la revisione costituzionale
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LA REVISIONE COSTITUZIONALE Ossia, come intervenire sulle fondamenta di un enorme palazzo senza farlo crollare (a cura di Francesco Dalla Balla) FONTI NORMATIVE FONTI NORMATIVE Costituzione: 70 – 70 75 –– 71 76 –– 73 77 – 138 – 139 Costituzionet. artt. L’occhio sull’attualità… «Dobbiamo eliminare il senato per come lo conosciamo. Questa riforma è la chiave di tutto Matteo Renzi, da “Europa” «Entro il 25 maggio dobbiamo approvare la riforma istituzionale in prima lettura». Matteo Renzi, da Il Sole 24 Ore, 18/03/2014 «Dovremo arrivare a quelle riforme della Costituzione che sono necessarie perché la Carta è una legge fatta molti anni fa sotto l’influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello da cui prendere molte indicazioni». Silvio Berlusconi (FI), Corriere della Sera, 07/02/2009 «Costituzione vecchia, è da buttare». Silvio Berlusconi (FI),da l’Unità, 09/04/2011 «La riforma costituzionale sul semipresidenzialismo è la riforma delle riforme». Angelino Alfano (NCD), su www.pdl.it «I deputati del M5S hanno occupato, venerdì sera, il tetto della Camera dei Deputati come protesta contro il Ddl per le riforme costituzionali in discussione in queste ore a Montecitorio. I dodici deputati 5 Stelle hanno esposto uno striscione «6X8» calandolo sulla facciata di Montecitorio. La scritta riportata è: «La Costituzione è di tutti» […][e] sostengono che “si sta scardinando l'articolo 138 della Costituzione”». Da www.corriere.it, 06/09/2013 «Siamo di fronte a un bivio: procedere con la chiusura della legislatura, attraverso il voto anticipato, o trasformarla in una legislatura costituente». Matteo Renzi alla Direzione Pd, 13/03/2014 «Quella che si apre a marzo deve essere una legislatura costituente». Enrico Letta, Europa, 12/02/2013 «La prossima legislatura sarà costituente». Pierluigi Bersani a Il Sole 24h, 30/10/2012 Monti: «Prossima legislatura costituente per riforme. La priorità riduzione numero parlamentari e semplificazione leggi». Da La Stampa, 02/01/2013 «Auspico che si cominci a realizzare una legislatura costituente». Renato Schifani (allora Presidente del Senato), 30/07/2009 «Ci sono le condizioni per una legislatura costituente». Gianfranco Fini (allora Presidente della Camera), 29/07/2008 Violante [allora Presidente della Camera n.d.a.] apre alla Costituente: «Ripartiamo dal disegno di legge per la Costituente […] presentato al Senato. Se passa bene, altrimenti si proceda con l' articolo 138 o la Bicamerale». Da la Repubblica 31/07/1997 Proviamo ad insinuarvi qualche dubbio… Si può modificare qualsiasi parte della Costituzione? E il legislatore, nel rispetto del procedimento stabilito, è libero anche di sovvertirla, sopprimendo le libertà civili ed i diritti fondamentali da essa tutelati? Perché se la riforma è approvata in seconda lettura con maggioranza di 2/3 non si può dar luogo a referendum? Supponiamo che un legislatore, reso folle dall’enorme consenso che gli ha consegnato i 2/3 dei parlamentari, decida di riscrivere la legge fondamentale dello Stato, che possibilità rimangono ai cittadini per impedirlo? Perché il referendum costituzionale non prevede un quorum strutturale? Il Presidente della Repubblica può rifiutarsi di firmare una legge costituzionale? E se firma una legge di revisione costituzionale contraria ai principi fondamentali ed inderogabili della Carta (c.d. “principi supremi”), è passibile di essere incriminato per “attentato alla Costituzione”? La Corte costituzionale può giudicare la costituzionalità di una legge costituzionale? Perché tra le forze politiche, da destra a sinistra, (quasi) tutti auspicano una “legislatura costituente”? È così antiquata la nostra Carta? Inquadramento costituzionale La revisione costituzionale e le “altre leggi costituzionali” trovano la loro pressoché integrale disciplina nella Costituzione, sia sotto il profilo del procedimento che dei limiti di contenuto. A quest’ultimo riguardo, però, la Costituzione, all’art. 139, ci dice soltanto che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”: espressione che può volere dire tutto e niente. È chiaro come questo articolo affondi le radici nel risultato del referendum che, il 2 giugno 1946, decretò la nascita della Repubblica e la fine della Monarchia. Ed è questa anche l’impostazione che emerge dai lavori dell’Assemblea costituente, che infatti videro, sul punto, la strenua opposizione delle rappresentanze della destra monarchica. E quindi? Significa forse che la Costituzione rende in assoluto non restaurabile la Monarchia, fornendo alla Repubblica un carattere permanente che soltanto una rivoluzione potrà sovvertire? O, al contrario, essendo l’opzione repubblicana frutto di una scelta referendaria, la Carta impone che solo una nuova consultazione popolare a possa riformarne la decisione? O, ancora, più semplicemente, ciò comporta esclusivamente la necessità di una doppia revisione: prima l’eliminazione del limite di cui all’art. 139 con legge costituzionale, poi la modifica? In buona parte, sono interrogativi destinati a rimanere tali: non esiste, al momento, una soluzione del tutto univoca e condivisa, anche se ad oggi la dottrina prevalente tende ad escludere la strada della “rivoluzione” e si concentra, piuttosto, sulla ipotetica praticabilità di procedimenti istituzionali compatibili con l’assetto fondamentale della Carta. Ad ogni modo, già dai primi anni dopo l’avvento della Costituzione si comprese che “forma repubblicana” non poteva intendersi soltanto come limite alla restaurazione monarchica: repubblica è anche sinonimo di democrazia e sovranità popolare. Viene così valorizzato il legame tra l’art. 139 e l’art. 1, tra il primo e l’ultimo articolo della Carta costituzionale, sulla base di un orientamento già autorevolmente rappresentato in Costituente. La questione dell’interpretazione dell’art. 139 è, però, passata in secondo piano, allorquando la Corte costituzionale (conformandosi peraltro ad alcune tesi dottrinali) ha ritenuto di leggere tra le righe della Carta i cosiddetti “principi supremi”, un nuovo, diverso limite alla revisione costituzionale, dotato di una rilevanza pragmatica enorme, tanto fondamentale quanto arcano e foriero di interrogativi. Siamo nel 1988 e la Corte sta valutando se la previsione, da parte dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, di un’immunità per le opinioni espresse dai consiglieri provinciali violi l’articolo 3 Cost. (principio di uguaglianza). L’antefatto in sé non è certo di importanza cruciale (un consigliere bolzanino aveva vilipeso la bandiera) e il rinvio del giudice a quo è comunque così mal scritto e mal argomentato da portare alla declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità. Quella che ne esce, però, è una sentenza dall’efficacia deflagrante, divenuta ad oggi pietra cardine del nostro sistema costituzionale, punto di snodo fondamentale tra il principio democratico e l’equilibrio dei poteri, anche se ancora non chiarito in tutte le sue sfaccettature. L’Avvocatura dello Stato aveva infatti obbiettato che la Consulta non poteva giudicare leggi costituzionali (si ricordi che gli statuti regionali speciali hanno questa caratteristica) e i giudici delle leggi colgono l’occasione non soltanto per dire che ciò non è vero (l’art. 139 Cost., dicono, ne è la dimostrazione), ma anche per affermare che al di là dei limiti “espliciti” affermati dalla stessa Carta “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali […], pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, [perché] appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Ma quali sono questi valori? Non c’è infatti una “tipizzazione” (vale a dire una lista tassativa) di principi supremi capace di guidare l’interprete; spetta perciò alla stessa Corte definirli, di volta in volta, nel suo insindacabile giudizio. È facile comprendere come, così facendo, la Consulta si è attribuita un potere enorme, che comprime in maniera drastica, ma incerta, le possibilità di revisione nelle mani del legislatore. Ma non è solo il legislatore ad uscirne limitato: ciò che la Corte nei fatti impone con l’affermazione dell’immodificabilità è il divieto al popolo stesso (formalmente sovrano) di disporre di taluni principi e di parte della propria Costituzione, attraverso il limite stabilito all’azione dei suoi rappresentanti. Un limite che è la Corte stessa, organo slegato dal circuito democratico-rappresentativo, a definire (come detto, manca un “elenco dei principi supremi”) e a garantire; una natura che, come sostenuto da taluno in dottrina, la pone come un organo quasi al limite del principio democratico. E per fortuna, potremmo dire. Gli equilibri politici sono transeunti, volubili, strettamente relativi, il consenso è spesso facile, la repressione del dissenso possibile (e infatti già sperimentata); i principi invece sono duraturi, frutto di una lunga e sanguinosa conquista, con una natura stabile che prescinde dal momento contingente, dalle generazioni, dalle etnie e dalla cittadinanza. I traguardi di civiltà, d’altra parte, possono essere lunghi e faticosi da raggiungere, ma può volerci poco (e la storia lo ha dimostrato) per frantumarli. I principi fondamentali sono non soltanto questione di assetto istituzionale del Paese (che è mutevole e calato nel proprio tempo), ma anche di responsabile eredità tra generazioni. Non è infatti così inverosimile, del resto, che una maggioranza politica, sfruttando la forza dell’intimidazione, orienti il risultato di un referendum o imponga una legge elettorale (che, si ricordi, è una legge ordinaria) che le garantisca la maggioranza dei 2/3 in Parlamento. La presa di posizione della Corte, poi, fa da contraltare alla previsione della Carta secondo cui la legge costituzionale approvata dalle Camere, in seconda lettura, con la maggioranza dei 2/3, non può essere oggetto di referendum: se così non fosse l’eventuale maggioranza politica dei 2/3 (raggiunta mediante esplosione di consenso, accordi politici, meccanismi elettorali) avrebbe un potere amplissimo, slegato da quel sistema di pesi e contrappesi (checks and balances) che caratterizza lo stato di diritto. Cosa ne penserebbe il Costituente? Non lo sappiamo; sappiamo però che dal dettato della Carta traspare una certa sfiducia nella volontà delle “masse”; l’interpretazione dell’art. 139 resa dalla Corte non appare, perciò, così distante da quell’esigenza di “protezione del popolo da se stesso”, che ha guidato i Padri e le Madri del 1948 in molte delle loro scelte ed in riferimento ad altri istituti che già si è avuto modo (e che si avrà ancora modo) di ricordare. Ciononostante, quello dei principi supremi resta un punto estremamente problematico: quali sono questi principi supremi, quale il criterio per definirli, come può il legislatore legiferare in materia costituzionale nell’incertezza di ciò che può o non può modificare? Sono interrogativi che restano insoluti ed ancor più controverso rimane il nodo tra costituzione materiale e principi supremi: l’interpretazione di un principio, la sua preminenza rispetto ad altri ed il bilanciamento tra valori contrastanti (in pratica, la stessa qualificazione come “supremo”), rimangono questione relativa, di interpretazione, sensibile ai tempi ed alle scale valoriali che con essi cambiano. Come si possono affermare l’assolutezza e l’intangibilità dei principi supremi, se la loro individuazione è legata ad una cosa volubile, oscillante e relativa come l’interpretazione? Alcuni principi supremi In pratica, ad oggi, dopo quasi 25 anni dalla sentenza del 1988, possiamo rifarci soltanto alla giurisprudenza della Consulta per l’individuazione dei principi ritenuti “supremi”, di volta in volta emergenti nelle decisioni. Tuttavia è necessario prestare particolare attenzione nell’analisi delle sentenze, soprattutto in riferimento a quelle precedenti il 1988, scartando quelle in cui l’espressione è stata utilizzata in modo inappropriato. Secondo un’autorevole ed accreditata lettura della giurisprudenza della suprema Corte1, andrebbero ricondotti al novero dei principi supremi la sovranità popolare (art. 1), l’ordinamento democratico (che deve ritenersi comunque tutelato, come detto, alla luce dell’art. 139 Cost.), il principio di uguaglianza (art. 3), il diritto di difesa giurisdizionale, il principio di laicità dello Stato… Altri limiti alla revisione costituzionale Oltre a quanto detto sopra, dottrina e giurisprudenza hanno tratto dall’interpretazione della lettera della Carta ulteriori limiti. Si ritengono insuscettibili di revisione costituzionale i diritti della persona umana che l’art. 2 Cost. definisce “inviolabili” (libertà e segretezza delle comunicazioni, identità personale e sessuale, diritto alla salute, diritto al lavoro…). Appare idonea a rappresentare un limite alla revisione costituzionale anche l’“indivisibilità” della Repubblica di cui all’art. 5. Più esplicito pare l’art. 132 che autorizza la costituzione di nuove regioni mediante legge costituzionale, fissando però un limite “minimo di un milione di abitanti”. 1 Commento all’art. 139 in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, “Commentario alla Costituzione”, Utet, Torino. Il procedimento di revisione costituzionale: schema riassuntivo Una scaletta logica La revisione costituzionale ed altre leggi costituzionali o La natura rigida della Costituzione o Le fonti di rango costituzionale (→ art. 138) Leggi di revisione Altre leggi costituzionali o Il procedimento e il “doppio binario” Prima lettura (magg. relativa) Intervallo Seconda lettura Maggioranza assoluta Maggioranza 2/3 (→ art. 138, comma 3) o Referendum sospensivo (art. 138, comma 2) Efficacia sospensiva No quorum strutturale Modalità di attivazione o Limiti alla revisione costituzionale Il limite esplicito dell’art. 139 Repubblica/monarchia Principio democratico I principi supremi (→ sent. cost. 1146/1988) Pregi e difetti dell’interpretazione della Corte Alcuni principi supremi (→sovranità popolare, uguaglianza, laicità…) Altri limiti Art. 2 e i diritti “inviolabili” Art. 5 e la repubblica “indivisibile” Art. 132 e il milione “minimo” di abitanti Approfondimenti & attualità: revisionare la revisione Al discorso giuridico ed un po’ filosofico sulla revisione costituzionale è, forse, interessante agganciare qualche osservazione sulla quotidianità politica e gli avvenimenti dell’attualità, che hanno reso il tema assai celebre, anche di recente. Nella liquida situazione politica italiana, in particolar modo a partire dalla cosiddetta “seconda Repubblica”, l’art. 138 Cost. ed i suoi vincoli sono stati spesso visti, se non con insofferenza, quantomeno con un certo fastidio, in ossequio a quella convinzione, ormai socialmente e politicamente profondamente radicata, per cui la maggioranza, forte e rappresentativa del consenso ricevuto, dovrebbe essere, se non legibus soluta, quantomeno pienamente in grado di portare avanti e concretizzare il proprio disegno politico, senza se e senza ma, fino al successivo appuntamento quinquennale, in occasione del quale saranno gli elettori a poterne confermare o smentire l’azione, attribuendo o negando il consenso nelle urne. Così, il legislatore, se, da un lato, ha comunque portato avanti progetti, più o meno fortunati, di incisiva riforma del dettato della Carta mediante la via ordinaria del 138, ha, a più riprese, anche cercato di deviarne e semplificarne il percorso, con l’obbiettivo di incardinare le riforme su un binario più rapido, più facile o meno politicamente impegnativo. Una tentazione che non appare del tutto sopita. In via generale, va annotato che, secondo un’accreditata ricostruzione dottrinale, il desiderio di rifondazione delle basi istituzionali dello Stato sarebbe, per quanto riguarda la nostra storia repubblicana, elemento tipico e ricorrente in momenti di particolare debolezza e delegittimazione della politica, che, da un lato, cerca di mascherare la propria fragilità, mostrando l’intento di lanciarsi nel più complesso ed ambizioso tra i possibili progetti di riforma, la riscrittura della Costituzione, dall’altro, rincorre il prestigio perduto, proponendo l’immagine di sé come nobile cenacolo “padri costituenti”. Guardando al dato concreto e cercando di evidenziare gli elementi ricorrenti nelle diverse riforme, in primo luogo, i tentativi di introduzione di deroghe all’art. 138 hanno, pressoché tutti, previsto la costituzione di un nuovo collegio a composizione mista di deputati e senatori, incaricato della redazione dei disegni di legge di revisione da sottoporre poi al Parlamento. L’idea di fondo è, in pratica, quella di costituire una sede politica (non tecnica quindi, ma munita di legittimazione democratica) cui demandare l’attività di discussione e mediazione, utile a preconfezionare un testo di compromesso, che sia già, in partenza, garantito da una maggioranza consolidata ed appaia conseguentemente in grado di reggere e mantenere fluido il passaggio da un ramo all’altro del Parlamento, evitando possibili lungaggini ulteriori a quanto strettamente necessario al già mal sofferto procedimento aggravato in doppia lettura. Si è così avuta, prima fra tutte, la legge costituzionale n. 1/1993, che legittimò la c.d. Commissione De Mita-Iotti (conclusasi in un nulla di fatto), cui fece seguito la l. 1/1997, che istituì la spesso rievocata nel dibattito politico “bicamerale D’Alema” (che, parimenti, non produsse i risultati sperati). In aggiunta e conseguentemente all’istituzione di un organo ad hoc, in ambedue i casi, fu prevista l’applicazione di un procedimento speciale di approvazione, esclusivamente riservato a quei disegni che ne fossero il prodotto, cui la legge riconnetteva talune semplificazioni procedurali in deroga all’art. 138 Cost. ed ai regolamenti parlamentari (voto palese, regole speciali su emendamenti e questioni pregiudiziali, termini temporali definiti). Uno schema che è stato recentissimamente riproposto, in forme quasi coincidenti, in un disegno di legge di iniziativa del Governo Letta che, ispirato anche dal lavoro dei c.d. “saggi”, irritualmente nominati dal Presidente della Repubblica, prevede: l’istituzione di un “Comitato parlamentare per le riforme istituzionali ed elettorali” - COMPOSIZIONE: verrebbe costituito da 42 membri (venti deputati e venti senatori, più i due Presidenti delle rispettive Commissioni Affari Istituzionali), nominati, su indicazione dei gruppi parlamentari, dai Presidenti delle assemblee di Camera e Senato, in modo da garantire la proporzionalità sia con il consenso elettorale ricevuto che con i numeri della rappresentanza istituzionale, - FUNZIONI: al Comitato verrebbe affidato il compito di elaborare, mediante la redazione di disegni di legge2, le proposte di riforme istituzionali da realizzare per via ordinaria (in 2 Opera cioè, secondo la distinzione tradizionale posta dalla Costituzione e dal diritto parlamentare, “in sede referente” (che, si ricordi, segna la distinzione rispetto ai casi di attività “in sede redigente” o “deliberante”). particolare, la normativa elettorale per le Camere) o con legge costituzionale, limitatamente, però, in questo secondo caso, alla revisione di talune specifiche parti del testo della Carta (disciplina del Parlamento, del Presidente della Repubblica, del Governo e dei rapporti con le autonomie territoriali), - ORGANIZZAZIONE: l’organismo verrebbe presieduto congiuntamente dai Presidenti delle Commissioni Affari Istituzionali, che vi partecipano di diritto, coadiuvati, come normalmente accade per le Commissioni parlamentari, da un Ufficio di Presidenza; nello svolgimento dei lavori si applicherebbero, in generale, le norme previste dal Regolamento della Camera (salvo che lo stesso Comitato non decida di darsene autonomamente delle altre), ma con alcune importantissime deroghe, volte a garantirne la celerità ed impedire i comportamenti ostruzionistici o dilatatori (come, ad esempio, il divieto assoluto di votare questioni pregiudiziali o sospensive3), - CESSAZIONE: il Comitato cessa le proprie funzioni o con la pubblicazione delle leggi costituzionali ed ordinarie di sua proposta (disciplina a dir poco oscura) o con lo scioglimento di una delle Camere; una rigidissima e predeterminata tempistica dei lavori delle Camere - TERMINI: per ciascuna fase del procedimento il d.d.l. indica precisi termini temporali (cinque giorni dall’entrata in vigore della norma per la nomina dei membri del Comitato, dieci giorni massimo per svolgere la prima riunione, sei mesi per redigere e presentare alle Camere i disegni di legge, tre mesi per l’esame e la votazione da parte dei deputati e, di seguito, altri tre per i senatori, segue l’intervallo e quindi la votazione in seconda lettura, tenendo conto che l’iter completo non dovrà durare più di diciotto mesi complessivi4) di cui spetta ai Presidenti dei due rami del Parlamento ed ai loro uffici garantire l’adempimento in fase di organizzazione dei lavori, - ESCAMOTAGE ANTI-INTOPPI: stretta sulla possibilità di presentare emendamenti ai testi ed obbligo di voto palese; l’approvazione in doppia lettura a maggioranza assoluta - CONFERME: rimane valido lo schema generale di revisione basato su una doppia lettura e, parimenti, si continua a richiedere almeno il raggiungimento della maggioranza assoluta nella seconda lettura, - RIDUZIONE INTERVALLO: come già detto, il comma primo dell’art. 138 prevede che, approvato una prima volta il testo nell’identica formulazione da ciascuna Camera, queste debbano lasciar decorrere tre mesi prima di poter procedere con la seconda lettura e quindi con la votazione definitiva, tuttavia, per garantire la speditezza dei lavori, nei confronti dei d.d.l. di revisione costituzionale proposti dal Comitato, il termine costituzionale è derogato e ridotto a 45 giorni, cioè praticamente dimezzato; il referendum - CONFERME: possono richiedere l’attivazione del referendum senza quorum strutturale sull’eventuale legge costituzionale così partorita gli stessi legittimati di cui all’art. 138 (1/5 dei senatori o dei deputati, cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali) entro il termine di tre mesi, 3 Con la questione pregiudiziale viene rilevata la possibile esistenza di una causa ostativa alla discussione o votazione di quella legge e si dà luogo alla sospensione dei lavori in attesa che, a seguito di un autonomo dibattito, questa venga dipanata, accertandone la sussistenza (nel qual caso o viene risolta o il procedimento si estingue) o meno (nel qual caso il procedimento ricomincia da dove si era interrotto). La sospensiva è invece la proposta di rinviare ad una successiva e determinata scadenza la discussione di un punto all’ordine del giorno. 4 L’efficacia di questi termini non è però precisata. In particolare, si tratterebbe di termini ordinatori o perentori? Vale a dire, allo scadere degli stessi, rimarrebbero comunque applicabili al disegno di legge le “facilitazioni” previste, come sembrerebbe dalla sopravvivenza, possibile fino a fine legislatura, del Comitato, ovvero dovrebbe ritenersi ripristinato il regime ordinario ex art. 138 Cost.? - INNOVAZIONI: al contrario di quanto accade nel regime ordinario, anche qualora dovesse essere raggiunta, in seconda lettura, la maggioranza dei 2/3 in ciascuna Camera, sarebbe comunque possibile dar luogo al referendum. Le norme sono già state approvate in prima lettura da ambedue i rami del Parlamento ed in seconda, a maggioranza di due terzi (che quindi, se confermata, non la renderebbe sottoponibile a referendum), dal Senato. Attualmente è in attesa di calendarizzazione alla Camera, ma, mutato il contesto politico, appaiono trasformate anche le dinamiche che soggiacevano alla sua realizzazione e venuto meno l’interesse dello stesso proponente (in particolare, l’attuale Governo appare orientato a fare di sé il fulcro dell’elaborazione e della proposta delle riforme istituzionali). In ogni caso, mancando solo una delle quattro deliberazioni necessarie per la sua approvazione, il disegno di legge, attualmente giacente, rimane una strada quasi completamente compiuta, che Parlamento e Governo possono decidere in ogni momento di riattivare, con l’adempimento veloce del solo ultimo tassello.