Giovanni delle Bande Nere

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Giovanni delle Bande Nere
Giovanni delle Bande Nere
(1498 - 1526)
1510-1526
Lettere 1510e Testamento
in Archivio Storico Italiano 1858-59
"Lettere inedite e Testamento di Giovanni de' Medici detto delle Bande Nere con altre di Maria e Jacopo Salviati, di principi,
cardinali, capitani, familiari e soldati (1510-1526)", raccolte dal cav. Filippo Moisè e pubblicate per cura di Carlo
Milanesi, in Archivio Storico Italiano, presso G. P. Viesseux, Firenze, prima parte (Lettere 1-45 dal 30 maggio 1510 al 1°
luglio 1518), n. s. T. VII, p. 2a (1858) pp. 3-40. Seconda parte (lettere 46-98 dal 9 ottobre 1518 al 15 dicembre 1521), n. s.
T. VIII, p. 1a (1858), pp. 4-28. [Fantoni, p. 500]. Terza parte (lettere 99-136 dal 17 dicembre 1521 al 15 maggio 1524), T.
IX, p. 1a (1859), pp. 3-29. Quarta parte (lettere 137-176 dal 29 maggio 1524 al 24 dicembre 1526. Testamento del 29
novembre 1526), T. IX, p. 2a (1859), pp. 109-147.
Il monumento a Giovanni delle Bande Nere di Baccio Bandinelli in piazza San Lorenzo a Firenze Giovanni dalle Bande Nere agli Uffizi
MEDICI, Giovanni de' detto delle Bande Nere (Forlì 1498 - Mantova 1526)
Capitano di cavalleria nella guerra di Urbino (1516-17), dopo aver ristabilito con le armi l'autorità papale, nel 1521 prese parte
all'invasione del Ducato di Milano sotto gli ordini di Prospero Colonna. Governatore delle truppe fiorentine, nel 1522 passò nel
campo francese, subendo la sconfitta della Bicocca. Tornato nel campo imperiale, nel 1523 e 1524 respinse i tentativi di
invasione della Lombardia dal Piemonte e dalla Svizzera, ma a seguito del rovesciamento di fronte deciso dal nuovo papa
Clemente VII (il cardinale Giulio de Medici), tornò nuovamente al fianco dei francesi e solo una grave ferita da archibugio sotto
le mura di Pavia gli impedì di prendere parte alla disfatta del 24 febbraio 1525. Nominato capitano generale della fanteria italiana
nell'esercito della lega di Cognac, rimase nel campo anti-imperiale anche dopo il ritiro del papa, imposto con la forza dalla
fazione dei Colonna. Durante le operazioni sulla sinistra del Po contro i lanzichenecchi di Georg von Frundsberg, fu mortalmente
ferito da un colpo di falconetto a Governolo. Padre di Cosimo I duca di Firenze. DBI [Maurizio Arfaioli].
Medici, Giovanni De’ (Giovanni Dalle Bande Nere)
Dizionario Biografico degli Italiani Maurizio Arfaioli
MEDICI, Giovanni de’ (Giovanni dalle Bande Nere). – Nacque a Forlì il 6 apr. 1498 da Caterina Sforza, figlia illegittima
del duca di Milano Galeazzo Maria e signora di Imola e Forlì, e dal suo terzo marito, Giovanni di Pierfrancesco de’
Medici, detto il Popolano, giunto alla sua corte nel 1496 come ambasciatore della Repubblica fiorentina.
Battezzato con il nome di Ludovico, dopo l’improvvisa morte del padre, il 14 sett. 1498 il M. ne assunse il nome per
volontà della madre. Alla fine del 1499, alla vigilia dell’attacco delle forze franco-papali guidate da Cesare Borgia,
Caterina inviò il M. a Firenze, dove lo raggiunse nel luglio 1501 perché costretta nel frattempo dai Borgia a rinunciare a
ogni pretesa su Imola e Forlì. Nel 1503 vinse la dura battaglia legale contro il cognato, Lorenzo di Pierfrancesco de’
Medici, per ottenere i beni ereditati dal defunto marito e la custodia del M., che da Lorenzo fu rapito e rinchiuso nel
convento di S. Vincenzo Annalena, nel quartiere d’Oltrarno, dove rimase fino alla morte dello zio (20 maggio 1503).
Caterina potè quindi dedicarsi all’educazione del M., sforzandosi di trasmettergli i valori della nobiltà militare italiana
alla quale ella apparteneva. Caterina morì il 28 maggio 1509; poco prima affidò il M. alla tutela di Iacopo Salviati,
membro di una delle famiglie più antiche e potenti di Firenze, e di sua moglie Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il
Magnifico. Il M., che sin dall’infanzia aveva dimostrato un temperamento violento e insofferente all’autorità, solo in parte
frenato dalla forte figura materna, divenne un adolescente rissoso e dissoluto, amante delle armi, del gioco e delle donne,
costretto per lunghi periodi lontano da Firenze nelle sue proprietà di Castello e di Trebbio a causa delle sue violente
intemperanze.
Nel 1512 i Medici tornarono al potere a Firenze e, grazie alla guida e alla protezione dei Salviati, il M. – sebbene
appartenesse al ramo cadetto della famiglia che aveva appoggiato la cacciata di Piero di Lorenzo de’ Medici nel 1494 –
non tardò a trovare una collocazione adatta alla propria indole e alle proprie aspirazioni nel contesto del nuovo regime
mediceo.
In effetti, il M. avrebbe vissuto quasi per intero la sua breve ma intensa vita adulta combattendo al servizio del blocco di
potere che si era creato tra l’élite finanziaria fiorentina e i papi della famiglia Medici, Leone X e Clemente VII.
Il M. ebbe il battesimo del fuoco e il suo primo vero comando – una compagnia di cavalleria – durante la cosiddetta
guerra di Urbino (1516-17), voluta da Leone X per spogliare il duca di Urbino Francesco Maria I Della Rovere del suo
Stato e del titolo e darli al proprio nipote, Lorenzo di Piero de’ Medici. Nel 1517 il M. sposò la figlia di Iacopo Salviati e
di Lucrezia de’ Medici, Maria. Da questa unione nacque, il 15 giugno 1519, il loro unico figlio, Cosimo, futuro duca di
Firenze. Tra il 1519 e il 1520, Leone X si servì del M. e delle sue truppe per riaffermare con le armi l’autorità papale su
alcuni degli elementi più riottosi della nobiltà dello Stato della Chiesa. Risalgono a questo periodo la maggior parte degli
episodi di violenza, duelli e risse sia a Firenze sia a Roma, per cui il M. sarebbe poi rimasto famoso. Nel 1521 partecipò
all’invasione del Ducato di Milano, allora sotto il controllo della Francia, congiungendosi alle forze imperiali e papali
comandate da Prospero Colonna.
La campagna del 1521 costituì il primo assaggio di guerra vera per il M., che fino a quel momento aveva partecipato a
conflitti di dimensioni e portata limitate; fu anche il suo primo diretto contatto con il frenetico processo di
sperimentazione tattica che caratterizzò la fase finale delle guerre d’Italia. Nel corso della sua breve carriera, il M. si
distinse per l’abilità e l’aggressività con le quali riusciva a sfruttare le potenzialità della cavalleria leggera (sia lancieri sia
archibugieri a cavallo) e della fanteria tattica, composta da insiemi organici di picchieri e tiratori, in un periodo di
transizione delle tecniche di combattimento. L’evento bellico, infatti, mutò da una guerra caratterizzata da frequenti
battaglie campali a una prevalentemente di manovra, fatta di piccoli scontri, assedi e imboscate. Sebbene non fosse un
innovatore (come è stato sostenuto dai suoi primi biografi), ma un interprete di altissimo livello della scienza militare del
suo tempo, il M. fu un elemento di spicco della generazione di condottieri che portò a compimento il processo di
trasformazione dell’arte della guerra iniziato in Italia nel 1494 con la calata di Carlo VIII di Valois.
La campagna del 1521 si concluse con un pieno successo per le forze di Leone X e Carlo V d’Asburgo: nel novembre il
capitano generale Prospero Colonna occupò Milano riportando al potere Francesco II Sforza, allora alleato degli Asburgo,
mentre Parma e Piacenza tornarono a far parte dello Stato della Chiesa. Il 21 dicembre, però, Leone X morì
all’improvviso, privando il M. del suo principale referente politico in un momento critico per la sua carriera. Ai primi del
1522 il M. fu nominato governatore delle truppe della Repubblica fiorentina, i cui confini erano resi malsicuri dalle
conseguenze politiche e militari della repentina eclissi del potere mediceo a Roma. Nel marzo dello stesso anno però il
M., spinto dalla scarsa considerazione mostrata nei suoi confronti sia dagli Imperiali sia dai Medici, decise di accettare le
generose offerte che gli venivano fatte dal campo francese. Le modalità dell’improvviso cambio di bandiera del M.
nocquero gravemente alla sua reputazione di condottiero, provocando tensioni e spaccature all’interno dei suoi uomini: il
M. e i suoi si collocarono dunque dalla parte delle forze perdenti nella sanguinosa battaglia della Bicocca (27 apr. 1522),
in seguito alla quale la Francia si vide sfuggire di mano ancora una volta il controllo del Ducato di Milano. Il M. passò
quindi al servizio dello Sforza, del quale era parente per via materna, firmando una condotta per due anni.
Risalgono a questo periodo i tentativi del M. di costituirsi un proprio Stato. Comprò Aulla in Lunigiana, entrando subito
in violento contrasto con la potente famiglia Malaspina, e agì da protettore dei possedimenti della sorellastra Bianca
Riario (figlia di Caterina Sforza e del primo marito Girolamo Riario), vedova del conte Troilo (I) de’ Rossi di San
Secondo, e dei figli di questa nel territorio di Reggio Emilia. Il M. fu però costretto a rivendere Aulla nel 1525, e anche i
suoi lunghi periodi di permanenza a Fano non si tradussero in nulla di concreto. In effetti, i titoli e le terre assegnati al M.
nel corso della sua breve carriera andarono tutti perduti nel vortice politico e militare delle guerre d’Italia.
Alla fine del 1523 il M., che militava nel campo imperiale, si distinse con i suoi nella vittoriosa difesa di Milano assediata
dall’esercito francese guidato dall’ammiraglio di Francia Guillaume Gouffier. Nell’aprile 1524 costrinse a tornare sui loro
passi 5000 fanti svizzeri che avevano disceso la Valtellina per andare in soccorso dei Francesi, e conquistò quindi
Caravaggio e Abbiategrasso.
Conclusesi le operazioni in Lombardia con un’altra dura sconfitta per la Francia, il M. – grazie anche alla preziosa
mediazione della moglie Maria Salviati – tornò al servizio degli interessi del ramo principale della famiglia Medici, il cui
potere era di nuovo saldo sia a Firenze sia a Roma in seguito alla morte di Adriano VI (14 sett. 1523) e all’elezione del
cardinale Giulio de’ Medici a papa col nome di Clemente VII (19 nov. 1523). Seguendo l’orientamento in politica
internazionale del nuovo pontefice, che, sebbene formalmente neutrale tra Asburgo e Valois, stava assumendo una
posizione sempre più filofrancese, nel dicembre 1524 il M., alla testa di 2000 fanti e circa 200 cavalleggeri, si unì
all’esercito francese che assediava Pavia, dove si erano ritirate le truppe imperiali sotto il comando di Antonio de Leyva.
Ferito gravemente alla gamba destra da un colpo di archibugio il 20 febbr. 1525 durante una scaramuccia sotto le mura
della città assediata, il M. fu costretto a lasciare il campo per farsi curare adeguatamente, e non partecipò alla decisiva
battaglia di Pavia (24 febbraio), che si concluse con la spettacolare disfatta dell’esercito francese e la cattura dello stesso
re Francesco I. Indebolite dalle perdite sostenute durante l’assedio e prive del loro capo, nel corso della battaglia le truppe
del M. furono travolte e disperse dalla sortita della guarnigione di Pavia.
Il rovinoso crollo delle fortune francesi in Italia seguito alla sconfitta di Pavia e la minaccia dell’affermarsi dell’egemonia
asburgica sulla penisola provocarono la formazione della Lega antimperiale di Cognac, siglata il 22 maggio 1526 tra
Francia, il duca di Milano, Venezia, Firenze e il papa, con l’appoggio esterno dell’Inghilterra. Il M. fu nominato capitano
generale della fanteria italiana dell’esercito della Lega destinato a scacciare gli Imperiali dal Ducato di Milano. Il 20 sett.
1526 i filoimperiali Colonna e i loro partigiani penetrarono a sorpresa in Roma, obbligando con le armi Clemente VII a
ritirarsi dalla Lega per quattro mesi. Per mantenere il proprio comando il M., che era soldato del papa, si trovò quindi
ancora una volta a passare agli stipendi del re di Francia. La situazione di sostanziale stallo della guerra in Lombardia
seguita alla forzata, seppur momentanea, neutralità di Clemente VII, fu rotta dalla calata dal Tirolo di 12.000 fanti
tedeschi reclutati e guidati da Georg von Frundsberg, che arrivarono il 21 novembre a Castiglione delle Stiviere dopo aver
superato le difese dei valichi alpini predisposte dall’esercito veneziano. Per impedire il congiungimento dei
lanzichenecchi di Frundsberg con le residue forze imperiali comandate dal duca Carlo di Borbone connestabile di Francia,
Francesco Maria I Della Rovere, capitano generale della Lega in Italia, decise di seguire il consiglio del M., lasciando le
truppe francesi e svizzere a presidiare il campo fortificato presso Vaprio d’Adda, posto a copertura di Milano, e
muovendosi con le truppe più mobili della Lega, cioè la cavalleria e la fanteria italiane, per intercettare i Tedeschi prima
che potessero attraversare il Po e rompere così il contatto con le forze della Lega. L’azione delle truppe italiane, guidate
personalmente dal M. con la consueta aggressività, fu di particolare efficacia, e stava cominciando a dare i primi risultati
quando, il 25 novembre, alla conclusione di uno scontro con la retroguardia dei lanzichenecchi a Governolo (alla
confluenza del Mincio nel Po, nel Marchesato di Mantova), il M. fu colpito da un colpo di falconetto (un pezzo di
artiglieria leggera) che gli fracassò il femore della gamba destra. Trasportato tra molte difficoltà a Mantova, nel palazzo
del suo amico e compagno d’armi Luigi Gonzaga, il ritardo nei soccorsi e la gravità della ferita resero vana l’amputazione
dell’arto leso, eseguita dal celebre medico ebreo Mastro Abramo.
Il M. morì a Mantova nella notte tra il 29 e il 30 nov. 1526, probabilmente in conseguenza di una grave infezione.
All’epoca dei fatti ci fu chi insinuò il dubbio che Mastro Abramo avesse in qualche modo causato la morte del M. dietro
istigazione del marchese di Mantova Federico II Gonzaga, che, oltre a essere in trattative con gli Imperiali, era stato uno
dei numerosi nemici personali del Medici. Tuttavia la morte, qualunque ne sia stata la causa effettiva, rappresentò il vero
punto di inizio del mito del Medici. Sebbene nel corso della sua esistenza avesse raggiunto una certa fama, egli non si era
sostanzialmente distinto dagli altri giovani e capaci comandanti della sua generazione che erano caduti sul campo nel
corso della fase più sanguinosa e violenta delle guerre d’Italia prima di poter raggiungere la maturità militare. Il M. aveva
partecipato a una sola grande battaglia (quella della Bicocca), giocando in essa un ruolo abbastanza marginale e militando
tra i perdenti. I suoi più grandi successi li ottenne al comando di alcune centinaia di cavalieri e di una unità di fanteria le
cui dimensioni non superavano quelle di un reggimento o, secondo la terminologia militare italiana dell’epoca, di un
«colonnello» (termine che indicava sia l’unità, cioè un corpo tra le 1000 e le 3000 unità, sia il suo comandante),
raggiungendo il rango di generale solo nel corso della sua ultima campagna. Inoltre, il M. rimase per tutta la vita una
figura di secondo piano nel contesto della famiglia Medici, e lasciò alla moglie e al figlio Cosimo un patrimonio familiare
dissestato dai debiti e il peso di una reputazione postuma di soldato che a Firenze, dove erano ancora forti i tradizionali
valori civici, rappresentò inizialmente più un’eredità imbarazzante che un merito.
Il primo abbozzo di quello che era destinato a essere il mito del M. fu elaborato da Pietro Aretino, che era stato suo
confidente e, alla fine, testimone diretto della sua agonia (Aretino, 1995). Fu tuttavia suo figlio Cosimo, eletto
inaspettatamente duca di Firenze nel 1537, a promuovere la complessa rielaborazione letteraria e iconografica della figura
paterna, destinata a trasformare il M. in un invincibile cavaliere rinnovatore dei costumi e delle tattiche della milizia
italiana, il degno (seppur sfortunato) genitore del nuovo pater patriae di Firenze, capostipite della dinastia dei granduchi
di Toscana. Scivolata in un relativo oblio a seguito dell’estinzione della dinastia stessa e del passaggio del Granducato
agli Asburgo-Lorena nel 1737, la figura del M. conobbe nuovi e incisivi sviluppi durante il Risorgimento. A quel punto,
da eroe dinastico qual era, il M. assurse al rango di eroe nazionale e romantico con il nome di Giovanni dalle Bande Nere,
ultimo dei grandi «capitani di ventura» (una definizione peraltro inapplicabile al M.), supremo quanto tragico esempio di
valore italico alla vigilia della disastrosa conclusione delle guerre d’Italia e dell’inizio del plurisecolare asservimento della
penisola allo straniero. Quello di Giovanni dalle Bande Nere era stato uno dei vari titoli attribuiti al M. nella elaborazione
postuma della sua leggenda. Le Bande Nere erano le truppe di fanteria sotto il suo diretto comando nel corso dell’ultima
campagna che, dopo la morte del M., avevano preso il lutto, abbrunando le loro bandiere e indossando «bande» (tracolle)
nere. Oppostesi con successo a ogni tentativo di scioglimento e riorganizzazione imposto dall’alto, le Bande Nere
avevano formato un corpo a parte nell’esercito della Repubblica fiorentina fino al 31 ag. 1528, quando furono costrette
alla resa dall’esercito imperiale ad Aversa. La necessità da parte dei letterati e degli storici risorgimentali di scoprire nel
M. una nota di moralità e coerenza personale, in una vita professionale caratterizzata da frequenti cambi di bandiera, e di
distinguerlo nettamente dai suoi «imbelli» e «tirannici» discendenti portò alla progressiva enfatizzazione del lutto preso
dal M. e dalle sue truppe in occasione della morte di Leone X (cfr. Mémoires…), anticipando la nascita di Giovanni dalle
Bande Nere alla fine del 1521. Col passare del tempo e il complicarsi dell’intreccio tra inventio letteraria e storiografica
da cui aveva tratto origine, Giovanni dalle Bande Nere finì con l’acquisire vita e caratteristiche proprie, divenendo una
figura sempre più distinta e autonoma dal M. storico. L’apice della elaborazione e della popolarità del personaggio fu
raggiunto durante gli anni Trenta del Novecento, quando il regime fascista se ne appropriò, facendone una delle proprie
icone. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il sovrapporsi degli effetti della reazione culturale alla retorica
militarista fascista e di quelli del prolungato disinteresse manifestato dagli storici italiani nei confronti della storia militare
dell’Età moderna ha fatto in modo che la figura del M. cadesse nell’oblio e non fosse ripresa in esame in modo organico
fino a tempi storiograficamente recenti, rimanendo prigioniera di quella di Giovanni dalle Bande Nere.
Fonti e Bibl.: Gran parte delle fonti manoscritte relative al M. si trovano in Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il
principato; molte di esse sono state pubblicate: Lettere inedite e testamento di G. de’ M. detto delle Bande Nere con altre
di Maria e di Jacopo Salviati di principi, cardinali, capitani, familiari e soldati raccolte dal cav. Filippo Moisè, a cura di
C. Milanesi, in Archivio storico italiano, n.s., 1858, t. 7, parte 2a, pp. 3-48; 1858, t. 8, parte 1a, pp. 3-40; 1859, t. 9, parte
1a, pp. 3-29; P. Gauthiez, Nuovi documenti intorno a G. de’ M. detto delle Bande Nere, ibid., XXX (1902), pp. 71-107;
XXXI (1903), pp. 97-126. Alla base di quasi tutti i profili biografici del M. sono le due versioni della Vita di G. de’ M.
scritte da Giovangirolamo de’ Rossi (Firenze, Biblioteca nazionale, Mss., II.I.174, cc. 1r-36r; Ibid., Biblioteca
Riccardiana, Mss., 2032, cc. 1r-36r), il Discorso sopra G. de’ M. (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., XIII.89, cc. 25v30v) scritto da G.B. Tedaldi (che era stato segretario del M.), e un altro breve resoconto anonimo sulla vita e le imprese
del M. (ibid., II.II.325, c. 28v). Tra le molteplici edizioni di questi manoscritti, si segnalano in particolare S. Ciampi,
Notizie dei secoli XV e XVI sull’Italia Polonia e Russia…, Firenze 1833, pp. 79-108, 135-179; Vite d’uomini d’armi e
d’affari del secolo XVI, a cura di C. Cangiolli, Firenze 1866, pp. 73-211; G. de’ Rossi, Vita di G. de’ M. detto delle Bande
Nere, a cura di V. Bramanti, Roma 1996; B. Varchi, Storie fiorentine, a cura di L. Arbib, I, Firenze 1834, pp. 66, 76, 91,
97, 100-102, 112, 245, 310, 352, 426; M. Sanuto, I diarii, XXXIII-XLVIII, Venezia 1879-1902, ad ind.; Mémoires de
Martin et Guillaume Du Bellay, a cura di V.L. Bourrilly - F. Vindry, I, Paris 1908, p. 216; F. Guicciardini, Storia d’Italia,
a cura di S. Seidel Menchi, Torino 1971, ad ind.; P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, I, Roma 1997, ad ind.;
Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di P. Procaccioli, I-II, Roma 2003-04, ad indices; A. Mossi, Compendio della vita
del signor G. de’ M. padre del serenissimo Cosimo, primo gran duca di Toscana, Firenze 1608; S. Ammirato, Opuscoli,
III, Firenze 1642, pp. 176-206; C. Mini, La vita e le gesta di G. de’ M. o Storia delle Bande Nere e dei celebri capitani
che vi militarono, corredata di documenti, Firenze 1851; P. Gauthiez, Jean des Bandes Noires, Paris 1901; L. Capranica,
G. dalle Bande Nere, Milano 1910; F.L. Taylor, The art of war in Italy, 1494-1529, Cambridge 1921, pp. 12, 53 s., 60,
62, 69, 76, 136, 179; A.A. Monti, G. dalle Bande Nere, Roma 1928; E. Allodoli, G. dalle Bande Nere, Firenze 1929; V.E.
Bravetta, G. dalle Bande Nere, Torino 1932; C. Fratini, G. dalle Bande Nere, Milano 1936; G. Pieraccini, La stirpe de’
Medici di Cafaggiolo, Firenze 1947, I, pp. 367-395; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp.
514, 525, 540, 548, 553, 557, 561, 574-577, 607 s.; I. Bartolini, G. delle Bande Nere: G. de’ M., Firenze 1958; C. Marchi,
G. dalle Bande Nere e il suo tempo: 1498-1526 (catal. Castrocaro Terme), a cura di T. Marcheselli, Imola 1998; F.
Gurrieri - T. Gurrieri, G. delle Bande Nere: nel cinquecentenario della nascita (1498-1526), Firenze 2000; G. delle Bande
Nere, a cura di M. Scalini, Firenze 2001; M. Vannucci, G. delle Bande Nere, Roma 2004; M. Arfaioli, The Black Bands
of Giovanni: infantry and diplomacy during the Italian wars (1526-1528), Pisa 2005, pp. XIII-XVII, 1-27; Enc.
biografica e bibliografica «Italiana», C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, pp. 239-241.
M. Arfaioli
Giovanni dalle Bande Nere
(1498 - 1526)
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Giovanni dalle Bande Nere oppure delle Bande Nere al secolo Giovanni di Giovanni de' Medici (Forlì, 6 aprile 1498 – Mantova,
30 novembre 1526) è stato un condottiero italiano del Rinascimento.
Biografia Figlio del fiorentino Giovanni de' Medici (detto il Popolano) e di Caterina Sforza, la signora guerriera di Forlì e Imola, una
delle donne più famose del Rinascimento, che si era strenuamente difesa da Cesare Borgia nella sua rocca forlivese. Venne chiamato
Ludovico in onore dello zio Ludovico il Moro, duca di Milano, ma alla morte del padre, avvenuta quando aveva pochi mesi d'età, la
madre gli cambiò il nome in Giovanni. Fu ritenuto da Niccolò Machiavelli come l'unica figura capace di difendere i regni italiani dalla
discesa di Carlo V. Giovanni passò la propria infanzia in un convento, poiché la madre era prigioniera di Cesare Borgia. Nel 1509
Caterina Sforza morì, ed essendo morto anche Luffo Numai, primo tutore di Giovanni, la tutela del giovane passò al canonico
Francesco Fortunati e al ricchissimo fiorentino Jacopo Salviati, marito di Lucrezia de' Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Jacopo
Salviati dovette spesso rimediare con la propria autorità e fama alle numerose intemperanze del ragazzo, ma nel 1511 non poté
evitargli il bando da Firenze, per l'uccisione di un suo coetaneo in una lite tra bande di ragazzi, bando ritirato l'anno successivo.
Quando il Salviati fu nominato ambasciatore a Roma nel 1513 Giovanni lo seguì, e qui fu iscritto nelle milizie pontificie grazie
all'intercessione del Salviati presso papa Leone X, fratello di Lucrezia de' Medici. Il suo battesimo del fuoco nel nuovo ruolo di
soldato papale avvenne il 5 marzo 1516 nella guerra contro Urbino al seguito di Lorenzo de' Medici. La guerra durò solo ventidue
giorni, dopo i quali Francesco Maria I della Rovere si arrese; nonostante la propria indole irrequieta, Giovanni riuscì a insegnare agli
uomini della sua compagnia - indisciplinati, rozzi e individualisti - disciplina e obbedienza. Ebbe anche modo di osservare, con acume
caratteristico, il declino della cavalleria pesante. Al momento di crearsi una propria compagnia Giovanni scelse perciò di impiegare
cavalli piccoli e leggeri, preferibilmente turchi o berberi, adatti a compiti tattici quali schermaglie d'avanguardia o imboscate;
individuò nella mobilità l'arma più utile da usare. Un accento particolare fu messo sullo spirito di corpo, allora assai carente. I nuovi
venuti ricevevano un addestramento particolare, spesso impartito da Giovanni personalmente; sovente i traditori erano condannati a
morte. Sposò Maria Salviati, figlia di Jacopo, che gli diede un figlio, Cosimo, destinato un giorno a diventare Granduca di Toscana.
Nel 1520 sconfisse diversi signorotti ribelli marchigiani, tra i quali Ludovico Uffreducci che restò ucciso in battaglia presso Falerone.
Nel 1521 Leone X si allea con l'imperatore Carlo V contro Francesco I, per consentire agli Sforza di tornare padroni di Milano e per
occupare le città perdute di Parma e Piacenza; Giovanni è assoldato e posto sotto il comando di Prospero Colonna. Partecipa in
novembre alla battaglia di Vaprio d'Adda: oltrepassa il fiume controllato dai francesi e li mette in fuga, aprendo la strada per Pavia,
Milano, Parma e Piacenza. Il 1º dicembre muore Leone X, e Giovanni per manifestare il lutto fa annerire le insegne, che fino ad allora
erano a righe bianche e viola, diventando così famoso presso i posteri come Giovanni dalle Bande Nere. Nell'agosto 1523 Giovanni
viene ingaggiato dagli imperiali, e nel gennaio del 1524 attacca di notte il campo del francese Cavalier Baiardo, mentre questi
dormiva e lo mette in fuga, facendo prigionieri oltre trecento soldati. Successivamente affronta gli Svizzeri, la più temuta fanteria
dell'epoca, che intanto sono calati dalla Valtellina in aiuto dei Francesi; Giovanni li sconfigge a Caprino Bergamasco, costringendo
l'armata francese a lasciare l'Italia. Intanto a Roma diviene papa Clemente VII, della famiglia Medici, cugino della madre di Giovanni,
Caterina; il nuovo pontefice paga tutti i debiti di Giovanni, chiedendogli, però, in cambio, di passare con i Francesi. Questo accade nel
novembre-dicembre 1524 quando Francesco I entra nuovamente in Italia per una campagna militare e ritorna in Lombardia
schierandosi sotto Pavia, dove subirà la celebre cocente sconfitta e la prigionia. La compagnia di Giovanni non partecipa alla
battaglia: in una scaramuccia il 18 febbraio 1525 Giovanni "fu da uno archibuso in uno stinco di gamba gravemente ferito" (G. G.
Rossi, Vita di Giovanni de' Medici). Spesso vengono confusi i fatti e gli "attrezzi" del febbraio 1525 con quelli del novembre 1526,
quando, effettivamente, Giovanni verrà ferito ad una coscia da un colpo di falconetto. Anche Pietro Aretino, nella famosissima e
suggestiva lettera (la n. 4 del primo libro) dà la medesima versione" "... ecco (oimè) un moschetto che gli percuote quella gamba già
ferita d'archibuso..."). Allo stesso modo, nel descrivere i momenti ed i luoghi delle cure la storiografia corrente pare non aver tenuto
più di tanto in considerazione i documenti e le testimonianze ufficiali. In effetti Giovanni viene subito trasportato a Piacenza, come
relaziona Maestro Abramo, il medico inviato dal marchese di Mantova. Ma il 7 di marzo (in M. Tabanelli, Giovanni de' Medici dalle
Bande Nere) Giovanni arriva nel parmense: "... si fece portare nel parmigiano a i castelli della sorella" (G.G. Rossi, cit.). Solo nel
mese di maggio Giovanni si recherà a Venezia, dove potrà giovarsi, nell'ultima parte della convalescenza, dei benefici bagni termali
della vicina Abano. Le sue Bande Nere in parte lo seguono, in parte si sciolgono. A Venezia Giovanni potrebbe mettersi al servizio
della Serenissima, ma è tipo troppo ribelle e declina con la frase: «Né a me si conviene per esser io troppo giovane, né ad essa perché
troppo attempata». Nel 1526 re Francesco I torna libero e in maggio, nasce la lega di Cognac contro l'Impero; papa Clemente si
schiera con il re Francesco ed a Giovanni è affidato il comando delle truppe pontificie. Il 6 luglio il capitano generale Francesco Maria
I della Rovere, di fronte alle soverchianti forze imperiali, abbandona Milano, ma Giovanni rifiuta l'ordine di fare la stessa cosa e
attacca la retroguardia del nemico alla confluenza del Mincio col Po, sconfiggendo i lanzichenecchi, mercenari tedeschi capeggiati da
Georg von Frundsberg. La sera del 25 novembre, nelle vicinanze di Governolo, Giovanni viene colpito allo stinco da un colpo di
falconetto, (probabilmente fornito da Alfonso I d'Este) che gli procura una gravissima ferita.
« ... Giovanni de' Medici co' cavalli leggieri; e accostatosi più arditamente perché non sapeva che avessino avute artiglierie,
avendo essi dato fuoco a uno de' falconetti, il secondo tiro roppe la gamba alquanto sopra al ginocchio a Giovanni de' Medici; del
quale colpo, essendo stato portato a Mantova, morí pochi dí poi,... »
( Francesco Guicciardini - Storia d'Italia, lib. 17 cap. 16)
Viene subito trasportato a San Nicolò Po ma non si trova un medico perciò è trasportato a Mantova presso il palazzo di Luigi Gonzaga
detto "Rodomonte", dove il chirurgo Abramo, che già lo aveva curato con successo due anni prima, gli amputa la gamba. Per
effettuare l'operazione il medico chiede che 10 uomini tengano fermo Giovanni. Pietro Aretino testimone oculare, descrive le sue
ultime ore in una lettera a Francesco Albizi:
« «Neanco venti» disse sorridendo Giovanni «mi terrebbero», presa la candela in mano, nel far lume a sé medesimo, io me ne
fuggii, e serratemi l'orecchie sentii due voci sole, e poi chiamarmi, e giunto a lui mi dice: «Io sono guarito», e voltandosi per tutto
ne faceva una gran festa. »
La cancrena è però inarrestabile e nel giro di pochi giorni lo porta alla morte. Il valoroso condottiero si spegne il 30 novembre 1526, e
viene sepolto tutto armato nella chiesa di San Francesco a Mantova. Giovanni, in agonia, aveva inizialmente pensato di affidare il
comando delle truppe a Lucantonio Cupano, uno dei suoi più fidi soldati o al nipote Pier Maria III Rossi di San Secondo Parmense,
figlio della sorella Bianca Riario, ma è tutto inutile: prive del loro capo e del suo carisma, le bande si sciolgono.
Sempre Pietro Aretino testimonia:
« Si mosse a ragionar meco, chiamando Lucantonio con estrema affezione; e dicendo io: «Noi manderemo per lui», «Vuoi tu»,
disse, «che un par suo lasci la guerra per veder amalati?». Si ricordò del conte di San Secondo, dicendo: «Almen fusse egli qui,
che gli restarebbe il mio luogo». »
E anche Giovan Girolamo de' Rossi, nipote di Giovanni e fratello del Conte di San Secondo, conferma:
« Esso signore le raccomandò nella morte sua al conte Pietromaria Rosso di San Secondo, suo nipote, scrivendo a papa Clemente
che non poteva darle più concenevolmente ad altri che a lui, il quale, per essere suo nipote e continovamente nutrito da lui nella
guerra, sarebbe da i suoi soldati temuto e amato più d'ogni altro. »
Le Bande Nere L’origine delle Bande Nere può farsi risalire alle compagnie che il giovane Giovanni de’Medici comandò durante la
guerra di Urbino del 1517. Questo breve conflitto fu per Giovanni una “scuola militare” nella quale egli si formò per la fase cruciale
delle guerre d'Italia, quella compresa tra il 1521 e il 1527, dove si guadagnò grande fama prima di essere mortalmente ferito a
Governolo. Durante questi anni Giovanni e le sue Bande cambiarono ripetutamente campo, passando prima al servizio di Carlo V, poi
di Francesco I, poi ancora di Carlo V e quindi nuovamente di Francesco I. Ferito alcuni giorni prima della battaglia di Pavia, Giovanni
fu portato a Piacenza per esservi curato. Le sue Bande, rimaste senza il loro capitano, nulla poterono contro la massa dei
Lanzichenecchi imperiali sortiti dalla città assediata. La guerra, ripresa con la Lega di Cognac, vide nuovamente Giovanni schierato
dalla parte del pontefice Clemente VII. Le Bande operarono come una forza distaccata dal grosso dell’esercito della Lega, guidato da
Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino. Il “Gran Diavolo” con i suoi cavalieri e archibugieri tormentò gli imperiali diretti a
Roma, creando loro grosse difficoltà. La sua morte rivelò la pochezza delle virtù militari del duca d'Urbino che lasciò via libera al
nemico. Le Bande Nere sopravvissero alla morte di Giovanni per quasi due anni. All’inizio del 1527 diedero ancora una volta prova
della loro efficienza difendendo Frosinone dall’esercito del Viceré di Napoli. Nell'aprile dello stesso anno Clemente VII, ansioso di
alleggerirsi delle gravose spese che il mantenimento di truppe mercenarie comportava, fidandosi dell’accordo con Carlo di Lannoy e
ingannato da Carlo di Borbone, licenziò “imprudentissimamente - scrive il Guicciardini - quasi tutti i fanti delle bande Nere”. Un
migliaio di questi, raccolti da Renzo da Ceri dopo che il pontefice ebbe finalmente realizzato che gli imperiali avrebbero investito
Roma, tentarono di difendere la città dall'assalto nemico venendo in gran parte uccisi sulle mura. Le Bande, passate al soldo di
Firenze, furono affidate ad Orazio Baglioni e parteciparono alla sciagurata spedizione guidata da Odet de Foix, visconte di Lautrec,
per la conquista del regno di Napoli. Nel corso di questa campagna ebbero modo di distinguersi più volte per il loro valore. Non
mancarono comunque dimostrazioni di crudeltà e ferocia, come avvenne in occasione della presa di Melfi “ dove - così ci informa il
Sanuto - introno per forza dentro amazando tutti chi trovorono, fanti homeni et done, fino i putti, et fatti presoni, et sachizato la terra,
nè alcun si salvò se non quelli se butorono de muri, quali si amazavano et erano etiam presi et morti”. Orazio Baglioni cadde in una
scaramuccia sotto Napoli il 22 maggio 1528. Alla fine di agosto le Bande, falcidiate dai continui combattimenti e dalla peste, si
arresero agli imperiali insieme ai resti dell’esercito della Lega, cessando definitivamente di esistere. Il nome di “Nere” con cui le
bande di Giovanni de’Medici passarono alla storia, e con cui esse stesse cominciarono a nominarsi dopo la morte del loro condottiero,
era dovuto al colore delle loro bandiere che Giovanni aveva cambiato da bianco e violetto in nero in segno di lutto per la morte dello
zio, il papa Leone X. Le Bande Nere rappresentarono la migliore espressione della strategia e tattica “all’italiana” emerse nel corso
delle guerre rinascimentali. Composte in gran parte da archibugieri, si trattava di truppe leggere molto mobili, particolarmente adatte
alla “piccola guerra”. Mentre negli scontri campali non erano in grado di sostenere l’urto dei massicci quadrati di picchieri se non
erano sostenute a loro volta da fanterie inquadrate in ordine chiuso, nella guerriglia, nei colpi di mano, nelle azioni di avanguardia o di
copertura erano tra il meglio che il “mercato” potesse offrire. Non per niente le parti in lotta si contesero sempre i loro servigi a suon
di ducati. Giovanni era d’altra parte un professionista della guerra e anche molto abile, e come tale si faceva pagare profumatamente
per il suo servizio. Tuttavia non era solo il denaro ad attirarlo ma anche la speranza che, alleandosi ora all’una ora all’altra parte, gli
riuscisse prima o poi di ritagliarsi un feudo tutto suo. Il denaro, e si trattava di cifre enormi, gli era d’altronde indispensabile per
pagare i soldati e mantenere così unita la compagine delle sue Bande. In un’epoca dove tutto era in vendita egli restò comunque
sempre fedele a Firenze e alla casata dei Medici, rappresentata per l’occasione dai pontefici Leone X e Clemente VII. Finché il primo
fu in vita, Giovanni rimase a fianco degli ispano-imperiali, alleati della Chiesa. Morto Leone X passò dalla parte dei francesi, poi
ancora con gli spagnoli e quindi allettato dalle ricche offerte di Francesco I, ritornò con i francesi, tanto più che il nuovo papa,
Clemente VII, propendeva per il re di Francia. Da quel momento diventò l’implacabile nemico dei lanzichenecchi tedeschi che lo
gratificarono con il significativo soprannome di Gran Diavolo. La fama di Giovanni e delle sue Bande si diffuse rapidamente. In esse
si arruolarono, come ci testimonia ancora Guicciardini, i “migliori fanti Italiani che allora prendessero soldo”; molti vi entrarono più
per spirito di avventura che per vera sete di guadagno, visto che la disciplina vi era più severa che nelle altre formazioni e il soldo il
più delle volte era lento ad arrivare e sovente non arrivava affatto. Nelle loro file vi erano letterati falliti o velleitari, cadetti di famiglie
nobili squattrinati e in cerca di riscatto, avventurieri professionisti, disperati e rifiuti della società, contadini che per non morire di
fame si arruolavano per fare ad altri quello che era stato fatto a loro. Abili con l’archibugio e con la spada, questi soldati si
trasformavano da Gran Diavoli del campo di battaglia a diavoli della rapina, della violenza e del saccheggio quando se ne presentava
l’occasione e soprattutto quando le paghe tardavano troppo ad arrivare. Tra essi vi erano anche disertori e traditori. I primi una volta
ripresi, venivano impiccati mentre i secondi, non appena scoperti, venivano inesorabilmente ”passati per le picche” dai loro stessi
compagni, a simboleggiare la punizione collettiva che colpiva chi era venuto meno al giuramento di fedeltà al capitano e al vincolo
solidale verso i propri compagni d’arme. Le Bande Nere non furono mai molto numerose. Anche nei loro momenti migliori non
superarono le 4000 unità. A Caprino contro gli Svizzeri vi erano 200 cavalieri pesanti, 300 leggeri e 3000 archibugieri; a Pavia 50
cavalieri pesanti, 200 leggeri e circa 2000 fanti. A Governolo Giovanni attaccò gli imperiali con 400 archibugieri, che furono
trasportati a cavallo sul campo di battaglia da altrettanti cavalieri. Frosinone fu difesa da 1800 fanti. Le Bande erano costituite quasi
interamente da italiani, per lo più toscani e romagnoli, con la probabile aggiunta di lombardi durante il periodo nel quale Giovanni
operò nell’Italia del nord. Ciò perché i paesi dell’Appennino tosco-emiliano fornivano uomini che costavano poco ed erano, almeno
all’inizio della loro carriera di soldati, di poche pretese; inoltre i mercenari stranieri, lontani da casa, erano meno fidati e più propensi
alla diserzione e a cambiare padrone. Nel volgere di breve tempo, sotto la guida di Giovanni, la Bande diventarono una formazione
d’elite, con pochi riscontri nel panorama delle compagnie di ventura italiane, di cui costituirono l’ultimo e più importante esempio.
Ebbero vita breve, come il loro giovane condottiero. Con lui entrarono nella storia, dopo la sua morte diventarono leggenda.
« Non mi snudare senza ragione. Non mi impugnare senza valore. »(Scritta riportata sulla spada visibile nella statua degli Uffizi
Un ritratto di Giovanni dalle Bande Nere, dipinto da Gian Paolo Pace è conservato presso la Galleria degli Uffizi a Firenze. Il dipinto
fu regalato da Pietro Aretino a Cosimo I de' Medici, figlio di Giovanni, ed era stato, in un primo tempo, commissionato a Tiziano, che
però non poté realizzare il ritratto per altri impegni. La notizia ci arriva da Giorgio Vasari (Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et
scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri). La statua che lo ritrae seduto in Piazza San Lorenzo a Firenze fu commissionata
da suo figlio Cosimo I de' Medici a Baccio Bandinelli. Un suo ritratto ottocentesco si trova anche in una nicchia nel lato corto degli
Uffizi verso l'Arno, accanto ad altri famosi condottieri fiorentini (Francesco Ferrucci, Pier Capponi e Farinata degli Uberti).
Filmografia
• Giovanni dalle Bande Nere, regia di Mario Caserini (1911)
• Condottieri conosciuto anche come Giovanni dalle Bande Nere, regia di Luis Trenker e Werner Klingler (1937)
• I condottieri, Giovanni delle bande nere, regia di Luis Trenker (1950)
• Giovanni dalle Bande Nere, regia di Sergio Grieco (1956)
• Il mestiere delle armi, regia di Ermanno Olmi (2001)
Bibliografia
• Mario Scalini, Giovanni delle Bande Nere, Milano, Silvana editoriale, 2001
• Giorgio Batini, Capitani di Toscana, Firenze, Edizioni Polistampa, 2005, pp. 150 - 157 ISBN 88-8304-915-2
• Giovangirolamo de Rossi, "Vita di Giovanni de Medici detto delle bande nere", Roma, Salerno Editrice, 1996.
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