forte per far salire il tabacco il più possibile nella narice, e procurare così una sensazione forte e stimolante. I Marubo fanno
uso anche di un allucinogeno chiamato Ayahuasca: normalmente quando assumono questa droga uno o più componenti del
gruppo restano a vigilare sui compagni, poiché pare che sotto
l’effetto della droga si perda il controllo e il senso della ragione.
Per la pesca in stagni e canali utilizzano un veleno chiamato
Huaca, ricavato da particolari radici.
I Matiz (circa 250 individui) vivono nella valle del Rio Javarì a
ridosso del confine con il Perù, sono di fede animista e parlano
una loro lingua; il loro territorio è sottoposto a vincoli, quindi
per potervi accedere bisogna disporre di permessi governativi.
Di tanto in tanto capita che dei gruppi escano dalla riserva per
recarsi nei villaggi dei coloni a valle a vendere oggetti del loro
artigianato e acquistare prodotti e utensili (come machete, coltelli, pentole, ecc.) per la comunità.
In zona vive anche una comunità di Indios da tutti definita pericolosa ed aggressiva, i Korubo, chiamati anche Caceteiros,
che vivono in piccoli gruppi e sono nomadi, per cui è difficile
localizzarli. Tutti li temono e si dice che chiunque sconfini nel
loro territorio corra seri rischi di essere assalito e ucciso. Inoltre
praticano il cannibalismo. La nostra guida ci raccontò della disavventura capitata ad una troupe francese che un paio di anni
addietro era stata autorizzata a girare un documentario nel loro
territorio, con tanto di scorta e guida governativa: il documentarista, mentre con la telecamera stava riprendendo delle sequenze ai margini dell’accampamento, era stato colpito mortalmente
da una freccia scagliata da un Caceteiro dal folto della foresta.
Come pure erano stati assaliti e uccisi dei ricercatori che, per
conto del governo brasiliano, sondavano il terreno in cerca di
giacimenti di petrolio ed altre materie prime.
Alla ricerca dei Marubo
La preparazione del nostro viaggio inizia molti mesi prima
della partenza: usufruendo di consigli e preziosi contatti avuti
da Argonauti Explorers, contattiamo una guida locale di nome
Tony il quale, grazie a conoscenze all’interno del Funai, ci può
aiutare ad ottenere i permessi governativi per accedere alle zone
dei Marubo. Dopo una lunga e sofferta trattativa per definire itinerario e costi, raggiungiamo un intesa in cui è previsto che, per
avere i permessi, Tony ci spaccerà per ricercatori. A questo punto non ci resta che partire! Dopo 11 ore di volo eccoci arrivati a
Bogotà. Il mattino successivo trasferimento in aeroporto e dopo
due ore di volo siamo a Leticia, cittadina situata all’estremo
sud della Colombia, sulle rive del Rio delle Amazzoni, punto
di partenza ideale per intraprendere escursioni in barca e trek
a piedi all’interno della foresta all’insegna dell’avventura: tour
che possono variare da un giorno a più settimane. E’ un luogo
tranquillo e ben tenuto: ristorantini all’aperto che servono buon
cibo, vari negozi, tra i quali alcuni di artigianato indio, e un
piccolo ma interessante museo dedicato alle comunità indigene
della zona. Leticia venne fondata nel 1867 con il nome di San
Antonio ed apparteneva al Perù, poi nel 1922 venne ceduta alla
Colombia e ribattezzata col suo nome attuale. Dal molo, con
servizio regolare di battelli, è possibile risalire il fiume fino a
Iquitos in Perù, oppure discenderlo fino a Manaus in Brasile.
Dopo averci accolto all’aeroporto e offerto un drink, Tony ci
spiega in dettaglio il programma e ci mostra il permesso del
Funai che ci consentirà di accedere alla zona dei Marubo. Alle
5 del mattino successivo lo troviamo all’imbarcadero, con lo
staff composto da due motoristi, e due funzionari governativi,
che resteranno con noi per tutta la durata del viaggio. La barca,
nonostante sia abbastanza grande, è già piena, tra scorte di cibo,
Brasile - Amazonas: Donna Marubo del Rio Curucà
Marco Pierli (Modena)
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acqua potabile, attrezzatura per cucina e per il campo, quattro
botti di carburante ed un motore di scorta. Per noi non resta
tanto spazio: ci sistemiamo a prua sotto una veranda che ci proteggerà dal sole cocente e dalla pioggia.
Ci vorranno ben quattro giorni di navigazione, e quasi 1.100
km, per giungere nel territorio dei Marubo. Dapprima discendiamo il Rio delle Amazzoni per circa un’ora, poi, quando inizia ad albeggiare, il battello lascia il corso principale del fiume
e, già in territorio brasiliano, inizia la risalita del Rio Javarì, che
segna anche il confine tra Brasile e Perù. Notiamo a malincuore
che lungo le rive rimane ben poco della foresta amazzonica:
ovunque baracche, villaggi di pescatori e grandi segherie e,
ormeggiate, grandi chiatte cariche di legname. Lentamente gli
insediamenti umani si fanno più radi fino a sparire ed una folta
e imponente foresta torna a ricoprire le rive del fiume. Di tanto
in tanto si vedono guizzare fuori dall’acqua grossi delfini rosa
e grigi, a volte anche nelle immediate vicinanze della barca. La
navigazione procede bene, il fiume è grande e profondo per cui
si avanza senza rischi di insabbiarsi o di sbattere contro ostacoli. Per guadagnare tempo, poiché la distanza da percorrere
è tanta, si decide di navigare sia di giorno che di notte, con i
motoristi che si alternano alla guida, fin quando non saremo in
territorio Marubo. Il panorama è bellissimo, i cieli limpidi, la
natura incontaminata e rigogliosa: ci fermiamo il minimo indispensabile per cucinare o per sgranchirci le gambe, poi via!
si riparte. Di notte ci sistemiamo alla bell’e meglio sul fondo
della barca, rinchiusi nei sacchi a pelo per proteggerci da insetti
e umidità. Dopo un paio di giorni di risalita lasciamo lo Javarì e
ci immettiamo nel Curuca. Ci troviamo nel cuore dell’Amazzonia, sulle sponde del fiume solo foresta e, a parte noi, nessuno.
E’ una sensazione bellissima, noi e questa natura incontaminata: pappagalli coloratissimi che svolazzano sugli alberi e in
cielo, scimmie che strillano, caimani sulle rive del fiume che si
crogiolano al sole e capibara che si abbeverano.
Alla sera del terzo giorno arriviamo a Volta Grande, piccolo
villaggio composto da una grande maloca attorniata da piccole
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Brasile - Amazonas: Bambina Marubo del Rio Curucà
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capanne. Siamo emozionatissimi: è il nostro primo contatto con
il popolo Marubo. Le donne indossano le loro tradizionali collane fatte di conchiglie levigate e perline, hanno le narici bucate
in cui fanno passare una collanina, il viso dipinto a strisce rosse,
il corpo colorato ed alle caviglie ed ai polsi portano bracciali
di fibre vegetali. La popolazione è cordiale e allo stesso tempo
incuriosita dal nostro arrivo. Trascorriamo la notte all’interno
della grande maloca, dove attorno al fuoco conversiamo alla
bell’e meglio con gli Indios, i quali ci offrono del cibo in segno
di ospitalità: uova di tartaruga bollite, banane fritte e tapiro alla
brace, ed una bevanda ricavata da frutti fermentati dal sapore
dolciastro. Noi per non sembrare scortesi mangiamo, anche se
un po’ titubanti.
Il mattino successivo riprendiamo la navigazione, oramai manca
poco alla meta finale. Il fiume ora si fa più insidioso, il fondale è
basso e i tronchi ostacolano la navigazione; sulla prua un motorista controlla che la barca non vada ad incagliarsi o a sbattere
contro i rami. Finalmente a metà pomeriggio avvistiamo su di
un’altura il villaggio di San Sebastian, meta finale della nostra
spedizione, dove trascorreremo tre giorni con i Marubo per conoscerne abitudini e costumi. Un folto gruppo di persone in
pochi minuti si precipita in prossimità della riva: sono incuriositi dal nostro arrivo e come scendiamo dalla barca ci prendono
quasi d’assalto. E’ una sensazione bellissima ed indescrivibile:
donne e bambini vestono i loro tradizionali costumi, anche se
notiamo a malincuore che alcuni (ma tutto sommato ancora una
minoranza) indossano già magliette e calzoncini. Finalmente,
dopo quattro duri giorni di navigazione ininterrotta, abbiamo
raggiunto il nostro obiettivo. Tony ed i funzionari governativi spiegano al capo del villaggio lo scopo della nostra visita
e come segno di amicizia gli porgono dei doni, come alcuni
machete, lenze ed ami, acquistati al mercato di Leticia prima di
partire. Il capo li accetta volentieri e ci permette di alloggiare
in una capanna.
Passata la curiosità iniziale, lentamente gli Indios riprendono le
loro attività: le donne cucinano, alcuni uomini riparano il tetto
di una capanna, i bambini sono al fiume per catturare dei pesci con le reti. Ne approfittiamo per scattare
delle belle foto e per visitare questo grazioso villaggio composto da svariate capanne e da alcune grandi malocas, con al centro un grande spiazzo in terra
battuta utilizzato per danze e feste. La sera stessa
assistiamo alle loro tradizionali danze al chiaro di
luna: uomini e donne indossano gli abiti da cerimonia e copricapi con lunghi pendenti di conchiglie
e perline. Le danze, rese ancor più suggestive da
fiaccole che con la loro tenue luce illuminano lo
scenario, si prolungano fino a notte fonda, ed anche
noi siamo invitati a partecipare.
Il mattino successivo con un gruppo di Indios ci
rechiamo nella foresta per una battuta di caccia. I
cacciatori procedono per primi, per cercare le tracce e individuare gli animali nel folto della bosca-
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glia, mentre noi assieme a Tony e ad alcune donne chiudiamo
la fila; di tanto in tanto ci spiegano le proprietà curative di varie
piante selvatiche. Dopo circa un’ora di duro cammino nella selva i cacciatori trovano le tracce fresche di un maiale selvatico
ed iniziano a seguirle; trascorsa circa mezz’ora, localizzata la
preda, silenziosamente si sparpagliano: inizia l’accerchiamento
della vittima, che in breve, purtroppo, viene catturata. I cacciatori, eccitati, esultano e ci mostrano orgogliosi l’animale,
noi capiamo benissimo che per loro la caccia è una fonte indispensabile di sostentamento, anche se, allo stesso tempo, ci
dispiace per la sorte del povero maiale. Il giorno successivo,
dopo aver disceso il fiume in piroga per circa mezz’ora assieme ad un gruppo di Indios, assistiamo ad una pesca del tutto
insolita. Dapprima scavano il terreno alla ricerca di particolari
radici, che battono con bastoni fino a ridurle in poltiglia; a questo punto dopo averle riposte all’interno di contenitori di vimini
si dirigono ad un piccolo canale dove le donne immergono la
poltiglia nell’acqua mentre gli uomini armati di lunghe fiocine
si dispongono sulla riva in attesa che il veleno (chiamato Huaca) faccia effetto: quando i primi pesci iniziano ad affiorare gli
Indios li infilzano con le fiocine. Oltre ai pesci sono catturate
anche alcune tartarughe, considerate dagli Indios prelibatezze
L’ultimo giorno lo trascorriamo ancora con i Marubo, e li vediamo all’opera mentre modellano e poi cuociono tazze, piatti e
brocche in argilla, si decorano il corpo utilizzando colori vegetali e preparano una bevanda allucinogena chiamata Ayahuasca,
un decotto di particolari liane. Il mattino successivo di buonora,
salutati gli abitanti del villaggio, riprendiamo il lungo viaggio
di ritorno. Dall’alto della riva gli Indios ci salutano, ed in noi
è forte l’emozione e la nostalgia dei giorni trascorsi con loro
in un ambiente così diverso dal nostro. Il villaggio scompare
all’orizzonte e le rive del fiume tornano ad essere avvolte da
una folta e lussureggiante foresta. La barca procede veloce, aiutata dalla corrente.
Nella foresta con i Matiz
Nel primo pomeriggio del terzo giorno siamo
ad Atalaia, paesone sulle rive dello Javarì a circa
un’ora di navigazione dal Rio delle Amazzoni: è qui
che Tony ha fissato precedentemente un incontro
con un nucleo familiare di Matiz suoi amici, usciti
dalla riserva per vendere artigianato ed acquistare
prodotti ed utensili. Mentre approfittiamo dell’occasione per rifocillarci in un ristorante, Tony si reca
dai Matiz per verificare la possibilità di trascorrere
alcuni giorni con loro nella foresta. La cosa si può
fare, ma chiedono un compenso di 70 dollari a persona per un paio di giorni.
Dopo una breve consultazione accettiamo. Partiremo in serata con loro per Zacambù, località palustre
a una trentina di km da qui: una rete di lagune, canali e grandi isole ricoperte da una foresta vergine
che nel periodo delle piogge viene in parte som-
mersa. Il nucleo familiare è composto da 6 individui, 5 adulti
ed un bambino. Il capofamiglia, Pinan, sulla quarantina, statura
piccola, corpo agile, ha il viso tatuato da righe blu orizzontali
e i lobi delle orecchie trapassati da specie di tappi di legno; la
moglie Dani, molto più giovane, anche lei con il viso tatuato, indossa un gonnellino di stoffa, ha il seno scoperto e porta
collanine di perline e denti di scimmia; il figlio Messe è un
bambino grazioso dagli occhietti vispi di circa 3/4 anni; la suocera Vascà, donna anziana molto interessante dal viso tatuato,
porta sul naso tanti spilloni simili ai baffi di un gatto ed appariscenti orecchini di legno; infine due giovanotti, all’incirca di
vent’anni, Ivò e Piscì, figli di Pinan e della prima moglie, portano collane di denti di macaco e bracciali di corda intrecciata e
indossano calzoncini jeans.
In nottata arriviamo nella zona prescelta, una radura in riva alla
laguna, ombreggiata da imponenti alberi dove monteremo il
campo e pernotteremo un paio di notti, mentre durante il giorno
seguiremo gli Indios nella foresta. Li vediamo all’opera nell’accendere il fuoco con un semplice bastoncino ruotato vorticosamente su di una tavoletta di legno, nel cacciare le scimmie sulle
cime degli alberi soffiando con mira infallibile da lunghe cerbottane i dardi intinti nel curaro, nell’individuare le tane scavate
sulle rive dei canali dai pesci e nel catturarli con le mani, oppure
nel pescare i piranha nella laguna, con rudimentali canne.
Questi due giorni trascorrono velocemente ed è giunto il momento di salutarci. Mentre i Matiz si dirigono a bordo di una
piroga ad Atalaia per poi ritornare al loro villaggio nella foresta, noi prendiamo la direzione opposta per giungere dopo circa
un’ora e mezza di navigazione a Leticia, punto di partenza e di
arrivo della nostra spedizione. Il nostro itinerario è giunto al
termine e mentre l’aereo sorvola l’immensa foresta amazzonica con un po’ di nostalgia ripensiamo alla nostra affascinante
avventura ed alle popolazioni incontrate, che vivono ancora in
simbiosi con la natura e dalla natura con grande abilità riescono
a procurarsi tutto ciò che serve per vivere in un ambiente unico
ed incontaminato.
Brasile - Amazonas: Indio Matiz del Rio Javarì
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Racconti per immagini:
l’arte di ornare se stessi
Famiglia Sani (Yunnan - Cina)
Baldo Sansò (Sondrio)
Donne Dong (Guizhou - Cina)
Sergio Pucci (Siena)
Uomini Yi (Yunnan - Cina)
Baldo Sansò (Sondrio)
Sposa Miao (Guizhou - Cina)
Marina Buratti (Milano)
Bambinio Yi (Guizhoui - Cina)
Marina Buratti (Milano)
I popoli
della Cina meridionale
Donne Moso Naxi (Yunnan - Cina)
Baldo Sansò (Sondrio)
Donna Aini Aku (Yunnan _ Cina)
Francesco De Ruschi (Bergamo)
Donna Hani (Yunnan- CIna)
Sergio Pucci (Siena)
Donna Yi (Yunnan - Cina)
Marina Buratti (Milano)
Donna Dao Than Phan (Yunnan - Cina)
Francesco De Ruschi (Bergamo)
55‰‰5‰
ATTENZIONE
A.M.I. - Amici Missioni Indiane - ONLUS
è inserita tra le organizzazioni di volontariato alle quali potrà
essere destinato il cinque per mille
dell’IRPEF.
progetti di aiuto.
Ricordati che per destinare il 5 per mille all’ A.M.I.
basta apporre la propria
sulla scheda e indicare
il nostro Codice Fiscale
97018760153
come riportato nell’esempio seguente.
La scelta di destinare il 5 per mille
l’importo dell’IRPEF dovuta.
Ringraziamo i 1.545 contribuenti
che nel 2006 hanno devoluto il cin que per mille ad AMI. Informiamo che è stato pubblicato sul sito Internet
dell’agenzia delle entrate che AMI ha ricevuto, in seguito a ciò, 54.914,49
euro , che sono stati impegnati nei progetti di aiuto, alcuni dei quali trove rete descritti in queste pagine.