Fabietti - Il debito inestinguibile. Sul sacrificio

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Fabietti - Il debito inestinguibile. Sul sacrificio
IL DEBITO INESTINGUIBILE : SUL SACRIFICIO
Ugo Fabietti
Il corso di quest’anno ha inteso esplorare alcuni aspetti della
relazione che intercorre tra la dimensione sacrificale e quelle del
dono e del debito. Si tratta di un tema complesso e controverso. Si
tratta infatti di riaprire, tra molte altre questioni, quella del sacrificio
inteso come “dono di qualcosa a qualcuno”: un’idea certamente
antica, presente tanto in coloro che hanno praticato e praticano
sacrifici, quanto tra gli studiosi di storia di religioni e gli
antropologi. Le teorie del sacrificio come dono fatto alle divinità
affondano le loro radici, come del resto quelle dell’origine della
religione, nel pensiero religioso e filosofico degli antichi.
1. Che cosa è realmente un sacrificio?
La teoria secondo cui il sacrificio sarebbe un dono fatto alle divinità
lascia di per sé aperti alcuni interrogativi che non hanno mai cessato
di imporsi alla riflessione degli studiosi. Poiché il sacrificio consiste
molto spesso in un atto violento (o comunque distruttivo) ecco che
sorge la questione di come la violenza possa rientrare in una
religione che promette (come è il caso di tutte le religioni) di
sollevare gli esseri umani dalla sofferenza e dalla presenza del male.
In alcuni casi ciò è particolarmente evidente. Alcune divinità di
popoli del mondo antico (Fenici) o extra-europei (Aztechi)
richiedevano sacrifici umani in quanto divinità “assetate di
sangue”, nel senso che il sangue umano era ciò che le manteneva in
vita ed era quindi in grado di far sì che tali divinità elargissero
benessere agli umani. In altre religioni le divinità, pur considerate
benevole e non legate agli uomini da questo “patto sanguinario”,
chiedevano comunque la morte di un essere umano. E’ il caso del
dio ebraico che chiede ad Abramo di sacrificare il proprio figlio, ed
è il caso del dio cristiano che si sacrifica per il bene degli esseri
umani. Se il sacrificio è un atti violento ed è una dimensione
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centrale di tutte le religioni, qual è la relazione che lega tra loro
sacrificio, religione e violenza?
Come tutti sappiamo la parola sacrificio può essere anche usata col
significato di “rinuncia”. In effetti tutti i sacrifici implicano, oltre che
una dimensione di dono, anche una dimensione di rinuncia, di dono
e quindi di abbandono, di rinuncia della cosa donata. La parola
sacrificio sta per rinuncia soprattutto negli usi metaforici del
termine, quando con essa vogliamo indicare qualcosa che non ha
nulla di strettamente attinente alla sfera religiosa.
Se il sacrificio è la distruzione violenta di qualcosa che viene donata
a qualcuno, esso è un atto che comporta la presenza di varie
“figure”, la cui rilevanza può variare in funzione di ragioni
molteplici, complesse e contingenti. In quello che di solito viene
definito sacrificio entrano infatti quattro elementi costitutivi. Essi
sono:
1) Ciò che viene sacrificato (se è un essere vivente si tratta della
vittima); 2) colui o colei che compie l’azione di sacrificare
(sacrificante)1; 3) colui o coloro che traggono vantaggio dall’atto
sacrificale (beneficiari) 4) l’entità a cui il sacrificio è offerto, la cui
natura è invariabilmente ultraterrena: spiriti, antenati, divinità
(destinatario).
Queste quattro “figure” sono sempre presenti in un sacrificio,
sebbene la loro importanza possa variare in base a considerazioni
particolari. Queste figure sono anche sempre distinte, sebbene in
alcuni casi possa esservi una “fusione” di ruoli, come nel caso in cui
il sacrificante sia anche il beneficiario, o nel caso che il sacrificante
sia la vittima stessa (per esempio in atti di auto immolazione, un
tema su cu torneremo diffusamente più avanti).
Ogni atto sacrificale presume l’esistenza di un destinatario in
quanto figura che rende effettiva , con la sua intermediazione,
l’efficacia del sacrificio. Questo punto appare chiaro se
consideriamo l’etimologia del termine sacrificio che, derivato dal
latino, si rifà a una concezione specifica della sacralità. Il sacrificium
dei latini implica infatti il significato di sacer facere “rendere sacro”,
per cui il termine sacrificio, così come lo usiamo in questa sede (in
A volte detto anche sacrificatore, mentre con il termine sacrificante viene indicato colui o coloro
che “commissionano” il sacrificio (e che è qui chiamato beneficiario)
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senso cioè non metaforico) significa mettere a contatto una cosa con
il sacro, “renderla sacra”.
Sul significato della parola sacer
Il cristianesimo ha finito per identificare la dimensione della
sacralità con quella della santità, ma nel mondo latino, da cui
provengono i termini sacro e santo, (sacer e sanctus), non era così.
Emile Benveniste2 ci ha spiegato il significato di queste due parole
che solo in circostanze speciali potevano trovarsi riunite per
indicare la medesima cosa. Sacer è attributo divino ma è anche
ambiguo. Significa infatti consacrato agli dèi, ma è anche caricato di
una “contaminazione incancellabile, augusta e maledetta degna di
venerazione e suscitante orrore”. Nell’antica Roma homo sacer era il
condannato a morte che, come tale, era portatore di una vera e
propria contaminazione. Esso era separato dalla società degli
uomini, era “altro”. Come tale era “consacrato agli dèi” nel senso
che aspettava soltanto di “essere tolto” dalla fera terrena.
Benveniste dice anche che i termini che definiscono l’universo
religioso latino sembrano formare delle coppie. In latino abbiamo
infatti, oltre a sacer, il termine sanctus.
Quest’ultimo, che col cristianesimo ha subito, come dicevamo, una
identificazione con sacro, designava in origine ciò che “è proibito
da una pena (sanctio, sanzione)”. Leges sanctae: leggi inviolabili.
“Sancire” vuole dire infatti anche per noi circoscrivere il campo di
applicazione di una disposizione e metterla sotto la protezione di
una legge, una volta magari di un dio, invocando sul trasgressore la
punizione divina. E’ ciò che dipende da un interdetto imposto dagli
esseri umani, quindi potrebbe essere assimilato per molti aspetti al
tabu polinesiano3.
E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1969.
Sebbene con le dovute differenze. Nell’area polinesiana tabu (tapu) può essere una
proibizione che nasce da un atto formale di un capo, persona “sacra” lui stesso, secondo la
concezione latina del sacer. Gli veniva attribuito infatti un potere (mana) ambiguo e pericoloso.
Il capo polinesiano era tabu lui stesso. La nozione polinesiana di tabu sembra esprimere,
entrambi i significati di sacer e di sanctus, ma non nel senso in cui questi due termini si trovano
riuniti nella visione cristiana, bensì come una parola in grado di indicare il sacer e il sanctus
così come erano intesi dai latini (pericoloso, ambiguo potente il sacer; vietato, “off limits”, il
sanctus). Lo stesso Benveniste avanza l’ipotesi che la coppia sacer-sanctus possa essere derivata
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Sancta, nel mondo latino, sono le cose che non sono né sacre né
profane ma che sono confermate da una certa sanzione . Ciò che è
sottoposto a sanzione è sanctus anche se non è consacrato agli dèi
(cioè non è sacer di per sé).
2. Tylor: il sacrificio come dono
Dovendo fissare un punto di partenza per la nostra trattazione del
sacrificio abbiamo deciso di riferirci a E. B. Tylor che, nel suo
Primitive Culture del 1871, dedica largo spazio alla comparsa del
pensiero religioso e, all’interno di questo, si sofferma abbastanza a
lungo sul tema del sacrificio.
In Primitive culture del 1871 Tylor definisce la religione come “la
credenza negli spiriti soprannaturali”. Si tratta dunque di stabilirne
l’origine, e naturalmente l’evoluzione che, nel tempo, ha portato il
selvaggio a farsi prima sacerdote e poi filosofo, dove per
quest’ultimo la credenza negli esseri soprannaturali è
definitivamente sostituita da una fede nelle possibilità che gli umani
hanno di trascendersi e di elevarsi al di sopra delle superstizioni.
Il ragionamento di Tylor, che si muove nel clima culturale
dell’evoluzionismo britannico, può essere sinteticamente espresso
in questo modo. Gli esseri umani sanno di avere un corpo vivo. Ma
il corpo muore, la vita lo abbandona. Al tempo stesso, nei sogni, gli
esseri umani hanno l’impressione che esista un loro doppio, il quale
lascia il corpo temporaneamente per farvi ritorno con la ripresa
dello stato di veglia. Cos’è questo doppio che si distacca dal corpo, e
dove va la vita quando il corpo muore? Esso sopravvive all’essere
umano perché nei sogni non è soltanto il proprio doppio che
appare, ma anche quello dei defunti (Tylor lo chiama il fantasma). E’
qui che, secondo Tylor, nasce la credenza negli esseri
soprannaturali: il fantasma del morto e il doppio del vivente sono
alla base di ciò che noi chiamiamo anima, soffio vitale, pneuma
(greco), ruh (arabo) ecc. e che deve essere stata alla base della prima
credenza negli esseri sovrannaturali. L’animismo è quindi il nome
da una nozione a doppia faccia: positiva (perché caricata da presenza divina) e negativa
(perché è vietata agli uomini).
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che Tylor assegna alla prima forma di religione intesa come
credenza negli esseri sovrannaturali 4
Con le epoche, e con il variare delle relazioni che gli umani
intrattengono con il mondo secondo un rapporto baconiano di
progressiva capacità di controllo dei fenomeni naturali, l’animismo
originario sarebbe andato incontro, sempre secondo Tylor, a
trasformazioni che ci hanno portato verso forme sempre più evolute
di religione (contenenti però ciascuna delle sopravvivenze, ossia
tracce degli stadi anteriori qualificate solitamente come
“superstizioni”).
Non è interessante qui ripercorrere le tappe di questa evoluzione,
ma è invece utile soffermarsi brevemente sul modo in cui Tylor si
accostò al problema della religione. Tylor era un razionalista, non
un mistico.
Essere razionalisti, nello studio della religione, significa indagare il
fenomeno senza nulla concedere agli aspetti fideistici che sono alla
base di esso5. Tylor era anche un “intellettualista”, che significa
invece prestare attenzione alle forme di ragionamento che sono alla
base delle rappresentazioni religiose, mettendo in secondo piano gli
aspetti sociali, linguistici, storici da cui una data rappresentazione
può dipendere. Quest’ultimo punto spiega perché molte delle
critiche che sono state rivolte, in seguito, all’approccio tyloriano allo
studio della religione abbiano avuto a oggetto, più che la sua
prospettiva evoluzionista6, il suo intellettualismo. Di queste critiche
ne ricordiamo alcune: l’intellettualismo ignora la dimensione
emotiva dei fenomeni religiosi; esso inoltre trascura la dimensione
Questa definizione della religione, che può apparire generica e alquanto vaga, è da porsi in
relazione al rifiuto, da parte di Tylor, di pensare la religione sul modello del “culto
organizzato”. Egli esortava infatti a non considerare la religione come qualcosa di troppo simile
all’idea che ne avevano gli europei, perché altrimenti “la maggior parte dell’umanità avrebbe
potuto difficilmente essere ritenuta una umanità religiosa”.
5 Si ricorda che nello studio antropologico della religione si può essere scettici fin che si vuole
sulle rappresentazioni e le pratiche di coloro che studiamo, ma che non possiamo invece esserlo
affatto nei riguardi dei discorsi, dei linguaggi e delle pratiche mediante cui, coloro che
studiamo, vivono la loro esperienza “religiosa”. Come dice C. Geertz nel saggio “La religione
come sistema culturale” (1967), quando intraprendiamo uno studio antropologico della religione
non possiamo certo impersonare la figura del “predicatore del villaggio”, ma nemmeno quella
dell’ “ateo del villaggio”.
6 Le critiche all’evoluzionismo antropologico ottocentesco mosse dagli antropologi del XX
secolo non implicano assolutamente una critica dell’evoluzionismo di tipo biologico così come
questo è stato fondato da Charles Darwin.
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collettiva, sociale della pratica religiosa, e i suoi effetti di ritorno
sulla comunità; è eccessivamente speculativa, al punto che produce
una sorta di sostituzione del nativo da parte dell’antropologo. Si
assume cioè che l’altro ragioni come io ragionerei se fossi nelle
stesse condizioni in cui io presumo che lui si trovi.
L’approccio di Tylor ebbe comunque dei meriti notevoli. Nella sua
prospettiva evoluzionista Tylor riteneva che le società evolvessero
sulla base di un sempre maggior efficace controllo sul mondo, o che
perlomeno il grado di questo controllo fosse il principale indice
dello stadio evolutivo raggiunto dalla cultura. Si tratta certamente
di una visione riduttiva della cultura ma, nello spirito del tempo,
significò almeno introdurre l’idea che gli esseri umani si rapportano
“religiosamente” al mondo in maniera diversa a seconda della
possibilità che essi hanno di controllare razionalmente il mondo che
li circonda. Quindi non era più questione di religioni “vere” e di
religioni “false”, ma di religioni più evolute, e di religioni che lo
erano meno.
L’approccio intellettualistico di Tylor, ancorché etnocentrico (siamo
nella Gran Bretagna dell’età vittoriana), mette inoltre l’accento sugli
universali dell’esperienza e del pensiero umani, stabilendo un ponte
tra quelle che per lui erano le società semplici e quelle che venivano
considerate le società più “evolute”. In fin dei conti il merito vero di
Tylor fu quello di porre al centro della riflessione il tema dell’agire
razionale dell’umanità e della sua creatività culturale, contro quelle
correnti “degenerazioniste” che assegnavano all’uomo cristiano
europeo il privilegio di non essere rimasto nello stato selvaggio a
cui la caduta dallo stato di grazia originario aveva condannato il
resto dell’umanità7.
E’ importante ricordare che la prospettiva intellettualista (almeno in
materia di studio della religione) presupponeva, all’epoca di Tylor,
che le azioni rituali traducessero quelle preoccupazioni intellettuali
(illusorie) che erano alla base delle credenze religiose. Secondo
questa prospettiva, le credenze sono ad esempio tentativi di
spiegazione di fenomeni naturali che fanno riferimento all’azione di
Incontreremo infatti, nel nostro percorso sul sacrificio, le acute osservazioni di un pensatore
come J. de Maistre che, agli inizi dell’Ottocento, nella sua violenta polemica anti illuminista e
un sostenitore delle teorie della “caduta” dell’Uomo e del “selvaggio” come essere
“degenerato”.
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esseri soprannaturali, per cui i riti sono molto spesso dei tentativi di
controllarne la manifestazione. Tipico il caso della “danza della
pioggia”, interpretata a lungo come un tentativo maldestro, perché
illusorio, di manipolare la natura; o anche della preghiera con cui ci
si rivolge alla divinità per ottener e da essa dei favori.
Anche il sacrifico pertanto, in questa prospettiva, diventa “un dono
fatto agli esseri soprannaturali”: un atto rituale cioè mirante ad
ingraziarsi quelle forze che gli umani credono essere all’origine del
mondo e della vita.
In Primitive Culture (pp. 395-410) Taylor espone una teoria del
sacrificio che prevede un’evoluzione del rito in tre fasi: dono in senso
stretto, omaggio e abnegazione.
“Sacrifice has its apparent origin in the same early period of culture and its
place in the same animistic scheme as prayer, with which through so long a
range of history it has been carried on in the closest connexion. As prayer is a
request made to a deity as if he were a man, so sacrifice is a gift made to a deity
as if he were a man…….
The suppliant who bows before his chief, laying a gift at his feet and making
his humble petition, displays the anthropomorphic model and origin at once of
sacrifice and prayer. But sacrifice, though in its early stages as intelligible as
prayer is in early and late stages alike, has passed in the course of religious
history into transformed conditions, not only of the rite itself but of the
intention with which the worshipper performs it. And theologians, having
particularly turned their attention to the rite as it appears in the higher
religions, have been apt to gloss over with mysticism ceremonies which, when
traced ethnographically up from their savage forms, seem open to simply
rational interpretation..……
In now attempting to classify sacrifice in its course through the religions of the
world, it seems a satisfactory plan to group the evidence as far as may be
according to the manner in which the offering is given by the worshipper, and
received by the deity. At the same time, the examples may be so arranged as to
bring into view the principal lines along which the rite has undergone
alteration. The ruder conception that the deity takes and values the offering for
itself, gives place on the one hand to the idea of mere homage expressed by a
gift, and on the other to the negative view that the virtue lies in the worshipper
depriving himself of something prized. These ideas may be broadly
distinguished as the gift-theory, the homage-theory, and the abnegation-theory.
Along all three the usual ritualistic change may be traced, from practical reality
to formal ceremony. The originally valuable offering is compromised for a
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smaller tribute or a cheaper substitute, dwindling at last to a mere trifling token
or symbol.
The gift-theory, as standing on its own independent basis, properly takes the
first place. That most childlike kind of offering, the giving of a gift with as yet
no definite thought how the receiver can take and use it, may be the most
primitive as it is the most rudimentary sacrifice. Moreover, in tracing the
history of the rite from level to level of culture, the same simple unshaped
intention may still largely prevail, and much of the reason why it is often found
difficult to ascertain what savages and barbarians suppose to become of the
food and valuables they offer to the gods, may be simply due to ancient
sacrificers knowing as little about it as modern ethnologists do, and caring less.
Yet rude races begin and civilized races continue to furnish with the details of
their sacrificial ceremonies the key also to their meaning, the explanation of the
manner in which the offering is supposed to pass into the possession of the
deity.”8
Importante è il fatto che Taylor sottolinei come queste differenze
siano connesse non solo con la prassi rituale, ma anche con le diverse
intenzioni di coloro i quali compiono i riti sacrificali.
Altrettanto importante è il fatto che, secondo Taylor, gli umani si
comportano con gli dèi (esseri spirituali) allo stesso modo in cui si
comportano con gli umani stessi ma di rango superiore.
All’atto del sacrificio come dono in senso stretto nei confronti di
poteri come possono essere le forze della natura o alcuni animali
particolari, atti sostenuti da un atteggiamento quasi “infantile” di
dipendenza nei confronti delle forse a cui si dona, subentra
l’omaggio. Questo si ha quando si elabora un sentimento di
riverenza nei confronti degli esseri spirituali (dèi) a cui si dona con
la stessa devozione e con le stesse aspettative che si hanno quando
si dona a un capo o a un re. Scrive infatti Tylor:
“..........let us now follow the question of the sacrificer’s motive in presenting the
sacrifice. Important and complex as this problem is, its key is so obvious that it
may be almost throughout treated by mere
statement of general principle.
If the main proposition of animistic natural religion be granted, that the idea of
the human soul is the model of the idea of deity, then the analogy of man's
dealings with man ought, inter alia, to explain his motives in sacrifice. It does
so, and very fully. The proposition may be maintained in wide generality, that
8
E.B. Tylor, Primitive Culture, London 1871. Gordon Press, N. Y. 1977, vol. II, pp. 375-376.
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the common man's present to the great man, to gain good or avert evil, to ask
aid or to condone offence, needs only substitution of deity for chief, and proper
adaptation of the means of conveying the gift to him, to produce a logical
doctrine of sacrificial rites, in great measure explaining their purpose directly
as they stand, and elsewhere suggesting what was the original meaning which
has passed into changed shape in the course of ages…….
It will be noticed that offerings to divinities may be classed in the same way as
earthly gifts. The occasional gift made to meet some present emergency, the
periodical tribute brought by subject to lord, the royalty paid to secure
possession or protection of acquired wealth, all these have their evident and
well-marked analogues in the sacrificial systems of the world……
We do not find it easy to analyse the impression which a gift makes on our own
feelings, and to separate the actual value of the object from the sense of
gratification in the giver's good-will or respect, and thus we may well scruple
to define closely how uncultured men work out this very same distinction in
their dealings with their deities. In a general way it may be held that the idea of
practical acceptableness of the food or valuables presented to the deity, begins
early to shade into the sentiment of divine gratification or propitiation by a
reverent offering, though in itself of not much account to so mighty a divine
personage. These two stages of the sacrificial idea may be fairly contrasted, the
one among the Karen9 who offer to a demon arrack or grain or a portion of the
game they kill, considering invocation of no avail without a gift,' the other
among the negroes of Sierra Leone, who sacrifice an ox " to make God glad
very much, and do Kroomen good." 10
La fase dell’abnegazione si ha quando il nucleo del sacrificio non
riguarda più tanto la divinità, quanto piuttosto il sacrificante. Si
sacrificano allora (sempre agli esseri spirituali) cose che hanno un
valore “sostanzioso”, tanto di natura sociale che economica, quanto
di natura affettiva.
Si inserisce qui l’ “economia del sacrificio” e il principio di
sostituzione, nel senso che ciò che si dona in sacrificio può essere
scelto secondo le convenienze del caso, sostituendo un essere
umano con un animale, un animale di valore con uno meno
pregevole, un animale con un vegetale sfino a scegliere come
vittima sacrificale una sua rappresentazione (immagine, simbolo
ecc.). Nel cristianesimo troviamo sacrifici di animali (nella Grecia
contemporanea ad esempio) e “in effigie”, come nel caso degli exvoto, e nella stessa eucarestia.
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Popolazione del Myanmar (Birmania).
Primitive Culture, 393-394.
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“As for sacrificial rites most fully and officially existing in modern
Christendom, the presentation of ex-votos is one. The ecclesiastical opposition
to the continuance of these thank-offerings was but temporary and partial. In
5th century it seems to have been usual to offer silver or gold eyes, feet, etc., to
saints in acknowledgment of cures they had effected. At the beginning of the
16th century, Polydore Vergil, describing the classic custom, e s on to say : " In
the same manner do we now offer up our churches sigillaria, that is, little
images of wax, and oscilla. As oft as any part of the body is hurt, as the hand,
foot, breast, we present1y make a vow to God, and his saints, to whom upon
our recovery we make an offering of that hand or foot or breast shaped in wax,
which custom has so far obtained that this kind of images have passed to the
other animals. Wherefore so for an ox, so for a horse, for a sheep, we place
puppets in the temples. In which thing any modestly scrupulous person may
perhaps say he knows not whether we are rivalling the religion or the
superstition of the ancients." In modern Europe the custom prevails largely, but
bas perhaps somewhat subsided low levels of society, to judge by the general
use of mock silver and such like worthless materials for the dedicated effigies.
In Christian as in pre-Christian temples, clouds of incense rise as of old. Above
all, though the ceremony of sacrifice did not form an original part of Christian
worship, its prominent place in the ritual was obtained in early centuries. In
that Christianity was recruited among nations to whom the conception of
sacrifice among the deepest of religious ideas, and the ceremony of sacrifice
among the sincerest efforts of worship, there arose an observance suited to
supply the vacant place.
This result was obtained not by new introduction, but by transmutation. The
solemn eucharistic meal of the primitive Christians in time assumed the name
of the sacrifice of the mass, and was adapted to a ceremonial in which an
offering of food and drink is set out by a priest on an altar in a temple, and
consumed by priest and worshippers. The natural conclusion of an
ethnographic survey of sacrifice, is to point to the controversy between
Protestants and Catholics, for centuries past one of the keenest which have
divided the Christian world, on this express question whether sacrifice is or is
not a Christian rite”. (pp. 409-10 vol. II).
Tylor sembra comunque far capire che ogni fase del sacrificio porta
con sé aspetti della fase precedente, aspetti che, nella prospettiva di
questo autore, dovrebbero costituire delle “sopravvivenze”,
sebbene esse mantengano pur sempre una loro “funzionalità” anche
in epoche successive della storia umana.
11
3. Robertson Smith: il sacrificio come rito comunitario
Vari anni dopo la pubblicazione di Primitive Culture in cui Tylor
aveva esposto la propria idea circa l’origine della religione e la
natura del sacrificio, un altro studioso britannico adottò una
prospettiva per alcuni importanti aspetti opposta a quello del suo
contemporaneo. Lo scozzese William Robertson Smith illustrò le
sue idee in materia di religione soprattutto in Lectures on the Religion
of the Semites (1889), dove raccolse la sintesi dei sui studi dedicati al
rapporto tra società e religione tra i popoli antichi, gli ebrei e gli
arabi preislamici.
Benché evoluzionista come Tylor, Robertson Smith partì da
premesse diametralmente opposte a quelle di molti suoi
contemporanei, Tylor compreso. Al contrario di Tylor, che aveva
individuato la fase aurorale della religione in un’ attitudine
riflessiva dell’individuo (la spiegazione del doppio e del fantasma),
Robertson Smith si concentrò sulla dimensione sociale e collettiva
della religione, e in particolare sull'attività rituale che, secondo lui,
costituiva il dato essenziale da cui partire. Alla teoria della religione
come risultato di uno sforzo intellettuale teso a comprendere la
realtà, Smith contrappose l'idea secondo cui il dato primario di ogni
esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essi correlati. Tali riti e
simboli sono condivisi dai membri di una determinata comunità i
quali, nascendo all’interno di una determinata società, li trovano già
presenti ed attivi. Proprio perché mirò a elaborare una teoria dei
rapporti tra religione e società, Smith privilegiò nettamente la
dimensione dell'azione sociale su quella della rappresentazione
intellettuale. E in effetti non c’è azione, nella religione, che non si
esprima essenzialmente nei riti.
La derivazione del mito dal rito
E’ in questa prospettiva che va intesa la discussione del rapporto tra
rito e mito, considerati da molti studiosi di allora (ma non solo) l’
uno come l’effetto dell’altro, cioè il rito come prodotto del mito. Per
Smith il rapporto doveva essere rovesciato. Il rito non era una
traduzione del mito, perché mentre un certo rito appare costante, il
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mito che lo spiega può essere diverso da luogo a luogo. Questo non
voleva affatto dire che per Smith gli esseri umani compivano riti
come gesti meccanici, indipendentemente cioè dal loro significato,
ma che, essendo la religione antica (pre-monoteista) priva di veri e
propri dogmi della fede, la religiosità si concretizzava innanzitutto
nell’adempimento di atti di culto ritenuti appropriati dalla
comunità intera.11 (v. anche più avanti nota n. 7). Scrive Smith:
“Commetteremmo un errore assai grave se dessimo per scontato che ciò che è
per noi l’aspetto più importante e rilevante della religione lo fosse stato anche
nella società antica di cui stiamo trattando. In relazione ad ogni società, antica o
moderna che sia, troviamo la presenza da un lato di certe credenze e, dall’altro,
di certe istituzioni, pratiche rituali e regole di condotta. L’abitudine di noi
moderni è di guardare alla religione dal punto di vista delle credenze piuttosto
che da quello delle pratiche […..]
Di conseguenza lo studio della religione è coinciso con lo studio delle credenze
cristiane, dove l’istruzione religiosa ha d’abitudine inizio con la professione di
fede, e nella quale i doveri religiosi sono presentati al discepolo come se
discendessero dalle verità dogmatiche che gli si insegna ad accettare [….]
Le antiche religioni erano per lo più prive di fede. Consistevano interamente di
istituzioni e di pratiche. Certamente gli uomini non seguivano d’abitudine
alcune pratiche senza collegare ad esse un qualche significato; ma di regola
constatiamo che mentre la pratica era rigorosamente fissata, il significato ad
essa connesso era estremamente vago, e il medesimo rito era spiegato da
persone diverse in maniera differente, senza che di conseguenza venisse
sollevata una questione di ortodossia o eterodossia in materia. Nell’antica
Grecia, ad esempio, certe cose venivano fatte in un tempio, e la gente
concordava sul fatto che sarebbe stato empio non farle. Ma se aveste chiesto
perché erano fatte, avreste probabilmente ricevuto molte diverse risposte
contraddittorie da individui differenti, e nessuno avrebbe pensato che il fatto di
sceglierne una piuttosto che un’altra avrebbe avuto un significato religioso
E’ però molto importante introdurre delle precisazioni. A volte il rito serve a riattualizzare il
mito, se per mito si intende una narrazione “sacra” dotata di un potere di significazione attuale.
Qui riattualizzare significa “riportare all’attenzione agendo” la rappresentazione centrale del
mito. Per esempio i rituali orgiastici dionisiaci con consumo di carni animali crude, che
rimettevano in scena lo smembramento del corpo di Dioniso da parte dei Titani; l’Eucaristia
cristiana dove i fedeli assumono il corpo di Cristo in memoria dell’ultima cena; il rito
musulmano dello sgozzamento del montone nel giorno dello ‘Id al Kabir (X giorno del mese di
Pellegrinaggio) in “ricordo” del sacrificio (poi non compiuto grazie all’intervento divino) di
Isacco (Ismaele per i musulmani) da parte del padre Abramo. Si tratta di riattualizzazioni così
come le abbiamo definite.
Tuttavia anche quanti compiono una riattualizzazione rituale di un mito difficilmente
conoscono una versione unica del mito, a meno che questo non sia codificato in un testo scritto
(e anche in questo caso molti fedeli hanno una conoscenza diversificata e ineguale del testo).
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inferiore. La verità è che le diverse spiegazioni avanzate non erano di quelle
che suscitano sentimenti particolarmente forti; poiché in molti casi esse
sarebbero coincise con storie diverse riguardanti semplicemente le circostanze
in cui il rito venne stabilito per la prima volta per un ordine o un esempio
direttamente dato dalla divinità. Il rito, insomma, non era connesso con un
dogma, ma con un mito.[…..]
In certe serie di miti la credenza non era considerata obbligatoria in quanto
parte della vera religione, né si riteneva che, per il fatto di credere, un uomo
acquistasse un qualche merito religioso e si conciliasse il favore degli dèi.
Obbligatorio e meritorio era l’espletamento preciso di certi atti sacri previsti
dalla tradizione religiosa. Stando così le cose, ne consegue che la mitologia non
doveva avere quel posto preminente che le è così spesso assegnato nello studio
scientifico delle antiche religioni. Sebbene i miti consistano in spiegazioni del
rituale, il loro valore è tuttavia secondario, e si può affermare con sicurezza che
in quasi tutti i casi il mito era derivato dal rituale, e non il rituale dal mito;
questo perché il rito era fisso e il mito variabile; il rito era obbligatorio mentre
la credenza nel mito era a discrezione del credente. Ora, la grandissima
maggioranza dei miti delle religioni antiche era connesso coi riti di certi
santuari, o con i comandamenti religiosi di tribù e regioni particolari. In tutti i
casi del genere è probabile, e nella maggior parte di essi è sicuro, che il mito è la
semplice spiegazione dell’usanza religiosa; e che di solito si tratta di una
spiegazione tale che non avrebbe potuto emergere finché il significato
originario della pratica non fosse più o meno caduto nell’oblio. Di regola il mito
non costituisce la spiegazione dell’origine del rituale per chiunque non creda
che si tratti del racconto di fatti realmente accaduti, e il più temerario studioso
di mitologia non lo crederà di certo. Ma se non è vero, il mito stesso richiede
una spiegazione, e qualunque principio della filosofia e del senso comune
richiede che la spiegazione vada ricercata non in arbitrarie teorie allegoriche,
ma nei fatti reali riguardanti il rito o le pratiche religiose a cui il mito è
collegato. La conclusione è che nello studio delle religioni antiche dobbiamo
cominciare non con il mito, ma con il rito e con la pratica tradizionale”12.
La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso, che
Smith antepone anche storicamente alla dimensione individuale,
riflessiva e sistematica13, si rivela negli atti di devozione che
coinvolgono l’intera società, e cioè in quelli che egli chiama riti
comunitari. Attraverso lo studio del materiale biblico, rivelatore
Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 16-18.
Per Robertson-Smith, come per altri evoluzionisti suoi contemporanei, i processi di
individualizzazione in ogni campo (matrimonio, economia, religione ecc.) erano il frutto di un
processo di progressiva affermazione della persona in quanto entità giuridicamente distinta
dalla comunità, riflesso asua volta della “maturazione” delle facoltà intellettuali degli esseri
umani.
12
13
14
dell'esistenza di una religione a tinte fortemente comunitarie
(“nazionali”), Smith giunse a sostenere l'esistenza di una sostanziale
omologia tra attività religiosa e rituale da un lato e identità politica
e sociale dall'altro. Affermando che, nella società arcaica, "la
religione di un uomo è un elemento integrante delle sue relazioni
politiche" (1889:36), Smith sottolineava come il fatto di conformarsi
o meno ai rituali pubblici fosse il segno dello stato dei rapporti tra
gli individui e tra l’individuo e la comunità. Ciò era rivelatore della
natura "sociale" della religione e della sua funzione di elemento
coesivo della società. La religione appariva così un fattore
regolativo dei rapporti sociali in quanto, attraverso l'adesione ai
rituali pubblici, spingeva gli individui a conformarsi agli standard
di comportamento collettivi. Al tempo stesso, però, la religione
rappresentava
un
elemento
coesivo
poiché,
riunendo
periodicamente gli individui a scopi rituali, rafforzava nei
partecipanti, mediante i riti stessi, il senso di appartenenza ad un
unico corpo sociale.
In tal modo la religione non appariva più come il prodotto di un
atteggiamento speculativo, ma neppure come il frutto di un bisogno
spirituale dell’individuo in quanto tale. Per Smith le credenze erano
sì qualcosa di illusorio (come in Tylor), ma non coincidevano con
delle preoccupazioni intellettuali: esse erano piuttosto chiamate a
rispondere alle necessità pratiche della vita. La religione, sostenne
Smith, è qualcosa che esiste "non per la salvezza delle anime, ma
per la conservazione e il benessere della società" (1889: 29).
Il sacrificio
Smith, cercò di fortificare queste sue ipotesi attraverso lo studio
dell'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, presso i quali egli
riteneva di poter rintracciare le “sopravvivenze” (egli le chiamava
relics) di fasi ancora anteriori.
L'istituzione del sacrificio in favore della divinità non era, sostenne
Smith, un dono rivolto ad una potenza sovrastante allo scopo di
ingraziarsela. Contro Tylor che aveva avanzato l’idea che il sacrifico
fosse un dono agli esseri spirituali, Smith propose la teoria secondo
15
la quale il sacrificio era un rituale di comunione tra gli esseri umani e
la divinità. 14 Egli infatti scrive:
“Qualunque atto di culto, per essere veramente completo – un semplice voto
non poteva essere considerato tale finché non veniva pronunciato
accompagnandolo con un sacrifico – aveva un carattere pubblico o quasi
pubblico. La maggior parte dei sacrifici venivano offerti a periodi fissi, nelle
grandi feste collettive o di carattere nazionale, ma anche un’offerta privata era
considerata incompleta senza la presenza di ospiti e senza che i resti delle carni
sacrificali, anziché essere vendute, fossero distribuite con grande generosità.
Pertanto qualunque atto di culto esprimeva l’idea secondo cui l’individuo non
vive per sé stesso ma solo per i suoi simili, e che questa comunanza di interessi
è la sfera su cui vegliano le divinità e a cui queste ultime dispensano la loro
benedizione.
Il significato etico che va dunque attribuito al pasto sacrificale, considerato
come un atto sociale, ricevette un’enfasi particolare per via di certe abitudini e
di certe idee connesse con gli atti del mangiare e del bere. Secondo le idee
anticamente connesse con tali atti, coloro che mangiano e bevono insieme sono,
per il fatto stesso di compiere tali atti in comune, legati da amicizia e
obbligazione reciproca. Di conseguenza, quando troviamo, nelle religioni
antiche, che tutte le funzioni ordinarie di culto sono riassunte nel pasto
sacrificale, e che il normale rapporto tra gli dei e gli uomini non riveste altra
forma che questa, dobbiamo ricordarci che l’atto di mangiare e di bere insieme
è l’espressione solenne e riconosciuta del fatto che coloro che condividono il
pasto sono fratelli, e che i doveri dell’amicizia e della fratellanza sono
implicitamente riconosciuti nella loro comune azione. Accogliendo l’uomo alla
sua tavola, il dio lo accoglie come amico; ma questo favore è esteso non ad un
uomo in quanto individuo privato; egli è ricevuto, piuttosto, come un membro
della comunità, a mangiare e a bere con i suoi compagni, e nella stessa misura
Questa idea della divinità come “nume tutelare” del gruppo era già presente negli studi dello
storico francese N. D. Fustel de Coulanges (1830-1889). Ne la La cité antique del 1864, uno studio
comparato sull’origine delle istituzioni politico-religiose di Atene e di Roma, Fustel de
Coulanges sostenne che la società era all’inizio fondata su basi teocratiche. La discendenza
comune e la co-territorialità, sebbene elementi fondamentali nella costituzione della comunità
politica (la città), erano tuttavia secondarie rispetto al culto comune delle divinità tutelari. Gli
stessi legami parentali, primo vincolo «politico» tra gli esseri umani, erano ciò che consentiva di
assicurare la continuità del culto domestico, ed erano pertanto secondari (benché funzionali)
rispetto a quest’ultimo. Si era “parenti” innanzitutto perché si tributava un culto ad un
antenato comune. Tali idee, unitamente a quelle di Smith sul sacrificio, sarebbero confluite poi
ne Le forme elementari della vita religiosa di Émile Durkheim. In questo libro del 1912, fondato in
larga misura sull’etnografia allora disponibile, Durkheim presentò la sua teoria del culto del
totem come celebrazione dell’unità del clan e forma aurorale di religione, facendo del rapporto
tra il totem e il clan il punto di partenza della sua visione dei rapporti tra società e religione.
14
16
in cui l’atto di culto cementa il legame tra lui e il suo dio, tale atto cementa
anche il legame tra lui e i suoi fratelli in una fede comune.
Abbiamo così raggiunto un punto della nostra discussione a partire dal quale è
possibile tentare una stima generale del valore etico del tipo di religione che è
stato descritto. Il potere della religione sulla vita è duplice: da un lato tale
potere consiste nella associazione di essa con particolari norme di condotta a
cui assegna delle sanzioni sovrannaturali; ma soprattutto tale potere consiste
nel determinare il tono generale e la tempra delle menti degli individui, che in
tal modo vengono spronate al coraggio e a più alti ideali, e le eleva al di sopra
della brutale servitù nei confronti dei istinti fisici insegnando agli uomini che la
loro vita e la loro felicità non sono il semplice trastullo delle cieche forze della
natura, ma che un potere più alto li sorveglia e si prende cura di loro. In quanto
fonte ispiratrice di comportamento, questa influenza è più potente della paura
nelle sanzioni sovrannaturali, dal momento che funge da stimolo, mentre
quest’ultima è semplicemente regolativa15”.
Il rituale di comunione per eccellenza era il sacrificio nel quale il dio
era chiamato a partecipare, come commensale, alla tavola degli
uomini che, nell’atto comune del mangiare e del bere, trovavano
l’occasione per rinsaldare la propria alleanza, tra loro e con la
divinità rappresentativa dell’unità stessa (il prototipo di questa
divinità è lo Yahvé, degli antichi israeliti).
Come molti suoi contemporanei, Smith non poté sottrarsi al
problema di ricostruire le origini del sacrificio. Benché partito da
posizioni “sociologiche” e non “intellettualistiche”, Smith ragionò
molto spesso come il suo collega Tylor. Ciò è chiaramente visibile
nella ricostruzione che egli fa dell’origine del totemismo e delle sue
relazioni con il sacrificio inteso come rito collettivo.
Smith riteneva infatti, come altri (ma non Tylor, come abbiamo
visto), che la prima forma di religione fosse il totemismo, cioè il culto
tributato da un gruppo a un essere animale o vegetale con il quale il
gruppo stesso si autoidentificava.16 Questa identificazione era una
conseguenza dell’usanza dell’orda primitiva di consumare un cibo
in comune, pianta o animale che fosse. Consumando ad esempio la
carne dello stesso animale, gli esseri umani ebbero la sensazione di
essere partecipi della medesima sostanza e quindi di essere non solo
Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 264-66.
L’idea del totemismo come prima forma di religione gli veniva da un altro studioso scozzese,
J. F. Mc Lennan che, nel 1869, aveva pubblicato un importante lavoro proprio su questo
argomento.
15
16
17
“parenti” tra loro, ma anche “parenti” dell’animale. Poiché un pasto
comune non può mantenere per un tempo indeterminato questa
comunanza tra uomini da un lato, e tra questi ultimi e l’animale
dall’altro, il consumo della sostanza comune doveva essere ripetuto
periodicamente per rinnovare nel tempo il legame comunitario tra
gli umani stessi e tra questi ultimi e l’animale. L’idea che tutti
partecipavano, per incorporazione, della stessa sostanza, rafforzava
l’idea di comunione e, al tempo stesso, consolidava l’identificazioni
degli umani con l’animale in questione. Di qui la convinzione, tipica
della religione totemica, che un gruppo umano sia parente del suo
totem, o animale (o vegetale), da cui prende il nome. Scrive infatti
Smith:
“In the course of the last lecture we were led to look with some exactness into the
distinction drawn in the later ages of ancient paganism between ordinary sacrifices,
where the victim is one of the animals commonly used for human food, and
extraordinary or mystical sacrifices, where the significance of the rite lies in an
exceptional act of communion with the godhead, by participation in holy flesh
which is ordinarily forbidden to man. Analysing this distinction, and carrying back
our examination of the evidence to the primitive stage of society in which sacrificial
ritual first took shape, we were led to conclude that in the most ancient times all
sacrificial animals had a sacrosanct character, and that no kind of beast was
offered to the gods which was not too holy to be slain and eaten without a
religious purpose, and without the consent and active participation of the whole clan.
For the most primitive times, therefore, the distinction drawn by later paganism
between ordinary and extra-ordinary sacrifices disappears. In both cases the sacred
function is the act of the whole community, which is conceived as a circle of
brethren, united with one another and with their god by participation in one life or
life-blood. The same blood is supposed to flow also in the veins of the victim, so that
its death is at once a shedding of the tribal blood and a violation of the sanctity of
the divine life that is transfused through every member, human or irrational, of the
sacred circle. Nevertheless the slaughter of such a victim is permitted or required
on solemn occasions, and all the tribesmen partake of its flesh, that they may
thereby cement and seal their mystic unity with one another and with their god.
In later times we find the conception current that any food which two men
partake of together, so that the same substance enters into their j flesh and blood,
is enough to establish some sacred unity of life between them; but in ancient times
this significance seems to be always attached to participation in the flesh of a
sacrosanct victim, and the solemn mystery of its death is justified by the
consideration that only in this way can the sacred cement be procured which creates
or keeps alive a living bond of union between the worshippers and their god. This
18
cement is nothing else than the actual life of the sacred and kindred animal, which
is conceived as residing in its flesh, but especially in its blood, and so, in the sacred
meal, is actually distributed among all the participants, each of whom
incorporates a particle of it with his own individual life.
The notion that, by eating the flesh, or particularly by drinking the blood, of another
living being, a man absorbs its nature or life into his own, is one which appears
among primitive peoples in many forms […]” 17
Il sacrificio di comunione presente nelle religioni pre-monoteiste e
monoteiste sarebbe dunque lo sviluppo di questa prima fase
originaria in cui, comunque, al centro delle preoccupazioni umane
vi era quella di rinsaldare continuamente i legami tra i membri della
comunità, e tra questi e il nume tutelare (è qui che la dimensione
sociologica di Smith prende il sopravvento sull’impostazione
intellettualistica del ragionamento). Molti critici posteriori hanno
fatto notare, come vedremo, che per quanto riguarda l’idea del
sacrificio di comunione, come atto fondante e rinnovante la
comunità, la prospettiva di Smith era influenzata dalla prospettiva
cristiana e dal rito dell’eucaristia in particolare. Questa distorsione
prospettica, certamente presente nella sua opera (dopotutto era un
evoluzionista), è bilanciata tuttavia dal merito di aver posto
l’accento sulla religione non solo come mera speculazione, ma come
qualcosa di sociale, di collettivo, e quindi morale. Inoltre Smith
diede importanza al rito come a serie di atti concreti in cui si
rinnovano continuamente i principi che stanno alla base della
società e del rapporto di questa con le proprie divinità tutelari. Da
ultimo, Smith ha avanzato una teoria del sacrificio che superava
l’idea di quest’ultimo come semplice dono alla divinità. L’idea del
dono non è certamente assente dalle pratiche sacrificali, come
abbiamo visto, ma ne è solo un aspetto, e talvolta nemmeno sempre
il più importante. In fondo quella di Smith era una teoria che non
riduceva la religione a mera speculazione, ma faceva di essa ciò che
pochi anni più tardi i sociologi francesi H. Hubert, M. Mauss e E.
Durkheim (che si ispirarono a Smith, pur criticandolo) avrebbero
definito “un fatto sociale”18.
Lectures, pp. 312-13.
Vale la pena di ricordare anche come in Smith si ha un “superamento” della tesi in base alla
quale il culto sarebbe stato originato dalla paura in esseri sovrumani (incarnazione delle
potenze naturali) e una “frottola” architettata dai sacerdoti a scopi politici. Angoscia, paura,
17
18
19
Un ultimo punto a cui prestare attenzione, anche se certamente
Smith lo enunciò in forma assai indiretta, è l’idea della violenza
come atto fondativo della società e della cultura (Freud – che aveva
letto Smith - in Totem e tabù del 1913 enunciò una teoria
psicoanalitica dell’origine della religione, della cultura e
dell’esogamia che riprendeva proprio questa idea di violenza
iniziale). Per Smith infatti, nell’uccisione dell’animale, poi animaletotem, e quindi nel suo sacrificio, gli esseri umani si riconobbero per
la prima volta come membri di un gruppo e come “parenti” tra loro.
4. Il sacrificio come “consacrazione”: H. Hubert e M. Mauss
Ricollegandoci a quanto abbiamo visto nel paragrafo 1, e in
particolare alla nozione di sacro, possiamo esaminare una delle più
importanti teorie del sacrificio. Henry Hubert e Marcel Mauss
dedicarono al tema un’opera specifica, il Saggio sulla natura e
funzione del sacrificio, pubblicato circa dieci anni dopo il lavoro di
Robertson Smith, nel 189819. Questi due autori erano allievi di Emile
Durkheim, ma non c’è dubbio che molte delle idee confluite poi
nell’opera più celebre del grande sociologo francese, Le forme
elementari della vita religiosa (1912) provenissero dalla loro riflessione.
Nello studio del 1898 Hubert e Mauss intrapresero una critica delle
precedenti teorie del sacrificio, e in particolare di quella di
Robertson Smith. Pur riconoscendo a Roberston Smith di aver
compiuto un progresso rispetto a Tylor, essi ne criticavano la
comune impostazione evoluzionistica per cui, come scrivevano,
“Roberston-Smith si è soffermato a raggruppare genealogicamente i
fatti secondo i rapporti di analogia che credeva scorgere fra di essi”
(p. 15).
L’impostazione data da Mauss e Hubert al problema consisteva
invece di enucleare le forme elementari del sacrificio, ossia quei
tratti fondamentali che, al di là della grande apparente diversità,
potevano essere ritenuti comuni a questo tipo di rituale. Essi, si
senso di inadeguatezza, così come potere autorità e manipolazione politica sono dimensioni
inerenti a qualunque “religione”, ma Smith insistette, dal suo punto di vista, soprattutto sulla
funzione coesiva ed etica svolta dalla religione sul piano sociale.
19
Hubert, H. e Mauss, M. Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002.
20
potrebbe dire, partirono alla ricerca di una struttura comune a tutti
i riti sacrificali.
Mauss e Hubert iniziano con una definizione formale di sacrificio.
Essi precisano a) che la cosa sacrificata è sempre consacrata, cioè
rivestita di un’aura di sacralità, e che b) questa stessa cosa funge da
intermediario tra colui o coloro che devono beneficiare del sacrificio
e la divinità alla quale il sacrificio viene rivolto. Ma ciò non basta,
secondo loro, a definire compiutamente il sacrificio. Infatti vi sono
offerte di cose che non vengono distrutte e offerte di cose che
vengono distrutte, in parte o totalmente. E’ solo in quest’ultimo caso
che si può parlare di sacrificio, ossia quando c’è, diremmo noi, un
atto violento esercitato su quella cosa che funge da intermediario tra
l’uomo e la divinità. Per Mauss e Hubert il sacrificio si presenta
come “un atto religioso che, mediante la consacrazione della
vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo
stato di certi oggetti di cui la persona si interessa” (p. 22)20.
Esistono sacrifici personali e sacrifici oggettivi. I primi sono quelli in
cui è toccata la persona che officia il sacrificio stesso. I secondi sono
quelli in cui sono degli oggetti,reali o ideali, a ricevere direttamente
i benefici dell’azione sacrificale (un campo, una casa, un tempio
ecc.). Esiste dunque un’unità dei sistemi sacrificali ma questa non
può risiedere, come invece ritenevano Tylor (dono) o Smith
(comunione) in qualcosa di sostanziale: essa risiede invece in
qualcosa di formale, in una struttura relazionale tra termini, i cui
effetti sono la modificazione dello “stato morale” del beneficiario
e/o dell’officiante.
Abbiamo dunque la vittima (che viene consacrata), degli officianti
(il cui stato morale viene modificato) così come dei beneficiari che
acquisiscono i vantaggi dell’atto sacrificale e vengono quindi
modificati anch’essi “moralmente”.
Il saggio di Hubert e Mauss si ispira a principi comparativi che sono
differenti da quelli dei loro predecessori evoluzionisti: Anziché
“raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di
analogia che si crede poter scorgere fra di essi” (come dicevano di
Robertson-Smith) i due studiosi francesi si limitano ad esaminare in
Il termine “morale” indica in questo caso la sua condizione sociale di fronte agli altri
componenti di una comunità.
20
21
dettaglio il sacrificio vedico (India classica) e il sacrificio biblico,
corredando questo nucleo di dati relativi a due grandi religioni
(l’induismo e il giudaismo) e ad integrare tale nucleo con qualche
osservazione proveniente dal repertorio antico-classico ed
etnografico contemporaneo.
La struttura fondamentale del sacrificio che essi delineano prevede
la progressiva ascesa della vittima e del sacrificante dallo stato
profano ad uno stato di sacralità che culmina con la distruzione
della vittima stessa e con un progressivo ritorno di vittima e
sacrificante allo stato profano: il sacrificante riprendendo il suo
normale ruolo nella società, la vittima sotto forma di bene d’uso se
viene consumata o come puro resto materiale se viene
completamente distrutta.
Potremmo tradurre in un grafico quanto appena detto. La vittima e
il sacrificante ascendono verso il sacro percorrendo la linea curva di
sinistra (il fatto che la linea sia curva indica che essi vengono
accostati al sacro lentamente con rituali specifici).
Raggiunto il culmine del rituale sacrificale con la distruzione della
vittima, quest’ultima e il sacrificatore “precipitano” ritornando alla
loro condizione profana (linea diritta di destra), ciascuno dei due
tornandovi però in maniera diversa. La vittima come “cosa”, il
sacrificatore come individuo che “ha qualcosa in più di prima” (il
sacro) di cui si deve liberare (in quanto pericoloso) o che deve
tenere su di sé “addomesticandolo” attraverso rituali particolari. La
vittima diventa così un “medium” per comunicare con il sacro, un
intermediario per mettere, essi dicono, in comunicazione il profano
con il sacro:
“Nel caso dell'offerta la comunicazione si fa ugualmente attraverso un
intermediario ma non vi è distruzione. Invero, una consacrazione troppo forte
può avere gravi conseguenze, anche quando non è distruttiva. Tutto ciò che è
22
profondamente inserito nell'ambito religioso è, per ciò stesso, separato dal
mondo profano: più un essere è impregnato di religiosità e più si carica di
interdizioni che lo isolano…..
D'altro canto, tutto quanto entra in contatto troppo intimo con le cose sacre
assume la loro natura e diviene ugualmente sacro. Ora, il sacrificio è compiuto
da profani; l'azione che esso esercita sulle persone e sugli oggetti è finalizzata a
mettere queste persone e questi oggetti nello stato di svolgere il loro ruolo nella
vita temporale. Le une e gli altri possono entrare con vantaggio nel sacrificio
alla sola condizione di poterne uscire. I riti di uscita servono in parte a questo
scopo: essi attenuano l'effetto della consacrazione; ma da soli, non sarebbero in
grado di attenuarlo sufficientemente qualora la consacrazione fosse stata
troppo intensa. L’importante è quindi che il sacrificante o l'oggetto del sacrificio
non la ricevano che smorzata, vale a dire in maniera indiretta. Questa è la
funzione dell'intermediario: grazie al quale i due mondi presenti possono
compenetrarsi l'uno l'altro, pur rimanendo distinti.”
Centrale, in questo schema del sacrificio proposto da Hubert e
Mauss è la coppia concettuale sacro/profano.
Alla base di questa distinzione vi è l’idea, da allora e poi per molto
tempo diffusa nella teoria antropologica, secondo cui il mondo – e
quello dei popoli “primitivi” in particolare - sarebbe percepito
come diviso concettualmente in due sfere di esperienza. Al profano
appartiene l’esperienza sensibile o, si potrebbe meglio dire, il
mondo della prevedibilità, della predittività naturale e della
progettualità umana. Al sacro appartiene invece tutto ciò che non
rientra della sfera del profano, e quindi tutto ciò che sta di là dei
poteri umani.21 In base a questa visione dicotomica della realtà, ogni
variazione, o passaggio, da una condizione all’altra provocherebbe
un’alterazione nell’equilibrio delle forze che sono alla base della
stabilità del mondo medesimo (umano e naturale).
Per quanto desueta sotto molteplici aspetti (per esempio l’idea di un
mondo primitivo totalmente immerso nella dimensione del sacro),
questa teoria si rivelò perspicua in relazione alla struttura dei rituali
che, come mise in luce Arnold Van Gennep nel suo libro I riti di
Durkheim, ne Le forme elementari della vita religiosa (1912) definirà addirittura il sacro come
l’insieme delle “cose separate, intedette”, le quali sono oggetto di credenze e di pratiche
collettive (di qui la celebre definizione di religione come “sistema solidale di credenze e di
pratiche relative a cosa sacre, cioè separate, interdette, le quali uniscono in un’unica comunità
morale, chiamata Chiesa (nel senso di ecclesia, comunità) tutti quelli che vi aderiscono” (p.97).
21
23
passaggio (1909), si articolano in tre fasi. Tali fasi sarebbero un modo
per controllare i “passaggi” di condizione (sociale o spirituale) che
si hanno sempre in tutte le società: uscita da una condizione, di
sospensione e di riaggregazione alla nuova condizione.
Accostarsi al sacro vuol dire dunque abbandonare uno stato di
prevedibilità per avvicinarsi a qualcosa di imprevedibile, vietato,
pericoloso. Lo si potrà fare solo prendendo le debite misure, perché
chiunque pretenda di accostarsi al sacro senza precauzioni, può
essere involontariamente responsabile dello scatenamento di forze
"ambigue", pericolose e diffuse capaci di mettere a repentaglio non
solo la vita di chi compie l’azione, ma anche l’ordine fisico del
mondo e quello “morale” della società.
La teoria del sacrificio di Hubert e Mauss si fonda dunque da un
lato sulla dicotomia sacro/profano e, dall’altro lato, sulla
ritualizzazione che consente la sacralizzazione dell’officiante e della
vittima grazie alla quale gli umani possono accostarsi senza pericoli
alla divinità (sacra) per trarne un beneficio (profano).
Un aspetto saliente della loro teoria è che la vittima e il sacrificante
vengono quasi a fondersi per il fatto che entrambi devono essere
sacralizzati. Il processo di sacralizzazione della vittima giunge al
culmine nel momento in cui è distrutta, cioè quando, secondo
Hubert e Mauss, il sacro che si è per così dire “accumulato” nella
vittima mediante il rito di sacralizzazione, la lascia per raggiungere
definitivamente la sfera che gli è propria, quella del sacro come
opposto al profano. Di qui la spiegazione del fatto che gli esseri
sacrificato sono, dopo distrutti, esseri profani che possono, nel caso,
essere consumati dagli esseri umani.
Il sacro come fatto sociale
Hubert e Mauss si muovono nell’area di pensiero tipica della scuola
di Durkheim. Essi condividevano tutti una teoria proiettiva della
religione. La religione è secondo costoro la “proiezione” di fatti
sociali in una sfera immaginaria, superna. La teoria durkheimiana
della religione (Le forme elementari della vita religiosa, 1912) vede
quest’ultima come una “metafora sacralizzata della società”, per cui
la dipendenza che gli esseri umani elaborano nei confronti delle
24
loro divinità sono in realtà frutto della sensazione, largamente
inconsapevole, che la loro esistenza in quanto singoli è possibile
solo per l’esistenza di una società (altri esempi classici di teorie
proiettive della religione sono quelle di Feuerbach e di Freud).
Il sacro, sebbene “separato” dal profano, non è un’entità statica (per
quanto le religioni lo pensino come tale), perché è la società che si
trasforma, che registra dei cambiamenti. Il sacro, come la società di
cui è una proiezione, è sempre in movimento, cambia cioè a seconda
dell’orientamento sociale. Ciò che più conta per la società (dal
punto di vista della sua coesione) diventa, secondo questi autori,
sacro. Nel 1906 Hubert e Mauss., in una rivisitazione del loro saggio
del 1898, scrissero:
“Dicevamo che le cose sacre sono cose sociali [nel senso che ciò che è sacro è
per natura condiviso in quanto riconosciuto tale da una società o da un gruppo
sociale]. Ora andiamo anche oltre e diciamo che, a nostro avviso, è concepito
come sacro tutto ciò che, per il gruppo e i suoi membri, qualifica la società. Man
mano che gli dei escono dal tempio per diventare cose profane ecco che cose
umane ma sociali come la patria, la proprietà, il lavoro, la personalità umana vi
fanno ingresso una a seguito dell’altra”22
Le trasformazioni del sacrificio
Benché per molti aspetti fossero lontani dalle posizioni degli
evoluzionisti che li avevano preceduto, Hubert e Mauss, come tutti i
durkheimiani, ritenevano possibile tracciare una linea di
trasformazione delle istituzioni religiose, la quale seguiva grosso
modo le trasformazioni delle società di cui erano, in fondo, la
“proiezione”. Queste trasformazioni non seguivano una linea
definita, ma potevano assumere aspetti diversi a seconda delle
circostanze storiche e sociali specifiche. Queste “diramazioni”
nell’evoluzione del sacrificio portano Hubert e Mauss a esplorarne
gli aspetti più diversi ai quali sottosta non solo la struttura
fondamentale di tutti sacrifici, ma sotto i quali si celano
Hubert H. e Mauss M. L’origine dei poteri magici e altri saggi di sociologia religiosa, Newton
Compton, Roma 1977, p. 19 (ed. or 1906).
22
25
rappresentazioni diffuse del rapporto tra umani e esseri
sovrannaturali.
Un tema considerato dai due autori è per esempio, quello del
sacrificio come espulsione del male dalla comunità. Ricollegandosi
ai riti di espiazione tra gli ebrei (il capro espiatorio), essi mostrano
come i rituali che circondano nell’induismo il dio Rudra, divinità
delle greggi, si basino su principi analoghi e mettano addirittura in
scena i prodromi del sacrificio della divinità medesima.
“Vi è però un caso in particolare in cui appare chiaro che il carattere che viene
cosi eliminato è essenzialmente religioso: è quello del toro allo spiedo, vittima
espiatoria del dio Rudra. Rudra il padrone degli animali, colui che ha il potere
di distruggere animali e uomini con la peste e con la febbre; è dunque un dio
pericoloso. Dio del bestiame, è presente entro il gregge e contemporaneamente
lo circonda e lo minaccia. Per allontanarlo, lo si concentra sul più bello dei tori
del gregge, che diventa esso stesso Rudra; viene allevato, consacrato come tale
e gli si rende onore. Poi, almeno secondo alcune tradizioni, lo si sacrifica fuori
dal villaggio, a mezzanotte, in mezzo al bosco e in tal modo Rudra è eliminato.
Rudra degli animali è andato a raggiungere il Rudra dei boschi, dei campi e dei
crocicchi. Lo scopo del sacrificio dunque I'espulsione di un elemento divino”.
Secondo Hubert e Mauss infatti l’identificazione del toro con Rudra
e la sua uccisone sembrano prefigurare l’idea, tipica di molte
religioni, del sacrificio del dio.
Per Hubert e Mauss l’idea del sacrificio del dio è tuttavia
chiaramente individuabile, al suo stato aurorale, in alcuni riti agrari
arcaici e moderni (essi fanno riferimento al folklore europeo).
I riti agrari, compiuti stagionalmente, hanno un significato preciso,
quello di rinnovare la fertilità della terra dispensatrice di
sostentamento per gli umani.
I riti agrari appartengo alla categoria dei sacrifici “oggettivi” (v.
sopra). Essi non riguardano cioè gli esseri umani come tali, ma le
cose, in questo caso i campi, le messi ecc. I riti agrari sono finalizzati
a: 1) riprodurre la fertilità della terra e 2) superare i divieti che
impediscono agli umani di prendere “impunemente” dalla terra i
suoi frutti. I riti agrari infatti non hanno solo lo scopo di “aiutare” la
terra a produrre, ma anche di consentire agli umani di prelevare i
suoi frutti.
26
Gli umani sanno ovviamente che la terra dà i suoi frutti solo se
lavorata da loro, ma sanno anche che il loro lavoro non darà frutti
se la terra non sarà “consenziente”. Dietro questa idea vi è
evidentemente una concezione del rapporto uomo-natura molto
diversa da quella che dall’età moderna e dalla rivoluzione
industriale in poi in maniera particolare, si è elaborata in Europa
circa tale rapporto. 23
La terra si presenta infatti come animata da una “forza” che viene
pensata in forma di “spiriti”. Questi rimangono “latenti” nelle
stagioni improduttive per risvegliarsi con la stagione della fioritura.
Tali spiriti, oltre che essere alla base della fruttificazione dei vegetali
sono anche i loro “guardiani” che, in quanto tali, vanno “bloccati” e,
al tempo stesso, “fissati” alla terra affinché quest’ultima possa dare i
suoi frutti.
“I sacrifici agrari hanno un duplice scopo: prima di tutto sono destinati a
permettere agli uomini di lavorare la terra e di utilizzare i suoi prodotti,
liberandoli dalle interdizioni che li proteggono. In secondo luogo, sono un
modo di rendere fertili i campi coltivati e di conservare la loro vita quando,
dopo il raccolto, appaiono spogli e come morti. La terra e i suoi prodotti, infatti,
sono considerati eminentemente cose vive. Vi è in essi un principio religioso
che è latente durante l'inverno, ricompare in primavera, si manifesta nel
raccolto e, per tale motivo, lo rende ai mortali pericoloso da avvicinare.
Talvolta, persino, questo principio lo si rappresenta come uno spirito che
monta la guardia intorno alle terre e ai frutti; questi gli appartengono e tale
Un caso contemporaneo potrebbe gettare un po’ di luce sull’atteggiamento che le
popolazioni rurali di cui parlano Hubert e Mauss potevano aver avuto nei riguardi della terra.
Le attività agricole dei contadini di Bijapur (India) sono ad esempio ancora oggi condotte nell’
osservanza di un calendario rituale che ha per oggetto la terra. L’uso della terra è guidato una serie di
fattori che, combinati, sono suscettibili di assicurare il benessere alimentare dei contadini. Essi
chiamano guna la qualità del suolo; hada la serie di operazioni che, in accordo con il tipo di suolo, la
disponibilità di acqua, il periodo dell’anno, la varietà delle sementi ecc. devono essere eseguite in
maniera appropriata; e soprattutto hulighe, o “abbondanza concessa”, ciò che si riferisce ai raccolti
concessi loro, appunto, dalla terra. Hulighe (abbondanza concessa) indica dunque la produttività
della terra ma non riflette un orientamento economicistico. Tale concetto incorpora infatti l’idea
che la produttività ha origini “sacre”. È un concetto con forti valenze morali e sociali e che
implica l’obbligo di condividere e di donare agli altri membri della comunità. Il concetto di
hulighe è difatti strettamente connesso con i riti che fanno della terra la fonte di tale
produttività, e della produzione un evento inscritto in un contesto sociale e morale. Tali riti
confermano e rinnovano la “forza” (thakat) della terra. L’introduzione di sementi più
produttive e la modernizzazione dei sistemi irrigui ha scardinato questo universo “morale” dei
contadini di Bijapur.
23
27
appartenenza costituisce la loro santità; bisogna dunque eliminarlo perché il
raccolto o l’uso dei frutti diventino possibili. Ma, nello stesso tempo, esso è vita
stessa del campo, e, dopo averlo espulso, è indispensabile ricrearlo e fissarlo
nella terra di cui costituisce la fertilità. I sacrifici di semplice desacralizzazione
possono adempiere al primo di questi scopi, non al secondo. I sacrifici agrari
hanno dunque, per maggior parte, effetti molteplici e vi si trovano riunite
forme di sacrifici diversi. Essi rappresentano uno dei casi in cui meglio si
osserva questa complessità fondamentale del sacrificio sulla quale non
insisteremo mai abbastanza”.
Affinché lo spirito venga bloccato, cioè messo nell’impossibilità di
reagire di fronte al prelievo dei frutti della terra, quest’ultima va
“desacralizzata”, ossia resa profana. Invece, per fissare lo spirito alla
terra affinché questa continui a produrre, bisogna “sacralizzarla”. E’
quindi necessario compiere due atti opposti: da un lato fare offerte
allo spirito (al dio ecc.) per allontanarlo da ciò che gli uomini voglio
prendere per sé (desacralizzazione); dall’altro lato bisogna invece
aspergere i campi del sangue delle vittime e distribuire i resti della
vittima trai coltivatori (sacralizzazione).
Spesso un medesimo rito può assolvere ai due scopi. In tal caso lo
spirito viene simbolicamente eliminato e al tempo stesso fatto
simbolicamente rivivere. Hubert e Mauss citano un caso dal folklore
europeo, dove vi era, e in parte ancora vi è, l’usanza di celebrare riti
e feste stagionali che simboleggiano la fine dell’anno e l’inizio
dell’anno nuovo, oppure il ritorno della primavera. In certe regioni
d’Europa un manichino ricoperto di una camicia e simboleggiante
lo spirito della vegetazione, veniva interrato al sopraggiungere della
primavera. La camicia però era tolta e posta su un albero in fiore
simboleggiate l’anno nuovo. Sotterrando il manichino lo si
“uccideva”, ma la sua “forza” (o spirito) veniva fatta rivivere
ponendo la camicia che lo ricopriva sull’albero. La continuità della
vita della vegetazione era in tal modo assicurata, e la morte dello
spirito dell’anno agrario vecchio era la condizione per l’arrivo di
quello nuovo.24
Questo tema della continuità della vita nonostante la morte si ricollega a quello della morte
come condizione per poter pensare la vita e la rinascita, un tema che, come vedremo più avanti,
tutte le religioni elaborano indistintamente ancorché in forme anche molto diverse tra loro.
24
28
A giudizio di Hubert e di Mauss l’evoluzione del sacrificio agrario è
alla base della concezione del sacrificio del dio. Quest’ultimo infatti
è il risultato finale di una evoluzione, e non il punto di partenza
dell’evoluzione del sacrifico medesimo. Robertson Smith aveva
posto come primo atto sacrificale il sacrificio del totem, quindi il
sacrificio della prima forma di divinità : per Hubert e Mauss invece
il sacrificio del dio è posteriore al sacrificio al dio.
“In ogni sacrificio vi è, un atto di abnegazione, dal momento che il sacrificante
si priva di qualche cosa e ne fa dono. Questa abnegazione gli viene spesso
persino imposta come un dovere. Il sacrificio infatti non sempre è facoltativo;
gli dèi lo esigono. Agli dèi si deve il culto, il servizio, come dice il rituale
ebraico; si deve la loro parte, come dicono gli Indù. Tuttavia questa
abnegazione, questa sottomissione non sono senza contropartita. Se il
sacrificante dona qualche cosa di sé, non dona se stesso; la sua persona la
riserva prudentemente. Poiché il motivo per cui dona è, in parte, per ricevere.
Il sacrificio si presenta dunque sotto un duplice aspetto: è un atto utile ed è
anche un obbligo. Il disinteresse si mescola all'interesse. Questo rende ragione
del fatto di averlo spesso inteso sotto forma dì contratto. In ultima analisi, non
esiste forse sacrificio che non contenga un qualche cosa di contrattuale. Le due
parti in causa scambiano i loro servizi ed ognuna trova il proprio tornaconto.
Perché gli dèi, anch'essi, hanno bisogno della profanità. Se non gli fosse
riservata una parte delle messi, il dio del grano morirebbe; perché Dioniso
possa rinascere, bisogna che, al tempo della vendemmia, il capro di Dioniso
venga sacrificato; è il soma che gli uomini offrono da bere agli dèi che li rende
forti contro ì démoni. Perché l'essere sacro sussista bisogna lasciargli la sua
parte, ed è sulla parte dei profani che viene prelevata la parte per la divinità.
Tale ambiguità è insita nella natura stessa del sacrificio e dipende
indubbiamente dalla presenza dell'intermediario, e noi sappiamo che senza
intermediario non può esservi sacrificio. Questo perché la vittima è distinta dal
sacrificante e dal dio, essa li mantiene separati pur unendoli; sacrificante e
divinità si avvicinano, ma non si concedono totalmente l'uno all'altra.
Vi è un caso tuttavia, nel quale ogni calcolo egoistico è assente. Si tratta del
sacrificio del dio. Perché il dio che si sacrifica si dona senza contropartita.
Questa volta ogni intermediario è scomparso. Il dio che è nello stesso tempo il
sacrificante fa un tutt'uno con la vittima e talvolta anche con il sacrificatore.
Tutti i diversi elementi che entrano in gioco nei sacrifici ordinari, in questo caso
si integrano gli uni negli altri e si fondono. Inevitabilmente, una tale
compenetrazione non è possibile se non per esseri miti ci, vale a dire per esseri
ideali. Questo spiega come la concezione di un dio che si sacrifica per il mondo
abbia potuto prodursi e sia divenuta, anche per i popoli più civilizzati, più alta
e quasi il vertice ideale dell'abnegazione totale.
29
Ma, come il sacrificio del dio non esce dalla sfera immaginaria della religione,
così si potrebbe credere che l'intero sistema sia soltanto un gioco di immagini.
Le potenze alle quali il fedele si rivolge e per le quali sacrifica i suoi beni più
preziosi sembrano essere nulla di positivo. Coloro che non credono vedono in
questi riti soltanto vane e costose illusioni e si stupiscono che l'intera umanità si
sia accanita a dissipare le proprie forze per fantomatiche divinità”.(pp. 88-90)
In realtà Hubert e Mauss vedono in questa idea di abnegazione
incorporata nel sacrificio del dio qualcosa che ha a che vedere con il
fondamento stesso della società. Innanzitutto le divinità, per quanto
fantomatiche esse siano, sono perché credute, e quindi sono dei fatti
sociali insieme alla credenze relative. In secondo luogo la credenza
nelle divinità esprime una esigenza “sociale” che in una società
priva di divinità non scompare. Di seguito al brano sopra citato ecco
infatti la conclusione del Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio:
“Ma vi sono forse autentiche realtà alle quali si può riferire l'istituzione nella
sua integralità. Le nozioni religiose, poiché sono credute, sono; esse esistono
oggettivamente come fatti sociali. Le cose sacre, in riferimento alle quali
funziona il sacrificio, sono cose sociali e questo basta per spiegare il sacrificio.
Perché il sacrificio abbia un fondamento che lo giustifichi sono necessarie due
condizioni. Prima di tutto bisogna che al di fuori del sacrificante vi siano delle
cose che lo facciano uscire da se stesso e alle quali debba ciò che sacrifica. In
secondo luogo, bisogna che tali cose si trovino vicine a lui, in modo che egli
possa entrarne in rapporto, riceverne la forza e la sicurezza di cui ha bisogno e
trarre dal contatto che stabilisce con esse quei benefici che attende dai suoi riti.
Ora, tale carattere di intima penetrazione e di separazione, di immanenza e di
trascendenza è, nel suo più alto grado, peculiare delle cose sociali. Anch'esse
esistono contemporaneamente, secondo il punto di vista dal quale si guardano,
dentro e fuori l'individuo. Si comprende allora quella che può essere la
funzione del sacrificio, a prescindere dalle espressioni simboliche con le quali il
credente lo esprime a se stesso. Tale funzione è una funzione sociale perché il
sacrificio si riferisce a delle cose sociali.
Da una parte, questa rinuncia personale degli individui o dei gruppi ai loro
beni alimenta le forze sociali. Ovviamente, non che la società abbia bisogno di
quelle cose che costituiscono la materia del sacrificio; tutto qui avviene sul
piano delle idee e si tratta unicamente di energie morali e mentali. Ma l'atto di
abnegazione implicito in ogni sacrificio, richiamando frequentemente alle
coscienze singole la presenza delle forze collettive, alimenta precisamente la
loro, esistenza ideale. Quelle espiazioni e purificazioni generali, quelle
comunioni, quelle sacralizzazioni di gruppi, le creazioni di geni dei centri
abitati, conferiscono o rinnovano periodicamente alla collettività, rappresentata
30
dai suoi dèi, quel carattere buono, forte, grave e terribile, che è uno dei tratti
essenziali di qualsiasi personalità sociale. - Da un'altra parte, in questo stesso
atto, gli individui trovano la loro convenienza: essi conferiscono a sé e alle cose,
delle quali vivono abitualmente, la forza sociale tutta intera. Essi rivestono di
una autorità sociale i loro voti, i loro giuramenti, i loro matrimoni. Circondano
di un alone di santità che li protegge i campi che hanno lavorato, le case che
hanno costruito. Nello stesso tempo, essi ritrovano nel sacrificio il modo di
ricomporre gli equilibri rotti; mediante l'espiazione, si riscattano dalla
maledizione sociale, conseguenza della colpa, e rientrano nella comunità; con la
spartizione che compiono delle
cose delle quali la società si è riservata l'uso, essi ne acquisiscono il diritto di
godimento. La norma sociale viene così mantenuta senza pericolo per gli
individui, senza diminuzione per il gruppo. In tal modo è assolta la funzione
sociale del sacrificio, tanto per i singoli, quanto per l’intera collettività. E poiché
la società è composta non soltanto di uomini bensì di cose e di avvenimenti, è
facile intuire come il sacrificio possa seguire e riprodurre contemporaneamente
il ritmo della vita umana e quello della natura; come abbia potuto divenire
periodico secondo le scadenze dei fenomeni naturali, occasionale come i
bisogni momentanei degli uomini, e come infine abbia potuto adattarsi a mille
funzioni.
Si è del resto potuto constatare, cammin facendo, quante credenze, quante
pratiche sociali, che non sono propriamente religiose, si trovano in relazione
con il sacrificio. Si è parlato via via del contratto, del riscatto, della pena, del
dono, dell'abnegazione, delle concezioni relative all'anima e all'immortalità che
sono elementi che stanno ancora alla base della morale comune. Questo sta a
significare quale importanza ha per la sociologia la nozione di sacrificio.
Ovviamente, in questo lavoro, non ci eravamo proposti di seguire la nozione
del sacrificio nel suo sviluppo e attraverso le sue molteplici ramificazioni:
l'obiettivo che ci siamo prefissi era semplicemente di cercare di costituirla, di
darle un fondamento” (pp. 90-91).
5. L’illusione sacrificale e il ”cristianocentrismo”
Al termine di questa rivisitazione di tre celebri teorie del sacrificio
(Tylor, Robertson-Smith, Hubert e Mauss) è venuto adesso il
momento di trattare quelli che, secondo alcuni autori recenti,
sarebbero i loro limiti e i loro pregi rispettivi.
La prima di queste critiche è quella avanzata dall’antichista Marcel
Detienne che, a partire dal caso del sacrificio greco, ritiene di
respingere la teoria di Hubert e Mauss del sacrificio in quanto “atto
31
di consacrazione”.25 Come abbiamo visto, infatti, i due autori
avevano sostenuto che l’essenza del sacrificio consistesse nel
mettere in contatto la vittima e il sacrificante con la sfera del sacro.
Secondo Detienne, tuttavia, nel sacrificio greco né la vittima né il
sacrificante abbandonano mai il mondo profano per il mondo sacro.
E’ però difficile valutare questa affermazione. Detienne si fonda su
testi che probabilmente non affermano effettivamente nulla in
direzione delle tesi di Hubert e Mauss, ma il fatto è che non ci si può
fermare alle “apparenze”, bensì superarle come fanno Hubert e
Mauss e come dovrebbe fare ogni indagine di tipo antropologico. Il
fatto insomma che nei testi antichi non ci sia alcuna affermazione
esplicita al riguardo di un “allontanamento dal mondo” di vittima e
sacrificante non implica necessaramente che non vi sia
sacralizzazione, che non vi sia cioè intenzione di compiere un
accostamento al sacro. Se dovessimo negare l’idea che esiste un
accostamento sacro sulla base del fatto che nessuno degli interessati
lo afferma, commetteremmo una ingenuità diametralmente
opposta, ma nella sostanza simile, a quella che Geertz ammette di
aver commesso chiedendo a un balinese se pensasse che Rangda
fosse vera……26
Partendo da questa premessa, Detienne cerca di demolire non solo
l’idea della sacralizzazione come caratteristica dell’atto sacrificale
(da lui considerato come atto che autorizza la partecipazione ad una
comunità politica)27, ma anche quella secondo cui il sacrificio si
presenterebbe come un fenomeno unitario. Secondo Detienne
infatti, proprio come il totemismo è stato il frutto di un’
immaginazione antropologica che ha riunito sotto una stessa
rubrica fatti etnologici eterogenei ritenendo che avessero una natura
comune28, anche il sacrificio è stato il prodotto di una illusione.
Per Detienne infatti, la visione del sacrificio sviluppata dalle scienze
religiose ( storia delle religioni e antropologia della religione)
Tutti i riferimenti a detienne riguardano il saggio “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio” in
Detienne, M. e Vernant, J-P. (a cura) La cucina del sacrificio in terra greca, Boringieri, Torino 1982
(ed. or. 1979).
26 Cfr. C. Geertz, La religione, ecc. p. 149.
27 In questo Detienne ricalca la teoria di Robertson-Smith relativa al sacrificio come rito
comunitario, e quindi politico, che tuttavia egli critica per i motivi che ora vedremo.
28 La critica radicale del totemismo venne sviluppata da Lévi-Strauss nel volume Il totemismo
oggi (1962).
25
32
dipende da una serie di “mosse” derivanti dalla inconsapevole
assunzione della teoria del sacrificio cristiano come ispiratrice dello
sguardo storico e antropologico sul fenomeno.29 Il sacrificio infatti,
con lo sviluppo delle scienze religiose, assume uno statuto teorico
preciso consentendo ad esempio di connettere sacrificio stesso e
totemismo in quanto prima forma di religione.
“Ma la teoria di Mauss è soltanto un episodio della grande impresa che, da
Robertson Smith [in poi], elabora la categoria culturale del sacrificio
collocandola al centro di quello che si decide allora di chiamare la religione.
L'illusione suscitata dal totemismo negli stessi anni, tra il 1885 e il 1920, non
sarebbe stata così totale se la figura del totem non avesse portato con sé,
insieme al problema della divisione tra l'uomo e il mondo animale e vegetale,
una preoccupata domanda sul potere, attribuito a certi riti sacrificali, di
mantenere tra l'uomo e l'animale una forma di comunanza. Oscillante tra la
bestia e l'aspetto umano, all'incrocio tra l'antico fondo agrario del Vicino
Oriente e le nuove attese suscitate dalle religioni di salvezza, un dio come
Dioniso ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione di questa teoria,
condivisa, alla fine del secolo scorso, da intellettuali preoccupati di tracciare un
confine tra i rituali selvaggi e ripugnanti, lasciati al "popoli allo stato di natura"
(Naturvólker), e quelle forme il cui valore morale e la cui tensione spirituale non
lasciavano dubbi sulla loro appartenenza alla sfera della religione. Con
Robertson Smith e la sua analisi antropologica della religione dei semiti
s'inaugura un percorso che parte dal mondo biblico per arrivare ai margini del
cristianesimo, fino al cuore del razionalismo occidentale.
Senza dubbio, il sacrificio è da sempre, in ambito cristiano, l'atto di culto che
serve alla religione come pietra di paragone, la cui efficacia è continuamente
verificata dal resoconti dei viaggiatori. "Esso - osserva il missionario gesuita
Joseph-François Lafitau nel 1724 - è antico come la religione stessa, ed esteso
quanto le nazioni sottomesse alla religione, poiché non ce n'è una sola in cui il
sacrificio non sia stato in uso, e in cui non sia stato nello stesso tempo una
prova della religione." Ma solo con l'avvento di una "scienza delle religioni", in
pieno diciannovesimo secolo, il sacrificio assume uno statuto teorico preciso.
Domina una prospettiva, l'evoluzionismo, e nell'indagine aperta per scrivere
una storia delle forme elementari della religione, il totemismo, accreditato di un
carattere universale, appare come il prototipo di ogni atto sacrificale. Nella
manducazione dell'animale totem immolato dal clan, Robertson Smith
riconosce le due componenti essenziali del sacrificio: il pasto in comune e
l'alleanza per mezzo del sangue……(pp. 20-21)
Già ai primi del Novecento era stato fatto osservare per esempio come Robertson-Smith,
parlando del sacrificio di comunione fosse influenzato dal rito dell’Eucarestia.
29
33
Oggi, col distacco reso possibile dalle analisi raccolte in questo volume, ci pare
importante rilevare che la nozione di "sacrificio" è una categoria del pensiero di
ieri, altrettanto arbitraria quanto quella di "totemismo", denunciata di recente
da Lévi-Strauss: una categoria costruita in modo artificiale per mettere insieme
elementi di diversa provenienza etnologica, e che ben dimostra l'egemonia
sotterranea esercitata dalla visione cristiana su storici e sociologi convinti
d'inventare una nuova scienza” (p. 26).
Sebbene inconsapevolmente, Hubert e Mauss avrebbero dunque,
secondo Detienne, messo ancora una volta il sacrificio al centro
della teoria religiosa. Prova ne è la loro considerazione del sacrificio
del dio come culmine non tanto storico, ma logico dell’intera
evoluzione sacrificale (in realtà questo culmine logico sarebbe
dettato in loro da un pregiudizio cristianocentrico). Detienne dice
che se per Hubert e Mauss il sacrificio al dio può venire a fondare
l’ordine sociale in quanto contiene in sé l’idea di abnegazione (come
in Tylor), il sacrificio del dio sarebbe l’espressione più alta di questa
abnegazione medesima e resterebbe alla fine nella teologia cristiana
in forma sublimata. L’agnello pasquale sarebbe l’equivalente di
Cristo…….30 Il sacrificio del dio cristiano sarebbe insomma, per
Hubert e Mauss, il trionfo dell’abnegazione e la fine dell’aspetto
contrattuale e comunitario del sacrificio. Per Detienne tuttavia, ciò
sarebbe un falso punto di arrivo, in quanto è, in realtà il punto di
partenza del ragionamento dei due autori, punto di partenza che
consente di leggere il sacrificio in maniera unitaria, in una società in
cui la religione è pensata entro i termini del cristianesimo, alla luce
cioè di una inconsapevole teoria locale della religione (il
cristianesimo) “preso per” una scienza.
Questa stessa “precomprensione” del sacrificio derivante
dall’inconsapevole adozione del punto di vista cristiano, avrebbe
condotto E. Durkheim, per il quale il sacrificio era comunione,
rinuncia e abnegazione al tempo stesso, a vedere il sacrificio “ più
semplice” come già pervaso da una “forza morale”, cioè come
Secondo Detienne lo schema di Hubert e Mauss non funziona perché nel sacrificio del dio
cristiano le “figure” del sacrificante e della vittima di sovrapporrebbero. Verrebbe quindi meno
il termine intermedio che è ciò “a cui si sacrifica” (un dio). Ma non si vede perché tali figure
non potrebbero sovrapporsi. Anzi, c’è di più. Infatti il sacrificio di Cristo può apparire come un
evento che, oltre alla due precedenti figure, cumula anche quella del beneficiario e
dell’intermediario, visto che Cristo redime, come uomo, gli uomini, e si sacrifica a Dio Padre.
30
34
abnegazione e rinuncia dal momento che non può esserci
comunione (società) senza rinuncia. Durkheim si opponeva in realtà
a quegli autori vicini al pensiero cristiano (per lo più i missionarietnologi) che attaccavano Robertson Smith per aver voluto vedere
una sostanziale unità storica ( in quanto evolutiva) nel rito
sacrificale. Per quegli autori mitologia e religione segnavano
nettamente la differenza tra primitivi e civilizzati rispettivamente,
per cui l’idea di tracciare una linea di continuità tra costumi
giudicati barbari e il sacrificio di Cristo ( o comunque le idee
sublimate del sacrificio presenti anche in altre grandi religioni)
sembrava voler accomunare un rito aberrante e un mistero
spirituale. Così scrive Detienne:
“Siamo invitati [da Durkheim] allo spettacolo dell'Intichiuma . Ci viene
presentato il clan del Bruco. E’ già un gruppo rispettabile, non più un'orda, una
"massa instabile di individui", ….. Il clan del Bruco forma un gruppo
organizzato; è una società che presenta caratteri civili; ha la sua bandiera, un
emblema animale, il bruco, con il quale il clan s'identifica emotivamente. E
ancora, il clan del Bruco ha una sua festa che, fissata dal capo, si svolge in due
fasi. La prima è occupata da riti destinati ad assicurare da proibizioni e
contrassegnati da proibizioni e da pratiche ascetiche: gli uomini del clan fanno
scorrere il loro sangue per rianimare le virtù del totem e, nello stesso tempo, si
fanno assoluto divieto di mangiare i rappresentanti della loro specie totemica.
L'annullamento dei divieti caratterizza la seconda fase: grande raccolta di
bruchi, e tutti ne mangiano in abbondanza; al centro, il pasto del capo, a cui si
offre qualche esemplare che egli incorpora solennemente allo scopo di ricreare
la specie.
Quali sono gli elementi essenziali dello schema sacrificale iscritto in questo
spettacolo primitivo? Durkheim rende ampio omaggio alla chiaroveggenza di
Robertson Smith, che, da Aberdeen in Scozia, e senza aver mai assistito
all'Intichiuma, aveva riconosciuto nel sacrificio originario un atto di comunione
alimentare, cioè un pasto che permette a un gruppo umano e a una potenza
divina di entrare in comunione in una stessa carne, commemorando la loro
parentela naturale. Il pasto totemico, scoperto in seguito, permette di precisare
questo modello, mostrando che la comunione alimentare avviene attraverso
l'incorporazione del principio vitale del clan, della sua anima personificata.
Durante il pasto totemico si mangia l'essere sacro, immolato solo dai suoi
adoratori. Ma Durkheim va più lontano. Il sacrificio non è solo comunione: esso
è anche, come mostra la sua forma primitiva, rinuncia e abnegazione.
Nell'Inchiuma, il gesto decisivo non è l'atto del mangiare, ma l'offerta; e
l'oblazione obbedisce a una ragione superiore: l'atto dell'offrire implica l'idea di
35
un soggetto morale che l'offerta è destinata a soddisfare. Grazie al clan del
Bruco, il dubbio non è più permesso: non può esserci comunione senza
rinuncia. Il sacrificio più rozzo, il più primitivo, è già ispirato da una forza
morale.
In quegli stessi anni, molti storici delle religioni, obbedendo a intenzioni -erse,
mettono a confronto il sacramento dell'eucarestia, in cui il cristiano mangia il
corpo del Signore e ne beve il sangue, con la pratica molto antica degli
adoratori di Dioniso che dilaniano e divorano vittime animali credendo di
mangiare la carne del dio. Gli apologeti della fede cristiana, come il
domenicano Marie-Joseph Lagrange, reagiscono con fermezza e denunciano
‘l’aberrazione del senso religioso in clan di civiltà molto inferiore’ in cui si
praticano riti ‘carnali e disgustosi’.
Per evitare la confusione tra i rozzi riti dei popoli allo stato di natura e il
mistero spirituale dell'eucarestia che caratterizza la religione cristiana, cioè
l'unica vera, si opera una distinzione all'interno del sacrificio tra un istinto
degenerato fino alla pratica abbietta di divorare carni crude e sanguinanti, e la
nobile tendenza a una comunione puramente spirituale, in cui l'atto del
mangiare è irrilevante, e gli aspetti alimentari sono sviliti e come negati. Uno
dei maggiori rimproveri che l'esegesi cattolica muove a Robertson Smith è
proprio di aver confuso la frontiera tra quella che Lagrange chiama insieme ad
altri Mitologia, e in cui imperversa l'animismo, riconoscibile per i suoi aspetti
scandalosi, e la Religione, che non appartiene allo stesso piano della Natura,
poiché si manifesta solo al livello delle civiltà evolute, insieme con l'esigenza
morale.
Mostrando che l'offerta più primitiva, e quindi più semplice, implica un gesto
di rinuncia e postula un soggetto morale, l'analisi di Durkheim va proprio nello
stesso senso. Tuttavia, per Durkheim, tra il clan del Bruco, dove la società
s'instituisce nella sua forma elementare, e gli ambienti cattolici, protestanti o
ebraici di elevata spiritualità, non c'è frattura, ma solo una differenza di grado.
Ai due estremi troviamo una stessa tensione etica, che fa passare in secondo
piano i costumi alimentari, il rituale dell'uccisione, la natura delle vittime: tutto
ciò, insomma, che non costituisce l'essenza del rapporto sacrificale, cioè,
appunto, lo spirito di sacrificio. "Stiamo attraversando una fase di mediocrità
morale": la costatazione che Durkheim fa al termine delle Forme elementari della
vita religiosa è la motivazione profonda della scuola sociologica. Come la
scienza della civiltà di Edward B. Tylor, l'analisi sociale degli allievi di
Durkheim è animata dallo spirito di riforma. La sociologia, scrive Georges
Davy, doveva essere quella filosofia che avrebbe contribuito a consolidare
definitivamente la repubblica e a ispirare riforme razionali, dando nello stesso
tempo alla nazione un principio d'ordine e una dottrina morale.` Nella sua
riflessione sullo Stato, nelle sue lezioni sul socialismo, o quando redige, nel
1916, in piena prima guerra mondiale, un corso di morale per la scuola
primaria, Durkheim applica la stessa strategia.'9 La scuola di domani deve
stabilire l'autorità morale, inculcando nel bambino la religione della regola,
36
insegnandogli la gioia di agire in armonia con gli altri, secondo una legge
impersonale comune a tutti";" la missione del socialismo è di far risorgere una
nuova solidarietà morale tra gli uomini….” (pp. 22-25).
In realtà lo scopo di Durkheim, sostiene Detienne, era quello di
mostrare che l’offerta più rozza contiene in sé una forma
embrionale di moralità. Per Durkheim, come per gli antropologi
della sua epoca, e di quelle successive, non c’è frattura, ma
differenza di grado: questo è senza dubbio un residuo
evoluzionistico, ma corrisponde all’idea, interpretata poi altrimenti
dall’antropologia, secondo cui il genere umano appartiene alla
stessa specie e il pensiero stesso, pur declinato diversamente a
seconda della “storia culturale” di ciascun gruppo, è sempre
“pensiero umano”.
L’dea di abnegazione di sé come culmine del sacrifico (storicamente
esemplificato dalla morte di Cristo) fa dunque capo, secondo
Detienne, all’dea di Hubert e Mauss secondo cui la rinuncia fonda
la comunità morale. Il dono, il desiderio di donare, sono parte
fondante dell’impulso dell’uomo come essere eminentemente
sociale.
Secondo Detienne, pertanto, la teoria del sacrificio di Hubert e
Mauss (e di Durkheim) dipenderebbe (e quindi sarebbe inficiata)
dall’adozione implicita di una prospettiva cristiana “a ritroso”.
In effetti il sacrificio del dio si presenta, secondo questi autori, come
un atto “senza contropartita”. Il passaggio dal dono inteso come
legame tra uomini e divinità appare definitivamente come
abnegazione e sacrificio di sé allo stato puro. In questi autori la
prospettiva sul sacrificio dipendeva, è vero, dalle loro inclinazioni
teoriche sociocentriche (l’individuo non esiste al di fuori della
società). Probabilmente era anche influenzata, come dice Detienne,
dal loro “cistianocentrismo” (pur non essendo loro né praticanti, né,
nella maggior parte dei casi, cristiani, ma piuttosto con origini e
tradizioni ebraiche). La loro prospettiva dipendeva anche dalla loro
concezione politica. Erano infatti dei socialisti riformisti, e per loro
l’individuo non poteva che trovare la sua “salvezza” all’interno di
un corpo sociale per il quale egli doveva essere pronto a sacrificarsi.
Non era, la loro, un’ideologia totalitaria che poneva lo stato sopra
ogni altra cosa, era invece una concezione del corpo sociale formato
37
da individui responsabili e capaci di aderire volontariamente
all’interesse generale.31
“Con l’attività sacrificale la collettività acquista ‘quel carattere buono, forte,
solenne, terribile’ che è uno degli aspetti essenziali di ogni personalità sociale.
La patria, la proprietà, il lavoro, la persona umana devono essere ascritte a
credito del sacrificio come fenomeno sociale. L'ascesi implicita in questa
istituzione permette all'uomo di scoprire in sé un centro fisso: l'unità del volere,
di fronte al flusso molteplice e divergente delle pulsioni sensibili. Il dono, il
desiderio di donare, l'oblazione confermano questo orientamento. L'essere
umano si distacca, in una certa misura, dagli oggetti del desiderio immediato.
Dalle forme fondamentali del totemismo fino all'instaurazione del sacrificio
animale nelle religioni superiori, questo movimento si amplifica, fino a
raggiungere il culmine nell'immagine del dio che si sacrifica, figura suprema
che conferisce al sacrificio il suo vero significato e coniuga……la mitologia dei
misteri di Dioniso con l'esemplare spiritualità del mistero cristiano
dell'eucarestia” (pp.25-26).
6. Il “sacrificio”: una nozione utile?
Dopo la critica di Detienne all’idea di sacrificio come idea capace di
comprendere tutti i fatti etnologici normalmente designati come tali
(per effetto di un’illusione simile a quella che ha tenuto per lungo
tempo in vita l’illusione totemica) dobbiamo effettivamente
chiederci se può avere ancora un senso parlare di sacrificio come di
una categoria di fatti sociali riconducibili ad un denominatore
comune. Valerio Valeri, in un lungo e dettagliato articolo dedicato
all’etnografia della caccia e del sacrificio tra gli huaulu di Ceram
(Indonesia)32 respinge la proposta di Detienne sulla base di
considerazioni analoghe a quelle che lo inducono a ritenere che la
questione dell’illusione totemica sia posta in maniera riduttiva33.
Al termine della sua vita Mauss (che morì nel 1950) sembra essersi pentito di questa visione
“sacrificale” della vita sociale, così come sembrò esprimere perplessità per alcuni aspetti della
sua opera (si pensi soprattutto gli studi sulla magia) che avevano toccato i lati “oscuri” del
comportamento e del pensiero umani. Mauss, discendente da una famiglia di rabbini, si
sottrasse alla persecuzione razziale messa in opera in Francia dai nazisti e dai collaborazionisti
francesi, a cui Mauss temeva di aver dato un indiretto aiuto nel coltivare i miti del sangue, del
sacrificio e della violenza.
32 Valeri, V., Wild Victims: Hunting as Sacrifice and Sacrifice as Hunting in Huaulu , 1994.
33 Lévi-Strauss, sostiene Valeri, ha sicuramente mostrato l’inconsistenza del termine così come
questo era stato impiegato sino ad allora, ma la riduzione del totemismo a sistema
classificatorio dei gruppi umani attraverso le specie, e viceversa, elimina il problema del culto
31
38
Valeri propone infatti di adottare la prospettiva di Wittgenstein: i
riti chiamati sacrifici sono fenomeni che, pur avendo alcune
caratteristiche in comune, non le possiedono tutte allo stesso grado
contemporaneamente, al punto che alcuni di tali fenomeni possono
non avere elementi in comune ma essere in relazione attraverso le
caratteristiche che condividono con altri della stessa “famiglia”.34
Valeri ritiene pertanto che, sulla base di questa prospettiva, si possa
procedere ad una definizione di che cosa siano i riti chiamati
“sacrifici” sulla base di qualcosa che li accomuna. Si tratta di una
caratteristica non evidente: essa non è enunciata dagli interessati, ma
è resa manifesta da un atto che consiste nell’ esercitare ritualmente
(cioè nel rispetto di un codice che si vuole sempre identico a sé
stesso) una azione distruttiva di una vita o di rimozione dalla sfera
umana di un bene considerato prezioso (perché è segno di vita) allo
scopo di procurare dei benefici. I benefici a cui mira il sacrificio
possono essere molto diversi di volta in volta, ma tutti hanno un
denominatore comune: “mantenere e implementare la vita di colui
che ha promosso il rito e dei suoi ospiti” (Valeri 1994: 105).
7. Il sacrificio come dono: due visioni e le loro interpretazioni
Tuttavia qui non ci interessa
meno di ritenere valida la
sacrificio. Più interessante
cristianocentrismo attribuito
tanto la questione dell’opportunità o
categoria antropologico-religiosa di
ci sembra invece, partendo dal
da Detienne e Hubert e Mauss,
che lega il totem alle unità sociali e “oscura i processi di oggettificazione e di feticizzazione
attraverso cui animali, vegetali, o minerali, diventano totem” (1994:102).
34 La nozione di “somiglianza di famiglia” coniata da Wittgenstein potrebbe essere illustrata
nella maniera seguente. Prendiamo il caso di tre rituali “sacrificali” (A, B, C) al cui interno
compaiono la dimensione dell’offerta (p), del dono (q), della comunione con la divinità (r) e
della comunione tra i fedeli (s). I tratti non sono mai presenti contemporaneamente in nessuno
dei tre “sacrifici”. Così:
A p q
B
q r
C
r s
A non ha nessuna delle caratteristiche di C, però ha qualcosa in comune con B che a sua volta
ha qualcosa in comune con C. A e C appartengono, secondo la teoria delle somiglianze di
famiglia di Wittgenstein, alla stessa “famiglia”. E quindi sono legittimamente definibili come
“sacrifici”.
39
prendere in considerazione la lettura cristiana del sacrificio nella
quale quest’ultimo è pressoché identificato con un “dono” (di sé).
Lo stesso Mauss, d’altronde, è autore di un classico studio sul dono,
(il Saggio sul dono del 1923-24) nel quale egli si sforzò di delucidare
quella che resta una sua intuizione fondamentale, cioè la natura di
legame sociale (o, come qualcuno ha detto, di legante) dell’atto del
donare.
Si potrebbe dire, a scopo di chiarezza, che abbiamo a che fare con
due grandi concezioni del dono. Una, quella che fa capo a Mauss, e
di cui parleremo più oltre, che fa del dono un atto sociale di
primaria importanza. Un’altra, che si ispira più direttamente alla
idea del dono come abnegazione, sacrificio di sé, come totale
dedizione all’altro. E’ la concezione che del dono ha il cristianesimo
e che, come è stato fatto osservare, è condivisa da molte altre
religioni, specialmente quelle salvifiche (indù, buddista, giudaica,
musulmana).
Non è che la teoria di Mauss sia del tutto esente dalla concezione
del dono come dono di sé : infatti non solo nel saggio sul sacrificio
scritto con Hubert, ma anche nella parte finale del suo lavoro del
1923-24, Mauss parla ancora una volta del dono in chiave “morale”.
Tuttavia nella visione cristiana del dono, e in alcune interpretazioni
che filosofi hanno dato recentemente del dono, quest’ultimo non
appare con le valenze sociologiche attribuitegli per la prima volta in
maniera esplicita da Mauss, ma resta un “moto dello spirito”. Il
filosofo francese Jacques Derrida, ad esempio, in alcuni lavori
recenti35 ha ridiscusso l’atto del dono attraverso una raffinata
ricognizione degli usi linguistici che noi facciamo di questa parola, e
ha parlato di “impossibilità del dono”, in quanto il dono sarebbe un
donare totale e disinteressato che, una volta percepito come dono
da colui che dona o da colui che riceve, lo fa cessare di essere “un
dono”, in quanto attiva immediatamente un’idea di ritorno che
nega la idea di dono medesima. Secondo alcuni autori quello di
Derrida è una sorta di “idealismo intransigente” che oscura la
portata sociologica dell’atto del donare così come è stata messa in
luce da Mauss. Secondo tali autori (in particolare Alain Caillé 36),
35
36
Derrida, J. Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002 , Donare il tempo, Cortina, Milano, 1996.
Caillé, A. Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati, Torino 1998 (1994).
40
Derrida “enfatizza il punto di fuga delle grandi religioni” (p. 98)
almeno nel senso che tutte le grandi religioni si sono fatte
promotrici di una “progressiva eliminazione degli aspetti
narcisistico-particolaristici del dono e dell’amore” (ibidem) e in
fondo, il cristianesimo potrebbe essere anche considerato come “una
macchina logico-storico-pratica per assiomatizzare il dono”
(ibidem). Ma con il suo “idealismo intransigente” Derrida finisce
per parlare di una cosa alquanto diversa da quella di cui parla
Mauss. Mauss parla del fenomeno del dono nella sua complessa
articolazione sociale e morale, mentre Derrida pretende di
restringere il tema a quest’ultimo aspetto. Così facendo, dice ad
esempio Caillé, Derrida vorrebbe un dono “depurato dal suo
proprio veleno, un gift senza gift” (ibidem). Che cosa significhi
quest’ultima affermazione di Caillé appare evidente quando si
consideri che gift (in inglese moderno “dono”) voleva anche dire
“veleno”37. Mauss sostenne infatti che il termine gift era indicativo
del fatto che donando si metteva il donatario nella condizione di
sentirsi obbligato a restituire e quindi impegnarlo in uno scambio
che poteva anche non essere nel suo interesse.
8. Il dono come legame: M. Mauss
E’ invece la dimensione sociale del dono e la sua funzione di legante
che Mauss mise al centro del suo lavoro del 1923-24.
Utilizzando l’etnografia del tempo, specialmente i lavori di Franz
Boas sulle popolazioni della costa nord-ocidentale degli Stati Uniti e
del Canada, e quelli di Bronislaw Malinowski sulle popolazioni
delle Trobriand (Melanesia), Mauss mise in evidenza il carattere
socialmente pervasivo di atti apparentemente ascrivibili alla sfera
dello scambio e dell’interesse economico. Lo scopo di Mauss era di
mostrare come nelle società da lui chiamate “arcaiche” le
transazioni implicassero l’attivazione di più livelli di significato,
religioso, rituale, politico, affettivo ecc. Mauss definì quindi le
“gare” di esibizione di beni attuate dai nativi americani, e lo
scambio dei trobriand, fatti sociali totali.
Questa capacità delle parole di designare due cose contrarie non è rara. Il termine pharmacon
significa in greco “rimedio” ma anche “veleno”
37
41
“Questo lavoro è un frammento di studi più vasti. Da anni, la nostra attenzione
è concentrata, a un tempo, sul regime del diritto contrattuale e sul sistema delle
prestazioni economiche tra i diversi gruppi e sottogruppi, di cui si
compongono le società dette primitive, nonché quelle che potremmo chiamare
arcaiche. Ci troviamo d fronte a un'enorme quantità di fatti, tutti molto
complessi, in cu si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente sociale
delle società che hanno preceduto le nostre - fino a quelle della protostoria. In
questi fenomeni sociali « totali », come noi proponiamo di chiamarli, trovano
espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose,
giuridiche e morali - queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo -,
nonché economiche, con le forme particolari della produzione e del consumo, o
piuttosto della prestazione e della distribuzione che esse presuppongono; senza
contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni
morfologici che queste istituzioni rivelano.
Di tutti questi argomenti molto complessi e di questa molteplicità di cose
sociali in movimento, intendiamo considerare qui solo uno dei tratti, profondo
ma isolato: il carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e
gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni. Esse hanno
rivestito quasi sempre la
forma del dono, del regalo offerto generosamente, anche quando nel gesto che
accompagna la transazione, non c'è che finzione, formalismo e menzogna
sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico. Pur indicando con precisione
tutti i diversi principi che hanno conferito questo aspetto a una forma
necessaria dello scambio - cioè a dire della stessa divisione del lavoro sociale di tutti questi principi, ne studieremo a fondo uno solo. Qual è la norma di diritto
e di interesse che, nelle società di tipo arretrato o arcaico, fa sì che il donativo ricevuto
sia obbligatoriamente ricambiato? Quale lorza contenuta nella cosa donata fa sì che il
donatario la ricambi? Ecco il problema sul quale ci fermeremo in modo più
particolare, pur accennando agli altri. Ci ripromettiamo di dare, per un numero
abbastanza grande di fatti, una risposta a queste domande precise e di mostrare
in quale direzione sia possibile intraprendere tutto uno studio delle questioni
connesse. Si vedrà anche a quali problemi nuovi verremo introdotti: gli uni,
riguardanti una forma permanente della morale contrattuale, e cioè il modo in
cui il diritto reale resta ancora ai nostri giorni legato al diritto personale; gli
altri, concernenti le forme e le idee che hanno sempre presieduto, quanto meno
parzialmente, allo scambio e che, ancora oggi, suppliscono in parte alla nozione
di interesse individuale.” (pp. 5-6)
All’inizio del suo lavoro Mauss accenna al fatto che è attraverso un
lungo tragitto che il dono, dalle forme agonistiche iniziali
riscontrabili ancora oggi tra i nativi nordamericani si è trasformato
via via con il tempo in forme più complesse di transazione e che
42
esso ha finito, in fondo, per tramutarsi in un problema di “morale
sociale” (alludendo alla questione del dono disinteressato e dell’
abnegazione evocati chiaramente nel Saggio sul sacrificio):
“Raggiungeremo, così, un duplice scopo. Perverremo, cioè, a conclusioni, per
così dire archeologiche, sulla natura delle transazioni umane nelle società che ci
circondano o che ci hanno immediatamente preceduto. Descriveremo i
fenomeni riguardanti lo scambio e il contratto in tali società che non sono prive
di mercati economici, come si è preteso di sostenere - il mercato, infatti, è un
fenomeno umano che, secondo noi, è presente in ogni società conosciuta -, ma il
cui regime di scambio è diverso dal nostro……
Vedremo agire in queste transazioni la morale e l'economia. E poiché
constateremo che la morale e l'economia operano ancora nelle nostre società in
modo costante e, per così dire, soggiacente, e poiché crediamo di avere trovato
qui uno dei capisaldi su sono costruite le nostre società, potremo dedurne
alcune conclusioni morali su taluni problemi posti dalla crisi del nostro diritto e
da quella della nostra economia, e ci fermeremo a questo punto.
Questa pagina di storia sociale, di sociologia teorica, di conclusioni di morale,
di pratica politica ed economica, ci induce, in fondo, a porre una volta di più,
sotto forme nuove, vecchi ma sempre nuovi problemi” (pp. 6-7).
L’analisi del dono condotta da Mauss si articola, come abbiamo
detto, sull’etnografia del tempo. Molti spunti provengono a Mauss,
oltre che da Boas e Malinowski, anche da etnografi tedeschi e
olandesi impegnati in ricerche in Oceania. Il “caso” chiave” di tutto
il Saggio sul dono è costituito tuttavia dall’interpretazione maori
dello scambio (Nuova Zelanda), sui quali Mauss edifica la sua teoria
del dono come complesso di atti consistente nel dare-riceverericambiare.
Tre erano le regole che, per Mauss, sottostavano al fenomeno del
dono in quanto fatto sociale (e non come “moto dello spirito”), e
cioè dare, ricevere e ricambiare: era attraverso questo complesso di
regole che si strutturava il principio della reciprocità. Mauss
riconduceva tale principio e il suo carattere obbligatorio, ad una
“qualità” intrinseca agli oggetti scambiati, una qualità che li
assimilava alla persona che li aveva posseduti e che rimaneva in essi
anche dopo il loro passaggio nelle mani di un'altra. Era la credenza
nell'esistenza di tale “qualità”, e nell'azione esercitata da
quest’ultima, a mettere in moto il sistema delle prestazioni
reciproche, poiché la mancata restituzione degli oggetti donati
43
avrebbe prodotto l'interruzione dello scambio, la quale si sarebbe
tradotta a sua volta in un danno per il trasgressore della regola. La
«qualità» presente nella cosa era infatti suscettibile di “vendicarsi”
sul trasgressore in quanto “forza” appartenente al possessore
originario della cosa donata, la forza “magica” di colui che l’aveva
ceduta.
In questa sua interpretazione Mauss fu profondamente influenzato
dalla lettura dell’etnografia polinesiana e della teoria dello hau
esposta da un informatore maori all’etnografo E. Best che scrive:
“Vi parlerò dello hau... Lo hau non è il vento che soffia.Niente affatto. Supponete
di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me
lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo.
Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide
di dare in cambio qualcosa come pagamento; essa mi fa dono di qualcosa
(taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho
ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da me ricevuti in cambio dei taonga
(pervenutimi da voi), è necessario che io ve li renda. Non sarebbe giusto da
parte mia conservare per me questi taonga, siano essi gradito o sgraditi. Io sono
obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se
conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio,
perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei
taonga, lo hau della foresta. Kati ena, basta su questo argomento” (pp. 17-18)
La trattazione della teoria del dono si muove quindi attorno a tre
punti fondamentali: l’idea di prestazione totale; la teoria (maori)
dello spirito della cosa donata; l’obbligo di donare e di ricevere (e di
ricambiare). A questi tre punti se ne deve aggiungere un quarto,
ciò che Mauss chiama “il dono fatto agli uomini e quello fatto agli
dèi”, che è poi quello che più ci interessa direttamente per il nostro
argomento38. Scrive Mauss:
Secondo Lévi-Strauss, che svilupperà in maniera originale alcune intuizioni di Mauss relative
al carattere obbligatorio del “dare, ricevere e ricambiare”, ossia al principio di reciprocità, il fatto
di aver assunt, come ha fatto Mauss, una teoria indigena come spiegazione del fenomeno
rappresentava un “grande progresso”, poiché affrontava un problema etnografico “prendendo
le mosse da una teoria neozelandese o melanesiana piuttosto che servendosi di nozioni
occidentali come l'animismo, il mito o la partecipazione” (Lévi-Strauss 1965: XLIII). Tuttavia,
proseguiva Lévi-Strauss, l’aver assunto una teoria indigena quale quella dello hau come
spiegazione del fenomeno, costituiva anche un limite. “Lo hau – dice infatti Lévi Strauss - non
costituisce la ragione ultima dello scambio: esso è la forma cosciente sotto la quale uomini di
una società determinata... hanno colto una necessità... la cui ragione è altrove”, dove con questo
38
44
“L'evoluzione era naturale. Uno dei primi gruppi di esseri, con cui gli uomini
hanno dovuto contrattare e che, per definizione, aveva proprio questa
funzione, era costituito, prima di tutto, dagli spiriti dei morti e dagli dei. Infatti,
sono loro i veri proprietari delle cose e dei beni del mondo e con loro, perciò,
era più necessario operare degli scambi e più pericoloso non farli.
Inversamente, proprio con loro era più facile e più sicuro effettuare degli
scambi. Lo scopo preciso della distruzione sacrificale è quello di essere una
donazione che va necessariamente ricambiata. Tutte le forme di potlàc del
Nord-ovest americano e del Nord-est asiatico conoscono il tema della
distruzione'. Si uccidono schiavi, si bruciano oli preziosi, si buttano oggetti di
rame in mare, si applica il fuoco a case principesche, non solo per date una
manifestazione di potenza, di ricchezza e di disinteresse, ma anche per
sacrificare agli spiriti e agli dei, confusi in realtà con le loro incarnazioni
viventi, i portatori dei loro titoli, i loro alleati iniziati.
Ma appare già un altro tema, che non ha più bisogno di questo sostegno umano
e che può essere antico come lo stesso potlàc: tale tema si identifica con la
credenza che sia necessario acquistare dagli dei e che gli dei siano in grado di
pagare il prezzo degli oggetti. Forse in nessun luogo, una simile idea si esprime
in maniera più tipica che presso i Toradja delle Célèbes. Kruyt ci dice che « il
proprietario deve " acquistare " dagli spiriti il diritto di compiere certi atti sulla
" sua ", in realtà sulla " loro" proprietà ». Prima di tagliare il « proprio » bosco,
prima perfino di raschiare la « propria » terra, prima di piantare il palo della «
propria » casa, bisogna pagare gli dei. Così, mentre la nozione di acquisto
appare assai poco sviluppata tra le consuetudini civili e commerciali dei
Toradja, quella di acquisto dagli spiriti e dagli dei è, al contrario, costante (pp.
26-27)”.
Ma i doni hanno anche lo scopo di procurare la pace:
“Van Ossenbruggen, che non è solo un teorico, ma anche un osservatore
insigne e che vive sul posto, ha individuato un altro tratto di queste istituzioni.
I doni, fatti agli uomini e agli dei, hanno anche lo scopo di procurare la pace
con gli uni e con gli altri. In tal modo vengono allontanati gli spiriti malvagi, e
più in generale le influenze nefaste, anche se non personalizzate: la
maledizione di un uomo permette, infatti, agli spiriti gelosi di penetrare in voi,
di uccidervi, alle influenze nefaste di agire, e le colpe verso gli uomini rendono
il colpevole debole di fronte agli spiriti e alle cose sinistre.
E’ chiaro come si possa iniziare, a questo punto, una teoria e una storia del
sacrificio-contratto, il quale presuppone istituzioni del tipo di quelle che stiamo
“altrove” Lévi-Strauss allude a quei principi inconsci che, a suo parere, sarebbero alla base del
principio di reciprocità (le strutture mentali inconsce).
45
descrivendo e, inversamente, le realizza al massimo grado poiché è proprio
degli dèi, che donano e ricambiano ciò che hanno ricevuto, dare una cosa
grande in cambio di una piccola…..
Non è forse per un puro caso che le due formule solenni del contratto: in latino
do ut des, e in sanscrito dadami se, dehi me, siano state conservate anche da testi
religiosi.” (pp. 27-28)
Ciò che attira l’attenzione, in questo brano, è l’osservazione secondo
la quale i doni hanno lo scopo di procurare la pace, non solo tra
esseri umani, ma anche tra uomini e divinità. La pace per che cosa?
In che senso si può parlare di una pace tra umani e divinità che è
stata compromessa o che deve essere sempre ribadita o
“procurata”?
Il fatto è che, come risulta dall’etnografia citata da Mauss, ma come
sappiamo anche da quanto avveniva nelle società arcaiche (e molto
probabilmente avviene oggi seppure sotto altre “sembianze
sacrificali”), colui che si rendeva colpevole verso gli uomini
“legava” il gruppo agli dèi mediante un “vincolo” che doveva
essere sciolto. E questo legame (percepito evidentemente come
negativo) poteva essere sciolto solo mediante un dono, un sacrificio.
Il sacrificio del colpevole (l’homo sacer dei latini) scioglieva la
comunità dalla divinità e restituiva la pace alla comunità.
La dimensione della colpa, che tutte le società conoscono, assume
forme diverse a seconda del “significato” culturale specifico che
ogni società le attribuisce. In molti casi essa può essere fatta risalire,
come avviene nella tradizione giudaico-cristiana, ad una
“mancanza” originaria, mitologicamente corrispondente a tutte
quelle “mancanze” che ogni cultura, indistintamente, pone
all’origine della condizione umana (v. ad es. il mito dinka descritto
da Geertz in La religione come sistema culturale). La scienza
occidentale, e specialmente la filosofia e l’antropologia, hanno
cercato di spiegare, nei loro propri termini, ciò che il pensiero non
scientifico (“religioso”) ha rappresentato per millenni, e in tutte le
culture, come un evento originario: la separazione dell’uomo dal
mondo divino. La spiegazione scientifica e filosofica di questa
“sensazione” avvertita dall’essere umano sarebbe invece che questi
è in qualche modo consapevole della propria “incompletezza”.
L’essere umano sarebbe cioè “inconsapevolmente consapevole” che
46
“senza l’aiuto di modelli culturali egli sarebbe funzionalmente
incompleto […. ] una specie di mostro informe senza meta né
capacità di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e di vaghe
emozioni” (Geertz, La religione ecc. pp. 125-26).
Se questa idea di incompletezza può essere declinata in maniera
diversa a seconda delle circostanze culturali e storiche specifiche, è
nel cristianesimo che si fonde con l’idea di “colpa originaria”. Col
cristianesimo, ma sicuramente anche in altre religioni, il mito, da
descrittivo, diventa infatti omiletico, nel senso che da quella che era
una pura forma descrittiva della condizione umana prima che
fossimo costretti “a vivere da esseri umani” (“siamo costretti a
vivere da esseri umani, non ci posiamo fare niente e se vogliamo
sapere come mai, è perché un giorno abbiamo offeso dio, abbiamo
fatto uno sgarro allo spirito della foresta ecc.”) si passa adesso a un
giudizio di tipo “morale”. Se la nostra colpa è originaria, essa è
connaturata all’essere umano. Come potremo redimerci? Chi ci
redimerà? Chi potrà restituirci a quella condizione di unità
originaria con la divinità dalla quale ci siamo separati per una nostra
colpa? Il cristianesimo su questo punto è chiaro. Il sacrificio di Cristo
ci ha redenti, ma ci ha redenti solo come pura possibilità, dal
momento che il “libero arbitrio” lascia sempre all’individuo la
facoltà di decidere se commettere o no atti “colpevoli” (peccati).
Come si spiegherebbe, altrimenti, la presenza del male del mondo
anche dopo il sacrificio redentore di Cristo, “l’ultimo dei sacrifici”?
9. Una teoria “ locale” del sacrificio: il tradizionalismo cattolico di
J. de Maistre
Siamo così definitivamente giunti al “cuore” della problematica
cristiana del sacrificio. Per approfondire il discorso in questa
direzione (assai complesso vista la sterminata massa di testi
teologici che ne hanno trattato), e in relazione al tema del dono e del
debito, si è scelto di privilegiare alcuni testi di un cristiano, non
teologo, e fortemente influenzato dal pensiero tradizionalista
cattolico, Joseph de Maistre (1753-1821). De Maistre, uomo di lettere
e diplomatico savoiardo, fu una delle espressioni più acute
dell’anti-illuminismo europeo, tradizionalista e papista convinto. Fu
47
anche uno dei principali teorici del degenerazionismo, cioè dell’idea
che l’uomo, dato il suo stato di “angelo caduto” poteva elevarsi
spiritualmente sono tramite la rivelazione: i popoli che non avevano
conosciuto la parola di Cristo erano pertanto nelle tenebre, e
l’esempio supremo di questo stato di colpevole maledizione era per
lui costituito dai “selvaggi” (quegli stessi selvaggi che proprio in
quegli anni i membri della Société des observateurs de l’homme
consideravano “i nostri fratelli dispersi presso gli ultimi confini
dell’Universo”). Non a caso nemico di J.-J.-Rousseau ( “…l’uomo
nasce buono e la società lo corrompe…”), de Maistre vede
nell’uomo un essere colpevole che fin dagli stadi più primitivi della
sua storia ha intuito questa indubitabile verità e che, per porvi
rimedio, ha escogitato una serie di atti miranti a redimerlo da
questa condizione di degrado: i sacrifici.
Nonostante le sue posizioni certamente “non progressiste”, de
Maistre fu però un razionalista, non un irrazionalista.
L’illuminismo, è stato detto, penetrò in lui come in molte altre
figure di suoi contemporanei che pure non si mostrarono favorevoli
ai lumi, portatori della rivoluzione, dell’ateismo, e del regime
repubblicano. Il destino della sua opera fu quello di alimentare,
come ha osservato Isaiah Berlin, le dottrine fasciste dell’esaltazione
della violenza e del sangue, ma questa fu l’utilizzazione che la
modernità ha fatto delle sue concezioni circa la natura umana (per
questo, benché ferocemente antimoderno, de Maistre è stato detto,
fu in realtà un pensatore “moderno” perché preannunciò alcuni
temi del XX secolo).
De Maistre fu un grande scrittore e, nonostante la fosca visione
dell’uomo e del suo destino (il che contrasta con quella che
dovrebbe essere invece, in un cristiano, un messaggio di speranza)
anche un autore ironico. Egli fu quasi sempre asistematico nella sua
opera, ma al tema del sacrifico dedicò, oltre che pagine importanti
della sua opera più nota, Le serate di San Pietroburgo (apparso
postumo proprio l’anno della sua morte, il 1821)39, un breve, ma
dotto scritto del 1810, Chiarimento sui sacrifici.40 Coniugando le
pagine de Le serate di San Pietroburgo (d’ora in poi SSP) con quelle di
39
40
Le serate di Pietroburgo, Risconi, Milano 1971.
Chiarimento sui sacrifici, Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 1993.
48
Chiarimento sui sacrifici (d’ora in poi CSS) cercheremo di esplorare
ciò che si presenta come una vera e propria teoria locale del sacrificio,
quella di un tradizionalista cristiano cattolico (un caso etnografico
in mezzo agli altri).
Il male e la guerra
De Maistre parte dalla constatazione del male nella storia. Male e
sofferenza nella vita e nel mondo intero sono la prova della caduta
dell’uomo. La guerra e lo spargimento di sangue, proprio perché
dati contrari alla ragione, sembrano “folli e inesplicabili”. De
Maistre non è un apologeta della guerra, ma lega l’inevitabilità di
essa allo stato decaduto dell’uomo: la guerra, dice è “divina e
demoniaca al tempo stesso” proprio coma la rivoluzione (quella
francese e più in generale le rivoluzioni che sovvertono la
morarchia per diritto divino). Dio non vuole la guerra ma la
permette. Perché? Perché le sue radici sono nell’uomo e in un “atto
di divisione inspiegabile” (razionalmente). Non si tratta di spiegare
la possibilità della guerra, come e quando cioè essa si produca, ma
piuttosto si tratta di spiegarne la facilità (SSP p. 377). Di fronte alla
guerra la ragione si trova in scacco. Volendola spiegare accentua la
scissione dell’uomo che, più se la spiega, e più gli appare assurda.
Essa vorrebbe così guidarla da un lato e dall’altro farla cessare a suo
piacimento. Si consideri, dice de Maistre, il culto irrazionale
tributato al soldato che “ha il diritto di versare innocentemente il
sangue innocente”… Per de Maistre si può fare solo una
“fenomenologia della guerra”, non spiegarla. De Maistre osserva
che di solito chi fa la guerra diventa più coraggioso, più capace di
abnegazione, più capace di obbedire e- fenomeno inspiegabile – più
religioso. Di fronte a queste “aporie” de Maistre ricorre, poco
razionalisticamente, al termine “mistero”. Se la scissione dell’uomo
rende “comprendibile” la guerra e ne mostra le manifestazioni, non
ne spiega l’essenza (divina e diabolica), che de Maistre individua in a
forza superiore e misteriosa, una “legge del mondo” come lui la
chiama. Legge che, sebbene apparentemente lontana dallo spirito
della religione, manifesta la presenza di Dio (non a caso nella
Bibbia si parla del “Dio degli eserciti”). De Maistre cita Jean Baptiste
49
Rousseau, uno scrittore conservatore di poco antecedente, che scrive
“ E’ la collera dei re che muove l’armi sulla terra, è la collera del
cielo che dà l’armi in man ai re” (SSP, p. 395).
L’uomo infatti è trascinato verso l’abisso della distruzione, dove la
guerra appare innanzitutto come la prosecuzione di una “legge del
mondo”, ma soprattutto come una immensa espiazione del peccato
conseguente alla degradazione e alla colpa:
“Vorrei farvi osservare inoltre che la terribile e della guerra non è che un
capitolo della legge generale che pesa sull'universo. Nel vasto campo della
natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata
arma tutti gli esseri in mutua funera; appena oltrepassate le soglie del regno
dell'insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritto sui
confini stessi della vita. Già nel regno vegetale si comincia ad avvertire la
presenza di questa legge: dall'immensa catalpa [una pianta carnivora] all'umile
graminacea, quanti sono le piante che muoiono e quante quelle che sono uccise?
Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa
evidenza. Una forza, nello stesso tempo nascosta e palpabile, si rivela
continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della
vita….. Non vi è un solo istante in cui un essere vivente non sia divorato da un
altro. Al di sopra di queste numerose razze animali è posto l'uomo, la cui mano
distruttrice non risparmia alcun essere vivente; egli uccide per nutrirsi, uccide
per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi,
uccide per istruirsi, uccide per uccidere: re superbo e terribile, ha bisogno di
tutto, e nulla gli resiste……L'uomo domanda tutto in una volta: all’agnello i
visceri per far risuonare un'arpa, alla balena fanoni per sostenere il corsetto
della giovane vergine, al lupo i denti micidiali per rifinire le opere le più
delicate, all'elefante le sue difese per costruire il giocattolo di un bambino: le
sue tavole coperte di cadaveri. Il filosofo può anche scoprire come il massacro
permanente sia previsto e ordinato nel grande tutto. Ma questa legge si
arresterà di fronte all'uomo? Senza dubbio no. Quale essere sterminerà allora
colui che tutti stermina? Egli stesso. E’ l'uomo incaricato di sgozzare l'uomo.
Ma come potrà ubbidire a questa legge, lui che è un essere morale e
misericordioso, lui nato per amare, lui che piange sugli altri come su se stesso,
che nel pianto ha conforto e inventa anche finzioni pur di piangere; lui infine al
quale è stato detto che « dovrà rendere conto di tutto il sangue che avrà versato
ingiustamente »? Con la guerra. Non sentite la terra grida e invoca sangue? Non
le basta il sangue degli animali e neppure quello dei colpevoli versato dalla
spada delle leggi. Se la giustizia umana uccise tutti i rei, non vi sarebbe guerra;
ma essa non raggiungerebbe che un numero limitato e spesso li risparmia
senza pensare tuttavia che la sua feroce umanità contribuisce a rendere
necessaria la guerra, soprattutto se nello stesso tempo un'altra cecità, non meno
50
stupida e funesta, lavora a spegnere l’espiazione nel mondo. La terra non ha
gridato invano: la guerra divampa. L'uomo, colto all'improvviso da un furore
divino, estraneo all'odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza
sapere quel che vuole nemmeno quel che fa. Che cos'è dunque questo terribile
enigma? Niente è più contrario alla sua umanità e nulla gli ripugna di meno:
compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul
campo di morte l'uomo non disobbedisce mai? ….Niente resiste, niente può
resistere alla forza che trascina l’uomo al combattimento; omicida innocente,
strumento passivo di una mano terribile, « si tuffa nell’abisso che egli stesso ha
scavato: dà e riceve la morte senza sospettare di averla creata egli stesso ».
Così si attua perennemente la grande legge della distruzione violenta degli
esseri viventi, dall'animaletto quasi invisibile fino all'uomo. La stessa terra
sempre intrisa di sangue non è che un immenso altare sul quale tutto ciò che
vive deve essere immolato all'infinito, senza misura, senza tregua, fino alla
consumazione delle cose, fino all'estinzione del male fino alla morte della
morte” (SSP 395-97).
La guerra rimanda, in de Maistre, “al fine superiore della
riconciliazione attraverso il sacrificio e si mostra quindi come un
supremo momento di giustizia, il che ne illumina e chiarisce tante
apparenti antinomie pur aprendo…un altro gravissimo
problema”41: la morte degli innocenti che espiano per i colpevoli, un
tema questo che tratteremo poco più avanti. La guerra, intanto, è
una “legge” contro cui l’uomo non solo nulla può, ma è qualcosa
che egli stesso vuole:
“Ma l'anatema deve colpire l'uomo in modo pili diretto e visibile; l'angelo
sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia
respirare una nazione se non per colpirne altre. Ma quando i crimini, e
soprattutto quelli di un certo re, si sono accumulati su un punto segnato,
l’angelo accelera oltre ogni limite il suo infaticabile volo. L'immensa velocità
del suo movimento lo rende presente nello stesso tempo in ogni punto della
sua temibile orbita, simile a una torcia ardente che ruota rapidamente; egli
colpisce nello stesso istante tutti i popoli della terra. Altre volte, ministro di una
vendetta precisa e infallibile, si accanisce su alcune nazioni e le bagna nel
sangue. Non illudetevi che queste tentino qualcosa per sfuggire o rendere più
mite la sentenza. Pare quasi di vedere queste grandi colpevoli rischiarate dalla
luce della loro coscienza che chiedono il supplizio e l'accettano per trovare
espiazione! Fino a quando resterà loro una goccia di sangue, verranno ad
offrirla; e dopo qualche tempo una rara gioventù si farà raccontare le guerre
41
Ravera, M., Joseph De Maistre pensatore dell’origine, Mursia, Milano 1986, p. 100.
51
devastatrici nate dai delitti commessi dai padri. La guerra dunque è divina in
se stessa, poiché è una legge del mondo” (SSP pp. 398-99).
Perché espiare attraverso il sangue? Non c’è né compiacimento né
sadismo nelle pagine di de Maistre, ma piuttosto una concezione
che è il frutto di una visione “tragica” non solo del dolore e della
sofferenza, ma anche del valore dell’autoimmolazione di Cristo.
Insomma, la guerra non si esaurisce nella violenza ma adopera
quest’ultima per riscattare l’uomo dalla colpa. Questa visione del
male come riconciliatore, come rigeneratore dell’unità e del mondo
è per de Maistre il prodotto dell’uomo, non di Dio (di qui la ripresa
irrazionalista e fascisteggiante della guerra come “cura ai mali del
mondo” sviluppata in alcuni ambienti tra la fine dell’Ottocento e la
prima metà del XX secolo).
Il sacrificio e la reversibilità
Il “gravissimo problema” di cui si diceva poche righe più sopra è
che il sacrificio, “una cerimonia che la ragione non indica e che il
sentimento respinge”, dice de Maistre, e che “non può essere
spiegato chiamando in causa la superstizione e il pregiudizio” dal
momento che “non è mai potuto esistere un errore universale
costante”, è sì un momento di riconciliazione, ma esso implica la
morte di un essere innocente che paga per il colpevole: è questa
l’idea di reversibilità delle colpe (che de Maistre considera essere un
“dogma”, una verità certa, assoluta e indiscutibile). Le colpe di chi
fa del male sono espiate dagli innocenti (“piove sul giusto e
sull’ingiusto, ma l’ingiusto ha l’ombrello del giusto”…). Il male nel
mondo si presenta quindi come qualcosa che colpisce chiunque,
giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli. Tuttavia, se è così, è perché
nessuno è veramente innocente, nemmeno gli innocenti. L’uomo
porta infatti su di sé il marchio della colpa, del peccato (quest’idea è
poi estesa a tutti gli esseri sacrificabili).
De Maistre mette in luce l’universalità del sacrificio espiatorio, la
riparazione di una colpa che gli uomini hanno sempre avvertito
come tale. Essi agiscono così per allontanare la collera divina, non
perché la divinità sia sanguinaria. Infatti egli scrive all’inizio di CSS:
52
“Non adotto di certo l'empio assioma: «Il timore, nel mondo, originò gli dei».
Mi piace notare invece che gli uomini, dando a Dio nomi che esprimono la
grandezza, il potere e la bontà, chiamandolo «Signore», «Maestro», «Padre»
ecc., hanno sufficientemente dimostrato che l'idea della divinità non può essere
figlia del timore. Possiamo osservare inoltre che la musica, la poesia e la danza,
in una parola tutte le arti piacevoli, erano chiamate a contribuire alle cerimonie
del culto; e che l'idea d'allegria si fuse sempre così intimamente a quella di
festa, che quest'ultima parola divenne ovunque sinonimo della prima.
Lungi da me, d'altronde, credere che l'idea di Dio sia sorta in un certo momento
per il genere umano, cioè che possa essere meno antica dell'uomo.
Bisogna tuttavia riconoscere, una volta salvaguardata l'ortodossia, che la storia
ci mostra in ogni epoca l'uomo consapevole di questa terribile verità: egli vive
sotto la mano d'una potenza sdegnata, e questa potenza può essere appagata solo con
sacrifici.
Non è certo facile, a prima vista, conciliare idee in apparenza così
contraddittorie; ma, se riflettiamo attentamente, comprendiamo benissimo
come si conciliano, e perché il sentimento del terrore sia sempre esistito accanto
a quello della gioia, senza che l’uno abbia potuto mai annientare l'altro.
‘Gli dei sono buoni, e dobbiamo loro tutti i beni di cui godiamo: dobbiamo loro
la lode e l'azione di grazia. Ma gli dei sono giusti, e noi siamo colpevoli:
bisogna placarli, bisogna espiare i nostri crimini; e, per riuscirci, il mezzo più
potente è il sacrificio’” (CSS p. 5).
Qui de Maistre si oppone ai temi classici del razionalismo e
dell’illuminismo sei-settecentesco circa le teorie sull’origine della
religione, per esempio quella di matrice razionalista e illuminista
sei-settecentesca secondo cui gli dèi sarebbero il prodotto della
paura di fronte all’ignoto, con tutto ciò che ne consegue (“Dio è
anteriore all’uomo”).
La consapevolezza di vivere sotto la mano di una potenza sdegnata
spinge dunque l’uomo a placare tale potenza con dei sacrifici. Dio
non chiede sacrifici, ma gli uomini colpevoli non possono che
rappacificarsi con lui se non mediante tali atti sanguinari. Tanto la
consapevolezza della propria colpevolezza, quanto il tipo di
risposta (i sacrifici) sono universali. Infatti, egli scrive:
“Tale fu la credenza antica, e tale è ancora, sotto varie forme, quella di tutto
l'universo. Gli uomini primitivi, da cui l'intero genere umano ricevette le idee
fondamentali, si credettero colpevoli: tutte istituzioni generali furono fondate
su questo dogma, di modo che gli uomini di ogni secolo non hanno smesso di
ammettere la degradazione primitiva e universale, e di dire come noi, sebbene
53
in maniera meno esplicita: le nostre madri ci hanno concepiti nel peccato; giacché
non c'è dogma cristiano che non abbia la radice nell’intima natura e in una
tradizione antica quanto il genere umano” (CSS p. 6).
Nessuna religione è dunque interamente falsa, nel senso che l’uomo
ha avvertito, seppure obnubilato dalla sua mente primitiva e
degenerata, alcune verità fondamentali che solo il cristianesimo ha
rivelato nella loro piena verità.
Lettore delle opere dell’allora nascente egittologia, de Maistre
chiama a testimoni del suo argomento gli Egizi:
“Qualunque posizione si prenda sulla duplicità dell'uomo, la maledizione
pronunciata da tutto l'universo cade sempre sulla potenza animale, sulla vita, e
sull'anima (giacché tutte queste parole significano la stessa cosa nel linguaggio
antico). 1 L’anima è il principio vitale, non lo spirito che si eleva nella sua
invividualità, sopra la vita materiale.
Gli Egiziani, che la sapienza dell'antichità proclamò «i soli depositari dei segreti
divini» , erano persuasi di questa verità, e ogni giorno ne rinnovavano la
pubblica professione; giacché, quando imbalsamavano i corpi, dopo aver lavato
nel vino di palma gli intestini, le parti molli e, in una parola, tutti gli organi
delle funzioni animali, li mettevano in una specie di cassa che alzavano al cielo,
e uno degli operatori pronunciava questa preghiera in nome del morto: ‘Sole,
sovrano padrone al quale devo la vita, degnati di ricevermi presso di te. Ho
praticato fedelmente il culto dei miei padri; ho sempre onorato coloro ai quali
devo questo corpo; mai ho negato un prestito; mai ho ucciso. Sebo commesso altri
errori, non ho agito per colpa mia, ma per colpa di queste cose’.
E subito si gettavano «queste cose» nel fiume, «come causa di tutti gli errori che
l'uomo aveva commesso», dopo di che si procedeva all'imbalsamazione.
Ora, è sicuro. che, in. questa cerimonia glì Egiziani possono essere ritenuti
come i veri precursori la rivelazione che ha detto anatema alla carne, che l'ha
dichiarata nemica dell'intelligenza, cioè di Dio, e che ci ha detto espressamente
che «tutti coloro che sono nati dal sangue o dalla volontà della carne non
diventeranno mai figli di Dio».
Essendo dunque l'uomo colpevole per il suo principio sensibile, per la sua carne e
per la sua vita, l'anatema cadeva sul sangue; poiché il sangue era il principio
della vita, o piuttosto il sangue era la vita” (CSS p.10).
L’anatema della carne ricadeva dunque sul sangue in quanto
elemento vitale.
Questo spiega perché “il cielo irritato contro la carne poteva essere
appagato solo dal sangue” delle vittime sacrificate.
54
Riguardo ai sacrifici umani de Maistre è molto sicuro della propria
spiegazione: questo “errore spaventevole”, come lui li chiama,
nacque dall’accostamento di due fattori: il principio di sostituzione
e l’idea di una importanza proporzionata delle vittime. Dato il
dogma della reversibilità42, per cui la vita è colpevole comunque,
una vita meno preziosa poteva essere data per una più preziosa
(sostituzione). Così al posto di un essere umano poteva essere
messo un altro, soprattutto quando la comunità era in pericolo e
correva il rischio di essere annientata. Citando Cesare (De bello
gallico) a proposito dei Galli, presso i quali “il supplizio dei
colpevoli era estremamente gradito alla divinità”, de Maistre
sembra anticipare Mauss sebbene egli non pensi, come invece
pensava quest’ultimo con tutti i suoi colleghi, che la divinità fosse
innanzitutto la garante dell’unità politica e sociale della comunità.
Per de Maistre, proprio come per Mauss, ogni delitto commesso
all’interno della comunità “legava” quest’ultima, dove il colpevole
risultava “sacro” e votato agli dèi “fino a quando, versato il suo
sangue [o quello di una vittima sostitutiva], questi avesse slegato se
stesso e la nazione”.
Il paganesimo, inteso come comprendente tutte le forme di religioni
anteriori all’ebraismo e al cristianesimo, appare a de Maistre come
portatore di mille sprazzi di “verità primordiali” ma “imperfette”.
Siamo qui di fronte ad una lettura retroattiva e retrospettiva della
storia religiosa con al centro il sacrificio43. Anche qui il sacrificio
diventa una specie di “operatore” concettuale che consente di
leggere il carattere unitario delle forme religiose, sebbene con
intenti molto diversi da quelli che animavano la scuola di
“Una volta riconosciuto che la vitalità del sangue, o meglio l'identità del sangue e della vita, è
un fatto di cui l'antichità non dubitava per nulla, e che è stato riconosciuto di nuovo al giorni
nostri, bisogna ammettere che è anche un'opinione antica quanto il mondo che «il cielo irritato
contro la carne e il sangue poteva essere appagato solo dal sangue»; e nessuna nazione ha
dubitato che ci fosse nello spargimento del sangue una virtù espiatoria! Ora, né la ragione né la
follia hanno potuto inventare questa idea, e ancor meno farla adottare da tutti. Essa si radica
nelle estreme profondità della natura umana, e la storia, su questo punto, non presenta una sola
dissonanza in tutto l'universo. La teoria intera riposava sul dogma della reversibilità. Si credeva
(come si è creduto e come si crederà sempre) che l'innocente potesse pagare per il colpevole; perciò
si concludeva, dal momento che la vita è colpevole, che una vita meno preziosa potesse essere
offerta e accettata per un'altra. Si offri dunque il sangue degli animali; e questa anima, offerta
per un'anima, fu chiamata dagli antichi antipsychon …. come se si dicesse anima per anima o
anima sostituita (CSS pp. 11-12).
43 La teoria di Detienne, se valida, dovrebbe essere quindi estesa a de Maistre.
42
55
Durkheim: piuttosto che vedere nelle forme sacrificali una
continuità progressiva dell’idea di abnegazione, per cui
l’australiano è “fratello” del moderno europeo ideale che “si
sacrifica” per la società, il sacrificio è la spia universale di una colpa
comune diversamente avvertita, una idea “innata” (come altre) che
segna il destino tragico dell’uomo.
Come ha scritto uno studioso di de Maistre,
“Il sacrificio di Cristo illustra, riassume e completa l'intera storia delle religioni
- ch'è poi per Maistre storia della religione mostrando come, nel suo insieme,
essa riposi sul dogma « universale e antico come il mondo della reversibilità dei
dolori dell'innovenza a profitto dei colpevoli », dogma infinitamente naturale
all'uomo anche se insondabile per la ragione, sí che volerlo spiegare
razionalmente altro non sarebbe che voler razionalizzare il cristianesimo stesso,
« poiché esso riposa tutto intero su questo stesso dogma ampliato
dell'innocenza che paga per il delitto » Nel sangue liberamente sparso
dall'uomo-Dio, dal Figlio, dall'unico veramente e assolutamente innocente, si
consuma quella morte della morte, quella riunificazione di ciò ch'era scisso,
quella negazione del negativo verso la ricostituzione dell'unità che in modo
imperfetto e incompleto l'uomo oppresso dalla coscienza della colpa ha sempre
presagito, cercato e perseguito nell'uccisione delle sue innumerevoli vittime
sacrificali, sì che questo è il sacrificio perfetto e unico, e insieme il supremo e
sublime paradosso della storia del mondo. Dio paga per quelle stesse colpe che
l'uomo ha commesso contro di lui, attira su di sé la negatività e la sofferenza
concedendo loro quella vittoria che è insieme il loro annientamento: la ragione
vacilla, l'amore trionfa, l'irrazionale della storia s'illumina e si trasfigura nella
sovra-nazionalità inconcepibile della centralità del Cristo. Tutto assume un
senso; meglio, tutto recupera il proprio senso: comprendere è ricordare, e
l'innatismo vero” 44.
Il sacrificio non è riducibile, secondo de Maistre, a una semplice
offerta45 delle carni della vittima alla divinità, ma consiste in uno
spargimento di sangue. E’ infatti nello spargimento del sangue in
quanto vita che l’uomo vede la virtù espiatrice del sacrificio, e
questo sacrificio è “eterno”.
“Tutte le nazioni hanno creduto « che il supplizio dei colpevoli fosse qualcosa di
assai accetto alla divinità », e tutte le antiche leggi, pure concordi nell'assimilare
Ravera, cit. p. 109.
Ironicamente, de Maistre sostiene che se si trattasse di una semplice offerta di carni agli dèi, i
sacrificanti e i sacrificatori “potrebbero rivolgersi alla macelleria….”
44
45
56
al colpevole il nemico, sottolineano anche nella lettera il carattere sacrificale
dell'esecuzione (SACER ESTO ... ) : questo fu il senso antico e profondo della
pena di morte, che pure ispira orrore e raccapriccio nel suo conservarsi nei
tempi moderni e presso i popoli « civili » - ormai spogliata, nella coscienza
collettiva, del suo originario significato - accanto all'uso inveterato dei sacrifici
umani presso i popoli selvaggi, ….. e nuova luce ne ricava anche - sia detto per
inciso - il senso « divino » della guerra, che altro non è che un continuo,
immenso sacrificio umano. In tutto questo si mostrò sempre, pur fra
innumerevoli mali ed errori di ogni genere, la vivida luce dell'« istinto religioso
del genere umano », e quando questo istinto religioso, riconfermato e purificato
nella sua verità dal sacrificio di Cristo, ha rinnovato la faccia della terra
rettificando l'antica credenza che pure «già in precedenza gli aveva reso la più
decisiva testimonianza», allora all'idea oscura e feroce del sacrificio come
punizione si sostituisce il concetto cristiano, in cui il mistero della reversibilità si
incarna nella sua più sublime pienezza, dell'assunzione libera e volontaria della
colpa e dell'accettazione della sofferenza a profitto dei colpevoli. …… Maistre «
Gesú sarà in agonia fino alla fine del mondo », e la sua agonia prosegue e rivive
nelle sofferenze che ogni giusto accetta in comunione con lui; « una meraviglia
inconcepibile, senza dubbio, ma al tempo stesso infinitamente plausibile, che
soddisfa la ragione annientandola» e « che dimostra nel modo più degno di Dio
ciò che il genere umano ha sempre confessato, anche prima che gli fosse
insegnato: la sua degradazione radicale, la reversibilità dei meriti
dell'innocenza che paga per il colpevole, e la salvezza attraverso il sangue ».46
Dalla maledizione della “carne colpevole” solo l’ultimo degli
spargimenti di sangue potrà liberarci. Di fatto il sacrificio di Cristo,
non ci libererà se non alla fine del mondo, quando l’uomo sarò
definitivamente scomparso. I giusti continueranno a dare il loro
sangue per espiare le colpe degli ingiusti, “fino alla morte della
morte”. Il sacrificio è per de Maistre “la restituzione a Dio di ciò che
non si è rubato”, quindi un tentativo, mai concluso, di saldare
comunque un “debito”:
“Sotto l'impero di questa legge divina, il giusto (che non crede d'essere tale) »
assume su di sé la sofferenza «per ottenere infine la grazia di poter restituire ciò
che non ha rubato», e la sofferenza dell'innocente, sia essa volontaria o
cristianamente accettata, continua e prosegue (anche se non completa: e come
potrebbe esser mai completata?) la sofferenza di Cristo per la rigenerazione
dell'umanità”47.
46
47
Ravera, cit. p. 111.
Ravera, cit. p. 111.
57
De Maistre cerca nei Padri della Chiesa la conferma delle sue idee.
Le trova in Origene:
“Dobbiamo ascoltare soprattutto Origene, su questo interessante argomento,
sul quale aveva meditato molto. La sua ben nota opinione era che: ‘il sangue
sparso sul Calvario non era stato utile soltanto agli uomini, ma anche agli
angeli, agli astri, e a tutti li esseri creati; cosa che non apparirà sorprendente a
chi si ricorderà che San Paolo ha detto che «Dio ha voluto riconciliare ogni cosa
per mezzo di colui che è il principio della vita, e il primogenito fra i morti,
poiché ha pacificato col sangue che ha sparso sulla croce sia colui che sta in
terra sia colui che sta in cielo’» (CSS p. 36).
Con la citazione da Origene (II –III sec. D. C.) siamo giunti a un
punto decisivo, perché con essa si “chiude il cerchio” maistriano ma
anche quello antropologico. Tale affermazione ricollega infatti la
visione cristiana del sangue alle concezioni, presenti in tutte le
culture, del nesso tra sangue e vita.
10. Vita, morte, e rinascita.
Verso la metà dell’Ottocento, J J Bachofen, un giurista svizzero noto
soprattutto per il suo libro Das Mutterrecht (1861), cominciò a
interessarsi al simbolismo funerario dei popoli antichi. Egli notò che
questo simbolismo conteneva in sé immagini esplicite o implicite
che rinviavano all’idea di rinascita. Così l’uovo (simbolo della vita),
per metà bianco e per metà nero, significava l’alternarsi della luce e
delle tenebre, del giorno e della notta, della vita e della morte. La
sua rotazione implicava un continuo ritorno, un avvicendarsi
perenne delle due facce, la vita e la morte, la morte e la vita.
L’analisi del simbolismo funerario dei popoli antichi, iniziato
nell’Ottocento da Bachofen, e proseguito poi da altri studiosi, fu
rafforzata, nel corso del Novecento, dall’idea di ricercare nei riti
funebri medesimi, così come si potevano osservare in campo
etnografico, un simbolismo che mettesse in evidenza questa
alternanza, e una presenza in questi stessi riti, dei simboli della
rinascita. I riti funebri, tutti indistintamente, rinviano ad una idea di
rigenerazione della vita degli esseri umani, degli animali come dei
vegetali. Certamente l’enfasi varia da rito a rito, da contesto a
58
contesto. Infatti si va dalla rigenerazione delle risorse di cui un
gruppo vive (riti agrari, per esempio) alla rigenerazione degli
umani (fertilità)alla rigenerazione del cosmo intero (sacrifici hindu
ma vedi anche Origene).
Alcuni di questi sistemi di pensiero, entro cui si muove la
concezione simbolica della vita e dei riti che evocano la sua
rigenerazione, concepiscono la vita come una risorsa “limitata”. Il
sacrificio hindu, ad esempio, riposa su una concezione “limitata”
della vita, nel senso che “se prendi devi dare”. Da un lato, la
credenza nella reincarnazione, tipica di questa “religione”,
conferma la visione della vita come risorsa limitata, mentre
dall’altro lato il funerale stesso è concepito come “sacrificio”, come
restituzione continua e mai definitiva che gli umani fanno al cosmo
in cambio della vita che hanno ricevuto.
Concezioni della vita come “bene limitato” si trovano presso vari
popoli. Esemplare è il caso dei Trobriand (studiati da Malinowski)
dove i nuovi nati sono considerati la “reincarnazione” degli spiriti
degli antenati dei membri del matrilignaggio.
Molte delle concezioni (non strettamente scientifiche) della morte e
della vita implicano inoltre l’idea che la morte sia in qualche modo
la fonte stessa della vita. La concezione della vita come bene
limitato da un lato e quella per cui morte e riproduzione sono
correlate, sono interconnesse. E’ quindi naturale che i riti funebri
siano costellati di simboli della rinascita. Questo non perché domini
ovunque una concezione della vita come bene “limitato”, o perché
sia sempre presente l’idea che morte e rinascita fisica siano sempre
legate. Vero è piuttosto che sempre e comunque le “religioni”
negano l’irreversibilità della morte nel momento stesso in cui
affermano un nuovo “inizio”.
Di solito il concepimento e la nascita sono i simboli più “ovvii” per
far fronte al problema. Essi fanno capo di solito a delle
“cosmografie” caratterizzate sessualmente: miti di creazione di
origine degli dèi e del mondo che fanno riferimento ad atti sessuali
come fonte della vita cosmica sono presenti in molti sistemi
religiosi. Tuttavia le culture fanno un uso molto differente , cioè
variabile, di questo simbolismo. La riproduzione biologica, inoltre,
è un simbolo ambiguo, e talvolta entra nei rituali funebri più come
59
rappresentativo di qualcosa che deve essere superato, piuttosto che
come una affermazione di rigenerazione. La “carne” può per
esempio essere “negata” e infatti nel cristianesimo la resurrezione
dei corpi è un modello cristologico più che un riferimento concreto.
Per il cristiano la carne va infatti “superata” e la rinascita dopo la
morte è essenzialmente spirituale. Quindi né ciò che deve essere
rigenerato (il corpo? lo spirito?), né il simbolismo relativo
(concepimento, carne, sangue? ) sono ovunque gli stessi48.
11. Il “terribile enigma” dell’umanità: da de Maistre a Bataille.
Come si è visto precedentemente, de Maistre, per le sue
considerazioni sulla guerra e il sangue, per il suo papismo radicale,
e per la sua avversione totale alle idee dell’illuminismo e ai principi
della repubblica nata dalla rivoluzione francese, non è stato amato
da alcuno (eccezion fatta per quella interpretazione fascistizzante
delle sue idee di cui lo stesso de Maistre non può essere
ovviamente incolpato)49.
Un autore “maledetto” dunque, maledetto perché “inquietante”.
Inquietante come chiunque, indipendentemente dalle proprie
convinzione politiche o religiose, osi addentrarsi in quei meandri
della “vita umana” difficilmente riconducibili ai criteri interpretativi
Bloch, M. e Parry, J. 1982 (a cura), Death and the Regeneration of Life, CUP, Cambridge.
Sulla “indigeribilità generalizzata” di de Maistre il filosofo francese Philippe Sollers ha scritto
un breve articolo che, in un passaggio, dice così: “Connaissez-vous Joseph de Maistre? Non,
bien sûr, puisqu’il n’y a pas aujourd’hui d’auteur plus maudit. Oh, sans doute, vous en avez
vaguement entendu parler comme du monstre le plus réactionnaire que la terre ait porté,
comme un fanatique du trône et de l’autel, comme un ultra au style fulgurant, sans doute, mais
tellement à contre-courant de ce qui vous paraît naturel, démocratique, sacré, et même tout
simplement humain, qu’il est urgent d’effacer son nom de l’histoire normale. Maistre ? Le
diable lui-même. Baudelaire, un de ses rares admirateurs inconditionnels, a peut-être pensé à
lui en écrivant que personne n’était plus catholique que le diable. Ouvrez un volume de
Maistre, vous serez servis. Maudit, donc, mais pas à l’ancienne, comme Sade ou d’autres, qui
sont désormais sortis de l’enfer pour devenir des classiques de la subversion. Non, maudit de
façon plus radicale et définitive, puisqu’on ne voit pas qui pourrait s’en réclamer un seul
instant. La droite ou même l’extrême-droite ? Pas question, c’est trop aristocratique, trop fort,
trop beau, effrayant. La gauche ? La cause est entendue, qu’on lui coupe la tête. Les
catholiques ? Allons donc, ce type est un fou, et nous avons assez d’ennuis comme ça. Le pape ?
Prudent silence par rapport à ce royaliste plus royaliste que le roi, à ce défenseur du Saint-Siège
plus papiste que le pape. Vous me dites que c’est un des plus grands écrivains français ? Peutêtre, mais le style n’excuse pas tout, et vous voyez bien que son cas est pendable. Maistre ? Un
Sade blanc . Ou, si vous préférez, un Voltaire retourné et chauffé au rouge ». Philippe Sollers,
Maistre. Un Sade blanc, in Le Nouvel Observateur 21/06/2007.
48
49
60
della trasparente razionalità senza abbandonarvisi ma, al contrario,
ma tenendo un atteggiamento critico, vigile, sospettoso. De Maistre
si aggira infatti per “luoghi” dai quali chiunque preferisce “tenersi
lontano” a meno di non aderire ad essi incondizionatamente (come
faranno le ideologie fascisteggianti del Novecento): la violenza, la
guerra, la morte, il sangue. De Maistre insiste infatti su quei
“terribili enigmi” che avvolgono la vita dell’essere umano e di cui
“niente è più contrario alla sua umanità e di cui nulla gli ripugna di
meno”, ciò per cui egli “compie con entusiasmo atti che lo fanno
inorridire”.
De Maistre è “maledetto” per aver affrontato, certo dal suo punto di
vista ultraconservatore, temi che sarebbero diventati più “attuali”
solo nel Novecento, quando si è tornati ad interrogarsi sulla follia
della guerra e su quei miti della violenza, del sangue e del sacrificio
che tanta devastazione dovevano portare nel mondo. Tra costoro,
un posto privilegiato spetta a Georges Bataille.
Georges Bataille (1897-1962) è stato uno dei più influenti pensatori
francesi del secondo dopoguerra. La sua opera (parte della quale
postuma) si situa tra filosofia, letteratura, arte, poesia, sociologia e
antropologia. Essa è assai frammentaria, asistematica e, come è stato
detto, “atopica”. Non è infatti ascrivibile né a un genere di scrittura
preciso, né si sofferma mai su un oggetto quale potrebbe essere
quello “delimitato” da una tradizione disciplinare precisa.
Centrale, in Bataille, è quella che lui stesso chiama la dimensione
dell’”enigma”, un tema de maistriano per eccellenza e che Bataille
declina in senso del tutto laico. Non c’è infatti alcun dio nel pensiero
di Bataille; c’è tuttavia la dimensione del “sacro”, qualcosa di
misterioso, enigmatico appunto, verso cui l’essere umano tende.
Il mondo, dice Bataille, è dato all’uomo come un enigma. Il punto,
egli sostiene, in cui la ragione e il suo “oltre” si incrociano in una
possibile visione della realtà è quella del “limite dell’utile”. La
ragione non rende conto di come vi possano essere cose che l’uomo
persegue oltre l’utile (inteso come suo bisogno immediato). Questo
“oltre” appartiene all’uomo, è dentro di lui, non lo trascende.
Tuttavia l’uomo tende a trascendersi, anche se questo moto non è
finalizzato al “puro bene”.
61
Rifacendosi a Mauss50, Bataille considera il fenomeno del potlàc.
Esso è il caso etnografico che meglio esemplifica il gesto della
dépense, cioè della dissipazione, del dispendio, della dilapidazione
cosciente e volontaria messa in atto dagli uomini51. Essa non ha
“altro scopo che quello di comunicare attraverso la distruzione”. La
distruzione dei beni utili apre allora due questioni: 1) annienta
l’utilità delle cose consegnandoci, nel momento stesso della sua
distruzione, ciò che va “oltre l’utile”, il suo carattere “sacro”. 2)
questo atto distruttivo è creativo di una comunicazione sottratta
alle leggi dello scambio. E’ una comunicazione “totale”.
Per ottenere ciò l’uomo deve tutta via produrre. Deve produrre per
poter dissipare e ottenere gli effetti della dissipazione. Ciò non è
ottenibile facendo riferimento ad una mera razionalità scientifica, in
quanto questa riduce il mondo ad un ammasso di oggetti
senz’anima coi quali non può esservi alcuna comunicazione al di
fuori della logica del possesso e dell’utilizzazione.
Nella preparazione de La parte maledetta (pubblicata definitivamente
nel 1962 ma largamente scritta nel periodo 1939-45) Bataille si
proponeva proprio di confrontarsi con tali questioni e superare la
nozione di potlàc con la “questione ultima”, quella del sacrificio:
l’essenza del sacrificio ci porta, egli dice, “là dove si situa l’enigma
esattamente, là dove è la chiave di ogni esistenza umana”. Questa
chiave è la morte, o meglio, quei meandri oscuri della nostra
esistenza che paiono ricevere un senso attraverso “i giochi che la
vita è stata costretta a giocare con la morte”: la comicità nella morte,
l’eros e la morte, la violenza, il supplizio come spettacolo,
ovviamente il sacrificio medesimo.52
Nella morte sacrificale si comunica il massimo dell’angoscia
comunicabile, dice Bataille, perché il sacrificio “strappa le cose
all’ordine del reale, le strappa alla loro povertà, per restituirle al
divino: questo è il compito del sacrificio”, secondo un’idea espressa
Bataille partecipò attivamente al Collège de sociologie che, negli anni trenta, cercò di
riportare il discorso etnosoiologico della scuola durkheimiana a confrontarsi con la dimensione
del sacro inteso non come “religioso” nel senso classico del termine, ma come qualcosa di
“intoccabile” e “indicibile” nella stessa vita quotidiana.
51 La dépense (1933), in Bataille, G. La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
52 Si ricordi l’interpretazione di Geertz della lotta teatralizzata tra Rangda e Barong: una messa
in scena dell’orripilante e del comico (La religione ecc.).
50
62
anche da altri autori secondo cui “il sacrificio è un dono a dio, e
dare a dio è distruggere” (S. Weil).
Nella Teoria della religione scrive infatti Bataille:
“Si offrono le primizie del raccolto o si fa il sacrificio di un capo di bestiame per
sottrarre al mondo delle cose la pianta e l'animale, e al tempo stesso
l'agricoltore e l'allevatore.
Il principio del sacrificio è la distruzione, ma per quanto si giunga a volte a
distruggere totalmente (come nell’olocausto), la distruzione che il sacrificio
intende operare non è l'annientamento. E’ la cosa - solo la cosa che il sacrificio
vuole distruggere nella vittima. Il sacrificio distrugge i legami di
subordinazione reali di un oggetto, strappa la vittima al mondo dell'utilità e la
rende a quello del capriccio inintelligibile. Quando l'animale offerto entra nel
cerchio in cui il sacerdote lo immolerà, passa dal mondo delle cose - precluse
all'uomo e che per lui sono niente, che conosce dall'esterno - al mondo che gli è
immanente, intimo, conosciuto come lo è la donna nella consumazione
carnale….. (p. 43).
Il passaggio dal profano al sacro tramite la vittima (il modello di
Hubert e Mauss) libera l’essere umano dalla dipendenza dalla
“coseità”, dalle cose nel loro essere cose e null’altro.
……. La separazione preliminare del sacrificante e del mondo delle cose è
necessaria al ritorno dell'intimità, dell'immanenza tra l'uomo e il mondo, tra il
soggetto e l'oggetto. Il sacrificante ha bisogno del sacrificio per separarsi dal
mondo delle cose e la vittima non potrebbe esserne separata a sua volta se il
sacrificante già non lo fosse. Il sacrificante enuncia: ,Intimamente, appartengo,
io, al mondo sovrano degli dèi e dei miti, al mondo della generosità violenta e
senza calcolo, come la mia donna appartiene ai miei desideri. Ti sottraggo,
vittima, al mondo in cui tu eri e non potevi che essere ridotta allo stato di una
cosa, avendo un senso esteriore alla tua natura intima. Ti richiamo all’intimità
del mondo divino, all’immanenza profonda di tutto ciò che è’ ” (pp. 43-44)53.
Nella “liberazione dalla cosa” mediante la sua distruzione cosciente,
l’essere umano si sente partecipe del divino. Nel sacrificio la
comunicazione con il divino è totale.
Attraverso il percorso sin qui seguito siamo giunti dunque di fronte
alla “soluzione dell’enigma”, alla ragione ultima che spinge l’essere
umano al sacrificio di esseri e cose. Liberarsi dal mondo sensibile
53
Bataille, G., Teoria della religione, SE, Milano, 2002 (1973).
63
distruggendo un essere o una cosa, equivale a essere partecipi del
sacro, del divino. Certe affermazioni di de Maistre sul carattere
“divino” e “diabolico” al tempo stesso della guerra potranno
apparire più chiare se lette alla luce delle formulazioni laiche di
Bataille. La vittima, che per Hubert e Mauss era un intermediario
per accostarsi al sacro, mantiene dunque questa funzione ma, con
Bataille, emerge l’idea che il sacrificio, oltre che essere un modo per
avvicinare il sacro, esprime anche, da parte dell’essere umano, il
desiderio di liberarsi della “cosa” per mettere in primo piano la
parte “spirituale” del sé.
Cercheremo allora, sulla base di queste prospettive, e di altre, di
comprendere
un
aspetto
rilevante
dell’agire
politico
contemporaneo, quello che consiste nei gesti di auto immolazione
messi in atto dagli “attentatori suicidi”, figure che si sono
moltiplicate in varie parti del mondo da circa una ventina d’anni.
12. Martirio e sacrificio: una forma di violenza politico-religiosa
nel mondo contemporaneo.
Il “terrorismo suicida” è un fenomeno di antica data che ha però
conosciuto un’impennata senza precedenti negli ultimi anni. Già nel
corso degli anni 1980 atti di questo genere avevano cominciato a
diventare sempre più frequenti fino ad assumere, per gli
occidentali, prevalentemente le caratteristiche piuttosto nette di una
variante, quella del terrorismo di matrice islamica54. Specialmente a
partire dall’inizio della seconda intifada – in arabo “scuotimento”(28 settembre 2000) gli episodi di questo tipo si sono intensificati.
Da un punto di vista strettamente tecnico, un atto terroristico di tipo
suicida potrebbe essere definito come “un attacco violento
politicamente motivato attuato da uno o più individui consapevoli
che attivamente e scientemente causano la propria morte facendosi
saltare in aria con l’obiettivo prescelto. La morte sicura di coloro che
Le odierne manifestazioni del terrorismo suicida sono molteplici. Un caso dei più rilevanti è
quello dei Tamil induisti dello Sri Lanka (Natali 2004).
54
64
realizzano tale attacco è la condizione necessaria per il successo
della missione”55.
In seno allo stesso mondo musulmano, gli attentatori suicidi non
sono identificabili esclusivamente come arabo-palestinesi, e
neppure come individui che si prefiggono di compiere aggressioni
finalizzate a colpire obiettivi israeliani o occidentali. In Iraq, ad
esempio, ma non solo, attentatori suicidi colpiscono oggi i loro
“fratelli” musulmani appartenenti a fazioni politiche avversarie con
la stessa forza devastante, obbligandoci a rivedere l’idea che questi
atti siano finalizzati a distruggere solo gli occidentali o l’occupante
israeliano.
Quando nei mesi successivi all’inizio della seconda intifada i colpi
portati da uomini (e donne) - bomba palestinesi contro civili
israeliani inermi si intensificarono, i media, i politici e il pubblico,
specialmente occidentali, cominciarono a interrogarsi sulle ragioni
di tali gesti. Sul piano linguistico gli attentatori suicidi vennero
chiamati “kamikaze”, mentre la riprovazione di tali atti si fissò,
come è ovvio, sulle “vittime indifese” di questi attacchi. In questo
modo, riconducendo la figura dell’attentatore suicida ad un’altra
ben nota (il kamikaze giapponese che dirige il proprio aereo
imbottito di esplosivo contro la nave americana durante le ultime
fasi della guerra del Pacifico), e reagendo moralmente con la
condanna dei massacri, i media, i politici e il pubblico generico
relegarono il fenomeno in uno spazio di discorso che fece degli
attentatori suicidi degli “spostati” (al massimo dei “fanatici”)
manipolati da altri e, delle vittime degli attentati, l’oggetto di una
spietata follia distruttiva. Casi di manipolazione di individui
Schweitzer, Y., 2000, “Suicide Terrorism: Development & Characteristics”, p. 1. Lecture
presented in the International Conference on Countering Suicide Terrorism, (21st Feb. 2000):
http://www.ict.org.il
Naturalmente la definizione di atto terroristico è relativa, e per questo motivo viene qui
virgolettata. Terrorista è considerato di solito chi compie un’azione bellica al di fuori di ogni
schema convenzionalmente riconosciuto come “legale”. La guerra è legale, il terrorismo no.
Inoltre il terrorismo è considerato come un atto che colpisce le popolazioni non militarizzate,
mentre si dà per scontato che la guerra non faccia ciò. Ma questa, come sappiamo, è una
capziosa distinzione perché da sempre, ma specialmente nell’età contemporanea, le guerre non
solo colpiscono anche le popolazioni inermi, ma sono spesso intenzionalmente organizzate per
colpire soprattutto queste ultime (dalla II guerra mondiale alle guerre del Golfo si è assistito a
una escalation di violenza attuata scientemente, ma “legalmente”, contro le popolazioni civili:
un’autorizzazione a “versare innocentemente il sangue innocente”, avrebbe forse detto de
Maistre…..
55
65
“problematici” o psicologicamente “immaturi” si sono certamente
verificati, così come lo scempio che dei corpi delle vittime i gesti di
costoro hanno prodotto è un dato di fatto. Tuttavia si deve far
notare che pochi si sono impegnati in un tentativo di comprensione
del fenomeno che andasse al di là di considerazioni strettamente
politiche (“che effetto avranno gli attentati sui rapporti tra israeliani
e arabi, tra occidentali e musulmani?”); meramente tecniche (“con
quali mezzi e strategie gli uomini-bomba perseguono il proprio
intento?”); o puramente morali (“perché fare strage di innocenti?”).
Tra questi ancora meno sono stati coloro che hanno cercato di
rilevare l’origine dello “sconcerto” che un tale fenomeno generava
negli osservatori. Uccidere uccidendosi pareva a volte “folle”, a
volte “perverso” e a volte anche “vigliacco”.
Noti editorialisti si lanciarono in considerazioni “sociopsicologiche” che facevano risalire simili atti all’astio dei palestinesi
verso i più abili israeliani nello sfruttamento del territorio; oppure
al risentimento per essere stati espropriati delle case e delle terre o,
nel caso dei ragazzi che a volte si facevano esplodere in caffè e
discoteche, all’ “invidia” dei giovani palestinesi nei confronti dei
loro coetanei israeliani per il loro modo di vivere “all’occidentale”.
E’ innegabile che questi “sentimenti” possano far parte (sul versante
arabo) della tragica vicenda che lega il popolo israeliano e quello
palestinese. Tuttavia è verosimile che all’origine dello sconcerto di
fronte a questo modo “irrazionale” ( e “illegale”) di fare la guerra vi
fosse l’ abitudine, forse filogeneticamente incorporata, di non poter
concepire l’uccisione del proprio simile senza la mediazione di
un’arma e, naturalmente, facendo uso del proprio corpo. Lo
“scandalo” dell’attentatore suicida consiste probabilmente non solo
nell’idea di guerra “illegale” che costui attua, ma anche nel fatto che
un simile gesto pare contravvenire ciò che l’essere umano è andato
elaborando nel corso della sua evoluzione. Sembra infatti che
l’aggressività intraspecifica, che in tutte le specie è fortemente
inibita (geneticamente), negli umani si sviluppò invece con la caccia.
Potendo uccidere animali con strumenti anche a distanza (senza
usare le proprie mani, le proprie gambe e i propri denti), diventò
più facile uccidere anche un essere umano. L’essere umano perse il
meccanismo “naturale” di controllo (l’inibizione all’aggressività
66
intraspecifica) e l’arma disattivò la remora alla distruzione del
proprio simile.
La storia della tecnologia bellica è, in fondo, una storia di
progressiva “presa di distanza” dal nemico, fino a che la guerra
moderna portò questo processo al limite estremo, con la possibilità
di eliminare anche migliaia di individui senza alcun tipo di
contatto, fisico o visivo: premendo semplicemente un bottone e,
soprattutto, con pochi “sensi di colpa” (tranne che in casi molto
particolari).
Tutte queste osservazioni ci pongono già di fronte alla esigenza di
dover interpretare il fenomeno del “terrorismo suicida” in termini
diversi da quelli meramente tecnici o politici, e persino differenti da
quelli che fanno riferimento a stati d’animo genericamente definibili
come “invidia”, “risentimento”, “odio”, o a determinate patologie
psichiche. Se, come sembrano dirci i dati dell’archeologia
preistorica, dell’etologia e della genetica, l’arma ha fatto degli
umani, oltre che dei predatori di animali, anche degli “assassini a
distanza”, è “per contrasto” e “sullo sfondo” degli sviluppi
tecnologici di questa tendenza esponenziale (data ormai per
scontata) che dobbiamo leggere lo sconcerto suscitato dal gesto
dell’attentatore suicida.
Oltrepassando lo sconcerto derivante dallo spettacolo di un conflitto
armato in cui l’attaccante sceglie premeditatamente e
sistematicamente di autoeliminarsi nel momento stesso in cui
annienta il nemico, e cercando di non cadere nel tranello che
consiste nel ricondurre il fenomeno a categorie note o precostituite
(kamikaze, follia, disadattamento ecc.), dovremmo cercare di
“assumere il punto di vista dell’attore” - per parafrasare una celebre
affermazione di Malinowski - e muovere dalle autorappresentazioni di coloro che hanno fatto dell’attentato suicida la
meta finale della propria vita oppure un gesto apprezzabile e/o da
incoraggiare56.
Martiri
Tra questi rientrano quanti hanno perseguito il loro scopo sino alla fine lasciando documenti
scritti, visivi e sonori sulla propria “missione”, coloro che hanno aspirato a compiere atti del
genere senza riuscirci e quanti li hanno assistiti nella loro impresa.
56
67
Le dichiarazioni lasciate dagli attentatori suicidi, così come quelle
rilasciate dagli aspiranti tali; i commenti dei loro fiancheggiatori e di
molti familiari, e di quanti ne condividono, in toto o in parte, il
progetto, convergono verso la nozione di martirio57. Per una più che
probabile confluenza semantica derivata dal modello cristianoantico del martirio che fa di colui o colei che lo subisce, o che lo
cerca volontariamente, il “testimone” della fede (in greco il martys è
“il testimone”), anche il martire musulmano (shahid) è autore di una
“testimonianza” (shahadah) che comporta, nel caso dell’attentatore
suicida, un’idea di “testimonianza martiriale” (istishahad).
Chi possa essere considerato martire, e perché, è una questione
complessa irta di eccezioni e sottigliezze dottrinarie, e neppure
definita in maniera unanime tra gli stessi musulmani, dal momento
che la nozione di martirio è spesso inseparabile dalla concezione,
anch’essa ampiamente dibattuta, che si ha del jihad, termine spesso
malamente tradotto, nelle lingue europee, con l’espressione “guerra
santa” (ma il cui senso è qualcosa come “lotta sulla via di Dio”). La
questione non è tuttavia trovare definizioni univoche, valide
sempre e ovunque. L’islam non possiede, se non per alcuni principi
fondamentali, un’unità dottrinaria pari a quella cattolica. Esso è
costituito da una pluralità di vedute validate da tradizioni
discorsive altrettanto plurali e che sono riconoscibili come
“islamiche” nel momento (e fino al momento) in cui si
autoriconoscono e sono riconosciute come tali58.
Il linea generale, il martire musulmano (shahid) è dunque il
testimone (shahid) della verità della fede. Come possa testimoniare
questa verità è un fatto storicamente contingente e dipendente dal
significato che, sempre a seconda delle circostanze storiche, viene
Questo non significa però, come invece spesso si sente dire o si legge, che le famiglie di coloro
che aspirano al martirio siano compatte nel sostenere gesti del genere (v. Hassan 2001).
58 Asad, T. 1986 "The Idea of an Anthropology of Islam", Occasional Papers, Georgetown
University, Washington. In questa prospettiva che chiama in causa il riconoscimento e
l’autoriconoscimento, entrano in gioco le dimensioni della credenza e della autorità. La credenza
appartiene ad una realtà che ha la propria ragion d’essere in se stessa, che trova una forma di
convalida nelle condizioni stesse della credenza. L’autorità è invece quella della tradizione, una
nozione in questo caso simile a quella di credenza, poiché aderire ad una tradizione autorevole
significa, in qualche modo, “credere”, in particolare credere nel fatto che esista una linea di
continuità sulla cui validità non ci si pongono domande fino a quando, appunto, non la si mette
in discussione.
57
68
attribuito all’altro termine da cui quello di martirio è spesso
inscindibile: jihad. Il significato di quest’ultimo però varia da
un’idea di lotta che l’individuo combatte con se stesso per il
miglioramento della propria coscienza morale fino all’dea di una
guerra vera e propria in difesa o per l’affermazione della propria
fede59.
Nella congiuntura mondiale attuale il jihad è riconosciuto, in quanto
fatto socialmente, politicamente e ideologicamente rilevante, “non
in virtù delle cause locali che lo hanno determinato, né per le
singole biografie dei suoi combattenti, ma come una serie di effetti
globali che hanno assunto una propria universalità che va oltre tali
particolarità”60.
Questi effetti globali, sulla politica e sul pubblico, nonché, è bene
sottolineare, sull’immaginario dei “jihadisti” medesimi, sono il
prodotto dei media e non delle storie singole dei particolari attivisti,
e neppure delle condizioni ambientali che li hanno spinti a prendere
questa via, come nemmeno delle teorie che, riallacciandosi alle varie
scuole dottrinarie musulmane, possono giustificare queste scelte.
Ciò che va enfatizzato, del rapporto tra istishahad (testimonianza
martiriale) e media, è che anche coloro che vi prendono parte
sembrano essere determinati, nelle loro scelte, da messaggi
mediatici. Il istishahad è infatti diventato uno spazio di “discorso
visuale” nel quale va certamente collocata un’intenzione
comunicativa di tipo politico ma anche, e soprattutto, un modo di
rappresentare a se stessi il proprio destino, la propria missione, il
Il termine jihad compare più volte nel Corano e, col tempo, ha ricevuto interpretazioni diverse
e perfino contrastanti. “Guerra d’attacco”, “lotta interiore”, “guerra difensiva”,il jihad è stato
anche, in passato, uno strumento di opposizione all’intrusione coloniale, come ad esempio in
Libia all’epoca della dominazione italiana. Nella odierna lettura fondamentalista del jihad
quest’ultimo è una lotta militare contro i nemici dell’islam, i quali vengono identificati con
coloro che non si adeguano ai dettami divini, coi governanti corrotti (dei paesi a maggioranza
musulmana) e contro le potenze occidentali che li appoggiano (Mervin S. 2001 L’islam.
Fondamenti e dottrine, Bruno Mondadori, Milano 2001). L’islam politico radicale inserisce il jihad
in una logica di “scontro globale” e tace il fatto che il Corano, anche quando parla di jihad come
“guerra d’attacco” (ma in “difesa della fede” – una specie di “guerra preventiva”), esclude di
praticarla contro ebrei e cristiani, in quanto entrambi ahl al kitab cioè “popoli del Libro” (la
Bibbia) e, come tali, “protetti (dhimmi, che però significava “tassati”, secondo l’antica usanza
arabo-beduina di proteggere tribù nomadi o comunità di agricoltori sottoposte in cambio di un
tributo).
60 Devji F. 2005, Landscapes of the Jihad. Militancy, Morality, Modernity, Cornell University Press,
Ithaca. P. 87
59
69
proprio nemico e il proprio gesto che, nel caso degli attentatori
suicidi, si presenta come un “martirio-testimonianza” (shahadahh).
Persino la pratica di decapitare gli ostaggi, così come le
autopresentazioni “alla Rambo”, entrambe varianti locali del modo
di condurre il jihad, sono tipici riflessi di un codice, quello
mediatico, che sembra “autorizzare” (nel senso foucaultiano del
termine) comportamenti e forme di “presentazione del sé” che non
hanno nulla a che vedere né con la tradizione islamica, né con forme
locali della tradizione. I personaggi e i modelli narrativi di una certa
produzione mediatica (filmica e televisiva) sembrano invece essere
ciò che prevale su questioni dottrinarie o su teorie politiche. Questo
“ambiente mediatico” non influenza soltanto il pubblico occidentale
e gli stessi attori, ma anche il pubblico dei paesi a maggioranza
musulmana, che finisce per ricevere una rappresentazione
omogenea, mediatica (e quindi distante dal contesto motivazionale
specifico) del istishahad come fatto “globale”61. Il istishahad viene
allora proiettato in uno spazio visuale che non è più legato a luoghi
o a storie particolari ma che ha, nei siti più disparati, e sconnessi con
il contesto geografico o storico che è loro proprio, lo scenario della
propria rappresentazione. La testimonianza del gesto suicida
avviene quindi in uno spazio pubblico globalizzato (dai media) nel
quale l’attentatore suicida trova la possibilità di essere percepito
come “martire”, “testimone” (tanto dai musulmani e quanto dai
non musulmani).
Nel processo mediatico, la fusione tra il morire (martirio) come
accadimento, e il vedere come testimonianza raggiunge un’intensità
di gran lunga superiore a quella raggiunta nel contesto entro il
quale, come sembra, questa speciale coincidenza semantica tra
essere martiri ed essere testimoni prese originariamente forma. Tale
contesto fu quello cristiano, e in particolar modo quello della tarda
antichità. In uno studio dedicato alla formazione delle idee di
martire e di martirio nel mondo urbano d’Oriente nel periodo
romano tardo-antico, G. Bowersock62 (1995) ha ricondotto questi
E’ opportuno precisare che gli attentatori suicidi, cioè gli aspiranti “martiri” non sono quelli
che sono comparsi in passato sui nostri schermi televisivi intenti a leggere proclami o a
minacciare esecuzioni di ostaggi. Pur definendosi tutti “combattenti sulla via di Dio”
(mujahiddyn) combattenti ordinari e aspiranti martiri attuano modalità assai differenti di lotta.
62 Bowersock, G. W. 1995, Martyrdom & Rome, CUP, Cambridge.
61
70
fenomeni alla convergenza di due elementi: da un lato il
protagonismo sociale giocato normalmente dalla figura dell’uomo
(o della donna) santo; dall’altro il gesto suicida, tipico della
tradizione romana, che consente di scegliere la morte di fronte alla
impossibilità di affermare la propria dignità. Secondo Bowersock
infatti, questa congiuntura, caratterizzata a suo parere da un clima
politico particolarmente instabile e suscitatore di possibili
atteggiamenti estremistici (si pensi ad asceti, anacoreti e stiliti)
avrebbe alimentato quella che lui chiama una “ideologia della morte
al servizio del trionfo di una causa” (p. 74).
Mentre con il tempo le gerarchie religiose cristiane avrebbero finito
con lo scoraggiare, e quindi espungere l’elemento suicida dalla
professione di fede, anche la più decisa (lasciando ai persecutori il
compito di “fare dei martiri”), nulla di ciò è accaduto nella
tradizione islamica. Ma, a prescindere da questa pur importante
differenza tra le due tradizioni, cristiana e musulmana
rispettivamente, è importante sottolineare soprattutto il contesto
pubblico del martirio cristiano, contesto che solo in quanto pubblico
poteva essere fatto coincidere con una testimonianza nel senso
completo del termine. M. Rizzi63, riprendendo le tesi di Bowersock,
ha cercato di affinare l’ idea di contesto pubblico facendo
opportunamente notare come il “protagonismo [sociale e politico di
quanti avevano lo scopo di far trionfare la causa] aveva un suo
specifico luogo […] quello del tribunale e dell’attività giudiziaria
che […] si svolgeva almeno a due livelli, quello dei tribunali locali e
quello della giurisdizione romana cui sola spettava lo ius gladii”64 (p.
25). “In un simile scenario - prosegue Rizzi – la morte era un esito
possibile, ma non scontato né, forse, neppure probabile. Al
contrario, la presa di posizione di fronte al giudice rivestiva un
rilievo e un impatto pubblico che non di rado si risolveva in un
rafforzamento del prestigio sociale e politico di chi aveva, a vario
titolo, sfidato il potere costituito ai suoi vari livelli” (ibidem). E’
infatti solo nel contesto di tipo giudiziario greco-romano, quindi
pubblico, che il termine martire (martys) sembra trovare la sua vera,
Rizzi, M. 2005, “Da testimoni a martiri. Pratiche di martirio e forme di leadership nella
tradizione cristiana”, Quaderni Nangeroni, Mimesis, Milano, pp. 23-32.
64 Cioè il “diritto della spada”, ossia di condannare a morte i colpevoli.
63
71
originaria, applicazione, significando appunto “testimone” e
venendo ad indicare, a partire dalla seconda metà del II secolo,
l’idea di colui o di colei che dà la vita come “testimonianza” della
propria fede. Ciò non toglie che i cristiani non abbiano sentito il
“desiderio di morire” per la propria fede anche prima si questo
slittamento semantico (Bowersock 1995: 5), ma certo è che solo da
allora, e in conseguenza di tale slittamento, i termini martire e
martirio hanno assunto il significato che oggi viene ad essi
universalmente attribuito, tanto nel cristianesimo quanto nell’islam.
Proseguendo il suo commento alla tesi di Bowersock, Rizzi definisce
il fenomeno come “frutto di un’ideologia del protagonismo sociale a
servizio dell’affermazione di un ideale, in un contesto in cui la
morte era compresa tra gli esiti possibili. Possibili ma non
necessari” (Rizzi 2005:29). E’ l’espressione, “possibili ma non
necessari” a stabilire la differenza tra l’ideologia del protagonismo
sociale, così come si configura alla base del martirio cristiano, e
quella che è alla base del martirio islamico. “Possibile”, per i
cristiani, era (ed è) la morte in quanto inferta da altri, ma ciò non
toglieva che altre forme di persecuzione li potessero far considerare
dei martiri (esilio, confisca dei beni, privazione dei diritti);
“necessaria” è invece la morte per il martire musulmano, tanto che
essa gli venga inferta da altri, quanto che essa sia scientemente
autoprocurata65. Infatti, una divaricazione fondamentale si crea
nella pratica e nella politica del martirio cristiano da un lato e del
martirio islamico dall’altro.
Se l’esito è dunque molto diverso nei due casi, appare invece molto
simile la struttura del contesto in cui tanto il cristiano delle origini
quanto il musulmano attuale possono apparire come dei martiri. E’
infatti un contesto caratterizzato, in ambedue i casi, dalla presenza
di uno spazio di comunicazione visuale che fa del martire cristiano
delle origini e del martire musulmano attuale dei testimoni in quanto
testimoniati (visti/ascoltati) da altri: il pubblico del processo al
cristiano nel primo caso; il pubblico (prevalentemente mediatico)
dell’attacco suicida musulmano nel secondo. L’uno e l’altro sono
Un cristiano del periodo tardo-antico poteva cioè essere un martire in quanto imprigionato,
perseguitato, privato dei beni e della libertà. Un musulmano è shayd, martire, solo in quanto
morto.
65
72
martiri (testimoni della loro fede) solo perché pubblicamente
visti/riconosciuti66.
Le similitudini nella struttura del contesto nei due casi del martirio
cristiano e di quello musulmano riguardano sicuramente altri
aspetti del comportamento che potrebbero essere chiamati
disposizionali e motivazionali.
Il protagonismo politico, e il desiderio di far trionfare la propria
fede (che si pone come “verità”) a qualunque prezzo di fronte
all’ostilità dell’ambiente sociale, sono probabilmente motivazioni
che dispongono gli individui coinvolti a “rischiare” la propria vita
nel caso del cristiano tardo-antico, e a “sacrificarla” nel caso
dell’aspirante shahid contemporaneo.
Una configurazione del tutto speciale sembra assumere, nell’epoca
attuale, l’idea del martirio in ambiente musulmano, almeno nel caso
degli attentatori suicidi. Qui lo shahid è infatti, per definizione, colui
che si auto-immola per testimoniare della propria “fede”. Questo
gesto estremo non è comprensibile solo come reazione disperata ad
un contesto politico caratterizzato dalla violenza. E’ invece un gesto
che, a partire da questo contesto violento, trova una sua ragion
d’essere all’interno di una particolare configurazione disposizionale
e motivazionale, attivata da concezioni specifiche della “sacralità” e
della trascendenza, oltre che da un’ idea particolare della relazione
tra corpo e spirito.
Sacrifici
In uno studio dedicato alle “politiche della morte”67 nella
congiuntura coloniale e postcoloniale, A. Mbembe ha scritto che
nella Palestina odierna convivono “due logiche apparentemente
inconciliabili: la logica del martirio e la logica della sopravvivenza”,
E’ noto che vi sono anche dei “martiri ignoti”, ma questo è un fenomeno ex-post, cioè
istituzionalizzato da un’autorità che, in quanto guida di una comunità (lo stato, la nazione ecc.),
proietta su quei morti (sconosciuti) un potere attivo nella realizzazione della comunità stessa.
67 Mbembe, A. 2003, “Necropolitics”, Public Culture, 15 (1), pp. 11-40.
Per “politiche della morte” (Necropolitics) Mbembe intende, rovesciando (in senso
complementare) l’espressione “biopolitiche” di M. Foucault, “il potere e la capacità di dettare
chi può vivere e chi può morire” come espressione ultima della sovranità nel mondo
contemporaneo (Mbembe 2003: 11).
66
73
dove, in entrambe, sono a loro volta compresenti le idee di morte,
terrore e libertà.
Il contesto dell’attentato suicida descritto da Mbembe sembra
riproporre indirettamente, e per alcuni aspetti, la logica generale
della dinamica sacrificale così come questa è stata delineata in molti
lavori di antropologia e, al contempo, pare evocare alcuni intrecci
tra sacrificio e caccia così come sono stati messi in luce da vari studi
etnografici o teorici più o meno recenti68. Non tutti gli attentatori
suicidi vanno però incontro al “martirio” avendo in mente un’idea
sacrificale quale può essere quella di dare la propria vita per
testimoniare la propria fede religiosa. Infatti,
“Il regista israeliano, Giuliano Mer - intervistato alla trasmissione televisiva
Report del 10 settembre 2004 - descrive così i ragazzi del campo profughi di
Jenin che si facevano esplodere (invano) contro gli immensi caterpillar che
abbattevano le case, con i loro abitanti ancora dentro: ‘Il campo profughi è
molto piccolo, controllato dal più potente esercito del mondo con le
apparecchiature più sofisticate del mondo. Circondati da elicotteri apache e
carri armati, l'unica cosa che possono fare contro questa enorme macchina è
farsi saltare in aria. Dei 23 kamikaze che si sono fatti esplodere a Jenin io ne
conoscevo 6: nessuno era religioso, nessuno cercava vergini nel cielo69, ciò che li
spinge è che preferiscono morire piuttosto che vivere come morti. Io credo che
se i palestinesi avessero il Vietnam dietro di loro si comporterebbero come i
Vietcong ma invece hanno intorno solo cemento, cemento, muri, muri, muri,
muri, muri e muri, una piccola quantità di esplosivo, chiodi, e si fanno saltare
in aria, questo è quello che gli è rimasto.’ “ (De Luna 2006. p. 267).
Come tuttavia vedremo, l’assenza di un ideale religioso non elimina
il dato “sacrificale” del gesto dell’attentatore suicida. Come
cercheremo di mostrare mettendo in dialogo le letture che del
sacrificio fanno Hubert e Mauss e Maurice Bloch da un lato, e
Georges Bataille dall’altro, la dimensione sacrificale non è affatto
assente, neppure tra quanti si autoimmolano senza nutrire alcuna
aspirazione ad entrare nel mondo ultraterreno così come questo è
rappresentato nella tradizione islamica.
Si veda, per tutti, Valeri, Wild Victims ecc. cit.:
Chi muore combattendo per la fede sarà ricompensato dalla presenza, nel paradiso
musulmano, delle Urì.
68
69
74
Cominciamo dunque con gli attentatori credenti. Prima di compiere
ma missione suicida, egli si sottopone a un processo di
sacralizzazione. Egli si “consacra” con preghiere e dichiarazioni di
intenti inerenti ai motivi che lo spingono ad affermare la verità della
fede, e dopo aver ricevuto una benedizione da parte di un imam. E’
solo a questo punto che egli sceglie il suo obiettivo.
L’attentatore parte per la sua missione come individuo
“sacralizzato”. Poiché, assieme alle vittime del suo gesto, diventerà
vittima lui stesso, l’aspirante martire è in uno stato di “sospensione”
che ne fa, per certi aspetti, un “già morto”. Infatti l’espressione con
cui egli è indicato dai suoi è al shahid al hayy, “martire vivente”70.
Lo stato di “sospensione” potrebbe ricordare lo stato di margine o
di liminalità messi in luce da Van Gennep e Turner
rispettivamente71. Come in un rito di passaggio (da essere umano
comune a shahid) l’attentatore suicida si pone, con le dichiarazioni
di intenti, le preghiere e la benedizione di un imam, in uno stato
transitorio che precede la sua definitiva trasformazione nella
condizione ricercata (quella di martire). Non è un caso che nel
tempo che intercorre tra la consacrazione e l’atto suicida, lo shahid
credente si sottoponga alle stesse restrizioni purificatrici previste
per altre occasioni rituali della tradizione musulmana. L’idea che
l’aspirante suicida sia “già morto” è d’altronde in sintonia con la
tendenza, ampiamente diffusa, a parlare di colui o colei che si
appresta a compiere un “passaggio” (per esempio nei riti di
iniziazione), come di una persona “morta”. Questo per due motivi:
perché il suo status è indefinito (ne ha perso uno ma non ne ha
acquistato ancora un altro), e perché è spesso solo in questo stato di
“morte apparente” che l’individuo entra in contatto con il mondo
dell’invisibile, normalmente definito come “sacro” (antenati o
divinità da cui dipendono la vita e la morte).
Come spiegano Hubert e Mauss, il cui ragionamento ruota, come
abbiamo visto, attorno alla coppia concettuale sacro/profano, nei riti
sacrificali la consacrazione è duplice. Essa riguarda il sacrificante
Il che conferma quanto detto più sopra, e cioè che nella tradizione islamica un individuo, per
poter essere martire, deve essere morto.
71 Van Gennep, A. 1981, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino (ed. or. 1909); Turner, V. W. 1972,
Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia (ed. or. 1969).
70
75
che deve entrare in contatto con il sacro. Ma riguarda anche e
soprattutto la vittima, che deve essere consacrata per poter “andare
verso” il sacro a cui è offerta. Per Mauss e Hubert il sacrificio è
infatti, come si è già detto, “un atto religioso che, mediante la
consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale
che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa”
(p. 22). Per questi autori esiste, come sappiamo, un’unità dei sistemi
sacrificali ma questa non è un dato sostanziale, bensì di forma, cioè
la modificazione dello stato morale del beneficiario e/o
dell’officiante mediante una consacrazione, la distruzione e l’offerta
di una vittima. Ora, nel caso degli attentatori suicidi, le pratiche di
sacralizzazione dell’aspirante shahid sono le stesse per il sacrificante
e per vittima poiché, nel caso specifico, il sacrificante e la vittima
sono la stessa cosa. Nel momento in cui si consacra come
sacrificante, l’individuo si consacra anche come vittima.
Nel modello di Hubert e Mauss abbiamo dunque la vittima (che
deve essere consacrata), degli officianti (il cui stato morale viene
modificato), così come dei beneficiari che acquisiscono i vantaggi
dell’atto sacrificale e vengono quindi modificati anch’essi.
Sappiamo che nella interpretazione del sacrificio di Hubert e Mauss
la struttura di questo rituale prevede la progressiva ascesa della
vittima e del sacrificante dallo stato profano ad una condizione di
sacralità72. Quest’ultima culmina con la distruzione della vittima e
con un progressivo ritorno di vittima e sacrificante allo stato
profano: il sacrificante riprende il suo normale ruolo nella società,
mentre la vittima si presenta o sotto forma di bene d’uso (se viene
consumata) o come puro “resto” materiale (se viene completamente
distrutta).
La dinamica sacrificale dell’attentatore suicida ha esiti materiali
diversi, ma simili sul piano della rappresentazione. Il sacrificante,
infatti, non torna allo stato profano trasformato, ma vi torna come
“cosa” quando non si dissolve completamente. Sono le vittime del
suo gesto diverse da lui (i nemici) a diventare puri resti materiali.
Queste ultime hanno qualcosa che le assimila, almeno in parte, alle
72
Sull’utilizzazione del termine sacrificante in Hubert e Mauss v. nota 1.
76
prede di una battuta di caccia73. Una plausibile spiegazione di
questo gesto distruttivo, compiuto da attentatore suicida tanto
credente quanto non credente, ma riferita al contesto israelopalestinese è, come scrive lo storico G. De Luna74, che
“una ricerca di Paola Sacchi75 ha…... recentemente sottolineato la vastissima
portata simbolica che è racchiusa nella distruzione del corpo dei nemici operata
dagli uomini-bomba. Va ricordato anzitutto che secondo la tradizione religiosa
ebraica (halacha) il corpo deve essere sepolto rapidamente nella terra, e che i
resti corporei sono considerati e trattati come se fossero il corpo intero. I morti e
i loro resti devono essere onorati perché sono destinati a risorgere, trattarli
impropriamente è un peccato contro Dio. Secondo la legge religiosa tutta la
materia corporea deve essere sepolta, anche il sangue.
“La forza di questo imperativo si vede bene, quando esplode una bomba in un attentato:
ogni volta interviene una squadra di ebrei ortodossi volontari che assolve al dovere
sacro di raccogliere tutti i frammenti dei corpi anche il sangue che è gocciolato viene
raccolto con dei pezzi di stoffa, così come vengono raccolti gli oggetti macchiati di
sangue, per essere poi sepolti con il cadavere. E talmente importante seppellire corpi
integri e perfetti che non solo si restituisce ogni materia corporea alla tomba, ma ai
membri dell'associazione religiosa (Chevra kadisha) che controlla le sepolture è concesso
persino intervenire per «perfezionare» il corpo dopo la morte, circoncidendo o
eliminando i tatuaggi per esempio"76.
Il centro nevralgico di queste operazioni è l'Istituto di medicina legale di
Gerusalemme, il luogo privilegiato da Meira Weiss per condurre le sue ricerche
sulla centralità del «corpo del soldato» nella definizione di una identità
nazionale israeliana fortemente segnata in senso militarista`77. ‘In questo senso,
Ricordiamo che molto spesso le vittime dei sacrifici erano, e sono, procurate attraverso una
messinscena che, anche nel caso di sacrifici compiuti su animali domestici, mima la sorpresa, la
cattura, la presa in trappola dell’animale da sacrificare, proprio come se fosse la preda di una
battuta di caccia. Cfr Detienne e Vernant 1982 e Valeri 1994.
74 De Luna, G. Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi,
Torino 2006.
75 Cfr. P. Sacchi, “Le politiche dei resti umani nel conflitto israelo-palestinese” in AAVV. Morte e
trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Bruno Mondadori, Milano 2006.
76 Weiss, M., The Chosen Body. The Politics of the Body in Israeli Society, Stanford University Press,
Stanford 2002, pp. 57-64.
77 ‘Una volta che i frammenti dei corpi sono giunti all'Istituto, raccolti negli appositi sacchetti di
plastica numerati in sequenza, è fondamentale tenere distinti resti e corpi sulla base delle
dicotomie noi/loro, ebrei / non ebrei, soldati / non soldati. In particolare, all'Istituto i corpi dei
soldati sono tenuti separati e trattati quasi cerimonialmente, ed è proibito in qualsiasi
circostanza prelevare tessuti da loro. Come riferisce Weiss, molti degli intervistati tra il
personale dell'Istituto insistevano sull'importanza di «non toccare» i corpi dei soldati: « il
soldato è un eroe ... il suo corpo è sacro. Noi non dobbiamo toccarlo, non dobbiamo portare via
niente». Cfr. M. Weiss, The Body of the Nation: Terrorism and Embodiment of Nationalism in
Contemporary Israel, in «Anthropological QuarterIy», LXXV (2001), n. 1, PP. 47-48.
73
77
la disintegrazione dei corpi delle vittime è qualcosa che va anche al di là degli
scopi politico-militari degli attentati (seminare panico e insicurezza nelle file
nemiche, vendicare i propri caduti, testimoniare la propria forza), e punta
direttamente a «intaccare simbolicamente un corpo sociale e un'identità
nazionale che assegnano particolare valore e significato al corpo fisico integro’
”78.(De Luna pp. 268-69).
Nella logica dello shahid, la volontà di auto-annientamento si fonde
con quella di portare con sé il nemico e di “intaccarlo
simbolicamente”. In questo senso è ragionevole supporre che il
martirio musulmano, oltre ad avere una dimensione pubblica,79
possieda anche una valenza “totalizzante”, almeno nel senso che
esso prevede che anche le vittime del gesto dello shahid siano
partecipi della testimonianza. Secondo F. Devji, infatti, “non solo le
persone, ma anche animali, edifici e altri oggetti inanimati possono
essere partecipi del rito del martirio, compresi perfino coloro che
assistono al martirio di altri senza essere uccisi” (Devji 2005: 95). La
“testimonianza” è per definizione un atto pubblico, e siccome i
martiri musulmani attuali si muovono in un ambiente fortemente
mediatizzato, molte cose che altrimenti sarebbero probabilmente
escluse concettualmente dall’atto medesimo, entrano invece a farne
parte80.
P. Sacchi, Le politiche, cit.
E’ opportuno sottolineare come si dovrebbe sempre precisare il contesto di riferimento
dell’attentatore suicida. Non è detto infatti che un aspirante martire palestinese sarebbe
disposto a fare “la stessa cosa” in Europa; né che l’aspirante shahid sunnita che colpisce i
musulmani shi’iti in Iraq morirebbe allo stesso modo in Israele. L’idea del martirio cioè,
dovrebbe essere modulata localmente e in relazioni alle condizioni storico-politiche, alle
retoriche, e alle caratteristiche che sono proprie del contesto locale. E’ infatti la mancata
considerazione del contesto specifico in cui l’aspirante martire agisce a rinviare un’immagine
uniforme del jihad e del martirio medesimo.
80 Nella sua analisi Devji giunge a sostenere che “la rappresentazione
mediatica del martirio crea una comunità globale la cui testimonianza
impone determinate responsabilità ai suoi membri. Questa comunità non
è circoscritta ai soli musulmani, ma include tutti coloro che portano
la loro testimonianza [...] In un certo qual modo perfino i nemici del
jihad – o le sue vittime – partecipano nei riti del martirio morendo
accanto agli attentatori suicidi come negli attacchi spettacolari
dell’11 Settembre. Questo fatto può spiegare perché i supporters del
jihad traccino continui paralleli tra la propria morte e quella dei
loro nemici, poiché entrambe si fondono in una comunità di martirio
resa possibile dalla intimità virtuale dei media che consente a
ciascuna parte di scambiare parole e atti con gli altri” (p. 96). Da
questo punto di vista Devji sembra andare in una direzione contraria a
quella di Mbembe, il quale si chiede “se la differenza delle armi
usate per infliggere la morte [armi classiche da una parte e uomini e
78
79
78
Rimane ancora da spiegare il senso dell’autoannientamento, cioè
del cupio dissolvi perseguito dall’aspirante martire nei confronti
della
sua
stessa
fisicità.
Una
lettura
antropologica
dell’autoannientamento fisico, concepito come parte e condizione
essenziale della riuscita dell’aspirante martire, comporta una
riflessione sulla violenza sacrificale e sulla concezione del corpo,
oltre che dei rapporti che intercorrono tra quest’ultimo da un lato e
la dimensione trascendente e spirituale dall’altro.
La violenza distruttiva che scaturisce dall’atto di autoeliminazione
sembra voler significare, come scrive Mbembe, che con un simile
gesto si vuole “chiudere a tutti la porta alla possibilità di vivere” (p.
37). Questa semplice constatazione sembrerebbe a prima vista
contrastare con il “desiderio di libertà” che gli attentatori suicidi
palestinesi vogliono esprimere con il proprio gesto. Il gesto del
martire musulmano è certamente un atto disperato, ma è
inscrivibile in un processo complesso, che vede entrare in azione
una concezione particolare del rapporto tra violenza, trascendenza,
morte ma anche, e soprattutto, vita.
Nel suo studio comparativo sul ruolo svolto dalla violenza nella
religione Maurice Bloch (2005) ha prospettato la possibilità che la
trascendenza, lungi dall’essere un’istanza archetipica81, sia il
prodotto più generale delle varie forme che le relazioni politiche
possono assumere82.
Bloch è interessato a cogliere, sotto la loro apparente diversità,
l’identità di struttura dei riti “religiosi”. Rifacendosi a Van Gennep e
a Turner, e alla loro idea di “andata – sospensione – ritorno” come
struttura caratteristica dei processi rituali, egli cerca di spiegare il
ruolo che la violenza assume all’interno di questi ultimi. La teoria di
donne-bomba dall’altra] non impedisca l’instaurazione di un sistema di scambio generalizzato
tra il modo di uccidere e il modo di morire” (p. 36).
81 Bloch si oppone decisamente alla visione essenzialista e riduttiva che della violenza ha R.
Girard (1980), per il quale la violenza sarebbe connaturata all’essere umano. Secondo Girard, le
comunità umane, per potersi (temporaneamente) sbarazzare della violenza distruttiva,
andrebbero incontro a periodiche “crisi sacrificali” nelle quali i “capri espiatori” vengono fatti
oggetto di atti appunto violenti con il fine di trasformare la violenza distruttiva per la comunità
in una violenza costruttiva, cioè rafforzatrice dell’ordine e della forza (interna) della comunità.
Come si vedrà, la teoria di Girard, per quanto parta da premesse diverse da quelle di Bloch, ha
esiti simili, anche se in Girard tali esiti sono enunciati nella forma dell’astrazione filosofica.
82 Se si vuole, la teoria di Bloch rientra in quella grande “famiglia” delle teorie della religione
che fanno di quest’ultima un fenomeno proiettivo.
79
Bloch è che subendo una violenza nella fase di “andata” (quando
per esempio un individuo è sottoposto ai riti che lo allontanano da
una certa situazione di status) egli è dominato dalle forze
trascendenti (antenati, divinità) che, come spesso viene affermato,
“vegliano” sul rito. Questa violenza “uccide” colui che è sottoposto
ad un rito (per esempio di iniziazione) al punto che, come si è visto,
si parla dell’iniziando come di un “morto”. E’ tuttavia in questo
stato intermedio di sospensione che l’individuo acquisisce quella
forza che gli consentirà di “far ritorno” politicamente più potente di
prima (con un nuovo status superiore a quello che gli era proprio e
che ha definitivamente abbandonato). Questa forza gli viene dal
mondo trascendente, cioè dal contatto con quei poteri che gli sono
stati trasmessi quando era “morto”, quando cioè lui stesso faceva
parte (simbolicamente) del mondo invisibile. Bloch sostiene,
adducendo prove etnografiche spesso convincenti, che in molti riti
di questo tipo gli iniziati, tornando più forti al mondo dei “vivi”
(prima erano infatti “morti”) manifestano questa loro forza con atti
violenti che possono andare da sacrifici animali (seguiti da
banchetti) alla messa in atto di azioni ostili contro nemici o rivali. È
allora in questo senso che il trascendente si configurerebbe come il
prodotto delle relazioni politiche, tanto interne quanto esterne al
gruppo.
La dimensione della violenza è centrale in ogni religione, e la
religione stessa, d’altra parte, non cessa mai di ricordarcelo. Con
sacrifici reali o con la memoria di essi, come quella di figure
martirizzate (il capro sacrificale di ebrei e musulmani in
sostituzione del figlio di Abramo, la Passione di Cristo, i martiri
stessi) la religione incorpora dell’idioma della violenza e se ne
avvale, riproponendola in un linguaggio di tipo iconico83, il quale si
esprime attraverso quelli che Geertz ha definito “simboli sacri”, cioè
i “segni” delle verità della fede che si svelano attraverso i simboli
medesimi e il cui effetto è quello di fortificare la “comunità dei
credenti”84.
Nel senso che “significa di per sé”, al di là della possibilità o meno di potersi costruire come
discorso.
84 Il caso prototipico del linguaggio iconico della violenza nella religione è costituito dal
crocifisso, il quale è un simbolo sacro la cui visione rinvia (iconicamente) alle “verità” della fede
cristiana (morte e resurrezione in primis). Ad ogni modo, in hoc signo vinces.
83
80
È dunque in questo senso che diventa comprensibile il significato
della violenza sacrificale: dare più forza a chi compie il sacrificio e
alla comunità a cui costui appartiene. Di conseguenza
l’autodistruzione perseguita dall’aspirante martire potrebbe essere
interpretata come un atto inteso a fortificare il sacrificante e la sua
comunità di fronte alle difficoltà, le sofferenze e i soprusi subiti per
mano del nemico o dell’occupante. L’aspirante martire, credente
oppure no, procede di fatto ad un “lavoro di sacralizzazione” che
precede il gesto suicida, “prende” una forza che può provenirgli
solo e unicamente dalla dimensione trascendente: Dio85 o qualcosa
d’altro (come vedremo). È con questa forza “aggiunta” che
l’aspirante shahid può infatti scagliarsi contro il suo obiettivo. È una
forza spirituale, che trascende l’immanenza del suo stesso corpo.
Nel suo lavoro Mbembe fa ad esempio osservare come nella logica
del martirio sembri emergere una nuova semiotica. Il corpo
dell’aspirante martire non è qualcosa da proteggere, tutt’altro. Esso
non ha né potere né valore, come corpo. Ha potere “solo in quanto è
sottoposto a un processo di astrazione basato sul desiderio di
eternità”, in quanto, scrive Mbembe, “il martire, avendo stabilito un
momento di supremazia nel quale egli ha prevalso sulla propria
natura mortale, può essere visto come operante nel segno del
futuro” (Mbembe p. 37). Questo processo di astrazione, questa
supremazia, questo prevalere sulla propria natura mortale è la forza
della trascendenza acquisita dall’aspirante martire nel processo di
sacralizzazione. Ma non è necessario essere credenti per compiere
un atto sacrificale. Infatti, il martire opera, come dice Mbembe, nel
segno del futuro, dove questo futuro non è la vita ultraterrena, con
la presenza di una evidente concezione messianica del tempo – il
presente è il futuro e viceversa – ma anche la “direzione” della
motivazione al martirio. E’ qui che la logica della liberazione si
affianca a quella del martirio., ed è qui che tale logica, che sia
Lo schema di Bloch non può essere trasferito tout court a qualunque situazione sacrificale.
Ma se lo applicassimo qui interamente, anche a puro scopo di esercizio, e volessimo identificare
la violenza fatta su colui che subisce la trasformazione da essere umano comune a martire,
questa violenza potrebbe essere identificata con quella che il soggetto, e la sua comunità,
avvertono come subita in quanto proveniente dall’esterno e che si traduce in una immagine di
sé come di “oppressi”.
85
81
pensata dentro una rappresentazione religiosa oppure no, assume la
dimensione della trascendenza.
Alla luce di quanto si è visto a proposito della violenza sacrificale, la
concezione che l’aspirante martire ha del proprio corpo dipende
dalla funzione “operativa” del corpo medesimo: quella di accedere
alla trascendenza. Come? Mediante il sacrificio del corpo stesso.
Questa funzione operativa del corpo che, autodistruggendosi, si
accosta al trascendente, di qualunque trascendente si tratti (Dio o il
futuro) può forse essere meglio compresa alla luce di quanto è stato
sostenuto da G. Bataille il quale, a proposito del corpo e dello
spirito, ha scritto:
“La miseria dell’uomo, in quanto è [si percepisce come] spirito, consiste
nell’avere il corpo di un animale e dunque essere come una cosa, ma la gloria
del corpo umano è di essere il substrato di uno spirito. E lo spirito è così
strettamente avvinto al corpo-cosa che questo non cessa mai di essere assillato,
non è mai cosa che al limite, al punto che, se la morte lo riduce allo stato di
cosa, lo spirito è più presente che mai: il corpo che l’ha tradito lo rivela
maggiormente di quando lo serviva. In un certo senso il cadavere è la più
perfetta affermazione dello spirito. È l’essenza stessa dello spirito che
l’impotenza definitiva e l’assenza del morto rivelano, allo stesso modo in cui il
grido di colui che viene ucciso è l’affermazione suprema della vita” (Bataille
2002: 38).
In questa prospettiva la distruzione del corpo non è tanto ciò che
libera lo spirito, quanto ciò che lo fa più presente che mai. Uno
spirito che, nella concezione dello shahid, è tanto più presente
quanto più il suo corpo è dissolto. Autodistruggersi imbottiti di
esplosivo non è infatti solo un mezzo efficace per sorprendere il
nemico, per fare del proprio corpo un’arma aumentando la forza
devastante dell’esplosione, è anche un’espressione estetica del
modo di concepire un sacrificio, dove ciò che è corporeo scompare
per far posto alla trascendenza vista come ragione ultima della
sopravvivenza.
Il ricorso alla violenza suicida è quindi, oltre che un atto politicomilitare, una complessa forma di comunicazione sociale che,
sebbene plasmata da istanze mediatiche, contiene in sé una
complessa concezione dell’individuo, della comunità, del corpo,
della trascendenza nonché del tempo e, naturalmente, della
82
violenza medesima. Alla violenza in quanto forma di linguaggio
viene conferita una forma e un significato all’interno di linguaggi e
pratiche che sono tipiche di un certo contesto storico-sociale per cui
essa può trasformarsi in un processo di “costruzione mediante
distruzione, dove la sofferenza di un individuo può diventare una
benedizione per l’intera società”86. Emerge dunque una concezione
particolare del rapporto che lega vita, morte e rinascita, tipico, come
abbiamo visto, di tutti i “sistemi” religiosi e non solo. La
testimonianza martiriale (istishahad) dell’attentatore suicida ha
senso solo in vista di una vita ulteriore, la quale non è
necessariamente solo quella del martire in Paradiso, ma anche
quella, fisica e terrena, della sua comunità. E’ a questo punto che la
violenza “religiosa” in senso lato, bataillano, diventa tutt’uno con la
violenza politica.
Un atto sacrificale è, come è stato fatto osservare in relazione a
tutt’altro contesto - le pratiche di risoluzione di un attacco di
stregoneria tra i buddisti dello Sri Lanka - “qualcosa che restituisce
una agentività (agency) alla vittima di un attacco, la quale, per
potersene liberare, compie un atto sacrificale”87. Compiere un atto
sacrificale significa, in questo contesto, e forse ovunque, fare di se
stessi un “costruttore di mondi”, qualcuno che si impegna “in un
atto di auto-ricreazione e che è in grado di riplasmare le relazioni
[sconnesse] nel mondo, così come queste influiscono sulle
possibilità vitali della vittima” (ibidem). Questa definizione della
vittima di una violenza che, per liberarsi di quest’ultima, compie un
sacrificio suscettibile di “rimettere a posto” l’ordine delle cose,
sembra adattarsi perfettamente anche allo shahid. Percependosi
come vittima di una violenza, egli, o ella, – indipendentemente dal
fatto che sia credente oppure no - compie un sacrificio con cui
diventa possibile liberare quelle forze capaci di conferire un ordine
al mondo. Ma il sacrificio che compie lo compie su di sé (oltre che
naturalmente sui suoi nemici), in un atto estremo per far emergere
Aijmer, G. 2000, “Introduction: The Idiom of Violence in Imagery and Discourse”, in Aijmer,
G. e Abbink, J. (Eds.) Meanings of Violence, Berg, Oxford and New York, p. 8.
87 Kapferer, B.1997, The Feast of the Sorcerer. Practices of Consciousness and Power, Chicago
University Press, Chicago, p. 184
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quelle forze spirituali e trascendenti da cui dipende, in ultima
istanza, l’unico ordine possibile.
È solo all’interno di questa particolare configurazione, fatta di
trascendenza, sacralità, concezioni del rapporto tra corpo e spirito,
nonché di violenza politica e attesa messianica, che noi possiamo
tentare di cogliere la specificità dell’atto che, nella rappresentazione
di chi lo compie, fa dell’attentatore suicida un martire musulmano,
uno shahid.
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