Numero Ottobre `10

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Numero Ottobre `10
Ottobre '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Ottobre '10
Numero Ottobre '10
EDITORIALE
Come d’abitudine, ottobre è il mese in cui vengono rese note le nomination per il premio
“Fuori dal Mucchio”, riservato alle opere prime uscite nella stagione discografica appena
conclusasi, vale a dire agli album (niente EP o CD-R, quindi) d’esordio di artisti o gruppi
italiani pubblicati nel periodo compreso tra il settembre 2009 e l’agosto 2010.
Una giuria composta dal nostro staff affiancato da alcuni ospiti scelti tra gli addetti ai lavori
più attenti alle vicende dell’underground tricolore decreterà il vincitore tra i venti titoli
sottoelencati. Vincitore che verrà premiato al Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza
(RA) a fine novembre, e il cui nome andrà ad affiancarsi a quello di quanti si sono aggiudicati
il premio negli anni scorsi, vale a dire Santa Sangre, Lalli, Baustelle, Giardini di Mirò,
Valentina Dorme, es, Methel & Lord, Offlaga Disco Pax, Tellaro, MiceCars, Le Luci
della Centrale Elettrica e Samuel Katarro.
Ecco, dunque, l’elenco dei papabili:
2Pigeons, “Land” (La Fabbrica)
Airìn, “Il regalo” (Adesiva Discografica)
Brown And The Leaves, “Landscapes” (Red Birds/Audioglobe)
Ciclope, “Una notte all’Inferno” (Green Fog/Venus)
The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik, “Are You Crazy Or Crazy Crazy?” (Locomotiv)
Criminal Jokers, “This Was Supposed To Be The Future” (Iceforeveryone/Audioglobe)
Il Disordine delle Cose, “Il disordine delle cose” (Tamburi Usati/Venus)
The Dissuaders, “Minutes To Go” (Hate)
Eterea Postbong Band, “Epyks 1.0” (Trovarobato/Audioglobe)
Dino Fumaretto, “La vita è breve e spesso rimane sotto” (Trovarobato/Audioglobe)
Simona Gretchen, “Gretchen pensa troppo forte” (Disco Dada/Venus)
Heike Has The Giggles, “Sh!” (Kitano/Goodfellas)
La Linea di Greta, “Cani di banlieue” (autoprodotto)
Maciste, “Maciste” (Devil’s Ruin)
Micol Martinez, “Copenhagen” (Discipline/Venus)
Il Pan del Diavolo, “Sono all’osso” (La Tempesta/Venus)
Davide Tosches, “Dove l’erba è alta” (Contro)
UnePassante, “More Than One In Number” (Anna The Granny)
Verlaine, “Rivoluzioni a pochissimi passi dal centro” (70 Horses)
Vinegar Socks, “Vinegar Socks” (Grinding Tapes)
Dalla lista, come avrete potuto notare, sono stati esclusi i debutti in proprio di Edda e
Alessandro Fiori, dal momento che, visto il ruolo centrale (anche a livello compositivo)
ricoperto da entrambi nelle rispettive band (Ritmo Tribale per il primo, Mariposa e Amore per
il secondo), ci sembrava inopportuno e per molti versi ingiusto considerarli alla stregua di
meri debuttanti.
In attesa di conoscere l’esito delle votazioni, che sarà annunciato in questo spazio ai primi
di novembre, non ci rimane che augurare in bocca al lupo a tutti i partecipanti, buon lavoro ai
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giurati e a tutti voi buona lettura e buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Baby Blue
Incontriamo Mirko Maddaleno e Serena Altavilla, nucleo del quartetto di Prato, in occasione
della presentazione del loro secondo album, “We Don’t Know” (Trovarobato/Audioglobe).
Un album realizzato, un po’ per caso un po’ per scelta, secondo tutti gli (anti)criteri del rock
più imprevedibile, coraggioso e genuino, ma allo stesso tempo foriero di sostanziali novità
rispetto al recente passato.
Alla Fnac di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, ci sarà tempo anche per sette brani,
eseguiti in duo e con il solo ausilio di una chitarra elettrica. Perché la formazione toscana fa
dell’energia live una delle migliori frecce al suo arco (tanto che il responsabile del negozio
sarà costretto ad abbassare i volumi sul tellurico, ehm, singolo “Earthquake”), come messo
in evidenza dal 2004 a oggi e come confermato dalla data zero del nuovo tour, giocata
felicemente in casa al club ControSenso lo scorso 24 settembre: a vederli in azione sul
palco, l’impressione è di avere a che fare con una delle migliori band emergenti degli ultimi
anni. La nostra estesa chiacchierata è scandita dalle risposte intrecciate di Mirko e Serena,
che spesso vanno a completarsi a vicenda proprio come accade quando si trovano a
scandire le frasi delle loro adorabili canzoni.
Tra il vostro esordio sulla lunga distanza, “Come!”, e il nuovo “We Don’t Know” è
trascorso appena un anno. Perché?
SA: Ormai stavamo suonando da tanto i vecchi pezzi dal vivo e in più avevamo del tempo
libero da sfruttare, per cui fissare il nuovo materiale su un supporto era necessario, era un
vero e proprio bisogno.
MM: Il disco era praticamente già pronto. Il problema, poi, è che il materiale diventa vecchio
in primis per chi lo scrive. Se registri cose datate, vengono peggio perché via via smarrisci
l’atteggiamento, l’atmosfera iniziale. Si dimentica se il pezzo va spinto tanto o poco, se è
triste o allegro... Così va a finire che lo realizzi in un’altra maniera rispetto alla prima take.
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“We Don’t Know” è stato autoprodotto con spirito punk e pochi mezzi a
disposizione, eppure avete fatto di necessità virtù e il risultato rispecchia bene il
vostro stile.
SA: Ci andava proprio di fare così e il risultato è più in linea con il nostro sound rispetto al
disco precedente.
MM: Abbiamo speso meno di mille euro per farlo, esclusi i costi di stampa. Abbiamo
contato sull’aiuto di tanti amici: c’è chi ci ha prestato gli strumenti e i cavi, Paolo Benvegnù
ci ha prestato i microfoni... L’abbiamo registrato in una stanza dove opera il collettivo
Trydog Lab, divenuta per l’occasione sala prove. Si tratta di un consorzio formato da artisti
della stessa zona: noi, Murièl, Dilatazione, Samuel Katarro... Quando c’è bisogno, ci diamo
una mano a vicenda. Diciamo che l’abbiamo sfangata così. Comunque, non so bene quale
sia il nostro stile.
Se paragonato a “Come!”, “We Don’t Know” è al tempo stesso più omogeneo e
ruvido.
SA: Le canzoni di “Come!” erano nate durante un lasso di tempo più lungo, mentre queste
sono state scritte al massimo in tre anni, dato che “Oh Marie” risale al 2007.
MM: Sì, si tratta senz’altro di un arco di tempo minore e adesso abbiamo una maggiore
esperienza, anche in fase di arrangiamento. Tutto è venuto fondamentalmente più coeso,
con una direzione più unitaria.
Stavolta le voci sono più sovrapposte e meno alternate.
SA: Sì, sono più all’unisono.
MM: Chissà perché, è difficile trovare le motivazioni di soluzioni spontanee.
Per il debutto Paolo Benvegnù vi aveva aiutato nei panni di produttore artistico,
mentre per il nuovo album avete collaborato con Alessio Pepi dei Dilatazione.
SA: Abbiamo avuto molta fortuna a incontrare Paolo, perché altrimenti non avremmo avuto
un determinato bagaglio. È logico che uno come lui lo metti meno in discussione, ti fidi e
basta. Alessio è sempre stato presente con le sue opinioni e ha saputo trainarci: è un
amante dei Sonic Youth e nel disco si sente il suo zampino. La coda della conclusiva “Porto
Palo”, per esempio, è una sua idea.
MM: Alessio, che è più matto di noi, era come se fosse un membro aggiunto dei Baby Blue:
era una specie di gara a chi proponeva le cose più strane. Quando hai a che fare con uno
come Paolo, prevale ovviamente più il buon senso ma va benissimo lo stesso, anche
perché ci ha insegnato tante cose.
Già, “Porto Palo”, con le voci mandate al contrario sul finale, è uno degli episodi più
suggestivi. Quali brani vi soddisfano di più?
MM: La stessa “Porto Palo”, ma anche “All Right”.
SA: “Hey Baby Hey”, ma, sì, anche “All Right”.
MM: Mi piacciono i brani che vanno in direzione diversa rispetto al nostro solito filone.
SA: Siamo un po’ lunatici.
MM: Soprattutto Serena.
Laddove “Come!” era giocoso, “We Don’t Know” è cupo ed enigmatico, sarà anche
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per via di testi che lasciano degli interrogativi in sospeso: penso a tracce come
“Don’t Ask Me Why” o “I Don’t Know”.
MM: Quando abbiamo lavorato a “Come!”, eravamo più piccoli.
SA: Più incoscienti.
MM: Ai tempi andavamo ancora all’università, per cui era tutto più o meno a posto. Adesso
ci siamo trovati a dover fronteggiare i problemi della vita: dove andare, il lavoro che non
c’è...
SA: Chi sei, che fai, a cosa servi...
MM: Ci siamo domandati se continuare con la musica in un momento in cui in realtà
dovresti scegliere cosa fare nella vita.
SA: Abbastanza angosciante.
MM: Il mood più malinconico deriva probabilmente da ciò.
Mentre continuiamo a parlare, gli altoparlanti della Fnac diffondono le note di “The Show
Must Go On” dei Queen: che sia di buon, ironico auspicio.
Avete fama di band che rende al cento per cento on stage: vi è per caso pesato
cercare di ricreare lo stesso effetto in studio?
MM: A un certo punto ho capito che riportare il live in studio è veramente impossibile. In un
contesto dal vivo tanti elementi non hanno la minima importanza, ma di contro, senza la
parte visiva e l’energia che scorre con il pubblico, devi portare le cose in un’altra direzione
per farle funzionare. È quello che abbiamo fatto, mettendoci in gioco e assumendoci dei
rischi.
In tema di concerti, come si evolverà il tour?
SA: Si va avanti, è un percorso naturale. Oltre a Graziano Ridolfo alla batteria, con noi c’è il
nuovo bassista, Lorenzo Maffucci alias Mangiacassette, che ha un’attitudine diversa, più
punk. Un’occasione per esplorare.
MM: Il live è l’attività più divertente.
È in programma persino una data a Cadiz, in Spagna.
SA: Almeno una volta nella vita vogliamo andare all’estero.
MM: Abbiamo già suonato a Bilbao, per cui è la seconda volta in Spagna. I riscontri sono
sempre stati positivi, ma non è facile organizzare. Oltreconfine c’è più attenzione, ma le
spese sono maggiori e devi fare scelte molto oculate per non rischiare di rovinarti.
L’inglese, valutato come uno svantaggio in certi ambiti, può essere una facilitazione
all’estero.
SA: Il nostro inglese è molto semplice e personale, al contrario di gruppi che scimmiottano
determinate scelte lessicali.
MM: Scrivere in inglese o in italiano è molto diverso a livello di metodo. In inglese hai la
possibilità di trovare il suono delle parole prima del significato, lavorandoci poi con una
grossa libertà. In italiano il testo va forse pensato prima e quindi gestire il suono è molto più
difficile, ripercuotendosi in cambiamenti musicali.
Sebbene il supporto degli altri musicisti sia importante, i Baby Blue vengono
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percepiti più come un duo che come un gruppo, forse perché la chitarra virtuosa di
Mirko e la bellissima voce di Serena sono delle armi vincenti.
MM: Ciò che determina il suono è l’incrocio fra chitarra, basso e batteria, che fa scaturire
anche l’alternanza fra “piano” e “forte”, considerata una nostra caratteristica fondamentale.
Questa percezione, in ogni caso, è ovvia perché io scrivo i pezzi e Serena canta più di me.
I brani sono più o meno già pronti, con un’idea massima di arrangiamento. Non sviluppiamo
le composizioni tutti assieme, magari partendo da un riff, perché non sappiamo come fare,
non funzionerebbe.
SA: Io e Mirko ci vediamo spesso ed è vero che le canzoni nascono tra me e lui: se è
percepibile, bene. Capisco che possa emergere la figura del duo, che ci si possa astrarre
dalla visione del quartetto.
Se in precedenza si parlava di blues o PJ Harvey, stavolta i termini di paragone più
gettonati corrispondono a White Stripes e Moldy Peaches, forse perché si tratta
proprio di duo.
MM: Nel periodo in cui ho preso la decisione di iniziare a scrivere, i White Stripes li ho
ascoltati sinceramente parecchio perché per loro le canzoni vengono prima di tutto il resto.
I vostri video, basati su idee semplici ma originali e d’impatto, sono girati dalla
sorella di Mirko, Pamela. So che al clip di “Earthquake” ne seguiranno altri...
MM: È una componente che ci piace, tanto che quello di “I Don’t Know” l’abbiamo
realizzato da soli. Li faremo uscire uno alla volta. Mia sorella aveva curato anche i clip di
“Come!”...
SA: ...Sì, come “Silently”, ambientato nel bosco. C’entra la cinefilia, non si può prescindere
dal gusto delle immagini.
Le copertine e i titoli dei due dischi, invece, esprimono bene i rispettivi contenuti
sonori: più fanciulleschi e ironici da una parte, più ombrosi e inquietanti dall’altra.
SA: Sì, anche secondo me. Non trovo, però, che “We Don’t Know” sia inquietante.
MM: In compenso, non riusciamo mai a sfuggire allo sfondo nero.
Oltre alla musica, comunque, si può dire che convergano altre influenze.
MM: Per certi versi non vedo i Baby Blue come un progetto di pura musica. Nella mia testa
è anche altro, nel modo in cui scrivo c’è l’intenzione di andare oltre.
Per fortuna siete slegati dai giri delle parrocchie indie.
MM: Non ci comportiamo così per andare contro, ma siamo molto contenti che il risultato
sia questo. Ci sono veramente poche cose che apprezziamo di certi giri. Potrei dire i
Mariposa o Alessandro Fiori, che non definirei nemmeno indie. C’è un tipo di prodotto che è
sempre uguale, persino nei vestiti.
SA: Perlomeno la moda dei pantaloni strizza-palle sta passando...
MM: La moda dei ciuffi, delle magliettine a righe, degli accordi “giusti”... Abbiamo sempre
combattuto tutto ciò. Tanto che le magliette a righe mi piacevano, ma non le metto più.
SA: Io sì.
MM: Ma tu sei una ragazza!
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A proposito dei Mariposa, com’è stato approdare alla loro Trovarobato?
SA: Un onore. Non avevamo alcuna speranza, avevamo messo in conto di non trovare
nessuna etichetta che ci producesse...
MM: Prima Trovarobato curava solo il nostro booking. Nessuno sapeva cosa sarebbe
venuto fuori dalle registrazioni perché non abbiamo fatto sentire niente a nessuno. Siamo
arrivati con il disco già concluso, senza avere la minima idea della possibile reazione.
SA: L’unica cosa che sapevamo è che a noi il disco piaceva tantissimo.
MM: Hanno ascoltato il master, gli è piaciuto e hanno deciso di farlo uscire per loro. Siamo
stati contentissimi.
SA: Trovarobato è un’etichetta eclettica, che passa da Musica Per Bambini agli Eterea Post
Bong Band.
MM: Tante delle proposte più interessanti in Italia arrivano da lì.
Serena, com’è andata la tua partecipazione in “Goodnight Good Lovers” dei Velvet
Score? Si può dire che si sta finalmente ricreando una scena fiorentina.
SA: Sono bravi ragazzi e bravi musicisti. Ci siamo trovati subito, è stata una situazione
spontanea, fraterna. È stata un’esperienza che mi ha stimolata parecchio perché è
interessante, curioso capire come gli altri lavorino con una cantante. Io interpreto, non sono
un’autrice. C’è sempre da imparare.
MM: Ultimamente le collaborazioni sono più frequenti. Entrambi siamo ospiti nel nuovo
disco dei Ka Mate Ka Ora, “Entertainment In Slow Motion”, in uscita a novembre. Prima
c’era stato “Cosa decide?” dei Murièl. La Toscana sta andando in una direzione diversa,
molto bella.
SA: Il Wrong Festival ne è stata una dimostrazione palese.
Obiettivi e speranze per il futuro?
MM: Suonare il più possibile, insieme alla volontà di scrivere brani nuovi visto che il
prossimo disco partirà da zero.
SA: Prima penserei ai concerti, ma in effetti non abbiamo più materiale nel cassetto. Meno
male che Mirko ha i periodi di fioritura.
MM: Sì, ci sono periodi in cui non scrivo niente e periodi in cui scrivo un sacco.
Contatti: www.myspace.com/babyblue2004
Elena Raugei
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JOBI 4
Dopo un primo EP uscito nel 2008, i JOBI 4 tornano con il disco sulla lunga distanza
omonimo (Novunque/Self). Dream pop unito all’elettro acustica minimale e ricca di
arrangiamenti di classica. Ma soprattutto ascoltare la voce di Federica Caiozzo, con le sue
sottigliezze che brulicano tra il jazz il soul interpretare questi dieci canzoni è un piacere
sconfinato. L’autore, il fondatore e il batterista del gruppo è Johannes Bickler: italo-tedesco
polistrumentista e compositore con il quale parliamo. Completano il quartetto Fabio Visocchi
al piano e Cesare Pizzetti al contrabbasso.
Come nasce la vostra idea di gruppo?
Il gruppo nasce circa due anni fa. Da quando avevo quindici anni scrivo musica e sin da
allora ho provato con delle formazioni, ma non mi soddisfacevano mai. Poi ho avuto delle
esperienze nell’ambito jazzistico e questo mi ha coinvolto molto a livello sonoro e così ho
deciso di andare in quella direzione. Avevo dei brani già composti da me in questi anni e
dovevo solo “ri-vestirli”. La prima cosa che cercavo comunque era sicuramente una voce
che mi piacesse. Un giorno su MySpace ho incontrato e di conseguenza ascoltato Federica
Caiozzo. Ho sentito la sua voce e ho capito che dovevamo collaborare, mentre gli altri due
Cesare e Fabio li conoscevo già prima poiché avevamo suonato un paio di volte assieme.
Erano entusiasti. Quindi abbiamo completato in questo modo il quartetto e sono nati i JOBI 4
con JO come Johannes e BI come Bickler.
Durante la vostra prima prova informale cosa vi siete detti per delineare il progetto?
Quale doveva essere la linea da seguire?
In qualche modo, già la formazione, imponeva dei limiti, nel senso buono del temine.
L’avere tre strumenti acustici come la batteria, il pianoforte e il contrabbasso già definisce in
qualche modo la sua priorità. In più naturalmente la voce che è un fattore importante. Più
che altro era l’idea di rendere al meglio i brani che avevo portato con questi strumenti e così
abbiamo fatto. Insomma abbiamo lavorato agli arrangiamenti, ma ha funzionato tutto in
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modo molto spontaneo, diretto e anche veloce. Di questo sono molto contento.
Ci sono degli artisti che amate tutti e quattro e che potrebbero essere l’ispirazione
comune del gruppo?
Ma di artisti che piacciono a tutti noi? Non te lo so dire di preciso. Per quanto mi riguarda
però ultimamente le cose che mi stimolano e mi interessano di più sono le musiche del nord
della Scandinavia e della Norvegia, come anche la parte sperimentale del pop anche nel
jazz, dove ci sono ambientazioni molto particolari con vedute molto larghe e di ampio respiro
e questo sicuramente ha influenzato innanzi tutto la scelta dei componenti, poi il tipo di
sonorità e comunque anche la scelta dei brani.
Ascoltando le vostre canzoni a volte viene in mente Jay-Jay Johanson. Come
mescolate le vostre caratteristiche? O non vi ponete il problema di assomigliare a
qualche altro gruppo?
Credo ci poniamo soprattutto il problema di non assomigliare a nessuno. Direi più il
contrario e credo che questo avvenga in modo molto naturale. Questa è forse la cosa che ci
unisce di più e proprio quello di non volerci appoggiare troppo ne di qui ne di là ma di
cercare il più possibile di avere una nostra identità. Abbiamo i colori a disposizione perché
non fare il nostro quadro?
Cosa raccontano i vostri testi? Come descrivereste la descrizione di un momento
poetico, una riflessione su sé stessi o un’incontro amoroso?
Riassumere è molto difficile. Sono tutti brani nati tanto tempo fa e rappresentano tutti dei
passaggi. Dei momenti fondamentali, però, non c’è in verità un filo logico se non quello che
escono dalla mia testa. Le canzoni comunque descrivono e direi che l’ho scoperto poi
anch’io riguardando dall’esterno che la cosa che mi interessa di più è la mente umana, la
psicologia, l’aspetto interiore e anche sociologico e così partendo da questo contesto
racconto anche delle storie.
Dove e come è stato registrato il disco?
Il disco è stato registrato nell’ottobre del 2009 in un giorno solo. I brani come base: batteria,
pianoforte e contrabbasso li abbiamo registrati allo Studio Barzan e all’Omnia-B, dopodiché,
tutto il resto, quindi sovraincisioni come la tromba, tutta quella parte di elettronica e le voci le
abbiamo fatte a casa mia, quindi è un lavoro casalingo. Il mixaggio poi l’ho fatto io e il
mastering l’ha fatto Paolo Iafelice sempre a Milano.
Il disco esce per la Novunque di Alessandro Cesqui. Cosa vi ha detto, rispetto alla
vostra musica? Com’è avvenuto l’incontro?
Alessandro lo conoscevo già prima, l’avevo incontrato qualche anno fa, quando ho suonato
con Pacifico a Roma, perché lui aveva organizzato la serata e lo conobbi lì appunto. Mi era
rimasto impresso lui come persona e quando poi ho dovuto pensare a chi rivolgermi, con i
primi brani registrati in mano, sono andato a trovarlo e abbiamo ascoltato insieme le canzoni
e a lui sono piaciute subito. C’è voluto poco per poi definire la nostra collaborazione.
Alessandro non sapeva cosa aspettarsi perché mi aveva conosciuto come batterista e
ricordo con piacere che poi è rimasto positivamente impressionato e sorpreso.
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Quale elemento è irrinunciabile per i JOBI 4?
Forse la spontaneità, perché siamo un gruppo che in realtà s’è composto un pezzo alla
volta, nel senso che non ci conosciamo da tanto. Ci siamo messi insieme per questo
progetto in particolare e quindi l’immediatezza è l’elemento più importante: quello che nasce
in fretta e nasce in modo molto spontaneo, naturale, sul momento anche se poi come ho
detto i pezzi sono definiti, però poi li metto in mano agli altri e insieme li rielaboriamo e quello
che succede in quel momento è sicuramente la chiave di questo gruppo.
Avete già preparato canzoni nuove?
Sì, canzoni nuove ce ne sono molte e adesso dobbiamo iniziare a provarle. Per ora stiamo
preparando il live per le date del tour ormai imminente.
Contatti: www.myspace.com/Jobi4
Francesca Ognibene
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Lele Battista
Lele Battista arriva a “Nuove esperienze sul vuoto” (Mescal/Universal) dopo quattro anni
dall'esordio “Le ombre”. Ne parliamo con il diretto interessato, in una chiacchierata che parte
dai cantautori e arriva a citare quegli anni Ottanta così controversi ma al tempo stesso così
cari all'artista milanese.
“Nuove esperienze sul vuoto” è il tuo secondo disco solista. Mi pare che nel nuovo
lavoro ci si allontani un po’ dalle inquietudini elettriche che si respiravano
nell’esordio, in favore di una canzone tutto sommato posata...
E’ un disco più minimale del precedente. Io e Giorgio Mastrocola, che ha realizzato il disco
assieme a me, ci siamo concentrati sul cercare di non “riempire” troppo i brani. Il suono della
voce e l’atmosfera in generale del disco sono avvolgenti. Abbiamo di conseguenza curato
molto questo aspetto cercando di rendere più semplice l’ascolto, nonostante la complessità
dei brani.
Esiste un trait d'union tra i brani del nuovo disco?
“Nuove esperienze sul vuoto” non è un vero e proprio concept come lo era “Le Ombre”. Il
filo conduttore è il vuoto, analizzato da diversi punti di vista. Mi sono accorto che “vuoto” era
la parola più ricorrente all’interno dei testi. In base a questa scoperta ho deciso il titolo (che
è in realtà il titolo di un libro di geometria del ‘600 scritto da Blaise Pascal, oggi praticamente
introvabile oltre che poco aggiornato rispetto alle nuove geometrie). Questo gioco a incastro
mi ha aiutato a fare una selezione dei brani che sarebbero entrati a fare parte del disco.
In alcuni frangenti, sotto la consueta ricchezza strumentale che fa da collante
all’opera, si colgono – voluti o meno - riferimenti importanti. Penso al Giancarlo
Onorato de “Il Nido”, al Gaber che si respira nel testo – ma non nelle musiche - di
“Nutrire la mente” o al Battiato nume tutelare di certe atmosfere raffinate ed eteree.
Tre artisti dall’approccio diversissimo ma la cui “presenza virtuale” dà forse il metro
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di uno stile – il tuo – aperto e contaminato...
Conosco poco il lavoro di Gaber e Onorato ma Battiato è uno degli artisti che stimo di più.
Sa unire leggerezza e profondità in un modo unico e mi piacciono molto i suoi ultimi lavori.
Sono un grande fan del cantautorato: mi piacciono in particolare Fossati, De Gregori e il
Battisti dell’ultimo periodo, quello con i testi di Panella (che è un genio). Sono moltissime,
comunque, le mie influenze musicali. Alcune sono abbastanza nascoste nei miei dischi ma
rintracciabili nelle produzioni che ho fatto per altri artisti. Ad esempio nei dischi di Yuri
Beretta e Controluce ci sono molti riferimenti al folk e all’elettronica.
Tu come anche gli Amor Fou o i Baustelle proponete un modo di fare canzone
d’autore che mantiene forti legami con un pop stratificato, senza rinunciare alla
profondità dei significati. Una scelta obbligata aggiornata all’attualità musicale - come
lo era quella di artisti come Tenco, Paoli, De Andrè in passato - o soltanto una
questione di convergenze stilistiche e gusti personali?
Questo accade probabilmente perché non ci riconosciamo in nessun genere musicale.
Personalmente non sopporto il pop vuoto degli ultimi anni. Ma nemmeno il cliché dell’indie
rocker snob. Credo che esista una terza via. Nei tanto vituperati anni Ottanta, definiti come
un decennio vuoto, c’era moltissima musica pop ricercata. Chi li denigra, o non li conosce
bene o lo fa in malafede. Il pop degli anni Ottanta non ha rivali se lo accostiamo a nomi
come The Smiths, The Cure, New Order, David Bowie, Echo & The Bunnymen, Roxy Music,
Depeche Mode, Ultravox, U2, Simple Minds, Talk Talk, e molti altri. Tutta gente che almeno
una volta ha realizzato una canzone pop, ovvero popolare, capace di farsi canticchiare da un
intera generazione senza che questo intaccasse la credibilità dell’interprete o della band.
Nessuno difende, parlando di quel periodo, le produzioni indifendibili, ma generalizzare è
quantomeno superficiale. La “fuffa” degli anni Ottanta rapportata alla “fuffa” contemporanea
è comunque musica di “alto profilo”. Va detto infine, che definizioni come pop e rock sono
termini troppo generici per contenere i vari approcci musicali.
Anche in questo disco, come nel precedente, condividi la scrittura della musica con
Giorgio Mastrocola (anche lui, ex La Sintesi). Come definite i ruoli di ognuno nel
momento in cui dovete affrontare il processo creativo?
Con Giorgio ho iniziato a suonare che eravamo poco più che bambini. Assieme abbiamo
fondato i La Sintesi e condiviso importanti esperienze . Da grande chitarrista quale è, ha
lavorato con Battiato e fatto esperienze come turnista anche fuori dall’Italia. Ha una
formazione molto esterofila e cerca di contaminare la mia attitudine cantautorale con un
modo di arrangiare più ampio, “da gruppo”. Nella scrittura siamo complementari. Scriviamo
entrambi e di solito ci aiutiamo a completare l’uno i brani dell’altro. Giorgio si concentra di più
sulle musiche ma ultimamente ha anche scritto testi interessanti.
In “Attento” canta anche Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. Che influenza ha
avuto – se l’ha avuta - il gruppo milanese sulla formazione artistica di Lele Battista?
All’epoca dell’uscita del loro primo album ero un fan dei La Crus. Andavo spessissimo a
vederli in concerto ed ero affascinato dal loro modo di unire la canzone d’autore e
l’elettronica. Mi affascinava il loro modo di usare il campionatore per riprodurre dei loop di
batteria acustica. Li trovavo dark e mi piaceva moltissimo il vocione di Mauro.
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Ai tempi de “Le ombre” mi dicevi che la tua paura più grande nel momento in cui
proponi qualcosa di nuovo al pubblico è quella di non superarti rispetto a quello che il
pubblico già conosce di te. In questo senso, “Nuove esperienze sul vuoto” ti
soddisfa?
È il lavoro che mi rappresenta di più tra quelli che ho fatto: è molto curato e libero allo
stesso tempo. In questi anni ho imparato a non pubblicare cose di cui non sono pienamente
convinto, ma di contro ho acquisito uno spirito più “punk” che mi aiuta a vincere la mia
timidezza cronica.
Contatti: www.lelebattista.it
Fabrizio Zampighi
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Luca Faggella
È un Luca Faggella entusiasta quello che risponde alle nostre domande all’indomani
dell’uscita di “Ghisola”, suo quarto album (o quinto, o sesto, o perfino settimo, a considerare
in modo attento tutti i lavori realizzati dal vulcanico musicista livornese). “Ghisola” è stato
pensato e messo in opera da Faggella insieme a Giorgio Baldi, storico animatore del
“Locale” di via del Fico e collaboratore di Max Gazzè. La carne al fuoco è tanta. Pronti, via.
Sono passati ben cinque anni da “Fetish”. Oltre al live e ai primi passi di Elia, cosa ci
racconti di questo lustro?
L’avventura da genitore è sicuramente la cosa più importante e impegnativa... e la più bella!
Musicalmente ho fatto molte cose: due esibizioni al Regio di Parma con l’orchestra del Regio
per le serate su Ciampi e Tenco condivise con altri musicisti e cantanti che sono anche
amici: Massimo Ranieri, Cristicchi, Giovanardi e tanti altri. Poi c’è stata la collaborazione con
Luis Bacalov per “La canzone dei ministri” sulla compilation per Bardotti, quella con
Hollowblue per “Letter To Hermione” sull'album tributo a Bowie della etichetta Midfinger... la
colonna sonora dello spettacolo di Maria Teresa Pintus “Poesia ‘70”, la collaborazione con
gli Assalti Frontali per la ripresa live di “Tredici canti”... tanti e tanti concerti, le due Targhe
Ferré, l’anno scorso e quest'anno. E il lavoro di preproduzione di “Ghisola” che è durato
molto, quattro anni appunto.
Musicalmente “Ghisola” mi sembra un ulteriore passo della tua carriera, che procede
per gradini alti, per gradoni. Qual è la culla di “Ghisola”? Che tipo di suono volevi
creare? Che precedenti avevi in mente?
Io e Giorgio (Baldi, Ndr) dopo aver ascoltato i provini ci siam detti: facciamo il suono che ci
piace, basiamoci sui nostri preferiti e vediamo di emularne il suono e il carattere: Johnny
Cash, Joy Division, Gainsbourg del periodo ‘67-‘72, Eno, The Sound...
Molto stretto, infatti, il connubio con il nuovo produttore Giorgio Baldi. L’album è
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molto “suonato”, molto arrangiato. Come si è svolto il lavoro?
In modo artigianale e certosino. Come puoi sentire i brani sono semplici con poche note e
melodie strette, quasi antiche, gregoriane. Quindi essendoci poco, l’essenziale, abbiam
cercato di essere il più precisi e puliti possibile. E di dare molto risalto a voce e parole. È
stata la cura e l'impegno maggiore di Giorgio. Alcuni dei brani vengono dritti dai provini: “La
differenza” e “Baghdad”, registrate in studio con tutta la band. Infatti sono più “live” e meno
precise. Per le altre siamo ripartiti da zero andando a togliere più che aggiungere. Ero
convinto che con Giorgio sarebbe venuto un buon lavoro, ho aspettato fosse disponibile e
avesse tempo e voglia di farlo. Abbiamo in comune la stessa musica. Appena ha sentito il
provino di “Come” ha detto bello, Joy Division! Ed è cominciata così.
Naturalmente devo chiederti cosa rappresenta per te, poeticamente, Ghisola, la
protagonista femminile di “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi. Forse
l’impossibilità di sottrarsi al disastro?
Sì, anche e anche l’inettitudine, come diceva Tozzi, l’inadeguatezza e il non riuscire a
vedere, comprendere la realtà che mi pare una caratteristica di questi tempi.
Continuiamo con le influenze – almeno quelle dichiarate. “St. Elmo’s Fire” è la
rilettura di un brano di Brian Eno d’annata, da “Another Green World”. Perché questa
scelta?
Perché è una canzone che adoro, come tutto quell’album che per me è una pietra miliare e
amo molto quegli anni musicali, di dischi come “Rock Bottom” di Wyatt, dei dischi migliori di
Eno, dell'inizio del punk-wave e di un certo folk tipo John Martyn e Nick Drake. È stato il
momento più bello per la musica “extra-colta”, come la chiamano.
Un’altra inevitabile citazione è Emily Dickinson, da una poesia della quale hai tratto
“Drowing”, altra traccia del brano (in inglese).
Sì. Ho sempre sentito la sua poesia come molto musicale, un canto, e lei stessa la
descriveva come un canto. Poi è scura, vera, non nasconde niente dietro le parole.
Prima citavi i Joy Division. In “Come” si sente un odore forte di anni Ottanta, assai
dark nell’intreccio tra chitarre e basso. È una citazione anche questa, o solo
un’influenza?
No no, è proprio un’influenza e una scelta stilistica precisa che ho iniziato come ricerca in
“Fetish” e che ora è una scelta di genere che penso continuerò a percorrere, mi ci sento “a
casa”.
In un lavoro prevalentemente letterario, spicca “Baghdad”, un ritorno politico (ma
anche poetico) su luoghi che ti hanno visto impegnato in passato. Una ferita che non
si rimargina?
Eh no... soprattutto per i cittadini iracheni. Ho avuto modo di vedere la città prima
dell’invasione barbarica e di condividere con molti suoi abitanti musica, cibo, convivialità,
tempo. Mi dispiace sia andata così ma questi sono tempi scuri. Si sventolano i diritti umani
calpestandoli. La distanza fra governi e umanità aumenta.
Esiste una scena toscana? Se sì, Faggella ne fa parte?
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Sì, credo di sì. Ma non mi sento parte di nulla, forse di quel che è uscito da “Il locale” di
vicolo del Fico a Roma: Gazzè, Carmen, Giorgio Baldi eccetera. Più che altro perché c’ero
anch’io e con alcuni come Giorgio appunto o Max ci rivediamo, suoniamo a volte (di Max
quest’estate ho fatto le aperture dei concerti, voce e chitarra e mi ha ospitato a volte nei bis).
Ma una scena toscana esiste, è vitale e molto creativa: Virginiana Miller, Bobo Rondelli, Bad
Love Experience, tanti e tanti musicisti bravi e preparati, come gli Hollowblue, sono tanti per
citarli tutti. E poi c'è Nada che è forse quella a cui artisticamente mi sento più vicino, insieme
agli Hollowblue.
Sicuramente sarai allergico alle definizioni, ma vista la tua versatilità ti chiedo uno
sforzo per chiederti: ti senti più rocker, cantautore, folksinger, musicista o che altro?
No, no, non sono allergico: da bibliotecario e documetalista le amo anzi, ma precise! Mah...
sono musicista, sì, perché compongo, arrangio, scrivo parti per archi, ottoni. In modo
primitivo e cose molto semplici, da musicista del 1300! Non credo un cantautore, anche se
mi definiscono così: i cantautori sono una cosa precisa, e anche di valore come Guccini,
Conte, De Gregori... Sono un musicista, folksinger darkettone!
Hai un futuro immediato ricco di programmi, ce li preannunci?
Uscirà nel 2011 un libro per Zona Editrice, un racconto lungo, “Maremma sangue”, legato al
brano che ha lo stesso titolo, con poesie, legate sempre all’album e allegato il DVD della
versione cameristica integrale di “Ghisola” al “Cambini Camera Festival” con inserti di artisti
e non solo che mi conoscono e parlano brevemente del mio lavoro: Cristicchi, Gazzè,
Gianluca Maria Sorace, Giorgio Baldi tra gli altri. Ci saranno anche tre tracce nuove, in
audio.
E oltre al libro?
Ci sono i video: il primo “La prova” di Giacomo Favilla, uscito a fine settembre. Poi faremo
quello di “Ghisola” a fine ottobre e “Maremma sangue” diretto da Alessandra Arcieri in
dicembre.
A fine ottobre tour di dieci giorni in duo acustico con Giorgio Baldi e tour invernale in trio a
portare in giro “Ghisola” e altre tracce dal passato, sia da “Fetish” che “Tredici Canti”. Poi...
vediamo di uscire dai confini italiani nel 2012 e ci stiamo lavorando, farò quest'anno qualche
passaggio in Francia, Londra, Belgio per cominciare anche collaborando con la mia
ex-etichetta “Storie di note”, spero. Insomma i progetti son tanti. Ho anche iniziato a
collaborare con il Premio Ciampi, organizzando alcuni eventi paralleli gestiti insieme alla
direzione artistica del Premio. Speriamo di avere intelligenza e capacità per fare tutte queste
cose, compreso il nuovo album per cui c'è già molto materiale.
Contatti: www.lucafaggella.com
Gianluca Veltri
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Music For Eleven Instruments
Da Gela (CL), Music For Eleven Instruments, ovvero Salvatore Sultano, già nei Flugge e
H.C-B, che si ripresenta con questo progetto solista. Un disco, “Business Ia A Sentiment”
(Red Birds/Audioglobe), molto ricco di melodia e di arrangiamenti scarni e leggeri che fanno
librare. Un confronto del cantante e polistrumentista con sé stesso che si lascia andare
libero di suonare ciò che desidera e si ritrova dove non si sarebbe mai aspettato, come ci
racconta.
Tu hai collaborato con gli H.C-B e prima ancora eri membro dei Flugge, oggi ti
presenti con il tuo progetto solista per il quale ti fai chiamare Music For Eleven
Instruments. Hai scelto questo nome per sottolineare la ricchezza dei suoni?
Sì, anche perché devo ammettere che è stato un caso, visto che prima ero abituato a
comporre con i Flugge con un approccio elettronico, e avevamo anche acquistato parecchi
strumenti perché volevamo provare direzioni diverse; poi la band s’è sciolta e questi
strumenti sono rimasti a casa. Sentivo di avere delle buone idee, ma non pensavo di riuscire
a comporre un intero disco. Anche perché all’inizio ero più che altro propenso a realizzare
degli spettacoli teatrali per le scuole medie, invece sono usciti molti più brani di quanto
immaginassi.
Vuoi raccontare dove e come hai composto l’album?
Il disco è stato composto nella mia città natale, Gela, a casa mia nello scantinato, in modo
da non dare fastidio a nessuno e non avere limiti. Ho passato qualche mese a registrare i
vari mandolini, chitarre, percussioni e melodie. Ero predisposto per qualcosa di ironico e
divertente anche se mi è venuto difficile, perché vivendo in un contesto ristretto, era quasi
normale per me trattare certe tematiche.
Come hai iniziato con la musica? Qual è stato il tuo primo approccio?
Penso siano state le sigle dei cartoni animati, o cose del genere. Non ho mai avuto la
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possibilità di suonare fino ad un certo punto della mia vita, poi tra amici sono riuscito a
ritrovarmi in mano qualche chitarra ed è iniziata anche così, ma il mio primo approccio vero
con la musica lo ebbi con le sigle per cartoni come “Jeeg robot d’acciaio” con quei disegni e
quei colori: ero molto preso da queste cose.
L’urgenza di avere un progetto solista come nasce?
Con i Flugge avevo composto molti brani, ma non siamo riusciti a continuare, perché gli altri
membri della band avevano scelto di abbandonare la musica, perché sai, “Business Is A
Sentiment”. Quindi io sono stato quasi costretto a rimettermi in gioco pur di continuare con le
mie canzoni. Devo ammettere che è noioso, da un certo punto di vista, stare lì ad arrangiare
e registrare da soli. Non sai mai effettivamente se quello che stai realizzando,va per il verso
giusto. Devi trovare da solo la direzione che possa andare bene a te e agli altri.
Da quale canzone è iniziata la composizione di questo disco?
“Fables About Her” che ha un’aria sognante ed è stata la prima canzone che ho scritto per
una ragazza, per questioni di cuore e infatti cercavo un approccio intimista e romantico.
Comunque è stata fondamentale perché mi ha dato la spinta a provare ad intraprendere una
strada del genere per poter creare delle melodie spensierate e malinconiche.
Ogni tanto mi ricordi gli ...A Toys Orchestra o i Pecksniff; comunque tu quali
riferimenti musicali porti nel cuore e nell’approccio?
Se ti ricordo gli ...A Toys Orchestra ti ringrazio, perché sono un gruppo che stimo. Non ho
avuto riferimenti che si possano accostare a questo sound, perché lavorando con i Flugge in
un contesto elettronico, dance e rock, ero lontano da queste ultime sonorità. Poi ascolto
Beirut, mi sento ispirato da Elliott Smith e sono venuto a conoscenza dopo l’uscita del disco
di altri gruppi che adesso stimo tantissimo come i Black Heart Procession e CocoRosie; che
magari saranno ispirazione per un eventuale disco futuro.
C’è una canzone che è stata particolarmente difficile da portare a termine?
Devo ammettere che non ho avuto molte difficoltà, anche se suona male dirlo, comunque è
così e anzi ho costretto la mia creatività a limitarsi, perché avrei potuto fare i brani di cinque
minuti, anche perché ero abituato con l’altro progetto a realizzare pezzi più lunghi e laboriosi,
con più fraseggi e arrangiamenti più allargati e cose varie; invece molte cose le ho tagliate in
alcune pezzi, ho voluto avere e creare una base molto cantautorale, a tratti molto grezza e
ho sperimentato su queste cose cercando di essere più diretto che altro.
Com’è avvenuta la registrazione del disco?
Il disco è stato fatto a casa e l’ho registrato lì da solo. Spesso io preferisco non campionare
le cose e non trovandomi a casa violoncelli e violini, per i brani che secondo me
richiedevano supporti del genere, ho deciso di volta in volta di invitare musicisti che
potessero essere utili per queste sonorità. Così c’è Tommaso Vassallo che ha suonato il
basso in due brani (con cui abbiamo collaborato con i Flugge), Andrea Fiorito che ha
registrato gli archi, il violoncello e il violino e poi altri due amici di Gela, compositori molto
bravi.
Come vivi la tua musica a Gela?
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Innanzi tutto mi sono trasferito a Catania perché non si può vivere la musica a Gela.
Comunque vivere la musica in un contesto del genere è difficile, perché la vivi male è
difficilmente vai avanti a lungo. Il mio obiettivo dopo aver realizzato questo disco è quello di
spostarmi ancora, come ho fatto ultimamente andando a Catania, dove ho messo su un
gruppo con quasi tutti gli H.C-B: tre su cinque. Andiamo in giro da maggio a fare i live con
Salvo Fichera al basso, Federico Laudani alla chitarra e Riccardo Napoli alla batteria.
Mentre componevo di giorno suonavo e di notte disegnavo quasi parallelamente alle parole
del disco. Nella copertina si vede la raffineria di una città che è esattamente la pianta del mio
paese e mongolfiere con sopra la gente sorridente che guarda da lontano la raffineria
mentre va via. È emblematico su come si vive a Gela la musica.
Contatti: www.myspace.com/musicforeleveninstrument
Francesca Ognibene
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Nevica su Quattropuntozero
Gianluca Lo Presti ha alle spalle una lunga e atipica carriera cantautorale, e finora si era
messo in gioco con nome e cognome, da solo o in compagnia (nel caso del disco con Blaine
L. Reininger del 1998, ad esempio). Il suo nuovo progetto, Nevica su Quattropuntozero,
indica la volontà di percorrere una nuova strada, nello specifico una forma di canzone
elettronica immediata e distorta, allo stesso tempo ricca di storie da raccontare. Ecco che
cosa ci ha raccontato a proposito di questa sua nuova identità artistica.
Sei attivo da molti anni nella scena italiana e finora avevi utilizzato i tuoi dati
anagrafici, come mai hai scelto di fare ricorso ad uno pseudonimo per quella che è, a
conti fatti, una one man band (con alcuni contributi qua e là)? So che lo pseudonimo
scelto ha un forte valore simbolico (il riferimento a tua figlia, e l'arrivo dei
quarant'anni): c'era magari bisogno di dire delle cose da una prospettiva lievemente
“a lato”?
Dopo molti anni in “prima linea” ho sentito il bisogno di rinnovarmi e di nascondermi un po',
di restare in secondo piano utilizzando un nome collettivo. Penso che sia una cosa
abbastanza attuale, vedi anche “Le luci della centrale elettrica”. Mi piace molto questa cosa.
Non usare più il mio nome e cognome, oltre a ridarmi psicologicamente una “verginità”
artistica, mi ha aiutato anche ad eliminare parte di quell’egocentrismo tipico di noi musicisti.
Ritengo che chiamare Nevica su Quattropuntozero il proseguimento del mio percorso
musicale renda il tutto un po’ più “morbido” e anche più misterioso, almeno ai miei occhi. Sì,
lo pseudonimo ha un forte valore simbolico, non volevo comunque che fosse una cosa a
caso, solo per fare effetto. In realtà “nevica” deriva da Nevi, che è il diminutivo di mia figlia
Ginevra, mentre “quattropuntozero” rappresenta il giro di boa ai quarant’anni,
simbolicamente rappresentato come se fosse l’aggiornamento di un
software.


Nei pezzi di questo disco c'è una dimensione “incompiuta” che lo rende
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particolarmente immediato e godibile. E per incompiuto non intendo “carente” o non
del tutto sviluppato, intendo soprattutto dire che emerge la volontà di privilegiare
l'immediatezza, la freschezza, la dimensione più “di getto" della musica, una volontà
che mi pare evidente nell'approccio sonoro ancor prima che in tutto il resto, sei
d'accordo?
Ti ringrazio per questa domanda perché non sempre è stata colta questa cosa. In effetti hai
già dato tu la risposta, io posso aggiungere che i motivi di questa scelta, che privilegia
l’immediatezza, sono da ricercare nel fatto che ritengo una canzone come una fotografia
istantanea di un certo momento della nostra vita. Il momento successivo è già altro, per cui
stare troppo su un pezzo, come mi è accaduto in dischi precedenti, significava, in un certo
senso, ucciderlo. Nel contesto compositivo di quest’album doveva essere così, e non
altrimenti, soprattutto perché il disco è stato scritto in un momento molto difficile della mia
vita privata, in cui una precisa inquietudine interiore trasudava e toglieva spazio alla serenità
e rilassatezza che avevo prima nell’affrontare gli altri album. Anzi, realizzare questi pezzi era
anche un modo per mettersi di fronte al problema, analizzarlo avendolo di fronte, una
scrittura di getto come forma di psicoterapia personale. Pensa che l'ottanta per cento del
suono di questo disco proviene dai provini. Provando in un secondo tempo a perfezionare le
tracce mi accorgevo che stavo rovinando qualcosa. Ma, ripeto, questo è l’approccio che ho
ritenuto adatto per scrivere questi pezzi, non dico che sia sempre giusto fare così, io stesso
ho usato altri metodi in altri album.”Lineare”, però, aveva senso soltanto così.
Da dove saltano fuori Mario, Gianmaria, Lola? Il gran numero di personaggi evidenzia
la necessità di raccontare “piccole” storie, alcune miserabili, altre meno, tutte in ogni
caso molto umane. Da cosa deriva questo bisogno di raccontare le persone, le loro
storie, che in questo caso mi pare preponderante, ancor di più di una dimensione
intima e personale che comunque emerge?
In realtà in molte di queste storie, anche se parlano di personaggi inventati,c'è molta
autobiografia. Mi interessava il fatto di poter raccontare qualcosa di forte, che potesse
risultare verosimile. Non è importante che queste storie siano vere o no, ma che possano
sembrarlo. Se prendiamo “Rapporti Umani Interrotti”, non c'è nessun riferimento a fatti o
cose accaduti, ma è l’idea di storia tesa, dolorosa in sé, che cattura l’emotività
dell’ascoltatore, che magari ti scuote dentro e risveglia la tua sensibilità facendoti pensare a
certe cose. Si, sono storie miserabili di eroi perdenti, ai margini della nostra società e della
loro vita stessa, ma io mi sono sentito molto dentro a questo mondo e ho cercato di
raccontarlo con i miei occhi, dando al tutto un risvolto personale senza fare della semplice
cronaca. In effetti tutti questi personaggi sono legati da un cordone ombelicale, e io con loro,
sono risvolti di una stessa vita, sono tutte figure che cercano qualcosa, un riscatto
personale, il risollevarsi da un amore finito, una strada smarrita, la possibilità di essere sé
stessi dentro a questa società complessa con tutti gli inconvenienti che ciò comporta. Alla
fine credo che, nella loro miserabile condizione, esprimano anche qualcosa di positivo, la
volontà di risollevarsi e immaginare un futuro, non si sa quale né come ma è comunque un
guardare avanti, sempre, comunque.


Uno dei momenti più curiosi è rappresentato dal duetto con Tying Tiffany, la quale
canta in italiano in un contesto che apparentemente non sembrerebbe il suo, e invece
funziona molto bene. Come nasce questa collaborazione?
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Si tratta sicuramente di una collaborazione piuttosto insolita e originale. E’ nato tutto per
caso, senza premeditazione, lei stava registrando il suo nuovo album nel mio studio di
registrazione, il Lotostudio, ha ascoltato il provino del pezzo,a cui mancava metà del testo, e
ne è rimasta piacevolmente colpita, al punto da offrirmi questo preziosissimo “featuring”
completando lei stessa le parole e cimentandosi in modo veramente efficace col cantato in
italiano, cosa che fa raramente. Mi fa un certo effetto sentire la sua voce in quel pezzo,
questo accostamento tra un cantautore ed una regina dell’elettro-punk che spero possa
portare fortuna ad entrambe.

Immagino che il disco stia avendo o voglia avere una sua visibilità anche
nella dimensione live... hai qualcuno che ti accompagna sul palco? Che genere di
trattamento subiscono le canzoni?
Sul palco, oltre a me, che canterò e suonerò il basso (distorto), ci saranno due
talentuosissimi musicisti bolognesi che lavorano anch'essi con Disco Dada, la mia etichetta,
Lollo Soldano alla chitarra noise e synth e Andrea Raffaele alla chitarra e al piano elettrico.
Con loro ho trovato una intesa che da molti anni faticavo a trovare sul palco, ma, come tutte
le cose che funzionano, la nostra collaborazione si basa su un solido rapporto umano, il
quale resta la cosa più importante. Il live cerca di rispettare il più possibile il sound del disco,
si sono addirittura fatti costruire dei pedali appositi in America. È possibile che nel live ci sia
un maggiore impatto rispetto al disco, dovuto ad una nostra forte attitudine “punk”, in senso
lato.
Contatti: www.myspace.com/glucalopresti
Alessandro Besselva Averame
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Nobraino
Una tra le band indipendenti più interessanti che cercano di farsi spazio in Italia è
sicuramente i Nobraino. Nati a Riccione negli anni 90 la band si caratterizza subito per
uscire fuori dai cliché dei loro colleghi. Controcorrente da sempre, in un luogo dove regna lo
stereotipo assoluto del vacanziero kitsch per eccellenza, i Nobraino hanno sempre avuto
uno stile indefinibile, sospeso fra rock cantautoriale e un gusto molto vicino a Kurt Weill o al
Tom Waits più sghembo. Poco metodici o programmatici, pieni di sorprese nello stile, nei
costumi e nelle trovate bizzarre del loro leader Lorenzo Kruger, sorta di Piero Pelù, meno
auto celebrativo e il Modugno di “Vecchio frack”. Non esiste una loro biografia ufficiale, i
Nobraino si divertono a truccare le carte, a confondere, a deludere le aspettative di chi li
vuole impegnati o leggeri. Fanno il loro esordio discografico nel 2006 con “The Best Of”,
sorta di raccolta di brani che la band portava in giro da anni e “Live al Vidia Club”
(2007).Dopo anni spesi di gavetta spesi fra i locali della riviera, città come Roma e Bari
cominciavano ad accoglierli benevolmente fino alla grande serata di Repubblica Roma Rock
all'Auditorium Parco della Musica di Roma e premi e riconoscimenti importanti come
“DemoRai” e “Sele d'oro”. Poi c’è stata la partecipazione, quest’anno, al dopofestival di
Youdem TV a Sanremo e al programma televisivo “Parla con me” in onda su Rai Tre. Da lì i
Nobraino hanno intrapreso un tour estivo che ha toccato praticamente tutta Italia. Ora, non
contenti, Lorenzo Kruger, Nestor Fabbri, il Vix, Bartòk, e il nuovo trombettista David Jr.
Barbatosta si spingono oltre; il 18 settembre saranno ospiti della prestigiosa fiera spagnola
Mercat de Musica Viva de Vic. Dalla fiera partirà un minitour che toccherà nuovamente
Barcellona presso La Cova de Les Cultures il 19 settembre e Madrid presso la Sala Juglar il
20 settembre. Li rincontriamo nella loro Riccione per una pausa di qualche giorno.
Eravamo rimasti al vostro progetto “No Uk No Usa” contro il dominio della lingua
anglosassone in Europa. Questo si è concretizzato in un disco uscito lo scorso
maggio (“No Usa! No Uk!”) edito da Martelabel con la supervisione artistica di Giorgio
Canali. A che punto siete con questa “battaglia”?
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Nestor: Sul nostro furgone la scritta “No Usa No Uk” è riportata con orgoglio. Come vedi ci
spingiamo anche oltre l’Italia perché pensiamo che la salvaguardia della propria identità
culturale e delle tradizioni è un discorso che riguarda tutta l’Europa.
Siete una macchina inarrestabile: 120 date dal 1 gennaio, non vi fermate mai?
N: Dopo questo tour spagnolo stacchiamo per tre mesi per lavorare in studio. Durante
l’estate abbiamo suonato quasi tutti i giorni e questo ha rafforzato il suono della band. Ogni
sera ci prendevamo i nostri spazi per improvvisare e sperimentare nuovi suoni e soluzioni
diverse.
La partecipazione alla trasmissione “Parla con me” vi è stata di aiuto? Cosa vi manca
per fare il grande salto?
Lorenzo: Ammettiamo che la visibilità del mezzo televisivo è un rinforzino che ti semplifica
la vita. Il giorno dopo la trasmissione, quando passeggiavamo per le strade di Roma,
eravamo fermati dalla gente come delle star. In realtà molti non sanno che portiamo avanti
un lavoro iniziato dieci anni fa. Ora in molte regioni siamo conosciuti e apprezzati dal
pubblico ma dietro ci sono stati tanti anni di sbattimenti. Solo dopo molti anni abbiamo avuto
un etichetta, un management e una ragazza che fa da tour manager, il grosso del lavoro ce
lo siamo conquistati anno per anno sporcandoci le mani, credendo nel nostro progetto,
mettendo radici un po’ per volta. Non abbiamo ancora canali che ci permettono di far uscire
un singolo in heavy rotation sui principali network radiofonici. Quest’estate abbiamo
condiviso palchi prestigiosi con Il Teatro degli Orrori o i Nouvelle Vague e suonato nei posti
più disparati fino a toccare la Sicilia. Nel Lazio, Campania e Puglia abbiamo un buon seguito
di pubblico ma la Toscana e Piemonte sono ancora posti da esplorare e conquistare. Non
avendo un ufficio stampa in quei posti bisogna andarci di persona, farti ascoltare con
sincerità e onestà. Anche l’avventura in Spagna è una sorta di autopromozione per cercare
qualcuno che punti su di noi e si appassioni alla nostra musica. Il furgone è sempre pronto a
partire.
Siete imprevedibili sul palco con trovate definite folli. Non pensate di diventare così
una sorta di fenomeno da baraccone?
L.: Ammetto che mi piace sparare a salve durante i concerti o usare gli idranti. Purtroppo
però abbiamo a che fare con persone di scarsa fantasia che hanno atteggiamenti offensivi e
si aspettano sempre le stesse trovate. Il nostro show non è solo questo, dipende dalle
location, non ci piace che diventi una prassi.
Girando il lungo e in largo l’Italia qual è secondo voi la situazione dei live a livello di
location?
N: C’è un certo risveglio dei locali a differenza dei palchi e delle piazze che cominciano a
subire le restrizioni delle amministrazioni locali. Ci piace ricordare a questo proposito un
posto davvero notevole come i Magazzini generali a Catania.
Avete un aneddoto che ricordate con più piacere delle vostre esibizioni?
N: Certo, quest’estate suonavamo in Sicilia in una villa e davanti a noi c’era una piscina. La
voglia di buttarsi considerata la giornata calda era notevole. Kruger si è tuffato durante un
pezzo e gli spettatori facevano a gara per allungargli l’asta e farlo continuare a cantare
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mentre lui galleggiava e aveva il fiatone.
Contatti: www.myspace.com/nobrainomusic
Beppe Ardito
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OJM
Da oltre dieci anni i veneti OJM sono un’assoluta garanzia nel panorama (hard/stoner) rock
europeo. Un suono caldo a base di riff selvaggi e sfuriate psichedeliche, alimentato da
un’attitudine rara a trovarsi. Oggi con il quarto album di studio “Volcano” (Go
Down/Audioglobe), il rinnovato quartetto, cerca nuove soluzioni, setacciando il garage anni
Sessanta e certo southern metal fangoso e cattivo. L’operazione riesce in pieno e, come loro
stessi ci raccontano, non si tratta solo buona volontà e passione, ma di una scintilla che si
accende e bisogna saper cogliere e mantenere viva. David Martin (voce), Max Ear (batteria),
Andrew Pozzy (chitarra) e Stephen Pasky (basso e organo), ci spiegano tutto.
A quattro anni da “Under The Thunder”, tornate con un nuovo lavoro di studio. È una
sorta di nuova rinascita o il discorso è stato ripreso lì dove era stato interrotto? E in
studio come avete lavorato, con qualche novità o seguendo una vostra procedura
nota? E il missaggio americano di Dave Catching e Edmund Monsef, quanto ha
realmente valorizzato le canzoni? Insomma si sente davvero la differenza o si tratta
solo di mettere due nomi importanti nella biografia?
Penso che con “Volcano” e il precedente cambio di line up, si sia attuata e concretizzata
una sorta di “rinascita” o meglio “cambiamento” stilistico e creativo all’interno della band e
della nostra musica. Abbiamo mantenuto di sfondo la matrice OJM che ci caratterizza da
anni ma sicuramente virato artisticamente verso nuovi orizzonti compositivi ed esecutivi,
trovando un sound più eclettico e ben amalgamato, forse più completo e personale, non
limitandoci a fare dell’ hard rock spinto e fisico come per “Under The Thunder” ma partendo
a comporre su una visione più ampia e libera. In studio abbiamo cercato di concretizzare
tutto ciò in forma totalmente nuova e rinnovata. L’innesto dell’organo e piano bass si è
rivelato azzeccato, dando quel sapore vintage e rendendo il sud più amalgamato, pur
mantenendo una base “pesante” di chitarre e sessione ritmica che fa del disco un buon
compromesso tra hard rock, psichedelica dai sapori vintage, toccando liberamente
sfumature punk e pop. Abbiamo reso il disco più eclettico possibile diversificando anche i
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Numero Ottobre '10
pezzi tra loro. Il missaggio di Dave ed Edmund, ha reso il disco in bobina che suonava molto
Seventies, un disco d’avanguardia, grazie all’utilizzo di compressioni, di un missaggio più
simile a lavori di Queens Of The Stone Age, all’uso di tastiere e synth, usati per la prima
volta in un nostro disco, suonati dalla stesso Dave che oltre a mixare e rendere i pezzi più
adatti ad un disco in studio e meno “live”, ha partecipato attivamente anche in veste di
musicista intervenendo nei pezzi come un quinto membro della band. Penso che Dave non
si sia limitato a mixare e confezionare questo disco ma abbia praticamente fatto gran parte
del lavoro sotto molti aspetti, sia a livello di suono che di arrangiamento.
Pensate che ci siano ancora margini per ampliare i confini del rock ed avete ascoltato
qualcosa di realmente stimolante in prospettiva futura o la cosa non vi riguarda e
preferite restare ancorati al concetto di classicità del rock?
Sicuramente manteniamo l’interesse per il rock classico e passato, ma cerchiamo sempre di
sperimentare ed ampliare i nostri ascolti a cose più moderne o nuove, senza cadere troppo
però nel banale o estremo. La novità comunque può essere intesa come rivisitazione del
passato, dipende come questa rivisitazione viene interpretata. Un gruppo che crea in
maniera attiva amplia sempre i propri orizzonti mantenendo la curiosità e l’apertura mentale
di ascoltare sempre cose nuove senza mai limitarsi ad un solo genere. Vogliamo vivere il
nostro tempo, essere personali e non riproporre assolutamente un genere limitato del
passato così com’era identico in era moderna. Casomai prendiamo un po’ da tutto filtrandolo
attraverso noi stessi e rendendo un risultato finale originale. Ogni componente della band poi
ascolta cose diverse, questo a fatto sì che ognuno mettesse il suo, rendendo i pezzi non
“inscritti” in un genere particolare.
Essendo prevalentemente una band da palco, quanto è importante secondo voi una
buona amplificazione e un fonico esperto? Secondo voi, in percentuale quanto
incidono su un’esibizione? E che tipo di strumentazione usate?
Sicuramente amplificazioni e suoni, nonché fonico esperto sono per noi fondamentali,
abbiamo sempre curato negli anni tale aspetto. Dal punto di vista live il “muro di suono” è
praticamente indispensabile ed incide a pieno nella buona riuscita dell’esibizione. Ma il
suono è anche dato dall’utilizzo di amplificazione vintage e da un’adeguata strumentazione.
Oltre all’organo con Leslie e il piano bass Fender in stile “doorsiano”, amplificato con un
Hiwatt anni 70, usiamo amplificatori vintage come diavoli ma soprattutto amplificatori
Marshall e chitarre Gibson. Questo fa si che ci sia un buon sound vintage ma anche una
buona aggressività nel suono. Grazie all’uso poi di effetti a pedale possiamo enfatizzare
molte parti psichedeliche e sperimentali, mantenendo la giusta potenza nei riff e base
ritmica.
Siete tra i pochi gruppi italiani, rappresentanti di un certo modo di concepire il rock,
che ancora resistono a vanno avanti. Cosa serve per non arrendersi davanti alle
molteplici difficoltà: cambi di formazione, possibilità di suonare dal vivo quasi nulle,
interesse del pubblico appiattito...
Serve la volontà, l’impegno, il sacrificio, ma anche la passione, i sogni e le aspettative che
comunque ci hanno regalato in questi anni di attività parecchie soddisfazioni. Poi di certo per
un gruppo che non scende a compromessi diventa sempre più difficile su ogni fronte portare
avanti la propria musica soprattutto in Italia. Non tanto per cambi di formazione che vedo
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come fattore positivo che induce al cambiamento e novità, o problemi interni alla band, ma
per l’impossibilità di concretizzare molte cose al di fuori di quello che resta un mondo
underground, dove molte realtà trovano asilo ma restano limitate in un certo cerchio di
interesse.
Oggi stiamo assistendo ad una vera e propria invasione di nuovi gruppi rock che
guardano agli anni 70, migliaia (milioni?) di ventenni che indossano magliette di
AC/DC, Black Sabbath e Led Zeppelin. Un’invasione che però serve solo a dare voce
ai soliti nomi, relegando ancora di più, rispetto al recente passato, i gruppi, pur validi,
di seconda e terza fascia. L’impressione è che ci sarà sempre meno spazio per chi
cerca di non suonare i soliti riff noti a tutti.
Si ho notato un ritorno del classic rock, grazie anche a molte reunion di vecchi pionieri dei
70 e 80 che non si sa se per soldi o cosa ricominciano a suonare nei maggiori palchi.
Questo è sempre meglio di niente, ma ovviamente restano indifferenti alle masse molte
realtà buone o innovative, ascoltate solo da una fetta parziale degli appassionati. Questo
penso avvenga per una sorta di ignoranza generale o per svogliatezza di molta gente che
non ricerca più, non si interessa più, non cerca gruppi o non cerca di ascoltare cose più
personali, ma si limita ad ascoltare ciò che sente o ciò che i media propongono. Si preferisce
andare a comprare un cd degli AC/DC che fermarsi a ricercare un vinile di un gruppo
sconosciuto dei 70, o si ascoltano i Queens Of The Stone Age senza sapere chi sono i
Kyuss.
E restando in tema, cosa ne pensate delle tribute band? È una moda passeggera o
sarà il futuro e spegnerà ogni velleità creativa? D’altronde perché impegnarsi con
qualcosa di proprio, se è sufficiente suonare una quindici di classici e si porta
l’ingaggio o casa?
Di tribute band, soprattutto in Italia (che è fatta da tribute band) ce ne sono molte, e
prendono più soldi di una band che come noi propone musica propria. Per chi fa musica
propria in Italia c’è da sgobbare il triplo, ed è una paradosso, che tu prenda più soldi ed
abbia più possibilità di suonare facendo cover di altri gruppi famosi che canzoni tue.
Probabilmente molti musicisti non sentono l’esigenza di esprimersi di comporre o di dire
qualcosa di personale, cosa indispensabile per noi, ma si accontentano di suonare cose
scritte da altri, il che può essere divertente ok, ma sarà sempre un “teatro” privo di arte. Tra
l’altro di cover band brave, che è piacevole ascoltare, c’e ne sono davvero poche, su dieci
cover band solo tre meritano le altre veramente meglio che stiano a casa! Perché fare
qualcosa di proprio rinunciando a facilitazioni di ogni genere? Perché non c’è soddisfazione
più grande di produrre un disco con i propri pezzi, di fare un live in cui le tue canzoni
prendono forma e le senti fin dentro la pelle, perché abbiamo un bisogno indispensabile di
scrivere, di esprimere, di materializzare in musica emozioni, situazioni e attuare la nostra
forma artistica personale. Perché a cosa serve altrimenti la musica? Se non ad esprimersi, a
creare a portare avanti la propria dimensione artistica? Questo dovrebbe essere il compito
della musica , le cover servono per imparare a suonare, per prendere degli spunti o per
divertirsi ma non certo per essere un musicista o un artista vero! Bisognerebbe creare la
storia non riproporla.
Contatti: www.myspace.com/ojmsuperock
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Gianni Della Cioppa
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Agosta
Virus
Halidon
Secondo album per Paolo Agosta, che dopo il debutto come solista con “Nuove strade”
decide di dare visibilità agli altri quattro componenti della sua backing band creando un vero
e proprio gruppo, chiamato col proprio cognome. Sua è la voce, il pianoforte, qualche
chitarra, come sue sono le canzoni contenute in “Virus”, disco che raccoglie le idee degli
ultimi cinque anni e le trasforma in undici brani indie rock di matrice spiccatamente
anglosassone, a metà strada tra la concisione dei Baby Chaos e lo sdilinquimento dei
Coldplay, senza dimenticare la lezione impartita allo stivale da parte degli Scisma di cui si
prende in prestito qualche trucco e melodia. Il tutto è ottimamente filtrato da idee personali,
un’energia ben indirizzata e testi che ruotano attorno ad un unico tema: l’allontanarsi
volontariamente dagli affetti e ricercare così una serenità interiore. Quello di Agosta
vorrebbe essere il disco più freddo dell’anno, almeno concettualmente, ma l’amore da cui si
tenta la fuga diventa ossessione a cui è impossibile sottrarsi. In tal senso – e solo in quello –
Agosta (lui medesimo, non la band) si porta a casa un insuccesso, ma confidiamo che possa
consolarsi con la certezza di possedere buone doti di scrittura. La maggiore enfasi che
evidenziamo nei brani più aggressivi, da “Virus” a “Mantide”, andrebbe maggiormente
sviluppata nei brani mid-tempo e nelle ballad. Vuoi per il tema trattato, questi momenti
eccedono in numero ma non in foggia (si raggiunge il picco emotivo con “Fuori piove”)
rendendo la scaletta omogenea ma a scapito di qualche sorpresa in più. Poco male. Se con
“Virus” ci si lecca le ferite, col prossimo album confidiamo che Agosta (lui e la band)
comincino ad assestare qualche pugno nello stomaco.
Contatti: www.myspace.com/agostaband
Giovanni Linke
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Numero Ottobre '10
Bimbo
Bugie per asini
Theatralia/Audioglobe
Il curatissimo packaging di questo CD con il suo corposo booklet pieno di foto a corredare le
liriche delle dieci tracce contenute potrebbe quasi trarre in inganno. Un dolce, nostalgico
inganno. Infatti, guardando quella testa equina indossata a mo' di maschera in ogni
immagine contenuta si ha come l'impressione che Mark Linkous sia tornato in sella al suo
scintillante cavallo. Fin quando non ci si rende conto che non si tratta di un puledro o un
purosangue bensì di un somaro: da qui il titolo dell'album “Bugie per asini”. E soprattutto
l'idea degli Sparklehorse svanisce non appena schiacciamo il tasto play. Il trentaquattrenne
livornese Simone Soldani, colui che si cela dietro la sigla sociale Bimbo – già attivo nei
Novanta con la band punk-hardcore Negative Pole -, attinge direttamente alla canzone
d'autore italiana, quella più classica, impreziosendola con una personale nervosa vena pop e
da testi ricercati e per niente scontati. Ecco così che i brani più riusciti, evocando tanto
Battisti quanto De Gregori, risultano intrisi di un'urgenza comunicativa che riporta il tutto ai
giorni nostri, all'ipocrisia e alla precarietà totale che incombono, tramite una tensione sonora
mai invadente ma funzionale. Questo però non succede in ogni traccia. Alcuni episodi –
pochi per fortuna – non graffiano e le melodie sembrano uscite da un Alex Britti qualunque,
nonostante le liriche ironiche e disilluse non subiscano cali di tensione. Molto meglio allora
quando l'atmosfera si dilata facendosi introspettiva. È il caso delle struggenti “Mi spavento” e
“Mio eroe” nelle quali quell'idea di “opacopop”, come Bimbo ha definito la sua musica, è
davvero facile da scorgere in quei crescendo vocali disperati e incisivi. Se Simone Soldani
proseguirà su questa strada, asciugando qua e là e definendo ancora di più la sua ricerca
cantautorale, queste bugie per asini potranno diventare belle verità della musica italiana.
Contatti: www.myspace.com/bimboboop
Andrea Provinciali
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Numero Ottobre '10
Blastema
BLASTEMA
Pensieri illuminati
autoprodotto/Halidon
Di solito uno è portato a diffidare dai comunicati stampa, specie da quelli che recitano frasi
del tipo “un riuscitissimo incastro di melodie che fanno pensare a una delle voci più creative
degli ultimi anni (Jeff Buckley), repentini cambi di atmosfere musicali che ci traghettano
verso una nuova forma di prog-rock, eccetera”. E invece, questa volta, tocca ricredersi,
perché i Blastema tengono fede a quanto detto dagli addetti alla promozione e lo riempiono
di rock, con una voce davvero dotata di tecnica, melodia e forza necessarie a tener testa ai
mille riff incrociati, ai cambi di tempo, alla batteria esperta, al piano che fa capolino in
qualche pezzo. L'impianto finale è una sorta di rock italico anni 90 variegato alt-pop con un
occhio di riguardo verso gli intrecci sonori e la potenza del muro chitarristico. Peccato, forse,
per un timbro un poco renghiano e per dei testi in italiano decisamente trascurabili, perché
tutto il resto è di livello ottimo. E quando ottimi musicisti e cantanti suonano come si deve, e
suonano potente e con precisione, la delusione per le parole dette diventa quasi intollerabile.
Ma “Pensieri illuminati” è un disco d'esordio, una prima sfornata d'istinto di una band che ha
voglia di suonare tanto e bene, e i cinque Blastema hanno spiccato in mille occasioni “che
contano” sui palchi di Italia Wave, Heineken Jammin' Festival, SummerEnd Rock Festival,
MEI e altro facendosi apprezzare non poco, quindi c'è tutto il tempo per farsi le ossa e
allenare la penna.
Contatti: www.myspace.com/blastemalive
Marco Manicardi
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Numero Ottobre '10
Brainkiller
The Infiltration
RareNoiseRecords/Cargo
Il buon vecchio jazz-rock: i Brainkiller ne danno una lettura al passo coi tempi, verniciata di
fresco, eppure con i piedi ben piantati in un passato glorioso, con un suono dominato dai
contrappunti caldi e vischiosi del piano elettrico, dal trombone e da una batteria mobilissima,
senza mai adagiarsi sugli stilemi eleganza formale che sia associa al genere. I nomi che
vengono in mente sono quelli che potete immaginare, Weather Report in primis ma anche
quel giardino fiorito dedicato al genere (o meglio, all’ipotesi di genere) e venuto alla luce in
Inghilterra negli anni Settanta, diciamo quel continuum che va dalle propaggini più tecniche
di Canterbury ai Nucleus. E c’è anche qualche coloritura elettronica che suggerisce legami
con certo jazz elettronico tedesco anni Novanta/Duemila, ad esempio i Tied And Tickled
Trio. Aggiungono molto, i Brainkiller, a quanto scovato da questi pionieri nei loro viaggi?
Saremmo tentati di rispondere negativamente, specificando tuttavia che questo disco
contiene delle composizioni stimolanti, orchestrate con un gusto eccellente, solo a tratti un
po’ dispersive, e che la freschezza dell’insieme non viene mai a mancare. Saranno pure
derivativi, ma si lasciano ascoltare con piacere.
Contatti: www.myspace.com/brainkillermusic
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '10
Control V
Soltanto luci
RaiTrade/Self
Non è mai stato infrequente, che un’uscita discografica sia accompagnata e aiutata da
sinergie televisive: di certo agevolerà il trio romano dei Control V che per la quarta serie de “I
Cesaroni” la produzione abbia scelto alcuni brani del loro debutto “Soltanto luci” (peraltro il
brano che vede la partecipazione di Matteo Branciamore, “Come ridevi”, è uno più frizzantini
e riusciti). E che il singolo “Tre motivi” sia la colonna sonora dello spot su anoressia e
bulimia promosso da DonnaDonna Onlus. Sarà fortuna, sarà bravura. O forse soltanto
risultare adatti, e cogliere gli appuntamenti giusti. I Control V, già Slim e oggi in formazione
rinnovata, con l’anima della band Alberto Bassani (voce e chitarra) affiancato da Carlo
Marcolin (basso) e Mauro Gregori (batteria), sfornano oggi un indie-dance energetico e
adolescenziale, che è esattamente quello che appare, senza sottofondi né strati nascosti.
Senza allusività, tranne che in qualche passaggio (in “Se io fossi te”, per esempio), e
semmai con qualche ammiccamento giovanilistico che potrà piacere ad alcuni e meno ad
altri. Pop-rock con chitarre in evidenza, debitore a Franz Ferdinand assai, a Subsonica
abbastanza, a Killers un po’. È già tutto evidente nel brano d’avvio “Riflesso”, ritmo in levare
e, in aggiunta, qualche reminiscenza dei primi Denovo. Il riff è come un cappio in “Il colore
viola” e in “Banale” (che sfodera un ritornello in 7/4), ma “Le cose che non vuoi” è prevedibile
come una telefonata di routine e in generale la lampadina si accende a intermittenza. Quello
dei Control V è una rispettabile proposta giovanilistica, ricca di verve elettrica e ritmica, ma
non di autentico brio creativo.
Contatti: www.controlv.it
Gianluca Veltri
Pagina 35
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Numero Ottobre '10
Daniele Maggioli
Karaoke Blues
Interno 4/NdA
Viene definito poeta bucolico e poeta antropologico Daniele Maggioli. Il primo disco “Pro
Loco” era una descrizione disincantata di Rimini fuori dai luoghi comuni, un lavoro
coraggioso e non esente da piccole ingenuità di forma. Ora Maggioli torna con questo
“Karaoke Blues” uscito ancora per la Nda Press- Interno 4 Records, lavoro che si presenta
subito essenziale nelle sue trame musicali e molto personale. C’è una ricerca di fondo della
parola in musica centellinata e sezionata che produce risultati alterni. Ora esilaranti come in
“Giorgio Borges” ora un po’ fine a sé stessi come “Gita fuori porta in astronave”, struggenti in
“Roma K69996” .Un lavoro che si può definire più maturo, risultato di numerosi concerti e
collaborazioni che ne definiscono una identità acquisita “tra il privato e il karaoke col vizio del
vuoto circostante”. Così qui e là si ritrovano riferimenti letterari che spaziano da Borges,
Simone de Beauvoir e Pasolini. Dylan e De Gregori prendono il posto del jazzato alla Conte
di “Pro Loco”, come un vestito più adatto per le proprie incursioni visionarie e intime.
Fondamentale in questo il lavoro dei musicisti che vi hanno preso parte, da Marco Mantovani
alle tastiere, Massimo Marches alle chitarre, Daniele Marzi alla batteria e Greta Mussoni al
violoncello( determinate nella splendida “Roma K69996”). Un lavoro che vuole anche essere
un modo per rivalutare una scena artistica riminese spesso relegata nell’immagine
stereotipata e selvaggia delle discoteche.
Contatti: www.danielemaggioli.com
Beppe Ardito
Pagina 36
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Numero Ottobre '10
Deluded By Lesbians
The Revolution Of Species
New Model Label/Audioglobe
Che c'è di più onesto di una autodefinizione come “An Incredibly And Absolutely Ignorant
Rock'n'Roll Band”? “The Revolution Of Species”, l'album che i Deluded By Lesbians
descrivono (definizione anch'essa presente, come la precedente, in copertina) come “A
Complete And Fully Illustrated Essay On Human Behaviour”, il loro primo sulla lunga
distanza dopo un paio di EP e che vede alla produzione Luca dei Serpenti, è a tutti gli effetti
un disco onestissimo, perché il gruppo è “ignorante” nel senso più positivo del termine, e
gioca con questo suo conclamato primitivismo senza troppo farsi prendere dall'ironia e dal
giochetto intellettuale. Semplicemente, macina metri su metri di riff e voci sguaiate, puro
rock'n’roll senza additivi e con la giusta dose di istrionico cazzeggio. Non fanno altro che
portare avanti l'immaginario di una tradizione (incrociando per strada gente come i Queens
Of The Stone Age o i Foo Fighters) ma lo fanno piuttosto bene, potendo contare anche su
una discreta capacità di tirar fuori inni efficaci (“Pompei”, con quel ritornello appiccicoso, per
dirne una, ma anche “Crystal Balls”). Insomma, non si prendono troppo sul serio, non ci
prendono troppo sul serio (quanto basta, insomma, giocando a fare i primitivi ma senza
ostentarlo troppo), e allestiscono uno spettacolo molto divertente.
Contatti: www.myspace.com/deludedbylesbians
Alessandro Besselva Averame
Pagina 37
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Numero Ottobre '10
Dilatazione
The Importance Of Maracas In The Modern Age
Acid Cobra/Audioglobe
Esordienti tre anni fa con il decisamente buono, sebbene ancora un po' derivativo, “Too
Emotional For Maths”, i toscani Dilatazione hanno compiuto quel salto che ci auguravamo
potessero effettuare visti i presupposti che stavano alla base del loro approccio, in gran
parte affidato ad una interpretazione strumentale del rock che faceva delle costruzioni
ritmiche mai scontate il possibile trampolino verso nuove esplorazioni. L'ampliamento di quei
suggerimenti è la base su cui hanno eretto l'imponente “The Importance Of Maracas In The
Modern Age”, un disco, prodotto con l'aiuto di Paolo Benvegnù, debordante e affilato, che
se da un lato strizza l'occhio ai Battles (l'intreccio inestricabile di scansioni ritmiche e chitarre
ha molti punti di contatto con l'ensemble newyorchese, o per meglio dire con la sua
impostazione) dall'altra sfugge in mille direzioni senza perdere la strada maestra,
inventandosi una credibile ma personalissima Africa funk squarciata da aperture melodiche
e coloriture strumentali insolite (“Don't Make That Joint”, impressionante), inserendo la voce
qua e là, con vocoder non invadenti e ospiti come Samuel Katarro (in “Dividing Goblins”),
giocando con una credibile ipotesi di dub digitale (“Motorino”), lanciando il guanto ai Mouse
On Mars (“Pucino”) e misurandosi con una splendida rilettura di stilemi morriconiani (“Exit
Music For A Western”, naturalmente) che cita cori e spazi ampi da score cinematografico
vintage sporcandoli però di attualissima elettronica e bilanciando così al meglio i due mondi.
Una gran bella prova di maturità, di livello davvero eccellente, che ci auguriamo raggiunga
quel genere di pubblico che – giustamente – segue con attenzione tutto ciò che succede
nella scena di Brooklyn, senza magari accorgersi delle eccellenze in casa propria.
Contatti: www.myspace.com/dilatazione
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Ottobre '10
Emmablu
Eden
Slang Music
Nel nord-est italico, ultimamente, vanno gli anni 70. Non è la prima volta, quest'anno, che mi
capita tra le mani un disco di un gruppo della zona che ricalca quel periodo nella sua parte
più hard e prog. Così è anche per gli Emmablu, di Varese, che fanno dei Led Zeppelin più
puliti e inquadrati il loro nume tutelare. Nel secondo album, “Eden” – il primo era stato
registrato negli studi di Mauro Pagani – i quattro varesotti, in nove tracce per poco più di
mezz'ora, mettono chitarre intrecciate e potenziate da tutta una serie di effetti vintage, un
organo, un sax ogni tanto e una voce squillante che sale e scende e segue i continui moti
sinusoidali della musica. I testi sono in italiano e se la cavano egregiamente, cosa non così
ovvia nei tempi che corrono. L'iconografia non lascia dubbi in merito al periodo storico di
riferimento e spunta anche un flauto dolce, qua e là. C'è qualche riferimento alle colonne
sonore dei poliziotteschi di serie B, ogni tanto, ma la cornice, come già detto, è abbastanza
chiara e dichiarata: gli Emmablu vogliono riscoprire e ripensare la golden age del classic
rock, di quello duro, pieno di arzigogoli negli arrangiamenti, wah-wah, organi, slide e
percussioni. Sarà il clima opprimente di una classe politica malandata, saranno il clima
opprimente, l'industrializzazione o semplicemente l'influenza degli ascolti delle generazioni
dei padri che si riversano nelle ossa dei figli, ma dal nord-est italico, oggi, esce un suono che
sembra catapultato direttamente dagli anni 70 e rielaborato con le tecnologie del nuovo
millennio. Gli Emmablu seguono l'onda, la cavalcano e, chissà, potrebbero spiccare.
Contatti: www.myspace.com/emmablusuperrock
Marco Manicardi
Pagina 39
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Numero Ottobre '10
Farabrutto
Estremoriente mediocre Occidente
Freecom/Doc Servizi
Il San Michele che trafigge il diavolo in copertina, stilizzato e un poco naïf, rende
perfettamente l'idea della fusione di tradizione e sperimentazione messa in atto dai
Farabrutto. “Estremoriente mediocre Occidente”, secondo album dei veronesi che con il
primo disco si erano guadagnati stima e favori negli ambienti del settore, è un tripudio di
suoni cervellotici e logorrea visionaria, undici tracce e quarantacinque minuti abbondanti di
frastuono acustico. Una chitarra classica strimpellata con maestria (da un impeccabile Luca
Zevio) segue percussioni in tempi dispari, batterie vere ed elettroniche (Sbibu suona seduto
a terra, le chiamano “ground drums”) e un mandolino elettrico (pizzicato da Niccolò Sorgato),
e insieme creano un suono capace di smuovere le membra, ma tenendo l'orecchio sempre
attento alle singole note, che s'accavallano e si scavalcano continuamente, ma sono sempre
molto pulite. Intere parti improvvisate in studio incollano tra loro le sessioni finemente
elaborate delle canzoni, e a elevare il tutto ci sono i testi di Luca Zevio, piccole opere di
scrittura e cesellatura, come frasi scritte, riscritte e messe in fila alla rinfusa da un Prévert
moderno. A tratti i Farabrutto ricordano dei Marta sui Tubi senza ricerca vocale eccessiva,
ma spesso e volentieri l'originalità la fa da padrona. E come il San Michele in copertina,
armato di lancia ad ammazzare il drago, con i colori sbavati, fuori dai bordi stilizzati,
“Estremoriente mediocre Occidente” è una specie d'inizio per una nuova scuola del folk-rock
italiano, un folk-naïf, potremmo chiamarlo.
Contatti: www.myspace.com/farabrutto
Marco Manicardi
Pagina 40
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Filippo Andreani
La storia sbagliata
autoprodotto/Venus
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di
monti, tutto a seni e a golfi, ha creato un cantautore. Filippo Andreani sembra uscire dal
nulla, ma esordisce con un concept al quale ogni aggettivo sta stretto. Un disco bellissimo,
un libro, una storia, anzi “la” storia di Luigi Canali, il Capitano Neri della cinquantaduesima
brigata Garibaldi, la sua Resistenza sui monti lariani, le staffette, la dittatura, l'occupazione,
l'amore per Giuseppina Tuissi detta Gianna; è lui il partigiano che tiene in custodia Mussolini
e, così raccontano, si oppone all'omicidio del duce. Un libro di tredici capitoli, tredici tracce,
cinquanta minuti di violini e chitarre acustiche ed elettriche, ritmi cadenzati o melodie
pianistiche, alternativamente. Si respira De André in ogni dove, nel timbro della voce, nelle
liriche rimate con una cura e una finezza da artista navigato. Filippo Andreani suona e canta
come un autore esperto, arrangia egregiamente, tiene l'orecchio che ascolta attaccato alla
storia, mentre la testa si muove e gli occhi si chiudono sulle note della parabola del Capitano
Neri. Sì, c'è De André, tanto De André, forse troppo De André in tutto il disco, dentro e fuori,
ma non importa. In altri casi avremmo gridato al plagio e forse deprecato una certa
pedissequa attitudine a fare le cose come le faceva il cantautore genovese. Ma ora no, non
possiamo, perché Filippo Andreani scrive e suona in maniera superba, e “La storia
sbagliata” è un disco bellissimo, non possiamo definirlo altrimenti.
Contatti: www.myspace.com/filippoandreani
Marco Manicardi
Pagina 41
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Numero Ottobre '10
Fixforb
Fixforb
Videoradio
Si fa presto a dire “basso-chitarra-batteria”. Ma poi, non di rado, la sacra triade del rock ti
sfugge di mano, deraglia dai binari dell’essenzialità e dell’asservimento alla matrice
rock’n’roll, verso orizzonti ampi ed imprevedibili. Il caso dei Fixforb, trio per l’appunto, è di
quelli emblematici. “3”, brano d’apertura e numero evidentemente non casuale, snocciola un
aggressivo riff hard-boogie ma verso il minuto tre vira bruscamente in ossessioni
electro-funk sino ad adagiarsi rarefatto e contemplativo, prima di riprendere il riff iniziale.
Solo un assaggio prima degli otto minuti di “Clavius” addensati in un’atmosfera tesa e
crescente, accentrata nei deliri chitarristici di Diego Arrigoni, con rimandi decelerati
sabbathiani in salsa fusion. Una sensazione niente male, supportata dall’ineccepibile, duttile
lavoro ritmico di Stefani Forcella (basso) e Milly Fanzaga (batteria). Forse ai tre giovanotti
del Bergamasco non dispiace il riferimento ai Rush più arditi, dove il rock si dipana in trame
dinamiche e variegate, con la voglia di scorrere libero e pulsante, senza i paletti del cantato,
tra vibranti amori progressive tuttavia mai ristagnanti in cliché passatisti e celebrativi.
Giacché sono materia molto viva ed avvincente anche i quasi nove minuti di “Fake Six Funk”
(già, ancora del funk dietro l’angolo), i sette di “Anxiety Disorder” (dove il rock si fa più
“classico”), i nove di “Echelon”, divisa in due parti, e soprattutto i quasi tredici della
conclusiva “Frame Six”, composta da cinque parti. Nessuna rivoluzione, né innovazione, in
fondo la sacra triade del rock non è stata impunemente tradita, ma solo presa per mano con
amore e talento dai Fixforb, verso altri lidi rock, aperti, liberatori, ancora sanguigni, senza
retorica alcuna.
Contatti: www.myspace.com/Fixforb
Loris Furlan
Pagina 42
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Numero Ottobre '10
Francesco D’Acri
Che cosa sei
autoprodotto/Wondermark
L’Italia del rock ha visto gli anni 90 particolarmente prolifici. La nascita dell’astro Ligabue, la
conferma del rock robusto del Vasco nazionale e, qua e là, le luci e le ombre dei vari
Timoria, Negrita, il rock barricadero e pirata dei Litfiba. Attualmente questa scena mostra un
po’ la corda, mancano idee nuove e linfa vitale, gli interpreti rimasti sono vittime di un
mainstream neanche troppo ostentato. “Che cosa sei” primo lavoro di Francesco
D’Acri,malgrado una sua onestà di fondo, nasce così quando i giochi sono già fatti. Un
background che vede la sana matrice rock-soul americana sposarsi con soluzioni già
adottate da Graziano Romani o Massimo Priviero ma che confermano un tratto ancora
acerbo e immaturo. E se le collaborazioni (Mark Harris, Dino D’Autorio, Luca Zamponi ed
Angy Brown) garantiscono una tessitura musicale robusta e efficace, la materia scritta si
dimostra ancora debole con una retorica di fondo che ne svuota il pacchetto. Rimandiamo
ad altra sede le discussioni sulla necessità di scrivere testi inglesi o italiani nel nostro paese,
la breve e felice parentesi che univa Bubola e De André rimane tuttora una delle poche
eccezioni.
Contatti: www.myspace.com/frankdacri
Beppe Ardito
Pagina 43
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Numero Ottobre '10
Happy Skeleton
Coffee & Cigarette Club
Red Birds/Audioglobe
Happy Skeleton è lo pseudonimo utilizzato dal cantante e chitarrista Davide Delmonte,
anche se il suono prodotto da “Coffee & Cigarette Club” sembra in più di un’occasione quello
di una band: alle registrazioni del disco hanno preso infatti parte molti musicisti di diversa
estrazione e provenienza, non ultimo, con qualche tocco di chitarra e di synth, nonché
impegnato nel ruolo di produttore, Paolo Messere. Manca tuttavia qualcosa a queste
canzoni, e non è la compattezza: il lavoro sui suoni è eccellente, ricco di soluzioni e
sfumature, tutte quelle che vi possono venire in mente, dai ritmi digitali che si uniscono a
quelli ripresi in presa diretta ai muri di chitarre più aggressivi, dai momenti riflessivi a quelli
più fragorosi, e il tutto è orchestrato con cura. Ci sembra tuttavia che al titolare del progetto
manchi ancora un po’ di personalità. Non ci sono brani che emergono nettamente, le linee
melodiche mancano di un po’ di vivacità, anche se il Nostro sa sicuramente muoversi bene
tra noise, post-rock e scenari emotivi valorizzati dall’espressività di un suono chitarristico di
sicuro impatto. In breve, stiamo parlando di un disco suonato e registrato al meglio delle
possibilità, ma non (ancora) particolarmente incisivo a livello di scrittura. I margini di
miglioramento, va però detto, ci sono tutti.
Contatti: www.myspace.com/thehappyskeleton
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Ottobre '10
JOBI 4
JOBI 4
Novunque/Self
Questo è un disco nato dopo una serena ricerca dei componenti, e ascoltando il suo respiro
si impara che spesso è un bene aspettare anche a lungo il momento perfetto, insormontabile
ed emozionale. Al timone di questa ricerca c’è Johannes Bickler, italo-tedesco, compositore,
produttore e batterista che conosceva il pianista Fabio Visocchi e il contrabbassista Cesare
Pizzetti, ma cercava da qualche anno la voce giusta per dare significato, espressione e
calore alle sue canzoni, che sono state composte nel corso di dieci anni. Federica Caiozzo
era la voce giusta: giovane cantante siciliana che da qualche anno ha intrapreso la sua
carriera solista sotto lo pseudonimo di Thony e che ha risposto alla “chiamata”; e così nel
2008 sono nati i JOBI 4. Non si può che essere in preda ad un incantesimo ascoltando
questa voce e queste melodie: sfumature soffici che provengono da territori evanescenti, e
magnifiche sono le sue pause, le sue inclinazioni tristi e sommesse che commuovono
alquanto come in “Nothing To Do”, ma non è questo il solo umore del disco. Per trovare
l’esatto opposto c’è “Sunflower”: allegra e avvolgente come una bella giornata d’estate
ricolma di profumi esotici. “All Has Been Said” invece ha diversi temperamenti più irascibili e
dolorosi. “Sing Me Your Song” intitolava il primo EP del gruppo uscito nel 2009 per
Novunque e contenente quattro canzoni tutte presenti in questo esordio. Fascinosi e
iridescenti intenditori del bello, si può liberamente appurare che la ricerca di Johannes è
andata a buon fine.
Contatti: www.myspace.com/jobi4
Francesca Ognibene
Pagina 45
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Numero Ottobre '10
Liir Bu Fer
3Juno
Zeit Interference/Lizard
Come definire la musica di questo trio? Improvvisazione? Elettronica? Musica concreta?
Difficile dirlo, visto l'approccio come dire “liquido”, immerso in un continuum, che ne anima le
composizioni, tutte quante situate, più o meno, in quello scivolosissimo lembo di terra che
separa canzoni, forme e strutture compiute dalla libera associazione di spunti e di rimandi,
suoni trovati, escoriazioni noise e sculture sonore di ogni tipo. Partendo dal presupposto che
si parla di una musica per nulla accomodante, non perché sia respingente o voglia prendersi
gioco dell'ascoltatore ma perché intende considerarlo parte attiva della fruizione (un aspetto
ulteriormente enfatizzato dagli aspetti visuali del progetto, naturalmente non presenti sul
supporto audio). “3 Juno” è una specie di viaggio onirico attraverso uno zapping di situazioni,
tastiere fluttuanti, sintetizzatori elegiaci, frammenti vocali captati chissà dove ( in “1944” fa
capolino un frammento di Storia), che di tanto in tanto si raggruma intorno ad elementi più
solidi (le scansioni ritmiche marziali della malinconica “Hiver”, la voce umana, che canta,
muovendosi tra i registri, una specie di inquietante filastrocca in “Red Submarine”, oppure,
virata al femminile, si muove libera in “Es”) prima di ricominciare il suo giro. Un disco
impegnativo, che sfida l'ascoltatore, ma che contiene vari momenti suggestivi.
Contatti: www.myspace.com/liirbufer
Alessandro Besselva Averame
Pagina 46
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Numero Ottobre '10
L’OR
Primo Piano
One E Music/EMI
In attesa di un nuovo album, previsto per i primi mesi del 2011 e dopo gli ottimi responsi
dell’esordio “Intimo pensiero”, da cui ci separano due anni, spesi tra numerosi concerti e
l’aver sfiorato la partecipazione a Sanremo Giovani – fregati solo dal televoto, dove l’ago
della bilancia pende spesso dalla parte di chi ha più amici disposti a spedire SMS – i
veronesi L’OR tengono viva l’attesa con questo mini-CD, che ha anche lo scopo di
presentare la nuova formazione, sempre saldamente nella mani del cantante e
polistrumentista Emanuele Tinazzi. Cinque brani per una gustosa anteprima dove, oltre a “Io
per te” utilizzata per provare a scardinare il Sanremo Giovani di cui sopra, ascoltiamo la
bellissima “La notte svela”, un pop rock intenso e sensuale, puntellato su un refrain
accattivante e giustamente utilizzato come primo singolo, con le successive “Il tuo vizio” e
“Quelle volte”, in cui elettronica e rock si incontrano efficacemente, mentre la chiusura de “La
corte dei miracoli”, dedicata al mondo del business musicale (argomento sempre caldo per i
musicisti), è ad oggi la canzone più ambiziosa dei L’OR, visto che intarsia soluzioni
variegate, con un arrangiamento che offre più piani di ascolto. Se ai L’OR si rimproverava
una buona qualità media ma l’assenza di un possibile hit, con “La notte svela” la questione
dovrebbe essere risolta. Attendiamo ora di ascoltare cosa ci saprà offrire il nuovo lavoro
sulla lunga distanza, che dovrà svelarci se la band può ambire al campionato di serie A o se
dovrà invece accontentarsi di qualche buona stagione tra i cadetti.
Contatti: www.myspace.com/likeoutsiderain
Gianni Della Cioppa
Pagina 47
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Numero Ottobre '10
Lowlands
Gypsy Child
Gypsy Child/IRD
Una corsa in moto in una giornata d’estate o la primavera che ritorna nei grandi spazi
padani, questa, se vogliamo è la sensazione che “Gypsy Child” dei Lowlands porta con sé.
Formazione indie che ha debuttato con un EP e un disco “The Last Call” che ha incantato
Chris Cacavas oltre ad avere buone recensioni su “Maverick”, passaggi radiofonici in Europa
e America, un richiamo importante sul nostro “Corriere della Sera” e un fortunato tour che ha
toccato persino il Windmill a Londra. Una provincia pavese che si dimostra, coi Lowlands,
così lontana e così vicina al tempo stesso, salda nei principi e pulita, ma dal cuore e dal
respiro mittleuropeo. Principale artefice di questa magia e di questi mondi che si incontrano
ne è il leader Edward Abbiati. Non è il classico ragazzo di provincia che lascia il paesello per
innamorarsi dell’America; oltre a esserci nato, Ed ha respirato e vissuto nei luoghi dove la
musica è nata ed ora ne importa quei profumi e quelle attitudini riuscendo a renderle “nostre”
con un gruppo che ne sa tessere le trame senza andare mai sopra le righe, con cura e
sensibilità. Il calore del violino di Chiara Giacobbe, le robuste chitarre di Roberto Diana, il
piano a tratti soft jazz di Stefano Brandinali e la fisarmonica di Francesco Bonfiglio. Il mondo
dei Lowlands si sporca di polvere della strada e comincia a mostrare carattere e personalità,
i colori si fanno più chiari e distinti, lo sguardo guarda lontano ridando slancio. “Gypsy Child”
sa di tempesta dei mari del Nord e di riparo nel caldo delle baite, di gusti perduti e di amici
ritrovati, di certezze incrollabili e di una festa e un banchetto al quale siete tutti invitati.
Contatti: www.lowlandsband.com
Beppe Ardito
Pagina 48
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Numero Ottobre '10
Marie Antoinette
Wants To Suck Your Young Blood
autoprodotto
Poi capita che esce una giovine di Pesaro dal capelli rossi, di nome Letizia Cesarini,
studentessa di Storia dell’Arte Medievale che ama le vite dei santi, a confezionare un
debutto come questo. Un’attitudine assolutamente punk, a servizio di una scrittura scabra,
rugginosa e irta, confessionale e rabbiosa, in bilico sul crinale della compulsione. Basica.
Come se a Courtney Love avessero levato il superfluo patinato, il trucco e i lustrini del
gossip. Un’urgenza dannata, massima brevità, quasi fossero, quelle di Marie Antoinette,
canzoni cantate al telefono, senza tempo da perdere. Voce e chitarra, tutt’al più qualche
spruzzata di glockenspiel. E nient’altro che non sia la forza abrasiva di otto-canzoni-otto,
tutte in inglese. Soltanto una di esse (“I Want To Be Thin”) supera i tre minuti. Una – “Joan
Of Arc” – è dedicata a Giovanna d’Arco, la giovane (poi santa) accusata di eresia e arsa sul
rogo, già declamata da Leonard Cohen. Un’altra, “Sylvia Plath”, è rivolta alla celebre
poetessa suicida. Icone estreme di donne morte giovani, eroine simbolicamente irriducibili
ancorché vittime. Beffarda come un quadro sconsacrato, intima come la scultura di un nudo,
un po’ P.J. Harvey un po’ Melissa Auf der Maur, Marie Antoinette, inevitabilmente dentro un
solco “riot grrrl” molto anni 90, succhia il sangue come una zanzara elettrica. Anche se di
elettrico in senso sonoro c’è solo l’ultima traccia “I Am Not Clever”, distorta e malata, un
minuto appena. Curiosamente, in calce all’autoproduzione, la rocker marchigiana confessa
che le canzoni sono “for my love, Jean”. Non ci sono più le femministe di una volta.
Contatti: www.myspace.com/marieantoinettesings
Gianluca Veltri
Pagina 49
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Numero Ottobre '10
Melody Fall
Into The Flesh
Nun Flower/Edel
Non vi voglio raccontare la solita storia del “com’è cambiata la discografia da ieri a oggi”
perché vi avrà già stufato, però sapere che il nuovo lavoro dei torinesi Melody Fall è stato
prodotto da una label giapponese è qualcosa che per il sottoscritto ha un significato molto
preciso. A “riportare a casa” il quarto album del combo, “Into The Flesh”, ci ha pensato
nientemeno che Stefano Senardi, un nome tra i più importanti del panorama nostrano, che
con la sua Nun Flower segue già da qualche anno i Melody Fall, tanto da portarli anche a
Sanremo. Ma se sul palco dell’Ariston la proposta musicale era sembrata (logicamente)
sbiadita e poco interessante ora la direzione sembra molto più sicura. In buona sostanza i
nostri propongono un pop con influenze punk cantato in inglese e ad alto tasso melodico. Un
disco molto moderno per quanto riguarda produzione e arrangiamenti, davvero ben rifinito
anche per l’uso di effetti voce e campionamenti. Facile, viste le premesse, scambiarlo per un
prodotto finto ad uso e consumo delle teenager nostrane, ma se è innegabile che i Melody
Fall abbiano anche questo appeal non tutto è da buttare, perché “Apricot Marmelade
(Falling)” è una ballata come ne abbiam sentite migliaia, ma l’incipit muscoloso di “Holy
Wood” è piacevole e “K.I.S.” un potenziale singolo alternativo. Ai Melody Fall la scelta, se
strizzar l’occhio al fashion music o seguire il rock, con la speranza che – per una volta – la
sostanza prevalga sulla forma.
Contatti: www.melodyfall.com
Giorgio Sala
Pagina 50
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Numero Ottobre '10
Music For Eleven Istruments
Business Is A Sentiment
Red Birds/Audioglobe
Cosa poteva fare un giovane musicista in una stanza con tanti strumenti appena acquistati
e lasciati lì da altri membri del gruppo appena sciolto? Un’ondata travolgente di suoni ipnotici
elettro-pop che non fanno che trasportarti in un turbinio di emozioni nostalgiche o allegre con
delle melodie semplici e scarne. Ecco cosa. Certo, bisogna conoscere il linguaggio musical
emozionale e sapere gestire le sensazioni travolgenti dei primi passi fatti. Guardarsi indietro
- quando suonava con i Flugge e facevano elettronica - ma non troppo e poi andare per la
propria strada costruendo mattone sopra mattone il proprio linguaggio. All’inizio Salvatore
Sultano, l’uomo che rinasce come Music For Eleven Istruments, voleva destinare le sue
personali visioni sonore alla composizione di uno spettacolo per le scuole medie, poi il
progetto è cresciuto e ha sviluppato altre trame. Appena messo su questo disco, credevo
d’averlo già sentito, che di solito è una sensazione che non va bene; ma in realtà se un
album ricorda suoni “buoni” che hai amato come i dischi di ...A Toys Orchestra per esempio
o i primi Arab Strap, e se ti viene subito da canticchiare, perché non approfittarne fidandosi?
“Box - Body”, molto malinconica nella sua semplicità, si regge su poche note eppure
ridondante, si lascia ricordare. “Alba Song”, spensierata e fresca, ricorda i Pecksniff e il loro
brio così come anche “Fables About Her”. La sensazione è che questo ragazzo abbia
l’entusiasmo giusto e l’impulso creativo per crescere. Gli auguro ogni bene.
Contatti: www.myspace.com/musicforeleveninstruments
Francesca Ognibene
Pagina 51
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Numero Ottobre '10
Nihil Est
Nuvole notturne
Seahorse/Audioglobe
Non credo ci sia qualcosa di costruttivo nel far passare l’idea che qui si stronchino i dischi
italiani tanto per, anche perché farlo su Fuori dal Mucchio sarebbe un controsenso. Però
anche le band dovrebbero venirci incontro. Voglio dire, questi Nihil Est sono bravi. Si sente,
hanno idee forti. Potrebbero anche spiccare rispetto al magma di indistinta mediocrità che li
circonda ma quando si tratta di fare il salto, si piegano su loro stessi. Dopo l’ascolto di
“Nuvole Notturne” spunta fuori l’idea che la band si piace abbastanza. Ora, non c’è niente di
male a scegliere un nome ispirato da Gorgia e presentarsi con una cartella stampa di rara
ridondanza, ma per lo meno evitare di ripetere all’infinito quelle due o tre idee che si
dimostra di avere. La ricerca di coniugare alla canzone “italiana” – le virgolette derivano
dall’approccio ai testi, ahinoi pericolosamente maudit – al post-rock e al glitch-pop di matrice
Morr Music sembra interessante e in qualche episodio risulta particolarmente riuscita
(applaudiamo principalmente “Nuvole notturne” e “Desiderio”) ma alla lunga questo
avvilupparsi rende evidente tutti i limiti. Va bene, è un esordio, ma proprio per questo ci si
poteva pensare un po’ di più. I numeri per fare bene ci sono e se solo riuscissero a staccarsi
dall’idea di “band figa” per essere una band e basta probabilmente i Nihil Est avrebbero nella
loro faretra delle frecce rare. Per intenderci, nel 2010 ci aspettiamo di più che una canzone
strumentale con la voce nella segreteria musicale.
Contatti: www.myspace.com/nihilestmusic
Hamilton Santià
Pagina 52
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Numero Ottobre '10
Ochtopus
Niente apparente
Ethnoworld
Progetto molto particolare quello dei ravennati Ochtopus, giunti con “Niente apparente” al
quarto album: un’esperienza che nasce – nel 1996 – sulla strada, come dimostra la ricca
attività di buskers, ma al contempo non si fa mancare raffinatezze e una ricerca per le
sfumature più propria del lavoro in studio che delle performance live. Volendo sintetizzare, la
“musica tentacolare” del settetto è in qualche modo collocabile tra sonorità sia balcaniche
che mediterranee, tango, jazz, influssi africani e una punta della genialità cameristica della
Penguin Café Orchestra. Del resto, un organico che prevede due chitarre, fagotto, corno,
oboe, sax e percussioni (oltre a rarissimi interventi della voce ospite di Mimma Pisto) è per
sua stessa natura aperto a contaminazioni sonore di ogni tipo; e i brani qui contenuti lo
confermano pienamente, capaci come sono di svariare tra stati d’animo, emozioni e colori,
grazie a intrecci strumentali frutto di una creatività tutt’altro che scontata. Dieci le
composizioni autografe, a cui si aggiungono le riprese del tradizionale colombiano “Galeron”
e di “A quai” di Yann Tiersen e una fulminante rilettura ironica di “Pop porno” de Il Genio
(ribattezzata per l’occasione “Pop corno”), per un viaggio senza dubbio divertente – a patto,
naturalmente, che non si viva soltanto di pop e rock – attraverso quella che non ci pare
sbagliato definire come una “musica popolare del mondo” a suo modo indubbiamente
originale.
Contatti: www.myspace.com/ochtopus
Aurelio Pasini
Pagina 53
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Numero Ottobre '10
Phinx
Login
Irma
I Phinx sono quattro ragazzi di Bassano del Grappa, vincitori del primo concorso indetto da
MySpace nel 2007 (vi ricordate di MySpace?) grazie ad un demo autoprodotto, lo stesso che
li ha portati l’anno successivo alla firma con una casa discografica. “Login” è il loro album di
debutto, scritto in un lasso di tempo moderatamente lungo, ma che musicalmente suona
urgente e pieno di una grinta che pare appena nata, primitiva, come dovrebbe essere ogni
debutto. Detto questo e una volta preso nota dell’interesse mediatico che la band sta
raccogliendo (da MTV al brand 55DSL, una messe di coolness da far girare la testa o far
storcere il naso a seconda del grado di purezza dell’indie-snob che li ascolta), è doveroso
segnalare come la commistione di rock ed elettronica con cui la band porta avanti il proprio
manifesto non presenta novità degne di nota. Se è vero che la produzione raggiunge livelli
da muro del suono che nulla ha da invidiare a blasonati predecessori in giro per il mondo, il
songwriting a firma di Francesco Fabris (voce, chitarra e programmi) risulta particolarmente
ripetitivo, tanto che dalla piacevolissima sorpresa del brano di apertura, si passa
all’apprezzamento delle due/tre tracce successive, per poi arrivare a metà scaletta con
evidenti segni di impazienza. Il tutto per quattordici brani, decisamente troppi. Si salva la
conclusiva “Give Me Beauty”, ariosa e cinematica tanto da mostrare doti vocali e di
arrangiamento presenti ma fino a qui ben più che sacrificate. Se con “Login” siamo entrati
nel mondo dei Phinx, perché sia auspicabile una seconda visita consigliamo di fare tesoro di
queste caratteristiche.
Contatti: www.myspace.com/thephinx
Giovanni Linke
Pagina 54
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Numero Ottobre '10
Replace The Battery
Daily Birthday
In The Bottle/Audioglobe
I padovani Replace The Battery, titolari finora di alcuni EP, si sono insediati in un territorio
poco battuto anche se non del tutto inesplorato: un ombroso e riflessivo post rock “d'autore”
che per molti versi ci fa venire in mente, di primo acchito, gli anglo-francesi Piano Magic.
Che significa post rock “d'autore”, ammesso che una tale definizione possa avere un senso?
Che, al di là di una maniacale cura per i suoni, per la gestione dei pianissimo e fortissimo e
dell'intreccio tra ritmi sintetici e non, batterie, tastiere e chitarre, ci sono anche le canzoni
(non in tutti gli episodi svetta l'elemento vocale, ma l'impostazione si lega spesso alla forma
canzone), e pure di buona fattura. Prendiamo ad esempio “Remember Me”, il cui crescendo,
dall'ampio respiro melodico, si sposa alle tenui melodie vocali e viene spinto in avanti da un
bel basso di sapore new wave. Mentre le chitarre “twanging” e allo stesso tempo gassose e
riverberate della successiva “My Bloody Sacrifice” si spingono (nel titolo una implicita
citazione dei My Bloody Valentine?) verso una sensibilità shoegaze. Ci sono i riferimenti, e
soluzioni sonore che denunciano la propria provenienza, ma c'è molto di più del semplice
mestiere: c'è una densità espressiva che denota una personalità piuttosto solida.
Contatti: www.myspace.com/replacethebattery
Alessandro Besselva Averame
Pagina 55
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Numero Ottobre '10
Terzobinario
La prima volta
Cinico Disincanto/Halidon
La formula dei Terzobinario è una miscela di rock + pop melodico, con un’ascendenza
cantautorale. Testi impregnati di sociale, un po’ di introspezione. A completare, un pizzico
d’elettronica. Una ricetta che ha fatto la fortuna di molti gruppi, dalla Puglia alla California.
Arrivano, i Terzobinario, sull’abbrivio del brano “Rights Here! Rights Now” (qui posto in
chiusura di scaletta), con il quale hanno vinto il premio Amnesty Emergenti alla XII edizioni di
“Voci per la libertà – Una canzone per Amnesty”. Il piglio del gruppo è spigliato e radiofonico,
e com’è ovvio non è che l’energia corrisponda, sempre e per forza, a pari originalità. Quel
che si può chiedere al quartetto mantovano è dunque un appeal ch’è fatto di ruggente
canzone “leggera”, hi-fi oriented ma comunque pensante e onesta. La proposta si situa tra
Litfiba e Negramaro da un versante, Bluvertigo e Subsonica (ma di meno) dall’altro.
“Scivolando piano” segue stilemi stinghiani, con qualche arguto debito verso Bersani
(“Perfino il boia è un funzionario/ la pena di morte gli dà il salario”); “Portami via” sfodera un
basso alla Adam Clayton. In “L’equilibrista” si annida la spiegazione del nome che il gruppo
si è scelto: “Tracciare una linea più breve tra A di partenza e B arrivo/ semplifica la decisione
e nasconde ciò che è alternativo”. Appunto, la terza via. Il terzo binario. Virata verso
un’elettronica techno la versione di “Via con me” di Paolo Conte, infedele quanto basta ma
per niente irrispettosa e in definitiva riuscita.
Contatti: www.terzobinario.it
Gianluca Veltri
Pagina 56
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Numero Ottobre '10
The Manges
Bad Juju
Tre Accordi/Self
Quando la Musica, quella con la M maiuscola, è prima di tutto passione non hai bisogno di
fare un disco ogni due anni. Quando ti guida il cuore gli obiettivi più importanti non sono
vendite e classifiche, ma le persone; per questo ci piacciono i Manges. Perché si
preoccupano di far dischi, solo tre quelli in studio dal ’93 ad oggi, solo quando hanno
qualcosa da dire, e ovviamente non sbagliano un colpo. Per quest’ultima fatica hanno
collaborato con Joe King dei Queers e notiamo subito una decisa evoluzione del suono dei
quattro di La Spezia, che è si sempre devoto a quello di Ramones e Screeching Weasel, ma
s’è evoluto incorporando anche elementi più propriamente rock. Infatti se “Hit The Punchball”
è un anthem ipercinetico la title track rallenta il ritmo e “M.I.A.” sembra una cover dell’altra
punta della scena spezzina: i Peawees. A sancire lo status raggiunto dai Manges
Oltreoceano due collaborazioni: quella con Ben Weasel che ha portato a “Back To The
Training Camp” e quella con Dan Vapid (anche lui parte degli Screeching Weasel) coautore
di “Sgt. Mouse Band March”. Un solo brano a lambire la lunghezza dei due minuti e mezzo,
dodici schegge che riconciliano con i Tre Accordi, e non è un caso se è proprio l’omonima
label meneghina a licenziarli per l’Italia: chi altri avrebbe potuto farlo? Ai Manges non
servono auguri o pubblicità, la credibilità e le capacità sono sotto gli occhi di tutti, ed in
questo senso “Bad Juju” non è affatto una sorpresa, ma solo un altro tassello di un percorso
speriamo ancora lungo e longevo.
Contatti: www.manges.it
Giorgio Sala
Pagina 57
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Numero Ottobre '10
Triste Colore Rosa
Scomparire in 11 semplici mosse
autoprodotto/Wondermark
Le premesse non tanto belle. Un nome che sembra uscito da una pagina di diario
pre-adolescenziale e un titolo che sembra dire: “ehi, cinici ascoltatori, sparateci”. È una
questione di prospettive. Qual è lo standard di riferimento per parlare del Triste Colore
Rosa? Penso che, nonostante il background indie, le canzoni di questo disco vadano inserite
in un discorso più ampio. Voglio dire, ormai le vecchie frasi che si leggono un po’ ovunque
tirando fuori i soliti nomi valgono fino a un certo punto e se dobbiamo dare un merito alla
band, è quello di aver capito che non siamo più nel 1997.
Gli arrangiamenti di “Scomparire in 11 semplici mosse” sono felicemente internazionali –
senza ascoltare i testi potresti pensare al nuovo disco di una band inglese ispirata dai
Radiohead “delle canzoni” tipo gli Snow Patrol... o i Ghosts – e mostrano una band che non
ha paura di usare le chitarre o usare la struttura strofa-ritornello per paura di essere banali.
E, novità, le parole e le frasi sono costruite in maniera assolutamente niente male. Ci sono
scaffali pieni di dischi di questo genere finiti male per colpa delle parti cantate e della stupida
pretenziosità dei testi. Ma questo volta va dato atto alla band di approcciarsi al suo materiale
con assoluta semplicità e onestà. Tipo che alla fine dell’ascolto gli perdoni tutti, pure un
nome che, a nostro avviso, resta il vero punto debole di questo progetto.
Contatti: www.tristecolorerosa.com
Hamilton Santià
Pagina 58
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Numero Ottobre '10
Verme
“Vai verme vai” è il secondo EP gratuitamente scaricabile dei Verme, dopo “Un verme resta
sempre un verme” di qualche mese fa. Emocore come se non ci fosse un domani dalle
macerie dei Fine Before You Came e di Dummo, Agatha e Hot Gossip, liriche che slabbrano,
chitarre che tagliano sulla solita batteria indiavolata, cori ad aprire le vene e strisciare, come
un verme, nel sistema nervoso. La copertina, come tradizione, è un calco, come per i Germs
dell'EP precedente, di “Boys Don't Cry” dei Cure, anche se non c'entra, a parte, forse, il
malessere che dal dark porta, insieme all'HC, direttamente all'emocore d'annata, quello vero,
quello punk, quello sofferente, sdegnato e chitarroso. Tra l'uscita dei due dischi Jacopo ha
aperto un blog, si chiama “(vita di) legno” (legno.wordpress.com) e se prendi quello che
scrive, lo comprimi in due minuti abbondanti e lo metti sul suono dei Verme, trovi i testi di
“Coglione”, “Figlio”, “Gatto gatto gatto” e “Risse risse risse”, i quattro pezzi degli undici minuti
di “Vai verme vai”. Non possiamo far altro che alzare le corna al cielo e scavare nella nostra
nostalgia. Vai, Verme, vai. E non fermarti. Mai.
Contatti: verme666.wordpress.com
Marco Manicardi
Pagina 59
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