Lo ZEN: viaggio da Oriente ad Occidente “Il Tao può essere
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Lo ZEN: viaggio da Oriente ad Occidente “Il Tao può essere
Lo ZEN: viaggio da Oriente ad Occidente “Il Tao può essere trasmesso solo a chi già lo possiede” (Adagio Zen) “Là dove è il Buddha, non indugiate; e dove non è, passate oltre rapidamente” (Adagio Zen) “Battendo le mani una contro l’altra, si produce un suono. Qual è il suono di una mano sola?”(Kōan) “Se il tuo spirito non risiede nel contrasto di bene e di male, cos’era il tuo volto in origine, prima che tu nascessi?” (Kōan) “Se per la strada incontrate uno che ha raggiunto la verità e dovete passargli accanto senza parlare né tacere. Dite: come lo affrontereste?” (Kōan) 1. Inizio del viaggio Il nostro viaggio prende le origini dall’introduzione del Buddhismo in Cina, da dove in un secondo tempo, sotto il nome iniziale di Scuola Ch’an, lo Zen inizierà la sua penetrazione in diversi continenti. L’inizio storico della penetrazione del Buddhismo in Cina è fatto risalire all’Imperatore Ming-ti (65 d.C.); esisteva, però, nel Paese e nello stesso periodo, una fiorente colonia buddhista, che si ritiene fondata da commercianti o missionari giunti via mare dalle Indie. Il Buddhismo, basato sulla disciplina monastica, che prevedeva il distacco dalla famiglia e dalla società, dovette confrontarsi con la mentalità cinese che fondava la sua concezione della società sui rapporti gerarchici in essa esistenti e dove la famiglia rappresentava un elemento basilare. Inoltre il Buddhismo, per i suoi aspetti 1 soteriologici, risultava incomprensibile in un ambiente ove il problema fondamentale era come vivere in armonia in questo mondo, fuori da ogni logica di salvezza dal mondo stesso. Il Buddhismo, comunque, divenne, nel tempo assieme al Confucianesimo e al Taoismo, una parte importante della civiltà cinese. Per quanto detto, però, la forma di Buddhismo destinata a diffondersi in Cina era quella del cosiddetto “Grande Veicolo” o “Mahāyāna”, pur ripensato fortemente per adattarsi alla mentalità cinese. Il Buddhismo conosce in Cina la sua massima fioritura durante la dinastia T’ang (618 – 906 d. C.), che vede frequenti viaggi dei pellegrini cinesi in India; durante tale periodo nascono nel Paese le otto principali scuole buddhiste. L’ottava di queste scuole è quella conosciuta con il nome di “Ch’an”, dal sanscrito “dhyāna”, la cui caratteristica esteriore più appariscente è rappresentata dalla scarsezza di formulazioni filosofiche e dalla totale assenza di rituali e liturgie. Secondo la tradizione del Ch’an, il suo insegnamento sarebbe stato segretamente trasmesso dal Buddha al suo discepolo Mahākaśyapa, da questi ad un suo allievo e così via per 28 maestri che formarono la successione dei 28 Patriarchi indiani, l’ultimo dei quali è il misterioso Bodhidharma, venuto in Cina al tempo dell’imperatore Wu (VI sec. d. C.). Dopo la sua morte, a cui succedettero alcuni patriarchi cinesi, la scuola Ch’an si scisse in due indirizzi fondamentali, quello della “Scuola del Nord”, affermante la gradualità dell’illuminazione, e quello della “Scuola del Sud”, affermante, invece, l’istantaneità dell’illuminazione. Quest’ultima scuola prevalse e fu considerata la scuola ortodossa. Mentre i primi contatti del Giappone con il Buddhismo risalgono al VI secolo d.C., al tempo dell’imperatore Kimmei, dando origine, in seguito, anche nel Paese del Sol Levante a diverse scuole, il Buddhismo Ch’an venne conosciuto dai giapponesi nelle sue due forme “Lin-chi” (giapponese “Rinzai”), introdotto da Eisai (1141 – 1215) e “Ts’ao-tung” (giapponese “Sōtō”), diffuso da Dōgen (1200 – 1253) ed organizzato da Keizan Shōkin (1268 – 1325); in Giappone avvenne la modificazione del nome dal cinese Ch’an al giapponese Zen. Tali scuole accentuarono maggiormente, rispetto alle scuole cinesi, l’assenza di intellettualità e la scarna semplicità, rendendo lo Zen, più che un insieme di dottrine fondate su di un testo particolare, una pratica avente per scopo l’intuizione attiva della vera realtà delle cose. Lo Zen “Rinzai”, a differenza dello “Sōtō” ,si espresse come scuola volta all’attività pratica, infatti in questa scuola appare molto importante l’alternarsi di meditazione e di azione, che costituiscono i due cardini della sua pratica. Proprio anche per queste caratteristiche lo Zen “Rinzai” godette dell’appoggio governativo sotto gli Shōgun Ashikawa (XIV – XVI sec.), diffondendosi presso l’aristocrazia militare e improntando di sé il “Bushidō”, unitamente ad importanti manifestazioni artistiche e spirituali. 2 2. Ragioni dell’introduzione dello Zen in Giappone Lo Zen potrebbe venire considerato come una ripresa del Buddhismo delle origini. Il Buddhismo può essere visto come una reazione contro le teorizzazioni e il vuoto ritualismo in cui era finita l’antica casta sacerdotale indù. Il Buddha fece tabula rasa di tutto questo per porre il problema pratico del superamento dello stato di caducità dell’uomo. Nel successivo sviluppo del Buddhismo, soprattutto con gli aspetti devozionali che assunse durante il Periodo Kamakura (1185 – 1333) ed in particolare con una delle sue scuole, quella denominata “Jōdō” in cui si affermava, che l’uomo non poteva raggiungere la salvezza unicamente con le proprie forze (“Jiriki”), ma doveva ricorrere a quelle di un aiuto esterno (“Tariki”), venne a riproporsi proprio una situazione analoga a quella contro la quale il Buddha stesso aveva lottato: il Buddhismo divenne una religione, con i suoi dogmi, i suoi rituali, con la sua scolastica e con le sue regole sociali. Lo Zen intervenne ancora una volta a fare tabula rasa di tutto ciò, a porre in primo piano quello che era stato il nucleo vitale del Buddhismo nella sua forma originale. 3. Alcuni aspetti dello Zen Lo Zen, con l’obiettivo evidente di superare tutte le definizioni, i processi intellettuali e le speculazioni, proclamò immediatamente che “Nirvana” (Liberazione dal “Samsara”) e “Samsara” (alternarsi di nascita e morte) sono la stessa cosa e che tentare di raggiungere il “Nirvana” tramite il compimento di azioni meritorie era opera vana. Altra concezione dello Zen è la conquista della liberazione, del risveglio interiore, intesa come“satori”. Ciò che strettamente è proprio del “satori” è il fatto di promuovere un’esperienza in cui ogni antitesi viene superata, in cui crollano anche le antitesi come quelle di “spirito” e “corpo”, “interno” ed “esterno”, “soggetto” ed “oggetto”, “bene” e “male” e persino di “vita” e di “morte”. Il sopraggiungere del “satori” è paragonato ad un improvviso corto circuito, ma un’enorme concentrazione di forze, un completo sviluppo delle tensioni spirituali hanno preceduto questo evento e ne sono la condizione, anche se non lo provocano realmente. La conquista del “satori” è preceduta da un “battesimo del fuoco” (come dice Suzuki): dobbiamo prima essere in grado di assoluto auto sacrificio e di auto superamento; ciò porta ad un’altra considerazione dello Zen, la nozione “dell’agire senza merito”, di agire senza preoccuparsi di sanzioni o ricompense o di finalità a tutto ciò che è particolare. In relazione a ciò, bisogna tenere presente che l’ideale dello Zen non è un ritiro dal mondo; al contrario la vera vita è la vita nel mondo e nessuna forma di attività viene esclusa. Nello Zen sono conosciute delle “sale di meditazione” (“Zendō” in Giapponese, “Ch’an T’ang” in Cinese), che sono una sorta di ritiro monastico la cui regola è molto rigorosa. Solo dopo avere acquisito le 3 necessarie qualificazioni, per cui possono occorrere anche molti anni, è possibile ritornare nel mondo e vivere la vita del mondo; ora viene vissuta avendo a propria disposizione una nuova dimensione spirituale. Inoltre, è proprio dello Zen la ricerca di un’esperienza personale e vissuta, con un forte elemento polemico contro forme etiche tradizionali, contro regole conformistiche, scritture e prescrizioni, fino a raggiungere forme di iconoclastia “O voi seguaci della Verità! Se volete comprendere davvero lo Zen, non lasciatevi ingannare dagli altri. Dentro di voi o fuori di voi, se incontrate un ostacolo abbattetelo senz’altro. Se incontrate il Buddha, uccidetelo; se incontrate il Patriarca, uccidetelo;….uccideteli tutti senza esitare, perché questa è l’unica via della liberazione” (D. T. Suzuki). Nessun idolo, nessuna immagine, nessun riferimento esterno deve farci uscire da noi stessi Strumento importante per rompere ogni tipo di schematismo mentale e ogni forma razionale fu rappresentato, in molte scuole Zen, dal “Kōan”. Ogni “Kōan” non fa altro che riproporre le apparenti ed illusorie contraddizioni della vita, le cui soluzioni risultano imprescindibilmente dal superamento delle due alternative rappresentate da ogni affermazione e negazione, entrambe alterazioni della verità. Non meno seducente è la teoria Zen, secondo la quale noi dobbiamo seguire solo la nostra propria natura, ogni male è infelicità, venendo all’uomo da ciò che intelletto e volontà hanno costruito artificialmente. Qualcuno ha definito lo Zen la religione dei Samurai; in questo contesto lo Zen tende a far sviluppare una stabilità interiore che rende capaci di agire con distacco; in certe circostanze ne emerge una capacità di auto sacrificio e di eroismo che non ha nulla di romantico, ma è una possibilità naturale in un essere che “ha lasciato la presa”, che si è sciolto dai legami dell’Ego. 4. Influenza dello Zen sulle arti Lo Zen ha influenzato profondamente tutte le arti giapponesi, a titolo di esempio, vengono riportate alcune di esse. 4 I giardini di pietra e lo Zen Tradizionalmente in Giappone ed in Cina si erano costruiti giardini, ma solo con l’affermarsi dello Zen i giardini divennero espliciti simboli della ricerca interiore. Il panorama volutamente ed apparentemente arido, ovvero ”kare sansui” fu costituito da un sobrio miscuglio di rocce e sabbia , nel quale gli artisti cercavano di trasmettere il rispetto reverenziale per la natura. Un ruolo importante giocano le rocce, esse sembrano interrate in modo da dare l’impressione di essere degli iceberg di granito, che appaiono come se solo una minima parte emerge dalle profondità marine. Lo Zen e i paesaggi ad inchiostro La pittura ad inchiostro monocroma costituisce un aspetto importante dell’arte giapponese, tale tipo di pittura finì per divenire un mezzo importante per la diffusione dello Zen. Le opere degli artisti Zen sembrano composte di getto, senza sforzo, ma si tratta solo di un’apparenza, quasi di un inganno da parte dell’artista. 5 I principi estetici Zen dell’architettura giapponese La casa tradizionale giapponese, che all’occhio occidentale appare scomoda e inadatta, rappresenta, con le sue apparenti privazioni, un rifugio per l’interiorità di chi la abita. Lo scopo anche in questo caso è rivolto alla natura in modo di fornire uno spazio in armonia ed in equilibrio con la natura stessa, con l’ambiente circostante. Gli elementi estremamente semplici che la costituiscono riflettono l’essenzialità dello Zen; il suo aspetto ingannevolmente fragile, fa sembrare la casa, a prima vista, un’invenzione poco adatta ad un Paese devastato da ricorrenti terremoti. In realtà, proprio la sua leggerezza e flessibilità contribuiscono alla sopravvivenza dell’edificio, impedendone la distruzione completa. Lo spazio esterno è connesso con quello interno, così come lo Zen vede nel mondo esterno un’estensione della vita interiore dell’uomo. Il teatro Nō Al pari di altre forme d’arte dello Zen, anche il teatro Nō è frutto di materiali di varia provenienza temporale e spaziale, il cui palcoscenico è un esempio di architettura di influenza Zen; il palcoscenico è una piattaforma di legno, ricoperta da un pesante tetto arcuato sostenuto da robusti pilastri. Gli attori entrano sul palcoscenico attraverso un ponte delimitato da una balaustra che presenta tre pini posti sul lato del pubblico. Un altro pino è dipinto sul fondale, a sottolineare, ancora una volta, la bellezza della natura. 6 La cerimonia del tè Il tè, il cui uso secondo una leggenda viene fatto risalire all’inizio del III millennio a. C. in Cina, per un certo tempo venne conservato sotto forma di pani costituiti da foglioline affumicate e compresse. Successivamente si preferì conservarlo in foglioline finemente macinate che venivano messe direttamente nella tazza con l’acqua bollente, dopo di che venivano frullate con una frusta, fino a fare assumere al tutto l’aspetto di una spuma bianca o di un delicato colore verde. Tale polvere di tè verde fu quello usato nella cerimonia del tè. In Giappone l’aristocrazia e la casta dei Samurai organizzarono ricevimenti per la degustazione della bevanda e, le varie scuole che si formarono, finirono per confluire nello Zen. Con il nome di “cha no yu” si indica oggi la “cerimonia del tè”. L’arte ceramica Zen In Giappone, grazie allo Zen e con esso la cerimonia del tè, la produzione della ceramica, di tradizione antichissima nel Paese, acquistò un nuovo significato, trasformandosi da attività artigianale, in vera e propria arte. Durante i vari secoli si produssero diversi tipi di ciotole per il tè rispondenti ai particolari dettami estetici dello Zen, dove si dava soprattutto risalto alla terracotta grezza, infatti, sebbene i 7 manufatti fossero smaltati, sovente si lasciava che parti sottostanti trasparissero, quasi a dare l’impressione che la smaltatura servisse a sottolineare la qualità del materiale “grezzo” e non a mascherarlo. Zen e haiku Non è inusuale sentire affermare che una delle massime espressioni dello Zen sia rappresentato dalla poesia “Haiku”. L’haiku ha contribuito, infatti, a dare una forma poetica allo Zen stesso. Tipica di questa forma poetica è la concisione, il senso di fugacità e una musicalità senza rime, quasi da potere essere definita “Kōan” in poesia. Si riporta, a titolo di esempio, la più nota composizione di Bashō (Ueno 1644 – Ōsaka 1694): 古池や Furui ike ya Un antico stagno 蛙飛びこむ kawazu tobi komu vi salta una rana 水の音 mizu no oto il suono dell’acqua Zen e l’arte marziale Nello Zen viene detto che lo “Zendō”, o via dello Zen, è identico al Kendō, o via della spada. Ciò significa che ad un esercizio, come quello della spada, può essere associato un significato simbolico capace di fare intuire all’uomo la verità dello Zen. Soprattutto in Giappone, lo Zen giunse ad interpretare, in una società che viveva immersa nella guerra e presso un’aristocrazia i cui uomini avevano dinanzi a sé la 8 continua alternativa della morte, le stesse arti marziali come strumenti meditativi: l’arte della spada, il tiro con l’arco, ecc. divennero mezzi per realizzare quella suprema semplicità di spirito per la quale, durante il combattimento e nell’atto di vibrare il colpo, viene risolta l’apparente separazione tra tiratore e bersaglio, in una dimensione in cui lo spirito non deve lasciarsi influenzare da nessun movimento dell'avversario, da nessuna azione del suo corpo e della sua mente. 5. Lo Zen in Occidente L’interesse per lo Zen, in Occidente, cominciò a sorgere quando nel 1927 D. T. Suzuki pubblicò i suoi saggi sul Buddismo Zen. Un’altra opera, “The Religion of the Samurai” di Kaiten Nukariya, apparsa nel 1913, quantunque importante, sollevò solo una scarsa attenzione. Dopo l’ultima guerra i saggi di Suzuki furono ristampati non solo nell’edizione originale in inglese, ma anche in Francese. L’interesse per lo Zen si estese anche all’Europa Centrale, in Germania ed in Svizzera. Infine si può ricordare l’intervento del noto psicanalista svizzero C. G. Jung che scrisse una introduzione al libro di D. T. Suzuki “An introduction to Zen Buddhism” (Londra 1948). È comunque grazie all’opera di D. T. Suzuki che si è diffuso rapidamente l’interesse per lo Zen. Può essere di qualche utilità studiare le ragioni di questo interesse che, al di fuori degli ambienti specialistici degli studiosi d’orientalismo, lo Zen ha risvegliato in Occidente. Alcune di queste ragioni possono essere individuate dal rapporto con alcuni aspetti surrealistici ed esistenzialistici presentati dagli insegnamenti Zen, specialmente quando hanno a che fare con i cosiddetti “koan” e “mondō”; questi sono episodi, risposte e dialoghi concernenti i Maestri Zen, che abbondano di elementi irrazionali, paradossali sottoposti alla meditazione dei discepoli come un mezzo per saggiare la loro capacità di comprendere ciò che oltrepassa le categorie ordinarie del pensiero logico e discorsivo. Soffermandosi sul carattere esteriore di questi aspetti peculiari dello Zen, si è portati a rifarsi a ciò che, in Occidente, rappresentarono certe scuole artistiche “surrealiste”, ma soprattutto “dadaiste”, là dove, ad esempio, “Tristan Tzara” (il fondatore del dadaismo) parlava della volontà di evocare “il primordiale incoerente, ululante, folle e bruciante caos” o, sempre per quanto riguardò l’Occidente, a quanto fu rappresentato da teorie filosofiche quali l’esistenzialismo. La difficoltà incontrata in Occidente, nell’andare oltre il conflitto tra il finito e l’infinito, uno degli aspetti dello Zen, era ed è rappresentata dal fatto che i presupposti di partenza, occidentale ed orientale, sono fondamentalmente differenti. Il primo, l’Occidente, era ed è condizionato in ambito filosofico e negli approcci comuni all’esistenza da concezioni positiviste, razionaliste e scientiste e sul piano 9 religioso da una concezione che si rifà ad un Dio personale che giudica in termini morali, ad un rapporto Creatore e creatura, il tutto completato da fede, culto, rivelazione, grazia divina, redenzione che costituiscono le basi di ciò che normalmente intendiamo per religione. Il secondo, l’Oriente, che non riconosce il concetto di creazione , di un Dio personale, ma si rifà ad un concetto di “Assoluto”, che si pone al di sopra di ogni idea teistica, e, rifiutando ogni logica di dogmi, culti, fede e morale, fa leva unicamente sulle forze e capacità del singolo per andare al di là dell’individualità e conseguire l’illuminazione ed il risveglio interiore. Tali difficoltà hanno fatto sì che, in area occidentale, ci si soffermasse sugli aspetti esteriori dello Zen, fraintendono spesso le finalità, là dove, per esempio, si pensava di trovare nello Zen la conferma di una forma di etica che possa equivalere alla libertà, intesa principalmente come intolleranza o fastidio ad ogni forma di disciplina interiore. Dove, invece, lo Zen sembra assumere aspetti iconoclastici e di rottura con le convenzioni del vivere quotidiano, fa, al contrario, riferimento ad un superamento della condizione umana, per conseguire la natura del Buddha, presente in ciascuno. Al di là di quelli che possono diventare, sul piano della cultura e degli orientamenti religiosi propri dell’Occidente, i limiti per un approccio completo allo Zen, basta che l’uomo occidentale rifletta sui suoi modelli di vita per potere giungere alla conclusione, se scevro da pregiudizi e filtri pseudo culturali, che questi non lo possono portare lontano. Se è vero che l’egocentrismo fa parte della natura umana, e la civiltà odierna fa dell’individualismo egocentrico un suo elemento caratterizzante, tuttavia proprio questa posizione porta l’individuo a considerare la realtà fenomenica, derivata dalla mente dominata dalle emozioni, come vera e non come una proiezione delle contraddizioni non risolte che sono in lui. Nell’ottica di questa risoluzione dei falsi opposti, per uscire dall’orbita della propria individualità, entrare in contatto con tutto l’esistente, alcuni aspetti dello Zen possono essere una risposta: a ciascuno trovare quelli più conformi alla propria natura. 10