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1.
Quella mattina la signora Margherita si era sveglia-
ta con una novità: la neve aveva coperto ogni cosa con
un manto candido e Venezia non sembrava più la stessa.
Ai suoi occhi era diversa, più suggestiva e magnifica.
Quando si era affacciata alla finestra il vento era un
po’ calato e le falde bianche non turbinavano più, ma il
suo sguardo si perdeva in un biancore quasi abbagliante.
Il mantello immacolato che copriva le calli e i tetti
della città e perfino le barche e le briccole, le ricordava
le nevicate della sua infanzia quando, ogni inverno, la
neve veniva abbondante e rimaneva per giorni, per la
gioia dei bambini. Volgendo lo sguardo più lontano, vedeva la distesa marina avvolta in un leggero velo di nebbia, nel quale le sagome scure delle imbarcazioni erano
indistinte ed imprecise.
L’anziana signora si aggiustò gli occhiali sul naso, con
aria assorta e pensosa. I suoi giorni erano illuminati dalle albe delicate della laguna e da rosati tramonti pieni
di nostalgie. Per alcune ore della giornata, stava davanti
alla tastiera del computer e si lasciava portare da pensieri leggeri che sembravano cristallizzare un ampio arco
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della sua esistenza. Per mezzo della scrittura cercava di
esorcizzare e vincere lo scorrere inesorabile del tempo,
riciclando le tante immagini dei lunghi anni della sua
vita.
Si disse che doveva trattenere nel suo intimo la dolcezza dei ricordi più belli, perché in essi si nascondeva
la poesia della vita. Si rendeva conto che non doveva
esporsi alla tortura delle nostalgie del passato e spesso si
perdeva ad ammirare i colori del mare.
La dolcezza di quello spettacolo evocava tutta una
costellazione di immagini antiche che assomigliavano ai
colori sfumati di quel mattino veneziano. Più tardi uscì
ancora sul balcone e rimase ad ammirare la distesa del
mare illuminata dal pallido sole di mezzogiorno.
In quei momenti avrebbe voluto correre per la città,
attraversare tutta la piazza San Marco, spaventare i piccioni, tenendo per mano il ragazzo gentile che era stato
compagno di giochi nella sua lontana infanzia.
Da pochi giorni egli non c’era più e lei avvertiva dentro di sé un vuoto che nessuno al mondo avrebbe potuto colmare. Ma la signora conosceva alla perfezione la
geografia dell’animo umano perciò, attraverso le lotte
e le sofferenze, era riuscita a conquistare un suo equilibrio interiore,anche se i ricordi del passato erano vivi e
spesso pungenti.
Si ricordava ancora il suo primo giorno di scuola materna, che allora si chiamava “Asilo per l’infanzia”.
Quella mattina di ottobre del 1945 sua madre le aveva messo un grembiulino a quadretti bianchi e rosa: era
sbiadito e rattoppato con una fascia di stoffa nuova sul
davanti. Era stato della sua cuginetta più grande e dove10
va accontentarsi. Lei non fece caso al grembiule e prese
in mano il cestino: una sorta di bauletto di cartone rigido dove teneva un tovagliolino, un paio di piccole mele
profumate e un pezzo di formaggio.
Appena arrivata nell’aula, suor Giulia l’accolse con
un delizioso sorriso. Le regalò una caramella di zucchero, la fece sedere ad un tavolino e le diede in mano uno
spillo. Con esso lei doveva punteggiare i contorni di una
grande foglia disegnata sulla carta bianca. Margherita si
applicò con diligenza e meticolosità ed in poco tempo
riuscì a finire il lavoro. La giovane suora le diede alcune
matite di varie tonalità di verde e di giallo: doveva colorare il suo primo capolavoro e quindi staccare la foglia
dal resto del foglio bianco.
Una volta finito, la bambina rimase a guardare il bel
volto e il sorriso gratificante della suora e si sentì orgogliosa di se stessa.
All’ora del pasto, la piccola era seduta a tavola aspettando che la madre le portasse il primo piatto. A quei
tempi non c’erano le mense scolastiche e le mamme dovevano portare ai figli il pentolino della minestra. Tutti
i piccoli intorno a lei ridevano e mangiavano, ma sua
madre era in ritardo, non arrivava. Volse gli occhi verso
il bambino che aveva di fianco.
Il piccolo aveva la forchetta in mano e stava ad osservare il piatto di gnocchi che aveva davanti, non avendo voglia di cominciare a mangiare. Sentì la voce della
suora:
“Mangia Nicola, su, coraggio!”
Egli infilzò uno gnocco di malavoglia e si girò a guardare Margherita. E lei vide due occhi luminosi, color
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dell’ambra bruna, che ridevano senza che muovesse un
muscolo del viso.
Alla bambina sembrò che quello sguardo vellutato
fosse di un essere particolare, diverso, e pensò agli angeli: dovevano avere quel lampo luminoso negli occhi.
Ma aveva fame, un languore le aggrediva lo stomaco e,
come presa da un raptus, strappò lo gnocco dalla forchetta del piccolo e lo fece scivolare in bocca. Lui non
fece una piega, anzi rise. Quindi infilzò un altro boccone e glielo offerse, dicendo:
“Se li vuoi, te li posso dare anche tutti”.
“Ah, davvero?
“Se ti piacciono, sono tuoi.”
Intanto rideva, rideva divertito, mostrando i denti
bianchi, luccicanti come perle.
Nel frattempo la madre di Margherita arrivò e le presentò un piatto di fettuccine condite con rigaglie di pollo: avevano un buon profumo, ma si vedeva chiaramente che erano scotte. La bimba si girò e Nicola le disse:
“Mi piacciono molto le fettuccine, vuoi i miei
gnocchi?”
Meravigliata, lei accennò di sì con la testa, poi si voltò per vedere la reazione della madre, ma lei si stava già
allontanando e la stava salutando con la mano. Allora
i due bambini si scambiarono i piatti e cominciarono
finalmente a mangiare con vero piacere.
Da quel giorno i due piccoli diventarono inseparabili
e quando la suora chiamava Margherita Carlini, inevitabilmente Nicola Contin la seguiva. Il bambino le stava
vicino, inventando insieme a lei scherzi e giochi.
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I mesi passarono allegramente e venne presto l’estate. Le scuole vennero chiuse e la piccola Margherita, per
mesi, non vide più il suo amico.
Ai primi di ottobre avrebbe iniziato la prima elementare, ma sarebbe andata alla scuola di Borgo M, una
frazione poco lontana dal centro e immersa nella campagna, perciò non avrebbe potuto frequentare Nicola.
La bambina era tesa e in ansia per la nuova avventura scolastica che stava per iniziare. Fin dai primi giorni
di lezione i nuovi compagni si rivelarono troppo vivaci,
chiassosi e ben presto lei si sentì a disagio. Doveva imparare a difendersi a suon di spintoni e rispondere con
aggressività alla loro arroganza e alle loro battute.
Era la più piccola e fragile della classe e il maestro la
mise nel primo banco, vicino alla cattedra. Quell’uomo
dai modi gentili, dalla voce calda e carezzevole, la conquistò subito, ma quando lei prese la penna in mano,
capì che qualcosa non andava e lo comprese anche lui.
Le manine di Margherita erano prese da un tremito,
come le foglie dei pioppi, scosse dalla brezza del mattino. Appena appoggiava il pennino sul foglio, doveva
fare un grande sforzo per tracciare i segni diritti e la
scrittura risultava appuntita e incerta.
Lei, con determinazione, cercava di accettare quella
anomalia e di adattarsi ad essa. Spesso si esercitava a
scrivere su piccoli pezzi di carta o su ritagli di giornale
e, in capo a qualche mese, riuscì a guidare con più sicurezza le dita sul foglio e migliorare la grafia.
Passarono i primi sei mesi e, con sua grande sorpresa, incominciava ad amare la scuola. Le lodi del maestro
la inorgoglivano, la gratificavano, sentendosi protetta
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ed amata da quell’uomo affabile, pieno di cultura e gentilezza. Era colpita dal suo sorriso, dalla sua autorevolezza e dalla sua pazienza.
Quando Margherita arrivava al mattino, spesso apriva la cartella di cartone e traeva da essa una mela rossa
e lucida. La metteva sul tavolo del maestro, accanto al
giornale. Lui ringraziava e le faceva una carezza, prima
che gli altri bambini entrassero in classe. Quell’uomo le
faceva simpatia, mentre parlava sottovoce, la guardava
negli occhi e le sorrideva.
La sera però, distesa nel letto, Margherita stentava
a prender sonno. Rivedeva il volto del piccolo Nicola,
il suo amico della scuola materna. Le mancavano i suoi
scherzi e i suoi racconti divertenti.
Quel suo volto ridente la perseguitava e rivedeva i
suoi grandi occhi luminosi sia quando chiudeva le palpebre sia quando restava sveglia nel buio. Non sapeva
perché fossero rimasti per tanti mesi senza vedersi e non
ricordava che ci fosse stato un motivo particolare. Sta di
fatto che la separazione fu per lei una cosa difficile da
accettare. Cominciò quindi, ad invocarlo continuamente con il pensiero e a chiedergli:
“Dove sei? Che fai ora?”
Lo faceva con la mente e con il cuore, usando tutte
le sue forze. Questa invocazione, o meglio, questo grido
dell’anima diventò ben presto un rito serale, un’abitudine che durò molte notti.
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