LA PAROLA ALL`AUTORE
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LA PAROLA ALL`AUTORE
LA PAROLA ALL’AUTORE Mi è capitato, in questi ultimi mesi, di parlare del mio romanzo Onde di fronte a scolaresche e a lettori occasionali. Sempre, e inevitabilmente, ho fatto riferimento alla poesia di John Donne (Londra 1572 - 1631), Nessun uomo è un’isola. In questi versi – che a forza di citare ho finalmente mandato a memoria – è riassunto, mirabilmente, quello che ho cercato di dire nelle cento pagine del mio libro; l’essenza di ciò che significa, nel profondo, l’essere parte dell’Umanità: Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso; ognuno è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se una zolla è portata via dal mare, tutta l’Europa ne è diminuita. Come fosse un promontorio. Come fosse la tua stessa casa, o la casa di un amico. Ogni uomo che muore mi diminuisce, perché io sono parte dell’Umanità. Quindi, non mandare a chiedere per chi suona la campana, Essa suona per te. Perché citare questi versi? Se penso ai temi che ho trattato nel romanzo, la risposta mi appare con chiarezza: se veramente tutti siamo una cosa sola, un unico “continente”, l’Europa stessa, dice il poeta, trattare come qualcosa di non umano (o di sub-umano) un solo uomo, significa ritenere non degna una parte di noi stessi: “Ogni uomo che muore mi diminuisce,/ perché io sono parte dell’Umanità”. Chi si taglierebbe via una mano, o un solo dito, se non in preda a un raptus di follia autolesionista? Quale uomo di buon senso rinuncerebbe a una gamba, a un piede? Cosa dobbiamo pensare, allora, quando sentiamo parlare di sopraffazione di un uomo su un altro uomo? E quando questa è portata fino all’estrema conseguenza dell’assassinio? Che chi segrega, umilia, ferisce, sia un pazzo? E quando, in qualche modo, per ignavia, o perché abbiamo ceduto agli istinti più biechi, siamo noi stessi i carnefici, cosa dobbiamo pensare? Non ho una risposta sicura, perché so che se rispondessi che questa è follia, direi che tutta l’umanità è in preda alla follia. Però pensarci è un buon punto di partenza per provare a cambiare, innanzi tutto, noi stessi. Nelle mie pagine ho provato, come autori ben più autorevoli di me, a lanciare dei semi che cadranno nel grande campo che tutti insieme siamo. Ed è a noi che scriviamo, o che operiamo nel sociale, o che abbiamo la responsabilità dell’educazione dei giovani, che è assegnata la responsabilità di ararla questa terra, e di scavare solchi capaci di accogliere la semina. Non dico altro sui contenuti del libro, e men che meno sulla trama. Vorrei che essi non diventassero, nella mente del lettore, così ingombranti da sminuire il piacere della pagina scritta. Passeranno sottilmente, silenziosamente, quasi invisibili, con garbo spero. E se questa trasmigrazione si realizzerà, sarete voi stessi a dirmelo, se e quando vorrete incontrarmi. Giorgio Di Vita La parola all’autore © La Spiga Edizioni 1