La Voce del Volontariato

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La Voce del Volontariato
G I O R N A L E
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D E L L ’ I S O L A
Periodico d’informazione dei comuni fra l’Adda ed il Brembo
La
Voce
del
Volontariato
Notizie dalle associazioni dell’Isola Bergamasca
L’INDIA,
DOVE TUTTO
È TROPPO
GRANDE
ED ARCANO
Reportage
di Monika Bulaj.
l Paese cammina. Non aspetta. Lontano dalle città la ricostruzione procede
veloce. Ma, dopo lo Tsunami, arriva l’onda del business a tutti costi. A sud di
Pondichéry, tra i villaggi più colpiti non si sente odore di morte: la ricostruzione nei villaggi sprigiona un’energia da far invidia alla vecchia Europa. Ciascuno lavora per tutti non perché si deve ma perché è logico così.
Sull’India arrriva un altro Tsunarni. È un secondo maremoto, che nasce dal primo e di cui nessuno parla. È l’economia d’assalto che trae vantaggio dal disastro, dagli equilibri sconvolti e dall’azzeramento demografico della costa per
stuprare ancor di più, deportare villaggi, cementificare, uccidere la libera pesca
per impiantare turismo di massa, allevamenti iper-inquinanti di gamberi e pesci. Per fare altri schiavi, fare i ricchi più ricchi e i poveri più poveri.
Per contrastare la legge del più forte, un esercito
di operatori si è messo in moto e svolge una
guerra silenziosa e senza quartiere, nonostante
la minaccia di morte da parte degli sfruttatori collusi con la politizia, gente capace dì sbattere in
galera chiunque, anche un intero villaggio, quando si mette contro. Sono titolari di piantagioni
schiaviste, filande in leasing dalle multinazionali,
fornaci di mattoni e cave di pietra. Contro questo
potere violento si muove gente di prima linea come
quella del Cesvi, la Ong italiana che da anni coordina il lavoro delle associazioni indiane - Jeeva Jothi,
Don Bosco lmbu Allam, Afti – ed è stata una tra le
prime ad affrontare l’emergenza sulla costa più colpita. Il Cesvi trova, valorizza e usa al massimo l’unica vera risorsa di questo Paese che non ha nemmeno l’anagrafe: il capitale umano. In questo mondo che brulica, i volontari indiani si
muovono nel modo giusto. Non con pietà e sussidi, ma svegliando le comunità con la scuola e i microcrediti, con prestiti d’onore minimi. Basta poco, anche
una mucca; e qui una mucca costa venti dollari. Vendendo il suo latte si può
guadagnare il necessario ad acquistarne una seconda, per un’altra famiglia del
villaggio. E così via all’infinito. Ho attraversato con questi giovani l’India più segreta, i luoghi più sperduti della costa. Ho visto i loro centri di accoglienza, le
loro cliniche mobili che vanno oltre il pronto soccorso e diventano centro d’ascolto per chi non ha diritti. Basta poco: anche un corso di cucito per ragazzine. Le vedo arrivare a centinaia con i loro occhi sorridenti, sognanti e impauriti. Fanno cose straordinarie gli operatori indiani collaboratori del Cesvi. Giovani laureati, capaci di operare con calma nelle situazioni più difficili, intrisi come
sono nell’insegnamento non violento di Gandhi. Come Rose Mercy Felcita, grandi occhi neri, voce delicata ma decisa. Non c’è aggressività in loro, ma una determinazione silenziosa e invincibile. L’India cammina. Non aspetta. Lontano
dalle città la ricostruzione procede veloce.
I
A Tharamgambadi, sulla costa più colpita, quattro anziani pescatori di bellezza
statutaria seminudi, assieme ad altri giovani, erigono una casa con gesti collaudati, incastrano canne con se fosse un gioco, lavorando di cunei, spago e
stuoia di palmizio. Vanno così in fretta che non faccio in tempo a cambiar pellicola che la casa ha già cambiato forma. Li guardo, loro ridono felici del mio
stupore. In mezz’ora la capanna è fatta. Solida, ventilata, collaudata. I vecchi
hanno memoria. Sanno che non ha senso fare case di cemento nella terra equatoriale dei tifoni e dei maremoti. Il cemento affonda nella sabbia, il cemento s’è
visto che fine ha fatto il 26 dicenibre. E le baraccopoli costruite dall’Occidente,
con i loro tetti dì lamiera, sono un inferno a quaranta gradi; con l’aria che non
circola e la puzza di catrame che toglie il fiato.
A sud dì Pondichéry, tra i villaggi più colpiti dallo Tsunarni, dovrebbe essere un
viaggio nella morte, invece è un inno alla vita. La ricostruzione nei villaggi sprigiona un’energia da far invidia alla vecchia Europa. Nel villaggio di bambù tutto resta elegante, calmo, allegro. Donne selezionano le macerie, separando legno, ferro, oggetti utili. Un uomo pulisce il letto di un fiume intasato dall’onda
assassina. Nulla è più lontano da questa gente dell’imperativo morale occidentale. Ciascuno lavora per tutti, spontaneamente e non perché si deve ma solo
perché è logico così, perché sarebbe insensato altrimenti. È come se il disastro
avesse rafforzato, anziché distruggere, il senso comunitario di questa gente. In
un paesino sul mare i pescatori avrebbero già i soldi per costruire la prima barca ma non fanno niente. Per evitare gelosie, aspettano il momento in cui ci saranno soldi per tutti. Qui nessuno esce da solo in mare e, al rientro, in attesa
c’è un intero esercito di donne con ceste, bilance e reti, con la spartizione ben
definita dei ruoli. In un altro villaggio un
paio di barche sono rimaste intatte, perché i pescatori erano al largo e non si sono accorti di nulla. Solo un’onda lunga,
lunga, poi più nulla. Al ritorno non hanno trovato più il loro villaggio. Così
aspettano, bevono, mangiano frutta e
dormicchiano sotto le stuoie. Annegano la loro tristezza nel silenzio del caldo equatoriale. Ma altri sorseggiano
the e leggono ad alta voce un giornale commentando le notizie.Intanto
bambini preparano per la straniera il
the caldissimo al latte, con gesti
precisi e rapidissimi, poi me lo versano ridendo da un metro di altezza dritta nella tazza. I loro occhi sono pieni di luce e di dignità, mi accorgo che qui nessuno piange: non riuscirei a
offrire all’Occidente fotografie capaci di far mettere la mano al portafoglio in nome della misericordia. Qui la gente ha molta più voglia di vivere che in Europa.
Lo Tsunami, ti accorgi, è solo uno dei mille disastri di cui è costellata la storia
indiana. La gente ci vive con pochi drammi. L’inferno, il nemico vero, lo sanno
tutti, è altrove. L’inferno è nelle periferie delle città infuocate, identiche a quelle della Turchia, dell’Iran o del Marocco. Le strade trafficatissime con file di negozietti anonimi, i loculi di cemento, la gente che ti guarda. I luoghi dei diseredati, dei
miserabili e degli intoccabili hanno tutti la stessa faccia. A Thiruvarur, quaranta gridi all’ombra, con una luce calcinata e abbacinata, con polvere dappertutto, mi gira la testa, perdo la nozione del luogo, complici alcune donne musulmane velate che mi portano improvvisamente in altre latitudini. Mi prende il panico, poi mi dico: sei in India, vicino all’Equatore, sulla costa del disastro. Ed
ecco che, all’improvviso, mi trovo sotto una pioggia di petali, in un profumo di
rose e resina. Da lontano arriva un battito di cembali, un tintinnio di campanelli. Centinaia di piedi battono il ritmo sulla sabbia coperta dì srerco e plastica.
Solo uomini, ragazzi
scalzi e vecchi senza
età, a torso nudo, con
risate, balzi, salti si
fanno largo tra mucche e capre randagie,
motociclette e risciò,
sotto i giganteschi occhi truccati delle dive
delle soap opera indiane sui cartelloni pubblicitari. Dalla polvere
emerge un carro altissimo, reale. Nelle ghirlande dì fiori, sotto un
baldacchino addobbato dì fiori, vedo per un attimo il viso dolce di una bambina morta. Bellissima, indifferente. Sembra il funerale di una regina, e
invece è solo un funerale di diseredati. Poi il carro viene inghiottito dalla danza
dei piedi scalzi, risate, urla di ambulanti, clacson, polvere.
“Il quaranta per cento delle vittime dello Tsunami sono bambini, figli di pescatori. Al mattino, erano là, sulla spiaggia, a far toilette, a raccogliere le conchiglie”, dice Leonardo Niccolai, responsabile unico del Cesvi per tutto il sub continente indiano. Una laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, studi in lingue orientali e sulla «coabitazione» tra induismo, cristianesimo, islam ed ebraismo. “1 genitori hanno vagato”, spiega Mercy, la sua assistente. Che racconta:
“È sparita un’intera generazione. I genitori hanno vagato per settimane sulla
sabbia, sussurrando i nomi dei loro ragazzi”. Ma questo non ha fermato l’ondata di richieste d’adozione dall’Italia, le troupe della Tv italiana in ricerca d’orfanelli inesistenti, una ricerca decisa a tavolino e cieca di fronte alla realtà. “Qui”,
ti spiegano, “esiste un concetto di famiglia completamente diverso. Chi ha perso genitori, trova subito i familiari anche più lontani”.
Nagappattinam è un enorme cimitero di barche. Per capire cosa era lo Tsunami, basta tuffarsi in questo labirinto di pescherecci ridotti a scheletri, balene di
legno arenate, stese su un fianco in un porto deserto. Sono centinaia, non ne
vedo la fine, e non una di esse è intera. Ma anche in questa flotta di relitti FormicoLa l’umanità. Chi prova a recuperare pezzi di legno con martelletti, usando seghe, persino a calci. Un uomo seminudo batte come un matto un grande
martello per strappare dalla cabina un grande pezzo di legno forato. Bambine
buttano nel fuoco lamiere, si muovono nel fumo nero per pulire il ferro da plastica e catrame. Ma la maggior parte dei
pescatori dorme nel l’ombra delle barche.
Tirumarugal è la Lourdes dei Tamil, con i suoi templi bianchi come meringhe
kitsch. Qui i pellegrini arrivano sulle ginocchia, strisciando nella polvere. E poi,
dalla chiesa spagnoleggiante, una strada stretta porta verso il mare, costeggiata
dai barbieri che fanno un taglio rituale ai bambini, prima del bagno nel mare sacro, nel grande Gange. Su questo stradone, il 26 dicembre, l’onda ha trascinato via duemilacinquecento musulmani, cattolici e indù. Al tramonto la spiaggia
si riempie di pellegrini. Bambini con le teste rasate cosparse di cenere ocra sgranocchiano ceci abbrustolite, donne musulmane in chador neri e donne indù in
sari scarlatti, guardano insieme l’orizzonte come si guarda un miraggio.
A Thiruvarur già all’alba senti caldo umido equatoriale, profumo forte di gelsomini, ovunque ronzano ventilatori grandi e lenti che rievocano racconti di Conrad ed epoche coloniali. Donne mi mettono fiori nei capelli, la mia pelle ha già
cambiato odore, ha l’odore dell’India. Fuori dalla finestra la città si sveglia, ma
forse non ha mai dormito; è un concerto delicato di campanelli e trombette, un
mare induista dove senti miagolare solitario solo qualche muezzin.
Nella penombra, dentro a un tempio che risuona di gong e tamburi, si agitano
mille divinità dì pietra e gesso, proboscidi, teste, membra, pance, seni, sessi.
Che allegria nel politeismo! Un’allegria barocca e ridondante, eppur priva di
pompa, che segna tutta la distanza dell’ India dall’Occidente cristiano, dall’Islam e dal mondo ebraico, le tre religioni del dio unico che dall’undici settembre
hanno perso la pace. Che distanza, anche, dal pragmatismo cinese, sempre più
ateo e materialista. Qui regna l’invisibile, nascosto dietro mille forme e mille nomi. Già da lontano, dalle torri dei templi, la sensualità degli dei incatena lo sguardo, le forme umane diventano metafore dei grembi vegetali nella danza, nel volo, si specchiano nei laghi pieni di fiori di loto. Le donne mi dipingono la fronte di polvere bianca, mi portano verso una cripta illuminata da luce al neon, dove pende una liana verde in mezzo ad altre divinità senza nome. Andiamo in cunicoli stretti verso il buio, il sancta sanctorum, una discesa nel grembo Qualcuno accende un cero, una mano apre una tenda, scintillano lucernette, un torso nudo e unto luccica e, accanto a vesti color ocra, l’incenso avvolge una statuetta nera grondante d’olio La stessa mano scura chiude la tendina. Restano
grandi occhi neri nel buio, melodia di armonium, cembali, campanelli. Il ricordo di qualcosa già sentito: forse il tintinnio, l’incenso, le litanie, i petali. del Corpus Domini nel caldo secco d’estate a Varsavia. In India tutto è troppo grande,
abbondante, arcano. Pensi che non la capirai mai. Ma la calma che ti circonda
ti aiuta a guardare, ad ascoltare. La gente ti osserva, sorride e poi dondola la
testa come imbambolata. Come il cameriere di una locanda dove chiedo riso e
verdure. “Scegli tu”, gli dico, “quello che mi piacera”. Anche lui oscilla il capo,
e quell’oscillazione è piena di significati: dolcezza, consenso, stupore, ammirazione, voglia di essere utile. Una raffica di segnali che qui, solo qui, assumono
un unico, silenzioso, elementare significato: “Sì”.
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Dino Buttironi
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