Gulliver, Robinson e i luoghi dell`Altro Secondo Edward Said, «there

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Gulliver, Robinson e i luoghi dell`Altro Secondo Edward Said, «there
ADELINA CATALDO
Gulliver, Robinson e i luoghi dell’Altro
Secondo Edward Said, «there is no doubt that imaginative geography
and history help the mind to intensify its own sense of itself by dramatizing
the distance and difference between what is close to it and what is far
away»1.
È per questo motivo che i racconti di viaggi verso paesi lontani, reali o
anche solo immaginati, e il confronto con le rappresentazioni dell’Altro,
abitante di queste terre, implica questioni di identità, spesso intrecciate a
temi coloniali, e dunque a vicende di conquista e di assimilazione. D’altra
parte il viaggio verso l’isola del lontano oceano è per sua natura la cornice
classica del racconto utopico, che a sua volta ci pone di fronte a interrogativi interessanti riguardanti la nostra natura, le nostre società, i nostri
sistemi politici. La sua storia, come ricorda Petrucci, è intrecciata allo sviluppo del colonialismo europeo e alla «westernization of the world»2.
Nel corso del diciassettesimo e del diciottesimo secolo l’immaginazione
geografica permea la cultura e la letteratura inglese, naturale conseguenza
delle esperienze coloniali dell’epoca. Due esempi tipici sono al riguardo
rappresentati dai Gulliver’s Travels di Jonathan Swift e dal Robinson Crusoe di
Daniel Defoe. Essi, secondo Bruce McLeod3, utilizzarono un mondo imperializzato come cassa di risonanza per la narrazione di situazioni e questioni
che riguardavano le Isole Britanniche. I luoghi dell’Altro costituivano così
lo strumento ideale per mezzo del quale gli Inglesi potevano meglio comprendere se stessi.
Il momento storico più importante fu, in realtà, la conquista delle
Americhe: «The mood of the times in Europe was pessimistic after a century of famine, disease and violence. […] Exploration held the promise of
contrasting utopias; Cristóbal Colón (Christopher Colombus) was driven
E. SAID, Orientalism, Penguin Books, London 2003, p. 55.
V. PETRUCCI, “Colonialism”, in V. FORTUNATI e R. TROUSSON, Dictionary of Literary
Uto-pias, Honorè Champion, Paris 2000, p. 127.
3 B. MCLEOD, The Geography of Empire in English Literature 1580-1745, CUP, Cambridge
1999, p. 167.
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Bollettino Filosofico 26 (2010): 400-409
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673927
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by a religious vision and the desire to discover a “terrestrial paradise”»4.
Senz’altro le esplorazioni geografiche e l’espansione coloniale portarono poi, tra Sei e Settecento, ad un accresciuto interesse verso la letteratura
di viaggio, e le utopie immaginarie si nutrirono spesso di travel diaries e di
resoconti di viaggio: basti pensare alla fortuna riscossa da un’opera come A
New Voyage Round the World di William Dampier5.
Agli inizi del Settecento, il tema del viaggio rappresenta parte di uno
schema ormai consolidato del romanzo utopico: viaggio–permanenza–
ritorno, anche se, rispetto all’utopia tradizionale (da Moro a Campanella e
a Bacone), in Gulliver’s Travels, esso appare caratterizzato da ricchi ed imprevedibili elementi fantastici6. Il racconto fantastico, infatti, come ricorda
Louis Vax, «è solito presentarci uomini come noi che abitano nel mondo
reale dove noi siamo, posti all’improvviso in presenza dell’inesplicabile»7.
E Gulliver è un uomo reale, come noi, che all’improvviso viene a trovarsi
in terre abitate da uomini alti sei pollici, da giganti e così via. In Gulliver’s
Travels, come per le utopie e per i prodromi del genere fantascientifico, è
un’isola del lontano oceano a costituire la meta del viaggio, con una ben
precisa funzione straniante. «Come gli alieni – abitanti di utopia, mostri o
semplicemente stranieri diversi – sono lo specchio dell’uomo, così il luogo
diverso è lo specchio del suo mondo. Lo specchio però non si limita a riflettere, bensì trasforma»8. È questa oscillazione tra il mondo dell’autore e
la nuova realtà a provocare la necessità narrativa di introdurre un mezzo di
dislocazione della realtà, rappresentata proprio dal viaggio.
La finzione utopica descrive solitamente un ‘non-luogo’(dal greco ou =
non e topos = luogo), una società ideale, attraverso la quale luoghi e persone conosciuti appaiono improvvisamente estranei, permettendo di analizzarli con un occhio critico. Il modello originale è l’Utopia di Thomas
More (1516). More, per primo, utilizza la finzione di un paese utopico come specchio ribaltato dei costumi delle società europee. Nel suo paese
d’Utopia, gli abitanti non mirano ad accaparrarsi gioielli o ricchezze, i quali
hanno perso la loro ragion d’essere, non ci sono controversie e tutto è in
B. BUSH, Imperialism and Postcolonialism, Longman, Harlow 2006, p. 14.
W. DAMPIER, Memoirs of a Buccaneer. Dampier's New Voyage Round the World (1697),
Dover Publications, New York 1968.
6 V. FORTUNATI, “Gulliver’s Travels”, in V. FORTUNATI e R. TROUSSON, cit., p. 260.
7 L. VAX, L’Art et la Littérature fantastique, PUF, Paris 1960, cit. in T. TODOROV, La
letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1981, p. 29.
8 D. SUVIN, Le Metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, il
Mulino, Bologna 1985, p. 21.
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comune; non esiste infatti la proprietà privata, così come non esistono la
guerra e i politici che decidono del destino delle nazioni. Poiché però le
società europee sono esattamente l’inverso di tutto questo, l’utopia non è
che un mondo alla rovescia, che permette un ribaltamento simmetrico e
una ridescrizione straniante del mondo conosciuto.
Secondo Darko Suvin, «L’utopia è la costruzione verbale di una particolare comunità quasi umana in cui le istituzioni socio–politiche, le norme
e le relazioni individuali sono organizzate secondo un principio più perfetto
di quello che governa la comunità dell’autore; una costruzione basata sullo
straniamento che origina da un’ipotesi storica alternativa»9. E, nel caso
specifico del racconto di Swift, l’isola rappresenta «a metaphor of closure»,
la quale «marks the desire for something else»; e «its traditional collocation
in geographical areas far away from Europe, in unexplored lands, confirms
its haughty otherness from the civilised world»10.
Gulliver’s Travels rappresenta tuttavia una sorta di anti–utopia, visto che le
società immaginarie in esso presentate appaiono, sotto molti aspetti, come
esempi di anti–società, con visioni grottesche che, non proprio ideali, rappresentano in realtà una satira amara dell’ordine sociale in cui l’autore vive e
opera. Tra le «several remote nations» non si trova infatti alcun modello che
sia totalmente positivo, nessuna immagine di un’auspicabile società a venire.
La ‘moda’ della letteratura di viaggio conosce un illustre precedente nel
sopra citato A New Voyage Round the World di Dampier, pubblicato nel
1697. Non a caso, nella lettera di prefazione aggiunta all’edizione del 1735
dei Gulliver’s Travels, il capitano Gulliver scrive a suo cugino Sympson di
aver dato delle direttive affinché un Gentiluomo proveniente da qualche
università correggesse lo stile del suo racconto, proprio come suo cugino
Dampier aveva fatto fare dietro suo consiglio11.
Anche la celeberrima avventura nata dalla penna di Daniel Defoe pochi
anni prima della pubblicazione dei Travels, vede come protagonista un viaggiatore, Robinson Crusoe, il quale approda da solo su una spiaggia deserta
per raccontare dei mezzi con cui riesce a sopravvivere in una terra estranea.
Ivi, p. 6.
C. IMBROSCIO, “Myths and Symbols”, in Dictionary of Literary Utopias, cit., p. 419.
11 «I hope you shall be ready to own publicly [...] that by your great and frequent
Urgency you prevailed on me to publish a very loose and uncorrect Account of my
Travels; with Direction to hire some young Gentleman of either University to put them in
Order, and correct the Style, as my Cousin Dampier is by my Advice, in his Book called, A
Voyage round the World» (J. SWIFT, Gulliver’s Travels (1726), Penguin, London 2003, p. 5).
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Gulliver e Crusoe sono, oltre che viaggiatori, anche narratori che cercano il
modo più efficace per descrivere e raccontare eventi che sfuggono alla loro
abituale capacità di comprensione.
Nella Prefazione a The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson
Crusoe si legge: «The editor believes the thing to be a just History of Fact»,
e infatti Defoe era stato ispirato dalla storia vera di Alexander Selkirk. A
parte ciò, vi sono riferimenti sia temporali che spaziali ben precisi che Defoe utilizza allo scopo di convincerci dell’attendibilità degli eventi descritti,
come sostiene ad esempio John Mullan: «Defoe imitates factual accounts to
provide us with the means of believing in his stories»12. E non c’è in effetti
motivo per dubitare che, all’epoca in cui apparve, Robinson Crusoe fosse accolto dai suoi lettori come un resoconto storico. Al riguardo, Robert Mayer sostiene che: «Undoubtedly there were some in London who knew, on
the day the work appeared, that it had been written by Defoe, and others
who guessed that it was imaginary, but there were also apparently many
who read it as an account of matters of fact, and probably more who were
not sure [...]»13.
Oltre alla prefazione, nella quarta edizione, apparve anche una mappa,
che spingeva ancora di più i lettori ad accettare il testo come una storia vera. Alcune mappe sono presenti anche in Gulliver’s Travels, ma le mappe di
Swift sono molto meno verosimili di quella di Defoe, che invece è autentica, anche se il viaggio descritto non lo è.
Anche a Gulliver, come a Crusoe, piace descrivere «fatti», ma, ad un
certo punto, il suo racconto prende una strada diversa, e questo accade nel
momento in cui il lettore è chiamato a lasciarsi alle spalle il mondo del
possibile. Gulliver’s Travels infatti non è un romanzo, ma una satira, che, secondo Aileen Douglas, tratta «the unwarranted pride modern Europeans
take in what they know and have: their modes of government, scientific
achievements and civilisation»14.
Gulliver racconta di esperienze incredibili, visitando terre abitate da
‘alieni’ antropomorfi. I lillipuziani appaiono piccolissimi, mentre Gulliver
è enorme, rappresentando in un certo modo il potere coloniale; tuttavia,
ciò che per Clement Hawes configura maggiormente il viaggio a Lilliput
12 J. MULLAN, “Swift, Defoe and narrative forms”, in The Cambridge Companion to English Literature, 1650-1740, a cura di S.N. Zwicker, CUP, Cambridge 1998, p. 256.
13 R. MAYER, History and the Early English Novel, CUP, Cambridge 1997, p. 192.
14 A. DOUGLAS, “The Novel Before 1800”,The Cambridge Companion to the Irish Novel,
CUP, Cambridge 2007, p. 26.
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come una appropriazione ironica del discorso coloniale è il tema dell’assimilazione, ed è proprio Gulliver a spogliarsi della propria cultura per
adottare la prospettiva lillipuziana15.
Nel secondo libro, il gigante diventa piccolo, come a rappresentare un
capovolgimento nelle posizioni tra colonizzatore e colonizzato. In effetti,
gli abitanti di Brobdingnag vedono Gulliver semplicemente come un animale intelligente. Gulliver, d’altra parte, assume progressivamente il punto di vista dei giganti, iniziando a percepire tutto secondo una scala gigantesca, ma tutto ciò che appare grande agli occhi dell’uomo piccolo rivela
anche strane imperfezioni e aspetti sgradevoli che normalmente non vengono percepiti, come per il colorito poco gradevole e il pessimo odore dei
seni delle donne di Brobdingnag.
Il corpo “deformato”, che ricorre in vari modi per tutti i Travels, assume
grande importanza nello schema narrativo. Gulliver sembra essere tutto corpo, e gli altri lo percepiscono sulla base delle impressioni suscitate dal suo
corpo. Le immagini distorte dei corpi, visti attraverso la lente di ingrandimento sono terribili, e la deformazione grottesca trasforma, insieme al
corpo, tutto il mondo esterno, rendendolo sconosciuto o alieno. Vi sono
anche numerose immagini che ricordano quelle di animali nelle descrizioni
di Gulliver, e, addirittura, nel secondo libro, gli europei vengono descritti
come «odious vermin» dal re di Brobdingnag nel suo terribile verdetto,
che riassume sia il punto di vista del colonizzatore che quello distaccato
dell’abitante dell’isola utopica16.
Nel terzo libro, invece, la satira di Swift è diretta verso l’utopia baconiana, consistente in una fede esagerata verso la nuova scienza, destinata a
condurci verso il progresso e il riscatto dell’uomo. Davanti all’entusiasmo
iniziale, scaturito da un diffuso senso di fiducia nel potere rappresentato dal
sapere scientifico, Swift sembra voler contrapporre un dubbio, ossia che la
scienza possa, in realtà, divenire un potente e pericoloso strumento di
distruzione.
Il discorso coloniale viene poi completato nel quarto libro, in cui la descrizione degli Yahoos dal naso piatto e dai seni cadenti, ricorda, per alcuni
15 C. HAWES, “Three Times Round the Globe: Gulliver and Colonial Discourse”, Cultural Critique, 18 (1991), p. 199: «What most marks the voyage to Lilliput as an ironic
appropriation of colonial discourse [...] is the topos of assimilation».
16 «I cannot but conclude the Bulk of your Natives to be the most pernicious Race of
little odious Vermin that Nature ever suffered to crawl upon the Surface of the Earth» (J.
SWIFT, Gulliver’s Travels, cit., p. 123).
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versi, il racconto dai toni razzisti dello stesso Dampier, il quale descriveva
gli aborigeni come «the miserablest People in the World», che «differ but
little from the Brutes»17.
Per Carol Houlihan Flynn, entrambi Defoe e Swift usano la figura del
cannibale per esplorare l’Altro, che viene ad essere incorporato dall’essere
«civilizzato» come componente necessaria della società ‘divorante’: «Defoe
demonstrates Crusoe “civilizing” his savage to make him part of a system
he controls. But the savagery Crusoe combats turns out to be located as
much within as outside his own nature. […] Swift also insists upon exposing the savagery implicit in his straining physical economy. To protect
himself from his yahoo “nature”, Gulliver skins the Yahoos he so fears, and
melts them down for tallow, making use of their bodies to separate himself
from their needs»18.
L’Altro, ritratto come selvaggio e cannibale, serve pertanto a fornire
una giustificazione per la conquista e la sottomissione dello stesso19, ma
non solo; sia Defoe che Swift usano il cannibale come «the emblem of a
physical economy that requires an infusion of new blood to revitalize (…)
an ailing body politic»20. Gli inglesi dipendevano pertanto dai corpi colonizzati per poter soddisfare i bisogni che emergevano man mano, nel corso
del loro processo di espansione21.
In una prospettiva coloniale, l’incontro con l’Altro evidenzia inoltre
una volontà di esclusione riguardo a ciò che viene percepito come diverso,
poiché, come ricorda Said, «culture is a system of discriminations and evaluations […] and it also means that culture is a system of exclusions». Nel
quarto libro dei Travels, è il Master Houyhnhnm a rappresentare tale prospettiva. Egli vede, come ha sottolineato Hawes22, solo ciò che Gulliver, in
17 W. DAMPIER, op. cit., p. 312. D’altra parte, Michel de Montaigne scriveva: «Noi
non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione, che l’esempio e l’idea
degli usi e opinioni nel nostro paese... Perciò gli altri diversi da noi sembrano selvaggi, allo
stesso modo per cui chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto nel suo naturale
sviluppo» (M. DE MONTAIGNE, Saggi, 3 voll., a cura di V. Enrico, Mondadori, Milano
1986, vol. I, cap. XXXI, ‘Dei cannibali’, p. 231).
18 H.C. FLYNN, The Body in Swift and Defoe, CUP, Cambridge 1990, pp. 149-150.
19 «The definition of otherness, the degree to which others can be persuasively shown
to be discordant with putative norm, provides a rationale for conquest» (S. DEANE, “Introduction”, in T. EAGLETON, Nationalism, Colonialism and Literature, University of Minnesota
Press, Minneapolis 1990).
20 H.C. FLYNN, The Body in Swift and Defoe, cit., p. 150.
21 Ibid.
22 E.W. SAID, The World, the Text and the Critic, HUP, Cambridge (Ma.) 1983, p. 11.
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confronto ad uno Houynhnhnm, non possiede: «He [then] began to find
fault with other Parts of my body; the Flatness of my Face, the Prominence
of my Nose, mine Eyes placed directly in front, so that I could not look on
either side without turning my Head»23. Gulliver si caratterizza pertanto
come Altro, anche in accordo con ciò che Homi Bhabha intende per
«otherness»: «It is not the colonist Self or the colonized Other, but the
disturbing distance in-between that constitutes the figure of colonial
otherness».24
La differenza tra Sé e Altro sembra invece assottigliarsi nel momento in
cui Gulliver viene inevitabilmente assimilato dagli Yahoos, sebbene li disprezzi e cerchi disperatamente di identificarsi con gli intelligenti Houyhnhnms. Ciò mette in evidenza come sia Gulliver che gli Yahoos rappresentino l’avidità, l’ipocrisia e la brutalità del mondo da cui il viaggiatore proviene. Nell’ultimo libro, la visione utopica è dominante, poiché gli Houyhnhnms sono un popolo razionale, per i quali la guerra e l’ipocrisia non esistono; ciò nonostante Gulliver non trova alcun modello che possa prospettarsi come interamente desiderabile e praticabile una volta tornato nella sua Inghilterra.
Lo straniamento che Gulliver sperimenta nel corso dei suoi viaggi porta
infine alla completa distruzione della percezione che egli ha di se stesso,
così, come sostiene Aileen Douglas: «The first three voyages chart Gulliver’s oscillating sympathy with and resistance to the societies he encounters, as he sees himself, or refuses to see himself through alien eyes. It is in
his fourth and final voyage that he completely adopts the perspective of his
hosts, and his sense of self is devastated»25.
Al contrario, l’immagine che Crusoe ha di sé sembra crescere lungo
tutto il romanzo. Poco dopo aver esplorato il suo ambiente, la sua capacità
di sfruttarlo evolve progressivamente. Egli fornisce al lettore anche un inventario dettagliato delle sue misure strategiche e del suo uso di barriere e
recinzioni, in base ad una concezione dello spazio legata a piani di espropriazione dei territori26. Bruce McLeod evidenzia come Crusoe «defines or
J. SWIFT, Gulliver's Travels, cit., p. 223.
H.K. BHABHA, The Location of Culture, Routledge, New York 1994, p. 64.
25 A. DOUGLAS, The novel before 1800, cit., p. 27: «The first three voyages chart Gulliver’s oscillating sympathy with and resistance to the societies he encounters, as he sees
himself, or refuses to see himself through alien eyes. It is in his fourth and final voyage that
he completely adopts the perspective of his hosts, and his sense of self is devastated».
26 B. MCLEOD, The Geography of Empire in English Literature 1580-1745, CUP,
Cambridge 1999, p. 198.
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realizes his selfhood through the process of mapping and circumscribing
the island. In other words, he revives his sense of self, his identity and
well-being through possession»27.
Nel suo isolamento dal resto del mondo, Crusoe è in grado di creare
una società utopica costituita da un solo individuo, senza la presenza di altre persone che possano distruggere l’armonia che è riuscito a creare.
Così, nonostante il suo isolamento, considerato dallo stesso come una punizione divina per i suoi peccati, egli riconosce che la sua nuova vita si presenta come preferibile rispetto a quella lasciata alle spalle: «It was now that
I began sensibly to feel how much more happy this life I now led was than
the wicked, cursed, abominable life I led all the past part of my days»28.
Tuttavia, nell’assumere il controllo sull’isola, Crusoe agisce sempre più
come un colonizzatore e, riflettendo sulla propria condizione sull’isola,
egli si considera come «Lord of the whole Mannor; or if I pleas’d, I might
call myself King, or Emperor over the whole Country which I had possession of»29. Inoltre, la sua passione per il dominio e il possesso appare
anche nel rapporto con il selvaggio che serve a completare il suo dominio
sull’ambiente. Friday si offre infatti come schiavo, come esprime simbolicamente in linguaggio coloniale ponendo il piede di Crusoe sulla propria
testa. Inoltre, l’incontro con il selvaggio rappresenta la continuazione di un
intreccio prefigurato dalle avventure di Crusoe in Africa e dalle sue attività
schiavistiche in Brasile.
La descrizione iniziale di Friday appare ambigua, in quanto, sebbene sia
un cannibale, egli presenta agli occhi di Crusoe, alcune caratteristiche proprie dell’uomo “europeo”, e per Flynn: «Just this juxtaposition of sweetness and savagery complicates his character, suggesting that Friday might
be another victim of another, perhaps simpler, physical system that eats up
its fellow creatures […]”30.
Poiché il suo essere cannibale disturba Crusoe e la sua nozione di ordine, egli cerca in ogni modo di allontanarlo da quella che è la sua natura,
fino ad annullare la sua identità. Poco dopo averlo salvato, Crusoe racconta: «I made him know his Name should be Friday, which was the Day I
sav’d his Life... I likewise taught him to say Master, and then let him
Ibid.
D. DEFOE, Robinson Crusoe, cit., p. 113.
29 Ivi, p. 128.
30 H.C. FLYNN, The Body in Swift and Defoe, cit., p. 155.
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know, that was to be my Name»31. Il fatto di annullare l’identità di Friday
attraverso l’imposizione di un nome, dà il via ad un processo di trasformazione del selvaggio nell’immagine stessa di Crusoe32. In effetti, Friday parla
come Crusoe e imita le sue azioni, ma non importa quanto possa divenire
“civilizzato”, egli resta sempre Altro. Per Bhabha, la «mimicry» coloniale
rappresenta infatti «the desire for a reformed, recognizable Other, as a
subject of a difference that is almost the same, but not quite»33. Il discorso
sulla «mimicry» si costruisce pertanto sulla base di un’ambivalenza: «in order to be effective, mimicry must continually produce its slippage, its excess, its difference»34.
Ad ogni modo, nonostante la sua irriducibile differenza, Friday diventa
il compagno perfetto, se non altro perché la sua presenza serve a consolidare l’autorità dello stesso Crusoe. Infatti, nel momento in cui il selvaggio fa la sua comparsa, egli è in grado di identificarsi35 come «Master», che
detiene il controllo dell’isola e dell’Altro. La Provvidenza, che viene addotta anche come giustificazione per la sottomissione del cannibale, fa sì
che Crusoe riesca infine a tornare in patria, dove, tra l’altro, è fiero di mostrare Friday agli amici, a testimonianza di come nulla sia impossibile per
un uomo di fede.
Al suo ritorno, Crusoe scopre che la piantagione in Brasile ha dato i
suoi frutti, rendendolo ricco, e, sebbene egli si senta come «a Stranger to
all the World»36, la sua storia ha, per alcuni versi, un lieto fine. Di contro,
il finale dei Travels si rivela tragico, in pieno accordo con il genere satirico a
cui il testo appartiene. Così Gulliver, al momento del suo ritorno alla realtà, si presenta come ormai inadatto a vivere nella società in cui è cresciuto,
poiché è incapace di usare le conoscenze acquisite nel corso dei suoi viaggi,
per elaborare un modello di società positivo.
Per concludere, il processo di decostruzione/ricostruzione di identità,
europee o Altre, lungo il corso delle due narrazioni attraversa prospettive
Ivi, p. 209.
Cf. B.C. MCNEILLY, “Expanding Empires, Expanding Selves: Colonialism, the Novel, and Robinson Crusoe”, Studies in the Novel, 31 (2003) 1, pp. 1-21.
33 H.K.BHABHA, The Location of Culture, cit., p. 122.
34 Ibid.
35 A tal proposito, Bhabha sostiene che «the question of identification is never the affirmation of a pre-given identity, never a self-fulfilling prophecy – it is always the production
of an image of identity and transformation of the subject in assuming that image» (ivi, p.
64).
36 D. DEFOE, Robinson Crusoe, cit., p. 274.
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coloniali e visioni utopiche evidenti, ma mai definitive. Proprio a causa
dell’oscillazione costante tra mondi opposti, e punti di vista, anche impliciti, ma comunque sempre discordanti, appare impossibile per il lettore,
come per i protagonisti, operare delle distinzioni nette e riuscire dunque a
tracciare una linea di demarcazione tra “sé” e “altro”, “europeo” e “selvaggio”,
“utopia” e “anti-utopia”, in quello che assume il carattere di un gioco di specchi senza fine.