Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930

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Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930
nova americana
Arnaldo Testi
Trionfo e declino dei partiti politici
negli Stati Uniti, 1860-1930
otto editore
nova americana
ARNALDO TESTI
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI
NEGLI STATI UNITI,1860-1930
otto editore
Arnaldo Testi
Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930
Collana Nova Americana
Comitato scientifico:
Marco Bellingeri, Marcello Carmagnani, Maurizio Vaudagna
Prima edizione 2000
©2000, OTTO editore – Torino
[email protected]
http://www.otto.to.it
ISBN 978-88-87503-15-9
INDICE
Prefazione
I.
Questi partiti selvaggi e voraci:
una cattiva reputazione transatlantica
1
11
1. C’è niente di più forte della fedeltà al partito?, p. 11 – 2. Organizzazioni senza vergogna e senza onore, p. 19 – 3. Un enigma
agli occhi dei mitteleuropei istruiti, p. 30 – 4. C’è spesso molto
di buono nel tipo del boss, p. 39
II.
Trionfo e declino dei partiti politici di massa
53
1. Partiti deboli, partiti forti, p. 53 – 2. I partiti nell’Ottocento: il sale della nazione, p. 59 – 3. Conflitti nell’età progressista:
contro la supremazia di partito?, p. 71 – 4. Perché gli americani non votano?, p. 83
III.
Partito maschile e riforma femminile:Theodore Roosevelt
e la mascolinizzazione della politica delle riforme
99
1. Un gioco da uomini, la politica delle donne, p. 99 –
2. Il genere della politica, p. 102 – 3. Autobiografia di un selfmade male, p. 108 – 4. La riaffermazione del separatismo
maschile, p. 115 – 5. La virilità del riformatore, p. 120 –
6. Un riassestamento delle vecchie relazioni?, p. 125
IV.
Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?
137
1. Europa e Stati Uniti: dov’è il socialismo?, p. 139 – 2. Il caso
del socialismo mancante, p. 141 – 3. L’eccezionalismo americano non è un’eccezione, p. 151 – 4. Crisi di fine secolo,
p. 158 – 5. La storia sociale e l’analisi comparata dell’anno
1906, p. 166 – 6. Socialisti americani, contesti dinamici, salti
temporali, p. 176 – 7. Il futuro come presente di altri, p. 185
Summary
199
PREFAZIONE
Che il Novecento sia il secolo dei partiti di massa è una affermazione
eurocentrica. Dal punto di vista degli Stati Uniti, il secolo dei partiti è stato
l’Ottocento, e il passaggio al Novecento il momento del loro declino. Fu
infatti nell’Ottocento, dagli anni trenta agli anni novanta del secolo, che i
partiti politici di massa organizzarono la vita pubblica nazionale e locale in
un sistema di partiti, diedero al paese un tipo di governo che era un compiuto «governo di partito», costruirono uno stato che è possibile definire «stato
dei partiti», in un’età che è stata definita «l’età dei partiti» nella storia americana. Gli sviluppi ottocenteschi del fenomeno possono essere colti sfogliando la riedizione americana del 1898 della traduzione inglese di De la
Démocratie en Amérique. Nella celebre opera scritta negli anni trenta, Alexis
de Tocqueville poteva parlare, sia pure con qualche miopia nei confronti
delle trasformazioni in atto nell’America jacksoniana (che stavano producendo un fatto mai visto e cioè, appunto, la prima democrazia dei partiti di
massa), di una società che «governa se stessa» nella quale i partiti erano «piccoli partiti» impegnati in controversie irrilevanti, pallidi specchi di una opinione pubblica mobile e frastagliata, divisa su mille questioni che egli riteneva marginali. Al prefatore americano di fine secolo, il presidente della
Johns Hopkins University, Daniel Coit Gilman, le pagine dell’aristocratico
francese apparvero come una descrizione accurata non della realtà presente,
bensì di una perduta età dell’oro, di un mondo che non esisteva più. Gilman
le ripropose come un manuale di critica a una società drammaticamente
cambiata, nella quale l’opinione pubblica sembrava irreggimentata da
onnipresenti macchine partitiche e da irrazionali fedeltà di partito. Quelle
pagine, a suo parere, dovevano essere lette come un compendio di istruzioni
per giovani colti, di carattere e di buona famiglia che intendessero redimere
la società civile dai mali della «supremazia di partito» e magari anche, per
buona misura, da quelli derivanti dall’abuso del suffragio universale1.
Due decenni dopo queste invocazioni, alla vigilia della prima guerra
mondiale, la redenzione sembrava avviata con successo. A molti osservatori
parve che una fase secolare della storia del paese si stesse chiudendo, e che i
partiti quali erano emersi nell’Ottocento fossero destinati a un futuro incerto e forse condannati all’irrilevanza. I segni erano ovunque. Discutendo nel
1
PREFAZIONE
1914 la prominenza assunta dal potere esecutivo nel sistema costituzionale,
l’autorevole giornalista progressista Herbert Croly (fondatore di un periodico destinato a grande prestigio e dal programmatico titolo «The New
Republic»), scrisse che l’avvento di un governo forte tendeva a «scuotere» le
organizzazioni di partito, e avrebbe comportato «l’emancipazione» da esse
della democrazia. Riflettendo negli stessi anni sui nuovi canali della comunicazione politica il politologo conservatore e presidente di Yale University,
Arthur T. Hadley, annotò che «il potere di plasmare l’opinione pubblica è
passato dalle mani del leader di partito a quelle del direttore di giornale»;
«stiamo distruggendo gli apparati di partito», aggiunse, «e lasciando campo
libero alla stampa». Proponendo nel 1913 la propria autobiografia di uomo
politico ribelle in rotta con la disciplina di partito, il senatore Robert La
Follette del Wisconsin cantò la crisi del suo stesso partito, quello repubblicano uscito dalla guerra civile come «una delle più potenti e compatte organizzazioni di partito che sia mai esistita in tutto il mondo», e celebrò la
liberazione dei suoi elettori dalla «irragionevole fedeltà di partito»; le speranze della nazione, affermò, erano affidate a cittadini capaci finalmente di
«pensare con la propria testa». Ancora nel 1914, un influente organo di
stampa (il «St. Louis Post-Dispatch» di Joseph Pulitzer) commentò i cambiamenti intervenuti nella politica municipale caratterizzando la vita pubblica locale di quarant’anni prima con una curiosa accoppiata: quando «non
si conosceva l’elettricità» e «il governo era controllato dai partiti politici»2.
Era nitida la percezione di un mutamento in corso. Un intero mondo
politico si stava avviando al tramonto, avvolto in un’aura rugginosa da archeologia industriale. La supremazia di partito stava disintegrandosi, minata alle fondamenta dalla democrazia progressista, dalla presidenza imperiale, dalle riforme elettorali, dalla riforma della pubblica amministrazione,
dalla potente stampa indipendente, dalla nuova imprevedibilità e indipendenza del comportamento degli elettori, dall’impatto di una nuova economia nazionale e della società dei consumi. All’indomani della grande guerra,
gli storici Charles e Mary Beard dovettero usare il passato remoto nel descrivere un universo politico nel quale i partiti erano «accampati» nella società e
nello stato come un «esercito permanente». Da allora, quell’universo era
scomparso3. Insomma, l’ascesa e la caduta dei partiti politici di massa negli
Stati Uniti disegna una parabola che appartiene interamente al passato. Storici e scienziati politici concordano sui tempi e sui caratteri di quella caduta.
I tempi sono quelli definiti dal periodo che intercorse fra la grande depressione degli anni novanta dell’Ottocento e il primo dopoguerra, un periodo
2
PREFAZIONE
che dal punto di vista della storia elettorale viene comunemente indicato
come il «sistema del 1896», e cioè il sistema di partiti che prese forma nelle
elezioni presidenziali di quell’anno (combattute fra il candidato democratico William Jennings Bryan e il repubblicano William McKinley e vinte da
quest’ultimo) e si mantenne poi inalterato per una generazione. E’ nei cambiamenti storici di quel periodo che sono state individuate le origini di un
processo secolare di indebolimento del ruolo dei partiti in quanto agenzie di
mobilitazione e socializzazione politica, di selezione del personale politico e
delle domande politiche, e di traduzione di queste domande in scelte di
governo. In questo volume ho ripreso alcune di queste suggestioni analitiche e le ho sviluppate in varie direzioni, incrociando le ricerche politologiche
e di storia politica e istituzionale con quelle di storia intellettuale e di storia
sociale, con le riflessioni sulla storia del radicalismo (e dell’eccezionalismo)
americano e quelle sulla gender history, e cioè sulla storia intesa come storia
di uomini e di donne.
Queste ricerche, iniziate alla fine degli anni ottanta, si sono a loro volta
incrociate con il precipitare della crisi del sistema politico e partitico italiano, e con i suoi faticosi e non conclusi riassestamenti. E non ne sono uscite
indenni. La tentazione di leggere i mutamenti politici negli Stati Uniti di
inizio Novecento alla luce di quelli in corso nell’Italia di fine Novecento è
stata forte. Così come è stata forte la tentazione di fare il contrario, di usare
quelle vicende americane per interpretare queste vicende italiane. A queste
tentazioni ho cercato di non resistere, e dal cedimento ho tratto tre convinzioni. La prima convinzione è che i partiti politici di massa, i politici di
partito e il governo di partito siano stati e ancora siano necessari alla democrazia; che la società civile sia il luogo non solo di positive diversità, nuove
competenze e vitali creatività, ma anche di gerarchie sociali e di selvagge
diseguaglianze; e che la democrazia dei partiti di massa sia lo strumento più
efficace inventato fin’ora per mettere un argine alle diseguaglianze e promuovere la partecipazione di tutti. Il declino della democrazia dei partiti
rischia di produrre anche in Italia (come ha scritto il politologo americano
Walter Dean Burnham a proposito degli Stati Uniti di inizio secolo e quindi
di oggi) un ritorno a uno «stato di natura politico» in cui i differenziali di
potere e di coscienza politica in una società stratificata e diseguale si esprimano senza controlli e mediazioni. Il bilancio dell’esperienza americana nel
Novecento, e cioè nella sua «era postpartitica» che sta diventando secondo
alcuni «postelettorale», è infatti tutt’altro che tranquillizzante4 . Con metà
della popolazione (quella più povera e meno istruita) fuori del mercato elet3
PREFAZIONE
torale, con la cittadinanza politica ormai un privilegio della middle class, con
una struttura di governo «oligarchica, sotto le sembianze retoriche e
processuali della democrazia» (è sempre Burnham a sostenerlo), il paese si è
trasformato in una «repubblica di proprietari», come alle origini liberali e
predemocratiche della sua storia5. «I limiti della partitocrazia» negli Stati
Uniti, ha scritto dieci anni fa lo scienziato politico Mauro Calise, «non li
hanno posti singoli cittadini armati di diritti usurpati, ma potenti organizzazioni concorrenti: al posto della partitocrazia non c’è il regno dell’utopia
liberale, ma il governo delle corporations»6.
La seconda convinzione vorrei esprimerla con un linguaggio più distaccato e scholarly, e riguarda la possibilità di interpretare il declino dei
partiti americani all’inizio del Novecento come il primo caso storico di crisi
dei partiti di massa in una democrazia occidentale. In altri termini, intendo
suggerire che i partiti americani mostrarono allora segni di decadimento in
alcune delle loro funzioni fondamentali che sono qualitativamente simili a
quelli che sono emersi tre quarti di secolo dopo non solo in Italia, ma in
tutta Europa. Si tratta di ipotesi di ricerca, non sviluppate sistematicamente
ma presenti in questo lavoro, che hanno risvolti interessanti in almeno due
direzioni. Innanzitutto, esse implicano la formulazione di nuove domande
storiche sulla natura dei partiti americani ottocenteschi e quindi sulla natura delle loro trasformazioni all’alba del nuovo secolo. Perché non provare a
studiare quei partiti (benché una consolidata tradizione intellettuale tenda a
scoraggiarlo) proprio come si è fatto con i partiti europei di un’epoca successiva, e cioè come organizzazioni di massa permanenti, programmatiche,
con visioni del mondo e idee sulla buona società? In secondo luogo, queste
ipotesi implicano l’uso dell’esperienza degli Stati Uniti come un caso rilevante per la discussione sulla crisi attuale dei partiti in Europa occidentale, e
sui suoi possibili sviluppi. A questo uso alludo soltanto. La disgregazione
delle organizzazioni politiche di massa, il dissolversi delle culture della
partisanship, l’emergere di nuove fratture sociali e di nuovi soggetti politici,
l’affermarsi di nuove forme di influenza e di partecipazione (inclusi segnali
evidenti di demobilitazione elettorale), le difficoltà delle tradizionali strategie socialiste e socialdemocratiche, il futuro del governo di partito: a me
pare che tutte queste questioni siano cruciali nel dibattito politico in corso
in molti paesi europei così come lo erano negli Stati Uniti di inizio secolo.
L’analogia storica è un argomento debole, e tuttavia penso che un’analisi
attenta del passato americano possa gettare qualche luce sulle questioni sollevate dal presente europeo, e viceversa: le questioni sollevate dal presente
4
PREFAZIONE
europeo possono arricchire la comprensione del passato americano. C’è un
salto temporale in questo rapporto fra Europa e Stati Uniti del quale l’analisi comparata dovrebbe rendere conto.
La terza convinzione è connessa a questa seconda, e ancora più generale. Credo che il cosiddetto «eccezionalismo americano», che ha storicamente plasmato il linguaggio della comunicazione transatlantica, abbia intralciato la comprensione della realtà sia degli Stati Uniti che dell’Europa. Credo che negli ultimi tempi, almeno per ciò che riguarda molti aspetti dell’organizzazione della politica, si sia dissolta anche l’apparenza di questa «eccezionale» diversità, e si sia dissolta perché è cambiata in maniera vistosa l’Europa. Questioni che fino a non molto tempo fa sembravano definire la bizzarra differenza della politica negli Stati Uniti rispetto a quella nei paesi
europei hanno perso di senso. Domande come quella classica «Perché negli
Stati Uniti non c’è il socialismo?» o la più recente «Perché gli americani non
votano?», avendo un’implicita logica comparativa per contrasto (andrebbero completate così: «diversamente da quanto accade in Europa»), logicamente non possono più avere una risposta. «Dov’è il socialismo in Europa?», ci si dovrebbe piuttosto chiedere; oppure, «Perché gli europei (gli italiani) non votano?». Hanno perso di senso anche le affermazioni più di routine
sulla diversità dei partiti americani e sulle caratteristiche peculiari che la
lotta politica sembrerebbe assumere negli Stati Uniti: il ruolo dei mass media e in particolare della televisione, la personalizzazione e spettacolarizzazione
della politica, l’uso a tappeto dei sondaggi d’opinione, la nascita di instant
parties finanziati da singoli individui, la centralità delle «guerre culturali» e
dei conflitti etnici e religiosi, l’importanza della razza e del razzismo e dell’esistenza di «due nazioni», nera e bianca, separate, ostili, ineguali. In tutto
ciò l’eccezione americana sta diventando la nostra normalità, e dovrebbe
cessare di stupirci. Non dovrebbe stupire, inoltre, scoprire che nel dibattito
pubblico degli Stati Uniti sono emerse alcune analisi critiche, e proposte di
riforma, che fanno un positivo riferimento agli aspetti non «americanizzanti»
delle esperienze politiche europee; e che sfidano il radicato senso comune
che vuole il paese del Nuovo mondo come luogo della modernità se non
addirittura del futuro, e il Vecchio mondo come il luogo del passato.
Un esempio interessante di queste analisi e proposte è fornito dal libro
di Michael Lind, The Next American Nation. Un libro assai discusso quando
comparve nel 1995, soprattutto perché scritto da un intellettuale non marginale nel panorama americano: un giornalista autorevole niente affatto freak
bensì interno al mainstream (ex redattore di «Harper’s» e «The National
5
PREFAZIONE
Interest», collaboratore del «New York Times» e del «Washington Post», della «New York Review of Books» e del «New Yorker», sedeva fra gli eredi di
Croly alla direzione di «The New Republic»). Bene, secondo Lind molti
problemi della politica americana derivano dalle sue caratteristiche «arcaiche». Arcaico è, a suo parere, il sistema elettorale basato sul collegio
uninominale a maggioranza semplice, un relitto della Gran Bretagna
dell’ancient régime già rifiutato nelle ex colonie di Australia e Nuova Zelanda,
e oggi in discussione in Canada e anche a Londra. Arcaico è il bipartitismo
che ne deriva, troppo asfittico e semplificatorio per dare rappresentanza a
una complessa società moderna. La «debolezza» e mancanza di
rappresentatività dei due partiti esistenti è tale che gli Stati Uniti hanno oggi
«la vita politica più volgarmente plutocratica di qualunque altra nazione
democratica importante», sono il paese nel quale è più facile per i ricchi
semplicemente «comprarsi» una carica pubblica. In una moderna società
nazionale, infine, è arcaico il principio federale che informa l’elezione dei
senatori e il complicato meccanismo per la scelta del presidente. Le riforme
proposte da Lind sono radicali: elezioni nazionali per Camera dei rappresentanti e Senato con il sistema della rappresentanza proporzionale (come
in «gran parte delle democrazie del Primo mondo»); elezione popolare diretta e a doppio turno del presidente, per garantire che sia espresso dalla
maggioranza assoluta dei votanti. E radicali sono gli effetti auspicati: una
democrazia finalmente multipartitica che offra nuove opzioni politiche agli
elettori, scuota i vecchi partiti dal loro torpore, riporti nell’universo elettorale coloro che ne sono usciti, dia voce alle minoranze etniche e razziali,
valorizzi il voto di tutti7. Tutto ciò suona piuttosto familiare ai nostri orecchi di europei. Suona anche, devo dire, particolarmente paradossale ai nostri orecchi di italiani.
Capo Sant’Andrea (Isola d’Elba), agosto 1999
6
PREFAZIONE
I capitoli che seguono contengono materiale che ho già pubblicato, in
forma talvolta assai diversa, in vari articoli. Per il Capitolo 1 vedi A. Testi, Is
Nothing More Powerful than Party Allegiance? The American Specter of the
Party Machine and Party Loyalty, From the Victorian Parlors of the Gilded Age
to Twentieth-Century Political Science, in «Storia nordamericana», III, 2, 1986;
A. Testi, James Bryce, Moisei Ostrogorski, e l’immagine del partito americano:
le loro fonti nel contesto della lotta politica negli Stati Uniti di fine secolo, in M.
Vaudagna (a cura di), Il partito politico americano e l’Europa, Milano,
Feltrinelli, 1991; A. Testi, Nota introduttiva a W.L. Riordon, Plunkitt di
Tammany Hall [1905], Pisa, ETS, 1991. Per il Capitolo 2 vedi A. Testi, La
crisi dei partiti politici di massa negli Stati Uniti, 1890-1920, in «Quaderni
storici», XXIV, agosto 1989; A. Testi, Ascesa e declino del partito di massa: il
caso storico degli Stati Uniti, in M. Calise (a cura di), Come cambiano i partiti, Bologna, Il Mulino, 1992. Per il Capitolo 3 vedi A. Testi, L’«Autobiografia»
di Theodore Roosevelt: la faticosa costruzione di un forte e maschio carattere, in
«Rivista di storia contemporanea», XX, gennaio 1991; A. Testi, The Gender
of Reform Politics: Theodore Roosevelt and the Culture of Masculinity, in «Journal
of American History», LXXXI, marzo 1995; A. Testi, Pubblico e privato
nella storia dei partiti politici americani fra Ottocento e Novecento, in «Studi
storici», XXXVIII, ottobre-dicembre 1997. Per il Capitolo 4 vedi A. Testi,
Once Again, Why is there no Socialism in the United States?, in «Storia
nordamericana», VII, 1, 1990.
Desidero ringraziare gli amici e colleghi che, di volta in volta, hanno
contribuito con il loro lavoro di editors alla ideazione e al miglioramento di
questi articoli: Tiziano Bonazzi, Mauro Calise, Carlo A. Madrignani, Anna
Maria Martellone, Raffaele Romanelli, David Thelen, Maurizio Vaudagna.
7
PREFAZIONE
1. D.C. Gilman, Introduzione a A. de Tocqueville, Democracy in America, 2 voll., New York,
Century, 1898, vol. I, pp. v-xlvi.
2. H. Croly, Progressive Democracy [1914], parziale trad. it. in O. Barié (a cura di), Il pensiero
politico nell’età di Wilson, Bologna, Il Mulino, 1961, p. 99; A.T. Hadley, Undercurrents in
American Politics, New Haven, Yale University Press, 1915, pp. 159-160, 153; R.M. La
Follette, La Follette’s Autobiography: A Personal Narrative of Political Experiences [1913],
Madison, University of Wisconsin Press, 1960, p. 8; The Upper Hand, in «St.Louis PostDispatch», 28 giugno 1914.
3. C.A. Beard, M.R. Beard, The Rise of American Civilization, 2 voll., New York, Macmillan,
1927, vol. II, p. 539.
4. Le definizioni di «era postpartitica» e «era postelettorale» sono rispettivamente di J.H.
Silbey, Beyond Realignment and Realignment Theory: American Political Eras, 1789-1989, in
B.E. Shafer (a cura di), The End of Realignment? Interpreting American Electoral Eras, Madison,
University of Wisconsin Press, 1991; e di B. Ginsberg, M. Shefter, Politics by Other Means:
The Declining Importance of Elections in America, New York, Basic Books, 1990.
5. W.D. Burnham, The Turnout Problem, in A.J. Reichley (a cura di), Elections American
Style, Washington (D.C.), Brookings Institution, 1987, pp. 133, 118, 127. Ho discusso
queste questioni in A. Testi, La politica dell’esclusione. Riforma municipale e declino della partecipazione elettorale negli Stati Uniti del primo Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994; A. Testi,
Una repubblica di proprietari? Sistemi elettorali e partecipazione al voto negli Stati Uniti, in
«Acoma. Rivista internazionale di studi nordamericani», III, 8, estate-autunno 1996; A. Testi, The Construction and Deconstruction of the U. S. Electorate in the Age of Manhood Suffrage,
1830s-1920s, in R. Romanelli (a cura di), How Did They Become Voters? The History of Franchise
in Modern European Representational Systems, The Hague-London-Boston, Kluwer Law
International, 1998.
6. M. Calise, Governo di partito. Antecedenti e conseguenze in America, Bologna, Il Mulino,
1989, p. 233.
7. M. Lind, The Next American Nation: The New Nationalism and the Fourth American
Revolution, New York, Free Press, 1995, pp. 314-319, 231. Sulle origini del pensiero
proporzionalista negli Stati Uniti vedi M. Rosa-Clot, La American Proportional Representation
League, 1893-1932, Tesi di laurea, Facoltà di Lettere e filosofia, Università di Pisa, 1998.
8
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI
NEGLI STATI UNITI, 1860-1930
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI: UNA CATTIVA
REPUTAZIONE TRANSATLANTICA
1. C’è niente di più forte della fedeltà al partito?
Madeleine Lightfoot Lee, la gentildonna protagonista di Democracy:
An American Novel (1880) di Henry Adams, aveva lasciato i salotti di New
York per passare l’inverno a Washington, «decisa a penetrare nel cuore della
democrazia e del potere, quel grande mistero americano». L’esperienza l’aveva ridotta con «i nervi a pezzi». Ne era uscita desiderosa soltanto di partire
per l’Egitto, di immergersi nella pace della Grande Piramide e nella contemplazione senza tempo della stella polare. Prima della fuga, tuttavia, Mrs. Lee
aveva attraversato gli orrori della vita politica della capitale, allora controllata dal partito repubblicano uscito vincitore dalla guerra civile; aveva osservato da vicino «quella schiera di rozzi incolti» che erano a suo dire i rappresentanti del popolo, rappresentanti di un popolo altrettanto incolto e rozzo.
Di costoro, il senatore dell’Illinois Silas P. Ratcliffe era l’energico, virile,
volgare e quindi per lei sottilmente attraente prototipo. Mrs. Lee aveva così
avuto la possibilità di discutere alcune cruciali questioni politiche. «Dobbiamo restare sempre in balia di ladri e mascalzoni? Un governo che si rispetti è impossibile in una democrazia?», si era chiesta, oppure, «supponiamo che la società si distrugga con il suffragio universale, con la corruzione,
con il comunismo». Oppure ancora, in un dialogo più complesso con il
senatore Ratcliffe:
«…Credendo, come io credo, [disse Ratcliffe,] che grandi risultati possano essere
conseguiti soltanto da grandi partiti, ho invariabilmente receduto dalle mie posizioni personali qualora queste abbiano fallito nell’ottenere l’assenso generale. Continuerò a seguire questa linea ed il presidente potrà contare, in piena fiducia, sul
mio appoggio disinteressato ad ogni misura decisa dal partito, anche se posso non
essere consultato per la loro decisione».
Mrs. Lee ascoltò con attenzione, poi disse: «Avete mai rifiutato di allinearvi con il
partito?». «Mai!» fu la ferma risposta di Ratcliffe.
Con un’espressione ancora più concentrata, Madeilene chiese ancora: «C’è niente
di più forte della fedeltà al partito? Niente, tranne la fedeltà al paese», replicò Ratcliffe,
ancora più fermamente1.
11
CAPITOLO
1
Si può supporre che la risposta di Ratcliffe non convincesse affatto il
giovane gentiluomo bostoniano che era l’autore di questo romanzo politico,
e del quale Mrs. Lee è un parziale autoritratto. Non era forse vero, come
avevano affermato gli esponenti della generazione rivoluzionaria e costituente,
a cui Adams era legatissimo per tradizione politica e familiare, che la fedeltà
al partito era potenzialmente in contrasto con la fedeltà al paese, negando
l’idea stessa dell’America come un commonwealth organico? Non era forse
vero che riduceva il cittadino a schiavo, privandolo di ogni forma di indipendenza intellettuale, e introduceva elementi di corruzione nella società,
incentivando la rapacità clientelare, le menzogne della stampa, le passioni
degli elettori e degli eletti? Nel suo Farewell Address del 1796, il primo presidente George Washington (1789-1797) era stato chiarissimo. Aveva messo in guardia «nella maniera più solenne contro gli effetti perniciosi dello
spirito di partito», che tende a «rendere estranei gli uni agli altri coloro che
dovrebbero essere uniti da un affetto fraterno». Secondo Washington, lo
spirito di partito distrae le assemblee dai loro compiti, indebolisce l’amministrazione, agita la comunità con gelosie spesso infondate, eccita l’animosità di una parte contro l’altra, fomenta talvolta rivolte e insurrezioni, apre la
strada all’influenza straniera. Il dovere di ogni cittadino è quello di obbedire
al governo costituito, disse Washington. «Tutte le combinazioni e le associazioni, qualsiasi plausibile carattere esse abbiano, col reale intento di dirigere,
controllare, reagire o influire col proprio prestigio sulle regolari deliberazioni
delle autorità costituite, sono distruttive di questo basilare principio e a lungo andare fatali».
Thomas Jefferson era stato altrettanto chiaro, nel 1789, quando aveva
definito la dipendenza da un partito come «l’ultima degradazione di un
agente libero e morale». E aveva icasticamente affermato: «Se non potessi
andare in paradiso tranne che con un partito, preferirei non andarvi affatto». Anche il secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams (1797-1801),
bisnonno di Henry, aveva opinioni precise. «Non c’è nulla che io paventi
più», scrisse, «della divisione della repubblica in due grandi partiti, ognuno
guidato da un proprio capo… Questo, secondo la mia modesta opinione, è
da temere come la più grande calamità politica sotto la nostra costituzione».
C’era un elemento paradossale in queste altisonanti dichiarazioni, dato che
sia Washington e Adams che Jefferson si stavano comportando, nel fuoco
della lotta politica di quegli anni, proprio come uomini di partito, del partito federalista i primi due, del partito democratico-repubblicano il terzo. Si
potrebbe dire, anzi, che più Washington diventava «partigiano» nelle sue
12
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
scelte politiche, più condannava i partiti politici, soprattutto quelli degli
avversari. E Jefferson, che negava al partito ogni ruolo nella gestione del
governo, passò gran parte della sua vita, compresi gli anni in cui occupò la
massima carica esecutiva (1801-1809), a crearne uno. E tuttavia c’era qualcosa di genuino e profondo in questo spirito antipartito, c’era la convinzione che gli interessi della comunità fossero omogenei, che non ne esistessero
di distinti e contrapposti, tali da reclamare una diversa e distinta rappresentanza. C’era inoltre la convinzione che la percezione di questi interessi comuni fosse immediata; bastava ragionare un poco, con calma, razionalmente, perché tutti potessero identificarli. Washington era convinto che, se non
ci fosse stata una opposizione organizzata a mestare nel torbido, l’opinione
pubblica avrebbe potuto muoversi secondo il principio dell’unanimità, «perché la massa dei nostri cittadini non richiede altro che comprendere una
questione per decidere su di essa correttamente».
Non tutti i padri fondatori della repubblica erano della stessa opinione,
per la verità. James Madison, l’estensore della carta costituzionale, anch’egli
presidente (il quarto, 1809-1817), riteneva che nella società esistessero interessi contrastanti, e che ciò avrebbe inevitabilmente portato alla formazione
di varie organizzazioni politiche, con diverse basi sociali, diverse visioni dei
problemi e diverse ricette per risolverli. Così scrisse nel 1787, in un celebre
passaggio di un celebre opuscolo (il Federalista numero 10):
La più comune e persistente fonte di divisioni è stata la varia e non equa distribuzione
della proprietà. Coloro che la detengono e coloro che ne sono privi hanno sempre
formato interessi distinti nella società. Coloro che sono creditori e coloro che sono
debitori danno luogo ad un’analoga divisione. Un interesse terriero, un interesse
mercantile, un interesse finanziario, insieme a molti altri interessi minori, si sviluppano necessariamente nelle nazioni civilizzate e si dividono in classi diverse, che si
concretano a volte in sentimenti e in vedute diverse. La regolamentazione di questi
vari e contrastanti interessi costituisce il compito principale di una moderna legislazione, e comprende lo spirito di partito e di fazione nel necessario e ordinario funzionamento del governo.
Madison non riteneva affatto che l’esistenza dei partiti fosse un bene;
era piuttosto un male inevitabile da tenere sotto controllo. Egli temeva la
formazione di una fazione maggioritaria in grado di imporre la sua volontà
al resto del paese. Impedire questo, controllare le fazioni, regolare gli interessi, era compito del governo. Per questo Madison si era battuto per una
costituzione basata sulla divisione dei poteri e sul federalismo. In una grande repubblica potevano coesistere una varietà di interessi e partiti, ciascuno
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CAPITOLO
1
dei quali avrebbe potuto crescere a fazione nazionale, maggioritaria, potenzialmente tirannica, solo con grande difficoltà. «Nell’estesa repubblica degli
Stati Uniti e nella grande varietà d’interessi, partiti e sette che essa racchiude», scrisse Madison, «una coalizione comprendente la maggioranza dell’intera società potrebbe difficilmente formarsi su principi diversi da quelli della giustizia e del bene generale»2.
Dal vecchio John Adams al pronipote Henry erano passate quattro generazioni di Adams, quasi un secolo di storia nazionale, e molte cose erano
cambiate. Tuttavia una corrente di sentimenti antipartito era rimasta in vita,
sopravvivendo alla democratizzazione del sistema politico degli anni trenta,
all’avvento del suffragio universale maschile e dei moderni partiti di massa;
anzi, proprio da queste trasformazioni traendo nuova vitalità. La tradizione
ideale risalente al pensiero dei padri fondatori, e per suo tramite
all’antipartitismo inglese settecentesco, si intrecciò infatti con il risentimento sociale di una gentry che si sentiva costretta a condividere, per colpa dei
partiti, le prerogative della cittadinanza con le lower classes, e a frequentare
con un certo disgusto riunioni insieme a artigiani e impiegati, bottegai e
bettolieri3. Per tutto l’Ottocento gli intellettuali si sentirono nel complesso
estranei alla cultura politica del regime democratico fondato sui partiti organizzati e sulla partecipazione di massa. La loro riflessione politica ignorò
largamente l’esistenza del partito come elemento sistemico sia della struttura istituzionale che di quella sociale della democrazia del paese; quando ne
prese atto, fu soprattutto per deplorarla. Prima del 1900, scarsissime furono
le opere che si posero con serietà questo problema; di fatto inesistenti fino al
1870, ne furono pubblicate una mezza dozzina nel ventennio successivo, e
poi diciassette fra il 1890 e il 1900. Delle sei opere apparse fra il 1870 e il
1889, ben tre proposero drasticamente di abolire i partiti e di sostituirli con
qualche altra cosa. Una quarta opera, il saggio su Congressional Government
(1885) di un giovanissimo studioso di nome Woodrow Wilson, impostò in
termini nuovi il problema, studiando i partiti in positivo, sia come macchine elettorali che come agenzie di governo; e tuttavia offrì come più attraente
anche per gli Stati Uniti il modello inglese del responsible party system. Solo
all’inizio del Novecento una nuova scienza politica, accademica e professionalizzata, cominciò a riconoscere all’istituzione-partito una funzione
«costituente» nel governo del paese4.
Ancora una volta fu Wilson, ora affermato scienziato politico e presidente della prestigiosa Princeton University, a sostenere che i partiti svolgevano il compito «costituzionale» di integrare verticalmente il governo cen14
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
trale e quelli statali decentrati, di integrare orizzontalmente il potere esecutivo e quello legislativo, insomma di dare fondamenta unitarie alla politica
nazionale nel sistema federale. Nel 1908, in un libro intitolato Constitutional
Government in the United States, Wilson affermò che dalla metà dell’Ottocento le organizzazioni di partito erano diventate «assolutamente necessarie
per tenere insieme le cose divise e disperse [dalla costituzione] e per dare
qualche coerenza all’azione delle forze politiche». Nello stesso anno, una
valutazione simile fu espressa da Arthur Bentley nel suo studio su The Process
of Government. Per Bentley non aveva alcuna importanza che il partito politico, nella forma sviluppata che aveva assunto, fosse o no compreso nella
classificazione formale degli organi di governo, insieme con gli altri tre classici (i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario). Era puro formalismo giuridico sostenere che i partiti non erano organi di governo perché non erano
legalmente organizzati e riconosciuti. Il criterio da seguire era un altro, ed
era quello delle attività realmente svolte; da questo punto di vista i partiti
erano parte della costituzione materiale. «Negli Stati Uniti», scrisse Bentley,
«i nostri grandi partiti con la loro organizzazione permanente e quindi non
limitata soltanto al periodo elettorale, cioè uffici permanenti per il controllo
delle legislature, per la dispensazione di favori, la determinazione degli atti
dell’esecutivo, sono organi completamente formati che talvolta fanno degli
organi costituzionali dei meri notai o messaggeri»5. Intorno al volgere del
secolo, cominciò a emergere anche qualche idea sui meccanismi di
radicamento dei partiti non solo nelle istituzioni ma anche nella società e
nella coscienza collettiva; ma perché ciò si trasformasse in analisi sistematica, sarebbe stato necessario attendere ancora, almeno fino al secondo dopoguerra.
Insomma, il ritmo della riflessione formale americana sui partiti politici fu molto lento. Avvenne in sincronia con i tempi del dibattito europeo e
quindi transatlantico, ma sorprendentemente in ritardo sui tempi dello sviluppo storico nazionale. Se infatti in Europa l’età d’oro dei partiti di massa
dovrebbe essere collocata nella prima metà del XX secolo6, negli Stati Uniti
essa può essere datata tre quarti di secolo prima, dall’età jacksoniana (dal
trionfo del suffragio universale maschile) in poi. Proprio negli anni venti
dell’Ottocento la visione antipartito dei padri fondatori cominciò a essere
messa seriamente in discussione non solo in pratica, come i padri stessi già
avevano fatto, ma anche in teoria. La teoria andava tuttavia ricercata nei
discorsi dei politici, negli editoriali dei giornali e negli slogan elettorali più
che nei libri dei filosofi della politica; tranne poche eccezioni, la storia intel15
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lettuale del periodo ha bisogno di altre fonti, e sconfina nella storia sociale.
Furono gruppi di uomini politici a sottolineare le virtù di una vigorosa competizione fra partiti. Era la mancanza di partiti, si cominciò a dire, e non la
loro presenza a costituire un pericolo per il governo popolare, una premessa
al dispotismo. Gli elettori dovevano poter scegliere fra partiti, programmi e
principi politici chiari, articolati e contrapposti, e non solo fra singoli individui magari appartenenti al notabilato tradizionale. Il conflitto organizzato
era l’essenza stessa della democrazia, perché, come affermò nel 1848 un raro
estimatore colto del nuovo sistema, «il principio democratico è venuto nel
mondo non per portare la pace, ma la spada; o meglio, per portare la pace
con la spada»7 . Anche la fedeltà al partito acquistò una dimensione positiva,
addirittura moralmente rilevante, in quanto divenne fedeltà ai principi, coerenza politica; l’alternativa era rappresentata dalla volubilità del voltagabbana
o dalla fedeltà personale a un leader, cose non degne di un cittadino. La
fedeltà al partito non rendeva l’uomo schiavo, al contrario lo liberava.
Il nuovo vangelo, che diceva che la politica era un gioco fra partiti,
trovò espressione in un saggio intitolato Inquiry into the Origin and Course of
Political Parties in the United States, scritto prima della guerra civile ma pubblicato nel 1867. Si trattava del primo libro su questo argomento a comparire nel paese, e non a caso era stato scritto da un politico di professione, il
newyorkese Martin Van Buren, che era diventato presidente (1837-1841)
dopo una lunga e onorata carriera nel partito democratico, che aveva contribuito a costruire nella sua forma moderna. Per Van Buren era evidente che la
democrazia consisteva nello scontro aperto e leale fra due grandi partiti nazionali, ciascuno portatore di concezioni antagonistiche dell’interesse pubblico e di principi diversi sulla conduzione del governo; ciascuno fondato su
salde fedeltà popolari. A suo parere, la storia nazionale era già una dimostrazione di questa sua convinzione, bastava guardarsi indietro per verificarlo:
I due grandi partiti di questo paese, con qualche occasionale cambiamento di nome
soltanto, hanno occupato, nel corso di quasi un secolo, posizioni antagoniste su
tutte le più importanti questioni politiche. Hanno conservato una continuità senza
interruzioni, e per tutto il periodo ciascuno di essi è stato formato di uomini che
condividevano preferenze e passioni di partito, e avevano, con rare eccezioni, visioni generali simili sui temi del governo e della sua amministrazione. I figli hanno
generalmente seguito le orme dei padri, e famiglie che in origine erano in disaccordo fra loro hanno con regolarità ricevuto, conservato e trasmesso ai discendenti
questa opposizione. Né l’influenza di nuove connessioni familiari o di pregiudizi
religiosi, né qualsiasi altro dei forti motivi che spesso determinano le azioni normali
degli uomini, sono stati sufficienti, con pochissime eccezioni, a superare il pregiu16
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
dizio della appartenenza e della simpatia di partito, la devozione al quale è stata per
tutti, da entrambe le parti, di regola, la passione dominante8.
Il fondamento logico del nuovo sistema sembrava dunque essere che è
l’apatia piuttosto che l’interesse personale a corrompere l’autogoverno popolare, che è il conflitto piuttosto che l’armonia a caratterizzare un
commonwealth vitale e ben governato. I suoi campioni mostravano inoltre
una passione per l’organizzazione e la mobilitazione permanente di tutti gli
strati della popolazione che, come ha osservato lo storico Richard Hofstadter,
«sarebbe stata inaccettabile per Jefferson e Madison, incomprensibile per
Monroe, e poco meno che satanica per Washington e i due Adams [John e il
sesto presidente John Quincy, 1825-1829]»9. Poco meno che satanico tutto
ciò era anche per gli Adams della quarta generazione, e per gli intellettuali
liberali loro coetanei che si posero il problema negli anni sessanta, settanta e
ottanta dell’Ottocento. Questi membri della élite colta e patrizia, settentrionale e metropolitana del paese, erano storicamente repubblicani tuttavia
dopo la guerra civile, nelle ragioni della quale si erano identificati, furono
spinti da dissensi programmatici, tattiche di fazione, ed estraneità personale
ai margini della vita di partito. Sempre più, si considerarono degli «indipendenti». Prendendo spunto dagli scandali che caratterizzarono le due amministrazioni repubblicane di Ulysses Grant (1869-1877) e dallo sfaldamento
dell’identità politica di un partito che si era ritrovato con il controllo completo della macchina dello stato, si chiesero quale nazione fosse uscita da
quella sanguinosa guerra, e la risposta fu un brivido di orrore. Nella sua Ode
al Quattro di Luglio, 1876, così il poeta James Russel Lowell diede voce a
questi sentimenti: «E’ questo il paese che abbiamo sognato in gioventù /
Dove la saggezza e non i numeri avrebbe avuto peso, / Terreno di semina di
maniere più semplici, di verità più audaci, / Dove la vergogna avrebbe cessato di dominare / Nelle case, nelle chiese e nello stato? / E’ questa Atlantide?»10.
Partendo da qui, questi Liberal Reformers o Mugwumps, come furono
in varie occasioni chiamati, avviarono una critica radicale non solo della
corruzione contemporanea, della degenerazione morale e politica del modello di società che a loro stava a cuore, ma anche di ciò che a loro parere ne
costituiva la causa prima, e cioè la pratica delle organizzazioni politiche a
estesa base popolare e la cultura di partisanship che erano riuscite a consolidare. Composero quindi un’immagine tutta negativa dei partiti e della democrazia di massa di cui i partiti erano le istituzioni centrali: istituzioni
senza (più) principi e programmi, guidate da ignoranti e volgari politici di
professione, impegnate nel saccheggio delle risorse pubbliche e
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nell’appropriazione (con lo spoils system) delle funzioni amministrative che
essi ritenevano proprie dello stato; apparati che facevano appello ai peggiori
istinti della folla e istillavano, con la corruzione e l’inganno, il culto feticistico
di se stessi, stritolando al loro passaggio i cittadini onesti, saggi e indipendenti. Proposta da portavoce eloquenti e sofisticati che appartenevano a una
cerchia ristretta ma con un pulpito, che erano inseriti in una rete internazionale
di comunicazione, e che sono stati capaci di colpire l’immaginazione degli
storici con l’abbondanza di segnali che hanno lasciato delle proprie attività11,
l’immagine così costruita acquistò una visibilità che era non solo sproporzionata
alla propria diffusione nella società, ma apertamente in conflitto con la cultura politica della stragrande maggioranza degli cittadini. Acquistò anche una
valenza programmatica forte, contribuendo a plasmare il linguaggio, lo stile e
l’agenda politica di un importante settore della generazione di riformatori
progressisti che seguì. Infine, staccata dal contesto storico in cui era nata, informò dei suoi (pre)giudizi alcune delle successive analisi americane dei partiti
politici popolari, e influenzò il modo in cui osservatori e scienziati politici
europei guardarono alla vita politica americana.
I Liberal Reformers erano conservatori per filosofia, per stato d’animo,
per estrazione sociale. Ma nessun altro emerse, in quell’età di intensa partisanship, a offrire una alternativa articolata alla loro visione, a raccogliere le
ragioni del partito, del governo di partito, della fedeltà di partito, che erano
patrimonio diffuso ma semisommerso della stampa di parte, della retorica
dei comizi elettorali e delle predicazioni dei politici. Era questo un mondo
che non godeva delle simpatie degli intellettuali. Uno scrittore come Mark
Twain fu spietato nel descrivere Washington come una città nella quale i
membri del Congresso avevano una fama così cattiva che le affittacamere
erano restie a prenderli a pensione; e se lo facevano, li facevano pagare in
anticipo («Se voi siete un membro del Congresso, senza offesa»). Come titolo del romanzo satirico in questione, scritto in collaborazione con Charles
Dudley Warner, fu coniata l’etichetta beffarda che rimase a definire un’intera epoca, The Gilded Age (1873), l’età non d’oro ma superficialmente e falsamente dorata12. Anche un poeta così sensibile alla celebrazione della democrazia popolare come Walt Whitman non sfuggì alla delusione, allo scandalo per la corruzione dei tempi, che lo spinsero a descrivere in Democratic
Vistas (1871) «lo spettacolo allarmante dei partiti che usurpano il governo»,
«questi partiti selvaggi, voraci»; e a lanciare, nello stesso giro di frase in cui
denunciava gli apocalittici cantori della fine della democrazia americana come
«dilettanti e damerini», il suo appassionato appello:
18
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Disimpegnatevi dai partiti. Sono stati utili, e in qualche misura lo rimangono; ma
sono gli elettori non impegnati e fluttuanti, gli agricoltori e gli impiegati e i lavoratori, i padroni dei partiti - sempre all’erta ma in disparte, che fanno pendere la
bilancia della vittoria ora a favore dell’uno ora dell’altro - sono loro di cui abbiamo
più bisogno, ora e nel futuro… Conviene non mettersi nelle mani di nessun partito, non sottomettersi ciecamente ai loro dittatori, ma mantenersi fermamente giudici e padroni di tutti loro.
Il linguaggio era diverso da quello degli intellettuali patrizi («dilettanti
e damerini», appunto); la ricetta era in fondo la stessa13.
2. Organizzazioni senza vergogna e senza onore
All’indomani della guerra civile, un piccolo gruppo di intellettuali propose l’abolizione tout court del sistema dei partiti. Le loro analisi, che ho
seguito in A True Republic (1879) di Albert Stickney, forse il più noto di
questi autori, non avevano molto di originale14. Combinando il linguaggio
antipartito settecentesco con la denuncia degli scandali di governo e della
corruzione che era moneta corrente nel discorso politico di quegli anni,
descrivevano i partiti come combinazioni che avevano l’unico scopo di conquistare poltrone e potere, che provocavano divisioni artificiali in una società sostanzialmente omogenea, distruggevano le libertà del popolo, tenevano
gli uomini migliori lontano dalla vita pubblica, favorivano il trionfo degli
avventurieri e degli incompetenti. Radicale era invece il rimedio proposto:
eliminare i partiti, sostituire le elezioni competitive con assemblee locali
popolari che scegliessero i propri rappresentanti ai livelli superiori, ridurre il
numero degli eletti, non imporre a essi alcuna scadenza di mandato se non
la revoca per cattiva condotta. La proposta era utopica; e come tale fu incorporata nella utopia socialista autoritaria visitata da Edward Bellamy in Looking
Backward (1888). Nell’anno 2000, per Bellamy così lontano, tutto sarebbe
stato diverso rispetto a un secolo prima, tutto sarebbe stato molto più semplice. Ecco il dialogo fra l’ottocentesco viaggiatore nel tempo, che parla in
prima persona, e la sua guida al mondo del 2000, il dott. Leete:
«Lasciando da parte i confronti», dissi, «la demagogia e la corruzione dei nostri
uomini pubblici al tempo mio sarebbero state considerate argomenti decisivi contro l’assunzione da parte del governo della direzione delle industrie nazionali. A
nostro giudizio affidare a dei politici il controllo degli impianti produttori della
ricchezza del paese sarebbe stata, fra le varie soluzioni, la peggiore. Anche senza
arrivare a questo, gli interessi materiali del paese erano già anche troppo manovrati
e dominati dai partiti».
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«Indubbiamente avete ragione», replicò il dott. Leete, «ma tutto questo è cambiato
adesso. Non abbiamo nè partiti nè uomini politici, e quanto alla demagogia e alla
corruzione, son parole che non hanno più che un significato storico»15.
Una simile utopia fu accolta con distacco, e sostanzialmente isolata,
anche dai Liberal Reformers. Essi valutavano altrettanto negativamente le
degenerazioni partitiche nell’amministrazione e nella gestione dello stato,
ma pensavano di poterle combattere riportando i partiti al loro ruolo storico, per il momento dimenticato, di associazioni di uomini liberi e di agenti
di elevati principi. Non era il partito in quanto tale che essi aborrivano, ma
la sua versione di massa, organizzata, compatta, permanente. Fu di essa che
discettarono a lungo, tracciandone un ritratto raccapricciante non in ponderose analisi sistematiche ma in eleganti articoli di rivista, non disdegnando la letteratura di finzione; ne denunciarono gli strumenti di mobilitazione popolare, quella fedeltà di partito che ne era il cuore. Erano partiti di
questo tipo, organizzazioni che «non hanno né vergogna né onore», che
secondo Henry Adams avevano ormai stravolto le fondamenta del governo
costituzionale. Era necessario, scrisse nel 1876, ritornare alle pratiche originarie, «restituire agli organi costituzionali quei poteri che sono stati loro
strappati dalle organizzazioni di partito con l’unico scopo di foraggiare se
stesse». E continuò: «La struttura di partito deve essere ridotta a dimensioni
che corrispondano alle funzioni che le sono proprie. Il rapporto fra il sistema dei partiti e il quadro costituzionale deve essere ribaltato»16. Un riformatore newyorkese della generazione più giovane, Robert R. Bowker,
affrontò la stessa questione in un’altra direzione quando affermò nel 1880:
«Nessuno trova da ridire sull’organizzazione; è l’abuso di organizzazione che
è stigmatizzato con il termine “macchina”»17. La «macchina» era il vero nemico, non solo perché, come aveva denunciato Henry Adams per tutti gli
anni settanta, era alla base della corruzione della vita pubblica americana
(dai governi municipali su su fino alla capitale), ma anche perché ingabbiava
il dibattito politico nelle maglie di un apparato burocratico e congelava la
fedeltà degli elettori popolari; così facendo toglieva qualsiasi spazio di sopravvivenza politica a coloro che si fossero proposti di riformare il sistema.
Era quindi necessario colpire innanzi tutto il rapporto stretto che gli
elettori avevano stabilito con i partiti, superare «quella strana paura di rompere vecchi legami», scrisse nel 1874 Brooks Adams, fratello di Henry. Si
trattava di un proposito ironicamente contraddittorio per dei conservatori
che erano così orgogliosi della fedeltà alle proprie radici. Essi stessi, peraltro,
sapevano coltivare una loro aristocratica fedeltà di partito, che giudicavano
20
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
più benevolmente di quella popolare, qualcosa che assomigliava alla «fedeltà
di un ecclesiastico molto raffinato alla sua chiesa»18. Comunque, una possibile soluzione di questo problema era la teoria e la pratica dell’«indipendenza»
politica ed elettorale. Fu Henry Adams a inventare la frase ad effetto: i Liberal
Reformers, scrisse nel 1875, dovevano comportarsi come il «partito del centro», muoversi dentro il partito repubblicano svincolati dalla disciplina di
partito, e minacciare apertamente la defezione al partito avverso come strumento per piegare l’organizzazione al proprio programma. Ma questa tattica trovò anche altri celebranti, che ne fecero una vera e propria visione del
mondo alternativa a quella corrente. Bowker ne esplorò le connessioni con
una sua idea di «protestantesimo politico» contrario alla cieca e indiscussa
fedeltà a ogni dogma established. Da un elettore, scrisse, «si pretende oggi
che giustifichi perché non vota per il suo partito, mentre sarebbe giusto che
fosse il partito a dimostrargli perché dovrebbe votare per lui». Secondo Bowker,
gli indipendenti potevano diventare l’ago della bilancia nella vita politica
americana: «E’ con il libero flusso dei voti indipendenti sulla linea di confine fra i partiti, è con la fluidità dei partiti, per così dire, che è possibile
controllare in concreto i politici e riformare con efficacia la politica». Un
altro riformatore liberale, Theodore Dwight Woolsey, rivendicò il diritto
dell’elettore a giudicare il «carattere dei candidati» senza tener conto dell’etichetta di partito; anche per lui «i partiti dovrebbero essere costretti a mantenere le promesse e i programmi per paura di perdere il voto indipendente».
Bowker aveva concluso esaltando l’elettore indipendente come «l’uomo forte» della democrazia; Woolsey concluse esaltando l’indipendenza come «il
grande agente purificatore della politica»19.
Godendo di fortune personali e di carriere indipendenti dal sistema di
potere gestito dagli apparati partitici, essendo insomma dei politici non di
professione, i Liberal Reformers erano «dilettanti» che potevano sfidare le
regole e sopravvivere. Avevano a disposizione una rete di periodici influenti
anche se non di larghissima circolazione, come «The Nation» di E.L. Godkin,
«Harper’s Weekly» di George William Curtis, «The North American Review»
di Henry Adams e Allan T. Rice, «The Atlantic Monthly”» di William Dean
Howells. Raggiungevano il pubblico più generale tramite seri quotidiani
d’informazione come «The Springfield Republican»di Samuel Bowles, «The
New York Evening Post» di William Cullen Bryant, «The New York Tribune”» di Horace Greely, o il «New York Times». Potevano contare sulle simpatie di autorevoli politici sensibili alle loro idee, come i presidenti repubblicani Rutherford B. Hayes (1877-1881) e James A. Garfield (1881) e il
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presidente democratico Grover Cleveland (1885-1889). Nella politica nazionale tentarono dapprima la via del terzo partito, culminata nella candidatura presidenziale di Horace Greeley del 1872, quando adottarono l’etichetta di Liberal Republicans. Abbracciarono poi decisamente la strategia
dell’«indipendenza», inaugurata nel 1879 nello stato di New York con la
campagna dei cosiddetti Young Scratchers il movimento, guidato da Robert
Bowker, chiese agli elettori di cancellare (scratch) dalla scheda i nomi dei
candidati non graditi, penalizzandoli con la perdita di circa il 5 percento dei
voti. A livello presidenziale si vantarono di avere imposto, con la minaccia
dell’uso in grande stile di questa tecnica elettorale, la candidatura repubblicana di Hayes nel 1876 e di Garfield nel 1880; nel 1884, incapaci di impedire la nomina di James G. Blaine a loro inviso, passarono ai fatti invitando
i propri simpatizzanti a votare per il democratico Cleveland. Secondo i contemporanei fu il voto ispirato dai Mugwumps (che proprio allora furono
così battezzati dagli avversari) a far pendere lo stato di New York a favore di
Cleveland e a garantirgli l’ingresso alla Casa Bianca.
La figura dello scratcher indipendente era nuova e importante, ma non
poteva sopravvivere da sola. Era «il minuteman della politica», come lo definì George William Curtis facendo appello ai miti rivoluzionari del 1776,
quando «le giubbe rosse erano i regolari, ma gli irregolari vinsero la partita».
Una simile retorica poteva nascondere la palese contraddizione nella quale
vivevano i Liberal Reformers, che pretendevano di essere una fazione influente ai vertici del partito da loro scelto e al tempo stesso di rifiutarne la
disciplina; si muovevano in effetti come outsider per vocazione che insistevano nel rimanere dentro il sistema bipartitico. E tuttavia, per non scomparire in questa terra di tutti e di nessuno, persino gli irregolari furono costretti a irregimentarsi, facendo ricorso a strumenti extrapartitici, creando circoli, associazioni e leghe per influenzare i politici e i legislatori e per «illuminare» il pubblico. Scrisse uno di loro, Jonathan Baxter Harrison, nel 1878:
«Coloro che credono nella cultura, nella proprietà e nell’ordine, cioè nella
civiltà, devono costruire le agenzie necessarie per la diffusione di una nuova
cultura»20. Prendendo d’esempio le Anti-Corn-Law Leagues inglesi fondate
nel 1839 da Richard Cobden e John Bright, nonché alcune esperienze legate al periodo della recente guerra civile, gli indipendenti furono presi dalla
febbre organizzativa. Fra gli anni sessanta e gli anni novanta istituirono una
miriade di Free Trade Leagues, vari City Clubs e Municipal Leagues a livello
locale, la New York Civil Service Reform Association del 1877 che sarebbe
diventata nazionale nel 1881, associazioni come la American Social Science
22
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Association del 1865. Queste nuove agenzie riflettevano la visione di uomini colti che miravano a fare della cultura non un limite ma un elemento di
arricchimento della loro attività politica; riflettevano la loro fede in una
scienza sociale empirica capace di individuare e risolvere i problemi della
società al di fuori delle contrapposizioni di partito, e di rendere quindi la
vita pubblica meno coinvolgente ed emotiva sostituendo la partisanship e la
politica spettacolare con tecniche didattiche ed elitarie di educazione dell’opinione pubblica21.
Elettori indipendenti e organizzati altrove, questi riformatori proposero di limitare per via legislativa l’influenza dei partiti politici e dei loro apparati, di sottrarre loro le risorse con cui plasmavano (e corrompevano) il sistema politico. La misura più nota fu indubbiamente quella per contenere gli
effetti dello spoils system, che culminò nell’approvazione del Civil Service
Reform Act federale del 1883, noto anche come Pendleton Act22. Ma altri
movimenti andarono nella stessa direzione. Dal 1888 in poi, per esempio,
molti stati adottarono la Australian Ballot, cioè la scheda elettorale di stato,
ufficiale e completa, garante fra l’altro della segretezza del voto, che doveva
sostituire le cosiddette party strips, le schede preparate da ciascun partito per
i suoi elettori, spesso di formato e colore diverso, facilmente identificabili,
che rendevano la scelta di voto un atto pubblico23. Come nel caso della
riforma della pubblica amministrazione, anche in questo caso i Liberal
Reformers furono fra i protagonisti, anche se non gli unici protagonisti,
delle battaglie di cambiamento, spinti dal loro antagonismo nei confronti
dei partiti di massa. Se in un primo tempo, come i liberali inglesi, erano
contrari al voto segreto in nome dell’assunzione di responsabilità da parte di
cittadini consapevoli, capaci di difendere pubblicamente le proprie preferenze politiche, la pratica del voto indipendente negli anni ottanta li portò
ad altre conclusioni. Furono infatti costretti a consigliare ai loro seguaci il
vest-pocket voting: sottrarsi al vigile controllo degli attivisti del loro stesso
partito nascondendo nella tasca del panciotto la scheda, votata in maniera
eretica, che intendevano introdurre nell’urna. Scoprirono quindi i vantaggi
di una riforma che, dal loro punto di vista, mirava a liberare l’elettorato
dalle costrizioni dello spirito di parte e della cieca fedeltà a a una occhiuta
organizzazione. Contro una celebrazione dell’appartenenza di partito che
era collettiva, spettacolare e dispiegata di fronte alla comunità, essi affermarono il carattere personale, meditato e privato delle scelte politiche.
Nel caso infine della politica municipale, i Mugwumps esaltarono le
virtù della nonpartisanship, e del voto ristretto. Anticipando il linguaggio di
23
CAPITOLO
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molti riformatori dell’età progressista, e riecheggiando l’aspirazione
all’unanimismo evocata da George Washington, un documento ufficiale da
loro ispirato affermò nel 1877:
Le divisioni di partito sono giustificate solo quando gli uomini differiscono fra loro
su metodi o principi generali di politica dello stato. Gli uomini perbene non possono avere e non hanno opinioni contrastanti sul fatto che il debito municipale debba
essere ridotto, le spese stravaganti tenute sotto controllo e gli affari municipali affidati alle mani di funzionari leali e competenti. Non c’è alcun buon motivo per
affidare il controllo dei lavori pubblici di una grande città alle mani di un democratico o di un repubblicano così come non ce n’è alcuno per nominare un iscritto
dell’uno o dell’altro dei grandi partiti a capo di una impresa privata.
Il documento in questione era il rapporto finale della cosiddetta Tilden
Commission, un organismo istituito nel 1875 dal governatore democratico
dello stato di New York Samuel Tilden per elaborare proposte di
riorganizzazione del governo degli enti locali. Alcune di queste proposte
erano effettivamente radicali. Sottolineando la differenza fra il governo politico (federale, statale) e quello puramente amministrativo (municipale), la
commissione affermava che la città era una corporation di proprietari e che
quindi «la scelta dei guardiani e dei fiduciari degli interessi finanziari delle
città dovrebbe essere affidata a chi paga le tasse». Coerentemente, raccomandò di concentrare l’autorità municipale in un Board of Finance eletto
da tutti i cittadini maschi adulti nelle città sotto i 25.000 abitanti, ma con
crescenti restrizioni censitarie per quelle più popolose24. Queste raccomandazioni furono dapprima approvate e poi definitivamente respinte dalle assemblee legislative dello stato; e non furono le uniche che emersero in quegli anni negli Stati Uniti25. Esse segnalavano il tentativo di molti riformatori
upper class (che nella commissione Tilden erano rappresentati, fra gli altri,
da E.L. Godkin) di spingere la critica della democrazia di massa fino alla
limitazione del suffragio, soprattutto nelle amministrazioni municipali delle aree urbane, regno delle «classi pericolose». Intendevano con ciò garantire, affermarono, un voto «interessato» e «intelligente».
Ma fu l’esistenza stessa di un diritto naturale al voto a essere messo
esplicitamente in discussione. Con la scomparsa del vecchio Sud schiavista,
scrisse «The Atlantic» nel 1879, gli Stati Uniti avevano finalmente conosciuto la «democrazia pura», e proprio allora erano cominciate le lamentele.
Ciò che solo trent’anni prima sarebbe stata considerata un’eresia (dubitare
della bontà e della saggezza del governo basato sul suffragio universale) era
diventato un atteggiamento comune; un atteggiamento, affermò candida24
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
mente il periodico, che è «nato ai vertici della società, fra alcuni degli uomini più intelligenti, pensosi e patriottici, e sta ora diffondendosi verso il basso, lentamente ma senza sosta». Come mai? Soprattutto a causa dell’esplosione dell’industrializzazione e della nuova immigrazione, aveva risposto l’anno prima lo storico Francis Parkman, nella più nota filippica liberale
antisuffragio di quegli anni:
Un villaggio del New England dei tempi antichi - vale a dire, di una quarantina
d’anni fa - sarebbe stato ben governato, e saggiamente, dai voti di ogni uomo che
l’abitasse; ma ora che il villaggio è cresciuto in una popolosa città, con fabbriche e
officine, con distese di casamenti popolari, con migliaia e decine di migliaia di
lavoratori inquieti, stranieri per la maggior parte, per i quali il bene pubblico è
niente e i loro più meschini interessi sono tutto, che amano il paese per quello che
ne possono ottenere, e le cui orecchie sono aperte alle sobillazioni di qualunque
volgare agitatore, la situazione è completamente cambiata, e il suffragio universale
diventa un beneficio discutibile. Eppure ci dicono che si tratta di un diritto
inalienabile. Supponiamo per un istante che lo sia, per quanto stravagante appaia la
supposizione. Anche la comunità ha dei diritti, non solo l’individuo, ed ha pure dei
doveri. E’ suo diritto e dovere darsi un buon governo, e, nel momento in cui il voto
di una qualsiasi persona o classe di persone diventa un ostacolo a farlo, questa persona o classe perde il diritto a votare; perché, quando i diritti di una parte si scontrano con i diritti del tutto, i primi devono cedere il passo.
In questa situazione, aveva avvertito Charles Francis Adams, «il suffragio universale può solo voler dire, in parole povere, il governo dell’ignoranza e del vizio: di un proletariato europeo, soprattutto celtico, sulla costa
atlantica; di un proletariato africano sulle rive del Golfo; e di una proletariato cinese su quelle del Pacifico»26.
I Mugwumps non reagirono dunque soltanto alla corruzione presente
della vita pubblica americana (corruzione denunciata in maniera esemplare
negli articoli raccolti in Chapters of Erie and Other Essays, 1871, dei fratelli
Henry e Charles Francis Adams)27 ma a ciò che essi percepirono come gli
eccessi della democrazia popolare. Henry Adams non aveva dubbi in proposito, e costruì uno dei passaggi cruciali della sua autobiografia proprio attorno al tardo avvento del nuovo regime democratico nel natìo New England,
alla fine degli anni quaranta: descrivendolo come un vero colpo di stato. Fu
allora che, a suo parere, tramontò «la vecchia idea ciceroniana del governo
dei migliori» e si affacciò alla ribalta il governo dei politicanti, ai quali i
migliori, che si consideravano statisti ma che sui politicanti contavano per
organizzare il consenso, avevano delegato il lavoro sporco. Quello che successe fu che, «quasi senza che ci se ne rendesse conto, i subordinati cacciaro25
CAPITOLO
1
no i datori di lavoro e crearono una macchina che solo essi erano in grado di
gestire». Quello che successe fu che la tradizione di «disciplina di partito»
(nei confronti del vecchio partito di notabili) nella quale anche Adams era
cresciuto, perse improvvisamente significato di fronte alla «fedeltà di partito» popolare nei confronti del partito di massa. L’adolescente Henry decise
di imboccare un percorso politico molto personale: «mise su un partito tutto suo». Il maturo Henry Adams ritenne inoltre di poter tracciare un bilancio del proprio impegno politico riassumendolo nella convinzione esteticamente compiaciuta del fallimento, la convinzione di ritrovarsi negli anni
novanta, quando l’impeto intellettuale del movimento dei Liberal Reformers
sembrò dissolversi, come uno straniero in patria, come «gli indiani o i
bisonti»28. In realtà, i Liberal Reformers avevano fatto alcuni passi importanti per rendere le loro ipotesi di cambiamento operative, sia pure in un
contesto diverso e per molti versi a loro estraneo. Avevano contribuito ad
alcune riforme che certo non avevano messo in crisi i partiti, ma sicuramente avevano sfidato la loro autorità (la Civil Service Reform, la scheda elettorale di stato, l’avvio della riforma municipale). Soprattutto avevano creato
l’immagine di un gruppo di elettori indipendenti che aveva rifiutato le forme tradizionali di appartenenza partitica e aveva inaugurato uno stile politico che, facendo appello alla coscienza individuale, alla segretezza del voto,
all’indipendenza di giudizio e al valore dell’associazionismo extrapartitico,
era alternativo a quello delle organizzazioni popolari di partito.
Queste idee fecero molta strada subito dopo il 1900, negli anni turbolenti conosciuti dagli storici come l’età progressista29. Furono riproposte da
intellettuali conservatori che, come il presidente della Yale University Arthur
T. Hadley, continuarono a descrivere i partiti di massa come «una forma di
perversione del governo popolare», fondati com’erano sull’«emozione
organizzata»e sull’imposizione dell’obbedienza a tutti i costi. Informarono
di sè importanti settori del movimento progressista, che, come ha scritto lo
storico Tiziano Bonazzi, pur essendo spesso costretti a operare attraverso i
partiti, e pur cercando di far loro accettare i propri programmi, «si impegnarono in una durissima lotta per circoscriverne il potere»30. Furono i riformatori progressisti che cercarono con vario successo di isolare i partiti sia dagli
apparati statali che dall’elettorato e che si proposero di guidare il passaggio
(così desiderato dai Liberal Reformers conservatori) dallo stato dei tribunali
e dei partiti allo stato amministrativo. Quelle idee plasmarono il linguaggio
del giornalismo scandalistico e indipendente che, all’inizio del secolo, condusse i suoi micidiali attacchi contro la corruzione politica a livello munici26
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
pale e statale; e contribuirono a razionalizzare il dissolversi della tradizionale
identificazione con un partito fra i membri dei nuovi ceti medi. Per i professionisti che divennero adulti negli anni novanta, subordinare le fedeltà
partitiche ereditate dai padri alle nuove fedeltà derivanti dall’occupazione
sembrò del tutto naturale; entrare in una associazione professionale era un
atto altrettanto carico di significati simbolici che entrare in un partito. Proprio come nel passato avevano fatto i partiti politici, erano ora queste associazioni a fornire risposte, speranze e nemici al di là dell’esperienza immediata31. In questo diverso contesto, cambiare affiliazione partitica non era
più un tradimento ma una manifestazione di indipendenza personale; e l’indipendenza da qualsiasi affiliazione partitica divenne un segno di integrità
intellettuale per degli «esperti» che si dicevano orgogliosi di ignorare a quale
partito politico appartenessero i loro colleghi (una affermazione questa che
sarebbe stata inconcepibile per una generazione precedente). «Prendete un
uomo come John Commons, per esempio», osservò un amministratore e
professore universitario progressista nel 1914. «E’ stato membro di molte
commissioni [statali], ha preparato molti disegni di legge, ecc. Ebbene, non
so quale sia la sua fede politica»32.
Soprattutto, quelle idee fornirono la griglia interpretativa con cui molti
contemporanei si spiegarono le trasformazioni in corso nel sistema politico
nel suo complesso, e di conseguenza agirono su di esse. Il fatto è che dall’inizio del nuovo secolo la retorica dell’emancipazione dalle antiche fedeltà di
partito era passata dai salotti alto-borghesi ai palchi dei comizi di molti
politicians di primo piano, impegnati nello scontro di fazione nelle organizzazioni politiche tradizionali. Per uomini come i senatori Robert La Follette
del Wisconsin e George Norris del Nebraska, che avevano costruito la loro
carriera sull’attacco alla disciplina di partito, che erano stati fra gli architetti
delle scissioni progressiste dal partito repubblicano del 1912 (con la candidatura indipendente di Theodore Roosevelt) e del 1924 (con la candidatura
dello stesso La Follette), e che spesso si erano identificati più con i programmi del partito opposto che con quelli del proprio (dopo il 1928 Norris passò
definitivamente nelle file democratiche), la conquista dell’«indipendenza»
divenne una bandiera e una ragione di vita: un rito di passaggio verso la
maturità. Nati poco dopo la metà dell’Ottocento (nel 1855 La Follette, nel
1861 Norris), vissero la loro educazione politica all’interno del partito repubblicano proprio negli anni delle critiche sferzanti dei Mugwumps, ma in
contesti geograficamente e socialmente agli antipodi, le piccole città del
Middle West. Nelle loro memorie di attivisti poco inclini alle riflessioni
27
CAPITOLO
1
teoriche, di costruttori essi stessi di potenti macchine politiche, ripeterono
la narrazione del penoso distacco dai riti e dalle credenze di una cultura
politica ormai vista come arcaica. Un distacco obiettivamente penoso perchè
aveva per protagonisti avvocati di provincia che avevano trovato nel partito
uno strumento di ascesa sociale e di realizzazione personale, e quindi un
oggetto di affezione. Un distacco descritto come penoso perchè comunque
le loro erano autobiografie di uomini pubblici che, per quanto pubblicate in
periodi e con scopi diversi, ovviamente miravano a giustificare le loro scelte,
a dare coerenza al loro carattere e ai loro atteggiamenti pubblici.
Scrivendo nella quiete di una lunga vecchiaia, George Norris rievocò
l’adolescenza nell’Ohio degli anni settanta dell’Ottocento, l’educazione ricevuta da una madre che gli instillò «una fede intrepida e devota nel partito
repubblicano», l’avidità con cui divorava la stampa di partito, l’esasperato
spirito di parte che lo spinse a rifiutare un lavoro temporaneo in uno studio
legale solo perché l’avvocato era democratico. Quando nel 1876 fu Rutherford
Hayes dell’Ohio a essere scelto come candidato presidenziale repubblicano,
fu travolto dall’entusiasmo popolare «e trascinato dalle bande musicali e dai
lampioni rossi delle parate, rubai la vecchia giumenta del mio patrigno e
cavalcai fino a Fremont per sentire Hayes pronunciare il discorso di accettazione». Norris rievocò la gioventù in Nebraska, la convinzione di allora che
«il partito repubblicano fosse perfetto», una convinzione che lo accompagnò nel Congresso degli Stati Uniti quando vi fu eletto nel 1902:
Credevo che tutte le virtù di governo fossero monopolizzate dal partito al quale ero
iscritto, e che l’unica possibilità di avere un governo onesto e illuminato consistesse
nell’eleggere solo repubblicani alle cariche pubbliche. Ero un conservatore, e orgoglioso di esserlo - saldo nelle posizioni, irragionevole nelle convinzioni, inflessibile
nell’opposizione a qualunque altro partito o pensiero politico che non fosse il mio.
Fu alla Camera dei rappresentanti, prima di passare in Senato nel 1912,
che cominciò a disfarsi della faziosità di partito. Fu quell’esperienza che
raffreddò gli ardori della sua partisanship.
Scoprii che il mio partito, che avevo sostenuto con tanto vigore, era colpevole di
praticamente tutti i peccati di cui avevo accusato l’opposizione. […] Lentamente
ma chiaramente, e con assoluta certezza, fui costretto ad abbandonare la fede nella
grandezza e nobiltà del partito repubblicano.
Ma il processo non fu affatto facile. Anche da vecchio, il senatore poteva parlarne solo «con la profonda emozione di uno nato e cresciuto nella
fede repubblicana», una fede confermata dalla memoria dei martiri, le tragedie di Lincoln e Garfield e McKinley che avevano segnato la sua vita. Il
28
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
vecchio senatore poteva solo concludere che «la rivolta non mi è stata facile.
E’ stata penosa. Ha comportato ore di dolore»33.
Scrivendo nel fuoco della battaglia politica (le sue memorie furono pubblicate nel 1913), Robert La Follette non perse molto tempo a
rievocare i bei tempi andati. Narrò invece di essere stato illuminato
quasi subito sui metodi di funzionamento dell’organizzazione repubblicana, negli anni ottanta dell’Ottocento in Wisconsin. Ecco l’incontro del giovanotto innocente con lo stagionato boss: «Era un buon
rappresentante della politica vecchia maniera: la politica della forza e
delle manovre segrete. Era dittatore assoluto nel suo territorio; poteva
fare i candidati e distruggere gli eletti. Mi combatté per vent’anni». E
questa battaglia La Follette descrisse, pagina dopo pagina, come il fattore determinante nello sviluppo del suo carattere e della sua persona
pubblica. A differenza di Norris, si soffermò sui dettagli della lotta
contro l’apparato di partito, di come riuscisse a scavalcarlo, a raggiungere direttamente gli elettori, a stabilire propri canali di comunicazione; di come riuscisse a imporre, con una spietata guerra di guerriglia,
le elezioni primarie dirette. Più vigorosamente di Norris, insistette nel
voler rimanere nei ranghi del partito fino alla sua riforma, piuttosto
che uscirne come indipendente:
Credevo nella integrità della base del partito. Non vedevo alcuna valida ragione per
separarmi dal grande corpo di uomini al quale ero stato politicamente affiliato fin
dal raggiungimento della maggiore età, almeno finché mi fossi trovato sostanzialmente d’accordo con le idee intorno alle quali quel partito era organizzato.
La Follette riteneva che nuove opportunità di azione si stessero aprendo dentro il partito, ora che si stava indebolendo quella «irragionevole fedeltà», quella convinzione che solo i repubblicani fossero il «partito del patriottismo» che una volta era stata così importante e che ora per fortuna non lo
era più.
E’ un segno preciso della robusta salute politica dei nostri giorni che ogni giovanotto debba avere le sue buone ragioni per votare la lista repubblicana o quella
democratica; i vecchi nomi di partito hanno perso molto della loro capacità di
persuasione: gli uomini devono pensare con la propria testa - e in questo fatto
risiede la grande speranza per il futuro della nazione.
Il partito repubblicano degli anni successivi alla guerra civile, scrisse La
Follette, «una delle più potenti e compatte organizzazioni di partito che sia
mai esistita, credo, in tutto il mondo», era praticamente morto. «Non vedremo mai più niente di simile in questo paese»34.
29
CAPITOLO
1
3. Un enigma agli occhi dei mitteleuropei istruiti
Le idee e le immagini costruite dai Liberal Reformers non ebbero solo
una circolazione nazionale. Esse trovarono anche il modo di affacciarsi all’Europa. Tramite interlocutori che con i colti e patrizi intellettuali americani condividevano status sociale e filosofia politica, contribuirono in maniera
decisiva a plasmare la percezione che i politici e gli scienzati politici europei
ebbero dei partiti americani, e, in ultima analisi, a sottolinearne la diversità
rispetto ai parametri del vecchio continente. Un esempio immediatamente
contemporaneo è quello dello statista italiano Marco Minghetti, che nel
1881 vide nell’esperienza americana una risposta scandalosamente negativa
al problema che gli stava a cuore: indagare «in qual modo si possa assicurare
la imparzialità della giustizia e dell’amministrazione sotto un governo di
partito». Negli Stati Uniti, scrisse, l’ingerenza partigiana in queste questioni
era notoria, e proprio nell’estate di quell’anno aveva provocato una tragedia.
Il presidente Garfield era stato assassinato, e il suo assassino «non era mosso
da fanatismo politico» (una motivazione che evidentemente Minghetti avrebbe trovato ragionevole), «ma da vendetta privata, perocch’egli pretendeva in
ricompensa delle sue fatiche elettorali un posto che gli fu dal presidente
negato». Lo spoils system si era dunque macchiato di sangue; ma prima ancora aveva avuto effetti «speciali» e «iniquissimi», fra i quali il fatto che gli
uomini di virtù e di ingegno si fossero di fatto estraniati dalla politica. Direttamente da questi uomini Minghetti aveva tratto le sue informazioni:
dalla «North American Review» di Henry Adams, da Chapters of Erie di
Henry e Charles Francis Adams, da quel pamphlet antipartito che era A
True Republic di Albert Stickney (del quale per la verità non prese troppo sul
serio le ricette, essendo egli convinto della «inevitabilità» dell’esistenza dei
partiti, almeno nella condizione presente delle cose). Usando il loro linguaggio Minghetti descrisse i partiti americani come organizzazioni formate da «una mano di politicanti, una vera banda di malfattori», inquinate da
gang che «somigliano a quel che in Italia si direbbe camorra o mafia». La
politica democratica americana gli sembrò guidata da «una classe di uomini
accaparratrice o forzatrice del voto», circondata «di una schiera di agenti ligi
ai capi, addestrati a servir il partito senza scrupoli, che corrono per le città e
le campagne, ingannano, avviluppano, minacciano»35.
Questa visione dei partiti degli Stati Uniti entrò stabilmente nel discorso politico europeo, attraverso i canali della comunicazione intellettuale
transatlantica36. Si intrecciò con la perdurante riflessione sulla Democrazia
in America di Alexis de Tocqueville, che i Liberal Reformers americani adot30
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
tarono come manuale di filosofia politica, leggendovi il proprio disagio nei
confronti della democrazia del loro tempo. Secondo il presidente della Johns
Hopkins University, Daniel Coit Gilman, che presentò la riedizione di fine
Ottocento del classico francese, il disagio riguardava tanto il suffragio universale (che non era in grado di garantire la saggezza del governo, «una questione che nessuno discute nel 1898») quanto la qualità dei governanti.
Gilman raccomandò con enfasi il ponderoso e affascinante saggio come una
«sorta di mappa» per i giovani ricchi e istruiti che, in nome dell’indipendenza politica (dato che almeno per loro «le vecchie linee partitiche di divisione
e conflitto stanno scomparendo»), si proponevano di riportare i distinguished
citizens, cioè se stessi, alla guida della vita pubblica. I loro nemici erano i
politicanti oscuri e ignoranti che «odiano gli irregolari», insultano «con epiteti obbrobriosi» coloro che manifestano indipendenza di giudizio e rendono loro difficile o impossibile presentarsi come candidati; e che sono interessati soltanto alla conservazione della «supremazia di partito»37. Ritornò,
quella visione, in libri influenti come The American Commonwealth (1888)
dell’inglese James Bryce, e come Democracy and the Organization of Political
Parties dello scienziato politico russo di educazione francese Moisei
Ostrogorski, un saggio quest’ultimo dedicato in maniera specifica ai partiti
(d’Inghilterra e, nel secondo volume, degli Stati Uniti), la cui edizione inglese fu pubblicata nel 1902 con una introduzione di Bryce38.
Erano, queste di Bryce e Ostrogorski, due opere straordinarie, le più
importanti apparse intorno al volgere del secolo sul tema dell’organizzazione della politica negli Stati Uniti, scritte da intellettuali europei per un pubblico europeo, ma destinate a influenzare anche la cultura americana. Non è
difficile capire le ragioni del loro successo, della loro indispensabilità su entrambe le sponde dell’Atlantico. Per i lettori europei, erano le prime indagini estese (per la verità estesissime) e sistematiche sul primo sistema di partiti
a suffragio universale maschile del mondo occidentale. Un sistema nel quale, scrisse Bryce, «l’organizzazione di partito aveva raggiunto con molto anticipo una completezza e un potere effettivo ineguagliato in qualsiasi altro
paese»39; un sistema nel quale, scrisse Ostrogorski, «la già lunga carriera del
regime democratico e dell’organizzazione popolare dei partiti prometteva
fonti di informazioni più abbondanti e una prospettiva più estesa sui fenomeni che volevo osservare»40. Queste ricerche furono proposte in Europa
nel contesto di una discussione sul significato dell’emergere di quegli stessi
fenomeni nel vecchio continente; più precisamente, nel contesto di una
discussione ansiosa e francamente elitaria sulle nuove forme di partecipazio31
CAPITOLO
1
ne di massa (organizzata) indotte dalla democratizzazione della società politica, e sulla loro temuta e cosiddetta «degenerazione». Da questo punto di
vista, la repubblica d’oltreoceano appariva come un laboratorio di analisi di
estremo interesse. E da questo punto di vista, entrambi gli scrittori usarono
l’esperienza americana nella tradizione di innumerevoli osservatori e viaggiatori, nella tradizione di Tocqueville, e cioè per fornire alle classi dirigenti
europee degli strumenti per riflettere non solo e non tanto sui problemi
della democrazia americana, quanto sui problemi della democrazia tout
court41. Bryce e Ostrogorski, molto chiaramente, intendevano non solo descrivere ma anche ammonire. Ritenevano che molti degli sviluppi della politica americana da loro non amati (il trionfo della politica d’apparato su
quella dei principi, per esempio) avrebbero potuto verificarsi anche altrove.
Gli Stati Uniti erano semplicemente più avanti su questa strada.
Anche per i lettori americani Bryce e Ostrogorski fecero un lavoro da
pionieri. Entrambi lamentarono la mancanza negli Stati Uniti di indagini
sistematiche precedenti alle quali fare riferimento per impostare i loro studi.
Bryce lo sottolineò in introduzione sia al suo libro, nel 1888, che a quello di
Ostrogorski nel 1902. Quando cominciò la sua investigazione negli Stati
Uniti all’inizio degli anni ottanta, scrisse, non riuscì a trovare «alcun resoconto del notevolissimo e ben consolidato schema di organizzazione che era
colà in funzione da quaranta o cinquanta anni»; scoprì che «persino fra gli
uomini istruiti ve ne erano pochi che ne padroneggiassero i dettagli»42.
Ostrogorski estese il lamento anche alla situazione inglese. Lavori di vasta
portata sull’argomento erano «inesistenti», scrisse, e i pochi dati disponibili
«non erano mai stati trattati scientificamente»; per questo, affermò, era stato costretto a ottenere le sue informazioni «dalla vita reale e non dalle biblioteche». Nel caso di Ostrogorski, l’unica eccezione era naturalmente il
lavoro «monumentale” di Bryce, che fu una «rivelazione, non solo per i
lettori del Vecchio mondo, ma anche per gli stessi americani»43. Sia Bryce
che Ostrogorski divennero quindi indispensabili anche negli Stati Uniti;
anche là vennero accettati e ampiamente letti come opere standard sul sistema politico del paese. Ciò fu vero soprattutto per l’opera più descrittiva,
elegante e leggibile dell’inglese; un po’ meno per quella più teorica, ponderosa e ostica del russo. Di entrambe furono preparate edizioni ridotte in un
unico più maneggevole volume. Il materiale americano di Ostrogorski fu
pubblicato in forma condensata a New York nel 1910. L’edizione ridotta del
lavoro di Bryce apparve nel 1907, e fu adottata come manuale in molti corsi
universitari e scuole medie superiori. Complessivamente, The American
32
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Commonwealth vendette 212.000 copie fra il 1888 e il 1918, un successo
considerevole44.
Le lezioni che Bryce e Ostrogorski credettero di imparare dall’esperienza democratica degli Stati Uniti erano piuttosto allarmanti. Le
«degenerazioni» della democrazia (sia americana che inglese), secondo loro
favorite dalla rapida estensione del suffragio, dall’ingresso nella scena politica di masse ritenute passive e ignoranti, dal collasso dell’ordine sociale fondato sulla deferenza alle vecchie classi dirigenti, dall’emergere di quadri politici di professione di diversa e «inferiore» origine sociale, erano motivo di
preoccupazioni per entrambi, sia pure con diverse accentuazioni. Ostrogorski
arrivò a mettere in discussione la legittimità della stessa forma partito, di
quello che chiamò il «sistema attuale di partiti permanenti appesantiti da
programmi omnibus» che imprigionavano i cittadini e limitavano la loro
libertà. In sostituzione a essi, auspicò la formazione di «organizzazioni singleissue temporanee» o «leghe», capaci di unire gli elettori su questioni specifiche, di educarli alla libera discussione contro il dispotismo dell’opinione
cristallizzata dei partiti. Riassunse la sua proposta, fondata su una evoluzione politica che vedeva già in atto soprattutto negli Stati Uniti, nello slogan,
«Abbasso il partito, viva la lega». Bryce era più cauto. Prese le distanze da
queste posizioni, e proprio nella prefazione che scrisse per l’edizione inglese
del saggio di Ostrogorski espresse una nota di moderato dissenso. Argomentò che l’organizzazione di partito era una «conseguenza logica e inevitabile» del governo di partito in una «democrazia allargata», e che la sua
abolizione era impensabile. Con queste osservazioni, Bryce in realtà stava
riducendo l’importanza dell’opera di Ostrogorski, presentandola come un
contributo, sicuramente importante, a «ciò che possiamo chiamare la patologia del governo di partito», non alla sua fisiologia45.
Queste lezioni non erano sorprendenti per gli americani familiari con il
linguaggio dei Liberal Reformers. E non poteva che essere così, visto che i
Liberal Reformers stessi, i loro periodici, le loro opere e i loro salotti costituivano le fonti principali di informazioni e giudizi per i due europei, che
generosamente li ringraziarono a uno a uno nelle prefazioni ai loro libri. Ciò
è evidente soprattutto nel caso di Bryce, che divenne parte integrante di
quell’ambiente sociale e politico, per relazioni di amicizia e poi professionali. Nel 1904 fu eletto presidente della American Political Science Association;
nel 1906 divenne l’ambasciatore inglese a Washington mentre alla Casa Bianca risiedeva un vecchio amico conosciuto negli anni ottanta, Theodore
Roosevelt. Bryce si sentiva di casa in quel giro di eleganti e colti signori,
33
CAPITOLO
1
residenti nelle città della costa orientale, soprattutto nel New England. Sulle
loro indicazioni faceva molto affidamento, e talvolta persino le sue osservazioni dirette furono da loro mediate. Con loro discusse tutto il suo lavoro,
che fece circolare in bozze, insieme a complessi questionari; a due di loro
affidò addirittura la stesura di due capitoli della prima edizione del libro46.
Per mancanza di ricerche specifiche, restano più misteriori i debiti personali, ma non quelli intellettuali, contratti negli Stati Uniti da Ostrogorski47.
Entrambi gli autori europei fecero dei Liberal Reformers gli eroi delle loro
storie, raccontandone le vicende politiche in capitoli epicamente intitolati
«La guerra contro il regno dei boss» (in The American Commonwealth) oppure «Le lotte per l’emancipazione» (dal dominio dei partiti, in Democracy
and the Organization of Political Parties). E ne assunsero il punto di vista
come chiave di interpretazione delle vicende stesse. Il materiale che uno
storico di oggi potrebbe usare per scrivere un capitolo di storia intellettuale,
e cioè per ricostruire il pensiero politico di un gruppo di esponenti della
upper class americana della seconda metà dell’Ottocento, fu impiegato da
Bryce e Ostrogorski per comporre un storia politica e istituzionale dell’oggetto principale di quel pensiero, e cioè i partiti politici e le loro denunciate
degenerazioni.
Tutto ciò emerge in maniera indiscutibile dall’analisi dei testi su alcune
questioni cruciali. La figura del boss di partito così nitidamente scolpita da
Bryce e Ostrogorski (un uomo di estrazione popolare, di istruzione ed educazione scadente, piuttosto volgare, che non ha principi politici ma punta
solo ad attirare voti, per il quale «non c’è politica nella politica», per il quale
la politica è solo un’occasione di carriera e di affari, un uomo che segna
«l’avvento del boss commerciale»), esisteva già perfetta nella letteratura
antijacksoniana e antipartito degli anni trenta dell’Ottocento, poi in quella
degli anni settanta contro l’organizzazione democratica di New York City
(Tammany Hall), e infine negli articoli scritti negli anni ottanta da un giovanissimo Roosevelt48. Lo stesso tipo di analisi polemica generò la riduzione
della complessa organizzazione dei partiti all’immagine negativa della «macchina», all’immagine diabolica del complesso boss & machine. Bryce e
Ostrogorski recepirono questa riduzione come problematica e parziale, ma
finirono per accettarla. Bryce riconobbe che si trattava di una semplificazione fuorviante, indotta da coloro che si facevano influenzare dai «pessimisti
americani», e cioè dai suoi stessi informatori e amici. Affermò che era valida
solo per le aree metropolitane affollate di immigrati che (e qui tornava a
essere d’accordo con i pessimisti) «non sono idonei a esercitare il diritto di
34
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
voto», e che altrove la situazione era diversa: per esempio nelle campagne,
oppure nei quartieri benestanti dove evidentemente la ricchezza era in grado di produrre un ossimoro miracoloso, e cioè delle «buone macchine». I
suoi capitoli sulla struttura dei partiti, tuttavia, non sembrano tenere contro
di queste importanti distinzioni49. Un simile atteggiamento è riscontrabile
in Ostrogorski. Dopo aver sottolineato la differenza fra macchina e organizzazione, e avere disegnato una mappa della estensione geografica della prima, concluse con tutta tranquillità che «per la chiarezza della narrazione,
farò qui riferimento alla macchina come se coprisse l’intera area politica
degli Stati Uniti»50.
Un altro tema ricorrente era quello della scarsa qualità del personale
politico prodotto da quel sistema dei partiti, ovvero, per dirla con Bryce, il
tema del «Perchè gli uomini migliori non entrano in politica»51. Nel linguaggio ottocentesco, the best men o anche men of a better sort erano parole
in codice con le quali gli esponenti delle classi superiori, con arrogante immodestia, indicavano se stessi. Nello stesso giro di frase aggiungevano con
rammarico che, per persone di questo tipo, capaci di combinare calibro
intellettuale, cultura e distinzione sociale, non c’era posto nella nuova democrazia di massa, che premiava altre e meno nobili qualità52. Bryce e
Ostrogorski condivisero e ripresero con puntualità questo linguaggio. Anche per loro erano i partiti popolari e i loro apparati a promuovere persone
«senza colore, deboli, facilmente controllabili», mentre idee, convinzioni e
carattere erano penalizzati. Per Ostrogorski i nuovi politici di partito erano
«invasori»; erano «gente affamata», «parvenus», arrampicatori sociali «senza
mezzi personali», senza influenza e senza merito. I dirigenti naturali del paese, gli uomini «intelligenti, colti, ricchi, raffinati, con tradizioni storiche»,
erano usciti di scena «tra lo stupore e il profondo rammarico degli investigatori europei». Si era così creata negli Stati Uniti quella che definì una «separazione della società dalla politica». Bryce concordava che non esisteva più
nel paese una classe sociale chiamata naturalmente, per diritto ereditario,
alla guida dello stato: «nessuno può avviare facilmente una carriera politica
contando sul nome e sulle relazioni personali, come ancora accade in parecchi paesi europei»53. I due gentiluomini europei, come i loro referenti americani, avevano in mente un preciso modello di classe dirigente, rappresentato dai primi presidenti patrizi degli Stati Uniti (l’età dell’oro, da George
Washington a John Quincy Adams), ovvero dalle élite europee, soprattutto
inglesi, di estrazione aristocratico-intellettuale54. Misurato su quel modello
idealizzato, con una buona dose di alterigia di classe, il nuovo ceto politico
35
CAPITOLO
1
prodotto dalla democrazia americana, reclutato negli strati intermedi e inferiori della società, risultava senza qualità; le sue pratiche clientelari, per quanto
ereditate in blocco dal vecchio regime dei notabili, entravano trionfalmente
nel dibattito moderno sulla corruzione55.
Come i Liberal Reformers, anche Bryce e Ostrogorski presentarono i
partiti americani come privi di principi e programmi. Ostrogorski, che scrisse
il suo saggio all’indomani dello scontro politico-ideologico presidenziale del
1896, fu costretto per la verità a riconoscere che finalmente un conflitto di
principi si era delineato, un conflitto combattuto su questioni specifiche e
fra soluzioni contrapposte56. In generale, tuttavia, entrambi gli osservatori
ebbero difficoltà a comprendere le ragioni della conflittualità politica negli
Stati Uniti, che sembravano loro banali se paragonate a quelle che infiammavano l’opinione pubblica di molti paesi europei. Erano convinti che, una
volta risolte le questioni storiche della libertà, niente potesse più dividere la
società e le menti dei cittadini «in due campi ostili», in maniera duratura,
per generazioni57. Ripeterono, insieme a Tocqueville e a molti altri, la convinzione nostalgica che i «grandi» partiti e gli scontri ideali appartenessero
al passato, all’epoca rivoluzionaria o alla guerra civile. Fu nella guerra civile,
ricordò Ostrogorski, che, grazie al nuovo partito repubblicano, allora una
organizzazione «viva, ispirata solo dalla franchezza e dal disinteresse», per
l’ultima volta «il principio della libertà e quello della schiavitù poterono
ergersi, incontrarsi faccia a faccia, e battersi l’uno contro l’altro». Fu allora,
secondo Bryce, che i partiti riuscirono per l’ultima volta a sollevare «l’entusiasmo degli spiriti più nobili» sia nel Nord che nel Sud, e in uno slancio
ideale «il popolo versò generosamente il proprio sangue»58. Sembrava insomma che i grandi principi fossero associati a tempi di crisi, a violenti
sconvolgimenti, a catastrofi nazionali, a massacri, a centinaia di migliaia di
morti. Tocqueville aveva avuto la saggezza di osservare che il dissolversi di
simili ideali, se aveva messo a dura prova la moralità dell’America, ne aveva
forse accresciuto la «felicità»59. I due europei non riuscirono a prendere sul
serio i conflitti esistenti, magari meno drammatici di quelli evocati dal passato, ma reali e importanti. Considerarono per esempio i conflitti culturali
in atto (sulla politica scolastica, la regolamentazione delle bevande alcoliche, l’uso delle lingue straniere in una società multinazionale) come residui
di un passato tradizionale, come qualcosa di contrario allo spirito moderno.
O come delle risibili sciocchezze.
I volumi di Bryce e Ostrogorski divennero le principali fonti di informazioni sul sistema politico americano a cui attinsero i lettori colti e gli
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QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
scienziati politici europei della prima parte del Novecento. Sulle ricerche di
entrambi fondò la sua descrizione dei partiti americani, che pure conosceva
di prima mano, Werner Sombart nel suo Perchè negli Stati Uniti non c’è il
socialismo? (1906). Da loro attinse sparsi esempi e suggestioni Roberto
Michels, per illustrare la sua analisi sulla supremazia dei dirigenti di partito,
e sulla dinamica dei loro conflitti all’interno dell’organizzazione, in La
sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911). Gaetano Mosca,
nella seconda parte dei suoi Elementi di scienza politica (aggiunta all’edizione del 1923), trovò nel lavoro ormai divenuto «classico» di Ostrogorski una
conferma della sua teoria delle elite, del fatto che anche in un regime rappresentativo a suffragio molto largo il potere effettivo resta in mano a piccole minoranze organizzate60. Per tutti costoro, The American Commonwealth
e Democracy and the Organization of Political Parties erano massicci repertori
scientifici di fatti storici, opere definitive alle quali (disse Sombart a proposito del lavoro di Bryce) «non c’è pressoché nulla da aggiungere»61. Nelle
loro supposta scientificità e completezza enciclopedica, tuttavia, queste opere
proponevano una potente interpretazione; confermavano l’immagine di
partiti americani che erano un «enigma» agli occhi dei «mitteleuropei istruiti», dato che in loro «non si trova alcuna traccia di una qualsiasi fondamentale differenza di punti di vista relativi alle questioni più importanti della
politica». L’osservazione è ancora di Sombart, ed è familiare. Riecheggiava
quelle di Tocqueville sui «piccoli» partiti degli Stati Uniti del 1830, impegnati in controversie che apparivano «incomprensibili o puerili» a uno straniero. Sarebbe ritornata, nel secondo dopoguerra, nelle pagine autorevoli di
Maurice Duverger sul partito americano come un «dinosauro» rispetto ai
moderni partiti programmatici europei, e poi negli anni cinquanta in quelle
di Giovanni Sartori62.
Questa immagine dei partiti americani, e questa contrapposizione fra
partiti americani e partiti europei, sono rimaste a lungo nel senso comune
storiografico e nel linguaggio della sociologia politica nel Novecento. Naturalmente, nessuno ha contribuito di più a consolidare questo paradigma
interpretativo di Max Weber, e anche nel suo caso i lavori di Bryce e
Ostrogorski ebbero un ruolo strategico nell’influenzare la sua comprensione della politica negli Stati Uniti. I lavori dei due europei fornirono le fondamenta delle sue considerazioni sul partito macchina e sul boss come imprenditore politico, contenute nei celebri scritti del 1918-1919 e nelle note
pubblicate postume come Economia e società (1922)63. I partiti «borghesi»
degli Stati Uniti apparvero a Weber come i primi esempi di organizzazioni
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CAPITOLO
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politiche moderne «figlie della democrazia, del diritto elettorale delle masse,
della necessità della propaganda e dell’organizzazione di massa, dello sviluppo di un’estrema unità di direzione e della più rigorosa disciplina». Erano in
questo simili ai partiti socialdemocratici europei di epoca posteriore64. Gli
sembrarono inoltre più flessibili, e quindi per lui più interessanti. Più di
altri tipi di partito, avevano contribuito a esaltare il ruolo del leader; avevano concentrato molto potere in un singolo individuo e istillato nei seguaci
quelle forme di dedizione «personale» (implicanti la «rinuncia […] alla propria anima» e la «proletarizzazione spirituale») che potevano favorire l’avvento della democrazia plebiscitaria con un capo che Weber riteneva necessaria. Nella macchina nel senso americano del termine, capace di produrre
un leader carismatico, vide un’alternativa alla democrazia senza capi della
Germania del primo dopoguerra. Nel presidente americano eletto direttamente dal popolo, ovvero nel sindaco «plebiscitario» proposto dai riformatori per combattere la corruzione nelle grandi città, vide degli strumenti per
rompere il dominio dei partiti burocratizzati. Ragionando su queste questioni, Weber parafrasò ampiamente le pagine di Ostrogorski, ma non ne
condivise il giudizio. Ostrogorski era infatti un difensore del ruolo delle
assemblee rappresentative, e vedeva nelle tendenze plebiscitarie e
presidenzialiste «una abdicazione della libertà da parte dei cittadini e un
incoraggiamento a ogni forma di dispotismo»65.
Per altri versi, Weber descrisse i partiti americani come incompatibili
con l’esperienza europea. Erano partiti guidati da boss corrotti e senza principi, interessati soltanto a vincere le elezioni e a impadronirsi delle risorse
clientelari del governo. Il boss era un professionista della politica come i
suoi colleghi europei, ma non era un funzionario stipendiato, bensì un imprenditore capitalistico che forniva voti a proprio rischio e pericolo, controllandone dapprima un piccolo numero nel suo quartiere e da lì partendo
nell’opera di accumulazione. Il boss convenzionale di Weber, come tutti i
boss americani della letteratura sull’argomento, era un uomo di «educazione piuttosto scadente», «assolutamente modesto», che «non aspira al prestigio sociale». Per Weber, inoltre, i partiti americani erano organizzazioni destinate a deperire a poco a poco perché fondati su quell’anacronismo che
era, appunto, lo spoils system, un prodotto della «peggiore economia
dilettantesca», uno spreco di risorse che solo un paese vergognosamente ricco come gli Stati Uniti potevano permettersi. Ma ancora per poco. Anche
negli Stati Uniti, a suo parere, si andava affermando la crescente necessità di
una burocrazia di tipo europeo, più efficiente, specializzata e professionale66.
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QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Con tutta la complessa ricchezza delle sue riflessioni, Weber contribuì quindi a disegnare l’immagine in negativo del partito americano come apparato
per l’occupazione privatistica di incarichi amministrativi pubblici, così sottratti alla supposta neutralità burocratica di una sfera autonoma statale.
Contribuì inoltre decisamente a formulare una tipologia del partito politico
che congelava la dicotomia fra il modello americano, esempio «radicale» di
Patronagepartei, di partito clientelare sprovvisto di ogni contenuto di principi, e il modello europeo di Weltanschauungpartei, di partito «fondato su
un’intuizione del mondo»67.
4. C’è spesso molto di buono nel tipo del boss
Questa non è, in effetti, l’unica storia che è stata raccontata dei partiti
americani. Nell’età progressista, alcuni intellettuali e politici metropolitani
elaborarono un diverso quadro interpretativo che era in qualche contrasto
con la visione Mugwump del partito politico come macchina nemica e
semicriminale. Theodore Roosevelt fu tra coloro che aprì la strada in questa
direzione. La sua formazione newyorkese gli fornì una diversa sensibilità
alle ragioni della fedeltà di partito: non nelle aree rurali del Middle West di
La Follette e Norris, dove la tradizione repubblicana affondava le proprie
radici nella frattura storica ormai evanescente della guerra civile, ma nella
politica urbana dei gruppi etnici e degli immigrati. La sua estrazione sociale
upper class lo costrinse inoltre a fare i conti con gli intellettuali conservatori
ai quali era così vicino per cultura e rapporti personali. Nell’autobiografia,
pubblicata nel 1913, subito dopo la spaccatura repubblicano-progressista
di cui era stato protagonista, propose lo schema coerente di questo passaggio cruciale. Dai Liberal Reformers Roosevelt si staccò nel 1884, quando
non partecipò alla scissione Mugwump dal partito e sostenne il candidato
regolare repubblicano Blaine; partecipò invece al coro di insulti che accompagnò gli scissionisti, insulti del tutto scontati in un mondo che considerava la politica come l’equivalente morale della guerra e gli scissionisti come
dei traditori68. Roosevelt prese le distanze da questi riformatori aristocratici
e così lontani dalla vigorosa vita della democrazia americana, da questi signori lamentosi e salottieri (e un poco effemminati) che avevano in odio gli
uomini di partito «per ragioni estetiche più che morali», e che d’altra parte
non avevano la minima comprensione per i bisogni, gli interessi e i modi di
pensare di coloro che non appartenevano alla loro casta. Avevano strane
idee, come quella che «è la carica pubblica che dovrebbe cercare l’uomo e
non l’uomo la carica»; e stavano quindi ad aspettare. Essi risero della sua
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giovanile decisione di dedicarsi attivamente alla politica di partito, e gli ricordarono paternamente
che la politica era «spregevole»; che le organizzazioni di partito non erano controllate da “gentiluomini»; che le avrei trovate in mano a bettolieri, fiaccherai, e simili
[…]; mi assicurarono inoltre che gli uomini che avrei incontrato sarebbero stati
rozzi e brutali e sgradevoli69.
Niente di più desiderava Roosevelt. Con un brivido di eccitazione si
immerse nell’agitata vita plebea dei club repubblicani di Manhattan che
tenevano le loro riunioni in locali arredati con tutti i simboli del disgusto
Mugwump, descritti con deliziata accuratezza: una stanza sopra un saloon
(altro che riforma morale), pancacci (altro che salotti borghesi), un ritratto
del presidente Ulysses Grant (il grande corruttore), sputacchiere. Il fatto di
essere un «repubblicano proveniente dal distretto più ricco di New York» gli
rese la vita non facile, ma certo deliziosamente interessante. Nei bassifondi
dove altri avevano visto solo degenerazione morale e classi pericolose, e quindi
la nemesi della civiltà americana, Roosevelt andò a cercare i membri di una
«classe di governo» democratica, e scoprì le buone ragioni delle forme della
politica popolare, le buone ragioni del partito, della fedeltà di partito, persino dei boss di partito così detestati dai membri della sua classe sociale. Giunse
alla conclusione che
c’è spesso molto di buono nel tipo del boss, specialmente comune nelle grandi città,
che assume nei confronti della gente del suo distretto, in maniera abile e rozza, la
posizione di amico e protettore. Costui usa l’influenza di cui dispone per procurare
lavoro ai giovani che ne hanno bisogno. Va in tribunale per qualche giovane scapestrato che si è cacciato nei guai. Aiuta con contanti o crediti la vedova che è in
ristrettezze o il capofamiglia che ha avuto un incidente o che è temporaneamente
senza lavoro per qualche altro motivo. Organizza feste gastronomiche [clambakes
and chowder parties] e picnic, ed è consultato dai dirigenti sindacali locali quando
c’è la minaccia di un taglio dei salari. Ad alcuni dei suoi elettori rende favori legittimi, e ad altri favori del tutto illegittimi; ma con tutti conserva relazioni umane.
Cementato dal capillare lavoro quotidiano di presenza e assistenza dei
boss, gli uomini dei quartieri popolari avevano sviluppato un profondo attaccamento al partito, assai difficile da scalfire, ed erano sia insensibili agli scontri
di persone e di personalità di cui si dilettavano i Liberal Reformers che
comprensibilmente ostili a molte loro proposte. La dottrina dell’indipendenza si rivelò rapidamente agli occhi di Roosevelt come velleitaria, l’organizzazione di partito come un requisito ineliminabile per qualsiasi tipo di politica,
compresa quella riformatrice alla quale non aveva affatto rinunciato70.
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QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Questa di Roosevelt era una nuova sensibilità che trovò la sua
canonizzazione nell’opera di Lincoln Steffens. Dall’autobiografia (del 1931)
del celebre giornalista, e dai suoi articoli sulla scoperta della corruzione negli Stati Uniti di inizio Novecento (The Shame of the Cities è del 1904), i
riformatori upper class emersero di nuovo come deboli ed elitari uomini di
buone intenzioni, avvolti nell’ipocrita mantello della loro rettitudine. Secondo Steffens, il vero eroe democratico era, potenzialmente e paradossalmente, il boss di quartiere, corrotto ma consapevole della verità, a suo modo
onesto, «un mascalzone, ma un grande mascalzone». Il suo potere si fondava
sulla capacità di ispirare la fedeltà e il rispetto degli elettori. In più luoghi
Steffens denunciò come «idiota» questa «devozione a una» macchina «che è
usata per portarci via la sovranità», che trasferisce «a qualche» partito «la
lealtà dovuta agli Stati Uniti», che consente ai politici di perseguire
indisturbati i propri disegni dietro le quinte; in altri luoghi, tuttavia, cercò
di spiegarsene le ragioni. E ciò che vide fu che il boss e la cosiddetta macchina di partito «si ergevano sulla roccia» sulla quale «le chiese sono state costruite», per fornire «rifugio e asilo», sanctuary service:
Fornivano aiuti e consigli e un posto dove nascondersi in casi d’emergenza a uomini, donne e bambini senza amici che si trovavano in stato di
bisogno, che magari erano colpevoli, con la cosiddetta giustizia alle calcagna.
E mentre sedevo là e pensavo, capii che se volevamo costruire […] un’organizzazione capace di sostituire la macchina politica e conquistare così alla
città la fedeltà che ora andava al boss e al suo partito, dovevamo essere noi a
fornire quel servizio.
I boss, scrisse Steffens, erano dirigenti naturali del popolo che venivano
dal popolo. Il loro peccato consisteva nell’aver tradito, nell’essersi venduti
per denaro sonante agli uomini d’affari, nell’aver acconsentito alla trasformazione della democrazia americana in una plutocrazia. E tuttavia, se fosse
stato possibile riconvertire questi «traditori politici» alla giusta causa, e accoppiare il rispetto di cui godevano fra le masse a un «programma sociale»,
questa, concludeva Steffens, avrebbe potuto essere la strada per una seria
riforma della società71.
Era questa una possibilità che non passò neanche per la testa del boss di
origine irlandese George Washington Plunkitt, mentre intratteneva con le
sue celebri «conversazioni molto semplici su questioni politiche molto pratiche» il giornalista William Riordon, che le pubblicò in libro nel 1905.
Salutato come un uomo di partito che credeva nel governo di partito e nell’organizzazione permanente dell’elettorato, Plunkitt celebrò le forme della
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politica urbana e soprattutto la macchina democratica di New York City,
Tammany Hall (a suo parere «la più perfetta macchina politica sulla faccia
della terra»), in una vena per molti versi simile a quella di Steffens. Descrisse
nei dettagli la vita quotidiana del partito, le tecniche di conquista e mantenimento del consenso, cinicamente prive di ogni implicazione ideale; e
dispiegò senza pudore l’ostilità per riformatori e intellettuali attratti dalla
politica come progetto di cambiamento, considerati dilettanti, «fiorellini
che durano un mattino». Travolto dalle sue ossessioni, Plunkitt riuscì a tacere il fatto che il suo stesso partito, grazie a uomini politici come lui (democratici urbani di estrazione popolare e operaia), stava in quegli anni diventando il partito della riforma sociale in molti stati, fra i quali proprio lo stato
di New York; era insomma una macchina tutt’altro che priva di idee, idealità,
programmi di cambiamento. E tuttavia persino il suo linguaggio disincantato
lasciava trasparire una percezione del partito politico come complessa istituzione che «fa lavoro missionario come una chiesa», fornendo servizi essenziali ai membri meno privilegiati della società, soprattutto immigrati. «E’
filantropia, ma è anche politica - ottima politica», sosteneva Plunkitt; produceva elettori riconoscenti ma anche cittadini meno legati alla degradante
e tardiva carità dei signori («che impiega un mese o due per studiare il caso
e decide che sono meritevoli di aiuto quando ormai sono morti di fame»).
Per questo «Tammany è l’organizzazione più patriottica del mondo»72. Qui
Plunkitt si ritrovava ad affrontare la questione sollevata da Mrs. Lightfoot
Lee un quarto di secolo prima, «C’è niente di più forte della fedeltà al partito?»; e la sua risposta era molto più radicale di quella del senatore Ratcliffe.
Secondo il politician newyorkese, infatti, non esisteva alcun conflitto fra la
fedeltà al partito e quella al paese; si trattava esattamente della stessa cosa.
L’immagine del partito centrata sulle grandi organizzazioni metropolitane a base etnica era destinata a un importante futuro nella cultura americana. Influenzò infatti in maniera decisiva le percezioni e le elaborazioni
intellettuali di un gruppo di scienziati sociali e di storici che, fra la fine degli
anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta del Novecento, usarono il linguaggio della cosiddetta scuola funzionalista. L’influenza era molto precisa.
Alcuni dei saggi più celebri e autorevoli del periodo, libri come Social Theory
and Social Structure (1949) di Robert Merton, The Uprooted (1951) di Oscar
Handlin e The Age of Reform (1955) di Richard Hofstadter, fondarono le
loro generalizzazioni sulla vita politica urbana non su ricerche originali, bensì
quasi esclusivamente sull’autobiografia di Steffense sulle osservazioni di
Plunkitt73. Collettivamente, questi studi proposero una reinterpretazione
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QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
della politica di partito americana fra la guerra civile e il New Deal fondata
sul concetto delle «funzioni latenti della macchina», e cioè sulla capacità
dell’apparato partitico (capacità positiva ancorché non compresa fra quelle
ufficiali, dichiarate, manifeste) di provvedere assistenza umana e personale
ai bisognosi, di dar voce ai sistemi morali diversi dei gruppi di nuovi arrivati, di unificare in via di fatto la struttura decentralizzata del governo, di
contribuire a trasformare gli immigrati in cittadini americani. Fu in questo
clima che il boss sembrò trasformarsi da mascalzone in necessità sociale, e la
sua figura smise i panni del villain per acquistare quelli del folk hero, dell’eroe per esempio del romanzo bestseller di Edwin O’Connor, The Last
Hurrah (1956): quel Frank Skeffington (modellato sul sindaco di Boston
James M. Curley) che è l’ultimo erede del vecchio mondo politico basato
sui rapporti umani, sul servizio personale magari inefficiente ma cordiale,
sulla comprensione paterna e paternalistica dei bisogni degli umili.
Skeffington divenne anche un eroe cinematografico, nell’omonimo film di
John Ford (1958); e sullo schermo acquistò la maschera molto simpatica,
molto umana e molto irlandese di Spencer Tracy. Fu in questo clima, fra
l’altro, che Plunkitt of Tammany Hall fu riedito (nel 1948), e divenne un
piccolo classico della politica americana e una lettura obbligatoria nei corsi
universitari di storia, di scienza politica e di educazione civica74.
L’approccio funzionalista comportò un mutamento di prospettiva che,
rispetto all’approccio Mugwump, aveva una valenza apparentemente antielitaria. Ma l’antielitarismo era solo apparente. Partendo dall’ipotesi che le
ragioni della mobilitazione e della partecipazione politica popolare rimassero insulate in un mondo prepolitico di solidarietà comunitarie e di fedeltà
clientelari, i funzionalisti condivisero l’opinione di Bryce secondo il quale le
masse potevano concepire i rapporti politici solo come rapporti «personali»
e «feudali». Condivisero l’opinione di Roosevelt secondo il quale le masse
immigrate urbane vivevano un un mondo dominato da una sorta di «fedeltà
di clan» simile a quella prevalente «fra popoli primitivi ancora nella fase di
clan dello sviluppo morale». Condivisero con Roosevelt e Bryce e Ostrogorski
l’atteggiamento dell’esploratore vittoriano, di colui che scende dai salotti
borghesi nella giungla metropolitana per studiare, con benevolenza e arroganza intellettuale, gli usi e i costumi dei «nativi»75. I nativi sembravano loro
assolutamente impermeabili a ogni tipo di giudizio intellettuale su principi,
programmi e interessi politici, una qualità che consideravano privilegio delle élite e cioè di se stessi. Questo presupposto è stato espresso in altri termini
da molti studiosi che, dagli anni cinquanta in poi, hanno cercato di analiz43
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zare le radici del comportamento elettorale (delle scelte di partito, della fedeltà di partito) degli americani sia ottocenteschi che contemporanei. E hanno
creduto di trovarle, queste radici, non nei conflitti su grandi temi come la
schiavitù, l’espansione territoriale, la politica economica e la riforma sociale,
articolati dai gruppi dirigenti ma, a loro parere, sostanzialmente indifferenti
alle masse, bensì negli scontri di valori culturali e religiosi, di costumi e stili
di vita. Scienziati politici e storici hanno avvertito che era ormai tempo di
confrontarsi con il fatto brutale che «larghe fette dell’elettorato non hanno
convinzioni significative, anche su questioni che sono state al centro di intense controversie politiche per periodi di tempo piuttosto lunghi»76.
Molte ricerche di storia sociale e della stessa storia del comportamento
elettorale hanno mostrato quanto questa affermazione fosse carica di pregiudizi, schematica e sbagliata. I conflitti culturali e comunitari e quelli della grande politica nazionale non costituivano affatto due mondi separati, e
ciò valeva tanto per i membri dei ceti più popolari, che avevano anche interessi e ideali politici, quanto per quelli delle élite, che avevano anche le loro
appassionate e durature fedeltà personali e di clan (e non facevano davvero
niente per nasconderlo). Secondo lo storico Joel Silbey, almeno per ciò che
riguarda l’Ottocento, «gli americani costantemente stabilivano connessioni
fra le prospettive locali e i problemi comunitari, e la loro percezione delle
questioni nazionali e del quadro nazionale del conflitto politico»; e proprio
intorno a queste connessioni si saldarono le fedeltà di partito77. Il patronage
system era uno degli strumenti di questa saldatura, ma tutt’altro che l’unico.
La fedeltà di partito aveva le proprie radici più durature nello scontro su
questioni importanti. I partiti propugnavano scelte politiche e non solo pose
elettoralistiche, ed erano in grado di elaborare coerenti politiche di governo
in un sistema istituzionale e sociale complesso. Esisteva una forte correlazione positiva fra le promesse delle campagne elettorali e i comportamenti degli uomini di partito nelle assemblee legislative e negli uffici esecutivi. Dall’età jacksoniana al volgere del 1900 gli Stati Uniti vissero in una specie
dell’età dell’oro del governo di partito, in un sistema di partito responsabile
e reattivo. Che questi partiti potessero essere solo organizzazioni
elettoralistiche senza principi, è ridicolo. La loro capacità di funzionare come
efficienti macchine per voti, di mobilitare l’elettorato con successo e per un
periodo di tempo prolungato, era ovviamente legata alla convinzione di attivisti e elettori di voler vincere per qualcosa, di essere in politica per promuovere, secondo la celebre definizione del partito politico data da Edmund
Burke, «l’interesse nazionale, sulla base di qualche particolare principio sul
quale si sono trovati d’accordo»78.
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QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
1. H. Adams, Democrazia. Un romanzo americano [1880], a cura di M.V. D’Amico, Pisa,
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storia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 147.
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9. R. Hofstadter, The Idea of a Party System, cit., p. 247.
10. “Is this the country that we dreamed in youth / Where wisdom and not numbers would
have weight, / Seed-field of simpler manners, braver truth, / Where shame should cease to
dominate / In household, church, and state? / Is this Atlantis?”. J.R. Lowell, Ode to the
Fourth of July, 1876, citato da M. Keller, Affairs of State: Public Life in Late Nineteenth Century
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CAPITOLO
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1865-1883, Urbana, University of Illinois Press, 1968; S. Skowronek, Building a New American
State: The Expansion of National Administrative Capacities, 1877-1920, New York, Cambridge
University Press, 1982.
23. A. Ludington, American Ballot Laws, 1888-1910, Albany, University of the State of New
York, 1910; L. E. Fredman, The Australian Ballot: The Story of an American Reform, East
Lansing, Michigan State University Press, 1968.
24. L’elettorato attivo doveva essere limitato ai cittadini con proprietà di almeno 100 dollari
nelle città con popolazione dai 25.000 ai 100.000 abitanti, e con proprietà di almeno 500
dollari nelle città con popolazione superiore ai 100.000 abitanti. Vedi M.E. McGerr, The
Decline of Popular Politics, cit., p. 65; D.C. Hammack, Power and Society: Greater New York
at the Turn of the Century, New York, Sage, 1982, p. 201.
25. Misure analoghe furono proposte per la città di St.Louis nel 1876. Vedi J.N. Primm,
Lion of the Valley: St.Louis, Missouri, Boulder, Pruett, 1981, pp. 322-323.
26. Limited Sovereignty in the United States, in “Atlantic Monthly”, XLIII, febbraio 1879, p.
186; F. Parkman, The Failure of Universal Suffrage, in “North American Review”, CXXVII,
luglio-agosto 1878, pp. 3-4; C.F. Adams, The Protection of the Ballot in National Elections, in
“Journal of Social Science”, I, giugno 1869, pp. 108-109.
27. C.F. Adams, H. Adams, Chapters of Erie and Other Essays [1871], New Haven, Yale
University Press, 1956. Vedi R.L. McCormick, The Discovery that Business Corrupts Politics:
A Reappraisal of the Origins of Progressivism, in “American Historical Review”, LXXXVI,
aprile 1981.
28. H. Adams, The Education of Henry Adams, cit., pp. 32, 49, 29, 238. Vedi R.P. Formisano,
Boston, 1800-1840: From Deferential-Participant to Party Politics, in R.P. Formisano, C.K.
46
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Burns (a cura di), Boston 1700-1980: The Evolution of Urban Politics, Westport, Greenwood
Press, 1984.
29. A. Testi (a cura di), L’età progressista negli Stati Uniti, 1897-1920, Bologna, Il Mulino,
1984.
30. A.T. Hadley, Undercurrents in American Politics, New Haven, Yale University Press, 1915;
T. Bonazzi, Il New Deal e il Leviatano: la cultura politica della tradizione riformatrice americana, in T. Bonazzi, M. Vaudagna (a cura di), Ripensare Roosevelt, Milano, Angeli, 1986, p. 67.
31. R. Wiebe, The Search for Order, 1877-1920, New York, Hill & Wang, 1967, p. 129.
32. Lettera di C. McCarthy a R.C. Brooks, 6 gennaio 1914, in C. McCarthy Papers, State
Historical Society of Wisconsin, Madison. Vedi A. Testi, Amministrazione, efficienza e democrazia. L’educazione di un “public servant” progressista: Charles McCarthy, 1873-1921, in T.
Bonazzi (a cura di), Potere e nuova razionalità. Alle origini delle scienze della società e dello stato
in Germania e negli Stati Uniti, Bologna, Clueb, 1982.
33. G.W. Norris, Fighting Liberal: The Autobiography of George W. Norris [1945], New York,
Collier, 1961, pp. 51, 52, 77, 104, 106, 107, 154, 155.
34. R.M. La Follette, La Follette’s Autobiography: A Personal Narrative of Political Experiences
[1913], Madison, University of Wisconsin Press, 1960, pp. 27, 6, 75, 8.
35. M. Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione
[1881], in M. Minghetti, Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1986, pp. 606, 649, 659, 704, 706, 657, 655.
36. J.T. Kloppenberg, Uncertain Victory: Social Democracy and Progressivism in European and
American Thought, 1870-1920, New York, Oxford University Press, 1986, pp. 160-170; R.
Kelley, The Transatlantic Persuasion: The Liberal-Democratic Mind in the Age of Gladstone,
New York, Knopf, 1969.
37. D.C. Gilman, Introduzione a A. de Tocqueville, Democracy in America, 2 voll., New
York, Century, 1898, vol. I, pp. xxxiii, vii, v, xliv. Questa edizione americana riprende la
revisione, operata nel 1862 da Francis Bowen di Harvard, della traduzione inglese di Henry
Reeve apparsa per la prima volta a Londra nel 1835-1840 e riedita a New York nel 18381840.
38. J. Bryce, The American Commonwealth, cit.; M. Ostrogorski, Democracy and the
Organization of Political Parties, 2 voll., New York-Londra, Macmillan, 1902 (l’edizione originale, scritta in francese, fu pubblicata a Parigi l’anno successivo). Da quando questo saggio
è stato scritto, sono usciti due importanti lavori che non ho potuto utilizzare in queste pagine, e cioè: M. Ostrogorski, La democrazia e i partiti politici, a cura di G. Quagliariello,
Milano, Rusconi, 1992 (trad. it. di una versione ridotta dell’opera, del 1912, approntata
dallo stesso autore); e G. Quagliariello, La politica senza partiti. Ostrogorski e l’organizzazione
della politica fra ‘800 e ‘900, Bari, Laterza, 1993. Su quest’ultimo vedi la mia discussione, A.
Testi, La politica senza i partiti, in “Storica”, I, 1, 1995.
39. J. Bryce, prefazione a M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties,
cit., vol. I, p. xxxix.
40. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. I, p. liv.
41. A.S. Eisenstadt, Bryce’s America and Tocqueville’s, in A.S. Eisenstadt (a cura di), Reconsidering
Tocqueville’s Democracy in America, New Brunswick, Rutgers University Press, 1988, pp.
47
CAPITOLO
1
259, 267; R. Barker, X. Howard-Johnston, The Politics and Political Ideas of Moisei Ostrogorski,
in “Political Studies”, XXIII, 4, 1975, p. 422.
42. J. Bryce, prefazione a M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties,
cit., vol. I, p. xxxix; J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. I, p. 8.
43. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. I, pp. liv-lv.
44. M. Ostrogorski, Democracy and the Party System in the United States: A Study of ExtraConstitutional Government, New York, MacMillan, 1910; A.S. Eisenstadt, Bryce’s America
and Tocqueville’s, cit., p. 271.
45. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 658671, 690-691; J. Bryce, prefazione a M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of
Political Parties, cit., vol. I, pp. xxxix-xlvii.
46. A.S. Eisenstadt, Bryce’s America and Tocqueville’s, cit., p. 229; D.C. Hammack, Elite
Perceptions of Power in the Cities of the United States, 1880-1900: The Evidence of James Bryce,
Moisei Ostrogorski, and their American Informants, in “Journal of Urban History”, IV, agosto
1978, p. 367. Vedi S. Low, An American View of Municipal Government in the United States,
e F. Goodnow, The Tweed Ring in New York City, rispettivamente cap. LII (vol. II) e cap.
LXXXVIII (vol. III) di J. Bryce, The American Commonwealth, cit..
47. Secondo D.C. Hammack, Elite Perceptions of Power, cit., p. 382, “Ostrogorski condivise
con Bryce molte idee e molti informatori”.
48. Vedi T. Roosevelt, Essays on Practical Politics, New York, Putnam, 1888; T. Roosevelt,
American Ideals and Other Essays, Social and Political, New York, MacMillan, 1897; J. Bryce,
The American Commonwealth, cit., vol. II, p. 461; M. Ostrogorski, Democracy and the
Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 428, 197.
49. J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, pp. 398, 440, 398-399, 442-443 n.
2, 419-449.
50. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 371,
422-423.
51. E’ questo il titolo di un capitolo di J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, p.
403. Una variazione sul tema è quella formulata nel titolo di un altro capitolo, Why Great
Men Are Not Chosen Presidents (vol. I, p. 100). Nell’edizione del 1910 Bryce cambiò un
passaggio del testo, specificando come non accadesse “spesso” che i grandi uomini fossero
scelti come presidenti; lasciava qualche possibilità, evidentemente, all’amico Roosevelt che
aveva da poco concluso il suo mandato. Vedi S. Hess, “Why Great Men Are Not Chosen
Presidents”: Lord Bryce Revisited, in A.J. Reichley (a cura di), Elections American Style,
Washington (D.C.), Brookings Institution, 1987, p. 77.
52. Vedi J.G. Sproat, “The Best Men”, cit.
53. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 560,
591, 40-44, 56, 76, 46, 70; J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, p. 405.
54. J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. I, pp. 109-110; vol. II, pp. 606-616; M.
Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 623-624. La
contrapposizione in questa chiave fra i primi presidenti e quelli successivi è ricorrente nella
pubblicistica americana, soprattutto conservatrice. Secondo A.T. Hadley, Undercurrents in
American Politics, cit., pp. 111-112, “I sette occupanti della Casa Bianca che precedettero
48
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
Van Buren erano uomini di distinzione. I sette che lo seguirono, no”. Lo storico Edward
Pessen ha messo in discussione l’idea (implicita nelle discussioni di Bryce, e divenuta un
articolo di fede dell’ideologia americana) che i presidenti americani, nel loro complesso,
provenissero da una condizione sociale “umile o modesta”; la conclusione del suo studio è
che “gran parte dei presidenti erano nati in famiglie al vertice o vicino al vertice dell’ordine
sociale ed economico americano”. Vedi E. Pessen, The Log Cabin Myth: The Social Backgrounds
of the Presidents, New Haven, Yale University Press, 1984, pp. 7, 170.
55. Per un’analisi del passaggio della gestione del patronage system dal vecchio al nuovo regime, vedi A. Bridges, A City in the Republic: Antebellum New York and the Origins of Machine
Politics, New York, Cambridge University Press, 1984.
56. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, p. 454.
57. J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, p. 347; M. Ostrogorski, Democracy
and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 615-616.
58. M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties, cit., vol. II, pp. 107,
110; J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, pp. 401-402.
59. A. de Tocqueville, Democracy in America, cit., vol. I, p. 223.
60. W. Sombart, Perchè negli Stati Uniti non c’è il socialismo? [1906], Milano, Etas, 1975, p.
32; R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna [1911], Bologna, Il
Mulino, 1966, pp. 149, 222, 263, 272, 482; G. Mosca, Elementi di scienza politica [1923], in
G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, Torino, Utet, 1982, p. 997
61. W. Sombart, Perchè negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, cit., p. 32. Vedi A.S. Eisenstadt,
Bryce’s America and Tocqueville’s, cit., p. 238; S.M. Lipset, Introduzione a M. Ostrogorski,
Democracy and the Organization of Political Parties, 2 voll., ed. rid. a cura di S.M. Lipset, New
Brunswick, Rutgers University Press, 1964, vol. I, p. vii.
62. W. Sombart, Perchè negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, cit., p. 52; A. de Tocqueville,
Democracy in America, cit., vol. I, p. 226; M. Duverger, Political Parties [1951], New York,
Wiley, 1961, pp. 21-22, 217-220; M. Duverger, Organizzazione partitica, classe sociale e
ideologia (1953-1954), in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Bologna, Il
Mulino, 1979, pp. 208, 214; G. Sartori, La democrazia americana di ieri e di oggi, in F. RossiLandi (a cura di), Il pensiero americano contemporaneo, Milano, Comunità, 1958, p. 342.
Anche molti scienziati politici americani del dopoguerra concordavano che i partiti erano
“l’istituzione più arcaica degli Stati Uniti”; vedi il rapporto del Committee on Political Parties
della American Political Science Association, Toward a More Responsible Two-Party System, in
“American Political Science Review”, XLIV, settembre 1950, supplemento, p. 25.
63. Weber rinvia al saggio di Ostrogorski in M. Weber, La politica come professione [1919], in
M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1980, p. 85; M. Weber,
Economia e società [1922], 4 voll., Milano, Comunità, 1968, vol. II, p. 717. La sua influenza
è discussa da S.M. Lipset, Introduzione a M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of
Political Parties, cit., vol. II, pp. xii-xiii; G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale,
Bologna, Il Mulino, 1971, p. 245. Weber non cita Bryce nei testi, ma ne discute nella corrispondenza con Roberto Michels; fra l’altro, gli consiglia di leggere l’edizione integrale di The
American Commonwealth, e di non fermarsi a quella ridotta del 1907. L’analisi di questa
corrispondenza ha spinto Lawrence Scaff a sostenere che l’influenza di Bryce sul pensiero di
Weber fu “primaria”, molto più importante di quella di Ostrogorski (che “non è mai citato”).
49
CAPITOLO
1
Vedi L.A. Scaff, Max Weber and Robert Michels, in “American Journal of Sociology”, LXXXVI,
6, 1981, p. 1279.
64. M. Weber, La politica come professione, cit., pp. 82-84.
65. M. Weber, La politica come professione, cit., pp. 90, 83-84, 98-99; M. Weber, Parlamento
e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Per la critica della burocrazia e del sistema dei
partiti [1918], Torino, Einaudi, 1982; M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of
Political Parties, cit., vol. II, p. 524.
66. M. Weber, La politica come professione, cit., pp. 92-94; M. Weber, Economia e società, cit.,
vol. IV, p. 507.
67. M. Weber, Economia e società, cit., vol.II, pp. 709-710; M. Weber, Parlamento e governo,
cit., pp. 87-88. Vedi K. Lenk, F. Neumann (a cura di), Theorie und Soziologie der politischen
Parteien, Darmstadt, Luchterhand, 1968.
68. R.D. Marcus, Grand Old Party: Political Structure in the Gilded Age, 1880-1896, New
York, Oxford University Press, 1971, p. 15.
69. T. Roosevelt, An Autobiography, New York, MacMillan, 1913, pp. 302, 63.
70. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 63, 71, 166, 304-305, 94, 165.
71. L. Steffens, The Autobiography of Lincoln Steffens, New York, Harcourt Brace & World,
1931, pp. 312, 394, 618, 622; L. Steffens, The Shame of the Cities [1904], New York, Sagamore
Press, 1957, pp.17, 5-7.
72. W.L. Riordon, Plunkitt di Tammany Hall [1905], Pisa, ETS, 1991, a cura di A. Testi, pp.
98, 55, 127, 70, 121. Sulla politica del partito democratico a base urbana di quegli anni, vedi
J.J. Huthmacher, Senator Robert F. Wagner and the Rise of Urban Liberalism, New York,
Atheneum, 1971; J.D. Buenker, Urban Liberalism and Progressive Reform, New York, Scribner,
1973; R.F. Wesser, A Response to Progressivism: The Democratic Party and New York Politics,
1902-1918, New York, New York University Press, 1986; D. Sarasohn, The Party of Reform:
Democrats in the Progressive Era, Jackson, University Press of Mississippi, 1989.
73. Vedi T.J. McDonald, The Problem of the Political in Recent Urban History: Liberal Pluralism
and the Rise of Functionalism, in “Social History”, X, ottobre 1985, p. 335. I riferimenti sono
a R. Merton, Teoria e struttura sociale [1949], Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 188-221; O.
Handlin, Gli sradicati [1951], Milano, Comunità, 1958; R. Hofstadter, L’età delle riforme
[1955], Bologna, Il Mulino, 1960.
74. J.C. Teaford, Finis for Tweed and Steffens: Rewriting the History of Urban Rule, “Reviews
in American History”, X, dicembre 1982, p. 135. Vedi E. O’Connor, The Last Hurrah ,
Boston, Little, Brown & Co., 1956; A. Schlesinger, Jr., Introduzione a A. Schlesinger, Jr. (a
cura), The Best and the Last of Edwin O’Connor, Boston, Atlantic Monthly Press, 1970, pp.
11-16.
75. J. Bryce, The American Commonwealth, cit., vol. II, p. 459; T. Roosevelt, An Autobiography,
cit., pp. 304-305, 166; M. Ostrogorski, Democracy and the Organization of Political Parties,
cit., vol. II, p. 428.
76. Così afferma lo storico R.P. Formisano, The Birth of Mass Political Parties: Michigan,
1827-1861, Princeton, Princeton University Press, 1971, p. 12, citando con approvazione
da P.E. Converse, The Nature of Belief Systems in Mass Publics, in D.E. Apter (a cura di),Ideology
and Discontent, Glencoe, Free Press, 1964, p. 245, che a sua volta era ispirato dall’influente
50
QUESTI PARTITI SELVAGGI E VORACI
studio di P.E. Converse, A. Campbell, W.E. Miller, D.E. Stokes, The American Voter, New
York, Wiley, 1960.
77. J.H. Silbey, The Partisan Imperative: The Dynamics of American Politics Before the Civil
War, New York, Oxford University Press, 1985, p. xv; J.H. Silbey, The American Political
Nation, 1838-1893, Palo Alto, Stanford University Press, 1991.
78. A.J. Reichley, The Life of the Parties: A History of American Political Parties, New York,
Free Press, 1992, p. 432.
51
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
1. Partiti deboli, partiti forti
Il declino dell’influenza dei partiti politici negli Stati Uniti, fra la fine
dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento, nel periodo che è comunemente conosciuto come l’età progressista, è stato oggetto di molte indagini.
I sintomi sono noti, e possono essere riassunti per grandi linee. Dal punto di
vista della capacità dei partiti di influenzare e orientare gli elettori, questi
sintomi sono particolarmente evidenti e quantificabili. Dopo il 1896 si formò un elettorato più sensibile alla personalità dei candidati piuttosto che
all’etichetta di partito, un elettorato disposto a distribuire le preferenze a
candidati di partiti diversi per cariche diverse, rompendo la regolarità del
voto secco di lista. L’indice nazionale di ticket splitting (la differenza, per
ogni elezione, fra la percentuale più alta e quella più bassa di voti ottenuta
dai diversi candidati di uno stesso partito) passò dall’uno o due per cento
del periodo 1876-1894 alla punta del 6% del 1904. Il 1904 vide anche la
prima manifestazione di quel tipico fenomeno novecentesco che sono le
landslides, le vittorie a valanga con ampio margine di voti di un candidato
prestigioso dalla forte personalità, senza che a ciò corrisponda un effetto
trainante per tutto il partito. Alle elezioni presidenziali di quell’anno Theodore
Roosevelt vinse con un distacco di quasi 19 punti percentuali sull’antagonista democratico, ottenendo il 56,4% dei voti contro il 37,6 di Alton B.
Parker. Dopo il 1896 emerse inoltre una tendenza nell’elettorato a esprimersi
solo per i candidati alle cariche di prestigio in testa alla lista, trascurando
quelli a cariche meno importanti collocati in coda. Ci fu anche una
accentuazione del calo di partecipazione alle elezioni di medio termine, o a
quelle locali, rispetto alle presidenziali: l’indice nazionale medio di drop-off
(la differenza di partecipazione fra le elezioni presidenziali e quelle congressuali
di medio termine) salì da un modesto 7% nel periodo 1848-1874 al 15,2%
nel periodo 1876-1898 al 22,4% nel periodo 1900-1918. Tutto ciò indicava un allargamento dell’area degli elettori marginali, che ritenevano di dover votare solo nelle occasioni importanti, o per le cariche importanti. Ci fu
infine una vera e propria marginalizzazione di intere fette dell’elettorato
spinte verso il nonvoto tout court. I tassi medi di affluenza alle urne alle
53
CAPITOLO
2
elezioni presidenziali fra il periodo 1876-1896 e il periodo 1900-1916 scesero dal 78,5% al 64,8%. La caduta verticale fu repentina: 79,3 nel 1896;
73,2 nel 1900; 65,2 nel 1904. Si era dunque formato un elettorato più
indipendente e meno fedele ai partiti, più instabile e volatile, più ristretto1.
In quanto macchine organizzative, i partiti persero numerosi strumenti
di controllo sul proprio destino. Le riforme della pubblica amministrazione, iniziate a livello federale negli anni ottanta dell’Ottocento e poi estesesi
negli stati e nelle municipalità, prosciugarono importanti risorse di finanziamento derivanti dalla pratica dello spoils system. Il Pendleton Civil Service
Reform Act del 1883 sottrasse al sistema del clientelismo politico gli impiegati esecutivi dell’amministrazione centrale di Washington, e i funzionari
dei più importanti uffici postali e doganali decentrati. Questi ultimi, soprattutto, avevano costituito di fatto l’apparato nazionale del partito del
presidente in carica, che li nominava a propria discrezione. Per quanto la
legge lasciasse largo spazio alle manipolazioni dell’esecutivo, dal 1900 il 46%
dei 208.000 dipendenti federali era coperto dal sistema di merito. Il Pendleton
Act proibì inoltre l’imposizione ai dipendenti federali di contributi obbligatori ai partiti. In secondo luogo, i partiti persero il monopolio sulla diffusione dell’informazione politica, con la crisi della stampa di partito così rigogliosa nell’Ottocento, ormai soppiantata dalla esplosione e dalla fortuna
commerciale della stampa indipendente. Nel 1930 solo un terzo dei quotidiani americani si considerava legato a un partito, esattamente l’opposto di
40 anni prima; e si trattava ormai, per lo più, di giornali di provincia. Infine, con l’introduzione a tappeto delle elezioni primarie dirette, i partiti furono privati persino dell’autorità di scegliere le candidature in alcuni settori
strategici del sistema politico. Fra il 1903 e il 1917 questo sistema fu adottato quasi ovunque per le competizioni statali e locali, e cominciò ad affacciarsi alle elezioni presidenziali. Anche una funzione importante come la
selezione del personale politico sembrò passare dalle «stanze piene di fumo»
dei dirigenti di partito a una serie di minicampagne elettorali che erano
almeno in teoria aperte ai desideri degli elettori, che erano sicuramente
personalizzate intorno alle figure dei pretendenti2.
Il rapporto fra i partiti e il governo pone problemi più complessi. Alcuni dati sono abbastanza chiari nell’indicare, dopo il 1900, l’inizio di una
tendenza di lungo periodo all’indebolimento della forza disciplinante dei
partiti nel comportamento dei parlamentari, sia nelle assemblee legislative
federali che in quelle statali. L’emergere anche qui del voto indipendente fu
tra l’altro facilitato da riforme istituzionali (l’elezione diretta dei senatori
54
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
degli Stati Uniti, dopo l’emendamento costituzionale del 1913; la riduzione
del potere dello speaker della Camera dei rappresentanti nell’organizzazione
dei lavori e nelle nomine alle commissioni) che misero in discussione alcuni
consolidati sistemi di controllo. Va comunque sottolineato che l’appartenenza di partito continuò a essere, come lo era stato nell’Ottocento, il criterio determinante per spiegare le divisioni del voto sulle misure legislative3.
Ma in quegli anni di inizio secolo la qualità delle trasformazioni dei processi
decisionali fu più profonda, e con un impatto maggiore, di quanto sembrino implicare questi dati. Vi fu, da una parte, uno spostamento di autorità
dalle assemblee legislative, luogo privilegiato dell’influenza della politica di
partito, agli organi esecutivi a elezione diretta (cesaristici e plebiscitari, avrebbe
detto Max Weber) e a quelli amministrativi supposti neutrali. Parallelamente, le scelte di governo cessarono di rispettare i criteri ottocenteschi di distribuzione orizzontale a pioggia di risorse, che aveva alimentato la politica
localistica e clientelare dei partiti e dato senso alla loro mobilitazione dell’elettorato. La politica di divisione della torta o meglio del pork barrel, del
barile di carne di maiale (si sta parlando qui di appetiti e stomaci robusti),
stava tramontando. Le politiche governative acquistarono invece un carattere amministrativo e di regolamentazione verticale e centralizzata di interessi
organizzati. I nuovi enti amministrativi, le burocrazie federali e statali, le
commissioni di regolamentazione, gestione e controllo, i funzionari dei nuovi
ministeri dell’agricoltura, del commercio e del lavoro, erano programmaticamente sottratti, in nome della competenza e della neutralità, alle influenze
dirette della politica elettorale e partitica e delle istituzioni rappresentative.
Erano invece accessibili alla pressione pluralista degli interessi di gruppo
organizzati (del mondo degli affari, delle professioni e del lavoro), un tipo di
influenza che premiava organizzanizzazioni specializzate e gruppi sociali ed
economici forti4.
Cambiò infine il rapporto dei principali partiti fra loro, cambiarono
cioè le condizioni della competizione fra i partiti. Per gran parte dell’Ottocento, i protagonisti del sistema bipartitico si erano battuti a livello locale e
nazionale su un piano di sostanziale parità, in campagne dall’esito incerto e
decise spesso da un pugno di voti. Gli anni novanta e in particolare le elezioni presidenziali del 1896, combattute fra il democratico William Jennings
Bryan e il repubblicano William McKinley e vinte da quest’ultimo, segnarono una svolta importante da questo punto di vista. Si verificò allora una
delle periodiche svolte sistemiche nell’universo politico americano, un universo caratterizzato dalla successione ritmata di sistemi di partito differen55
CAPITOLO
2
ziati, separati da elezioni «critiche» o di «riallineamento» che comportano
radicali cambiamenti nella dislocazione partitica di gruppi sociali, etnici e
regionali, così come nelle caratteristiche della politica governativa. Da quel
convulso periodo emerse una nuova mappa politica del paese, il cosiddetto
«sistema del 1896». Il partito repubblicano, rifondato da McKinley e dal
suo consigliere e campaign manager Mark Hanna, confermò per un altro
quarantennio il controllo della politica presidenziale che già aveva esercitato
dalla guerra civile in poi; ma questo controllo divenne più saldo, garantito
da maggioranze elettorali nazionali più ampie e sicure. La parentesi democratica di Woodrow Wilson fu il prodotto di condizioni eccezionali, e cioè
della scissione repubblicana nel 1912 (che portò alla doppia candidatura
presidenziale del repubblicano regolare William Howard Taft e del repubblicano progressista Theodore Roosevelt), e del clima di emergenza bellica
nel 1916. I repubblicani godettero inoltre della maggioranza in entrambi i
rami del Congresso fra il 1896 e il 1908 e poi ancora fra il 1920 e il 1928. La
nuova egemonia dei repubblicani si fondava su una forte regionalizzazione
del voto, sul loro predominio incontrastato in gran parte del Nord e sulla
riduzione dei democratici a padroni assoluti ma emarginati del solid South
bianco e segregato. Tutto ciò permise ai repubblicani di controllare completamente per lunghi periodi il governo federale e di tradurre in misure legislative il loro programma. Gli elettori, tuttavia, si trovarono a vivere in realtà locali poco stimolanti, praticamente a partito unico, nelle quali non avevano una vera possibilità di scelta fra alternative politiche realistiche, e furono spinti all’apatìa. Gli stessi partiti non avevano incentivi a svilupparsi
organizzativamente e ad attivare la partecipazione, come era accaduto nei
sistemi precedenti altamente competitivi5.
Una delle interpretazioni prevalenti di questa trasformazione usa il linguaggio della «modernizzazione». Storici influenti come Samuel P. Hays e
Robert Wiebe hanno descritto la crisi del sistema politico, sociale ed economico dell’Ottocento, un sistema frammentato e disperso, pullulante di interessi diffusi, di gruppi di piccole dimensioni con una prospettiva locale e
regionale, chiusi nelle proprie comunità isolate. Hanno descritto l’emergere
e l’affermarsi nel Novecento di una «moderna» e integrata società nazionale,
fondata su interessi forti e istituzioni di grandi dimensioni, gerarchiche e
burocratizzate. Hanno descritto insomma due mondi in drammatico contrasto. La nazionalizzazione della vita pubblica operata da nuove potenti
agenzie come la presidenza imperiale, l’amministrazione federale, le grandi
imprese industriali e le grandi società finanziarie, i sindacati e le associazioni
56
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
del ceto medio professionale e impiegatizio, e caratterizzata da esigenze di
efficienza, rapidità nelle decisioni, ampiezza di prospettive (ormai internazionali), entrò in conflitto con la struttura della politica di partito. La politica di partito restava abbarbicata attorno alle autonomie del sistema
decentrato, era impermeabile alle domande di uno sviluppo economico,
politico e sociale che usciva ormai dai suoi ristretti orizzonti operativi; era
costretta a difendere con la corruzione la sua base clientelare, contro la razionalità manageriale e burocratica; era antimoderna e localistica e plebea
nel linguaggio, nel costume e nelle cattive frequentazioni. In questo contesto, sembrava inevitabile che lo scontro fosse perdente per i «vecchi» partiti,
che furono sostituiti nella direzione della cosa pubblica da un esecutivo forte e dalla democrazia pluralista dei gruppi di pressione, e nella funzione di
legittimazione dell’autorità dalla democrazia plebiscitaria. Sembrava inevitabile che la fedeltà di partito si disgregasse nell’impatto con una società
metropolitana che indeboliva le agenzie di trasmissione della cultura di partito come la famiglia, la chiesa e la comunità, e le sostituiva con culture
professionali, giovanili, consumistiche che erano culture di «pari» senza
memoria storica6. Nella logica di questa interpretazione, anche il declino
dell’affluenza alle urne era una conseguenza non allarmante, sebbene non
voluta, di riforme che avevano messo ordine nel sistema politico; il nonvoto
poteva essere considerato come un riflesso della stabilità sociale e addirittura
come un segno di «politica della felicità»7.
Questa interpretazione ha molti meriti. Sottolinea con efficacia la difficoltà dei partiti ottocenteschi a governare l’economia nazionale del big business
e delle grandi imprese multinazionali, che si formò negli anni compresi fra
la depressione degli anni novanta e la prima guerra mondiale. Sottolinea la
loro difficoltà a dare rappresentanza politica alla nuova organizzazione degli
interessi emersa in quegli anni, e ad affrontare in maniera creativa il mutamento di scala (da locale a nazionale) nelle dimensioni della politica. Sottolinea la loro difficoltà a fare i conti con i problemi della società di massa
novecentesca; «un giovane all’inizio del secolo», ha scritto lo storico Thomas
Cochran, «imparava più rapidamente a desiderare di possedere una [automobile] Packard che di partecipare in modo intelligente alla vita politica
locale»8. L’interpretazione legata alle teorie della modernizzazione ha tuttavia oscurato almeno due questioni cruciali, fra loro strettamente intrecciate.
Gli studiosi che si sono impegnati in questo lavoro intellettuale hanno adottato il punto di vista e il linguaggio di alcuni dei protagonisti del dibattito
politico di inizio Novececento, di coloro che si autodefinivano allora come
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CAPITOLO
2
modernizzatori, come riformatori progressisti, e talvolta come riformatori
antipartito; hanno sposato nella sostanza, con una forma di presentismo
raramente esplicitata, le buone ragioni di una delle parti in causa9. Hanno
così proposto, in primo luogo, la visione di una società americana contemporanea controllata dallo sviluppo di forze impersonali, dalla logica ferrea e
in qualche misura teleologica dell’organizzazione, della tecnologia, dell’integrazione e del cosmopolitismo; hanno quindi sciolto in questo processo,
descritto come lineare e necessario, l’evidenza stessa dei conflitti sociali e
politici, aspri e dagli esiti continuamente incerti, che lo hanno segnato. Hanno
insomma reso questi conflitti invisibili. In secondo luogo, hanno riconfermato
nella cultura storico-politica americana, ma non solo americana, l’immagine dei partiti ottocenteschi come strutture arcaiche e corrotte, l’antitesi di
una positiva e desiderabile modernità.
In questo capitolo, intendo portare in primo piano alcuni di questi
conflitti, quelli combattuti nell’età progressista alla base del sistema politico
federale, e cioè negli stati e nelle città, dove risiedevano molti poteri decisionali e molte competenze a legiferare, e dove più immediata e diretta era
l’interazione fra istitutioni della vita pubblica e comunità. Intendo inoltre
riconsiderare criticamente le caratteristiche sociali e organizzative dei partiti
nell’Ottocento. Affrontare insieme queste due questioni è essenziale per comprendere di quale tipo di crisi i partiti fossero protagonisti intorno al volgere
del secolo, e per mettere a fuoco il fatto che quella crisi fu anche il prodotto
di una ridiscussione radicale, non indolore e non scontata, su quali interessi
potessero essere legittimamente rappresentati e quali no nella società politica nazionale, e su quale tipo di partiti avesse diritto di cittadinanza - e quale
no. La mia conclusione è che a sfaldarsi furono le organizzazioni partitiche
ottocentesche, che erano organizzazioni popolari con un forte radicamento
nelle comunità, con strutture diffuse, con una salda cultura dell’appartenenza partitica, e che erano capaci di dare voce a gruppi sociali diversi, non
solo d’élite. Nel Novecento i partiti non cessarono di strutturare l’universo
politico. Erano tuttavia diventati macchine verticali e centralizzate, per alcuni versi più forti di prima, sicuramente legate a interessi sociali ed economici più forti ed elitari; per altri versi, erano alberi senza radici, e l’universo
politico al quale facevano riferimento si era impoverito in estensione e in
capacità di produrre alternative politiche. Non di declino dei partiti tout
court si trattò, dunque, bensì di declino dei partiti di massa. E’ soprattutto
in questo senso, credo, che si può leggere con profitto la vasta letteratura
storica e politologica sull’indebolimento progressivo del ruolo dei partiti
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
negli Stati Uniti dopo il 1900, sul passaggio da una struttura di governo
(ottocentesca) a partiti «forti» a una (novecentesca) a partiti «deboli», sull’inizio (intorno al volgere di secolo) di un’«era postpartitica» nella storia
americana10. Credo infine che il quadro generale entro il quale si collocano
queste trasformazioni sia meno ottimistico di quello proposto dagli storici
della modernizzazione.
2. I partiti nell’Ottocento: il sale della nazione
La questione della natura dei partiti americani dell’Ottocento è particolarmente delicata, in quanto costringe a fare i conti con una tradizione
intellettuale transatlantica che ha prodotto solidi schemi interpretativi,
dicotomie e radicati stereotipi. Già l’ipotesi che i partiti politici fossero un’istituzione importante negli Stati Uniti del secolo scorso, che anzi accupassero
completamente la vita pubblica, che vi fossero «accampati» come un «esercito permanente» (secondo il vivido linguaggio usato nel 1927 dagli storici
Charles e Mary Beard), sembra fare a pugni con un senso comune
storiografico, europeo ma anche americano, che preferisce sottolineare l’eccezionale autonomia della società americana rispetto alla sfera della politica.
La fonte più autorevole ma non l’unica di questa idea è senza dubbio nelle
pagine di Alexis de Tocqueville in De la Démocratie en Amérique, laddove
l’aristocratico francese celebra la vitalità del libero associazionismo, l’assenza
dello stato (questa macchina invisibile), la debolezza e l’inconsistenza dei
partiti, il trionfo dello spirito individualista in una società che governa se
stessa. In realtà, per gran parte del diciannovesimo secolo, questa società fu
governata dai partiti, che controllarono in maniera coerente tutti i livelli di
governo, da quello federale a quello statale e locale, e tutti i rami della divisione costituzionale del potere, dal potere esecutivo a quello legislativo e
persino a quello giudiziario; si trattò in effetti di una vera età dell’oro del
governo di partito. Inoltre, come è stato osservato da uno storico della politica ottocentesca, «malgrado i frequenti peana in lode dell’individualismo
americano, un comportamento collettivo, organizzato, definito e plasmato
dallo spirito di parte divenne la norma nel mondo della politica»11. E’ dunque quella tocquevilliana un’immagine fuorviante? Penso di sì. Richard
Hofstadter ha sottolineato come Tocqueville, pur visitando gli Stati Uniti
all’alba degli anni trenta, in piena età jacksoniana, proprio mentre si stavano
sviluppando le prime organizzazioni partitiche di massa fondate sul suffragio universale maschile, e pure accettando egli la forma partito come inevi59
CAPITOLO
2
tabile o meglio come un male necessario nel nuovo ordine democratico,
non riuscisse a valutare pienamente la portata di quelle novità12.
Un’altra difficoltà è costituita dalla consolidata immagine weberiana
dei partiti negli Stati Uniti come partiti senza principi, clientelari, dominati
da boss senza scrupoli, che prendono vita solo in occasione delle elezioni e
che hanno come unico scopo la vittoria elettorale. Secondo Max Weber, il
partito americano rappresenta la forma radicale del Patronagepartei, contrapposto al tipo del partito ideologico, organizzato, di massa, fondato su
una intuizione del mondo che è il Weltanschauungpartei così diffuso nei
paesi europei. Anche questa immagine - derivata, come si è visto nel capitolo precedente, dai critici americani della politica di partito nella Gilded Age
- e questa contrapposizione fra Europa e America sono entrate nel discorso
storico convenzionale. Ciò ha avuto alcuni importanti effetti negativi. Ha
contribuito, per esempio, a lasciare in ombra molte caratteristiche essenziali
delle organizzazioni partitiche ottocentesche, e delle loro successive trasformazioni storiche. Ha inoltre confermato, talvolta con argomentazioni che
assomigliano ad acrobazie tautologiche, la radicata convinzione della eccezionalità dell’esperienza storica degli Stati Uniti, ostacolando la costruzione
intellettuale di tipologie utili per un’analisi comparata fra sistemi nazionali
diversi13. I risultati di molte recenti ricerche di storia sociale e politica sulla
vita pubblica americana nel secolo scorso consentono di correggere quell’immagine, e forse di ribaltarla. L’idealtipo del Patronagepartei è in effetti
inadeguato per descrivere i partiti americani dell’Ottocento, che erano creature ben più ricche e complesse di fredde macchine senz’anima, di apparati
clientelari ed elettoralistici, di piccoli organizzazioni litigiose e intriganti.
Quei partiti strutturarono non solo la vita pubblica del paese, ma anche la
vita privata degli individui; avevano dimensioni organizzative popolari e di
massa, e visioni del mondo capaci di fornire identità forti a seguaci ed elettori e di suggerire linee programmatiche precise ai governanti. Non erano
molto dissimili, in questo, dai partiti europei di un’epoca successiva.
I partiti americani ottocenteschi erano tutt’altro che senza principi e
senza programmi. Essi furono protagonisti di drammatiche quando non
sanguinose battaglie ideologiche nazionali, che implicavano principi e programmi contrapposti e in competizione fra loro. E i risultati di quelle battaglie condizionarono la direzione della crescita del paese. Per limitarsi alla
seconda metà del secolo, non è necessario dilungarsi troppo nel mettere in
evidenza come le due visioni contrapposte della buona società (non
negoziabili? comunque non negoziate) che si formarono compiutamente
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
negli anni cinquanta dell’Ottocento14 portassero a una feroce guerra civile,
che fu guerra fra sezioni regionali, guerra fra formazioni economiche e culture ideali e anche guerra fra partiti. Da quel conflitto i partiti repubblicano
e democratico emersero a formare il «sistema della guerra civile» che avrebbe plasmato la vita politica nazionale per una generazione. E’ opportuno
ricordare l’importanza che ebbero, nel precipitare la crisi, i drastici mutamenti nella rappresentanza politica e l’incapacità del sistema democratico di
assorbirne l’impatto. Fu la nascita e l’affermazione dei repubblicani come
aggressivo partito regionale a dare al Nord una bandiera e una parola d’ordine («Free soil, free labor, free men») e allo scontro politico un tono ideologico e militante. E fu la presenza simmetrica, nel Sud, di una forte organizzazione del partito democratico a fornire l’unico veicolo possibile attraverso il
quale la secessione era concepibile per l’élite bianca meridionale15. I partiti
inoltre organizzarono in prima persona la guerra. I Southern Democrats
fornirono l’intera classe dirigente della Confederazione, compreso il suo presidente Jefferson Davis, e dopo la tempesta rientrarono nel partito democratico nazionale. Ancora simmetricamente, fu l’intreccio inestricabile fra
l’organizzazione dell’esercito nordista, l’apparato statuale dell’emergenza
bellica, e la macchina repubblicana, a plasmare l’egemonia politico-ideologica del Grand Old Party nei decenni successivi. Durante la guerra, gli ufficiali nordisti repubblicani controllarono il voto delle truppe; i politici repubblicani gestirono l’espansione del pubblico impiego federale (che passò
dai 40.000 dipendenti del 1861 ai 200.000 del 1865, una vera festa per un
partito appena nato). Dopo la guerra, le associazioni degli ex combattenti
divennero le più importanti strutture fiancheggiatrici del partito, blandite
con riconoscimenti retorici e pensioni di guerra16.
Nelle elezioni presidenziali del 1896 i repubblicani di William McKinley
e i democratici di William Jennings Bryan affrontarono un’altra battaglia
periodizzante. Sulle questioni centrali sul tappeto (le cause di una severa
depressione economica e i rimedi per uscirne, ma anche la natura del modello di sviluppo futuro) ciascun partito aveva da proporre sia un programma elettorale che una visione del mondo. Il programma repubblicano alludeva al progetto di un’America capitalistica potente, costruita sull’armonia
degli interessi corporativi nel settore industriale (cementati dal protezionismo), che non temeva la concentrazione economica e finanziaria e la capacità propulsiva di un forte governo federale, che si proiettava all’esterno in
cerca di espansionismo e imperialismo. Dopo la vittoria elettorale di
McKinley, questa divenne la visione che guidò lo sviluppo nazionale all’ini61
CAPITOLO
2
zio del ventesimo secolo. Il programma democratico immaginava un’America a scala più ridotta, fondata sui piccoli produttori, sugli agricoltori indipendenti e sui lavoratori, avversa ai trust e diffidente verso un potere politico nazionale centralizzato. Ciascun partito rappresentava una delle posizioni polari in una società polarizzata, il centro urbano-industriale dei repubblicani contro la periferia rurale dei democratici. Per ciascuno di questi gruppi
contrapposti, ha scritto lo storico James Sundquist, «il proprio partito incarnava la ragione e la virtù e l’altro rappresentava l’immoralità e l’errore
intellettuale. Il partito divenne, di nuovo, simile a una chiesa - una chiesa
militante, da crociata, ai santi propositi della quale il vero credente doveva
concedere niente di meno della più completa devozione»17. La durezza dello
scontro, nel contesto della rivolta agraria e dei conflitti di classe nelle città
industriali, portò molti osservatori a temere l’inizio di una rivoluzione sociale, a evocare le ombre di Marat, Danton, Robespierre, della comune parigina. Il People’s Party, il partito agrario alleato dei democratici, era visto
come una forma minacciosa di socialismo che avanzava dagli stati del West.
Secondo alcuni, lo stesso partito democratrico era caduto nelle mani di anarchici, socialisti, comunisti, agitatori, giacobini. Nel caso di una sua vittoria,
il futuro presidente repubblicano Theodore Roosevelt prevedeva un «un
governo rosso di una illegalità e disonestà altrettanta fantastica e depravata
di quella della comune di Parigi»; Bryan gli ricordava uno dei «dirigenti del
Terrore in Francia». Pochi anni prima il giovane e bellicoso Roosevelt aveva
già evocato i fantasmi francesi, e aveva suggerito di risolvere il problema
della rivolta populista «prendendo dieci dei suoi capi, mettendoli contro il
muro e fucilandoli»18.
Le passioni organizzate di parte dunque non mancarono, accompagnate da spargimenti di sangue, in un caso veri e nell’altro solo promessi, minacciati, temuti. Eppure, nel trentennio che intercorse fra questi due eventi,
James Bryce credette di trovare, come già era accaduto a Tocqueville, partiti
che facevano molto rumore per nulla, che erano veri e propri morti viventi;
agli occhi di entrambi, i grandi partiti con grandi principi e quindi grandi
passioni appartenevano al passato, all’epoca rivoluzionaria per il primo, e
all’epoca della guerra civile per il secondo. Negli anni ottanta sembrava a
Bryce, ma anche a molti americani, che la vita pubblica fosse dominata più
dalla politica di apparato che dalle grandi questioni nazionali19. Il fatto è che
i conflitti nazionali non erano tutto in un regime federale fortemente
decentrato. Fino al volgere del secolo i luoghi decisivi nella formulazione
della public policy furono i governi statali, non il governo federale. Era agli
62
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
stati che spettavano le competenze legislative più estese, capaci di incidere
sulla vita della gente; competenze che furono esercitate senza timidezze. Al
di là della retorica del laissez faire, esisteva una vasta area di intervento pubblico nella vita della comunità, che lo stesso Bryce riconobbe con qualche
sorpresa. Il dogma che il governo migliore è quello che governa di meno,
scrisse, è totalmente «privo di fondamento» negli Stati Uniti. «Le nuove
democrazie d’America sono desiderose dell’interferenza statale tanto quanto la democrazia britannica», e spingono «l’azione di governo in campi sempre più ampi», magari in maniera sconsiderata, senza preoccuparsi troppo
della teoria economica che lo vieterebbe; a suo parere, alcuni stati si erano
spinti «ben oltre il parlamento britannico». Fu a questo livello del sistema
federale che i partiti si divisero e scontrarono su questioni culturali come il
proibizionismo, il finanziamento e il controllo delle scuole pubbliche e il
destino di quelle private, l’uso pubblico delle lingue straniere e la difesa delle
diversità etniche in una società multinazionale; oppure su questioni economiche (regolamentazione e controllo di monopoli e società per azioni, ferrovie e canali, telegrafi e assicurazioni, miniere e foreste, agricoltura e allevamento, prodotti farmaceutici e alimentari) e sociali (salute e assistenza pubblica, lavoro femminile e minorile, orari di lavoro) che furono oggetto di
una legislazione più ampia e complessa di quanto si pensi comunemente20.
Si trattava di questioni che affondavano le radici in interessi economici
e culture politiche, in valori comunitari, etnici e religiosi che erano largamente diffusi. Per quanto distinte, queste questioni non erano affatto contraddittorie con le cosiddette grandi questioni nazionali. Come ha osservato
lo storico Joel Silbey, gli americani costantemente stabilivano connessioni
fra le prospettive locali e i problemi comunitari, da una parte, e la loro
percezione delle questioni nazionali e del quadro nazionale del conflitto
politico dall’altra. In questi conflitti nazionali e locali i partiti intrecciarono
i principi ispiratori dei loro programmi (definiti da settori diversificati delle
classi dirigenti, e spesso, ma non sempre, pragmaticamente negoziabili) con
gli interessi e le aspirazioni di milioni di cittadini. Agli occhi del pubblico
essi assunsero la fisionomia di vere «chiese politiche», di simboli di «sistemi
di fedi politiche irreconciliabili»21. L’ideologia industrialista, nazionalizzante, centralista, espansiva e protezionista dei repubblicani raccoglieva il consenso di elettori delle classi medie e superiori e di importanti settori della
classe operaia nativa che appartenevano a gruppi etnico-religiosi yankee e
protestanti che sottolineavano valori come l’esperienza della conversione
personale, la responsabilità e il sacrificio individuale, la supervisione morale
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CAPITOLO
2
della vita privata, il duro lavoro. Quell’ideologia era inoltre coerente con il
loro moralismo riformatore e missionario, antischiavista per un verso,
proibizionista e aggressivamente americanizzatore per l’altro. In contrapposizione, furono soprattutto irlandensi cattolici, tedeschi luterani e battisti
meridionali, che appartenevano generalmente alle classi più popolari, e che
valutavano positivamente valori come l’esperienza religiosa collettiva e rituale in chiese established e la solidarietà e la sicurezza di gruppo, a mostrarsi
sensibili alla più difensiva retorica democratica. Una retorica che difendeva
i piccoli produttori e consumatori (basse tariffe doganali, poche tasse, politica monetaria inflazionistica a beneficio dei debitori, antimonopolismo,
più tardi legislazione sociale) e le diversità etniche e regionali contro i «crociati» che volevano legiferare sulle istituzioni e sui costumi altrui (le abitudini alcoliche o le scuole parrocchiali, ma anche la schiavitù)22.
Per tutta la seconda metà dell’Ottocento queste contrapposizioni infiammarono lo scontro di partito. All’ombra del predominio nazionale
repubblicano, scavarono fratture profonde e significative nella vita pubblica
degli stati e delle città. Furono questi sviluppi di lungo periodo che diedero
ai partiti democratico e repubblicano distinte identità politiche e culturali, e
sedimentarono forme di «confessionalismo politico» che immunizzavano
gli elettori dagli appelli del partito avverso e inducevano alla mobilitazione e
all’organizzazione collettiva23. Fin dagli anni trenta, dalla rivoluzione
organizzativa legata alla diffusione del suffragio universale maschile, i partiti
erano diventati le principali istituzioni di socializzazione ed educazione politica, radicate nelle pieghe della società, nelle famiglie e nelle chiese, nelle
associazioni sindacali e in quelle volontarie ed etniche, nei luoghi di ritrovo
e nelle feste di strada; dalla fine della guerra civile la loro presenza era
indiscutibile. Le fonti del tempo ne parlano come del «sale della nazione»,
«fratellanze politiche» dotate di una fede laica per la quale valesse la pena di
combattere l’intera vita e nella quale educare i figli. Il diritto di voto era
percepito anche come un dovere, il dovere di schierarsi, di votare per un
partito. La fedeltà di partito era un requisito morale che indicava devozione
ai principi piuttosto che a singoli individui, cioè ai notabili di un’epoca
precedente. Coloro che la rinnegavano erano traditori, ovvero, a seconda
del punto di vista, apostati o convertiti. Il linguaggio militare, rafforzato
dall’esperienza della guerra civile che si continuava a combattere in «campagne» e «battaglie» elettorali, si intrecciava a quello religioso ereditato dai
Revivals che avevano accompagnato la nascita dei partiti popolari nell’età
jacksoniana; il partito era una chiesa ma anche un esercito, e la politica di
64
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
partito poteva essere definita «l’equivalente morale della guerra»24. Questi
sentimenti erano esaltati dai dirigenti di partito, che cercarono di utilizzarli
come collante istituzionale, per rinsaldare l’identificazione dei cittadini-elettori. Erano anche condivisi dal grande pubblico, che partecipò alle competizioni con una altissima stabilità nelle preferenze partitiche e con alti tassi
di affluenza alle urne (che alle elezioni presidenziali oscillarono intorno
all’80% dal 1840 al 1896, con livelli più alti nel Nord del paese). Negli Stati
Uniti dell’Ottocento il comportamento elettorale era più simile a quello di
molti paesi d’Europa nel Novecento che che non a quello negli Stati Uniti
di oggi25.
In una società politica fondata sul suffragio universale maschile e sulla
elezione diretta di una miriade di cariche pubbliche, la dimensione elettorale era centrale nella vita di partito. Ne plasmò linguaggi, comportamenti, e
strutture. Dalle unità minime del seggio e del distretto di quartiere, o ward,
fino ai livelli delle municipalità e delle contee, e poi degli stati e infine al
livello nazionale, l’organizzazione dei partiti rispecchiava la geografia delle
circoscrizioni elettorali. A ogni livello, dagli anni trenta in poi, il principale
organo decisionale era costituito dalle assemblee congressuali periodiche,
dette conventions, che erano formate di delegati scelti dai membri del partito
e avevano l’autorità di nominare i candidati alle appropriate cariche pubbliche e di formulare i programmi. Le assemblee congressuali, inoltre, eleggevano il comitato centrale e il presidente del partito, che avevano il compito
di gestire quotidianamente l’organizzazione, di provvedere al finanziamento
e al patronage, di tenere i contatti con eletti, elettori, iscritti e simpatizzanti,
e di garantire la circolazione delle informazioni. Per tutto il secolo l’unità
organizzativa più importante e potente fu probabilmente quella statale, con
il suo State Central Committee e lo State Party Chairman, seguita a livello
locale da quella di contea (di nuovo, County Central Committee più County
Chairman). Solo alle scandenze presidenziali l’organizzazione nazionale prendeva per qualche tempo il sopravvento26. L’architettura di questa sofisticata
macchina era dunque pensata in funzione dei meccanismi elettorali, ed effettivamente era nelle campagne elettorali che dava il meglio di sé. Ciò tuttavia non significò che i partiti fossero solo macchine elettoralistiche, presenze episodiche nella sfera pubblica. Tutto il contrario: avevano acquistato
anche una dimensione organizzativa permanente, gestita da politici e attivisti di professione, che lavoravano a tempo pieno.
Proprio la logica delle competizioni elettorali fece dei partiti delle presenze stabili e integrate nella comunità. Le organizzazioni di partito doveva65
CAPITOLO
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no avere una conoscenza continua e capillare dell’elettorato; tenevano elenchi aggiornati degli elettori e delle loro preferenze. Intorno al volgere del
secolo, si riteneva che i repubblicani della Pennsylvania avessero schedato
più di 800.000 cittadini, ciascuno classificato come fedele, dubbioso, incerto, solito «to fumble in the booth», e così via. Allo stesso scopo, alla fine
degli anni ottanta, i repubblicani avevano 10.000 attivisti di circoscrizione
al lavoro nello stato dell’Indiana. Il lavoro elettorale coinvolgeva direttamente molti comuni cittadini; negli stati del Nord, negli anni settanta e
ottanta, probabilmente più di un quinto degli elettori ebbe un ruolo attivo
nell’organizzare le campagne elettorali presidenziali27. Le scadenze elettorali
erano occasioni ricorrenti di feste di partito (con parate, carri allegorici,
bande musicali, canti, striscioni, picnic, comizi volanti e discorsi di ore e
ore) che coinvolgevano le associazioni locali e, almeno nelle intenzioni, l’intera comunità; celebravano idee e identità di parte e cercavano di tradurle in
simboli e in senso di partecipazione collettiva28. E le scandenze elettorali
erano così fitte da unificarsi in una sorta di mobilitazione permanente. «Finiamo una campagna, facciamo un bagno, e cominciamo la prossima», constatò un attivista di partito. Gli osservatori stranieri erano stupefatti. Bryce
calcolò che, in una tipica città dell’Ohio, un elettore doveva mediamente
esprimersi su ventidue cariche pubbliche l’anno; e osservò che anche per
l’americano medio era difficile «tenere la testa a posto e orientarsi in questa
complicata girandola di cariche, elezioni, candidature e congressi di partito». All’inizio del Novecento Werner Sombart concluse che «un cittadino
coscienzioso potrebbe trascorrere una buona parte della sua vita votando»29.
A mantenere la continuità del dibattito e della presenza politica provvedevano due istituzioni fondamentali, la stampa e i club di partito. I club
avevano un ruolo strategico, in quanto costituivano i nuclei dell’organizzazione di massa. Erano luoghi di attività e di educazione politica permanenti,
ed erano spesso finanziati dalle quote annuali degli iscritti. Tenevano riunioni periodiche di lavoro (riguardanti, per esempio, la conduzione della
campagna elettorale, oppure l’elezione degli organi interni) e di discussione
(su avvenimenti o documenti politici). Offrivano inoltre spazi per la lettura,
per partite di scacchi e di backgammon, per incontri sociali e feste. Erano
strutturati secondo la logica delle circoscrizioni territoriali elettorali (per
esempio, i Republican Club e Democratic Club dei vari quartieri cittadini),
ma anche secondo altre logiche: politiche, di fazione, funzionali, etniche o
di classe. Esistevano club specializzati nel lavoro di educazione e propaganga,
come quelli affiliati alla democratica Society for the Diffusion of Political
66
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
Knowledge. Esistevano club delle varie etnie di immigrati, o di neri, o di
giovanotti non ancora in età di voto ma che guardavano al futuro. Esistevano club di operai, di operai appartenenti allo stesso mestiere, di operai appartenenti alla stessa fabbrica, e ovviamente esistevano club dei loro datori
di lavoro. A New Haven, del 1880, c’era un club repubblicano per gli operai
qualificati, uno per gli industriali e i commercianti, un altro per i produttori
agricoli. Nel 1868 il partito democratico fondò a New York, accanto alla
plebea e irlandese Tammany Hall e alla rivale Mozart Hall Association, così
chiamata dal nome della music hall in cui si riuniva, un elitario Manhattan
Club, con sede nella Fifth Avenue e quote annuali di iscrizione di 50 dollari.
Nel 1888 i democratici avevano 3.000 associazioni di questo tipo con mezzo milione di iscritti in tutto il paese, e fondarono, per coordinarli, una
National Association of Democratic Clubs. Nello stesso anno i repubblicani avevano 6.500 club con un milione di iscritti; nel 1892, sotto la spinta di
una nuova Republican National League, i club erano diventati 20.000 e gli
iscritti due milioni30.
La diffusissima stampa di partito costituiva il principale strumento di
circolazione dell’informazione politica. Ogni seguace di partito che sapesse
leggere, e nel Nord questo era vero quasi per tutti, era abbonato a un settimanale, se abitava in campagna, o a un quotidiano, se abitava in città. Prima dell’avvento della pubblicità, la principale forza propulsiva dietro il considerevole sviluppo della stampa americana nell’Ottocento fu, probabilmente,
proprio l’avvento della politica democratica31. Fino alla fine dell’Ottocento
la stragrande maggioranza dei quotidiani americani (il 95% delle testate nel
1850, i due terzi nel 1890) si considerò legata agli interessi e alla cultura
politica di un partito. Nel periodo successivo alla guerra civile, le testate
repubblicane superavano quelle democratiche per due a uno. I giornali proclamavano la propria fede nel frontespizio, con motti del tipo «Repubblicano in tutto, indipendente in niente» («The Chicago Inter Ocean»), quando
non nel nome stesso («The La Crosse Democrat», nel Wisconsin, che per
buona misura ribadiva nella manchette: «Democratico sempre e in ogni circostanza»). E la propugnavano senza preoccupazioni di obiettività sia nelle
pagine dei commenti che in quelle di cronaca, che per la verità non erano
ancora così precisamente distinte. I giornali pubblicavano informazioni sulla vita interna delle organizzazioni (orari delle riunioni, documenti di partito, discorsi di uomini politici) ed editoriali ispirati dai dirigenti, talvolta
vere e proprie veline circolari provenienti dalle direzioni statali e nazionali.
In cambio di questi servizi i partiti fornivano ai giornali lettori fedeli, solle67
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citavano abbonamenti, procuravano pubblicità, garantivano contratti editoriali alle tipografie (anche per conto degli enti pubblici che amministravano), talvolta ne coprivano le perdite di gestione. Il presidente del comitato
centrale della contea e il direttore del giornale di partito erano spesso le due
autorità più in vista del partito locale; talvolta erano la stessa persona. La
stampa di partito confermava ogni giorno visioni del mondo di parte, che
su ogni questione separavano gli amici dai nemici. E se il giornale di partito
non arrivava in tempo, poteva accadere che molti partigiani non riuscissero
ad avere un’opinione32.
Lo spoils system era uno degli strumenti di mantenimento di questa straordinario sviluppo organizzativo, anche se non era certo l’unico. Le familiari
tematiche dei partiti americani come macchine clientelari andrebbero quanto
meno riconsiderate e collocate in una prospettiva storica. La questione della
distribuzione degli impieghi pubblici ai membri del partito vincitore è meno
semplice di quanto appaia sia dalla tradizione di condanna senza appello che
l’ha accompagnata nel nostro secolo, sia dalla retorica che ne cantò le glorie
alle origini del fenomeno. E’ celebre la citazione dal discorso di un uomo
politico newyorkese del 1832, William L. Marcy, che disse:
Può darsi che gli uomini politici degli Stati Uniti siano meno schizzinosi di alcuni
gentlemen nel divulgare i principi in base ai quali agiscono. Essi non hanno paura
di predicare ciò che mettono in pratica. Quando si battono per la vittoria, dichiarano apertamente l’intenzione di goderne i frutti. Se sono sconfitti, sanno di dover
lasciare la carica. Se hanno successo, ne pretendono di diritto i vantaggi. Non vedono niente da ridire sulla regola che al vincitore appartengono le spoglie del nemico.
Meno celebre è l’afflato utopico con cui il presidente Andrew Jackson
descrisse il sistema nel 1829, presentandolo come una democratica rotation
in office che avrebbe impedito la formazione di un ceto permanente di burocrati lontani dal popolo e indifferenti ai suoi bisogni, e consentito invece la
partecipazione del maggior numero possibile di comuni cittadini all’amministrazione pubblica. Tanto più, aggiunse Jackson, che «i compiti dei funzionari pubblici sono, o almeno possono essere resi, così facili e semplici che
degli uomini intelligenti possono imparare senza difficoltà a svolgerli». All’inizio del Novecento, un altro politico newyorkese di piccolo calibro ma di
grande fama per il suo linguaggio spregiudicato, George Washington Plunkitt,
avrebbe fatto dello spoils system la sua bandiera: «Primo, questo grande e
glorioso paese è stato costruito dai partiti politici; secondo, i partiti non si
tengono insieme se gli attivisti non si spartiscono gli impieghi pubblici quando vincono; terzo, se i partiti vanno in pezzi, il sistema di governo che han68
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
no costruito deve pure andare in pezzi; quarto, allora sì che si scatenerà
l’inferno». E l’inferno avrebbe avuto, a suo parere, il volto di un governo di
tipo russo, di uno zar o un sultano, di una folla che grida «viva il re», insomma di un regime reazionario e dispotico33.
In realtà la pratica moderna dello spoils system non inventava una nuova
struttura di patronage, piuttosto ne sostituiva i gestori e i beneficiari. I politici
di partito jacksoniani e tutti quelli che li seguirono non fecero che adottare e
istituzionalizzare usi e costumi che fino ad allora erano appartenuti ai notabili
della comunità, ai gentiluomini patrizi di un’epoca precedente che avevano
distribuito gli impieghi pubblici ai membri delle proprie famiglie e dei propri
circoli; lo ritenevano un fatto naturale, un onore dovuto e un dovere inevitabile, un compito che era intrinsecamente legato alla loro stazione sociale, alla
loro educazione e cultura. Ad avere le stesse pretese erano ora uomini nuovi, a
loro socialmente inferiori, che avevano culture e abilità diverse; erano gli esponenti dei nuovi partiti di massa, esperti nel lavoro organizzativo, nelle tecniche della disciplina e della persuasione, impegnati a tempo pieno, insomma
politici di professione. Uomini non ricchi, che non disponevano di risorse
personali indipendenti, e che di necessità vedevano la politica come un lavoro
da cui ricavare uno stipendio e magari qualcosa di più; in effetti vedevano nel
servizio pubblico una carriera e un’occasione di promozione sociale. Fino ad
allora solo gli appartenenti ai ceti più elevati avevano a disposizione tempo e
denaro sufficienti da permettere una dedizione «disinteressata» al servizio pubblico. I nuovi politici di partito provenivano invece dai ranghi dell’esercito,
del giornalismo, dell’avvocatura, del mondo degli affari; ai livelli inferiori,
nelle campagne e nelle metropoli, da una piccola borghesia che poteva confondersi con gli strati più popolari. Insomma, secondo alcuni storici, il sistema clientelare ebbe importanti «aspetti liberatori», emancipando le istituzioni
statali dal controllo delle gerarchie sociali informali espresso dalle vecchie classi dirigenti, e favorendo l’avvento di un nuovo ceto politico democratico. La
lotta iniziata dopo la guerra civile per abolire lo spoils system e sostituirlo con il
merit system fu anche un tentativo di ridimensionare il potere di questo ceto e
di limitare l’influenza dei partiti; fu anche un tentativo di riaprire il funzionariato
pubblico, tramite il filtro dell’istruzione formale e degli esami di merito, alla
«nobiltà intellettuale»34.
Non è sorprendente che i protagonisti del nuovo regime postjacksoniano
fossero accolti dalle apocalittiche e scandalizzate denuncie di coloro che ne
erano stati spodestati. Costoro condividevano una cultura politica antipartito
risalente ai Padri Fondatori della repubblica, e si trovavano a disagio nella
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trionfante democrazia del tempo. Misuravano le qualità della leadership secondo criteri che avrebbero promosso solo i gentiluomini bostoniani cresciuti a Beacon Hill ed educati a Harvard University (come i primi presidenti John Adams e John Quincy Adams), i piantatori schiavisti virginiani
capaci di apprezzare l’architettura e la musica italiana (come Thomas
Jefferson), ovvero gli appartenenti alle élite europee di estrazione aristocratica. I nuovi politici apparvero loro come incolti, incapaci, mediocri e corrotti. Apparvero loro come dei parvenus (inevitabilmente, perché lo erano e
non potevano non esserlo) dai modi imbarazzanti e volgari. La loro mancanza di ipocrisia nel riconoscere e nominare i meccanismi della democrazia
di partito (la ricerca del voto, le tecniche spettacolari di propaganda, le pratiche di finanziamento dell’organizzazione, il lavoro politico permanente
nei quartieri popolari) era una componente importante di questa percepita
volgarità. Fu Moisei Ostrogorski a raccontare con gusto, e secondo questo
punto di vista, l’alba della nuova epoca, e cioè la disordinata partecipazione
dei luogotenenti di Andrew Jackson alle cerimonie di inaugurazione della
sua prima presidenza, nel 1829:
La folla irruppe nella Casa Bianca, riempì in un baleno tutte le stanze,
mescolandosi agli alti dignitari della repubblica e ai membri del corpo diplomatico; nella grande sala dei ricevimenti, gli uomini delle classi inferiori che
appoggiavano i loro stivali fangosi sulle sedie rivestite di damasco offrivano
una specie di immagine vivente della presa del potere di un nuovo padrone.
Quando furono serviti i rinfreschi, il rumore dei quali attirò la folla, ci fu un
tremendo parapiglia, vasellami, tazze e bicchieri furono fatti a pezzi, mani
sgarbate intercettarono tutto il ghiaccio, così che, come riferisce con costernazione uno storico, non rimase nulla per le signore. La furia con la quale la
gente si lanciò sui rinfreschi era destinata a diventare, molto presto, altamente simbolica35.
L’avvento della democrazia di partito basata sul suffragio universale
maschile (malgrado la versione parodistica offertane da Ostrogorski, che ne
fece una presa della Bastiglia da opera comica western) aprì effettivamente
spazi di partecipazione e rappresentanza a gruppi sociali e interessi economici che fino ad allora ne erano rimasti privi. Le ricerche di storia sociale, in
particolare i community studies influenzati dalla lezione di Herbert Gutman
e quelli di working-class history ispirati da David Montgomery, hanno mostrato l’importanza della classe operaia nel plasmare sia la retorica dei democratici jacksoniani, che arruolarono sindacalisti e lavoratori parlando il linguaggio del conflitto sociale e proclamandosi comunque nemici dei loro
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
nemici (i monopoli), sia l’ideologia lavorista del partito repubblicano che
entusiasmò Karl Marx. Hanno mostrato come, nel periodo successivo alla
guerra civile, negli Stati Uniti della rivoluzione industriale e della nascita di
uno stabile proletariato di fabbrica, emergessero forme di politica di classe
soprattutto a livello statale e municipale. Fu nelle cittadine industriali che il
radicamento popolare dei partiti repubblicano e democratico si tradusse
spesso in simpatia per il movimento operaio e le sue battaglie da parte dei
politici locali e delle autorità che essi controllavano, polizia compresa. Continuava a esercitare la sua influenza una cultura politica popolare che, in
nome della tradizione repubblicana radicale, esaltava la libertà e la dignità
del lavoro e il diritto dei cittadini-lavoratori di diventare cittadini-scioperanti, di organizzare la resistenza collettiva contro ciò che veniva percepito
come illegalità e disordine portati dalla «plutocrazia» e dal «governo del privilegio». Fu in alcuni settori degli apparati partitici delle aree metropolitane
che trovarono una qualche eco bisogni sociali e proposte di riforma provenienti da settori del proletariato urbano36. I sistemi elettorali municipali
basati sulla rappresentanza di quartiere (che, data la struttura residenziale
ghettizzata, consentivano rappresentanza politica a gruppi etnico-sociali
omogenei) diedero inoltre visibilità e rilevanza ai movimenti che cercarono
sbocchi politici indipendenti, alternativi al bipartitismo dominante: dai
workingmen parties e labor parties ottocenteschi fino al partito socialista dell’inizio del Novecento. «Alle urne! alle urne! / Là compagni troverete le pietre / Da scagliare contro la testa del tiranno», cantavano negli anni ottanta i
militanti della organizzazione politico-sindacale denomitata Knights of Labor,
mentre avviavano il loro lavoro politico nelle comunità operaie37.
3. Conflitti nell’età progressista: contro la supremazia di partito?
La spinta centrale del movimento progressista all’inizio del Novecento,
ha scritto lo storico e scienziato politico Martin Shefter, «fu un attacco al
partito politico», un tentativo di «soppiantare il partito nella sua posizione
centrale nel sistema politico americano»38. Il fatto che questi partiti avessero
organizzazioni solide e socialmente radicate, che fossero capaci di mobilitare grandi masse di elettori e di dare loro forti identità politiche, che dessero
voce in certe circostanze a interessi non d’élite, spiega la durezza dell’attacco
ma anche della resistenza che quell’attacco incontrò, e quindi l’asprezza dei
conflitti che ne derivarono. Questi conflitti riguardavano le condizioni stesse della competizione politica, della formazione dell’universo elettorale e
della rappresentanza sia a livello statale che municipale; alcuni di essi (quelli
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sulle riforme municipali, per esempio) sono piuttosto noti, altri (per esempio, quelli sulle riforme elettorali statali) lo sono meno. La storiografia americana ha spesso considerato la struttura elettorale come un dato astorico,
probabilmente abbagliata dalla apparente stabilità sul lungo periodo del sistema basato sul collegio uninominale a maggioranza semplice. Eppure cambiamenti ci furono, e furono il prodotto di decisioni politiche controverse,
ispirate da calcoli di parte, ideologici e personali sui loro possibili effetti. E
gli effetti furono significativi, in quanto le decisioni sulle regole, in politica
così come in qualunque attività umana, non sono mai neutrali, ma contribuiscono a definire chi vince e chi perde. Intorno al volgere del secolo i
cambiamenti furono così importanti e diffusi da configurarsi, sia pure con
tutte le variazioni spaziali e temporali dovute al sistema federale, come una
vera e propria riforma elettorale strisciante, con conseguenze che solo da
poco gli storici hanno cominciato a valutare39. Per ciò che riguarda i partiti
politici, queste conseguenze investirono non tanto la loro esistenza in quanto soggetti politici, quanto il loro carattere di organizzazioni popolari e
competitive.
Il caso degli stati del Sud fu particolarmente clamoroso, riassunto da un
dato quantitativo drammatico: i livelli medi di partecipazione alle elezioni
presidenziali scesero dal 61% del periodo 1884-1896 al 30% nel periodo 19041916. La causa diretta di una tale caduta verticale fu l’adozione, per tutti gli
anni novanta e con un’ultima ondata decisiva fra il 1898 e il 1902, di leggi
elettorali che miravano a limitare l’esercizio del diritto di voto. Requisiti di
censo, poll taxes, test di alfabetismo e altri marchingegni espulsero praticamente tutti i neri e molti bianchi poveri dal corpo elettorale. La variabile
specifica e radicalizzante dell’esperienza meridionale fu naturalmente la questione razziale; ma la dinamica del cambiamento politico rispecchiò tendenze
in atto in tutto il paese. Le leggi limitative furono la reazione dei democratici
bianchi della black belt alla ripresa di competizione del sistema partitico, a
opera dei repubblicani prima e dei populisti poi. La combinazione di un’elevata affluenza alle urne dei neri che avevano acquistato cittadinanza politica
dopo la guerra civile, e dell’attivismo politico dei radicali bianchi che cercarono di organizzare nel People’s Party gli agricoltori poveri e il proletariato urbano di entrambe le razze, sembrarono una minaccia intollerabile alla classe
dirigente bianca. L’appello ai pregiudizi razziali fu usato per spaccare la coalizione populista, restringere drasticamente la base politica del regime, consolidare il predominio assoluto dei democratici. Il partito come mezzo per la
partecipazione e la competizione organizzata per il potere fu distrutto. Rimase
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
come strumento di gestione del potere, nella più felice delle condizioni: partito unico (democratico), club privato della minoranza bianca e upper-class. Fu
questa una «rivoluzione reazionaria» legata non solo alla cultura tradizionalista
associata normalmente all’immagine del Sud, ma anche ad aspirazioni riformatrici razionalizzanti, urbane e antipartito che si manifestarono, con altre
forme, altrove nel paese40.
Negli stati del Nord, controversie meno drammatiche ma altrettanto
importanti per i loro effetti si accesero intorno all’adozione delle voter registration laws. Queste leggi che imponevano ai cittadini, come prerequisito
necessario all’esercizio del diritto di voto, di iscriversi di propria iniziativa
nelle liste elettorali periodicamente rinnovate, cominciarono a essere introdotte dopo la guerra civile con applicabilità limitata alle grandi città; si estesero poi rapidamente intorno al volgere del secolo, e dal 1920 erano in
vigore in 31 stati non meridionali. Studiate in genere come soluzioni
volontaristiche (contrapposte a quelle stataliste europee) al problema dell’identificazione degli elettori nell’anonimo ambiente urbano, esse presentano una storia molto meno lineare. La registrazione personale sostituì infatti precedenti meccanismi di formazione delle liste che erano permanenti
e affidati a funzionari pubblici. Il trasferimento della responsabilità di certificare le qualificazioni dell’elettore dallo stato all’individuo costituiva una
novità, concepita da gruppi conservatori per innalzare ostacoli burocratici
all’affluenza alle urne dei ceti metropolitani più poveri e meno istruiti, che
costituivano la base di massa dei partiti urbani41. I politici di partito si opposero ferocemente, almeno finchè non impararono che potevano essi stessi
controllare, tramite specifiche misure legislative, quella complessa macchina. Nel caso del Missouri di fine Ottocento, per esempio, la legge stabiliva
che i membri dei Board of Election Commissioners cittadini e dei Board of
Registry di seggio dovessero essere nominati secondo criteri partitici, rispettando la forza elettorale dei due partiti principali (in genere due scrutatori
andavano al partito di maggioranza e uno a quello di minoranza). Il loro
lavoro era delicato e tutt’altro che passivo. Dovevano certificare i requisiti
degli elettori, spesso sulla base di semplici dichiarazioni orali; aggiornarne
periodicamente gli elenchi; muoversi nel quartiere per individuare i casi
dubbi e contestati, per dirimere controversie su persone temporaneamente
assenti o invalide. Tutto questo potevano farlo con maggiore o minore zelo,
accuratezza e onestà, esercitando una considerevole influenza sulla composizione sociale e politica del corpo elettorale e sulla sua mobilitazione in
momenti cruciali di scontro42. Se si combina questa normativa con quella
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sulle elezioni primarie dirette, l’effetto è sorprendente: acquistarono infatti
rilevanza giuridica pubblica non solo le organizzazioni di partito ma perfino
le preferenze partitiche degli elettori, costretti a dichiararle di fronte a un
funzionario pubblico per poter partecipare a un momento cruciale della vita
dei partiti stessi, e cioè la selezione delle candidature. In molti stati, infatti,
per avere accesso alle primarie di un partito i cittadini dovevano iscriversi
nelle liste elettorali come elettori di quel partito (e diventavano registered
Democrats o registered Republicans).
L’iscrizione volontaria nelle liste elettorali e le elezioni primarie dirette
non furono gli unici provvedimenti legislativi che in quegli anni, come osservò uno studioso nel 1908, contribuirono a rovesciare completamente la
dottrina che il partito fosse una associazione volontaria e ad affermare la
dottrina opposta, che fosse una «agenzia governativa, soggetta alla
regolamentazione e al controllo della legge»43. Una portata analoga ebbero
alcune modalità di applicazione delle leggi sulla Australian ballot, e cioè sulla
scheda elettorale ufficiale introdotta in molti stati dopo il 1889-1890. Le
vicende di questa riforma elettorale sono affascinanti; i conflitti sulla manipolazione delle regole del gioco furono espliciti, e gli effetti che ne derivarono spesso imprevisti e paradossali. La scheda di stato doveva sostituire le
cosiddette party strips, le schede cartacee che dagli anni trenta-quaranta erano subentrate di fatto al voto a viva voce, e che erano preparate in via privata
dai partiti. Ciascun partito stampava le proprie schede, con la lista dei propri candidati a tutte le cariche; gli attivisti di partito le distribuivano agli
elettori in strada e di fronte ai seggi; gli elettori depositavano nelle urne
quella di proprio gradimento, sotto gli occhi di tutti; le schede dei partiti
erano facilmente riconoscibili le une dalle altre, per dimensioni o colore.
Tutto ciò consentiva forme di controllo sull’espressione del voto; favoriva
inoltre il voto secco di lista a favore di tutti i candidati scelti dai partiti: chi
aveva voglia davvero di cancellare uno o più nomi dalla party strip, aggiungerne altri, e tutto ciò magari in pubblico? Contro questo sistema si formò
un movimento di riforma costituito da una inedita alleanza di conservatori
e radicali. Tutti parlarono della Australian ballot (una scheda stampata dalle
autorità statali, contenente tutti i nomi di tutti i candidati a tutte le cariche,
da votarsi in segreto in una cabina) come di uno strumento di moralizzazione
della vita pubblica e soprattutto di liberazione dell’elettorato dalla tirannia
dei due partiti principali. Per movimenti come il newyorkese Union Labor
Party del 1886, l’Independent Labor Party del Michigan del 1887 o il partito
populista del 1892 si trattava di creare le condizioni favorevoli al successo di
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
partiti popolari di nuovo tipo, operai o agrari che fossero. Per i Liberal Reformers,
al contrario, si trattava di diminuire l’influenza di ogni tipo di organizzazione
partitica e di consentire la nascita di un elettorato indipendente44.
In realtà, negli anni novanta, i politici di partito che dominavano le
assemblee legislative statali riuscirono a ritorcere la riforma contro i suoi
sostenitori, e soprattutto contro le formazioni politiche minori. Riuscirono
innanzitutto, nella grande maggioranza dei casi, ad adottare il modello di
scheda di partito da loro preferito, e cioé quello cosiddetto a party column,
con i candidati incolonnati secondo l’appartenenza partitica, spesso sotto
un simbolo di immediata riconoscibilità anche per gli analfabeti, spesso con
la possibilità di votare l’intera lista di partito con un unico segno su quel
simbolo. Questo modello si contrapponeva a quello preferito dai riformatori, detto a office bloc, dove i nomi dei candidati erano raccolti secondo la
carica a cui concorrevano. Un simile formato avrebbe dovuto costringere gli
elettori a riflettere su, e a votare per una carica alla volta, senza farsi influenzare eccessivamente dall’etichetta del partito; ma la sua diffusione fu decisamente minoritaria45. In molti stati, inoltre, le maggioranze parlamentari fecero della nuova legislazione degli strumenti per controllare e limitare l’accesso al mercato elettorale. Stabilirono infatti i requisiti minimi necessari
per avere accesso alla scheda ufficiale e quindi alle competizioni politiche:
una certa percentuale di voti alle elezioni precedenti oppure, nel caso si
trattasse di nuovi arrivati, un certo numero di firme di registered voters. I
piccoli partiti o quelli nuovi ne eravano ovviamente penalizzati. Gli stati
vietarono inoltre ai candidati di un raggruppamento politico di essere presenti nelle liste di un altro. Quest’ultima formula sembrava innocente e del
tutto ragionevole, ma era insidiosa nelle sue implicazioni. Di fatto, metteva
fuorilegge la più diffusa pratica di sopravvivenza dei terzi partiti nel sistema
a collegio uninominale a maggioranza semplice, e cioè quella di presentare
alcuni candidati in comune (fusion candidates) con uno dei partiti maggiori,
conservando tuttavia intatti e separati i propri programmi, le proprie liste, e
le proprie identità. Era, in pratica se non in teoria, un meccanismo per dare
rappresentanza a elettori che altrimenti ne sarebbero stati privati in permanenza; per realizzare, come si disse anche allora, una qualche forma di rappresentanza proporzionale46.
Le nuove norme costrinsero i partiti minori a fondersi completamente
con i repubblicani o i democratici, o a condannarsi all’irrilevanza. In molti
stati queste norme furono inventate dai repubblicani per ostacolare la crescita del People’s Party e la sua alleanza con il partito democratico. Fu questa
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alleanza che nel 1896 portò all’esempio più noto a livello nazionale di «fusione», e cioè alla candidatura presidenziale di William Jennings Bryan sia
nella lista democratica che in quella populista. I due partiti presentarono
liste separati, lo stesso candidato alla presidenza (Bryan appunto) ma non
alla vicepresidenza. Per questa carica i democratici nominarono Arthur Sewall
del Maine e i populisti Thomas E. Watson della Georgia. Watson condusse
una campagna indipendente, cercando, anche se con molti problemi, di
tenere alto il morale dei populisti più legati all’identità del partito, che avevano accettato di mala voglia di mimetizzarsi in un altro. Alla fine Watson
conquistò 27 voti elettorali contro i 149 di Sewall, mentre Bryan raccolse
per sé tutti i 176 voti. Al di là delle ragioni immediate e strumentali che le
ispirarono, comunque, queste norme contribuirono sul lungo periodo a porre
fine alla ricca esperienza dei piccoli partiti ottocenteschi, che in quanto
movimenti organizzati di massa non ricomparvero mai più sulla scena politica degli Stati Uniti. Gli inventori delle leggi antifusione mirarono esplicitamente a imporre d’autorità il bipartitismo; alcuni contemporanei parlarono con sarcasmo di «leggi per l’estinzione di tutti i partiti tranne il democratico e il repubblicano»47. Secondo lo storico Peter Argersinger, tutto ciò
diede origine a un universo politico nel quale «era più difficile organizzare
nuovi partiti, ottenere rappresentanza, […] cooperare con altri cittadini,
votare in maniera indipendente o esprimere insoddisfazione politica se non
rifugiandosi nel nonvoto». Quella del nonvoto fu probabilmente la strada
presa, non per indifferenza ma per frustrazione di una passione troppo intensa, da molti true believers rimasti senza una bandiera. Come ha scritto
Albert Hirschman, «una volta scoperto di non poter esprimere i propri sentimenti sugli affari pubblici con l’intensità con la quale sono sperimentati, è
probabile che molti perdano l’interesse ad esprimerli del tutto»48.
Scendendo dagli stati alle città, altri luoghi di conflitto sul ruolo dei
partiti e sulle regole della democrazia elettorale furono le riforme politicoamministrative che nell’età progressista ridisegnarono il volto dell’America
urbana. Fu allora che acquistò credibilità e sostegno un movimento che già
da un decennio aveva messo sotto accusa l’organizzazione della vita municipale dominata dai partiti politici, descritti come portatori di interessi frammentati, localistici, plebei, «stranieri» e corrotti; e aveva elaborato un’ideologia efficientista e centralizzatrice che mirava al «buon governo», ovvero a
gestire la città come una moderna società per azioni, inserita in un mercato
nazionale di sistemi di scambio amministrativi, tecnologici e di comunicazione. Questo movimento si proponeva di ridurre l’influenza della politica
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
elettorale e di accrescere il peso della leadership esecutiva, dell’amministrazione e della politica degli interessi. I suoi ispiratori erano esponenti organizzati delle élite economiche e sociali cittadine, bianche e maschili, che si
autodefinivano modernizzanti e cosmopoliti, e che cercavano di riappropriarsi
del controllo dell’autorità locale; cercavano di reagire all’esplosione spaziale
e demografica del governo urbano che aveva provocato, nella seconda metà
dell’Ottocento, una dispersione del potere a livello di quartiere e a favore di
un personale politico generalmente lower-middle-class. Nel primo ventennio
del secolo questi riformatori riuscirono a imporre molte delle loro soluzioni
dopo scontri durissimi, che furono combattuti con tutte le tecniche della
democrazia contemporanea: lotte di partito e lotte di fazione dentro i partiti, politica dei gruppi di pressione, formazione di comitati ad hoc e leghe
indipendenti, campagne di stampa e massicce campagne pubblicitarie, la
democrazia referendaria. Fu con referendum popolari che vecchi statuti municipali furono aboliti, e nuovi statuti richiesti e poi adottati, provocando
veri e propri cambiamenti di regime a livello locale49.
La spinta al cambiamento agì in varie direzioni. I riformatori promossero l’introduzione di sistemi elettorali nonpartisan, che cancellavano dalle
schede le denominazioni e i simboli di partito, e costringevano gli elettori a
scegliere fra candidati senza etichette. Intendevano con ciò, si disse, sottrarre gli affari municipali alla logica partitica e ai condizionamenti dello scontro politico nazionale, incompatibili con il buon governo. In molte città la
rappresentanza politica basata sulle circoscrizioni di quartiere, i wards, fu
sostituita con quella at-large. Con il sistema by-ward ogni quartiere eleggeva
il proprio consigliere comunale; data la struttura residenziale ghettizzata,
ciò dava spazio a una qualche forma di rappresentanza dei gruppi sociali
omogenei, e talvolta a partiti nuovi e minoritari. Con il sistema at-large tutti
i consiglieri venivano eletti in un collegio unico cittadino, stemperando così
la loro base sociale. Furono istituiti strumenti di democrazia diretta (referendum soprattutto, e poi revoca e iniziativa popolare) che scavalcavano gli
organi della democrazia rappresentativa, e dividevano l’opinione pubblica
secondo fratture non partitiche. Fu rafforzato il potere esecutivo del sindaco
e quello degli apparati amministrativi e degli enti autonomi ai quali affidare
il controllo di specifici e scottanti problemi (espansione urbana, trasporti,
parchi, salute, sicurezza), sottraendoli al controllo dei consigli comunali. Fu
introdotto il sistema di merito in alcuni settori almeno dell’amministrazione comunale, sottraendoli allo spoils system. In alcune città queste tendenze
si fusero in progetti molto radicali. I tradizionali city councils furono aboliti,
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sostituiti da city managers o city commissions, organi ristretti con ampi poteri, modellati sui consigli di amministrazione delle società per azioni, responsabili direttamente di fronte agli elettori (gli «azionisti», si disse) e svincolati dalle pratiche compromissorie delle assemblee rappresentative. Dalla
metà del Novecento, il 42,1% delle 2.528 città americane con più di 5.000
abitanti aveva adottato forme di governo basate sul city manager o sulla commissione; il 58,7% eleggeva i consiglieri comunali at large; il 59,4% secondo criteri nonpartisan50.
L’opposizione a queste misure era animata da vari gruppi politici e sociali, i più visibili e attivi dei quali furono senza dubbio quelli di ispirazione
socialista. Il Socialist Party contrastò con coerenza, vigore, e rabbia queste
forme di ingegneria istituzionale ed elettorale che, soprattutto con l’abolizione della rappresentanza per quartiere, tagliavano le gambe alle sue strategie di crescita nei quartieri operai, e che talvolta contro questa crescita erano
esplicitamente dirette. In quegli anni il partito stava crescendo soprattutto a
livello municipale. «Ci troviamo di fronte a un vigoroso ed efficace movimento», scrisse nel 1912 l’economista Robert Hoxie, «che ha portata nazionale, che sta gettando le fondamenta di una struttura permanente organizzandosi alla base del sistema politico, che sta reclutando le sue forze soprattutto nei grandi centri urbani e industriali, che sta crescendo a velocità sempre maggiore». Questa «marea montante del socialismo» provocò in molte
città un riallineamento politico secondo moduli che sarebbero apparsi familiari a degli osservatori europei; costrinse infatti democratici e repubblicani
a unirsi in una coalizione «borghese» per impedire il successo del partito del
lavoro. Il cambiamento dei sistemi elettorali (e di lì a poco l’impatto dell’ondata patriottica bellica e della repressione antiradicale) bloccò sul nascere queste possibilità51. I socialisti non furono gli unici a non amare le riforme municipali di questo tipo; anzi, è probabile che gli ostacoli più efficaci,
ancorché più nascosti, alla loro introduzione fossero le strutture decentrate
dei due partiti principali, che temevano di perdere preziosi strumenti di
rappresentanza, autorità nei consigli comunali e potere clientelare. In effetti, fu nelle metropoli complesse e stratificate dell’Est, dove i partiti potevano
contare su un solido consenso nei quartieri popolari e immigrati, che le
innovazioni istituzionali incontrarono una resistenza più agguerrita; ebbero
un più facile successo nelle città di dimensioni medio-piccole, etnicamente
e socialmente più omogenee, dell’Ovest e del Sud-Ovest52.
Laddove ebbero successo, questi cambiamenti ebbero un impatto importante sulla struttura della rappresentanza partitica e sul comportamento
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
degli elettori. La partecipazione elettorale diminuì, provocando una stabile
sottorappresentazione nell’elettorato delle classi sociali meno privilegiate,
insomma delle «classi pericolose». Furono penalizzati i gruppi con reddito e
istruzione inferiori e quelli etnici e razziali spazialmente segregati, e quindi i
democratici (per non dire dei socialisti). La concentrazione del potere esecutivo, le riforme nonpartisan e i sistemi elettorali at-large favorirono il predominio nella politica municipale dei gruppi conservatori e d’élite e la formazione di un ceto politico tipicamente repubblicano, bianco, maschile e di
status occupazionale elevato; lungi dal combattere le «degenerazioni del governo di partito», favorirono la diminuzione della competitività fra i partiti
e l’insediamento di regimi a partito unico guidati da apparati più
burocratizzati e sicuri di sé53. In alcune città i guasti sui meccanismi della
rappresentanza furono così evidenti che si cominciò persino a discutere della bontà del sistema elettorale proporzionale. Dopo il 1914 riprese vigore la
Proportional Representation League, che era stata fondata negli anni novanta da un piccolo gruppo di riformatori upper-class che vedeva nel sistema
una difesa delle minoranze contro il duopolio dei partiti di massa. Significativamente, alla vigilia della prima guerra mondiale, la nuova versione della lega contava fra i propri membri anche parecchi socialisti. I suoi successi
furono scarsi, anche se non inesistenti. Adottato da 25 amministrazioni
municipali nel periodo fra le due guerre, il sistema proporzionale era quasi
scomparso dagli anni cinquanta. Le ragioni di questa scomparsa sono di
qualche interesse. Fu infatti dovuta alla reazione conservatrice del secondo
dopoguerra quando la rappresentanza proporzionale divenne, come scrisse
allora uno storico, «particolarmente impopolare» perché dava voce alle «minoranze radicali»54.
Il ritmo di tutti questi conflitti fu scandito, ripetutamente, da precisi e
decisivi momenti di scelta su riforme magari concepite da gruppi di élite,
sicuramente controverse, ma alla fine approvate dalle assemblee legislative
e/o sanzionate da referendum popolari. Tutto ciò pone un problema storico
cruciale, quello della formazione di un consenso maggioritario a mutamenti
istituzionali che alterarono profondamente l’universo dei partiti ottocentesco,
che sembrava così solido, così capace di mobilitare partecipazione e sostegno. Questo riorientamento dell’elettorato in una direzione ostile ai partiti
fu propiziato da alcuni mutamenti nelle condizioni della lotta politica all’inizio del Novecento. Innanzitutto, fu quello il periodo della «rivolta
progressista» all’interno dei partiti dominanti. Governatori repubblicani come
Robert La Follette del Wisconsin (eletto nel 1900) e A.B. Cummins dell’Iowa
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(1901), democratici come John A. Johnson del Minnesota e Joseph Folk del
Missouri (1904), riuscirono a conquistare la carica conducendo lotte durissime contro le gerarchie dei loro partiti, costruendo coalizioni sociali indipendenti e macchine organizzative parallele e personali. Mostrarono così la
debolezza delle tradizionali organizzazioni di partito come strumenti di orientamento dell’elettorato, e contribuirono ad aggravarla. In nome della democrazia, e comunque per combattere i nemici di fazione, furono loro a introdurre nella legislazione statale le elezioni primarie dirette. Furono loro, per
legittimare le proprie strategie non convenzionali, i primi uomini politici di
carriera a razionalizzare l’utilità di club e leghe indipendenti, la necessità del
voto di opinione, il dissolversi della fedeltà di partito. Furono loro a dare
eccezionale visibilità alla politica della personalità, e a esaltare il ruolo del
capo dell’esecutivo (il governatore dello stato, in questo caso) contro le pastoie
della politica di apparato. Le candidature nazionali indipendenti che essi
promossero, quella di Theodore Roosevelt nel 1912 e quella di La Follette
nel 1924, erano movimenti molto moderni in questo senso, legati al carisma
di un singolo leader, destinati a consumarsi in fretta55.
La retorica dell’indipendenza dei politici progressisti si intrecciò con
l’estendersi a livello di massa della retorica antipartito che fino allora era
rimasta confinata nei salotti borghesi e negli editoriali della stampa d’élite.
L’occasione fu offerta dall’esplosione fragorosa e repentina, dopo il 19021903, di una serie di scandali municipali e statali che implicavano scambi di
favori fra uomini d’affari e pubblici amministratori legati ai partiti. Amplificati dalla stampa quotidiana e periodica, questi scandali trasmisero a un’opinione pubblica traumatizzata la sensazione, come scrisse il giovane reporter
investigativo Lincoln Steffens (che da qui lanciò la sua fortunata carriera di
muckraker), che la corruzione fosse diventata un vero e proprio «sistema» di
governo, perverso e pericoloso per la stessa democrazia. Le reazioni politiche
e giudiziarie furono violentissime, al grido di «Cacciate i furfanti!» Ma chi
erano i veri furfanti? Steffens aveva sottolineato come «in tutte le città, le
classi migliori - gli uomini d’affari - sono la fonte della corruzione; ma essi
sono così raramente perseguiti e presi con le mani nel sacco che non riusciamo a capire in pieno da dove vengano i nostri guai. Così nella stragrande
maggioranza dei casi si accusano gli uomini politici e le classi più povere,
ignoranti e depravate». Diverse attribuzioni di responsabilità implicavano
soluzioni diverse alla crisi; e la questione morale divenne un terreno di scontro politico sul controllo e sui fini del governo locale. Secondo alcuni, erano
i businessmen che saccheggiavano le risorse pubbliche; era quindi necessario
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
controllare i trust, regolamentare le lobbies, rendere trasparenti le concessioni degli appalti pubblici, frenare la speculazione edilizia e sottrarre alla sua
logica la crescita urbana, tassare le società per azioni per finanziare una più
diffusa politica dei servizi. Secondo altri, erano i politici di partito avidi e
corrotti che imponevano tangenti per qualsiasi atto dovuto; erano allora i
partiti a dover essere controllati, ridimensionati, espulsi dalla vita pubblica
almeno locale. Misure furono adottate in entrambe le direzioni; nel complesso, fu la seconda direzione a prevalere. Ha scritto lo storico Richard
McCormick che la scoperta della corruzione «fece precipitare alcune crisi
che condussero verso i più significativi mutamenti politici dell’epoca», diffondendo l’immagine della politica di partito, e spesso della politica tout
court, come cosa sporca da cui rifuggire, e aprendo la strada alle riforme
delle élite modernizzanti56.
La democrazia referendaria sembrò offrire una alternativa attraente e
ragionevole alla politica di partito. Soggetti politici radicali come socialisti,
laburisti, populisti e proibizionisti, che non si riconoscevano nel sistema
esistente, e che erano convinti di essere portatori di valori, opinioni e interessi condivisi dal pubblico ma soffocati dalla «supremazia di partito» e dalle
mediazioni del sistema rappresentativo, la concepirono come una scorciatoia per dare voce alla società civile e a sé stessi57. Più tardi, per gli stessi e per
altri (più sofisticati e realistici) motivi, anche i riformatori conservatori l’adottarono. Intorno al volgere del secolo, il referendum, l’iniziativa legislativa
popolare e la revoca precipitarono furiose battaglie politiche nelle città e
negli stati dove furono introdotti per la prima volta, e controversie sulla loro
compatibilità costituzionale con il sistema rappresentativo. Dall’inizio del
secondo decennio del Novecento, tuttavia, erano diffusi ovunque ed erano
diventati, come scrisse lo storico Charles Beard, certamente un osservatore
simpatetico e appassionato, «rispettabili, persino nei circoli conservatori
repubblicani»58. Soprattutto a livello municipale, questi strumenti, che gli
americani definirono in blocco «democrazia diretta», furono introdotti per
rendere accettabili all’opinione pubblica le innovazioni più efficientiste,
manageriali e, nel linguaggio degli oppositori, più francamente autocratiche
come il commission government e il city manager. Il loro impatto sul processo
decisionale fu nel complesso irrilevante, tranne che per alcuni importanti e
generalmente trascurati aspetti. Il referendum, infatti, fu usato soprattutto
dalle classi dirigenti metropolitane per guadagnare consenso plebiscitario ai
loro progetti di riforma municipale, di politica fiscale e di espansione urbana; divenne occasione di grandi campagne pubblicitarie più che elettorali,
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finalizzate a elezioni speciali, spesso indette in date diverse da quelle regolari
controllate dai partiti. Con il referendum, era possibile chiedere all’elettorato, o meglio alla sua frazione attiva sempre più ristretta, scelte secche su
questioni dall’elevato contentuo simbolico, aggirando le tradizionali fratture partitiche59.
La democrazia referendaria era entrata, in maniera legittima e coerente, nel discorso di quei riformatori liberal-progressisti che denunciavano la
crisi di rappresentanza degli organi legislativi e miravano a riorganizzare il
sistema politico secondo linee di centralizzazione dell’autorità negli organi
esecutivi e amministrativi. Un intellettuale come Herbert Croly, consigliere
di Roosevelt e uno dei fondatori (con Walter Weyl e Walter Lippmann)
dell’influente periodico The New Republic, articolò con precisione queste
ragioni. «La progressiva adozione del referendum nelle strutture politiche
locali deriva in parte dal riconoscimento del fatto che le assemblee legislative hanno cessato di avere un ruolo indipendente nell’attività di governo»,
scrisse nel 1909 in The Promise of American Life. L’equilibrio dei poteri che
stava emergendo nei governi locali e statali faceva dell’esecutivo il vero centro forte del sistema, e quindi, necessariamente, del referendum e della revoca il suo più opportuno strumento di controllo da parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato. Nel 1914, nel saggio Progressive Democracy, Croly fu
ancora più esplicito. Per più di un secolo, affermò, i principali strumenti
della politica democratica del paese erano stati il governo rappresentativo e
i partiti politici. Negli ultimi tempi, tuttavia, «l’organizzazione di un governo forte» associato al «governo popolare diretto» stava creando nuove condizioni, che consentivano «l’emancipazione della democrazia dalle organizzazioni di partito». A suo parere, «la democrazia non ha più bisogno di
dipendere da organizzazioni di partito per perseguire intenti popolari». «Il
governo stesso, piuttosto che i partiti, dev’essere responsabile della realizzazione della volontà popolare». Tramite il governo «l’azione popolare politica
diretta» poteva esprimersi chiaramente e pienamente, promuovendo fra l’altro «una migliore e più profonda unione sociale e politica» in una matura
opinione pubblica; un’opinione pubblica che non aveva più bisogno di essere guidata dalle istituzioni rappresentative, perché si formava altrove, soprattutto tramite le «forme di annuncio e comunicazione pubblica offerte
dalla stampa quotidiana e periodica». «I cittadini attivi del paese», concluse
Croly, «si incontrano ogni mattina e ogni sera e discutono la situazione
nazionale avendo per interlocutore impersonale il giornale»60.
Se la democrazia referendaria promise di stabilire «un rapporto più intimo fra il popolo e il governo» al di fuori dei partiti, i gruppi di interesse
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
organizzati si presentarono come canali di influenza ben più efficaci dell’una e degli altri. Ho già accennato al ruolo che questi gruppi assunsero nei
processi decisionali nello stato del nuovo secolo. Quello che mi preme sottolineare in questo contesto è tuttavia un’altra, anche se correlata, dimensione del fenomeno, e cioè la loro tendenza a plasmare forme di fedeltà
corporativa conflittuali con quelle ispirate dai partiti, a introdurre definizioni della cittadinanza fondate sull’identificazione di gruppo e non di partito.
Ciò si verificò per le business associations, numerose e diffuse soprattutto
quando organizzavano su base territoriale e di categoria i medi e piccoli
uomini affari. Si verificò per gli agricoltori organizzati, che proprio intorno
al 1900 abbandonarono le vie dell’azione politica in quanto cittadini per
prendere quelle della politica di pressione in quanto imprenditori; smisero
di costruire partiti di tipo populista e diventarono lobbies. Secondo lo storico Robert Wiebe, anche per i membri dei ceti medi professionali e burocratici l’adesione a una associazione occupazionale sviluppò forme di identità e
senso di appartenenza simili a quelle indotte fino ad allora dai partiti politici; ciò contribuì a dissolvere le fedeltà di partito dei loro padri e a rendere
accettabile e accettata l’affermazione della loro «indipendenza»61. Lo stesso
accadde nel caso dei sindacati operai, anche se qui esistono elementi per
accennare a un discorso più complesso. Dopo il volgere di secolo, l’American
Federation of Labor individuò nell’identificazione di gruppo degli aderenti
lo strumento centrale per esercitare pressioni sulla macchina politico-burocratica degli stati (e poi del governo federale). La tecnica del gruppo di pressione implicava tuttavia la capacità di indirizzare con efficacia le preferenze
elettorali degli iscritti; una capacità che, contrariamente alle affermazioni
dei dirigenti, solo raramente si esercitò nello spostamento spregiudicato e
nonideologico del voto per «premiare gli amici» e «punire i nemici» del
momento. Più comunemente, si sedimentò in uno stabile sostegno a favore
prima di alcuni partiti statali democratici o repubblicani progressisti, poi
del partito democratico nazionale, «che aveva promesso di usare la forza
dell’esecutivo per piegare gli industriali»62. Insomma, l’esperienza dei sindacati sembrava andare controcorrente; fedeltà corporativa e fedeltà di partito
sembravano tradursi l’una nell’altra, rafforzarsi a vicenda.
4. Perché gli americani non votano?
I conflitti dell’età progressista, in gran parte combattuti a livello locale
e statale ma nazionali per diffusione e portata, contribuirono (con altre forze più generali e di lungo periodo che non ho esaminato qui) a produrre
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importanti mutamenti nell’organizzazione, nel radicamento sociale e nella
cultura politica dei partiti. Da una parte, i partiti persero la capacità, che era
stata un carattere qualificante delle loro organizzazioni di massa nell’Ottocento, di indurre forme stabili di identificazione politica nell’elettorato, e di
mobilitarne le fasce più popolari facendo appello ai loro interessi, ai loro
bisogni e alle loro visioni del mondo. Dall’altra, per quanto ridimensionati
in quanto strumenti di formulazione e decisione sulle politiche pubbliche, i
due partiti principali uscirono rafforzati nelle loro macchine organizzative e
nel monopolio del mercato politico-elettorale. Si ritrovarono con apparati
che erano meno elaborati e complessi, più snelli e veloci ma anche più
gerarchizzati e verticistici; derivavano inoltre la loro legittimazione più dal
riconoscimento legale e dall’intreccio con la politica statuale che non dalla
capacità di coinvolgere i propri membri e l’elettorato. Come si è visto, molte
riforme concepite per contenere o distruggere la «supremazia di partito»
finirono per rafforzare il ruolo istituzionale dei due principali partiti esistenti. Alcuni studi locali suggeriscono che anche le tensioni intrapartitiche
e di fazione che caratterizzarono il primo quindicennio del Novecento, e
che per qualche tempo portarono alla frantumazione dell’autorità e della
efficacia degli apparati, fossero scomparse dalla fine della prima guerra mondiale. Riassumendo questi studi, il politologo David Mayhew ha individuato in quegli anni una tendenza generale al rafforzamento e alla centralizzazione
delle strutture di partito, soprattutto ai livelli statali e di contea che, fino agli
anni trenta i primi, e fino agli anni cinquanta i secondi, rimasero quelli più
influenti. Fra l’altro, malgrado gli attacchi furibondi di cui furono oggetto,
fu proprio dopo il 1900 che le macchine etniche urbane acquistarono una
fisionomia compatta e disciplinata, sia pure con differenze regionali di diffusione63.
Le strategie delle leadership dei partiti nazionali andavano nella stessa
direzione. Come mostrano le vicende del partito repubblicano uscito vittorioso dalle elezioni del 1896, esse mirarono ad accentuarne il carattere di
macchine efficienti e professionali finalizzate alla conduzione delle campagne elettorali presidenziali e sempre più separate dalla partecipazione popolare e dalle questioni locali. Sotto la guida di William McKinley e del suo
campaign manager Mark Hanna, i repubblicani introdussero su larga scala le
costose strategie centralizzate di propaganda inventate dalla pubblicità commerciale, con un attento packaging della personalità del candidato e del suo
programma tradotto in slogan e in simboli; costruirono un apparato nazionale svincolato dalla politica degli stati, capace di raccogliere finanziamenti
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
e di produrre comunicazione politica per proprio conto. Nel secondo decennio del Novecento questo apparato nazionale divenne permanente, con
sede a Washington, con uffici e funzionari a tempo pieno; il creatore della
nuova organizzazione fu il party chairman Will Hays, un politico dell’Indiana che negli anni venti fece carriera assumendo la direzione della Motion
Picture Producers and Distributors Association e inventando il «codice Hays»
di autocensura dell’industria cinematografica hollywoodiana. I repubblicani promossero inoltre la fuoriuscita della politica di partito dalle coordinate
dei conflitti politico-culturali ottocenteschi; di fronte alla retorica messianica
dei seguaci di Bryan, elaborarono uno stile politico che sembrava pragmatico
ed elettoralistico, che accettava il pluralismo culturale e religioso, prendeva
le distanze dalle tradizionali tentazioni proibizioniste, proponeva una nuova
unità sociale in nome della prosperità economica. Ciò non significava affatto, tuttavia, che il nuovo partito fosse privo di programmi, principi e
orientamenti ideologici precisi ed esplicitati, come testimoniava la sua identificazione assoluta con gli interessi e la cultura del mondo degli affari, sia
della grande industria e dell’alta finanza (il partito di Wall Street) che dei
piccoli businessmen locali (il partito di Main Street). «Alcuni uomini devono
possedere», sosteneva Hanna che, come McKinley, era un imprenditore
dell’Ohio, e «la gran massa degli uomini devono lavorare per quelli che
possiedono»; chi possiede è chiamato a prendere decisioni, e lo stato deve
essere un «business state»64.
I democratici indicarono un’altra importante direzione di rafforzamento
del ruolo del partito nazionale. L’estendersi della riforma dell’amministrazione pubblica non aveva del tutto annullato le capacità di manipolazione
del patronage da parte dei politici; i presidenti, in particolare, continuarono
a usare i poteri discrezionali di cui godevano sotto il Pendleton Act del 1883
per allargare o ridurre l’area coperta dal sistema di merito secondo interessi
di parte. Con Woodrow Wilson, tuttavia, ci fu un salto di qualità. Lo stato
non fu più considerato come una bottino di guerra alla mercé del vincitore;
piuttosto, quello che successe fu che «lo sviluppo amministrativo nazionale
divenne una estensione dello sviluppo del partito», uno strumento «per accogliere un certo numero di diverse constituencies all’interno di una nuova
coalizione nazionale democratica»65. Sotto l’amministrazione Wilson (19131921), i democratici utilizzarono le nuove strutture pubbliche di controllo e
regolamentazione dell’economia, sia quelle ordinarie (Federal Reserve Board,
Federal Trade Commission, i vari ministeri federali) che quelle tanto più
potenti anche se temporanee dell’emergenza bellica (War Industries Board,
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War Labor Board, Food Administration, Fuel Administration, Railroad
Administration), per stabilire rapporti non antagonistici ma di collaborazione con il mondo degli affari; i repubblicani rimasero il «partito del capitale», ma la lezione non andò perduta negli anni del New Deal. Gli stessi
canali, più i primi tentativi di legislazione federale sul lavoro, servirono a
rinsaldare i legami con i sindacati di mestiere della American Federation of
Labor; fra l’altro, proprio un ex dirigente degli United Mine Workers fu
chiamato nel 1913 a guidare l’appena istituito Dipartimento del Lavoro66.
Un intellettuale wilsoniano scrisse nel 1915 che «il partito democratico deve
dare una risposta a tutta la problematica della giustizia sociale se vuole mantenere il consenso delle classi industriali che stanno crescendo nelle città del
Nord e che domandano proprio questo tipo di legislazione». Sull’espansione dello stato amministrativo e del nascente welfare state il partito democratico cercò di fondare un’organizzazione e una strategia che aveva come perno il governo federale, e come premio il consenso elettorale dei beneficiari
delle politiche sociali e di una burocrazia pubblica ormai numericamente
rilevante67.
Nell’ambito di queste discussioni strategiche e organizzative dei partiti
e sui partiti, non trovò alcun posto una riflessione sulla drammatica caduta
di affluenza alle urne di quegli anni. Già evidente alle elezioni presidenziali
del 1904, il nonvoto salì con rapidità verso i picchi del 1920 e del 1924,
quando meno del 50% dei potenziali elettori andò alle urne68. Se questo era
un segno di «politica della felicità», come è stato detto, indicava una ben
curiosa stratificazione sociale di questo raro e prezioso stato d’animo, visto
che l’assenteismo (benché diffuso ovunque) era concentrato nei settori più
poveri e meno istruiti dell’elettorato. Si trattava proprio di quei settori di
popolazione che erano stati la base sociale più ambita e più vituperata dei
partiti popolari dell’Ottocento, i cittadini che erano chiamati ad affollare le
parate e le urne e che, proprio per questo, molti riformatori upper-class volevano privare della cittadinanza. Insomma, sembrava che le «classi pericolose» avessero smesso di inquinare la politica democratica, un fatto che fu
accettato con soddisfazione dai gruppi dirigenti politici e sociali, appena se
ne resero conto. Furono gruppi d’élite, in verità, a denunciare per primi già
dopo il 1904, ma soprattutto negli anni venti, la crescente apatia dell’elettorato; e a proporre (tramite camere di commercio, associazioni industriali, i Rotary Clubs e i Boy Scouts of America) campagne educative e rimedi
improbabili come il voto obbligatorio o la chiusura dei campi da golf nelle
giornate elettorali. Proprio quest’ultima bizzarra proposta chiarisce l’equi86
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
voco: esisteva la convinzione che a non votare fossero i cittadini «migliori»,
che lasciavano il controllo del processo elettorale agli «ignoranti» residenti
degli slum inquadrati dai partiti, e alle minoranze radicali sempre mobilitate. Quando, grazie alle prime indagini scientifiche, ci si rese conto che erano
soprattutto i ceti più popolari a disertare le urne, le lamentele e i movimenti
di educazione civica si dissolsero. Fu allora, intorno al 1928, che il primo
dibattito sulla «scomparsa dell’elettore» americano si chiuse definitivamente69.
L’analisi storica delle trasformazioni dei partiti e, più in generale, della
vita pubblica fra Ottocento e Novecento suggerisce che il precipitare della
crisi di partecipazione elettorale fu la manifestazione più radicale e definitiva dei nuovi comportamenti elettorati dopo il 1900; fu il risultato della
progressiva emarginazione di strategie organizzative e opzioni politiche significative per ampi strati della popolazione. Il fatto che metà dei cittadini
non sentisse il bisogno di esercitare il diritto di voto segnalava l’avvento di
un sistema di organizzazione delle alternative e di definizione delle questioni politiche che era estraneo ai loro bisogni70. Nell’Ottocento l’espansione
dell’elettorato era stata in gran parte un prodotto della accesa conflittualità
fra i partiti politici. Ciascun partito aveva cercato di acquistare competitività
nei confronti degli altri mobilitando nuovi elettori e mantenendo elevata la
partecipazione di tutti. Gli sviluppi legali e istituzionali relativi all’allargamento del diritto di voto, e quindi all’emergere e al consolidarsi del suffragio universale maschile nell’età jacksoniana, fornirono le precondizioni di
questa straordinaria mobilitazione; condizioni necessarie ma non sufficienti, se non accompagnate dai forti stimoli esercitati dai partiti politici. Ciò fu
vero soprattutto per le classi popolari che, nel regime democratico, più di
altre classi trovarono nei partiti degli strumenti per fare valere pienamente la
loro cittadinanza. Il cambiamento qualitativo nell’universo elettorale dopo
il 1900 era evidente, ed era avvenuto secondo criteri di classe. Lo storico
Paul Kleppner ha registrato questo fenomeno nel Nord-Est industriale del
paese nel primo quindicennio del Novecento, trovando correlazioni positive fra alta partecipazione elettorale e redditi elevati (ed età matura), mentre
nell’ultimo quarto dell’Ottocento la situazione era esattamente l’opposto.
In queste aree, alla fine del secolo scorso, esistono segni che indicano che «la
partecipazione elettorale era una funzione inversa, piuttosto che diretta, della
condizione economica degli elettori»71.
Il sistema politico emerso negli anni venti, un sistema politico senza
partiti di massa competitivi ed efficaci nell’esercitare le prerogative di governo, aveva un carattere molto più punitivo nei confronti degli have-nots e
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premiava coloro che già detenevano il potere economico. La nuova democrazia pluralista dei gruppi di pressione non era una soluzione; infatti, non
poteva che riguardare un universo molto piccolo. Il lato scuro del «paradiso
pluralista», ha scritto lo scienziato politico E.E. Schattschneider, «è che il
coro celeste canta con un forte accento upper-class. Probabilmente circa il 90
per cento della popolazione non è in grado di entrare nel sistema dei gruppi
di pressione». I partiti politici di massa avevano cercato di ridurre le
diseguaglianze individuali di risorse sociali ed economiche tramite l’organizzazione collettiva della forza dei numeri. Secondo lo scienziato politico
Walter Dean Burnham, il loro declino comportò il ritorno a uno «stato di
natura politico» in cui i differenziali di potere e di coscienza politica in una
società di classe poterono esprimersi senza controlli e mediazioni. Secondo
Burnham, l’erosione della base di massa del sistema politico fu una conseguenza della tensione fra capitalismo e democrazia; era desiderata dalle classi dirigenti per superare l’ostacolo che una società mobilitata e partecipante
poneva alla costruzione del consenso all’accumulazione capitalistica. Dagli
anni venti il processo si era completato. A un sistema elettorale che rendeva
l’esercizio del diritto di voto impossibile ai neri del Sud, difficile per i ceti
più popolari e facile per le classi medie, si accompagnava una struttura di
governo «oligarchica, sotto le sembianze retoriche e processuali della democrazia». E’ opportuno ricordare che neppure il riallineamento partitico degli
anni trenta, con i violenti scontri sulla politica di tipo socialdemocratico del
New Deal, l’eccezionale mobilitazione operaia e una polarizzazione di classe
senza precedenti, riuscì seriamente a intaccare il partito del nonvoto; i tassi
di partecipazione salirono fino al 62,5 per cento nel 1940, per poi ridiscendere
inesorabilmente. Gli Stati Uniti erano diventati (o forse erano tornati a essere, come alle origini della loro storia) una «repubblica di proprietari»72.
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TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
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Transformation of American Society, 1865-1920, Westport, Greenwood Press, 1990.
9. Discuto queste questioni nell’introduzione a A. Testi (a cura di), Gli Stati Uniti nell’età
progressista , 1896-1917, Bologna, Il Mulino, 1984; concordo con molte osservazioni di T.
Mason, Moderno, modernità, modernizzazione: un montaggio, in “Movimento operaio e socialista”, X, gennaio-agosto 1987.
10. W.D. Burnham, Critical Elections and the Mainsprings of American Politics, cit.; W.D.
Burnham, The System of 1896, in P. Kleppner et al., The Evolution of American Electoral
Systems, cit.; P. Bonomi, J.M. Burns , A. Ranney (a cura di), The American Constitutional
System Under Strong and Weak Parties, New York, Praeger, 1981; J.H. Silbey, Beyond
Realignment and Realignment Theory: American Political Eras, 1789-1989, in B.E. Shafer (a
cura di),The End of Realignment?, cit.
11. C.A. Befard, M.R. Beard, The Rise of American Civilization, 2 voll., New York, Macmillan,
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Stanford University Press, 1991, p. 2 (vedi inoltre le pp. 176-195 sul governo di partito);
J.H. Silbey, The Partisan Imperative: The Dynamics of American Politics Before the Civil War,
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12. R. Hofstadter, The Idea of a Party System: The Rise of Legitimate Opposition in the United
States, 1780-1840, Berkeley, University of California Press, 1969, pp. 256-257.
13. Per esempio, criticando il concetto di partito di integrazione sociale, contrapposto a
quello di partito di rappresentanza individuale, sviluppato (riprendendo anche qui una intuizione weberiana) nel ventennio fra le due guerre da Heinz Marr e poi da Sigmund Neumann,
due analisti tedeschi come Kurt Lenk e Franz Neumann ne hanno denunciato la “debolezza”
e “l’estrema limitatezza conoscitiva”, proprio in nome del fatto che era possibile includervi
“tanto i partiti americani, quanto quello laburista inglese con i suoi sindacati, la socialdemocrazia tedesca e il Centro”. Vedi K. Lenk, F. Neumann, Le tipologie dei partiti politici [1968],
in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1979, p. 251.
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Stati Uniti non c’è il socialismo? [1906], Milano, Etas, 1975, p. 34; M. Keller, Affairs of State,
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31. R. J. Jensen, Grass Roots Politics, cit., p.34.
32. M.E. McGerr, The Decline of Popular Politics, cit., pp. 14-22; T.C. Leonard, The Power of
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45. Nel 1910, il formato a party column era in vigore in 27 stati, quello a office bloc in 13.
Vedi A. Ludington, Present Status of Ballot Laws in the United States, cit., p. 259; L.E. Fredman,
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1980. Fra il 1910 e il 1912 il partito elesse più di 1.000 propri esponenti a cariche municipali
in circa 350 località. Conquistò l’amministrazione di alcune importanti città, fra le quali (nel
1910-1912) una metropoli di 350.000 abitanti come Milwaukee, nel Wisconsin. Nel 1912
Eugene Debs ottenne più di 900.000 voti alle elezioni presidenziali, circa il 6% del totale.
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55. Vedi A. Testi (a cura di), Gli Stati Uniti nell’età progressista, cit. Sul caso del Wisconsin
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2
57. La richiesta di strumenti di democrazia referendaria apparve nel 1892 nel programma
nazionale del Socialist Labor Party; nel 1896 in quelle del People’s Party e di nuovo del SLP;
nel 1900 anche in quella del Social Democratic Party (poi Socialist Party). Vedi D.B. Johnson,
K.H. Porter (a cura di), National Party Platforms, 1840-1972, Urbana, University of Illinois
Press, 1975, pp. 96, 105, 111, 128. A livello statale, per lo stato del Missouri, vedi D. Thelen,
Paths of Resistance: Tradition and Dignity in Industrializing Missouri, New York, Oxford
University Press, 1986, pp. 230-231; G.M. Fink, Labor’s Search for Political Order: The Political
Behavior of the Missouri Labor Movement, 1890-1940, Columbia, University fof Missouri
Press, 1973, pp. 13, 34-37.
58. C.A. Beard, Contemporary American History, 1877-1913, New York, Macmillan, 1914,
p. 286. Sulle origini della “democrazia diretta” negli Stati Uniti e sulle questioni politiche e
costituzionali da essa sollevate, vedi C.A. Beard, B. Schultz, Documents on the Initiative,
Referendum, and Recall in America , New York, Macmillan, 1911; C.A. Beard, American City
Government: A Survey of Newer Tendencies, New York, Century, 1912; E.P. Oberholtzer, The
Referendum in America: Together with Some Chapters on the Initiative and the Recall, New
York, Scribner, 1911; J.G. LaPalombara, C.B. Hagan, Direct Legislation: An Appraisal and a
Suggestion, in “American Political Science Review”, XLV, giugno 1951; T.E. Cronin, Direct
Democracy: The Politics of Initiative, Referendum, and Recall, Cambridge, Harvard University
Press, 1990.
59. A. Testi, La politica dell’esclusione, cit., pp. 126-134, 226-233; B.R. Rice, Progressive
Cities, cit., pp.72-76. Le valutazioni pessimistiche sull’impatto della democrazia diretta nel
governo delle città e degli stati sono in C.N. Glaab, A.T. Brown, A History of Urban America,
New York, Macmillan, 1967, p. 192; T.E. Cronin, Direct Democracy, cit., p. 250.
60. H. Croly, The Promise of American Life [1909], New York, Dutton, 1963, pp. 319-333
(la citazione è a p. 327); H. Croly, Progressive Democracy [1914], parziale trad. it. in O. Barié
(a cura di), Il pensiero politico nell’età di Wilson, Il Mulino, Bologna, 1961, pp. 99, 106, 104,
102. Croly era favorevole al referendum e alla revoca come strumenti generali di controllo,
ma non all’iniziativa e alle elezioni primarie dirette, troppo onerose per gli elettori; su questo
era in disaccordo con Roosevelt. Vedi C. Forcey, The Crossroads of Liberalism: Croly, Weyl,
Lippmann and the Progressive Era, 1900-1925, New York, Oxford University Press, 1961, pp.
41, 137.
61. R.H. Wiebe, The Search for Order, cit., p.129; T.C. Cochran, Business in American Life,
cit., p. 219; A. Testi, Il socialismo americano nell’età progressista, cit., pp. 150-157. Il “rapporto più intimo fra il popolo e il governo” era desiderato dai proibizionisti del Missouri; vedi
D. Thelen, Paths of Resistance, cit., p. 230.
62. D. Montgomery, Rapporti di classe nell’America del primo Novecento, cit., p. 109; M.A.
Mason Burki, I progressisti della California: il punto di vista del movimento sindacale, in A.
Testi (a cura di), L’età progressista negli Stati Uniti, cit.
63. D.R. Mayhew, Placing Parties in American Politics: Organization, Electoral Settings, and
Government Activity in the Twentieth Century, Princeton, Princeton University Press, 1986,
pp. 203-237; J.A. Schlesinger, The New American Political Party, in “American Political Science
Review”, LXXIX, dicembre 1985; M.C. Brown, C.N. Halaby, Machine Politics in America:
1870-1945, in “Journal of Interdisciplinary History”, XVII, inverno 1987. Recenti discussioni sulle urban machines includono S.P. Erie, Rainbow’s End: Irish-Americans and the Dilemmas
of Urban Machine Politics, 1840-1945, Berkeley, University of California Press, 1988; P.
96
TRIONFO E DECLINO DEI PARTITI POLITICI DI MASSA
McCaffery, Style, Structure, and Institutionalization of Machine Politics: Philadelphia 18671933, in “Journal of Interdisciplinary History”, XXII, inverno 1992; A.M. Martellone, Italian
Immigrants, Party Machines, Ethnic Brokers in City Politics, from the 1880s to the 1930s, in W.
Hölbling, R. Wagnleitner (a cura di), The European Emigrant Experience in the U.S.A., Tubinga,
Gunter Narr Verlag, 1992.
64. A.J. Reichley, The Life of the Parties: A History of American Political Parties, New York,
Free Press, 1992, pp. 170 (per la cit. di Hanna), 175-176, 236; M.E. McGerr, The Decline of
Popular Politics, cit., pp. 138-183; P. Kleppner, From Ethnoreligious Conflict to “Social
Harmony”, cit.; R. Jensen, The Winning of the Midwest, cit., pp. 269-308; R. Westbrook,
Politics as Consumption: Managing the Modern American Election, in R.W. Fox, T.J.J. Lears (a
cura di), The Culture of Consumption, cit.
65. S. Skowronek, Building a New American State, cit., p. 175.
66. G. Mink, Old Labor and New Immigrants in American Political Development: Union,
Party, and State, 1875-1920, Ithaca, Cornell University Press, 1986, pp. 204-260; R.D. Cuff,
Politica del lavoro e burocrazia federale durante la prima guerra mondiale, in A. Testi (a cura
di), Gli Stati Uniti nell’età progressista, cit.
67. Cit. da A. Testi, Amministrazione, efficienza e democrazia. L’educazione di un “public servant”
progressista, Charles McCarthy (1873-1921), in T. Bonazzi (a cura di), Potere e nuova razionalità. Alle origini delle scienze della società e dello stato in Germania e negli Stati Uniti, Bologna,
Clueb, 1982, p. 150. Vedi J.J. Huthmacher, Senator Robert F. Wagner and the Rise of Urban
Liberalism, New York, Atheneum, 1971; J.D. Buenker, Urban Liberalism and Progressive
Reform, New York, Scribner, 1973; R.F. Wesser, A Response to Progressivism: The Democratic
Party and New York Politics, 1902-1918, New York, New York University Press, 1986; D.
Sarasohn, The Party of Reform: Democrats in the Progressive Era, Jackson, University Press of
Mississippi, 1989.
68. Precisamente, il 49,3% nel 1920, il 48,9% nel 1924. Vedi A. Testi, La politica dell’eclusione,
cit. p. 10. A questo libro rinvio per una discussione più ampia del problema del nonvoto
negli Stati Uniti.
69. H. Eilau, The Politics of Happiness, cit.; M.E. McGerr, The Decline of Popular Politics, cit.,
pp. 184-210; A.M. Schlesinger, E.M. Erikson, The Vanishing Voter, in “The New Republic”,
15 ottobre 1924; C.E. Merriam, H.F. Gosnell, Non-Voting: Causes and Methods of Control,
Chicago, University of Chicago Press, 1924.
70. E.E. Schattschneider, The Semisovereign People: A Realist’s View of Democracy in America
[1960], Hinsdale, Dryden Press, 1975, pp. 96-107.
71. W.N. Chambers, P.C. Davis, Party Competition and Mass Partecipation: The Case of the
Democratizing Party System, 1824-1852, in J.H. Silbey, A.G. Bogue, W.H. Flanigan (a cura di),
The History of American Electoral Behavior, cit.; P. Kleppner, Who Voted?, cit., pp. 34, 63-70.
72. E.E. Schattschneider, The Semisovereign People, cit., pp. 34-35; W.D. Burnham, The
Turnout Problem, in A.J. Reichley (a cura di), Elections American Style, Washington (D.C.),
Brookings Institution, 1987, p. 133, 118, 127. Vedi inoltre W.D. Burnham, The Current
Crisis in American Politics, cit., pp. 46, 59, 72; V.O. Key, Jr., A Theory of Critical Elections,
cit.; F.F. Piven, R.A. Cloward, Why Americans Don’t Vote, cit.; F.F. Piven, Regole, partiti e
atteggiamenti politici: l’assenteismo elettorale americano in prospettiva comparata, in M. Vaudagna
(a cura di), Il partito politico americano e l’Europa, Bari, Laterza, 1991.
97
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE:
THEODORE ROOSEVELT E LA MASCOLINIZZAZIONE
DELLA POLITICA DELLE RIFORME
1. Un gioco da uomini, la politica delle donne
L’ingresso delle donne nell’arena politica negli Stati Uniti e quindi il passaggio da un universo politico esclusivamente maschile a un universo bisessuato sono questioni generalmente trascurate dal punto di vista della storia
generale. Esse attendono ancora di essere incorporate in un’analisi di largo
respiro delle trasformazioni della democrazia americana fra la fine dell’Ottocento e gli anni venti del Novecento. La conquista del suffragio femminile nel
1920 non può essere considerata semplicemente come l’estensione del diritto
di voto a individui che ne erano stati privi fino a quel momento. Un simile
approccio sarebbe inconcepibile in qualunque seria indagine sull’avvento del
suffragio universale maschile nell’età jacksoniana, oppure sui successivi
allargamenti dei diritti di cittadinanza agli ex schiavi, agli immigrati e poi ai
neri degli stati del Sud negli anni sessanta. E’ parte del senso comune storico
che si trattasse di svolte epocali che, mutandone le coordinate censitarie, etniche e di razza, mutarono sostanzialmente la qualità dell’intera vita pubblica
nazionale, regionale, locale. Questi cambiamenti ebbero effetti drammatici e
visibili. Produssero immagini che sono tra le più vivide nella memoria storica
nazionale: la nascita dei partiti popolari di massa negli anni trenta dell’Ottocento, ovvero l’invasione della Casa bianca da parte della folla al seguito del
presidente Andrew Jackson nel 1829; l’invenzione dei partiti urbani a base
etnica con la fortissima presenza degli immigrati; gli schiavi emancipati che
divennero legislatori nel periodo della ricostruzione post-guerra civile; la rottura del monolitismo democratico, bianco e razzista, nel Sud e l’emergere di
un nuovo partito repubblicano dopo la rivoluzione dei diritti civili. Niente di
tutto questo accadde per le donne negli anni venti; non ci furono conquiste
simboliche di località simboliche, costruzioni di organizzazioni politiche di
nuovo tipo, macchine elettorali controllate da donne, invasioni femminili di
assemblee legislative, riallineamenti di partito. Eppure sembra ragionevole
supporre che il XIX Emendamento alla Costituzione, e il lungo percorso per
giungere alla sua approvazione, sconvolgendo la base di genere della politica,
99
CAPITOLO
3
avesse importanti implicazioni (in gran parte ancora ipotetiche in quanto
inesplorate, e d’altra parte inesplorate perché poco visibili) per il sistema nel
suo complesso.
Per sviluppare queste suggestioni, è necessario fare ricorso al linguaggio del gender, del genere come costruzione storica della differenza sessuale,
e verificarne l’utilità al di là del campo della storia delle donne, dove è stato
forgiato. E’ necessario rompere la barriera che separa il lavoro di ricerca di
un’intera generazione di storiche delle donne da quello del resto dei e delle
praticanti la disciplina. Negli ultimi vent’anni, la women’s history ha restituito concretezza e visibilità alla esperienza storica delle donne; ha reso più
complesso il passato popolandolo di nuovi soggetti attivi, capaci di uno
sguardo autonomo e specifico sulla realtà. Ma non solo: assumendo il punto
di vista parziale di questi soggetti come chiave di interpretazione storiografica,
ha anche cambiato il modo in cui tutto il passato può essere percepito dagli
osservatori. Nel momento in cui ha affermato esplicitamente la parzialità
del proprio approccio, la storia delle donne ha messo in crisi la pretesa universalità della moderna tradizione storica; con toni militanti, ne ha rivelato
il carattere non di «storia umana» bensì di storia scritta dagli uomini, per gli
uomini, sugli uomini, con tutte le conseguenze che ciò ha avuto nel dettare
domande, priorità, periodizzazioni, inclusioni ed esclusioni. D’altra parte,
nel momento in cui ha sottolineato la dimensione non naturale ma sociale e
relazionale dell’identità femminile, ha sollevato il problema della (complementare, conflittuale) identità maschile, e ha indotto un nuovo interesse
per la storia degli uomini in quanto uomini. La women’s history ha insomma
creato le condizioni per i timidi inizi di una men’s history altrettanto consapevole della propria parzialità. Prendere sul serio la storia delle donne, la
storia degli uomini, e quindi la categoria di genere, e i modi in cui essa
interseca altre categorie analitiche (classe, razza, etnìa, nazionalità, cultura
politica), offre l’opportunità di gettare nuova luce su questioni centrali a
tutta la discussione storiografica cosiddetta generale di questi anni. Comprendere il significato dei sessi, dei gruppi di genere nel passato storico,
ovvero della gamma dei ruoli sessuali e del simbolismo sessuale in società
diverse in periodi diversi, può aiutare a far emergere relazioni, tensioni, conflitti finora invisibili, e a individuare nuove ipotesi sulle forze che hanno
contribuito a mantenere l’ordine sociale o a promuoverne il cambiamento1.
Che negli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento i confini dell’universo politico democratico fossero marcati da criteri di genere è un fatto
ovvio, spesso troppo ovvio per essere problematizzato. Elettori ed eletti non
100
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
erano individui astratti; come avevano chiarito gli estensori del XIV Emendamento (1868), introducendo per la prima volta esplicite distinzioni sessuali nel testo della Costituzione, si trattava di «cittadini maschi»2. Le tecniche di mobilitazione e partecipazione, le scelte di governo, le stesse
concettualizzazioni di ciò che era politica e di ciò che non lo era, riflettevano
rapporti di potere fra i sessi, e a loro volta li condizionavano e plasmavano.
Nel regime del suffragio «universale» e della elevatissima affluenza alle urne,
l’esercizio del diritto di voto era un fattore determinante nella definizione
interclassista della virilità. In un sistema fondato sulla politica di partito, il
lavoro di partito era un privilegio e un attributo della mascolinità, e veniva
condotto in templi maschili fossero essi popolari come il saloon e il barbershop
oppure middle-class come il club sociale. Tutto il discorso politico era intessuto
di figure retoriche mutuate da quell’altra esperienza maschile, la guerra. Walt
Whitman, che pure era un sostenitore della «perfetta eguaglianza delle donne», immaginava la democrazia come il trionfo della manliness; più precisamente, come il trionfo di una comunità omoerotica rinsaldata dall’«amore
virile di compagni». Secondo una celebre massima di Mr. Dooley, la satirica
creatura di Finley Peter Dunne, «La politica non è noccioline. E’ un gioco
da uomini; e le donne, i bambini e i proibizionisti farebbero bene a starne
fuori»3. L’arena politica era rigidamente difesa dalle incursioni femminili,
era una «fortezza maschile»; e la subordinazione femminile era parte integrante della cittadinanza maschile4. Ma non solo: la struttura degli stereotipi
sessuali era così forte da condizionare stili e contenuti della partecipazione
civica anche degli uomini. I «proibizionisti», cioè i riformatori morali, avevano difficoltà a trovare legittimazione al loro operato anche quando appartenevano al sesso giusto. Il fondamento culturale di questo linguaggio
era la dottrina, largamente diffusa nel ceto medio vittoriano, che attribuiva
ai due sessi due sfere naturali di attività, separate e distinte nell’arena pubblica, unificate nella e dalla istituzione familiare. Era all’uomo aggressivo,
indipendente e autosufficiente che competeva la politica, intesa strettamente come politica elettorale e di partito, e l’economia, intesa secondo i canoni
del laissez faire. Alla donna virtuosa, altruista, fragile e sensibile spettava
invece la cura del focolare domestico, della morale, degli ideali, della cultura, dell’istruzione5.
Intorno al volgere del secolo questo mondo cominciava a mostrare crepe vistose. Ben prima del suffragio, forti movimenti femminili di massa
elaborarono un approccio critico alla vita pubblica maschile, portandovi un
patrimonio storico di istituzioni sociali e pratiche politiche che si era svilup101
CAPITOLO
3
pato in maniera autonoma. Questi movimenti avevano alcuni caratteri comuni. Erano costruiti intorno a tematiche (temperanza e comportamento
sessuale, assistenza e riforma sociale, scuola e istruzione, qualità dei prodotti
di consumo) che erano radicate nella retorica della «sfera della donna» ma
che, nel contempo, la trascendevano. Avevano modi di organizzazione (società filantropiche e religiose, club e leghe, movimenti almeno apparentemente monotematici) che uscivano dai canoni accettati dell’agire politico
democratico ottocentesco. Elaborarono visioni del mondo che complessivamente mutarono e allargarono i confini stessi di ciò che poteva essere considerato «pubblico». Gruppi di donne, appartenenti soprattutto alle classi medie
e superiori, usarono il linguaggio della maternità per includere nel discorso
politico aree delle vita sociale e familiare che erano state fino ad allora luoghi di esercizio del loro lavoro volontario individuale o collettivo. In nome
della difesa della famiglia, uscirono dalle famiglie, e investirono dei problemi che stavano loro a cuore direttamente lo stato. In nome della difesa dei
valori femminili, acquistarono capacità organizzative e di leadership, e proiettarono immagini non convenzionali di indipendenza e sicurezza di sè, che
in parte erano associate all’esperienza maschile e in parte riflettevano stili di
attivismo fondati su intensi rapporti di solidarietà fra donne6. In nome della
loro differenza, di loro specifiche missioni e qualità, in molte giunsero a
rivendicare il diritto di voto; per ottenerlo, e nell’attesa di ottenerlo, adottarono tecniche di mobilitazione e influenza che ignoravano, anzi, tendenzialmente spiazzavano i partiti e le loro strategie elettorali. La richiesta del
suffragio aveva storicamente una portata radicale, in quanto metteva in discussione l’unità politica della famiglia e creava problemi di identità alle
stesse donne. Era tuttavia solo la punta dell’iceberg di un profondo rivolgimento sociale e politico che sembrava investire le regole di funzionamento
dell’intero sistema7.
2. Il genere della politica
Il movimento proibizionista e la sua principale organizzazione, la
Women’s Christian Temperance Union (fondata nel 1874, con 150.000 iscritte nel 1892), offrono una illustrazione esemplare di questi percorsi sociali e
politici. Il proibizionismo era, secondo la stampa popolare, una «guerra di
donne». La WCTU era, nelle parole della sua esponente più nota e importante, Frances Willard, una associazione delle donne, guidata dalle donne,
per il bene dell’intera umanità; era una espressione della «politica del cuore
materno», ovvero, secondo un’altra dirigente, Hannah Whitall Smith, era
102
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
«amore materno organizzato». All’inizio del Novecento un’accesa militante
proibizionista come Carrie Nation sostenne che tutto il mondo era un grande focolare domestico, e che quindi il posto della donna era ovunque; Nation
si faceva chiamare «Home Defender» e in nome di questo suo titolo andava
in giro a distruggere osterie a colpi di accetta (una «Home Defender» sul
sentiero di guerra nella pubblica piazza). La politica della WCTU nasceva
dunque come espressione collettiva e organizzata di valori domestici, in difesa dell’unità della famiglia, per la «protezione della casa», un compito riconosciuto come parte della sfera femminile. Il saloon maschile era una minaccia a questa sfera, l’uomo che beve, una causa di miseria umana e disordine
sociale. E tuttavia per abolire i saloons erano necessarie le leggi, e le leggi le
facevano gli uomini. La conclusione sembrava inevitabile. Una delle prime
risoluzioni della WCTU affermò che, siccome le donne erano fra coloro che
soffrivano di più per il commercio degli alcolici, e siccome questo commercio poteva essere messo fuorilegge solo con la scheda elettorale, le donne
cristiane d’America si rivolgevano a dio e agli uomini di buona volontà affinché la questione venisse sottoposta al voto di tutti i cittadini adulti, senza
distinzione di razza, colore o sesso. Fu in nome di questa logica che molte
donne si impegnarono nelle campagne elettorali dei candidati proibizionisti, e alcune militarono nel Prohibition Party, che era stato il primo partito
a chiedere il voto per le donne fin nel 1872. Fu in nome di questa logica che
la WCTU allargò la propria sfera di azione, accettò la necessità del suffragio
femminile e si impegnò a favore di altre riforme sociali e politiche. Alla fine
dell’Ottocento, il messaggio che l’associazione lanciava alle proprie iscritte
era questo: «Do Everything», fate tutto, impegnatevi in tutto8.
Un caso analogo è costituito dal movimento delle ladies’ associations,
degli women’s clubs. Queste organizzazioni erano nate all’inizio dell’Ottocento con vari scopi religiosi, caritatevoli, di svago. Si rivolgevano soprattutto alle donne della classe media e superiore urbana che avessero tempo libero, aspirazioni sociali e gusti da coltivare, laddove la WCTU raccoglieva
anche donne delle campagne e degli strati popolari. Offrivano alle signore
occasioni per ascoltare letture di poesia e concerti di musica da camera, e per
organizzare feste di beneficienza. I circoli erano numerosissimi; la storica
Anne Firor Scott ne ha contati cinquanta nella sola cittadina di Portland,
nello stato del Maine, nel 1890. In quello stesso anno fu fondata la General
Federation of Women’s Clubs (GFWC), che vent’anni dopo avrebbe contato circa 800.000 iscritte. Lo statuto della federazione prevedeva la costituzione di una rete nazionale di club per la diffusione della conoscenza lettera103
CAPITOLO
3
ria, artistica e scientifica; ma ben presto il tenore delle riunioni cambiò.
Cambiò perché molte di queste donne e molte di queste associazioni cominciarono a essere attive nei movimenti di riforma sociale, in nome di ciò
che cominciarono a chiamare municipal housecleaning. Così come le donne
avevano il compito e il dovere di aver cura della casa, di tenerla fisicamente
pulita e moralmente sana, così avevano il dovere e il diritto di ripulire la
sordida realtà urbana, fatta di miseria materiale e degradazione morale per le
donne, per i bambini, per le famiglie. Chiesero asili nido, biblioteche, parchi, centri di assistenza per le ragazze-madri e per la riabilitazione delle prostitute. Si scontrarono con le autorità comunali, spesso poco sensibili alle
loro pressioni, sensibili invece alle pressioni elettorali. Arrivarono quindi a
battersi per il suffragio femminile per poter realizzare i loro programmi, per
poter trasformare le loro preoccupazioni di donne e di madri in leggi e riforme operanti. Nel 1904 fu eletta presidente della GFWC una suffragista,
Sarah Platt Decker, che affermò nel discorso di insediamento: «Signore, mi
aveve scelto come vostra dirigente. Bene, ho un’importante notizia da darvi.
Dante è morto. E’ morto parecchi secoli fa, e credo che sia tempo di smettere di studiare il suo Inferno e di pensare un poco di più al nostro»9.
La giustificazione della presenza attiva delle donne nell’arena pubblica
in nome della cultura delle sfere separate, che in linea di principio avrebbe
dovuto inibirla, era un fenomeno diffuso. Alla fine dell’Ottocento, divenne
una delle ragioni più popolari, a livello di massa, per la richiesta del suffragio femminile. Una delle straordinarie protagoniste del periodo, Jane Addams,
articolò con precisione queste ragioni. Addams era l’esponente più in vista
del movimento dei social settlements, che portò parecchie donne a impegnarsi nella costruzione di centri sociali nei quartieri poveri delle città, a fornire
opera di assistenza quotidiana ma anche strumenti intellettuali e organizzativi per trasformare la povertà in un problema politico e per chiedere legislazione sociale. Addams accettava il fatto che il posto della donna fosse dentro
le mura domestiche, e che fosse «impossibile» immaginare il tempo in cui
questo fatto sarebbe cessato. E tuttavia, scrisse nel 1910,
oggi molte donne non riescono ad assolvere propriamente i loro doveri nei confronti della famiglia semplicemente perché non si rendono conto che, man mano
che la società diventa più complessa, è necessario che la donna estenda il suo senso
di responsabilità a molte cose che succedono fuori della famiglia, se vuole continuare a difendere il focolare domestico nella sua interezza.
Nelle metropoli, per esempio, non era più possibile aver cura della casa
senza discutere in maniera informata e intelligente il funzionamento dei
servizi pubblici per la pulizia delle strade e la raccolta dei rifiuti; non era più
104
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
possibile educare i figli senza discutere di scuole e di leggi contro il lavoro
infantile nelle fabbriche. Non era più possibile considerare le municipalità
solo come imprese d’affari, quando erano anche forme di enlarged
housekeeping. E allora, concluse Addams, se la donna voleva rimanere fedele
alla sua antica vocazione domestica, doveva acquistare coscienza degli affari
pubblici: «La coscienza e la devozione individuale non bastano più». Per
restare nella tradizione, la donna avrebbe dovuto fare qualcosa che andava
contro le tradizioni, e cioè conquistare il suffragio e usarlo, «depositare un
pezzo di carta in un’urna elettorale»10.
La tensione fra ruoli tradizionali e nuovi compiti, per quanto addomesticata dalla retorica della sfera pubblica come estensione della dimensione
familiare, era comunque evidente. E rinviava a una crescente percezione
non tanto delle possibilità quanto dei limiti dei ruoli domestici. Addams
stessa aveva vissuto queste tensioni nella sua esperienza personale ed era
stata costretta, come parecchie donne istruite della sua generazione e classe
sociale, ad alcune drammatice scelte. In una conferenza del 1892 sulla Necessità soggettiva del Social Settlement, descrisse con efficacia le frustrazioni
delle giovani donne che uscivano dal college e non trovavano spazi adeguati
alle loro acquisite capacità e al loro «desiderio di agire»; anzi, si sentivano
risucchiate dal «richiamo della famiglia», dal ricatto e dal senso di colpa. La
scelta di Addams fu, per un verso, di non rispondere a questo richiamo e di
condurre una vita indipendente; per un altro verso, di costruire una famiglia di tipo diverso, una comunità di donne attiviste (il social settlement,
appunto) caratterizzata da intensi rapporti emotivi e dall’assenza di una figura patriarcale11. Altre donne fecero o furono costrette a fare, per seguire
vocazioni e carriere professionali o per inseguire la necessità di un posto di
lavoro, scelte di indipendenza meno radicali ma comunque osservabili. Le
donne laureate, per esempio, non solo si sposavano più tardi e facevano
meno figli della media, ma anche si sposavano meno e vivevano da sole. Nel
1916 la sociologa Jessie Taft cercò di spiegare perché donne di questo tipo
fossero sempre meno attratte dalle «restrizioni del matrimonio», e giunse
alla conclusione che ciò era in parte dovuto alla loro «scoperta che è pur
sempre possibile avere una casa e della compagnia». Proseguì Taft:
Ci imbattiamo ovunque in donne non sposate che si rivolgono ad altre donne,
costruiscono con loro un vero e proprio focolare domestico, e trovano in loro la
simpatia e la comprensione, e quei legami che derivano da idee e valori simili e da
comuni interessi estetici e intellettuali, che sono spesso così difficili da trovare in un
marito, soprattutto in America.
105
CAPITOLO
3
Fenomeni del genere si verificarono anche fra operaie e infermiere, commesse e maestre; vivere da sole, fuori dalla famiglia patriarcale almeno per
una fase della vita, fu spesso una necessità penosa ma anche, sempre di più,
un’area di di autonomia da valorizzare12.
Per queste donne, fossero professioniste del ceto medio o lavoratrici salariate, che avevano un rapporto con la sfera pubblica non mediato da alcuna
istituzione familiare, l’idea della sfera separata femminile cominciava a perdere di senso. Fu fra di loro che trovò consenso una seconda giustificazione per
la rivendicazione del suffragio, che non faceva riferimento alle «speciali» qualità della donna derivanti dal suo ruolo familiare, bensì ai suoi diritti in quanto individuo. Nella maggioranza degli stati, dall’inizio del Novecento, questi
diritti erano stati riconosciuti almeno sul piano civile ed economico; la donna,
persino la donna sposata (e questo era il vero problema, in quanto toccava
l’unità della famiglia), poteva essere titolare di diritti di proprietà, fare testamento, stipulare contratti e iniziare processi, disporre dei propri guadagni e
della dote. Si trattava di una vera rivoluzione legale, iniziata negli anni trenta
dell’Ottocento, che sottolineava come la società e il mercato fossero formati
non di nuclei familiari ma di cellule individuali. Secondo la suffragista
newyorkese Mary Putnam Jacoby, ormai anche le donne erano messe in diretto rapporto con lo stato, indipendentemente dai mariti e dai figli, indipendentemente dal fatto di essere mogli e madri; erano «unità» nel corpo politico,
persone con piena responsabilità legale e individuale, pagavano le tasse e volevano essere rappresentate. Scrisse Jacoby nel 1894:
Noi contiamo di mostrare che la concessione del suffragio alle donne sarà di utilità
pratica in innumerevoli direzioni; ma sarebbe uno sminuire indegnamente la nostra causa se aspirassimo a introdurlo con il motivo che potrebbe servire a promuovere qualcos’altro. Noi domandiamo il suffragio come un Diritto - non in un senso
metafisico - ma perché in effetti soddisfiamo tutte le condizioni essenziali che lo
Stato ha proclamato necessarie per avere accesso all’elettorato.
Tutto ciò non voleva dire dimenticare le differenze fra i generi; le donne desideravano il voto non per essere uomini bensì «perché sono - e sono
del tutto soddisfatte di essere - donne». L’approccio alla questione era quindi complesso. «Nella misura in cui le donne assomigliano agli uomini», concludeva Jacoby, «esigono le stesse libertà; nella misura in cui ne differiscono,
esigono una loro rappresentanza specifica»13. Questo linguaggio apparteneva alla tradizione delle organizzazioni suffragiste ottocentesche che, come la
National Woman’s Suffrage Association (NWSA) di Susan B. Anthony e
Elisabeth Cady Stanton, non avevano mai fondato il loro lavoro politico
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
sulla cultura delle sfere separate. Dopo il 1900, fu questo linguaggio che
ispirò l’attivismo militante di nuove associazioni (la College Woman Suffrage
League o la Women’s Trade Union League), della rifondata National American
Woman’s Suffrage Association (NAWSA), di nuovi gruppi radicali come la
Congressional Union for Woman Suffrage e il Woman’s Party di Alice Paul,
che caratterizzò le ultime fasi della battaglia prima della vittoria.
Come gli uomini reagissero a questo vero e proprio assalto è una questione che comincia a essere indagata in maniera sistematica. Gli studi disponibili di men’s history sembrano disegnare, per i maschi di tutte le classi
sociali, un quadro omogeneo e non sorprendente. Il nuovo protagonismo
femminile fu da loro vissuto come una sfida a consolidati privilegi politici e
tranquillizzanti prerogative sessuali, come una minaccia alle sfere separate
che avrebbe non solo mascolinizzato le loro donne ma anche attentato alla
loro virilità. Ci furono naturalmente delle eccezioni, piccoli gruppi di uomini che, per esempio, parteciparono in prima fila alle battaglie per il suffragio femminile, che furono fra i firmatari della dichiarazione sui diritti
delle donne di Seneca Falls del 1848, e che si impegnarono per decenni
nelle attività della NAWSA. Nel 1910 alcuni uomini, fra i quali personalità
come lo scrittore William Dean Howells e il filosofo John Dewey, fondarono una Men’s League for Woman Suffrage, e cominciarono a parlare (alcuni
di loro) dei limiti di una «democrazia maschile». In un pamphlet del 1912,
Edward J. Ward riprese il linguaggio delle sfere separate secondo l’interpretazione che ne avevano dato i movimenti femminili e lo usò per costruire un
discorso paradossale diretto agli uomini. Certo, affermò Ward, le donne
dovrebbero stare al loro posto, non invadere lo spazio degli uomini. E tuttavia, nel mondo moderno, ciò che era rimasto del tradizionale spazio maschile era molto poco, solo la guerra, comunque la violenza. Quando non si
trasformava in consiglio di guerra, il governo era diventato lo strumento di
attività civiche ed educative, di promozione di servizi sociali e del benessere
dei cittadini: «in altre parole, il governo era diventato sempre di più l’organizzazione della sfera della donna». Per questo era assolutamente appropriato che le donne avessero il diritto e il dovere di votare. Il vero problema era
che cosa fare degli uomini, per migliaia di anni abituati ad attività egoiste,
ostili, distruttive, intrinsecamente estranee agli scopi e ai metodi della gestione della cosa pubblica. Per fortuna concluse Ward, l’uomo era pur sempre «il figlio di sua madre» e quindi potenzialmente capace di rendere servizi
utili. Insomma:
Anche gli uomini dovrebbero votare nel governo moderno, benché questo appartenga
alla sfera della donna, perché - be’, per una serie di ragioni: pagano le tasse come le
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CAPITOLO
3
donne e dovrebbero avere voce in capitolo su come il denaro viene speso; devono
obbedire le leggi come le donne, e dovrebbero poter dire la loro su come farle; e
comunque, non sarebbe onesto avere un regime governato da un solo sesso e far
finta di vivere in una democrazia14.
Nella stragrande maggioranza, tuttavia, gli uomini sembrarono dapprima trincerarsi nel rifiuto e nella resistenza. Alcuni di loro temevano, come
riferì la social worker Lillian Wald, che «quando le donne avevano il voto si
tagliavano i capelli e vestivano abiti da uomo; la voce si inaspriva»15. Più
tardi, molti uomini furono costretti a una parziale ridefinizione di se stessi,
al compromesso e all’inquieto adattamento ai fatti della vita, di cui l’approvazione dell’emendamento emancipazionista da parte di assemblee legislative maschili fu solo l’aspetto più eclatante. Ciò che non è ancora chiaro è
come le diverse reazioni maschili si traducessero in concrete strategie individuali, collettive, politiche, e istituzionali di conflitto e di risoluzione del
conflitto; e quindi, più in generale, come il conflitto di genere e sulla definizione dei generi (la «battaglia dei sessi», secondo il linguaggio del tempo)
plasmasse gli sviluppi complessivi della vita pubblica del paese. Nasce forse
anche dal cuore di questo scontro il moderno Welfare State, di cui le donne,
in quanto militanti di movimenti di riforma sociale ma anche impiegate e
funzionarie di enti amministrativi statali e federali, furono utenti e attive
proponenti16? Si annida forse qui una delle ragioni della trasformazione della politica di partito e delle forme di partecipazione, soprattutto del declino
dei partiti politici di massa che erano nati come «partiti di uomini», non
solo geneticamente incapaci di accomodare la politica delle donne ma costruiti per escluderla17? E’ possibile che affermazioni come questa di Frances
Willard, «I partiti non servono a niente, valgono quanto un mucchio di
barattoli di latta» (1896), avessero più che un valore episodico e strumentale
e investissero invece la rilevanza stessa della forma partito in una democrazia
non solo maschile18? E’ possibile che in certi momenti si delineasse un conflitto sul genere della politica, per esempio fra partito «maschile» e riforma
«femminile», che dovette essere in qualche modo ricomposto nel nuovo ordine degli anni venti e trenta19?
3. Autobiografia di un self-made male
Alcune risposte a queste domande possono essere suggerite da un’indagine sul modo in cui si confrontò con questi problemi uno degli uomini più
noti dell’inizio del secolo, Theodore Roosevelt. Nella sua autobiografia, egli
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
presentò al pubblico una storia personale emblematica di contraddizioni
superate, con fatica ma anche con successo; la storia di un gentleman aristocratico che si immerse nei luoghi della vita democratica popolare maschile,
di un politico di partito (repubblicano) che divenne il primo presidente
moderno (1901-1909) dello stato riformato, del fondatore di un partito di
tipo nuovo (il Progressive Party del 1912) che accettava le donne nei propri
ranghi, il suffragio femminile e il riformismo sociale nel proprio programma, e il maschilismo nella propria retorica elettorale. Roosevelt, insomma,
voleva essere un campione di virilità e di riforma, una combinazione simbolica che era allora assai poco convenzionale; e riuscì a plasmare la propria
immagine pubblica a questo scopo, e non solo per gli americani. Fra gli
osservatori stranieri, la percezione di Roosevelt come di un riformatore virile era altrettanto immediata di quella che si aveva di lui come un virile
imperialista. Durante due suoi brevi e teatralissimi soggiorni in Italia, nella
primavera del 1909 e in quella dell’anno successivo, la stampa nazionale lo
celebrò subito come «un uomo dall’aspetto maschio», una «bella figura muscolosa e dinamica», il «formidabile Teddy» aggressivo imperialista e vigoroso riformatore della vita nazionale, un poderoso combattente. Roosevelt fu
presentato agli italiani come l’autore di quel saggio «dal fiero titolo», The
Strenuous Life, tradotto in italiano nel 1904 come Vigor di vita. Fu salutato
come il grande cacciatore bianco, un «esterminatore di elefanti e di leoni»:
le sue visite italiane, dopo tutto, non erano altro che soste secondarie all’andata e al ritorno di un viaggio in Africa orientale, di una battuta di caccia
grossa che doveva ritemprarlo delle fatiche del mandato presidenziale appena concluso20.
Accogliendolo ufficialmente in Campidoglio nell’aprile del 1910, il sindaco di Roma Ernesto Nathan sottolineò come non era solo nelle giungle
equatoriali che Roosevelt aveva fatto sfoggio delle sue maschie virtù:
Questo uomo, che ha testè cacciato, colla sua audacia abituale, le bestie selvaggie
delle foreste dell’Africa, ne ha cacciate molte altre e più pericolose, esponendo la sua
vita, la sua reputazione, la sua tranquillità, nel suo paese natale. S’egli è entrato alla
Casa Bianca, si deve credere che fosse per imbiancarla.
Nathan paragonò l’ospite americano all’imperatore Marco Aurelio, la
cui statua equestre si ergeva non lontano da lì, nella piazza del Campidoglio: un filosofo e un guerriero, un guerriero-filosofo. A quello stesso ricevimento romano l’ex presidente degli Stati Uniti affascinò anche Guido
Podrecca, il giornalista socialista dell’«Avanti!» e dell’«Asino» che sarebbe
diventato un ammiratore di Benito Mussolini. Negli anni venti molti ame109
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ricani avrebbero associato il duce fascista a Teddy Roosevelt; entrambi sembravano avere l’istinto per la leadership carismatica, per l’azione diretta e
immediata, per giocare il ruolo dell’eroe maschile del muscolo e della mente. Nel 1910 Podrecca descrisse il suo incontro con Roosevelt in modi molti
simili a quelli che sarebbero stati usati in seguito per simili incontri con
Mussolini:
L’ex presidente degli Stati Uniti, che tanto riempie ancora di sé la grande Confederazione, non ha caratteristiche marcate nel viso. Baffi biondi, faccia chiara, sagoma
teutonica; potrebbe essere scambiato - più che per un inglese - per un buon direttore di bureau di Zurigo o di Berlino… Ma io cercavo. Cercavo ed ho trovato. Dietro
le lenti spesse, un occhio sicuro, forte, indagatore. Un occhio che penetra e sonda.
Un occhio che vede e prevede: acuto, imperioso, immenso nella sua piccolezza,
luminoso come smeraldo. Occhio d’acciaio terso, come l’anima. Dietro gli occhiali,
ho visto l’uomo, il grande uomo21.
Si trattava di una miscela di fisicità esuberante, potenza spirituale, modi
aristocratici e dimestichezza con l’esercizio intellettuale che ebbe un effetto
galvanizzante sugli osservatori italiani, e che era stata segnalata con interesse
fin dal settembre del 1901, quando Roosevelt si affacciò improvvisamente e
in circostanze tragiche sulla scena politica nazionale e internazionale. I primi affrettati ritratti drammatizzarono con chiarezza le «qualità contradditorie»
ma in lui «armonicamente» contemperate della sua personalità. Era «uomo
dedito alla studio e allo sport, amministratore vigilante e cacciatore instancabile, soldato di grande coraggio e scrittore d’alto valore», ovvero «un misto di uomo colto e di libero cavaliere delle praterie». Aveva avuto inoltre il
«bel coraggio» di nascere da genitori di famiglia ragguardevole, «di sangue
bleu», e di aver frequentato una scuola privata: «tutto ciò di più
antidemocratico che si può immaginarsi in una repubblica… democratica».
Era un intellettuale che cercava l’avventura virile; un laureato di Harvard
che nel bere poteva dare dei punti a chiunque, un boxer che aveva «qualche
cosa d’un ex-bouquet alla Guglielmo II». Proprio per questo era esaltato dal
«Corriere della sera» come un uomo «Moderno! Terribilmente moderno!», e
come il primo presidente veramente «neo-americano». Ma Roosevelt non
era sempre stato così. Se gentleman lo era per natura e per nascita, un cowboy
lo era diventato artificialmente, per calcolo e pura determinazione. Che fosse «venuto al mondo gracile di costituzione, mingherlino e malaticcio», e
che solo «una forte educazione fisica» avesse fatto «del debole fanciullo un
adolescente vigoroso, rotto a tutti gli esercizi, a tutte le fatiche», era già un
dato essenziale della sua biografia pubblica22.
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
Di questa biografia attentamente costruita Roosevelt ripropose tutti gli
elementi nell’esemplare testo autobiografico del 1913. Nei primi capitoli
delineò i contorni di una educazione virile insieme muscolare e spirituale,
difficile ma alla fine trionfante in quel «Vigor of Life» la cui formulazione
egli mutuò con entusiasmo dalla traduzione italiana di The Strenuous Life.
Era stato un bambino «delicato», segnato dall’asma, dalla miopia, e da una
generale «goffaggine e mancanza di disinvoltura»; un bambino di troppe ed
«effemminate» letture, ardente divoratore di letteratura per ragazze. Vissuto
negli agi, era cresciuto «nervoso e timido», senza quella «naturale prodezza
fisica» che gli avrebbe permesso di affrontare con tranquillità il contatto con
i coetanei provenienti «da ambienti più rudi». Ammirava gli eroi romanzeschi, maschili e senza paura, e le gesta dei suoi stessi antenati sudisti; desiderava essere come loro, ma fin quasi a quattordici anni quel desiderio rimase
un sogno a occhi aperti. Poi, la svolta: dopo uno dei ricorrenti attacchi d’asma,
sulla carrozza che lo conduceva in una località di villeggiatura, incontrò un
paio di ragazzi della sua età ma molto più vivaci e robusti di lui. Divenne
subito la vittima predestinata dei loro scherzi grossolani, incapace com’era
di difendersi e di reagire; la cosa peggiore, ricordò, fu la scoperta che «ciascuno di loro poteva non solo trattarmi con superiorità e commiserazione,
ma anche farlo senza malmenarmi troppo e comunque impedendomi di
nuocere loro in qualunque modo». L’umiliazione subita lasciò il segno. Il
giovane Roosevelt decise che ciò che gli mancava come dote innata, avrebbe
cercato di conquistarlo con la forza di volontà. Con il consenso del padre
cominciò a praticare la boxe, e molto lentamente acquisì fiducia nel proprio
corpo; divenne quindi, con buoni risultati ma senza eccellere, pugile e lottatore, arrampicatore e camminatore, cavaliere e cacciatore, giocatore di polo
e di tennis. L’insistenza sul training e la fatica, sulla determinazione e sulla
riottosità di un corpo non naturalmente dotato, costituiscono il filo conduttore di questa sofferta metamorfosi23.
Roosevelt ne ricavò alcune lezioni di vita. Esistevano per lui due tipi di
successo. Il primo derivava dal talento, un premio per pochi; il secondo era
alla portata di tutti coloro che lo volessero con sufficiente fermezza. I suoi
successi erano del secondo tipo, ottenuti con «duro lavoro» e «attenta pianificazione», con un penoso addestramento delle virtù fisiche ma anche di
quelle «morali»: freddezza di giudizio, disciplinamento delle emozioni, padronanza di sé. «Se un uomo ha in sé la stoffa giusta», scrisse, «la sua volontà
diventerà sempre più forte, man mano che la esercita». Tanto dispendio di
energia e intelligenza aveva uno scopo preciso. Roosevelt voleva essere «ac111
CAPITOLO
3
cettato» dagli uomini «come un amico e compagno», come uno di loro. Ma
gli uomini con i quali desiderava misurarsi non erano quelli della sua classe
sociale, i compagni di studi di Harvard, i giovani upper-class del suo ambiente newyorkese, con i quali condivideva stili di vita e abitudini intellettuali. I «veri» uomini erano invece i rudi ragazzi che lo avevano umiliato
sulla carrozza della sua adolescenza, e poi i maestri di pugilato e di equitazione, i rough riders che avrebbe guidato nelle cariche di cavalleria a Cuba, i
party politicians plebei dei bassifondi metropolitani, ovvero i cow boys delle
praterie. Fra i cow boys visse qualche tempo negli anni ottanta, conducendo
nel suo ranch del Dakota «una vita libera e dura, con cavalli e fucili», una
vita senza recinti che «insegnava a un uomo la fiducia in se stesso, la durezza
e il valore delle decisioni istantanee». Fra questi «uomini di intensi spiriti
animali» celebrò finalmente l’apoteosi della sua conquistata mascolinità,
guadagnandone l’amicizia, facendosi rispettare - malgrado gli occhiali. Subiva di buon animo gli epiteti beffardi («quattrocchi»), purché il suo buon
animo non fosse male interpretato da qualcuno. Allora ricorreva ad argomenti persuasivi («Beh, quando ci vuole, ci vuole»): «Colpii veloce e duro
alla mascella con il destro, colpii di sinistro mentre mi distendevo, e poi di
nuovo di destro»24.
Il West assume un ruolo cruciale nel racconto della formazione virile
del futuro presidente degli Stati Uniti. Che la «vita all’aria aperta» nelle selvagge terre occidentali fosse la fonte della sua straordinaria trasformazione
personale era un fatto di cui parlava spesso e liberamente; «voi sapete», confidò a un giornalista italiano, «che io ho pubblicato un libro sulla mia vita
laggiù; bisogna leggerlo». Parlarne e scriverne era probabilmente lo scopo
principale di tanta passione, come sospettò un altro italiano nel 1901: «Appena finita l’Università, scappa all’Ovest e vi si abbandona, per qualche mese,
alla vita romantica e randagia d’un pastore? Sì, ma per trovarvi la materia di
racconti, come direste voi, vissuti». Roosevelt sapeva bene che l’Ovest non
era più «selvaggio» bensì un luogo di esercizi sportivi e passatempi estivi;
sapeva che la wilderness era scomparsa quasi ovunque, persino nell’Africa
nera battuta da troppe comitive di cacciatori come la sua. «Gli uomini devono aver incivilite anche le belve!», commentò nel 190925. Ciò che lo interessava veramente, come traspare con chiararezza dall’autobiografia, era il Far
West dei racconti western di Owen Wister e dei disegni di Frederic
Remington, di Billy the Kid e di Pat Garrett, un mondo leggendario che era
finito ormai, scomparso come il continente perduto Atlantide, come quello
rimasto vivo solo nella memoria. Ciò che lo interessava era l’uso terapeutico
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
della natura e della mitologia della frontiera al fine di plasmare la sua mascolinità. Il suo West è il West del mito esplorato da Leslie Fiedler, il regno
incontrastato del maschio bianco, un maschio senza donna, anzi in fuga
dalla donna, che cerca nell’ultima avventura il modo di evitare l’incontro
con il sesso, il matrimonio, la responsabilità, la maturità, la civiltà. E’, nelle
parole dello stesso Roosevelt, una comunità «patriarcale», che offrì a lui,
gentiluomo civilizzato dell’Est, un rifugio dal dolore per la tragica morte
della moglie e della madre. E’ una comunità castamente omosessuale, dove
gli uomini sono uomini proprio in quanto si accompagnano solo a se stessi,
e dove l’aggressività maschile è libera di dispiegarsi in «giochi rudi e scatenati», magari con l’intermezzo emozionante di qualche sparatoria26.
Il West di Roosevelt era insomma la rappresentazione perfetta di una
sfera di camaraderie maschile autosufficiente e muscolare che era complementare e speculare a quel «mondo di amore e rituali» che definiva la cultura della donna nella seconda metà dell’Ottocento27; una sfera simbolica separata per genere e sessualmente poco sviluppata. Non v’è traccia di una
qualche educazione sentimentale eterosessuale in tutta l’autobiografia. Il
matrimonio vi compare d’improvviso come un passaggio scontato, «il più
grande privilegio e il più grande dovere» di ogni uomo; il sesso vi compare
sotto forma di un richiamo, coerentissimo sia con le convenzioni vittoriane
che con quelle dell’eroe western, alla necessità di applicare a entrambi i coniugi «un unico standard di moralità sessuale». Sesso e matrimonio vi compaiono inoltre come strumenti di procreazione e di difesa della razza, di
politica di potenza. La mascolinità di Roosevelt, in verità, non sembrava
costruita in funzione di una seduzione adulta dell’altro sesso, bensì di una
infantile ricostruzione e rassicurazione del proprio. Commentando il suo
fanciullesco desiderio di emozioni, l’ambasciatore inglese negli Stati Uniti
Cecil Spring-Rice scrisse nel 1905: «Dovete sempre ricordare che il presidente per certe cose dimostra sei anni»28. Gli osservatori dei suoi soggiorni
italiani annotarono come egli fosse la «delizia delle misses americane» in vacanza a Roma; ma sorrisero anche della sua «giocondità», del suo «volto
rubicondo», delle sue smanie per la caccia (aveva più bagagli di Tartarino di
Tarascona!), del suo riso rumoroso da «buon fanciullone», del suo intrattenersi con le signore con troppa affabilità e troppi «scherzi graziosi»: più da
compagnone che da sex symbol29. Qualcuno aveva in precedenza ricordato
come The Strenuous Life avesse «affascinato, com’è giusto, lo spirito di due
donne superiori», la traduttrice italiana contessa Hilda Francesetti di Malgrà
e quella francese, la principessa di Francigny-Lusinge30. Tuttavia Hilda di
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CAPITOLO
3
Malgrà aveva intrapreso la sua opera in omaggio al fratello, un ufficiale stroncato da malattia in Corea; le pagine rooseveltiane gli erano state ultima lettura e fonte di ispirazione per riflessioni «sulla forza, fisica, morale e
dominatrice». Roosevelt fu colpito da questo episodio, e lo accostò a quello
di un ufficiale giapponese che portò il suo libro attraverso tutta la campagna
di Manciuria, e poi lo tradusse per i suoi connazionali31. Più che alle
gentildonne, insomma, era agli ufficiali che questa virilità dispiegata si rivolgeva; erano gli uomini a esserne soggiogati.
Era agli uomini di una nazione stremata, la «vigliacca e pitocca Italia»,
che Roosevelt offriva un’iniezione di vita «virile ed energica» (questa retorica esplicita apparteneva ai nazionalisti, ma affiorava nel linguaggio di tutti)32. Negli Stati Uniti, era agli uomini suoi compatrioti che Roosevelt intendeva offrire, nell’autobiografia, l’immagine di una mirabile combinazione di energia maschile, cultura sofisticata e pedigree aristocratico. Naturalmente quella di Roosevelt è l’autobiografia di un uomo pubblico, e alle sue
attività di politico e statista essa è dedicata in parte consistente. Tuttavia le
pagine più personali restano cruciali e propedeutiche, e forniscono una chiave
interpretativa dello «schema coerente» della sua vita che egli volle disegnare.
Molti scritti autobiografici maschili della sua epoca ruotavano attorno all’esperienza personale della questione della classe, cioè della mobilità e del
conflitto di classe. Scalate vertiginose ai vertici della gerarchia economica
erano esaltate in esemplari Carnegie stories. Più modeste promozioni sociali
producevano il racconto della formazione della moderna middle class: la fuga
dalla provincia, la conquista della parola tramite l’istruzione, il prestigio
della professione, il malessere per la perdita della comunità, l’identificazione
con codici culturali consumistici e cosmopoliti. Le autobiografie di una classe
operaia multietnica e multirazziale celebravano casi di integrazione e
americanizzazione, oppure di militanza radicale. Intellettuali patrizi come il
bostoniano Henry Adams potevano piangere con compiacimento la dissoluzione di sé e del proprio mondo33. L’esperienza di Roosevelt non corrispondeva ad alcuna di queste; lo sradicamento sociale e, viceversa, il «pericolo» del cristallizzarsi di una stratificazione di classe che egli riteneva estranea alla tradizione americana, erano per lui problemi politici di primaria
importanza, ma non investivano, in quanto tali, il suo status personale. Era
nato nella upper crust, ne aveva goduto appieno i privilegi e anche, a differenza di Adams, sviluppato tutte le possibilità. Il centro drammatico del suo
Bildungsroman è altrove, è nella ricostruzione di una identità di genere maschile in una società in cui linguaggi e comportamenti legati ai ruoli sessuali
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
sembravano mutare rapidamente. Insomma, non dell’autobiografia di un
self-made man si tratta, bensì di quella di un self-made male.
4. La riaffermazione del separatismo maschile
E tuttavia, se vogliamo capire il senso di questa dettagliata operazione,
non possiamo ignorare quanto la questione dei ruoli sessuali fosse legata,
agli occhi di Roosevelt, al buon mantenimento delle gerarchie sociali e all’efficace espletamento delle prerogative politiche dei cittadini. I diritti di
cittadinanza e la vocazione alla direzione politica degli uomini della sua
posizione (la upper class colta e benestante, di qualche tradizione) erano storicamente fondati sull’ideale ottocentesco del «carattere». Per quanto fosse
presentato come un’aspirazione e una possibilità per tutti gli uomini, il carattere era una componente essenziale della definizione della mascolinità
borghese nella società del laissez faire e del suffragio universale maschile;
implicava coraggio, onore, lealtà, indipendenza, intrapprendenza,
antiintellettualismo, padronanza di sé, capacità di comando, senso del dovere, difesa della famiglia, un benevolo patriarcato, partecipazione politica.
Roosevelt riteneva che l’universo sociale che aveva nutrito quella retorica
stesse mutando, e temeva che l’ideale stesso si dissolvesse. La «effeminatezza» e il «lusso» in cui vivevano le famiglie ricche e i loro figli, scrisse in The
Strenuous Life, non potevano produrre la leadership necessaria alla nazione,
per difendere e sviluppare la democrazia in patria (minata dalla formazione
di una plutocrazia monopolistica e di un proletariato stabile) e per assolvere
la missione a cui era chiamata nell’arena internazionale. Come l’antica Roma,
anche gli Stati Uniti avevano bisogno più che mai di ricostruire «una razza
virile, una razza di forti e maschi caratteri»34. L’autobiografia, e tutta la sua
biografia pubblica con le sue dimensioni fortemente personalizzate, forniva
un modello di severo addestramento individuale a questi compiti. Del «maschio carattere» offriva una celebrazione ossessionata, in cui identità di genere e consapevolezze di classe si intrecciavano a incertezze sulle condizioni
dell’esercizio del potere politico in un’epoca di grandi trasformazioni della
società e della democrazia di massa negli Stati Uniti.
L’addestramento era sempre stato necessario, in quanto il carattere non
era mai stato concepito come una dote innata, bensì acquisita tramite l’auto-disciplina. Per tutto l’Ottocento una vasta manualistica si era proposta di
insegnare come acquisirla, e i suoi toni didattici e predicatori di questi scritti echeggiano continuamente nelle pagine rooseveltiane. L’addestramento
nell’infanzia e nell’adolescenza (questa cruciale età di passaggio di cui si
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cominciava allora a discutere35) appariva come un compito politico tanto
più necessario negli anni intorno al volgere del secolo, segnati dalla allarmata percezione della inadeguatezza della famiglia e della scuola vittoriana a
trasmettere valori e identità culturali maschili. Il padre borghese e suburbano, distratto da impegni di lavoro sempre più pressanti, era diventato una
«istituzione domenicale», un estraneo in casa propria; la scuola pubblica era
stata invasa da una «grande orda di insegnanti femmine»36. Un’intera generazione di figli maschi rischiava di crescere nell’assenza della figura paterna,
in un ambiente dominato dalla costante influenza educatrice delle donne,
madri o insegnanti che fossero. La società rischiava quindi di essere travolta
da «the most damnable feminisation», o così almeno riteneva Basil Ransom,
l’eroe aristocratico, reazionario, sudista ed esplicitamente maschilista del
romanzo di Henry James The Bostonians (1886). Ransom aveva aggiunto:
L’intera generazione è femminilizzata; l’intonazione maschile sta scomparendo; è
un’età femminile, un’età nervosa, isterica, ciarliera, lamentosa, un’età di frasi vuote
e false delicatezze e premure esagerate e sensibilità coccolate, che, se non stiamo
bene attenti, finirà con l’inaugurare il regno della mediocrità […] Il carattere maschile, la capacità di osare e sopportare, di conoscere la realtà senza temerla, di
guardare il mondo in faccia e prenderlo per quello che è - un miscuglio molto
bizzarro e in parte vilissimo - ecco quello che voglio conservare, o piuttosto, dovrei
dire, riportare in vita; e devo confessare che non mi importa minimamente di ciò
che succede a voi signore mentre ci provo37!
Sembrava questo un programma su misura per Roosevelt, che odiava
James ma probabilmente non tutti i suoi personaggi. Roosevelt articolò un
impegno individuale di riconquista maschile di parte dello spazio domestico, e un impegno politico di promozione di istituzioni pubbliche che supplissero al ruolo paterno. In primo luogo, rifiutò enfaticamente di essere un
padre assenteista. Per un uomo, scrisse, nessuna soddisfazione, neppure «uccidere orsi grizzly e leoni», equivaleva alle gioie della paternità in «una casa
piena di bambini»; e certamente i «bambini sono meglio dei libri». Per stare
con loro era capace di rinviare un pranzo ufficiale e, in caso di necessità, di
comportarsi come una «vice-madre». Il suo intento principale, tuttavia, in
quanto «genitore maschio», era quello di inculcare con l’autorità e l’esempio
le virtù virili: «la giusta combinazione di libertà e controllo», tutto il divertimento possibile (facendosi coinvolgere in giochi scatenati nei boschi e nei
pagliai della residenza di campagna, in battaglie di cuscini negli appartamenti della Casa bianca) e insieme obbedienza, studio, lavoro. In secondo
luogo, al di fuori della famiglia, Roosevelt si battè per la difesa e la creazione
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
di territori maschili separati, dove bambini, adolescenti e maschi adulti potessero interagire in libertà. L’atletica organizzata, dal football universitario
al più popolare baseball al rude pugilato, era uno di questi territori dove i
giovani imparavano ad affrontare la vita nel modo giusto: «Picchiare sodo:
non giocare mai falso e non schivarsi, ma picchiare sodo». La Young Men’s
Christian Association, con la sua idea di «cristianesimo muscolare» ispirato
alla «magnifica mascolinità» di Gesù Cristo, era un altro. Roosevelt incoraggiò la YMCA a diffondere la pratica del pugilato perché, scrisse, «non mi
piace vedere giovani cristiani con le spalle che assomigliano a una bottiglia
di champagne». Dei Boy Scouts of America, fondati nel 1910, l’ex-presidente fu un ardente sostenitore, un membro del National Council (insieme
a uomini-uomini come l’ammiraglio George Dewey e il generale Leonard
Wood), e un eroe. Di questi frontiersmen da fine-settimana con il mito di
Daniel Boone, organizzati in stile paramilitare, guidati da scoutmasters assetati di virilità, il primo articolo di fede era che la manhood, non il sapere, era
lo scopo principale dell’educazione38.
Tramite queste organizzazioni, i ragazzi dovevano essere liberati dalla
dipendenza dalle gonnelle materne. Anche i maschi adulti, soprattutto quelli
del ceto medio, erano tuttavia costretti a confrontarsi con un analogo problema di invadenza femminile, in perfetta sintonia con i loro figli. La «nuova donna» del nuovo secolo sembrava costituire una minaccia concreta al
potere e alla sicurezza di questi uomini, non solo nell’ambito delle relazioni
familiari ma anche nella vita pubblica e, più intimamente, nella sfera della
sessualità. Le donne stavano occupando uno dei bastioni dell’identità maschile ottocentesca, il mondo del lavoro; si affacciavano all’altro, la politica,
rivendicando il suffragio, la riforma dei partiti politici, l’intervento pubblico per affrontare le questioni sociali. Alcuni loro movimenti riformatori di
massa conducevano un attacco militante ai luoghi di socializzazione degli
uomini, postriboli e ritrovi fondati sul consumo collettivo di alcolici. La
«scoperta» di una positiva sessualità femminile, basata sul desiderio e non
più sulla blanda accettazione della passione maritale, generò accuse di «licenziosità» e terrori di impotenza. Se non c’era più l’etica del lavoro, la cittadinanza politica, il diritto all’iniziativa sessuale a definire la virilità, che
cosa restava? Di fronte alle difficoltà di rispondere a questi interrogativi,
furono in molti a sentirsi assediati, a vivere una vera e propria masculinity
crisis che provocò, ironicamente, la diffusione fra parecchi uomini middleclass di forme di instabilità nervosa che erano state fino ad allora attribuite
alla nervousness femminile39. Roosevelt cercava di rispondere a queste sfide,
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CAPITOLO
3
seguendo percorsi che apparivano, a prima vista, molto lineari e privi di
sfumature. Egli propose anche agli adulti, così come aveva fatto con i giovani, il rafforzamento terapeutico della solidarietà e dell’identità di genere
nell’associazionismo separatista. Propose inoltre un ritorno conservatore alle
rigide demarcazioni sessuali ottocentesche e borghesi.
Il fiorire di istituzioni esclusivamente maschili intorno al volgere del
secolo, che fece di quegli anni «l’età dell’oro della cultura pubblica degli
uomini», è stato letto come una delle possibili «sublimazioni disperate» della crisi della mascolinità di cui si è detto40. Si accompagnava in questo alla
creazione di altri universi all-male di fantasia tramite la letteratura western,
i libri di Tarzan di Edgar Rice Burroughs, lo sport spettacolare, la pubblicistica
di propaganda bellica, tutti fenomeni culturali dei quali Roosevelt era stato
in qualche modo un protagonista. Egli vedeva nell’associazionismo il luogo
«artificiale» di rifondazione di un legame maschile che solo in alcuni casi, in
guerra o nell’ambiente della frontiera, poteva nascere naturalmente «sulla
roccia primordiale del carattere e della capacità personale»; un legame maschile che doveva essere capace di superare le barriere delle divisioni sociali.
A suo parere, la guerra civile era stato un «ottimo espediente» da questo
punto di vista; aveva portato sui campi di battaglia una quota consistente di
uomini adulti di ogni estrazione, lasciandoveli abbastanza a lungo da consolidare un sentimento (naturale appunto) di fratellanza. La guerra contro la
Spagna del 1898 aveva fatto altrettanto se non di più, unificando nell’orgoglio per le «virili imprese» i figli degli uomini del Nord e del Sud. Ora che
queste esperienze appartenevano al passato, era comunque possibile coltivarne la memoria, come si faceva egregiamente nelle associazioni degli excombattenti, oppure ricorrere a succedanei (artificiali). Soprattutto nei grandi
centri industriali il miglior succedaneo era la militanza politica nei partiti
organizzati. Scrisse Roosevelt:
Gli effetti della vita politica, e delle consociazioni alle quali essa costringe, sono
assai benefici nel produrre una maggiore comprensione reciproca, ed un più vivo
senso di mutua solidarietà fra gli uomini, i quali altrimenti non si conoscerebbero
affatto, o si conoscerebbero soltanto come membri di gruppi e di classi divise ed
estranee fra di loro41.
Da questo mondo di reduci e combattenti sembrava che la donna dovesse rimanere estranea, attivamente esclusa, risospinta con una politica di
contenimento nella sua «sfera naturale». La retorica vittoriana della distinzione fra le sfere sessuate conservava per Roosevelt una precisa valenza normativa. La manliness si definiva in opposizione a femininity e non più, come
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
era comune nel linguaggio del primo Ottocento, a childishness, a infanzia; si
definiva in rapporto a ciò che era radicalmente «altro» da sé, e non a una fase
del ciclo vitale da cui ci si distaccava lentamente con la conquista della maturità42. Una qualunque breccia nel muro che segnava la differenza avrebbe
comportato la fine dell’identità maschile, e la rovina della nazione. Henry
Adams era affascinato da quelle brecce, aperte dalle misteriose nuove donne
«create dopo il 1840», appartenenti alla buona società ma non solo, sconosciute a se stesse e agli uomini in quanto storicamente conosciute attraverso
occhi maschili. All’inizio del nuovo secolo, la storia gli sembrava «pura pedanteria» senza una comprensione del «movimento dei sessi». Egli «doveva
più alla donna americana che a tutti gli uomini americani», ammetteva. Ne
riconosceva la superiorità e «non sentiva la minima vocazione a difendere il
suo sesso»; ne discuteva con passione la «tragica» libertà, che egli vedeva
consumarsi fra la scomparsa del suo ruolo domestico («la famiglia era estinta come la cavalleria») e il rischio di diventare una asessuata imitazione dell’uomo. La donna, scrisse, «era stata liberata - volatilizzata come il gas perfetto di Clerk Maxwell; quasi portata al punto di esplosione, come il vapore». Era proprio questa compressa energia distruttiva che Roosevelt voleva
tenere sotto controllo, e riportare, per molti versi, nei canali per lui tradizionali. Affermò nel 1899:
L’uomo dev’essere contento di fare un lavoro degno dell’uomo, di rischiare, di sopportare, di lavorare per il mantenimento proprio e di quelli che da lui dipendono.
La donna dev’essere la massaia, la compagna del paterfamilias, saggia intemerata
madre di figli numerosi e sani. […] Quando gli uomini temono il lavoro e la giusta
guerra, quando le donne temono la maternità, essi sono sull’orlo dell’abisso43.
Eppure Roosevelt non si diceva contrario al suffragio femminile. Nell’autobiografia si definì uno «zelante» sostenitore della causa, anche se ammise che in passato era stato «solo tiepido» nel suo sostegno. L’estensione del
diritto di voto alle donne non costituiva, a suo parere, una vera contraddizione con i principi delle sfere separate, purchè le donne usassero il voto non
per mascolinizzarsi ma «per rendere un servizio migliore e più efficiente»
alla nazione in quanto mogli e madri, secondo gli insegnamenti che egli
riteneva provenissero da riformatrici sociali come Jane Addams e Frances
Kellor44. La contraddizione era tuttavia reale. Nel momento in cui giustificava (proprio come facevano Addams e molte suffragiste) l’ingresso delle
donne nell’arena elettorale con il linguaggio del maternalismo riformatore,
Roosevelt era costretto a fare i conti con l’avvenuto cambiamento non solo
nei rapporti fra i sessi ma anche nella struttura di classe e nella stessa defini119
CAPITOLO
3
zione della politica. Era convinto che nell’America dei trusts e della grande
ricchezza, della grande povertà e della corruzione politica, del proletariato
multinazionale e della questione del lavoro, gli uomini della sua classe che
avessero a cuore la sopravvivenza dell’ordine dovessero promuovere radicali
cambiamenti; solo tramite la creazione di uno stato sociale, interventista e
burocratico e una rifondazione dei partiti politici potevano riaffermare il
senso della propria funzione dirigente. Ma tutto ciò significava assumere nel
discorso politico delle tematiche che erano state elaborate per la prima volta
dai movimenti delle donne, e che erano comunemente considerate «femminili». La riforma implicava un superamento delle dicotomie fra sfera maschile e sfera femminile, fra pubblico e privato, fra stato-mercato e famiglia,
fra partito politico e filantropia, che avevano dato senso all’identità maschile ottocentesca. E’ in questo contesto che l’esaltazione del carattere e del
«vigor di vita» acquista spesso in Roosevelt la dimensione patetica della difesa dell’ultima spiaggia; ma anche, con eguale evidenza, la dimensione
progettuale della ricostruzione di una mascolinità borghese nelle mutate
circostanze storiche. Il modello del politico upper-class da lui proposto era
infatti capace di coniugare le tradizionali virtù maschili vittoriane con virtù
femminili come la compassione sociale, la comprensione intellettuale, l’ansia riformatrice. Esse diventavano sopportabili per la sua virilità solo se vissute con travolgente attivismo realizzatore, e con aggressivi stili macho rapinati alle classi popolari.
5. La virilità del riformatore
Ma torniano alla biografia rooseveltiana, per rintracciare il dipanarsi di
questo intreccio fra stili di classe, stili sessuali e progetti di cambiamento, e
le sue implicazioni per la politica democratica. L’educazione politica di
Roosevelt era maturata nell’ambiente newyorkese dei Liberal Reformers, fra
quegli esponenti dei ceti colti e patrizi, metropolitani e «nordisti», che negli
anni settanta e ottanta dell’Ottocento avevano avviato una critica radicale
delle «degenerazioni» della democrazia americana, e di ciò che a loro parere
ne costituiva la causa prima: la pratica delle organizzazioni partitiche a base
di massa e il suo prerequisito, il suffragio universale maschile. Questi cosiddetti Mugwumps attaccarono i partiti come istituzioni senza principi e programmi, incapaci di affrontare i veri problemi del paese, guidate da politici
di professione ignoranti e corrotti, impegnate nel saccheggio delle risorse
pubbliche. Li descrissero con toni apocalittici ed elitari come apparati «senza vergogna e senza onore», che facevano appello ai peggiori istinti della
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
folla e istillavano, con la frode e l’inganno, il culto feticistico di se stessi e
forme irrazionali di fedeltà; apparati che stritolavano quegli uomini onesti,
saggi e indipendenti che essi ritenevano di rappresentare al meglio (gli «uomini migliori», appunto, nel loro codice linguistico). Per sconfiggere questi
mali e incrinare l’influenza dei partiti, proposero la riforma dell’amministrazione pubblica e l’introduzione del sistema di merito, riforme municipali ed elettorali, l’estensione delle capacità esecutive e amministrative dello
stato, qualche riforma sociale. Proposero in alternativa alla fedeltà di partito
popolare il modello dell’elettore indipendente, nonpartisan, attento più alle
qualità individuali dei candidati che alle etichette di partito. In nome di
questi principi, nel 1884 abbandonarono in gruppo il partito repubblicano
a cui tutti storicamente appartenevano, e condussero la campagna elettorale
a favore del candidato democratico alla presidenza, Grover Cleveland. In
un’altra delle svolte decisive della sua vita, in un’altro degli episodi simbolici
dell’autobiografia, il ventiseienne Roosevelt non li seguì; votò «regolarmente» per il candidato del suo partito, James G. Blaine.
In una società che vedeva nella politica di parte l’equivalente morale
della guerra e nel partito una chiesa laica, la defezione dei Liberal Reformers
fu accolta dai politici repubblicani con una salva di insulti. Coerentemente,
alcuni di questi insulti facevano riferimento al linguaggio bellico e religioso:
«traditori», «rinnegati», «apostati». Ma altri, con particolare intensità, facevano riferimento al linguaggio della differenza sessuale: «political flirts»,
«Miss-Nancy», «sarti da uomo», «ermafroditi politici», «effemminati senza
essere nè maschi nè femmine», il «genere neutro», il «terzo sesso». Il candidato repubblicano fu invece presentato come «quello stallone purosangue,
James Gillespie Blaine»45. Mettendo in discussione la virilità dei riformatori, i politici di partito facevano ovviamente appello ai consolidati stereotipi
sessuali delle sfere separate; secondo quegli stereotipi i Mugwumps idealisti,
intellettuali e moralizzatori erano usciti dai loro ruoli, erano entrati in una
terra di nessuno e talvolta in territorio altrui. In alcuni romanzi politici del
tempo, essi assunsero esplicitamente lo sguardo femminile come punto di
vista esterno e critico sul non amato presente; da Democracy (1880) di Henry
Adams fino ad alcuni dei best sellers di Winston Churchill di un’epoca successiva, era una donna l’alter ego dell’autore (maschio) riformatore. La scienza
sociale con cui intendevano affrontare i problemi della società, in
contrapposizione al partisan approach, era «il genere femminile dell’economia politica». Il lavoro nella moderna burocrazia, in cui riponevano tanta
fiducia, era considerato assai poco virile, dominio di donne e uomini ef121
CAPITOLO
3
femminati. Le tattiche extrapartitiche da loro predilette (club, leghe, comitati
ad hoc, movimenti single-issue, campagne di stampa) erano state inaugurate
dai movimenti delle donne. Agli occhi degli attivisti di partito, inoltre, i
Mugwumps condividevano con molte riformatrici appartenenti alle classi superiori la responsabilità di battersi per invise riforme morali come la temperanza; con alcune, condividevano la simpatia per una restrizione censitaria del
suffragio. Non a caso stavano insieme, «uomini dai capelli lunghi e donne dai
capelli corti», secondo la sarcastica definizione di Henry James46.
Il maschilismo dei politici di partito, insomma, si nutriva anche di antiintellettualismo (che nella seconda metà dell’Ottocento era diventato un
tratto associato alla mascolinità) e di una buona dose di risentimento sociale. Nel momento in cui i Liberal Reformers si proponevano di «elevare» il
tono della vita pubblica secondo un loro codice di purezza, e rompevano i
legami di fedeltà partitica, essi affermavano con troppa sfrontatezza i loro
pregiudizi elitari, e uscivano dal loro ruolo sessuale altrettanto stridentemente
delle suffragiste che chiedevano il diritto di voto. Roosevelt era almeno in
parte d’accordo, e si unì al coro delle accuse politiche e delle allusioni sessuali. Nell’autobiografia descrisse i «riformatori dalle calze di seta» che conosceva così bene come «gentiluomini che erano molto gentili, molto raffinati, che scuotevano il capo di fronte alla corruzione politica e ne discutevano in salotti e salottini, ma che erano totalmente incapaci di venire alle prese
con uomini reali nella vita reale». Erano gentlemen «di gusti ricercati, la cui
occupazione preferita era la maldicenza»; erano «ostili alla mascolinità», a
qualsiasi manifestazione di «virilità nazionale e individuale».
Non erano uomini gagliardi e vigorosi; si sentivano a disagio in compagnia di uomini forti e rudi; spesso avevano una vena di timidezza fisica. Compensavano una
latente consapevolezza delle loro deficienze sedendo in ritiro conventuale - anche
se, in verità, piuttosto bene arredato - a sbeffeggiare e calunniare gli uomini che li
mettevano a disagio.
Al giovane Roosevelt ricordarono che la politica era cosa «spregevole»,
non da signori, e che i partiti erano controllati da proletari e popolani,
bettolieri e fiaccherai, uomini «rozzi e brutali e sgradevoli». Tutt’altro che
scoraggiato da simili osservazioni, Roosevelt decise di immergersi in questo
mondo per cercare, disse, i membri di una «classe di governo» democratica,
ma anche, ancora una volta, per nutrire e provare la propria virilità. Trovò
uomini forti e vigorosi come Joe Murray, nato in Irlanda, cresciuto scalzo
nella First Avenue, attivista di base della macchina repubblicana, divenuto
un’amico trentennale. Come fra i cowboys del selvaggio West, trovò se stes122
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
so, capace di sopravvivere in loro compagnia e alla fine di essere «ammesso
al loro cametarismo e poi alla leadership». In questo mondo fisico e muscolare, intensamente maschile, Roosevelt scoprì sia nuove direzioni per il suo
impegno di riformatore upper-class che non rinnegava né nascondeva le proprie origini e le proprie intenzioni, sia le buone ragioni delle forme della
politica popolare: le buone ragioni del partito, della fedeltà di partito e persino dei boss di partito così detestati dai membri della sua classe47.
Questo di Roosevelt è un viaggio nelle viscere del sistema politico che,
negli stessi anni, fu ripetuto da altri uomini e da alcune donne della sua generazione. E tuttavia fra uomini e donne c’era una qualche differenza. Attiviste
sociali come Jane Addams e Lillian Wald, che negli ultimi anni dell’Ottocento
fondarono le loro settlement houses nei quartieri degradati di Chicago e New
York, riconobbero e descrissero nei dettagli il carattere comunitario della politica locale, la sua capacità di dare risposte immediate a bisogni urgenti in
cambio di fedeltà e voti. Lungi dal demonizzare il boss di partito per la sua
corruzione, Addams si chiese persino se egli, «in quanto democratico nel metodo», non si muovesse secondo «una linea di sviluppo sociale più etica di
quella del riformatore, che crede che il popolo debba essere indirizzato da
”buoni cittadini“ e governato da ”esperti“». Eppure entrambe si trovarono
quasi automaticamente coinvolte in battaglie antimachine, e, benchè li sentissero come estranei alla comunità, fiancheggiarono movimenti «indipendenti»
per il buon governo. In quanto donne, naturalmente, Wald e Addams non
godevano dei diritti politici; in quanto suffragiste, li rivendicavano. Ritevenano
comunque che gli enti di governo, non le organizzazioni di parte, avessero il
compito e il dovere di provvedere al benessere dei cittadini; e il loro impegno
pubblico trovò uno sbocco, insieme obbligato e desiderato, non in cariche
elettive ma in vari uffici amministrativi di assistenza. Il loro atteggiamento era
quindi non di antagonismo preconcetto, ma di sostanziale estraneità alla politica di partito. E ne percepirono in qualche modo il perché. La forma-partito
che avevano sotto gli occhi si era storicamente costruita come entità maschile,
e nei luoghi di socializzazione maschile rinforzava continuamente la propria
identità. Scrisse Addams:
Tutta la vita sociale dell’elettore fin da quando era bambino […] si è fondata su
questo senso di fedeltà agli amici e di essere parte del giro. Ora che è diventato un
uomo, gli piace la sensazione di essere dentro un’organizzazione politica, di essere
ammesso al pettegolezzo politico, di appartenere a un gruppo di persone che capisce le cose e i cui interessi sono curati da un amico potente che siede addirittura nel
consiglio comunale.
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CAPITOLO
3
Entrare in queste aree segregate per sesso era un rito di passaggio verso
una mascolinità adulta che Addams capiva ma guardava con comprensibile
distacco48. Per gli stessi motivi, Roosevelt ne era invece affascinato e se ne
sentiva partecipe.
Nelle pagine dell’autobiografia, così come negli articoli scritti a caldo
fra gli anni ottanta e l’inizio del Novecento, Roosevelt mirava con chiarezza
a dare credibilità all’immagine dell’uomo politico upper-class capace di combinare felicemente la brusca virilità della democrazia dei partiti con gli ideali
intellettuali dei riformatori. Intendeva riscattare la politica di riforma dal
sentimentalismo e dall’elitarismo dei Mugwumps, e proporne una versione
che fosse allo stesso tempo democratica e di massa, efficace, e tuttavia conforme alle aspirazioni e agli interessi degli uomini della sua classe. Si trattava
di una operazione delicata e complessa, in cui il linguaggio della mascolinità
svolgeva un ruolo cruciale. La compatibilità del riformatore di nuovo modello con il machine politician trovava un importante terreno di conferma
nella comune mascolinità, nei rituali della solidarietà di sesso praticata nei
circoli, nelle taverne e nelle strade. E non solo per Roosevelt; anche tutta
l’autobiografia di Steffens, per esempio, è segnata dalla ossessiva
riaffermazione della sua appartenenza al mondo della camaraderie maschile
degli attivisti di partito, veri uomini con i quali era possibile condividere un
atteggiamento hard-boiled, virilmente disilluso nei confronti della vita49. La
frequentazione dei luoghi della politica popolare era inoltre una scuola nella
quale i politici delle classi superiori potevano liberarsi delle loro effeminatezze, e riappropriarsi di una solida identità sessuale. Come Roosevelt, anche il senatore dell’Indiana Albert Beveridge, all’inizio del secolo, consigliò
esplicitamente la militanza in un partito come terapia intensiva per ogni
giovanotto di buona famiglia. «Esci dall’atmosfera esclusiva del tuo ambiente profumato», scrisse, citando da un «leader politico» che era probabilmente lo stesso Roosevelt; «entra nel club politico più attivo e militante del tuo
partito nella tua città; presentati al dirigente locale per farti affidare un compito; mescolati con coloro che lavorano e sudano». La riconquistata identità
era infine uno strumento retorico necessario alla classe dirigente per affrontare non solo i nuovi compiti imperiali del paese (e la guerra) ma anche gli
urgenti cambiamenti interni. Nelle mani di simili uomini, persino la
riorganizzazione della burocrazia pubblica poteva diventare un obiettivo al
quale dedicare una strenuous life. Prima di brandire il big stick sulla scena
internazionale, Roosevelt lo fece nella politica interna; nel 1894 tenne a
Harvard una conferenza sulla riforma dell’amministrazione intitolata The
Merit System and Manliness in Politics50.
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
In tutti questi contesti, il linguaggio della mascolinità doveva servire a
ricostruire i confini della differenza sessuale in un universo politico sconvolto dal nuovo protagonismo delle donne. Attribuiva i caratteri e il «carattere»
di una proposta maschile a una riforma percepita come «femminile»,
appropriandosene e suggerendone una interpretazione non elitaria in nome
dell’interclassismo di genere. La definizione rooseveltiana di mascolinità,
tuttavia, non sottolineava solo la differenza di genere; con altrettanta chiarezza, marcava anche precise distinzioni politiche e di classe all’interno del
genere. Come abbiamo visto, consentiva a Roosevelt di prendere le distanze
da esponenti non amati del suo ambiente, e di offrire implicitamente una
risposta alla questione che proprio allora veniva formulata dal suo amico
James Bryce. «Perchè gli uomini migliori non entrano in politica?» La risposta di Roosevelt sarebbe stata: perché non erano abbastanza uomini da accettare le regole della democrazia di massa. La sua definizione di mascolinità gli
consentiva inoltre di misurare la distanza sociale che lo separava dagli uomini delle claasi popolari e di esplicitare i limiti della sua retorica interclassista.
Roosevelt era sceso nel sottomondo della politica urbana con tutta l’ambiguità razzista dell’esploratore vittoriano affascinato dai costumi dei «nativi».
Come altri osservatori del suo tempo, si era spiegato molti loro comportamenti paragonandoli a quelli prevalenti «fra popoli primitivi che vivono
ancora nella fase di clan dello sviluppo morale»; era la lealtà personale e di
clan che nutriva le loro passioni politiche, non la valutazione intellettuale di
interessi, principi e programmi che egli riteneva patrimonio di una ristretta
élite come quella alla quale apparteneva51. L’anti-intellettualismo virilista
non faceva per lui; anzi, era il lavoro intellettuale a essere parte integrante
della sua mascolinità. La dedizione alla lettura e alla scrittura, alle arti e alle
lettere, alla scienza e alla storia, era una componente essenziale della vita
vigorosa; il circondarsi di buoni libri (naturalmente anche di una biblioteca
sulla caccia grossa) era una condizione della gioia di vivere nel suo elegante
ritiro di campagna a Sagamore Hill52. Per Roosevelt un approccio colto e
informato alla realtà distingueva il maschio borghese dal politicante plebeo.
Un simile approccio poteva restituire carica ideale e rispettabilità a una politica di partito riformata, e creare le premesse per una rinnovata partecipazione a essa degli uomini veramente «migliori» delle classi superiori.
6. Un riassestamento delle vecchie relazioni?
Dal 1912, ha scritto lo storico Peter Filene, «persino il predicatore della
strenuous life, il patrocinatore della donna come madre, il Bull Moose
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CAPITOLO
3
Theodore Roosevelt si inchinava di fronte alle richieste di Jane Addams di
introdurre un blocco di rivendicazioni femministe nella piattaforma del suo
Progressive Party». Queste rivendicazioni, elaborate da Addams e da un gruppo di donne che partecipò attivamente alla fondazione del partito, comprendevano il suffragio femminile, una legislazione nazionale sul lavoro e
sulla salute delle donne e dei minori, la «protezione della vita domestica»
con un sistema di assicurazioni sociali e un servizio sanitario nazionale, la
difesa del diritto di organizzazione dei «lavoratori, uomini e donne»; erano
parte di un programma generale votato al raggiungimento della «giustizia
sociale e industriale» tramite la riforma dello stato53. La deferenza
rooseveltiana alla politica delle donne e della riforma sociale era stata preparata da tutta la sua attività pubblica precedente, e accuratamente narrata
nell’autobiografia che proprio l’anno successivo avrebbe dato alle stampe;
era possibile non malgrado il suo linguaggio maschilista ma proprio grazie a
esso. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di essere un riformatore effemminato.
Anche nella campagna presidenziale del 1912 continuò a usare la virilità
«urlata» come parte di questa strategia; una strategia non priva di successo
presso un elettorato prevalentemente maschile. Secondo le soggettive valutazioni di un amico, dei quattro milioni di voti da lui ottenuti almeno un
milione erano Teddy votes: «voti di uomini che avevano fiducia in te personalmente senza avere alcuna ragione particolare e intelligente per questo; se
non il fatto che tu eri un tipo maschio con virtù estremamente mascoline e
con palpabilmente mascolini difetti». La sua indiscussa mascolinità, d’altra
parte, gli permetteva di rivolgersi con sicurezza al pubblico femminile, che
stava diventando per Roosevelt un target politico. Da presidente, aveva accettato di dettare, durante quel rito maschile mattutino che è il radersi, un
articolo mensile per il «Ladies’ Home Journal». Voleva raggiungere le donne
che, a suo giudizio, normalmente non leggevano i suoi messaggi riportati
sui giornali maschili; voleva informarle «su quelle questioni nazionali che
riguardano gli interessi vitali del focolare domestico». Sullo stesso periodico,
nel 1916, tenne una rubrica anonima intitolata Uomini54.
Naturalmente le prediche di Roosevelt erano efficaci perchè erano in
sintonia con importanti cambiamenti in atto, di cui cominciano a emergere
alcuni contorni. Molte identificazioni fra manhood e modi dell’agire politico che avevano preso corpo nell’Ottocento avevano perso forza sociale normativa, secondo percorsi che l’autobiografia rooseveltiana aiuta a interrogare. Uomini politici di nuovo tipo stavano conquistando la scena, «uomini
migliori» in una definizione più «moderna» del termine anche se altrettanto
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
socialmente connotata. Meno aristocratici dei Liberal Reformers ma più
istruiti e middle-class dei vecchi uomini politici d’apparato, essi non temevano di coniugare la politica elettorale con l’impegno sociale e la pratica intellettuale, spesso certificata da titoli di studio universitari e da intensi rapporti
di collaborazione con settori accademici progressisti. Presidenti come
l’harvardiano Roosevelt e il princetoniano Woodrow Wilson erano solo gli
esempi più vistosi di esponenti di una cultura che stava rinunciando all’antiintellettualismo e assumendo la riforma fra le qualificazioni della mascolinità. Nel 1915 il direttore (maschio) di una rivista femminile (il «Ladies’ Home
Journal»), Edward Bok, osservò forse con eccessivo entusiasmo che «la reputazione di un uomo nel mondo degli uomini è completamente cambiata
negli ultimissimi anni»; non è più proporzionale al suo talento nel far soldi
ma a quello nel provvedere al «miglioramento dei propri simili». Questi
uomini nuovi poterono lavorare nei partiti politici prendendo nello stesso
tempo le distanze dai tradizionali riti di cameratismo, di fedeltà e di formazione del consenso, e battendosi per una loro rifondazione elettorale, organizzativa e programmatica, senza per questo passare attraverso una pubblica ridiscussione della propria virilità; altri (Roosevelt, per esempio) l’aveva già fatto per loro55. Come segnalò sempre nel 1915 Lillian Wald, non
solo il rooseveltiano Progressive Party ma anche i partiti principali (i democratici di Wilson, soprattutto) avevano ormai accettato di inserire nei loro
programmi misure di human welfare che «nei giorni dell’inizio del nostro
lavoro erano considerate dei sogni e ridicolizzate». Da allora, scrisse, «la
tendenza era di accettare le donne in politica come una fase necessaria di
questo periodo di transizione e il riassestamento delle vecchie relazioni»56.
Se questo «riassestamento» comportasse anche una redistribuzione di
potere nelle organizzazioni politiche e nell’arena elettorale resta un problema aperto. Dopo il suffragio i partiti ristrutturarono i loro organismi
rappresentativi per fare posto all’altro sesso, soprattutto per ragioni elettorali; ricerche recenti indicano tuttavia che le donne raggiunsero posizioni di
influenza politica negli anni venti e trenta per altre vie. Non si batterono per
accedere a candidature a cariche elettive, e rimasero emarginate dai vertici
esecutivi degli apparati partitici. Piuttosto, almeno nel partito democratico
dell’eredità wilsoniana e di Alfred Smith, un gruppo di attiviste conquistò
«la realtà, ma mai l’apparenza (se non agli occhi degli insiders), del potere»
sviluppando reti di solidarietà fra riformatrici che erano entrate in politica
tramite le associazioni volontarie femminili, convinte che i loro programmi
sociali potessero essere realizzati solo con misure legislative. Esse fecero della
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CAPITOLO
3
Women’s Division del Democratic National Committee uno strumento di
pressione per la nomina di donne a importanti uffici nella burocrazia pubblica, e uno strumento di mobilitazione femminile di massa che ebbe un
ruolo cruciale di stimolo e di sostegno alla creazione del Welfare State nell’epoca del New Deal. Continuarono a lavorare, insomma, nel solco del
separatismo e della specificità di genere che aveva dato visibilità e autorevolezza ai movimenti delle donne d’anteguerra, nel solco di una estraneità e
diffidenza nei confronti delle forme della democrazia rappresentativa
ottocentesca57. Una diffidenza ricambiata dai politici di partito più tradizionali che, temendo uno sconvolgimento degli schieramenti esistenti, discussero con preoccupazione se le donne avrebbero votato come i loro uomini,
mutuando dai rapporti patriarchiali la loro identità di parte. Una diffidenza
apprezzata invece dai politici di nuovo tipo che, impegnati nella costruzione
di movimenti trasversali rispetto a quegli schieramenti, avevano contato fin
dall’età progressista proprio sull’estensione del suffragio per trarre profitto
dalla maggiore «indipendenza» di elettori (elettrici) non legati a fedeltà di
partito consolidate. Il Progressive Party del 1912, che di quei movimenti fu
una temporanea sintesi per caratteristiche programmatiche e organizzative
(partito nuovo, non di massa ma di opinione, con apparati leggeri e flessibili), si proclamò ufficialmente «svincolato dalla tradizione», e si rivolse di
necessità ai cittadini «senza riguardo a precedenti affiliazioni politiche»58. Le
donne, che di precedente affiliazione politica non ne avevano alcuna, erano
da questo punto di vista cittadini ideali; e vale la pena chiedersi la loro
emancipazione non abbia contribuito alla dissoluzione degli automatismi
della fedeltà di partito così evidente dal primo dopoguerra.
Dagli anni venti, d’altra parte, dopo quasi un secolo di incontrastato
dominio, era tutta la politica di partito nella sua versione ottocentesca ad
aver perso centralità e rilevanza anche per la politica maschile. Come le
donne prima di loro, molti uomini dei ceti medi, del mondo degli affari, dei
settori più forti della classe operaia, avevano trovato più adeguate strategie
di organizzazione e di influenza in associazioni (professionali, sindacali, di
interesse), leghe e movimenti monotematici, e in un rapporto più diretto
con lo stato sociale e amministrativo. Scavalcarono così i partiti e il mercato
elettorale e crearono nuove identità politiche e lealtà sociali. In questo contesto, persino l’esercizio del diritto di voto cessò di essere quel fondamentale
«dovere dell’uomo», elemento costitutivo della mascolinità, che era stato
nella cultura politica del secolo precedente. In effetti, dal 1904 in poi i tempi del declino dei livelli di partecipazione dell’elettorato maschile si
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PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
sovrapposero perfettamente a quelli dei crescenti successi del movimento
per il suffragio femminile. L’esplosione del non-voto negli anni venti, subito
dopo l’entrata in vigore del XIX Emendamento, provocò lamentele sulla
scarsa socializzazione politica delle donne, sul loro «ritardo»; la svolta decisiva era tuttavia avvenuta ben prima, e riguardava gli uomini, soprattutto
quelli appartenenti alle classi meno privilegiate. Una «responsabilità» specifica delle nuove elettrici nel precipitare dell’astensionismo elettorale era evidente, ma può essere interpretata in un altro quadro di riferimento. Non si
trattò forse di una loro difficoltà a riconoscersi in massa in una macchina
della rappresentanza che era stata storicamente costruita e percepita come
esclusivamente maschile, e che era per di più in via di delegittimazione presso il suo stesso pubblico «naturale»? Le donne, insomma, ebbero accesso alle
istituzioni elettive e di partito quando il sistema rappresentativo democratico, del quale il partito era un elemento fondante di natura quasi-costituzionale, era attraversato da una crisi profonda, e stava acquisendo caratteri sempre più oligarchici. Nel 1926 la femminista e pacifista Suzanne La
Follette aveva osservato questa disturbante sincronicità: «E’ una sventura
che il movimento delle donne sia riuscito a conquistare i diritti politici proprio nel periodo in cui il valore di questi diritti è al punto più basso dal
diciottesimo secolo in poi». E Jane Addams, nel 1924, aveva risposto a un’inchiesta giornalistica sulla questione Is woman suffrage failing? commentando
che la domanda da proporre avrebbe dovuto essere, invece, Is suffrage failing?
Ciò solleva un ulteriore e ancora più disturbante interrogativo: è possibile
che questa sincronicità non fosse casuale, e che fra i due fenomeni esistesse
qualche correlazione più significativa? E’ possibile ipotizzare un rapporto
fra estensione dei diritti di cittadinanza e loro depotenziamento59?
129
CAPITOLO
3
1. J.W. Scott, Gender and the Politics of History, New York, Columbia University Press, 1988;
L.A. Tilly, Gender, Women’s History, and Social History, in «Social Science History», XIII,
inverno 1989; M.L. Boccia, I. Peretti (a cura di), Il genere della rappresentanza, Roma, Democrazia e diritto, 1988; Uomini, fasc. spec. di «Memoria. Rivista di storia delle donne», 27,
gennaio 1990; American Women’s History: Eight Contributions by Italian Scholars, a cura di E.
Vezzosi, fasc. spec. di «Storia Nordamericana», V, 2, 1988; G. Pomata, Storia particolare e
storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, in «Quaderni storici»,
XXV, agosto 1990; M. Vaudagna, Tendenze e caratteri della storiografia sul maschile, in «Rivista di storia contemporanea», XX, gennaio 1991.
2. E.C. DuBois, Feminism and Suffrage: The Emergence of an Independent Women’s Movement
in America, 1848-1869, Ithaca, Cornell University Press, 1978, p. 60; E.C. DuBois,
Outgrowing the Compact of the Fathers: Equal Rights, Woman Suffrage, and the United States
Constitution, 1820-1878, in «Journal of American History», LXXIV, dicembre 1987.
3. W. Whitman, Democratic Vistas [1871], in W. Whitman, Prose Works 1892, a cura di F.
Stovall, 2 voll., New York, New York University Press, 1964, vol. II, p. 396; W. Whitman,
For You O Democracy [1860], in W. Whitman, Leaves of Grass: Comprehensive Reader’s Edition,
a cura di H.W. Blodgett e S. Bradley, New York, New York University Press, 1965, p. 117;
F.P. Dunne, Mr. Dooley: In Peace and in War, Boston, Small Maynard, 1898, p. xiii.
4. M.P. Ryan,Women in Public: Between Banners and Ballots, 1825-1880, Baltimora, Johns
Hopkins University Press, 1990, p. 135; U. Vogel, Is Citizenship Gender Specific? [1989],
citato da G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile,
Bologna, Il Mulino, 1992, p. 218.
5. L.K. Kerber, Separate Spheres, Female Worlds, Woman’s Place: The Rhetoric of Women’s History,
in «Journal of American History», LXXV, giugno 1988. Fra le ricerche che hanno esplorato la
categoria delle sfere separate, vedi B. Welter, The Cult of True Womanhood, 1820-1860, in
«American Quarterly», XVIII, estate 1966; C. Smith-Rosenberg, Religion and the Rise of the
American City: The New York City Mission Movement, 1812-1870, Ithaca, Cornell University
Press, 1971; N.F. Cott, The Bonds of Womanhood: «Woman’s Sphere» in New England, 17801835, New Haven, Yale University Press, 1977; M.P. Ryan, Craddle of the Middle Class: The
Family in Oneida County, New York, 1790-1865, New York, Cambridge University Press, 1981.
6. E. Freedman, Separatism as Strategy: Female Institution Building and American Feminism,
1870-1930, in «Feminist Studies», V, autunno 1979; B. Wiesen Cook, Solidarietà femminile
a attivismo politico. Tre donne dell’età progressista: Lillian Wald, Crystal Eastman, Emma Goldman,
in A. Testi (a cura di), L’età progressista negli Stati Uniti, 1896-1917, Bologna, Il Mulino,
1984; K. Kish Sklar, Hull House in the 1890s: A Community of Women Reformers, in «Signs»,
X, estate 1985.
7. P. Baker, The Domestication of Politics: Women and American Political Society, 1780-1920,
in «American Historical Review», LXXXIX, giugno 1984; S. Lebsock, Women and American
Politics, 1880-1920, in L.A. Tilly, P. Gurin (a cura di), Women, Politics, and Change, New
York, Sage, 1990; W.H. Chafe, Women’s History and Political History: Some Thoughts on
Progressivism and the New Deal, in N.A. Hewitt, S. Lebsock (a cura di), Visible Women: New
Essays on American Activism, Urbana, University of Illinois Press, 1993; M.E. McGerr, Political
Style and Women’s Power, 1830-1930, in «Journal of American History», LXXVII, dicembre
1990; S.S. Monoson, The Lady and the Tiger: Women’s Electoral Activism in New York City
Before Suffrage, in «Journal of Women’s History», II, autunno 1990. Per alcune storie generali
130
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
delle donne americane fra Ottocento e Novecento, vedi C.N. Degler, At Odds: Women and
the Family in America from the Revolution to the Present, New York, Oxford University Press,
1980; C. Clinton, The Other Civil War: American Women in the Nineteenth Century, New
York, Hill and Wang, 1984; S.M. Evans, Born for Liberty: A History of Women in America,
New York, Free Press, 1989; G. Matthews, The Rise of Public Woman: Woman’s Power and
Woman’s Place in the United States, 1630-1970, New York, Oxford University Press, 1992.
8. F.E. Willard, Glimpses of Fifty Years: The Autobiography of An American Woman, Written by
Order of the National Woman’s Christian Temperance Union, Chicago, H.J. Smith, 1889, p. 331;
F.E. Willard, Woman and Temperance, Or, The Work and Workers of the Woman’s Christian
Temperance Union, Hartford, Park Publishing Company, 1883; R. Bordin, Frances Willard: A
Biography, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1986, p. 66; C.A. Nation, The Use
and Need of the Life of Carry A. Nation, Written by Herself, Topeka, F.M. Stevens, 1905; R.
Bordin, Women and Temperance: The Quest for Power and Liberty, 1873-1900, Filadelfia, Temple
University Press, 1981; B. Leslie Epstein, The Politics of Domesticity: Women, Evangelism, and
Temperance in Nineteenth-Century America, Middletown, Wesleyan University Press, 1981; I.
Tyrrell, Woman’s World, Woman’s Empire: The Woman’s Christian Temperance Union in International
Perspective, 1880-1930, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1991.
9. Citato da W.L. O’Neill, Everyone Was Brave: The Rise and Fall of Feminism in America,
Chicago, Quadrangle, 1969, p. 150. Vedi K.J. Blair, The Clubwoman as Feminist: True
Womanhood Redefined, 1868-1914, New York, Holmes & Meier, 1980; A.F. Scott, Women’s
Voluntary Associations: From Charity to Reform, in K. McCarthy (a cura di), Lady Bountiful
Revisited: Women, Philantrophy, and Power, New Brunswick, Rutgers University Press, 1990;
A.F. Scott, Natural Allies: Women’s Associations in American History, Urbana, University of
Illinois Press, 1991.
10. J. Addams, Why Women Should Vote [1910], in J. Addams, Jane Addams: A Centennial
Reader, New York, Macmillan, 1960, pp. 104-107. Per il riferimento alla città come «enlarged
housekeeping», vedi J. Addams, Utilization of Women in City Government [1907], in A.S.
Rossi (a cura di), The Feminist Papers: From Adams to de Beauvoir, New York, Columbia
University Press, 1973, p. 605.
11. J. Addams, The Subjective Necessity for Social Settlement [1892], cap. VI di J. Addams,
Twenty Years at Hull-House, with Autobiographical Notes, New York, Macmillan, 1910; C.
Lasch, Jane Addams: The College Woman and the Family Claim, in C. Lasch, The New Radicalism
in America, 1889-1963, New York, Knopf, 1965; K. Kish Sklar, Hull House in the 1890s, cit.
12. J. Taft, The Woman Movement from the Point of View of Social Consciousness, in
«Philosophical Studies of the University of Chicago», 1916, p. 10, citato in A. Testi (a cura
di), L’età progressista negli Stati Uniti, cit., pp. 67-68; B.J. Harris, Beyond Her Sphere: Women
and the Professions in American History, Westport, Greenwood Press, 1978; J.J. Meyerowitz,
Women Adrift: Independent Wage Earners in Chicago, 1880-1930, Chicago, University of
Chicago Press, 1988. Forse non è un caso che la generazione di donne nata fra il 1860 e il
1880 avesse una percentuale molto alta di individue che non contrassero mai matrimonio
(poco più del 10 per cento), maggiore sia rispetto alle generazioni precedenti che a quelle
successive. Vedi C.N. Degler, At Odds, cit., pp. 152, 385.
13. M. Putnam Jacoby, Address on Behalf of the Women of the City of New York before the
Committee on Suffrage of the State Constitutional Convention, May 31, 1894, in M. Putnam
Jacoby, «Common Sense» Applied to Woman Suffrage, New York, Putnam, 1915, pp. 202,
131
CAPITOLO
3
204-205, 220, 227, 226. Sull’intreccio di motivazioni presenti nel movimento suffragista,
vedi A.S. Kraditor, The Ideas of the Woman Suffrage Movement, 1890-1920, Garden City,
Anchor Books, 1971; E. Flexner, Century of Struggle: The Woman’s Rights Movement in the
United States, Cambridge, Harvard University Press, 1975; A. Rossi-Doria, La libertà delle
donne. Voci della tradizione politica suffragista, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990. Sulla rivoluzione legale, vedi S.B. Anthony, I.H. Harper (a cura di), History of Woman Suffrage, 4 voll.,
Rochester, S.B. Anthony, vol. IV, pp. xiv, 455-458.
14. M. Eastman, Is Woman Suffrage Important?, New York, The Men’s League for Woman
Suffrage, 1911, p. 10; E.J. Ward, Women Should Mind Their Own Business [1912], in M.S.
Kimmel, T.E. Mosmiller (a cura di), Against the Tide: Pro-Feminist Men in the United States,
1776-1990, Boston, Beacon, 1992, pp. 240-242. Gli studi di men’s history ai quali faccio
riferimento sono J.L. Dubbert, A Man’s Place: Masculinity in Transition, Englewood Cliffs,
Prentice Hall, 1979; E.H. Pleck, J.H. Pleck (a cura di),The American Man, Englewood Cliffs,
Prentice-Hall, 1980; D. G. Pugh, Sons of Liberty: The Masculine Mind in Nineteenth-Century
America, Westport, Greenwood Press, 1983; P.G. Filene, Him/Her/Self: Sex Roles in Modern
America, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1986; M.S. Kimmel (a cura di), Changing
Men: New Directions in Research on Men and Masculinity, Beverly Hills, Sage, 1987; M.C.
Carnes, C. Griffen ( a cura di), Meanings for Manhood: Constructions of Masculinity in Victorian
America, Chicago, University of Chicago Press, 1990; E.A. Rotundo, American Manhood:
Transformations in Masculinity from the Revolution to the Modern Era, New York, Basic Books,
1993; G. Bederman, Manliness & Civilization: A Cultural History of Gender and Race in the
United States, 1880-1917, Chicago, University of Chicago Press, 1995; M. Kimmel, Manhood
in America: A Cultural History, New York, Free Press, 1996.
15. L.D. Wald, The House on Henry Street, New York, Holt, 1915, p. 266.
16. S. Koven, S. Michel, Gender and the Origins of the Welfare State, in «Radical History
Review», 43, gennaio 1989; S. Koven, S. Michel, Womanly Duties: Maternalist Politics and
the Origins of Welfare States in France, Germany, Great Britain, and the United States, 18801920, in «American Historical Review», XCV, ottobre 1990; R.L. Muncy, Creating a Female
Dominion in American Reform, 1890-1930, New York, Oxford University Press, 1990; L.
Gordon (a cura di), Women, the State, and Welfare, Madison, University of Wisconsin Press,
1990; M. Cohen, M. Hanagan, The Politics of Gender and the Making of the Welfare State,
1900-1940: A Comparative Perspective, in «Journal of Social History», XXIV, primavera 1991;
L. Gordon, Social Insurance and Public Assistance: The Influence of Gender in Welfare Thought
in the United States, 1890-1935, in «American Historical Review», XCVII, febbraio 1992; T.
Skocpol, G. Ritter, Gender and the Origins of Modern Social Policies in Britain and the United
States, in «Studies in American Political Development», V, primavera 1991; T. Skocpol,
Protecting Soldiers and Mothers: The Political Origins of Social Policy in the United States,
Cambridge, Harvard University Press, 1992.
17. Riprendo e modifico alcune osservazioni di G. Zincone, Da sudditi a cittadini, cit., p. 203.
18. Citato da R. Bordin, Women and Temperance, cit., p. 133.
19. P. Baker, The Domestication of Politics, cit.; P. Baker, The Moral Framework of Public Life:
Gender, Politics and the State in Rural New York, 1870-1930, New York, Oxford University
Press, 1991; S. Lebsock, Women and American Politics, 1880-1920, cit., pp. 37, 55-59.
20. Teodoro Roosevelt a Roma, in «La Stampa», 4 aprile 1910; M. Prati, Roosevelt e l’America,
in «La Stampa», 24 marzo 1909; Prati, Roosevelt e il mondo, in «La Stampa», 14 marzo 1909;
132
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
Il momento di farsi onore, in «Corriere della Sera», 5 aprile 1909; La giornata dell’ospite, in
«Corriere della Sera», 6 aprile 1910. Del volume di T. Roosevelt, The Strenuous Life: Essays
and Addresses, New York, Century, 1899, vedi la trad. it. a cura di Hilda di Malgrà (che
utilizzerò in questo saggio), T. Roosevelt, Vigor di vita, Milano, Treves, 1904; per una recensione, vedi D. Mantovani, Roosevelt, in «La Stampa», 15 novembre 1904. Sull’immagine di
Roosevelt cacciatore nella cultura inglese del tempo, vedi J.M. MacKenzie, The Imperial
Pioneer and Hunter and the British Masculine Stereotype in late Victorian and Edwardian Times,
in J.A. Mangan, J. Walvin (a cura di), Manliness and Morality: Middle-class Masculinity in
Britain and America, 1800-1940, New York, St.Martin’s Press, 1987, pp. 178-179.
21. Il ricevimento di Roosevelt in Campidoglio. Il discorso di Nathan, in «La Stampa», 7 aprile
1910; G. Podrecca, L’americano in Campidoglio, in «Avanti!», 9 aprile 1910. Per i paragoni
fra Mussolini e Theodore Roosevelt negli anni venti vedi, J.P. Diggins, Mussolini and Fascism:
The View from America, Princeton, Princeton University Press, 1972, pp. 61-63, 226-227.
22. Roosevelt, in «Corriere della Sera», 17-18 settembre 1901; Teddy Roosevelt, com’è, in «Corriere della Sera», 21 settembre 1901. In quanto vicepresidente degli Stati Uniti, nel settembre del
1901 Roosevelt prese il posto del presidente William McKinley assassinato da un anarchico.
23. T. Roosevelt, An Autobiography, New York, Scribner, 1913, pp. 58 17, 20, 22, 32-33.
«The Vigor of Life» è il titolo del cap. II, pp.32-60.
24. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 59, 38, 132, 110, 103, 109, 106, 110, 136. A
proposito di umiliazione, David Leverenz sostiene che molte definizioni di mascolinità nell’Ottocento americano non furono plasmate dall’esperienza del ruolo patriarcale nella famiglia
(e quindi in rapporto alla donna e alle definizioni di femminilità), bensì dall’esperienza del
rapporto conflittuale fra uomini nell’arena pubblica. Il «timore dell’umiliazione» nella rivalità
maschile per il dominio è per lui all’origine di ogni esasparata ideologia della manhood. Vedi D.
Leverenz, Manhood and the American Renaissance, Ithaca, Cornell University Prss, 1989, p. 4.
25. Un’intervista con Roosevelt, in «Corriere della Sera», 6 aprile 1909; Teddy Roosevelt, com’è,
in «Corriere della Sera», 21 settembre 1901; Le cacce di Roosevelt nell’Africa Equatoriale, in
«La Stampa», 4 aprile 1909; I Sovrani d’Italia a Messina. L’incontro coll’ex presidente Roosevelt,
in «La Nazione», 7 aprile 1909.
26. Vedi l’intero cap. IV («In Cowboy Land», pp. 103-143) in T. Roosevelt, An Autobiography,
cit., in particolare le pp. 103, 131-132, 110. Per il riferimento al West come comunità patriarcale, vedi T. Roosevelt, Ranch Life and the Hunting-Trail [1896], New York, St.Martin’s
Press, 1985, p. 6; in questo libro, illustrato da Frederic Remington e aperto da alcuni versi di
Robert Browning («Oh, our manhood’s prime vigor!»), Roosevelt descrisse a caldo le sue
esperienze nel West. Su Fiedler e il mito del West vedi L.A. Fiedler, Love and Death in the
American Novel, ed. riv., New York, Dell, 1966; L.A. Fiedler, The Return of the Vanishing
American, New York, Stein & Day, 1968. Un importante studio recente è R. Slotkin, Gunfighter
Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth Century America, New York, Atheneum, 1992.
27. C. Smith-Rosenberg, The Female World of Love and Ritual: Relations Between Women in
Nineteenth-Century America, in «Signs», I, autunno 1975.
28. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 62, 216. Il commento di Cecil Spring-Rice è citato
in R. Hofstadter, La tradizione politica americana [1948], Bologna, Il Mulino, 1960, p. 232.
29. Teodoro Roosevelt a Napoli, in «Corriere della Sera», 6 aprile 1909; La festosa accoglienza di
Napoli a Teodoro Roosevelt, in «La Stampa», 6 aprile 1909; L’incontro dei Sovrani con Roosevelt
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CAPITOLO
3
sulle rovine di Messina, in «Corriere della Sera», 7 aprile 1909; Teodoro Roosevelt a Roma, in
«La Stampa», 4 aprile 1910; La visita di Roosevelt al Re d’Italia, in «La Stampa», 5 aprile 1910;
La logica del Papa, in «Avanti!», 6 aprile 1910; La giornata dell’ospite, in «Corriere della Sera»,
6 aprile 1910; Le visite dell’ex-Presidente, in «La Nazione», 6 aprile 1910; L’ultima giornata di
Roosevelt a Roma, in «Corriere della Sera», 7 aprile 1910.
30. D. Mantovani, Roosevelt, in «La Stampa», 15 novembre 1904; La giornata dell’ospite, in
«Corriere della Sera», 6 aprile 1910.
31. T. Roosevelt, Vigor di vita, cit., pp. vii-viii; T. Roosevelt, An Autobiography, cit., p. 58.
Vedi G. Gadda Conti, William James e Theodore Roosevelt nella stampa italiana, in «Studi
americani», 25-26, 1980, pp. 167-168.
32. Vedi Nota letteraria: Vigor di vita, in «Il Regno», 6 novembre 1904; La vittoria di Roosevelt,
in «Il Regno», 13 novembre 1904, secondo le citazioni che ne fa L. Giorgi, L’immagine degli
Stati Uniti nelle riviste fiorentine del primo Novecento, in G. Spini et al. (a cura di), Italia e
America dal Settecento all’Età dell’imperialismo, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 430-431.
33. H. Adams, The Education of Henry Adams: An Autobiography, Boston, Houghton Mifflin,
1918. Per lo «schema coerente», vedi N. Frye, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969,
p. 415. Sulle autobiografie americane del periodo vedi P.J. Eakin (a cura di), American
Autobiography: Retrospect and Prospect, Madison, University of Wisconsin Press, 1991; T.
Cooley, Educated Lives: The Rise of Modern Autobiography in America, Columbus, Ohio State
University Press, 1976; T.G. Couser, American Autobiography: The Prophetic Mode, Amherst,
University of Massachusetts Press, 1979; R.F. Sayre, Autobiography and the Making of America, in J. Olney (a cura di), Autobiography: Essays Theoretical and Critical, Princeton, Princeton
University Press, 1980; I.G. Wyllie, The Self-Made Man in America: The Myth of Rags to
Riches, New Brunswick, Rutgers University Press, 1954.
34. T. Roosevelt, Vigor di vita, cit., pp. 148, 121.
35. J.F. Kett, Rites of Passage: Adolescence in America, 1790 to the Present, New York, Basic
Books, 1977; H.P. Chudacoff, How Old Are You? Age Consciousness in American Culture,
Princeton, Princeton University Press, 1989.
36. Citazioni in J.H. Pleck, American Fathering in Historical Perspective, in M.S. Kimmel (a
cura di), Changing Men, cit., p. 88.
37. H. James, The Bostonians: A Novel, New York, Macmillan, 1886, pp. 333-334.
38. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 364, 375, 370, 49. Per «picchiare sodo», vedi T.
Roosevelt, Vigor di vita, cit., p. 157. Vedi inoltre D.I. Macleod, Building Character in the
American Boy: The Boy Scouts, YMCA, and Their Forerunners, 1870-1920, Madison, University
of Wisconsin Press, 1983; J.P. Hantover, The Boy Scouts and the Validation of Masculinity, in
E.H. Pleck, J.H. Pleck (a cura di),The American Man, cit.
39. J.L. Dubbert, Progressivism and the Masculinity Crisis, in E.H. Pleck, J.H. Pleck (a cura
di),The American Man, cit.; J.L. Dubbert, A Man’s Place, cit., pp. 122-162; E.A. Rotundo,
Body and Soul: Changing Ideals of American Middle-Class Manhood, 1770-1920, in «Journal
of Social History», XVI, estate 1983; D.T. Rodgers, The Work Ethic in Industrial America,
1850-1920, Chicago, University of Chicago Press, 1978; J. D’Emilio, E.B. Freedman, Intimate Matters: A History of Sexuality in America, New York, Harper & Row, 1988.
40. E.H. Pleck, J.H. Pleck (a cura di),The American Man, cit., p. 28; P.G. Filene, Him/Her/
Self, cit., p. 94. Uno studio sull’associazionismo maschile nell’ultimo terzo dell’Ottocento è
134
PARTITO MASCHILE E RIFORMA FEMMINILE
in M.C. Carnes, Secret Ritual and Manhood in Victorian America, New Haven, Yale University
Press, 1989.
41. T. Roosevelt, Vigor di vita, cit., pp. 88, 69, 241, 108-109, 70, 86.
42. J.F. Kett, Rites of Passage, cit., p. 173.
43. H. Adams, The Education of Henry Adams, cit., pp. 442-446, 353; T. Roosevelt, Vigor di
vita, cit., p. 4.
44. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., p. 180.
45. R. Hofstadter, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf, 1963, pp. 185191; G. Blodgett, The Mugwump Reputation, 1870 to the Present, in «Journal of American
History», LXVI, marzo 1980; A. Trachtenberg, The Incorporation of America: Culture and
Society in the Gilded Age, New York, Hill & Wang, 1982, pp. 163-165; M.E. McGerr, The
Decline of Popular Politics: The American North, 1865-1928, New York, Oxford University
Press, 1986, pp. 44-45; R.D. Marcus, Grand Old Party: Political Structure in the Gilded Age,
1880-1896, New York, Oxford University Press, 1971, p. 15.
46. H. James, The Bostonians, cit., p. 72; H. Adams, Democracy: An American Novel, New
York, Macmillan, 1880; R. Hofstadter, B. Hofstadter, Winston Churchill: A Study on the
Popular Novel, in «American Quarterly», vol. 2, primavera 1950.
47. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 96, 162-163, 302, 63-64, 161, 69, 166, 304305, 94, 165.
48. J. Addams, Democracy and Social Ethics [1907], a cura di A.F. Scott, Cambridge, Harvard
University Press, 1964, pp. 270, 268. Su Addams, Wald e i movimenti indipendenti, vedi J.
Addams, Twenty Years at Hull-House, with Autobiographical Notes, New York, Macmillan, 1910,
pp. 315-320; J. Addams, Ethical Survivals in Municipal Corruption, in «International Journal of
Ethics», VIII, aprile 1898; L.D. Wald, The House on Henry Street, cit., pp. 255-262.
49. Vedi L. Steffens, The Autobiography of Lincoln Steffens, New York, Harcourt Brace &
World, 1931.
50. Citato in R. Hofstadter, Anti-intellectualism in American Life, cit., p. 194; A.J. Beveridge,
The Young Man and the World, New York, Appleton, 1906, pp. 353-354. Gli articoli di
Roosevelt degli anni ottanta e novanta sono raccolti in T. Roosevelt, Essays on Practical Politics,
New York, Putnam, 1888; T. Roosevelt, American Ideals and Other Essays: Social and Political,
New York, Macmillan, 1897; T. Roosevelt, The Strenuous Life, cit.
51. T. Roosevelt, An Autobiography, cit., p. 166; J. Bryce, The American Commonwealth, 3
voll., New York, Macmillan, 1888, vol. II, pp. 403-411.
52. T. Roosevelt, Vigor di vita, cit., pp. 2-3; T. Roosevelt, An Autobiography, cit., pp. 355-364.
53. P.G. Filene, Him/Her/Self, cit., p. 76; D.B. Johnson, K.H. Porter (a cura di), National
Party Platforms, 1840-1972, Urbana, University of Illinois Press, 1975, pp. 175-182; J.
Addams, The Second Twenty Years at Hull-House, September 1909 to September 1929, with a
Record of a Growing World Consciousness, New York, Macmillan, 1930, pp. 10-48. La richiesta del suffragio femminile era presente nel programma del Socialist Party fin dalla sua fondazione, all’inizio del Novecento; entrò nei programmi nazionali del partito democratico e
di quello repubblicano nel 1916.
54. W. Johnson (a cura di), Selected Letters of William Allen White, New York, Holt, 1947, pp.
144-145; E. Bok, The Americanization of Edward Bok: The Autobiography of a Dutch Boy Fifty
135
CAPITOLO
3
Years Later, New York, Scribner, 1922, pp. 273-278 (Bok era il direttore del «Ladies’ Home
Journal»).
55. Vedi le autobiografie di uomini politici del periodo come R.M. La Follette, La Follette’s
Autobiography: A Personal Narrative of Political Experiences [1913], Madison, University of
Wisconsin Press, 1960; G.W. Norris, Fighting Liberal: The Autobiography of George W. Norris,
New York, Macmillan, 1945. Per la citazione da Bok, vedi P.G. Filene, Him/Her/Self, cit., p.
76.
56. L.D. Wald, The House on Henry Street, cit., pp. 261, 266.
57. E. Israels Perry, Belle Moskowitz: Feminine Politics and the Exercise of Power in the Age of
Alfred E. Smith, New York, Oxford University Press, 1987, p. xii; N.F. Cott, Across the Great
Divide: Women and Politics Before and After 1920, in L.A. Tilly, P. Gurin (a cura di), Women,
Politics, and Change, cit. Vedi inoltre N.F. Cott, The Grounding of Modern Feminism, New
Haven, Yale University Press, 1987; S. Ware, Partner and I: Molly Dewson, Feminism, and
New Deal Politics, New Haven, Yale University Press, 1987; S. Ware, Beyond Suffrage: Women
in the New Deal, Cambridge, Harvard University Press, 1981; F.D. Gordon, After Winning:
The New Jersey Suffragists in the Political Parties, 1920-30, in «New Jersey History», CI, autunno-inverno 1983; C. Nichols, Votes and More for Women: Suffrage and After in Connecticut,
in «Women and History», 5, primavera 1983, pp. 1-92; L. Gordon, Black and White Visions
of Welfare: Women’s Welfare Activism, 1890-1945, in «Journal of American History», LXXVIII,
settembre 1991.
58. D.B. Johnson, K.H. Porter (a cura di), National Party Platforms, cit., pp. 175, 182. Sul
diverso atteggiamento dei party politicians e dei nuovi politici riformatori, vedi J.D. Buenker,
Urban Liberalism and Progressive Reform, New York, Scribner, 1973, pp. 156-162; M. Shefter,
Regional Receptivity to Reform: The Legacy of the Progressive Era, in «Political Science Quarterly»,
XCVIII, autunno 1983, p. 474.
59. Le citazioni sono da N.F. Cott, Across the Great Divide, cit., p. 160; vedi inoltre K. Andersen,
Women and Citizenship in the 1920s, in L.A. Tilly, P. Gurin (a cura di), Women, Politics, and
Change, cit.; L. Balbo, Rappresentanza e non rappresentanza, in G. Pasquino (a cura di), Rappresentanza e democrazia, Bari, Laterza, 1988, p. 78. Sulla partecipazione elettorale delle donne
subito dopo l’emancipazione, vedi P. Kleppner, Were Women to Blame? Female Suffrage and Voter
Turnout, in «Journal of Interdisciplinary History», XII, primavera 1982; J.G. Rusk, J.J. Stucker,
Legal-Institutional Factors and Voting Participation: The Impact of Women’s Suffrage on Voter Turnout,
in W. Crotty (a cura di), Political Participation and American Democracy, New York, Greenwood
Press, 1991; C. Brown, Ballots of Tumult: A Portrait of Volatility in American Voting, Ann Arbor,
University of Michigan Press, 1991, pp. 129-147; S. Alpern, D. Baum, Female Ballots: The
Impact of the Nineteenth Amendment, in «Journal of Interdisciplinary History», XVI, estate
1985; J.H. Goldstein, The Effects of the Adoption of Woman Suffrage: Sex Differences in Voting
Behavior: Illinois, 1914-1921, New York, Praeger, 1984.
136
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO?
1. Europa e Stati Uniti: dov’è il socialismo?
Riproporre a più di novant’anni di distanza la domanda formulata nel
1906 dal sociologo tedesco Werner Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è
il socialismo?, può apparire paradossale. Per un intero secolo, questa domanda ha riassunto in maniera incisiva una differenza che non esiste più. C’è
ancora il socialismo in Europa? Nel dibattito pubblico europeo, nell’ultimo
quindicennio, questa parola è stata associata quasi esclusivamente a crisi,
sconfitta, perdita di significato; è stata consegnata al regno di una contemporanea archeologia politica. In questi anni caratterizzati da un millenarismo
alla rovescia, la «strana morte» del socialismo ha preso il suo posto accanto
ad altre premonizioni negative, dalla morte dell’arte alla fine della storia1. Il
crollo rapido e convulso del cosiddetto socialismo reale in quella che fu
l’Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa orientale costituisce un aspetto
del problema, drammatico e periodizzante; ha travolto, fra l’altro, quella
forma specifica di socialismo novecentesco che è stato il comunismo della
Terza internazionale, con i suoi modelli di organizzazione del partito e di
gestione dello stato. Ma non è questo l’unico aspetto della crisi del socialismo, né il più importante; la questione dei destini del socialismo nell’Europa occidentale è infatti altra cosa. Si tratta, in questo caso, di un socialismo
che si è espresso storicamente in movimenti che sono stati estranei alla tradizione comunista, o che quella tradizione hanno vissuto e interpretato in
condizioni e ambienti assai diversi, allontanandosene lentamente (penso soprattutto all’estinto partito comunista italiano). Anche questi movimenti,
anche i partiti socialdemocratici, laburisti e socialisti di Gran Bretagna e
Germania, dei paesi scandinavi e di quelli latini, sono da tempo in difficoltà. Alcuni stanno conducendo radicali ripensamenti, altri hanno subìto trasformazioni genetiche, altri ancora si sono dissolti nell’aria in un euforico
impulso autodistruttivo.
Le radici delle difficoltà di questo socialismo non stanno nella caduta
del muro di Berlino, bensì altrove, in tempi e processi di più lungo respiro,
nelle sfide dei mutamenti che hanno attraversato l’Europa capitalista e democratica, industriale e postindustriale. E’ in questo contesto che penso ab137
CAPITOLO
4
bia senso, nell’epoca in cui l’interrogativo all’ordine del giorno sembra essere,
«Perché non c’è (più) il socialismo in Europa?», ritornare all’inizio del Novecento e cercare di rispondere all’altro interrogativo, «Perché non c’è (mai stato) il socialismo negli Stati Uniti?». Gli Stati Uniti, dopo tutto, sono il paese
democratico e capitalista nel quale il socialismo, come movimento politico di
portata nazionale, è scomparso, ora possiamo dirlo, prima che altrove. Anzi,
non ha fatto neanche in tempo a svilupparsi; è stato precocemente strangolato
nella culla alle origini della sua storia, per ragioni sulle quali gli osservatori
hanno avuto quasi un secolo per indagare, fino a farne una vera e propria
questione storiografica, e non solo storiografica. Credo che riesaminare queste
ragioni alla luce dei recenti sviluppi europei, permetta di ripercorrere in chiave
non convenzionale le dinamiche della società e della politica americana; credo
anche che possa aiutare a riflettere sulle ragioni della crisi delle tradizionali
politiche socialiste nell’Europa occidentale dei nostri giorni. Le due domande
sono strettamente intrecciate, e proprio questo intreccio rende conto della
loro ancora attuale, purché congiunta, utilità.
Le domande, la loro struttura, il lessico che impiegano, sono cose importanti in quanto indirizzano e plasmano le risposte. E’ bene quindi liberare subito la domanda sombartiana dalle sue evidenti crudezze semplificatorie,
renderla più accurata e quindi più complessa. Innanzitutto, il socialismo in
questione non è l’ideale che percorre come una presenza costante la storia
secolare della modernità occidentale, sia nel nostro continente che nelle sue
diramazioni oltreoceano; non è la speranza di una possibile riorganizzazione
della società e dell’economia in funzione dell’interesse collettivo dei molti
anziché dell’egoismo individuale dei pochi2. Il socialismo di cui si discute è
la forma storica che questo ideale ha assunto in un periodo preciso, dalla
rivoluzione industriale in poi, quando si è organizzato in movimenti a base
operaia, dotati di teorie della società e dello stato di cui quella marxista,
nelle sue varie versioni, è stata la più visibile ma non l’unica; ancora più
precisamente, è il socialismo che si è sviluppato dall’epoca della Seconda
internazionale in poi, articolato in sindacati, associazioni di massa, e partiti
politici impegnati nell’arena elettorale, nel contesto degli stati nazionali e di
sistemi politici in via di democratizzazione e poi democratici. Questi movimenti, nati come movimenti anti-sistema, hanno avuto nel corso del Novecento un successo sorprendente, e hanno segnato la vita pubblica dei paesi
capitalistici più sviluppati (ma non degli Stati Uniti). Sembrano ora avviarsi
a concludere la loro parabola in Europa, le loro speranze di sopravvivenza
essendo legate alla capacità di affrontare le contraddizioni poste dalla dissoluzione delle loro basi sociali3. E’ questo, in buona sostanza, il socialismo
come lo conosceva e intendeva, appunto, Sombart.
138
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
In secondo luogo, la domanda deve essere specificata nella sua dimensione temporale-comparativa. Nel 1974 lo scienziato politico Seymour
Martin Lipset l’aveva riformulata così: «Perché la rappresentanza operaia ha
preso una forma esplicitamente di classe nell’Europa settentrionale, e una
forma “populista” interclassista negli Stati Uniti?»4. Già allora, tuttavia, Lipset
aveva osservato una convergenza delle due tradizioni transatlantiche. Il partito democratico americano, almeno dagli anni trenta in poi, aveva adottato
una politica di rappresentanza della classe operaia organizzata, di alleanza
con i sindacati e a favore del Welfare State, che aveva molto in comune con
le politiche socialiste europee. Viceversa, i partiti socialisti europei si stavano trasformando in partiti «pigliatutto» di tipo americano, per conquistare
e mantenere il consenso di una crescente classe media non radicale. Lipset
escludeva dalla sua analisi l’Europa meridionale, perché caratterizzata dalla
presenza di forti partiti comunisti; ignorava inoltre le forme di rappresentanza interclassista che gruppi di lavoratori trovavano, e non solo nei paesi
latini, in partiti e movimenti di ispirazione cattolica. Nel ventennio trascorso, i termini del problema sono cambiati e quindi è cambiato, come spesso
accade, anche il punto di vista storico e la percezione delle scansioni
periodizzanti. I paesi del sud dell’Europa hanno vissuto esperienze di partiti
e governi socialisti, mentre i locali partiti comunisti sono scomparsi o si
sono trasformati in altro. Le politiche di governo sia di tipo socialista che di
tipo liberal-newdealista si sono tuttavia usurate su entrambe le sponde dell’Atlantico. L’elettorato operaio si è scompaginato ovunque, transitando per
formazioni politiche che ormai sono tutte interclassiste, nei fatti e anche
nelle intenzioni. Mi sembra quindi che oggi ci si possa chiedere: Perché la
rappresentanza politica dei lavoratori ha preso, per un periodo storico lungo
ma definito, una forma prevalentemente socialista e di classe in molti paesi
europei, e una forma interclassista e non socialista negli Stati Uniti? Insomma, «Perché negli Stati Uniti non c’è stato un partito socialista?». A questo
punto sono tuttavia opportuni alcuni chiarimenti, che riguardano non solo
i termini della discussione e i singoli strumenti concettuali usati, ma anche
il quadro interpretativo generale e le implicazioni politiche e culturali che
questo quadro ha storicamente assunto.
2. Il caso del socialismo mancante
La questione del socialismo mancante negli Stati Uniti è sempre stata,
insieme, storica e politica. Ha sempre costituito uno dei principali linguaggi
di comunicazione o non comunicazione transatlantica nell’età contemporanea, in quanto ha investito tutta la gamma delle comparabilità o non
139
CAPITOLO
4
comparabilità fra gli Stati Uniti e i paesi d’Europa, ovvero, in altri termini, il
problema stesso dell’identità nazionale americana. Per spiegare uno specifico evento (o meglio, un non-evento), ha chiamato in causa tutte le categorie
che connotano la modernità nell’Occidente degli stati-nazione. Si può cominciare dal trauma fondante della rivoluzione, con la contrapposizione fra
il 1776 americano, presentato come l’affermazione di una società borghese
già esistente che si libera con rapidità della tutela di una madrepatria estranea e lontana, e il 1789 francese ed europeo, inteso come rovesciamento
violento di un antico regime che, rifiutando di morire, innesca conflitti
secolari e sanguinosi. Si può concludere, almeno in via provvisoria, con la
placidità della società di massa, consumista, senza classi e senza conflitti di
classe, che avrebbe connotato e distinto la realtà americana e che solo recentemente starebbe trionfando anche in molti paesi dell’Europa occidentale.
Nel mezzo ci sono tutte le parole-chiave che contano, ordinate secondo
varie combinazioni. Quella americana, si dice, è una società nata libera,
dove il liberalismo non ha dovuto combattere lotte secolari contro i residui
del feudalesimo; quindi l’individualismo vi è fiorito indisturbato e ha impedito la formazione di una coscienza di classe e dell’ideologia socialista. Oppure: quella americana è la prima democrazia, dove il suffragio universale si
è affermato senza bisogno di rivoluzioni popolari; qui i partiti sono nati
come organizzazioni pragmatiche non classiste e non pedagogiche (gli intellettuali sono sempre stati guardati con sospetto), l’apparato statale è una
macchina invisibile (non c’è nessuna Bastiglia, nessun Palazzo d’inverno da
conquistare), e la società civile e il mercato si sono potuti espandere liberamente. Ancora: quella americana è una classe operaia che, grazie a un rapido
sviluppo economico che ha prodotto mobilità e opulenza, e a una continua
immigrazione che l’ha divisa secondo linee etniche e razziali, non si è mai
veramente cristallizzata in classe in guerra con altre classi; ha quindi costruito sindacati che esprimevano un tradunionismo puro e semplice, non antagonista al sistema, e che si comportavano come uno dei tanti gruppi di
pressione in una società complessa. Di tutto ciò l’Europa è l’esatto opposto.
Accanto a queste combinazioni altre sono concepibili, e sono state in
effetti concepite, per rispondere sia all’interrogativo sombartiano che ad altri interrogativi su quello modellati. Per esempio, per riprendere i titoli di
alcuni saggi, Perché non vi è corporativismo negli Stati Uniti?, oppure Perché
gli americani non votano? O anche, per quanto bizzarro possa apparire, Perché negli Stati Uniti non c’è ancora il calcio?, una formulazione che tradisce
un ottimismo («non … ancora») che nessuno oserebbe permettersi a propo140
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
sito del socialismo5. Le domande cambiano, ma lo spirito con il quale vengono poste non muta, e contiene una curiosa contraddizione. Da una parte,
la logica della spiegazione tende a stabilire precisi nessi causali fra categorie
astratte che si suppone abbiano una validità universale. Tale era stato l’approccio di Sombart per il quale, come per la tradizione marxista che l’aveva
influenzato, esisteva un rapporto necessario fra sviluppo del capitalismo,
nascita del proletariato, e decollo del socialismo. Gli Stati Uniti lo interessavano perché sembravano smentire questa necessità, perché non erano quello
che avrebbero dovuto essere, perché erano incongruenti. In realtà lo studioso tedesco era convinto che, essendo presenti le cause, gli effetti dovessero
presentarsi all’appuntamento, magari in scortese ritardo, e prevedeva che
«nella prossima generazione il socialismo potrà giungere alla piena fioritura
nell’Unione» nordamericana6. Da un altro punto di vista, tuttavia, questi
esercizi intellettuali si muovono in tutt’altra direzione. Tutti, ovvero la
stragrande maggioranza di essi, convergono infatti verso una ipotesi
interpretativa che presuppone la diversità strutturale, qualitativa, della esperienza storica americana rispetto a quella europea. Rispetto all’Europa, si
dice, gli Stati Uniti sono nati in maniera diversa, si sono sviluppati in maniera diversa, e devono quindi essere compresi in maniera diversa, nei loro
termini e nel loro contesto. Si accetta l’esistenza di un modello generale di
sviluppo in Occidente, e quindi delle categorie che lo definiscono, ma si
implica che gli Stati Uniti non ne facciano parte: essi funzionano secondo
un’altra logica, e le categorie esplicative non possono essere le stesse. Accade
così che, in una prospettiva celebrativa e internazionalista, si ritenga che
l’America sia chiamata a dare un contributo unico alla storia dell’umanità,
oppure, in una prospettiva negativa e isolazionista, che l’America non serva,
proprio perché radicalmente diversa, a capire o illuminare la storia degli
altri paesi. Le parole contano; quando si fa il salto lessicale da Stati Uniti a
America, si salta dalla prosaicità della storia alla sacralità del mito. La versione radicale di questo mito si chiama «eccezionalismo americano».
La diversità dell’America rispetto all’Europa è stata sospettata da sempre, da quando Cristoforo Colombo e molti dei suoi contemporanei e successori credettero di situarvi il paradiso terrestre, da quando fu associata all’inizio di «questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro», come
scrisse Bartolomé de Las Casas, e divenne, appunto, il Nuovo mondo7. La
diversità americana è dunque una elaborazione culturale europea, che ha
investito alle origini l’intero continente. Nel caso dell’America inglese, il
paradigma della contrapposizione fra un Nuovo mondo e uno Vecchio fu
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CAPITOLO
4
elaborato nelle culture protestanti anglo-sassoni, in particolare fra i puritani
dell’Inghilterra dell’inizio del Seicento, che immaginarono se stessi come
Nuovo Israele, intrappolato nell’Egitto del mondo medievale e destinato a
trovare liberazione in una Terra promessa. Per loro l’esodo, da suggestiva
narrazione biblica, divenne la cosa reale, e portarono con sé la visione della
storia basata sulla metafora dei due mondi in quella Terra promessa oltremare che fu la Nuova Inghilterra. Nel Settecento questo linguaggio si
secolarizzò e si estese a comprendere non solo il New England ma tutte le
colonie inglesi, tutti i protestanti, e infine, con il 1776, tutta la comunità
politica rivoluzionaria. La concezione puritana dell’America come teatro di
straordinarie manifestazioni della provvidenza divina, come rifugio dalle
catastrofi incombenti sulla peccaminosa Europa, come «città sulla collina» e
«sacro esperimento», si incarnò in una repubblica virtuosa8. E così unici e
diversi furono anche gli Stati Uniti, fin dalla loro nascita. Anzi, la conclusione
vittoriosa della rivoluzione e poi la sua stabilizzazione parvero far cadere
definitivamente la continuità politica e ideale fra avvenimenti europei e
americani, sostituita, ha scritto Tiziano Bonazzi, «da uno iato, dalla sensazione di una disomogenità invalicabile». Nell’anno fatale 1789, mentre si
insediava il primo presidente George Washington, avevano inizio i rivolgimenti di Francia e d’Europa che avrebbero fatto sembrare gli Stati Uniti
«sempre più lontani, un’entità più metafisica che reale, un ideale tanto splendido quanto solitario più che una nazione fra le nazioni»9.
La cosa curiosa è che questa proiezione in un mondo meraviglioso e
straordinario non riguardò solo l’entità politica statunitense, bensì anche i
suoi abitanti in quanto individui in carne e ossa. Jean Hector St.John de
Crévecoeur, francese trapiantato nello stato di New York, si chiese nel 1782
Che cos’è un americano? e rispose: «L’americano è un uomo nuovo, che agisce
in base a nuovi principi; egli non può quindi che avere nuove idee e formarsi nuovi opinioni». L’europeo che si stabilisce in America, scrisse, trova una
«società moderna» diversa da ogni altra, «la società più perfetta oggi esistente al mondo»; qui «comincia a sentire gli effetti di una sorta di resurrezione».
Gli anglo-americani si autorappresentarono, e furono generalmente percepiti in Europa, come il prodotto di una vera e propria mutazione antropologica rispetto ai loro progenitori nati nel vecchio continente. Acquistarono ai loro stessi occhi, e agli occhi degli europei, quei caratteri di alterità
che erano stati attribuiti da sempre agli indioamericani: ultima, macabra
rapina a danno di popoli che essi avevano conquistato e sterminato. «Il
genocidio da cui nacque la nostra nazione» di cui ha parlato Leslie Fiedler è
142
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
in effetti componente integrante e necessaria del mito americano delle origini, della Terra promessa; l’esodo non può che concludersi con la distruzione non del Faraone bensì degli abitanti di Canaan, degradati a stranieri a
casa loro, ed esclusi dalla sfera morale10. Alla fine dell’Ottocento fu lo scrittore inglese Rudyard Kipling, il poeta laureato dell’impero inglese, a scandalizzarsi per l’evidente paradosso della storia di un paese che non amava.
Scrisse Kipling (e mi sembra beffarda la scena finale di Teddy Roosevelt che
difende la causa nazionale allo Smithsonian Institute di Washington, dove i
nativi sono già pezzi da museo, e quindi sicuramente i migliori fra gli indiani, e cioè indiani morti)11:
non mi sono mai rimesso dalla meraviglia nell’osservare come un popolo il quale
aveva estirpato la razza aborigena del proprio continente in modo più assoluto di
qualsiasi altra popolazione dei tempi moderni, potesse credere in buona fede di
essere una pia piccola comunità della Nuova Inghilterra che dava il buon esempio al
resto della brutale umanità. Questa mia meraviglia cercavo di spiegare a Theodore
Roosevelt, il quale nel contraddirmi faceva tremare con la sua voce le vetrine dove
erano raccolte le reliquie degli Indiani d’America.
Dall’Ottocento, l’affermazione della unicità incomparabile degli americani e dell’America è diventata un dato permanente sia della ideologia nazionale degli Stati Uniti sia della corrente immaginazione europea. Espressioni come Missione americana, Destino manifesto, Promessa americana,
Sogno americano hanno riassunto un’immagine del paese che «attende implacabile al varco l’osservatore» d’Europa12. Per ciò che riguarda l’espressione Eccezionalismo americano, pare che sia stata coniata proprio nel contesto della discussione sui destini del socialismo negli Stati Uniti. Avvenne in
effetti nel luogo più un-American che possa popolare gli incubi di un americano al cento per cento, e cioè nei circoli dell’Internazionale comunista negli anni venti; peggio ancora, negli scontri di fazione nel partito comunista
americano. Il segretario del partito, Jay Lovestone, sosteneva che il movimento operaio nel paese era debole perché gli Stati Uniti erano
qualitativamente diversi dai paesi europei, si trovavano in una condizione,
appunto, di eccezionalità. A differenza del capitalismo europeo, che, secondo le risoluzioni del Comintern del 1928, aveva concluso la sua stabilizzazione relativa e si avviava a una fase di decandenza, il capitalismo americano aveva ancora enormi risorse da sviluppare, ed era impegnato in un processo di razionalizzazione di vasta portata. Gli Stati Uniti erano lontani dalla rivoluzione socialista, diceva Lovestone, e ciò doveva essere evidente anche alle persone più ottimiste e meno obiettive. Era quindi necessario elabo143
CAPITOLO
4
rare strategie e tattiche politiche diverse da quelle adottate altrove. L’Internazionale non apprezzò questa presa di distanza, e nel 1929 Stalin intervenne per rimuovere Lovestone dalla guida del partito, e infine per espellerlo. I
suoi seguaci formarono una piccola organizzazione denunciata dagli avversari come il gruppo degli «eccezionalisti americani». L’etichetta fu accettata
dai destinatari. Se questo vuol dire che riteniamo che ogni paese abbia condizioni sociali specifiche di cui occorre tener conto, scrisse uno di loro, «dobbiamo riconoscere di essere qualcosa di più che gli “eccezionalisti americani”: noi siamo “gli eccezionalisti” di ogni paese del mondo»13.
L’eccezionalismo americano, in quanto invenzione linguistica, nacque
dunque come eresia marxista. In quanto elaborazione concettuale, esso ha
dominato per tre secoli la narrazione rituale che gli americani hanno fatto a
se stessi della loro storia. Di questo rito gli storici sono stati i sacerdoti talvolta, ma non sempre, inconsapevoli. Come altri prima di loro, gli intellettuali liberali che negli anni del secondo dopoguerra sarebbero diventati noti
come consensus historians proposero una versione dell’eccezionalismo che
era molto politica. Essi sostennero che gli storici di generazioni precedenti,
che avevano interpretato la storia nazionale alla luce di titanici conflitti sociali (fra agricoltori e finanza, lavoratori e magnati industriali, riformatori e
reazionari, democratici della frontiera ed elitari della East Coast), erano caduti in un gigantesco equivoco, non avevano compreso l’America, ne avevano capovolto il vero significato: i conflitti che essi descrivevano non avevano
la stessa natura di quelli europei, erano tutti dentro la tradizione liberale. A
parere di Louis Hartz, uno degli autori più noti e influenti del periodo,
proprio un approccio comparativo con l’Europa («un viaggio di andata e
ritorno») costringeva alla scoperta di un consenso nazionale che informava
non solo il presente, ma anche tutto il passato degli Stati Uniti14. L’unicità
di una nazione nata libera divenne il fondamento di una cultura liberale
che, si disse, permeava l’intera società, la rendeva diversa da quella europea
e capace di far fronte alla minaccia del comunismo. Così, negli anni della
guerra fredda, ci furono autorevoli storici come Daniel Boorstin che, oltre
che nei loro libri, esaltarono «le virtù uniche della democrazia americana» di
fronte ai comitati parlamentari che indagavano sulle attività sovversive. In
molti cercarono di individuare le qualità speciali della American mind, di un
«carattere nazionale» omogeneo, pragmatico, conservatore, impermeabile
alle suggestioni del radicalismo, mentre l’esplosione interdisciplinare degli
American Studies (nell’accademia e fuori, in patria e come articolo di esportazione) perpetuava la celebrazione della diversità culturale della nazione15.
144
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
Avendo espulso qualunque significativo conflitto sociale e politico dalla storia nazionale, i consensus historians potevano ora espellerne, a maggior
ragione, anche il socialismo. I marxisti, scrisse Hartz, erano «figli dell’Europa, erano soprattutto “non americani”, estranei all’America, imbottiti di
categorie occidentali come feudalesimo, capitalismo, liberalismo»; erano
dunque «vittime di miti». Riecheggiando il linguaggio di Lutero e poi di
Max Weber, un altro prestigioso intellettuale come Daniel Bell sostenne che
il movimento socialista negli Stati Uniti era «intrappolato dallo spiacevole
problema di vivere nel mondo, ma non del mondo; poteva solo agire, e in
maniera inadeguata, come l’uomo morale, ma non l’uomo politico, nella
società immorale»16. In questo contesto, la valenza politico-ideologica
dell’eccezionalismo divenne più ingombrante che mai. Attorno a esso lavorarono non solo le accademie ma anche gli apparati statuali della propaganda internazionale. Per gli americani, il socialismo non era più un problema
della loro storia, bensì un mostro estraneo e minaccioso che si incarnava nel
nemico mortale, l’Unione Sovietica. Dall’altra parte della cortina di ferro
intellettuale, la sinistra comunista non era da meno. Abbandonò ogni simpatia per un paese che non era più quello del New Deal e della guerra antifascista, e cominciò a denunciare il demone dell’imperialismo americano,
profetizzandone l’inevitabile e imminente collasso; denunciò inoltre il demone di una società alienata e integrata, culturalmente corrotta, stupidamente appagata, così piccolo-borghese. I comunisti europei, chiusi a difesa
della perfezione del socialismo realizzato, adottarono forme di antiamericanismo che erano state patrimonio, negli anni fra le due guerre,
degli osservatori reazionari, aristocratici, antimodernisti17. La dialettica del
conflitto sociale e della lotta di classe si era trasformata in uno scontro fra
stati, anzi fra due grandi potenze che erano, ciascuna a suo modo,
eccezionaliste nella loro antiteticità. Il linguaggio dell’americanismo e
dell’antiamericanismo era diventato un linguaggio di non comunicazione18.
In tempi più recenti le barriere che separavano le due sponde dell’Atlantico si sono ridimensionate, soprattutto, mi sembra, perché è cambiata
l’Europa. Dalla scomparsa dell’URSS e dalla dissoluzione dello scenario della
guerra fredda, gli Stati Uniti sono emersi come l’unica potenza mondiale,
meno preoccupati di definire la loro identità culturale verso l’Europa perché
più sicuri di se stessi o francamente disinteressati. Le riaffermazioni esplicite
dell’eccezionalismo, tutt’altro che scomparse, sono così qualche volta diventate delirio globale di onnipotenza. Il tema centrale del discusso saggio
di Francis Fukuyama, The End of History, non è altro che la narrazione della
145
CAPITOLO
4
storia universale secondo i parametri tradizionali della Promessa americana;
il trionfo del liberalismo e il fallimento di ogni alternativa praticabile segnerebbero il punto terminale dell’evoluzione dell’umanità, che potrebbe raggiungere l’America là dove essa è sempre stata, ovvero, appunto, alla fine
della storia. Quando emerge il timore della decadenza, come è accaduto nel
dibattito sul declino del paese innescato nei tardi anni ottanta dal libro di
Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers, le paure possono riacquistare i toni «paranoici» di una volta (la paranoia antigiapponese che rende insopportabile ogni pagina di Rising Sun, il romanzo best-seller di Michael
Crichton) ma hanno altre e nuove origini, non più europee19. E’ l’identità
dell’Europa a essere in crisi; la crisi del socialismo e le trasformazioni complessive della politica hanno messo in discussione il destino della sua presunta diversità rispetto all’America. L’attenzione si è spostata dall’eccezione
americana ai processi di americanizzazione nel vecchio continente, secondo
l’idea che l’America «è meno eccezionale man mano che le nazioni si sviluppano e si americanizzano»20. E anche una parte della sinistra europea ha
avviato, come ha osservato Norberto Bobbio, uno strano viaggio alla ricerca
di se stessa nel paese d’oltreatlantico, proprio là dove la parola sinistra ha
una connotazione negativa e socialismo un certo «suono sgradevole»21.
C’è una dimensione paradossale in alcuni di questi cambiamenti: se
tutto il mondo diventa America, il primato degli Stati Uniti può uscirne
esaltato, ma la loro eccezionalità distrutta. E tuttavia ciò ha contribuito a
riaprire il discorso transatlantico in alcune direzioni meno celebrative, e intellettualmente più stimolanti. «Siamo qui convenuti ai funerali
dell’eccezionalismo americano», ha annunciato nel 1988, a conclusione di
un incontro parigino sulla ricorrente domanda sombartiana, lo storico Alan
Dawley. «E’ ormai tempo di liberare la storia americana dal peso di questa
idea deformante». L’entusiasmo di Dawley era forse eccessivo, ma sottolineava importanti sviluppi in corso. Una generazione di studiosi che si è formata negli anni sessanta, e che ora ha raggiunto maturità e influenza nelle
istituzioni accademiche ed educative, ha reintrodotto nella storia nazionale
i conflitti sociali e politici, le diversità etniche, razziali e di genere, le culture
radicali e la legittimità della critica socialista. «Contro l’eccezionalismo» si
sono dichiarati autorevoli studiosi della storia della classe operaia americana. «Oltre l’eccezionalismo» vogliono spingersi ricercatori a disagio con un
paradigma interpretativo che fonda l’identità nazionale sulla storia di maschi bianchi europei, che rimuove la schiavitù, il razzismo e lo sterminio
della popolazione indigena, che impedisce una comprensione multiculturale
146
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
degli Stati Uniti (da questo punto di vista l’eccezionalismo è una «forma
peculiare di Eurocentrismo»)22. Fra gli storici americanisti, più in generale,
si è infine manifestata una crescente insoddisfazione per una tradizione disciplinare che è rimasta, ben più di quella delle altre storiografie occidentali,
troppo chiusa nei confini nazionali e refrattaria alle curiosità comparative
nel lavoro concreto di ricerca. Si tratta di disagi e insoddisfazioni che hanno
investito l’intera professione e hanno spinto la Organization of American
Historians e la sua rivista, il «Journal of American History», a promuovere
alcuni tentativi di «internazionalizzare», non solo verso l’Europa ma a tutto
campo (come si conviene a una potenza globale), il lavoro di indagine e di
riflessione sulla storia americana23.
Naturalmente, la riscoperta di un passato conflittuale e radicale o di un
approccio comparativo non comporta di per sé la realizzazione della funebre previsione di Dawley. Tutto dipende da come si interpretano quei conflitti, e da come si disegna la comparazione. Una genuina
internazionalizzazione della discussione può contribuire a sciogliere questi
nodi. Può rompere, per esempio, l’americo-centrismo che è implicito nelle
proposte comparative provenienti dagli Stati Uniti. Queste proposte riguardano, forse inevitabilmente, questioni che si sono definite all’interno della
storiografia nazionale e che poi sono state estese a contesti più ampi (le
frontiere, le schiavitù, le immigrazioni); un lavoro importante, che tuttavia
ha fatto sì che gli storici americani non si allontanassero troppo da casa, che
non si avventurassero in territori poco familiari ed estranei al ragionamento
eccezionalistico. Solo raramente queste esplorazioni si sono mosse nella direzione opposta, sono cioè partite da questioni definite in altre tradizioni
storiche per cercare di illuminare aspetti in precedenza trascurati della società nazionale. Per alcuni versi ciò é accaduto nell’area degli studi sullo stato e
sulle istituzioni della politica negli Stati Uniti, dopo che gli americanisti
hanno guardato con maggiore attenzione ai processi di state formation in
Europa. E’ accaduto anche nel campo della working-class history, dove è stata
la lezione della storia sociale inglese a spingere una generazione di storici a
interrogarsi sulla permanenza delle culture premoderne fra i lavoratori americani dell’Ottocento24. Per restare su quest’ultimo argomento, lo spostamento di punto di vista può avere effetti sorprendenti. Vista dall’interno
dell’Europa, la drastica contrapposizione fra l’esperienza operaia (e socialista) europea e quella americana si scioglie, perché risulta inaccettabile il riassunto delle molteplici vicende dei paesi europei in una unità indifferenziata.
Come ha scritto lo storico C. Vann Woodward, per creare la propria identi147
CAPITOLO
4
tà nazionale gli americani hanno finito con l’«inventarsi la loro Europa».
Viceversa, non esiste un’America eccezionale proprio perché l’Europa non è
quel «monolite» che l’eccezionalismo americano postula, bensì una pluralità
di esperienze nazionali; non esiste una storia diversa della classe operaia degli Stati Uniti perché non esiste una storia omogenea della classe operaia
europea. La conclusione è che esistono molti eccezionalismi, tanti quanti
sono i casi presi in considerazione25.
Credo dunque che l’eccezionalismo americano, almeno in quanto
paradigma storiografico (come ideologia nazionale, è un’altra faccenda)26, soffra di profondi disagi, e che ciò sia un bene. La sua crisi è in effetti implicita
nella crisi della convinzione stessa che esista una via universale allo sviluppo
storico della modernità, dalla quale una esperienza nazionale possa eventualmente deviare; e che, anche all’interno del solo mondo occidentale, esistano
categorie generali (come capitalismo, individualismo, socialismo, classe e coscienza di classe) in grado di rendere conto di tutti gli aspetti di questo sviluppo, sia della norma che dell’eccezione. Alle grandi tipologie, alle inflessibili
gerarchie causali, la storia sociale e politica sembra preferire la varietà dei casi
e del caso. Se si ammette che la politica socialista non sia la reazione necessaria
e costante al capitalismo industriale, ma una variabile indeterminata, svanisce
di colpo il parametro di tanti giudizi storico-politici, e cioè il modello immaginario di una classe operaia unita e organizzata, dotata di coscienza di classe,
di una rigorosa ideologia e di una comprensione teorica (marxista) del funzionamento dell’economia capitalistica, nella sostanza rivoluzionaria e socialista.
Il vero problema di un modello del genere, ritenuto comunemente quello
europeo occidentale, non è tanto che non si adatta alla storia americana, quanto
che è difficile da incontrare ovunque, in Europa o in altri continenti. L’interrogativo di Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, può quindi a
questo punto rivelarsi una camicia di forza che ingabbia la ricerca e nasconde
alla vista cose più interessanti e importanti27. E’ in una prospettiva antieccezionalista che, nelle pagine che seguono, intendo ripercorrere alcune delle
questioni connesse al tema sombartiano. Non sarà questo un saggio comparativo in senso stretto, piuttosto un saggio su un periodo cruciale della storia
americana che cerca di tenere conto di suggestioni transnazionali incrociate
fra Stati Uniti ed Europa. Il periodo è quello compreso fra l’Ottocento e la
prima parte del Novecento, ed è qui cruciale per ovvie ragioni. Fu allora che
nacquero i movimenti e i partiti socialisti sia negli Stati Uniti che in Europa,
con diversa fortuna nei vari paesi, con opposta fortuna sulle due sponde dell’Atlantico; fu allora che cominciarono a essere tematizzate le ragioni di queste
divergenze.
148
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
Intendo condurre la discussione su vari piani. In primo luogo, valuterò
la versione ottocentesca dell’eccezionalismo americano come ideologia nazionale. Mi sembra che, fra i nazionalismi occidentali del tempo, l’ideologia
americana non fosse affatto un’eccezione; ne condivideva caratteri, proiezioni progettuali, angoscie e paure. L’aspetto ottimistico e audacemente
anticipatore che ha assunto ai nostri occhi è un prodotto della retrospezione
storica selettiva, dovuto alla preminenza che gli Stati Uniti hanno conquistato nel secolo successivo; è il trionfalismo del «secolo americano», il Novecento, che ha cancellato a posteriori la disperazione intellettuale dei decenni
precedenti la prima guerra mondiale, e i cambiamenti culturali che generò.
In secondo luogo, quindi, analizzerò la crisi dell’eccezionalismo come un
aspetto della crisi culturale transatlantica di fine secolo; in questo quadro, le
previsioni di crescita del socialismo negli Stati Uniti coltivate dalla Seconda
internazionale (e da Sombart) erano condivise (con terrore) dai nazionalisti
americani. In terzo luogo, fornirò elementi per una storia sociale degli Stati
Uniti intorno al 1900, accompagnata a una comparazione sincronica con i
paesi europei allora più sviluppati. Qui l’ipotesi è che il farsi delle rispettive
classi operaie, delle loro culture politiche, comprese quelle socialiste, dei
loro comportamenti e delle loro istituzioni, avvenne secondo percorsi ed
ebbe risultati più diversificati nazionalmente ma anche, proprio per questo,
meno separati dalla frattura atlantica di quanto comunemente si pensi. In
quarto luogo, infine, abbozzerò un disegno secolare delle dinamiche dei
cambiamenti sociali e soprattutto politici nei paesi considerati. E’ mia convinzione che le peculiarità che i socialisti dovettero affrontare negli Stati
Uniti d’inizio secolo fossero reali, e per loro assai difficili da maneggiare, ma
niente affatto uniche sul lungo periodo; sarebbero diventate comuni a tutte
le società capitalistiche, e si sarebbero rivelate un rompicato per tutti i movimenti socialisti. Qui la riflessione comparata non può che essere diacronica,
che procedere per salti temporali fra le varie realtà nazionali; il fattore tempo
diventa assolutamente centrale.
3. L’eccezionalismo americano non è un’eccezione
L’eccezionalismo americano è sempre stato un discorso transatlantico.
Ha sempre definito l’America come negazione dell’Europa, anzi come sua
funzione negativa e quindi dipendente28. All’inizio dell’Ottocento, fu da una
matrice di questo tipo che esso emerse come ideologia nazionale degli Stati
Uniti, nel senso moderno del termine. Come altri nazionalismi (europei)
del periodo anche quello americano, nella sua forma più ripetuta e ufficiale,
149
CAPITOLO
4
impiegava la retorica dell’ottimismo e contemplava un radioso avvenire. I
ceti dirigenti della nuova repubblica avevano buone ragioni per essere fiduciosi
nel futuro; misero a confronto la loro rivoluzione con la rivoluzione francese, e, a differenza di quella, la giudicarono un successo. Avevano inoltre a
disposizione i paradigmi culturali per interpretare questo successo come un
evento significativo sia nel tempo cristiano che in quello mondano. Dal
punto di vista cristiano, gli americani postrivoluzionari videro la loro impresa collettiva come una manifestazione del disegno provvidenziale di un
dio protestante; il loro progresso sarebbe stati assicurato dal dispiegarsi del
seme millenaristico piuttosto che da un processo, sempre rischioso, di cambiamento storico. Dal punto di vista mondano, le nuove istituzioni repubblicane sembravano fornire strumenti concreti per tenere sotto controllo e
risolvere le contraddizioni che avevano distrutto le repubbliche del passato.
Rispetto a quelle, rispetto soprattutto al fantasma ben presente dell’antica
repubblica di Roma, precipitata in un’orgia di lotte intestine e quindi nella
tirannia, gli Stati Uniti erano qualcosa di diverso. Erano più grandi, più
equilibrati nella struttura politica (con la loro Costituzione, basata sul
federalismo, sulla divisione dei poteri e sui checks and balances) e in quella
sociale (con il loro egualitarismo, la debolezza delle gerarchie tradizionali, la
proprietà diffusa, la grande disponibilità di risorse), più lontani dalle minacce esterne e dall’anarchia delle competizioni fra stati. Secondo questa
linea di pensiero, derivante dal repubblicanesimo radicale inglese del Seicento trapiantato nelle colonie, lo sviluppo del paese sarebbe stato infinito,
la repubblica non sarebbe mai diventata vecchia29.
La fusione fra queste due prospettive, fra repubblica laica e divina provvidenza, portò a considerare il passato come un prologo e il futuro come la
realizzazione del destino repubblicano dell’America. Trasformata in una «religione civile», questa connessione si insediò per tutto l’Ottocento nel cuore
della celebrazione pubblica della ragion d’essere della nazione americana. La
gamma di variazione di queste celebrazioni era ampia. Poteva spaziare dall’utopia democratica del grande poeta civile, Walt Whitman, a quella imperiale e imperialista del Destino manifesto; e spesso le due utopie erano in
realtà una sola. Così nello stesso Whitman, per esempio, si coniugava l’orgoglio per la «lezione» di democrazia popolare che «noi inviamo alle terre
europee con ogni brezza occidentale», con la convinzione che «il Pacifico
sarà nostro e l’Atlantico lo sarà in gran parte». Nel contesto del loro tempo,
tuttavia, simili affermazioni non sembrano affatto originali e stravaganti;
non divergevano nella loro struttura da quelle di nazionalismi e imperialismi
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
europei. Ciascun stato-nazione, di recente o più antica unificazione che fosse,
tendeva a esaltare le virtù irripetibili di se stesso, il suo carattere esemplare e
deviante rispetto alla somma delle esperienze altrui, la sua vocazione a mettere
un’ipoteca sul futuro dell’umanità, e quindi, alla fin fine, il suo diritto
indiscutibile al primato e alla supremazia. C’erano parecchie «città sulla collina» nel mondo occidentale del secolo scorso; e ciascuna cercava di irradiare la
sua luce, e di renderla più accecante delle altre, con un elaborato corredo di
miti delle origini che suggerivano un’idea di missione e di «destino manifesto». Che tutto ciò fosse fondato sulla reinterpretazione e rimozione selettiva
del passato, era chiaro anche allora. «L’oblio, e dirò persino, l’errore storico,
costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per
questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità», scrisse nel 1882 lo studioso francese Ernest Renan30.
In realtà gli storici sono stati tutt’altro che un pericolo per l’idea di
nazione. Ne sono stati i sacerdoti, assorbendo nel loro lavoro le logiche eccezionaliste dei rispettivi nazionalismi. Basti pensare all’orgogliosa affermazione tardo-ottocentesca di un Sonderweg tedesco, una via speciale alla
costruzione della nazione, dello stato e dell’impero, che è poi diventata una
ipotesi storiografica esplorata con un vocabolario (eccezionalismo tedesco,
singolarità tedesca) e una serie di interrogativi (centrati su un non-evento, e
cioè la assenza storica di una rivoluzione borghese) non dissimili da quelli
collegati alla discussione del caso americano31. E forse che analoghi interrogativi e analogo vocabolario non sono comparsi sia nelle esaltazioni nazionaliste che nelle invettive di cui è stato fatto oggetto, per più di un secolo, lo
sviluppo nazionale dell’Italia, che nel linguaggio di qualche osservatore è
ora diventato l’«eccezionalismo» italiano32? Per tutto il secolo scorso, e ben
dentro il nostro, il culto della «diversità inglese» è stato celebrato in patria ed
esportato all’estero in forza della supremazia economica e della potenza imperiale della Gran Bretagna, finché è durata; il paese della straordinaria evoluzione costituzionale e del bipartitismo, della prima rivoluzione industriale
e della più antica classe operaia, del grande giornalismo d’élite e della stampa popolare, dei club londinesi e del football, è diventato per l’Europa il
parametro della modernità borghese33. Qui naturalmente il paradosso esplode: l’eccezionalismo inglese si è fatto modello in contrasto con il quale si
sono definiti gli eccezionalismi delle altre nazioni, alle quali mancava sempre qualcosa, e non poteva che essere così, per essere Inghilterra. Questo
paradigma non riguarda, in verità, solo l’occidente e solo l’Ottocento. Nel
decennio scorso, per esempio, è emerso in Giappone un dibattito sulla uni151
CAPITOLO
4
cità della storia nazionale, una storia che sembra mettere in discussione la
generalizzazione weberiana secondo la quale il capitalismo poteva fiorire
solo in occidente34. E alle origini della storia moderna, fu la stessa scoperta
dell’America a essere incorporata nella mitologia nazionale della Spagna e a
fondarne l’eccezionalità. Per gli spagnoli, il fatto di avere scoperto il Nuovo
continente e di possederne una gran parte, divenne il segno di una missione
civilizzatrice e cristiana che li poneva al sopra di ogni altro popolo35.
«Gli inglesi rendono grazie alla provvidenza per non averli fatti nascere
altro che inglesi, in chiesa, in birreria e nelle comic operas», annotava con
qualche acidità, all’inizio del Novecento, il saggista americano Herbert Croly.
E così i russi hanno la visione «di una Russia misticamente glorificata, che,
a paragone, condanna all’insulsaggine le figure della “Pax Britannica” e della
“Belle France” nell’illuminare il mondo». Ma questi atteggiamenti non erano sufficienti, secondo Croly, per omologare il credo nazionale di inglesi e
russi a quello degli americani. A suo parere, in Europa il patriottismo guardava indietro, era indebitato con la storia e non poteva sfuggirne, percepiva
il cambiamento come una minaccia; negli Stati Uniti invece guardava in
avanti, combinava la lealtà alla tradizione con la fede nelle possibilità del
futuro, perché la tradizione stessa era fatta di questa fede. Solo la Francia
(ecco un altro eccezionalismo, quello della madre di tutte le rivoluzioni)
costituiva una parziale deroga alla maledizione europea, con la sua proiezione verso un domani migliore che nasceva da una rottura radicale con il
passato; con effetti disastrosi, a parere di Croly, tanto è vero che per lui era
scontato che l’esperimento francese fosse servito più da ammonimento che
da esempio. Croly ripeteva in queste pagine un ragionamento ricorrente
nell’ideologia americana, che sottovaluta quanto di anticipatore e progettuale
fosse presente in tutti gli idealismi nazionali, quanto tutti fossero delle promesse per il futuro validate dalla storia. Renan, da parte sua, gli avrebbe
sicuramente dato torto: «Nel passato, un’eredità di gloria e di rimpianti da
condividere, per l’avvenire uno stesso programma da realizzare», ecco le sue
condizioni per essere una nazione, qualunque nazione. Il nazionalismo americano non era affatto un’eccezione36.
Un programma è un programma; non è una certezza bensì una scommessa meditata, per quanto fondata sulla inevitabilità metastorica di qualche disegno provvidenziale. E non è una scommessa di tutti. Come altri
nazionalismi, il nazionalismo americano forniva la fotografia non di una
realtà esistente, ma di un progetto incerto e irto di ostacoli. Come altrove,
era un prodotto intellettuale, elaborato da élite culturali e politiche, che
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
quindi doveva essere propagato, acquisito e accettato dai diversi strati della
società; la sua penetrazione all’interno dei vari raggruppamenti sociali e delle varie aree del paese sarebbe stata lenta e differenziata, e il suo trionfo
finale non poteva essere dato per scontato. Come in altri paesi, i nation
builders si proponevano di costruire negli Stati Uniti una coscienza nazionale proprio perchè erano consapevoli di robuste fedeltà localistiche, di diversità razziali, etniche, religiose, linguistiche e di classe, di sviluppi regionali
diseguali, di retaggi di dominazioni imperiali preesistenti (Inghilterra, Francia, Spagna, Messico), di conflitti fra entità statuali distinte. Cercavano di
inventare e diffondere istituzioni, tradizioni, rituali e simboli unificanti
(magari utilizzando materiali preesistenti) proprio per reindirizzare vincoli
di lealtà e obbedienza che riconoscevano altre autorità, e per crearne di nuovi; per esorcizzare insubordinazioni e sconvolgimenti provocati dalla nascita
stessa dello stato-nazione, dall’espansione territoriale, dalla accelerata industrializzazione e urbanizzazione, da grandiosi movimenti migratori. In questa babele di identità divise che formavano questa «nazione senza un popolo», si trattava di fare gli americani così come, in Europa, si trattava di fare i
tedeschi e gli italiani, i francesi e gli inglesi. La retorica eccezionalista che
presenta gli Stati Uniti come nazione nuova, che si è fatta nel breve volgere
della contemporaneità, nasconde spesso questo fatto ben noto: e cioè che gli
stati-nazione, anche quelli di più antica tradizione unitaria, sono tutti qualcosa di abbastanza nuovo nella storia. Nazionalizzare le masse è stata dovunque un’impresa recente, e problematica. E c’è da chiedersi se americanizzare
i contadini siciliani nelle Little Italy d’America fosse veramente più difficoltoso che italianizzarli nelle campagne palermitane, o che trasformare i contadini in francesi nella Francia rurale37.
Come in Europa, anche negli Stati Uniti l’attuazione del programma
nazionale, il raccordo fra passato e futuro che prometteva, fu tutt’altro che
indolore. Comportò non solo brillanti costruzioni, ma anche sanguinose
distruzioni. Passò, fra l’altro, attraverso una guerra che il Nord definì «civile», intendendola come combattuta fra concittadini di una nazione consolidata e riconosciuta; ma che il Sud sconfitto, che dalla fine del Settecento
aveva elaborato una propria idea di nazionalismo regionale affatto diversa
da quella prevalente nel resto del paese, si ostinò a chiamare una «guerra fra
gli stati». Fu durante e dopo la guerra che la parola nazione cominciò ad
affiorare con regolarità sulle labbra di molti americani, soprattutto repubblicani del Nord. Era pronunciata per incitare alla vittoria di parte: «che
questa nazione, guidata da Dio, rinasca alla libertà», promise Abraham
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CAPITOLO
4
Lincoln nel 1863. Per proporre un progetto politico di partito: «The Nation»
fu il settimanale fondato dai repubblicani nel 1865. Per esorcizzare angosce
e incertezze: «Siamo una nazione?», si interrogò in un suo giro di conferenze
il senatore Charles Sumner nel 1867. Per indicare una mistica certezza: «La
Nazione è un’opera di Dio nella storia […] la sua legittimità viene da Dio e
i suoi obblighi sono soltanto verso Dio», scrisse il pastore Elisha Mulford
nel 1870, in pagine riecheggianti di letture hegeliane. Fu dopo la guerra, e
come conseguenza della guerra, che una nuova classe dirigente nordista e
vittoriosa espresse la convinzione e la volontà che il paese non fosse più una
unione di stati bensì una nazione nel senso più pieno. Nel giro di pochi anni
(ma furono anni di ferro e di fuoco) nel discorso pubblico gli Stati Uniti
cessarono di essere un soggetto plurale, di cui si poteva dire «gli Stati Uniti
sono», per diventare un soggetto singolare di cui si doveva dire «gli Stati
Uniti è»38.
Malgrado la nuova aggressività del nazionalismo, i violenti cambiamenti
connessi alla guerra e alle sue conseguenze indussero molti cittadini degli
Stati Uniti ad avere, come i loro contemporanei europei, rimpianti per il
passato e timori per il futuro. I timori riguardavano nient’altro che il trionfante capitalismo, e si tradussero nella denuncia della «corruzione» dei valori originari della democrazia americana. Se la repubblica era stata concepita
come una comunità politica di piccoli proprietari, uguali e indipendenti, lo
sviluppo della proprietà capitalistica, artificiale, tirannica, egoista, eversiva
non poteva che essere percepito come un pericolo. La repubblica sarebbe
fallita, se i capitalisti ne avessero preso il controllo: proprio come stava accadendo nell’America postbellica. La tradizione culturale che forniva questo
linguaggio era parte integrante dell’ideologia nazionale, ma qui ne rivelava
la dimensione pessimista; ne metteva in evidenza non il lato solare, bensì
quello oscuro. Il discorso sulla diversità e sulla promessa americana contiene
in effetti materiale per una visione non puramente celebrativa dell’America
realmente esistente, per una critica e per progetti di cambiamento. La retorica della promessa di un mondo unico e perfetto parte sì dall’esodo verso il
millennio del Nuovo mondo, ma comprende anche la possibilità della decadenza e del fallimento, la paura della ricaduta nelle pratiche del Vecchio
mondo. Gli americani devieranno dal cammino segnato, perseguiranno valori falsi e costruiranno istituzioni cattive, riprodurranno nell’eden l’inferno
della tirannia europea, della politica di classe e dell’ingiustizia, e saranno
puniti. C’è quindi, in questa lamentazione rituale che attraversa la storia
nazionale e che lo studioso canadese Sacvan Bercovitch ha chiamato la
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
«geremiade americana», una forte tensione fra la perfezione della promessa e
l’imperfezione della vita, fra ideali e realtà. Questa frattura può essere superata dalla denuncia e dalla lotta, dalla sconfitta del nemico che si è insediato
in casa, dalla riconquista dei valori originari, dall’accettazione della responsabilità del futuro, dalla formulazione di una nuova profezia.
Chiamate alle armi per il riscatto ce ne sono state molte nella storia
degli Stati Uniti, di vario e spesso opposto segno politico. Individui, gruppi,
movimenti di massa diversi hanno indicato responsabili diversi per la deviazione del paese dalla retta via, e di quale fosse la retta via hanno offerto
letture diverse. La tecnica di mettere a confronto il proprio sogno americano con un presente insoddisfacente ha dato legittimità al conflitto sociale e
politico, a spinte riformatrici e slanci radicali, a vivaci tradizioni intellettuali. E così i liberals hanno potuto sollevare lo scandalo dell’incompatibilità fra
quel sogno ed emarginazioni sociali, crudeli diseguaglianze e povertà che
non hanno paragone in Europa e competono con quelle dei paesi meno
sviluppati del pianeta. Come certi buoni film hollywoodiani condannati al
happy end, le loro analisi hanno perso talvolta (ma non sempre) drammaticità nel gran finale; hanno descritto con sincera passione un incubo, e poi
prescritto apprezzabili ma piccole ricette per uscirne: una riforma, una legge, e l’America si salverà. D’altra parte, i conservatori hanno potuto accusare i liberal-progressisti di essere loro a tradire i veri valori americani, come
hanno fatto nel decennio scorso gli intellettuali di Ronald Reagan. Liberals
e conservatori hanno potuto trovarsi d’accordo nel dare la caccia a socialisti
e radicali in quanto cospiratori un-American. Ma radicali come gli
abolizionisti e le femministe dell’Ottocento, o come i comunisti di un secolo dopo, hanno potuto battersi per cambiamenti profondi nell’ordine sociale per affermare «lo spirito delle istituzioni americane, per adempiere la sua
sacra missione», come disse l’abolizionista nero Frederick Douglass. E radicali e socialisti hanno potuto dimostrare che il capitalismo stesso è una violazione di quello spirito. In nome della loro idea di America, nell’ultimo terzo
dell’Ottocento i farmers si ribellarono contro le nascenti concentrazioni economiche e finanziarie, e gli operai resistettero a una rivoluzione industriale
che li espropriava di strumenti e abilità artigianali e li rendeva schiavi del
salario. Entrambi i gruppi cercarono di difendere la loro minacciata indipendenza con rivolte, tentativi di cooperazione, richieste di riforme sociali.
Bercovitch ha definito tutto ciò «consenso ideologico». Ecco cento sette e fazioni, ha scritto, ciascuna in apparenza diversa dalle altre, eppure tutte
celebranti la stessa missione39. Molti americani di fine Ottocento non sareb155
CAPITOLO
4
bero stati d’accordo con questa affermazione; essi credettero di cogliere nel
paese i segni dello sviluppo di movimenti (di classe, socialisti) antagonisti
all’ordine esistente. E d’altra parte il socialismo come movimento di massa
stava appena affacciandosi alla storia, e il suo possibile futuro, sia europeo
che americano, era allora tutt’altro che chiaro. Preferirei quindi spostare
l’accento dal «consenso» alle «cento sette», e parlare di una tradizione nazionale che è terreno di feroce battaglia ideologica fra visioni politiche, partitiche
e sociali contrastanti. Si tratta di un fenomeno non sconosciuto nelle nazioni che hanno alla loro origine una frattura rivoluzionaria che è diventata
patrimonio di tutti, fondamento stesso dell’identità nazionale, e quindi oggetto di infinite interpretazioni che hanno come scopo la costruzione di
identità politiche distinte. La lotta politica nella Francia contemporanea,
per esempio, è stata spesso combattuta fra i sostenitori dei principi liberali
del 1789 e i portabandiera dei principi rivoluzionari del 1793; persino i
reazionari che hanno rifiutato i valori dell’89 sono stati sovente costretti a
nascondere il loro rifiuto dietro la condanna dei crimini del Terrore. La
rivoluzione francese, come quella americana, è molte cose insieme, e ha
lasciato una eredità complessa che permette tutto. «Madre della civiltà storica in cui siamo nati», ha scritto lo storico François Furet, essa «permette
qualsiasi ricerca di filiazione»; per duecento anni queste ricerche si sono
scontrate e sbranate nel nome delle origini di tale scontro e tale lacerazione.
Per i radicali francesi, come per quelli d’oltreoceano, la rivoluzione è stata
l’annuncio di un mondo di possibilità non realizzate, un evento che ha un
principio ma non una fine, le cui sorgenti sono ancora vitali. Anche la vocazione al ritorno alle sorgenti incontaminate della promessa di cambiamento
è, dunque, tutt’altro che una peculiarità del radicalismo americano. Essa
percorre, in verità, tutto il pensiero rivoluzionario occidentale, che ha coltivato una sua geremiade nella quale il tema della deviazione dagli scopi originari (del loro tradimento) riaffiora costantemente, per confermare la perfezione dell’ideale nonostante le imperfezioni della storia40.
4. Crisi di fine secolo
La tranquilla fiducia del nazionalismo americano di fine Ottocento e
inizio Novecento, rispetto al male oscuro dei nazionalismi europei, è stata
spesso sopravvalutata. Anche le classi dirigenti degli Stati Uniti vissero una
crisi politica e culturale segnata dal pessimismo, da angosce e brividi di paura. Temettero che le condizioni del sacro esperimento tentato dai padri, le
condizioni che definivano il posto speciale dell’America nella storia, stessero
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
scomparendo. Ci fu insomma una «crisi dell’eccezionalismo americano»41.
La gentry più tradizionale condivise con i compatrioti impegnati nelle rivolte agrarie e operaie alcune almeno delle diagnosi e delle attribuzioni di responsabilità dei mali presenti. Guardò con preoccupazione all’avvento di
un capitalismo selvaggio, che creava maleodoranti città industriali, quartieri
miserabili, sradicamenti di grandi masse umane. Osservò con disgusto il
trionfo volgare e spregiudicato dei nuovi ricchi, e il conseguente
sovvertimento delle gerarchie sociali alle quali più era affezionata, il declino
delle vecchie aristocrazie proprietarie e mercantili e delle professioni liberali.
Vide con disagio l’emergere di una moderna middle class professionale e
urbana, e, con autentico terrore, la nascita di un proletariato impoverito,
disperato, straniero, non assimilabile: cattolico e celtico sulla costa atlantica,
africano negli stati del Sud, cinese sulle sponde del Pacifico. Considerò tuttavia le rivolte popolari che questi cambiamenti provocavano come parte
del problema e non della soluzione; e fu travolta dal panico. I gruppi sociali
più benestanti si rinchiusero nei nuovi insediamenti suburbani, ai margini
esterni delle aree metropolitane: assediati da una protesta che ai loro occhi
non era facilmente distinguibile dal dilagare della micro-criminalità comune, ossessionati dalla costante inadeguatezza della protezione della polizia,
pieni di risentimento nei confronti di immigrati e stranieri in genere. Applaudirono l’uso della forza pubblica e delle truppe della Guardia nazionale
contro i lavoratori in sciopero nel 1877, nel 1886, nel 1892, nel 1894. Considerarono «criminale» e sovversiva la rivolta agraria e populista degli anni
novanta, e qualcuno pensò al plotone di esecuzione per i suoi dirigenti.
Parecchi politici e intellettuali pensarono in verità a rimedi meno
truculenti, ma comunque liquidatori nei confronti dei diritti di cittadinanza
dei dissenzienti. Non erano solo lo spettro della Comune parigina e la lezione
della settimana di sangue di Louis-Adolphe Thiers ad avere una circolazione
transatlantica, ma anche gli allarmi per la degenerazione di una democrazia di
massa dominata, si disse, dalle classi pericolose e quindi dal governo dell’ignoranza e del vizio. Fu così che, in alcuni ambienti, si mise in discussione l’esistenza di un diritto naturale al voto. E si propose, per salvare l’America dal
caos, di frenarne la diffusione fra coloro che non avevano l’istruzione, l’intelligenza, la saggezza e la virtù per usarlo. All’indomani della guerra civile, il
giornalista E.L. Godkin poteva ancora affrontare le prime ondate di scioperi
operai con la serenità di un eccezionalismo esemplare. Scrisse:
[In Europa] il lavoratore in sciopero non è semplicemente un lavoratore che vuole
più salario: è un membro di un ordine distinto nella società, impegnato in una
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CAPITOLO
4
specie di guerra legale con gli altri ordini. […] Il suo datore di lavoro non è semplicemente un capitalista dei cui profitti egli cerca di ottenere una porzione più grande; è il membro di una classe ostile, sperare di entrare nella quale sarebbe considerato da lui cosa spregevole o tradimento. E’ inutile dire che questo sentimento non
esiste in America. Qui la linea di divisione fra il lavoratore e il capitalista è segnata
molto vagamente. Moltissimi imprenditori di successo hanno iniziato essi stessi
come lavoratori; moltissimi lavoratori sperano di diventare imprenditori. Inoltre, ci
sono poche barriere sociali, di costume o tradizione, fra l’artigiano e quelli per i
quali lavora, così che non si considera membro di un “ordine”. Negli Stati Uniti,
perciò, gli scioperi sono più una questione di affari, e meno una questione di sentimento, che in Europa. […] Nel peggiore dei casi [il lavoratore americano] ha dietro
di sé le grandi praterie, un fatto che diffonde in ogni officina un’indipendenza di
spirito, una fiducia nel futuro, che l’europeo ignora completamente. Oltre a questo,
la classe operaia americana gode del potere politico.
Qualche anno dopo la serenità era scomparsa. L’inasprirsi del conflitto
di classe, la sua mera esistenza, esplose come una bomba (come le bombe
degli anarchici di Chicago del 1886, vere o fasulle che fossero) nel cuore di
questo sogno americano. Che l’America potesse progredire senza precipitare
nella degradazione delle repubbliche del passato, sembrava una speranza
compromessa. Che si avviasse, trascinata dal capitalismo, verso un destino
«europeo» di divisioni e di ostilità fra classi cristallizzate ed estranee l’una
all’altra, sembrava un pericolo alle porte42.
Il fatto è che anche le grandi praterie di cui parlava Godkin non esistevano più. L’avventura della frontiera del West, garanzia di un armonico sviluppo, si era conclusa. Per tutto l’Ottocento molti americani si erano detti
che le terre libere attraevano gli elementi irrequieti e scontenti del proletariato urbano, offrivano ai potenziali dirigenti naturali della protesta una
soluzione individuale e individualista ai loro problemi; rendevano quindi
meno acuta la questione del lavoro, disinnescavano la bomba a orologeria
della rivoluzione sociale. Era una forma di mobilità geografica che diventava mobilità sociale, che aveva colpito l’immaginazione anche degli osservatori europei. Per Tocqueville di trattava di una delle Cause principali che
contribuiscono a mantenere la repubblica democratica negli Stati Uniti, come
suona il titolo di un capitolo del primo volume della sua opera sulla democrazia americana. Per Sombart il titolo adeguato era La fuga dell’operaio
americano nella libertà. Per l’italiano Egisto Rossi, in visita negli regioni occidentali degli Stati Uniti nel 1882, il contrasto fra idillio americano e polveriera europea era nitido, piuttosto pittoresco, e aveva ragioni evidenti:
La nobile missione emancipatrice del lavoro rifulge in tutto il suo splendore nelle
attivissime città, negli allegri villaggi del Far-West, nella pace e agiatezza di quelle
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
tante linde e gaie casette coi mattoni rossi e le pareti di legno, sudata méta e santuario delle gioie domestiche dei nuovi redenti del lavoro, tra cui non pochi si trovano
di quei formidabili diseredati, che in Europa cospirano spesso colla dinamite o col
petrolio, unica loro protesta contro condizioni sociali spesso tiranniche, e che invece là, nella libera America, lavorano e divengono buoni padri di famiglia, utili e
operosi cittadini. Sono miracoli di riabilitazione che soltanto il lavoro può produrre,
e il lavoro diretto a conquistare una prossima e sicura indipendenza, quale possono
offrirla gli Stati Uniti a chi feconda le zolle col sudore della propria fronte. Ecco
perchè viaggiando per il Far-West non di rado s’incontrano tra i nuovi coloni degli
operai che in Europa covavano i germi della rivoluzione sociale, e che pervenuti a
possedere pochi palmi di terreno sono diventati sinceri e pacifici conservatori.
Quando il vasto demanio pubblico fosse stato tutto occupato (un evento
registrato dall’ufficio federale del censimento nei primi anni novanta), il
miracolo non avrebbe più potuto ripetersi. La valvola di sicurezza del sistema si sarebbe inceppata43.
La presa di coscienza della nuova realtà fu piuttosto rapida, ed emerge
proprio nelle riflessioni del fondatore della teoria della frontiera come chiave interpretativa di tutta la storia degli Stati Uniti, Frederick Jackson Turner.
Turner è noto come lo storico della originalità del nazionalismo americano,
fondato su una esperienza unica, la conquista di un continente; come il
poeta della mutazione antropologica dell’uomo europeo che, a contatto con
la natura selvaggia, si trasforma in un prodotto nuovo, l’americano; come il
cantore della vita americana che è inizio continuo, rinascita perenne, luogo
di infinite possibilità. Eppure, a ben guardare, c’è un’ombra che incupisce la
sua celebrazione dell’aggressivo, esuberante e ottimistico americanismo della frontiera, ed è l’ombra della fine della frontiera e della fine della eccezionalità nazionale44. Se il carattere distintivo dell’America e della sua democrazia repubblicana si nutriva delle terre libere del West, e si rafforzava ogni
volta che toccava una nuova frontiera, cosa sarebbe accaduto ora che anche
l’ultima frontiera territoriale era scomparsa? «E ora, a quattro secoli dalla
scoperta dell’America, alla fine di cento anni di vita all’ombra della costituzione, la frontiera si è chiusa, e con essa si è chiuso il primo periodo della
storia americana», scrisse Turner a conclusione del suo celebre saggio del
1893, Il significato della frontiera nella storia americana. E nel 1910 specificò: «Un nuovo sviluppo nazionale è davanti a noi senza la primitiva valvola
di sicurezza delle abbondanti risorse a disposizione di chiunque volesse. Classi
ben distinte si stanno formando in modo allarmante». La constatazione di
Turner riecheggiava inquietudini diffuse. «Per quanto si sia riluttanti ad
ammetterlo», scrisse per esempio nel 1892 l’economista Francis Walker, «la
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CAPITOLO
4
questione sociale sta per investire anche noi. Un continente di libere terre
vergini non può più salvarci dal conflitto sociale che il vecchio continente
ha conosciuto per tanto tempo e tanto penosamente». Stava forse delineandosi un rovesciamento dell’esodo che era alle origini stesse del Nuovo mondo, un ritorno del popolo eletto ai problemi del Vecchio mondo, alla tirannide e alla schiavitù egizia: un ritorno all’Europa45?
La convinzione di Sombart che le condizioni che fino ad allora avevano
ostacolato il socialismo negli Stati Uniti fossero in procinto di scomparire o
di essere trasformate nel loro contrario non era dunque un prodotto del
wishful thinking degli europei. Il dubbio che l’America non fosse (più) una
nazione eccezionale era una componente intrinseca del nazionalismo americano, che riaffiorava con regolarità nei momenti di crisi, e che negli anni del
volgere di secolo emerse con particolare veemenza. L’interesse con il quale
Karl Marx e Friedrich Engels si interrogarono sulle caratteristiche degli Stati
Uniti ottocenteschi, e l’incertezza con la quale discussero l’impatto che esse
avrebbero potuto avere sulle sviluppo della ideologia, dell’organizzazione, e
della coscienza di classe del proletariato americano, non erano atteggiamenti così eccentrici. In questo stesso spirito i socialisti europei rifiutarono di
credere in un destino speciale del paese d’oltreoceano, pur valutandone le
peculiarità, per esempio il sorprendente contrasto fra violenza delle lotte
sociali e scarsa fortuna delle idee socialiste; un fatto che fu attribuito, con
dogmatica ingenuità, al disinteresse operaio per la politica, come se la politica operaia potesse essere solo socialista. Continuarono a guardare agli Stati
Uniti anche con ammirazione e simpatia, considerandoli come la più alta
espressione dello spirito innovatore del capitalismo: un capitalismo grandioso, veloce (che si muoveva con «rapidità caleidoscopica») e trasparente,
che alla fin fine si sarebbe sviluppato secondo le inevitabili leggi di tutti i
capitalismi. E la storia sembrò dar loro ragione. Quando nel 1912 il candidato del Socialist Party of America, Eugene Debs, ottenne il 6 % (quasi un
milione di voti) alle elezioni presidenziali, i socialisti italiani dell’«Avanti!»
misero da parte ogni prudenza e ogni ritegno, e scrissero:
[N]on possono più fingere d’ignorarci. Non si piglia più in giro un partito che
possiede 268 settimanali e 12 quotidiani - con oltre quattro milioni di copie di
tiratura! - che ha organizzato cinquemila sezioni con centocinquantamila membri
ed ha conquistato le unioni di mestiere più importanti. […] Il fatto è veramente
nuovo; l’entrata del proletariato nella vita politica, costituito in partito di classe
[…] è fenomeno inaudito in questa America favolosa, che sembrava destinata a
smentire tutte le profezie del marxismo.
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
Conclusero: «Che cosa succede? La Giovane Europa del socialismo conquista la Giovane America democratica. Oh! Yes!»46.
Che ciò potesse veramente succedere sembrò per qualche tempo nell’ordine delle cose possibili. E qui gli europei erano in perfetta consonanza
con gli americani, socialisti e non. Dopo la fondazione del Socialist Party
nel 1901, il socialismo era entrato da protagonista nel discorso politico nazionale, protagonista legittimo, con il quale tutti si aspettavano di dover fare
i conti nell’immediato futuro. Dopo il 1905 le idee socialiste divennero
«quasi una moda» nei circoli letterari e accademici, impegnarono intellettuali come Charles Beard e John Dewey, accesero la fantasia di giovani di
belle speranze come Walter Lippmann e Carl Sandburg, eccitarono i frequentatori di bastioni proletari come il Socialist Club di Harvard University
o il salon newyorkese dell’ereditiera Mabel Dodge47. Dagli anni del dopoguerra, tuttavia, speranze e interesse erano svaniti. Tutto era cambiato.
Sombart aveva concepito la sua domanda quando il marxismo era una dottrina unitaria, il socialismo europeo (e anche quello americano) un corpo
relativamente omogeneo e in crescita, l’Europa il centro del capitalismo
mondiale, e il capitalismo la forza propulsiva di un mondo potenzialmente
unificato. Gli osservatori assumevano come metro di valutazione del movimento in atto e dei suoi sviluppi futuri un modello che era in realtà non solo
eurocentrico, ma molto più radicalmente specifico, e cioè il modello tedesco. Sull’onda dei suoi successi elettorali e del prestigio della sua produzione
teorica, la socialdemocrazia tedesca proponeva se stessa come l’avanguardia
se non del proletariato almeno dei partiti socialdemocratici europei, la sua
storia come paradigma, il suo marxismo determinista come strumento di
analisi teorica48. Un ventennio dopo l’unità ideologica e politica del movimento socialista internazionale e, di conseguenza, dei movimenti nazionali,
era stata distrutta dagli effetti della guerra mondiale e della rivoluzione
bolscevica. In Europa occidentale, il socialismo era sulla difensiva, schiacciato nell’Italia ormai fascista, disorientato anche nei paesi dove arrivò a
condividere il potere, come nella Germania di Weimar e in Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti era a pezzi, travolto dalle scissioni, dalle persecuzioni politiche, dal boom economico e dalla normalcy capitalista. Nel 1928 i socialisti
raccolsero lo 0,72% del voto presidenziale (266.000 voti), i nuovi comunisti lo 0,13% (48.000 voti).
Nel frattempo, il nazionalismo americano aveva superato la sua crisi,
mutando in profondità, con importanti conseguenze operative. Dopo il 1900,
una nuova upper class nazionale, prodotta dalla fusione della vecchia gentry
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CAPITOLO
4
con i nuovi capitalisti e dall’assorbimento degli intellettuali della new middle
class, abbandonò la convinzione che vi fosse qualcosa di eterno e fatale nel
destino eccezionale del paese. Continuare a credervi, disse il presidente della
American Economic Association, voleva dire vivere non in paradiso ma nel
«paradiso degli sciocchi»49. Per conservare il sogno americano e realizzarlo
era necessario agire; concepirlo non più come un processo automatico bensì
come uno scopo da perseguire con consapevolezza e determinazione, tenendo conto delle cesure della modernità. La diversità dell’America non poteva
più affidarsi all’ideale repubblicano dell’indipendenza e della proprietà diffusa; doveva fondarsi piuttosto sull’ideale liberale della crescita economica,
del governo attivo dell’economia e della società, del pluralismo politico e
culturale, della prosperità e del benessere. In questo contesto la questione
sociale, per quanto grave, poteva essere affrontata come un aspetto dello
sviluppo nazionale che in quello sviluppo avrebbe trovato anche le sue soluzioni, e non come uno spauracchio «di tipo europeo». Anche perché, si disse, forse l’Europa stessa stava cambiando. Noi continuiamo a definire i problemi americani, scrisse Walter Lippmann in un saggio del 1914, «con la
visione stantia dell’Europa continentale nel 1850». Ma nelle società di massa contemporanee i conflitti sociali non erano più così temibili; erano non
guerra di classe ma scontri d’interesse fra gruppi diversi e frantumati, quindi
controllabili e gestibili, avendo a disposizione gli strumenti adeguati. Il nuovo
nazionalismo sapeva che il futuro andava costruito, alleandosi con l’intelligenza e con una difficile opera di riforma. Lippmann sintetizzò nel titolo di
questo saggio la coppia di opposti che metteva a fuoco il dilemma: Drift and
Mastery, e cioè movimento inconsapevole, lasciato al caso, alla deriva, contro padronanza sul movimento, controllo sulla sua direzione50.
Nessuno meglio di Herbert Croly espresse, negli stessi anni, il fastidio
del «nuovo nazionalismo» (un termine da lui coniato, che fu popolarizzato
da Theodore Roosevelt nella campagna elettorale del 1912) per la «mistura
di ottimismo, fatalismo e conservatorismo» che caratterizzava il vecchio
paradigma eccezionalista. Una mistura micidiale, che a suo parere avrebbe
portato il paese alla rovina. Per generazioni gli americani avevano goduto
del privilegio di lasciarsi scivolare senza sforzo nella valle dell’appagamento;
ora che si erano presentati dei seri ostacoli, c’era il rischio che si sfracellassero
nella folle discesa. Questa tradizione non aveva soluzioni da offrire al problema centrale dell’epoca, quello sociale, precisamente perché ne era la causa. Era stata proprio la tradizionale fiducia americana nell’individualismo
selvaggio e irresponsabile, e l’illusione di non doverne mai pagare il prezzo,
162
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
a creare una concentrazione di ricchezza e potere prodigiosa e pericolosa.
Per curare questa «malattia radicale» Croly proponeva di ricorrere alla volontà politica, alla regolamentazione pubblica dell’economia e della società.
Con corrusco linguaggio biblico affermò che «l’idea americana non può più
essere propagata semplicemente moltiplicando i figli del West e riconoscendo agli stranieri ignoranti il permesso di votare. Come tutte le sacre cause,
deve essere propagata con la Parola [Word ] e con quel braccio destro della
Parola che è la Spada [Sword ]». La spada era lo stato. Un forte stato nazionale avrebbe dovuto diventare «responsabile di una distribuzione della ricchezza moralmente e socialmente desiderabile», e quindi lo strumento per
riconfermare The Promise of American Life (questo era il titolo del suo libro
del 1909, un altro titolo sintetico e programmatico)51.
Questa nuova versione del nazionalismo era stata a lungo in preparazione, e, come sempre, era frutto di un dialogo transatlantico. Alla fine dell’Ottocento la cultura americana aveva partecipato a un dibattito che aveva
partorito su entrambe le sponde dell’oceano idee di ridefinizione degli scopi
nazionali, di riorganizzazione dello stato e di riequilibrio fra i poteri costituzionali, di vasta portata e notevole successo. Mi riferisco ai progetti di
cambiamento che miravano al rafforzamento del potere esecutivo, nuovo
garante della governabilità del paese, alla promozione di una leadership politica carismatica, all’ammodernamento degli apparati burocratici, alla
centralizzazione di agenzie di nazionalizzazione come le scuole pubbliche,
alla creazione di una democrazia regolata. Gli esponenti di una nuova generazione liberal-progressista, che si affacciava al Novecento, aggiunsero la ricetta di una democrazia sociale impegnata nella costruzione di un Welfare
State e una dose di imperialismo52. Anche qui, i motivi erano analoghi a
quelli discussi in Europa, e cioè la chiusura dei mercati e la conseguente crisi
sociale, la percezione del limite e la necessità vitale di superarlo. Mutuando
la retorica degli europei, alla fine degli anni novanta individui e gruppi chiesero una proiezione imperiale, e spesso coloniale, anche per gli Stati Uniti:
in nome degli interessi commerciali e dell’armonia tra capitale e lavoro.
Queste idee erano implicite nella logica di coloro che ragionavano su quella
forma così simbolica e così concreta di limite raggiunto, che era la fine della
frontiera continentale. Per Turner, per esempio, non c’era alcun motivo perché gli americani dovessero rallentare la marcia in avanti che li aveva caratterizzati per quasi tre secoli, una volta che fossero arrivati alla costa del Pacifico. Nuove frontiere interne (la riforma sociale) e nuove frontiere extracontinentali (l’impero) erano una possibile soluzione ai nuovi problemi del163
CAPITOLO
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la democrazia in America. L’impero e la riforma erano le condizioni della
riconferma dell’eccezionalismo americano53.
Rispetto agli europei, gli americani avevano compiti specifici. Per loro,
immaginare uno stato di tal fatta (sociale, interventista, imperialista) costituiva una sfida all’ordinamento esistente, non la sua riforma. Erano i difensori
di uno stato che non esisteva ancora, ed evocarono timori e sospetti. Credettero comunque di poter adattare «l’insegnamento degli altri paesi sulle cose da
fare» al «modo americano di farle», come scrisse nel 1887 Woodrow Wilson,
allora un giovane scienziato politico. Che concluse: «Se risolveremo questo
problema saremo di nuovo all’avanguardia del mondo»54. Nel 1917 toccò
proprio a Wilson, nel frattempo entrato alla Casa bianca come presidente
degli Stati Uniti, farsi portavoce politico di questa moderna sintesi ideologica.
Entrando in guerra, Wilson lanciò una sfida al vecchio ordine mondiale che
era insieme analoga e opposta, competitiva, a quella lanciata nello stesso anno
da Lenin. Wilson combinò un nuovo internazionalismo espansionista, «per
rendere il mondo un luogo sicuro per la democrazia», con la riforma sociale, il
socialismo di guerra e la repressione antisocialista sul fronte interno; potè così
presentarsi come il campione sia della lotta all’imperialismo di tipo europeo e
al bolscevismo, sia di un nazionalismo americano «liberal-eccezionalista». Il
fallimento immediato del wilsonismo non riuscì a nascondere il fatto che gli
Stati Uniti avevano ormai conquistato il primato su tutti gli altri paesi industrializzati, e, per i marxisti rivoluzionari, il ruolo di centro dell’imperialismo
mondiale e di baluardo della reazione capitalistica55. Gli anni del New Deal
sembrarono una parentesi in questo processo, suscitando l’attenzione sia dei
socialdemocratici europei della Seconda internazionale che dei comunisti. Ma
non si trattò di una vera parentesi. Il riformismo di Franklin D. Roosevelt
riprese in grande stile e con maggior successo l’esperimento wilsoniano in
tutte le sue componenti, e confermò che la questione del socialismo in America era diventata irrilevante.
5. La storia sociale e l’analisi comparata dell’anno 1906
Negli anni fra le due guerre, Antonio Gramsci fu uno dei pochi intellettuali marxisti che intuì la possibilità di rompere sia la logica della contrapposizione fra Stati Uniti ed Europa, sia quella della stessa domanda di Sombart.
Lo spingevano in questa direzione l’impasse del socialismo europeo e l’incapacità delle sue categorie tradizionali di spiegare i cambiamenti che erano
intervenuti nella vita sociale dopo lo scoppio della guerra mondiale. Forse,
suggeriva Gramsci, bisognava smettere di valutare lo sviluppo americano
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
sulla base del passato europeo, con tutte le attese frustrate che ciò comportava, così come di considerarlo completamente diverso. Era invece opportuno cominciare a chiedersi se un’analisi della società d’oltreoceano non potesse illuminare in qualche modo i problemi del presente e del futuro del
socialismo in Europa; chiedersi se gli Stati Uniti non fossero entrati per
primi in una nuova fase capitalistica, una fase di tale rilevanza da aprire una
nuova epoca per tutte le nazioni industrializzate. La questione dell’America
era la questione dello sviluppo diseguale del capitalismo, e delle implicazioni che ciò assumeva per il destino della rivoluzione in Occidente. Per Gramsci
l’Europa era un late comer che stava conducendo un lento apprendistato alle
nuove regole del conflitto di classe. Il capitalismo americanizzato, che fondava la propria egemonia su una cultura democratica di massa, non aveva
reso impossibile la battaglia per il socialismo, ma aveva creato un terreno di
lotta più difficile. La cultura di massa si presentava come il nuovo, cruciale
problema, doppiamente inquietante. Da una parte, essa trovava i suoi critici
più veementi fra i nemici conservatori e tradizionalisti della classe operaia;
quei critici che erano insieme antisocialisti e antiamericani, e il cui
antiamericanismo Gramsci giudicò «comico, prima di essere stupido» (citando fra l’altro questi simpatici versi di Mino Maccari: «Val più un rutto
del tuo pievano / che l’America e la sua boria: / Dietro l’ultimo italiano / C’è
cento secoli di storia») 56. Dall’altra, con i suoi messaggi liberatori, con le sue
promesse di abbondanza, con il suo carattere sottilmente repressivo, la cultura di massa costituiva una minaccia anche per la cultura operaia.
Il problema di Gramsci era questo: come sviluppare forme di controegemonia in circostanze che mettevano in discussione le nozioni
deterministe secondo le quali lo sviluppo economico avrebbe inevitabilmente
condotto a una coscienza di classe e a un’organizzazione partitica di tipo
socialista. Di fatto Gramsci rimase persuaso che permanessero le condizioni
per applicare la ricetta tradizionale, e cioè costruire un movimento unitario
di classe sotto la direzione di un partito politico di massa. E tuttavia il suo
era un approccio che, potenzialmente, faceva piazza pulita delle categorie
che sottendevano il precedente pensiero socialista, così come le analisi
sombartiane, e restituiva complessità e incertezza alle vicende delle lotte
sociali. Negli ultimi decenni proprio il suo contributo intellettuale, intrecciato all’enorme influenza del lavoro di E.P. Thompson su The Making of the
English Working Class e a quella, più recente, dell’analisi culturale e del linguaggio politico, ha aiutato gli studiosi a disegnare in termini nuovi la storia
delle classi operaie su entrambe le sponde dell’oceano Atlantico. In questa
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CAPITOLO
4
prospettiva, che costituisce il senso comune di molta ricerca storiografica, la
classe non è vista come una categoria o una struttura «data», qualcosa che
esiste in sé, ma come una costruzione storica e culturale: qualcosa che «accade» quando gruppi di uomini e donne sentono e articolano l’identità dei
loro interessi in una relazione di confronto e scontro con il mondo circostante. L’autocoscienza di classe non è il prodotto necessario di una serie di
premesse economiche e sociali, ma un processo dinamico e attivo di elaborazione di esperienze condivise e di esperienze conflittuali, che lascia largo
spazio alle variabili soggettive e al variare dei contesti. E’ «il modo in cui
quelle esperienze sono vissute in termini culturali: incarnate in tradizioni,
sistemi di valori, idee, e forme istituzionali»57. Storicamente, le coscienze e
le istituzioni dei lavoratori sono state quindi plasmate (per usare parolechiave care a Thompson) dall’impatto combinato della macchina a vapore,
del contesto politico nazionale e dell’economia morale delle classi popolari
pre-moderne, e inoltre dalla scansione temporale di quella combinazione58.
I movimenti sociali, anche quando si definiscono di classe, non sono
socialmente e ideologicamente compatti al loro interno. La loro struttura
sociale è piuttosto quella di coalizioni più o meno stabili, nei quali individui
e gruppi cercano di immaginare un linguaggio comune di mobilitazione per
affrontare problemi comuni. Gli individui e i gruppi sono frammentati per
occupazione, categoria, e genere sessuale, per fedeltà nazionali, regionali,
etniche e religiose, e per eredità culturali; i loro linguaggi sono non omogenei, contradittori, guardano insieme al passato e al futuro, e vi guardano in
maniera diversa. Di conseguenza anche il comune linguaggio di mobilitazione e di «controegemonia» è un terreno di conflitto di diversi significati, e
quello che sembra emergere come dominante e diventa il linguaggio delle
strutture organizzative più stabili e visibili non è affatto l’unico esistente59.
Ciò significa che questi movimenti hanno caratteri diversi in situazioni diverse; sono essi stessi una creazione dei moderni stati-nazione. Quando
Thompson racconta la formazione della classe operaia inglese, descrive le
condizioni in cui il proletariato urbano pensò a se stesso e agì politicamente,
si vide come classe e si «fece» classe nell’ambito di un sistema economico,
sociale e politico chiamato Inghilterra. Lo stesso è vero per la formazione di
altre classi operaie in altre economie, società, giurisdizioni nazionali, con
altre storie e altri tempi di sviluppo60. Ciò significa anche che le caratteristiche dei movimenti nazionali non possono essere automaticamente dedotte
da quelle delle loro frazioni organizzate. Non è legittimo attribuire alle classi
operaie nazionali nel loro complesso la cultura politica («radicale» o
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
«rifomista» o «moderata» che sia) di organizzazioni che rappresentano una
minoranza delle classi stesse, paradossalmente attribuendo a queste minoranze il trionfo che spesso è stato loro negato dalla storia61. Se si parte da
queste ipotesi di lavoro, ciò che appare sorprendente non è tanto che la
vicenda americana differisca da quelle delle varie nazioni europee; è semmai
sorprendente, soprattutto se valutata dal punto di vista dell’anno 1906 (l’anno
del saggio di Sombart), quanto fosse poco eccentrica rispetto a quelle.
Un’analisi comparata dello stato dei movimenti operai ai primi del
Novecento in Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, permette di
sostanziare questa affermazione. Con rare eccezioni, in tutte le principali
società industrializzate, sindacati e partiti che si richiamavano alla classe
operaia perseguivano i loro obiettivi nell’ambito dei sistemi economici e
politici esistenti, anche quando questi obiettivi comprendevano cambiamenti
radicali in un imprecisato futuro. Differenze nazionali esistevano, ma non
erano affatto segnate dalla frattura atlantica; i socialisti e i tradunionisti
americani si distinguevano dalle loro controparti tedesche tanto quanto i
socialdemocratici tedeschi si distinguevano dai laburisti inglesi o dai socialisti francesi. Le voci dissonanti erano quelle degli Industrial Workers of the
World negli Stati Uniti, un gruppo rivoluzionario piccolo e con breve ciclo
vitale, e dell’ala maggioritaria della Confédération Général du Travail in
Francia, in verità rivoluzionaria più a parole che nei fatti; d’altra parte, la
Sezione Francese della Internazionale Operaia, la SFIO, non condivideva
affatto le dottrine della CGT. In generale, si trattava di organizzazioni
riformiste e gradualiste, che contrattavano le condizioni e il salario della
forza lavoro nel mercato capitalistico, e agivano elettoralmente in universi
politici caratterizzati dal suffragio universale maschile, tranne che in Inghilterra, e da forme di governo rappresentativo di tipo liberal-democratico,
tranne che in Germania. I sindacati raccoglievano dovunque una quota di
lavoratori industriali che era ben inferiore alla metà. Era più elevata in Gran
Bretagna (con il 30-40%), molto bassa in Francia (15%), su valori intermedi in Germania (25-30%) e negli Stati Uniti (20%). La percentuale che
votava per un partito socialista o laburista è più difficile da quantificare, ma
era limitata. Alla fine del primo decennio del secolo, che fu per tutti un
periodo di sostenuta crescita elettorale, la SFIO ottenne il 16,8% dei voti
nel 1914, l’Independent Labour Party inglese il 7% nel 1910, il Socialist
Party of America il 6% nel 1912. L’eccezione vistosa, in questo caso, era
costituita dalla socialdemocrazia tedesca, con uno straordinario 34,6% dei
voti del 1912.
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CAPITOLO
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Sombart avrebbe potuto formulare la sua domanda anche a proposito
della Gran Bretagna, e in effetti questa domanda è stata più tardi, e da altri,
formulata: nella patria del capitalismo industriale la presenza socialista era
allora a livelli americani62. In effetti, l’elettorato socialista sembrava assumere
dimensioni massicce non nel cuore dello sviluppo liberal-democratico, bensì ai suoi margini, in Germania; non nel centro dello sviluppo capitalistico,
bensì alla sua periferia, in Svezia (36,4% dei voti nel 1914), in Austria (25,4%
nel 1911), in Italia (23% nel 1913). Nei maggiori paesi industrializzati larghi settori di lavoratori votavano per partiti interclassisti; è scontato che gli
operai americani sostenessero in massa democratici e repubblicani, ma si
dimentica che lo stesso facevano quelli inglesi con i liberali e quelli francesi
con i radicali. Persino in Germania la classe operaia cattolica resisteva all’appello di una forte SPD. I socialisti della Seconda internazionale erano convinti che il capitalismo avrebbe «emancipato» il proletariato sia da influenze
politiche e culturali che essi ritenevano premoderne e ostili (religiose,
localistiche, etniche, deferenziali), sia da caratteri moderni poco amati (le
differenze nazionali e, peggio ancora, i nazionalismi). Erano convinti che il
capitalismo avrebbe semplificato i rapporti di potere riducendoli a quelli di
classe, avrebbe reso la società trasparente alla critica socialista e aperta alla
formazione di una coscienza di classe cosmopolita e indifferente ai confini
nazionali. Ciò non accadde neppure a loro stessi, come avrebbe dimostrato
la prima guerra mondiale, quando il patriottismo riemerse a condizionare le
loro scelte politiche. Tanto meno accadde ai lavoratori nel loro complesso,
che i socialisti non rappresentavano che in parte. Lungi dall’essere trasparenti e sempre più omogenee, le società nazionali erano differenziate fra
loro, e dense al loro interno di identità e pratiche sociali eterogenee, frammentate, forti e persistenti. Insomma, l’esperienza degli Stati Uniti ai primi
del Novecento non era affatto eccentrica rispetto a quella dei paesi europei
più industrializzati, piuttosto si collocava all’interno di un continuum ampio ma finito. Dovunque la maggioranza (generalmente, una grande maggioranza) dei lavoratori non apparteva a sindacati né si riconosceva in partiti
esplicitamente di classe. Se ciò costituiva una anomalia rispetto a un qualche modello, era una anomalia che deve essere spiegata non solo per gli Stati
Uniti, ma praticamente per tutto il cuore del mondo capitalistico.
In questa prospettiva è possibile riconsiderare alcuni caratteri del movimento operaio americano che di solito sono spiegati dentro il paradigma
eccezionalistico. Il conservatorismo della classe operaia è dedotto dal linguaggio e dal comportamento della sua principale organizzazione fino a
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
metà degli anni trenta, la American Federation of Labor (AFL). Il suo
sindacalismo di mestiere è stato descritto come job conscious (in difesa del
posto di lavoro invece che degli interessi di classe, come sarebbe il caso dei
sindacati europei), «puro e semplice», «affaristico», «volontarista» nel senso
di anti-statalista. Di queste parole-chiave, mi sembra che sia chiara soprattutto la valenza ideologica che esse ebbero nei conflitti politici del tempo63;
assunte come categorie storiche, perdono molto della loro capacità esplicativa. La AFL non era l’intera classe; molte cose succedevano al suo esterno,
altre organizzazioni, altre culture. La AFL era inoltre una creatura più complessa, e meno peculiare, di quanto si possa ritenere. Job consciousness, controllo sul mercato del lavoro, protezione del mestiere, furono forze che plasmarono la coscienza di dirigenti e attivisti sindacali in tutto l’Occidente.
Fu proprio la tensione fra questi specifici interessi settoriali, e la tensione fra
essi e una più generale prospettiva di classe, a innescare gli aspri dibattiti
d’inizio Novecento su aristocrazia operaia e unionismo industriale, obiettivi
strategici e domande immediate, speranze radicali e tattiche difensive, base
(presunta) militante e dirigenza (presunta) opportunista. In queste controversie Samuel Gompers rappresentava di sicuro un’estremo, il completo
tradunionista pratico; ma il suo «Vogliamo di più» costituiva, di necessità, il
primo articolo di fede di ogni sindacalista. D’altro canto, la politica sindacale non era affatto rinchiusa in questo universo minimalista. Dentro la
AFL, i socialisti erano attivi e influenti sia ai vertici delle associazioni di
categoria che fra gli iscritti, occupavano cariche nazionali e locali, ed erano
in grado di sfidare la leadership di Gompers64. Soprattutto, tutte le unions e
le state federations of labor, che avevano molto più potere reale della federazione nazionale, cercarono di esercitare la loro influenza esplorando uno
spettro di possibilità molto ampio, non dissimile da quello utilizzato da altri
movimenti nazionali: contrattazione collettiva e accordi di categoria, scioperi e agitazioni di fabbrica, azione politica e ricorso all’autorità legislativa e
amministrativa.
Le strategia sindacale non rispondeva affatto alla logica del volontarismo;
i sindacati erano costretti a fare i conti con lo stato perché lo stato si occupava di loro. Le leggi nazionali sul protezionismo e sull’immigrazione determinavano la struttura dei salari e della forza lavoro, e quindi gli equilibri
di potere nel mercato del lavoro. La libertà di associazione era costituzionalmente protetta, ma molte tecniche di lotta (picchetti, boicottaggi, scioperi
di solidarietà) erano messe fuorilegge da una interpretazione giudiziaria antilabor della legislazione anti-trust65. D’altra parte, l’ipotesi che gli interessi
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CAPITOLO
4
dei lavoratori potessero essere meglio salvaguardati dalla contrattazione volontaria fra sindacati e datori di lavoro, piuttosto che dall’intervento pubblico, si fondava su basi sociali precise, e cioè sul controllo degli operai qualificati sul proprio mestiere, garantito da rigide regole sindacali. Ma queste basi
stavano scomparendo, travolte dall’avvento del sistema di fabbrica, con le
sue grandi masse di lavoratori industriali, non qualificati, di nuova immigrazione66. Di fronte all’erosione del loro potere in fabbrica, molti sindacati
cercarono nell’autorità pubblica nuove linee di difesa. Dopo il 1900, si batterono per la legislazione sociale e sul lavoro, crearono comitati per influenzare le assemblee rappresentative statali, si impegnarono nella politica elettorale per fare pesare in blocco i loro voti, collaborarono con i riformatori
sociali borghesi e i politici progressisti. Entro un quindicennio, questioni
che erano appartenute alla gelosa competenza della union rule (orario di
lavoro, apprendistato, collocamento, controllo della manodopera minorile
e femminile, sicurezza, assicurazioni anti-infortunistiche, pensioni, salario
minimo) entrarono a far parte della sfera pubblica, regolate da maggioranze
legislative e da agenzie amministrative67. Se alla vigilia della prima guerra
mondiale era difficile individuare i segni di uno stato sociale di tipo «europeo», era perché si guardava nella direzione sbagliata. La Costituzione federale attribuiva non al governo nazionale, ma ai governi statali, la competenza a decidere nel merito di queste materie. Erano leggi statali quelle che
regolavano la proprietà privata e la responsabilità pubblica, ed erano quindi
leggi che rispondevano in modo diverso alle diverse condizioni sociali di
aree regionali non egualmente sviluppate68. Gli Stati Uniti non avevano un
Welfare State nazionale perchè avevano, nelle sezioni più industrializzate e
popolose, un patchwork di Welfare States.
La questione del rapporto fra federalismo e politica operaia può essere
ulteriormente sviluppata. I movimenti dei lavoratori, negli Stati Uniti dell’Ottocento, non operarono mai una scelta drastica fra strategie puramente economiche e sindacali e strategie politiche; accanto al lavoro di fabbrica, i loro
dirigenti fecero ricorso «istintivamente», per usare le parole di Gompers,
all’attività politica. Tuttavia chi cercasse i segni delle aspirazioni politiche e
riformatrici dei lavoratori dovrebbe concentrare l’attenzione sulle comunità
locali piuttosto che sulle organizzazioni nazionali e sulla scena politica federale; è a quel livello che quelle aspirazioni esercitarono una influenza significativa sia sul fronte economico che su quello legislativo. E’ a quel livello, per
esempio, che devono essere individuate le origini della legislazione sociale
negli Stati Uniti, nello scontento operaio organizzato da attivisti radicali;
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
questi attivisti erano aspramente critici del nuovo ordine economico e sociale, e furono fra i primi a chiedere misure legislative volte a «umanizzarlo».
Nel New Jersey degli anni ottanta, per esempio, essi fecero approvare leggi
sul lavoro infantile, sulla sicurezza in fabbrica, sulla riduzione dell’orario di
lavoro, sui diritti degli inquilini, sull’istruzione obbligatoria, sulle biblioteche pubbliche, sul riconoscimento del Labor Day come festa legale. Simili
sviluppi si ebbero in tutti gli stati industriali del paese69. Particolarmente
rilevante fu l’attività dei Knights of Labor, che, fra l’altro, avevano anche
una prospettiva nazionale. Negli anni ottanta e novanta questo movimento
politico-sindacale si battè per varie riforme nella legislazione federale sul
lavoro; si alleò poi con il partito populista, unendosi alla sua richiesta di
nazionalizzare le ferrovie. Tuttavia, la fase più significativa della sua mobilitazione avvenne localmente, quando centinaia di assemblee e migliaia di
quadri di base entrarono nelle competizioni politiche municipali, con programmi che chiedevano restrizioni dell’uso della polizia nei conflitti di lavoro, controlli sui trasporti urbani, la giornata di otto ore per i dipendenti
pubblici, e, allo scoppiare della grande depressione del 1893, un allargamento dei servizi e delle spese destinate all’assistenza e alla ripresa economica70.
Liste così dettagliate delle richieste politiche, e delle misure ottenute,
sono importanti. Da un parte, suggeriscono che le aspirazioni riformatrici
dei gruppi operai negli Stati Uniti non erano diverse da quelle delle loro
controparti in altri paesi industrializzati, così come si manifestavano nei
movimenti sindacali e cooperativistici d’Europa, nei programmi del socialismo municipale, nei manifesti dei partiti socialisti. Dall’altra, pongono una
domanda altrettanto cruciale, e collegata, e cioè in quale misura il discorso
politico, in cui quelle aspirazioni erano formulate, sia un fattore centrale
nella valutazione della politica operaia, delle sue prospettive e del suo impatto sulla sfera pubblica, all’indomani della seconda rivoluzione industriale. Insomma, era l’ideologia rilevante? I discorsi politici e ideologici sono
questioni serie, ed erano diversi nei diversi ambienti nazionali. Nell’individuare i torti subiti e nel presentare pubbliche rivendicazioni, i lavoratori
americani usarono la retorica del repubblicanesimo radicale, i francesi quella del socialismo repubblicano, gli inglesi quella del radicalismo artigiano e
laburista, i tedeschi, prima e più diffusamente di altri, quella della socialdemocrazia marxista71. Eppure, è legittimo almeno sospettare che, se osservati
dal basso, i processi di formazione della rappresentanza politica operaia, e
dei relativi programmi, fossero meno diversificati di quanto si possa presumere; ovvero, in altre parole, che variassero all’interno di uno spettro limita171
CAPITOLO
4
to di possibilità. Purtroppo, non esiste un adeguato lavoro di ricerca in questa direzione. Alcuni tentativi di indagine, molto utili e da me utilizzati in
queste pagine, si limitano all’accostamento in parallelo delle varie esperienze nazionali e alla costruzione di una comparazione storica di tipo
macroanalitico. Sarebbe tuttavia opportuno disporre di studi microanalitici
transnazionali, che esplorino a livello locale e in prospettiva comparata, i
canali istituzionali (associazioni volontarie, società di mutuo soccorso, club
riformatori, sindacati, partiti operai e partiti interclassisti) e le risorse sociali
(rituali e valori comunitari, tradizioni politiche e religiose) tramite i quali i
lavoratori divennero attori politici e influenzarono le scelte pubbliche72. Nel
condizionare i risultati di questi processi, le variazioni nei contesti politici e
istituzionali erano probabilmente più rilevanti delle visioni politiche e ideologiche, più o meno peculiari che fossero, dei lavoratori stessi.
Il presupposto della dicotomia socialismo/non-socialismo è che i lavoratori, se non erano socialisti, dovessero essere parte del consenso liberale.
Questo presupposto è errato per qualunque paese. Dovunque, i lavoratori
svilupparono una varietà di linguaggi di solidarietà, organizzazione, resistenza, e critica, alcuni dei quali si cristallizzarono nelle ideologie formali
adottate da partiti «di classe», mentre altri contribuirono a dare una tinta
sociale a partiti interclassisti basati su diverse affiliazioni politiche, religiose
ed etniche. Gli storici che hanno indagato su ciò che gli operai americani
erano, e non su ciò che non erano (non erano ovviamente socialisti in massa), hanno individuato persistenti tradizioni di repubblicanesimo radicale e
di cristianesimo evangelico popolare, che fornirono loro potenti strumenti
per contrastare l’emergente ordine sociale e per razionalizzare il loro antagonismo, almeno fino all’inizio del ventesimo secolo73. Quelle tradizioni, che
affermavano il primato dei diritti della comunità su quelli dell’individuo, e
predicavano il vangelo dell’eguaglianza, ebbero origine nelle trasformazioni
collegate alla rivoluzione e al Grande Risveglio religioso. In altre parole, la
società del Nuovo mondo non era «nata libera» e liberale come Louis Hartz
e altri hanno sostenuto; era invece attraversata da una stratificazione di formazioni culturali in conflitto fra loro. La rivoluzione non fu una rivolta
coloniale che si limitò a difendere una società liberale consolidata, che in
quanto tale semplicemente non esisteva, ma un fenomeno politico e sociale
molto più complesso; come in altre rivoluzioni (quella francese compresa)
rotture e continuità vi si intrecciarono in una fitta trama. Solo l’ideologia di
una piccola élite lasciava presagire lo sviluppo del liberalismo individualistico, il cui trionfo si consumò parecchi decenni dopo, in seguito ad aspri
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
conflitti sociali e culturali con agguerrite opposizioni74. In un mondo di
identità sociali e mentalità collettive segmentate, una American mind omogenea, liberale, pragmatica, individualista, non è mai esistita se non nella
mente degli intellettuali che l’hanno immaginata. Anche l’inizio del Novecento, quando secondo alcuni si formò compiutamente una moderna
National mind, vide la nascita non di una cultura omogenea, bensì del suo
esatto opposto, e cioè di nuove gerarchie culturali75.
Insomma, i lavoratori americani possedevano linguaggi di mobilitazione sociale e critica radicale. In quale misura questi linguaggi popolari avessero accesso al discorso pubblico è ben noto per l’Ottocento; costituisce
ancora una questione aperta per ciò che riguarda il mercato politico nazionalizzato del Novecento, dominato da nuove forme di organizzazione e comunicazione politica e di consumo culturale. Per affrontare questi problemi
in una prospettiva comparata, tuttavia, credo che sia necessario cambiare
approccio. L’approccio sincronico utilizzato fin qui ha sottolineato come la
presenza socialista nel panorama politico americano d’inizio secolo non fosse anomala rispetto agli altri paesi industrializzati. Il problema della crisi del
socialismo organizzato sembrerebbe quindi riguardare un periodo successivo, quando, dopo la grande guerra, il Socialist Party of America quasi scomparve e il partito comunista mai lo sostituì. La repressione governativa durante e dopo la guerra non spiega molto; fu tutt’altro che eccezionale, semmai fu meno dura che in altri paesi dove, come nell’Italia fascista e poi nella
Germania nazista, mise in ginocchio movimenti ben più forti e la democrazia stessa76. Neanche la debolezza dei sindacati negli anni venti spiega molto
di più; negli anni trenta un movimento operaio vigoroso e nuovamente
militante riprese iniziativa politica, contribuendo alla realizzazione di una
delle più significative esperienze di riforma sociale del periodo. La classe
sociale divenne una determinante importante del comportamento elettorale, e le elezioni presidenziali del 1940 mostrarono la più radicale polarizzazione
di classe dell’intera storia del paese. E tuttavia fu il partito democratico
rooseveltiano ad assumere il programma (la costruzione del Welfare State) e
il ruolo (in rapporto a sindacati e classe operaia) che erano propri dei partiti
socialisti e laburisti; fu il New Deal a incarnare una convergenza con la
socialdemocrazia77. Da allora, era chiaro che ciò che doveva essere spiegato
non era tanto una questione di ideologia, di mobilitazione di classe, o di
rappresentanza politica dei lavoratori di per sé, quanto una questione di
formazioni partitiche, ovvero la crescita interrotta e il dissolversi di un nuovo partito politico. E’ una questione, questa, che può essere compresa collo173
CAPITOLO
4
candola nel quadro delle dinamiche di lungo periodo dei sistemi sociali e
politici all’interno dei quali i socialisti d’inizio secolo si trovarono ad agire,
sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Europa occidentale.
6. Socialisti americani, contesti dinamici, salti temporali
Fra il 1870 e gli anni venti del Novecento, i sistemi nazionali di questi
paesi sembrarono acquistare fisionomie simili. Stratificazione sociale, una
crescente classe operaia sempre più organizzata, gruppi d’interesse di grandi
dimensioni, partiti permanenti gestiti da politici di professione, una moderna burocrazia, legislazione sociale: dovunque, questi erano gli effetti della
seconda rivoluzione industriale e dell’estensione del diritto di voto78. Negli
Stati Uniti, tuttavia, il suffragio universale maschile e i partiti politici non
erano innovazioni recenti come in gran parte d’Europa; la loro storia ormai
secolare era intrecciata a quella di una classe operaia in continuo cambiamento. La nascita dei gruppi di interesse era non solo un prodotto del nuovo ordine economico ma anche una reazione al governo di partito in una
democrazia di massa. Stavano emergendo nuove forme di partecipazione
civile e politica che non erano fondate sulla comune cittadinanza politica
organizzata dai partiti, ma su altre identità, altre istituzioni, altri canali di
comunicazione. E’ in questo contesto dinamico che il problema del destino
del socialismo americano, inteso come partito politico, deve essere esaminato; è in questo contesto che alcune delle spiegazioni del suo «fallimento»
possono essere riconsiderate nella prospettiva comparata di sviluppi nazionali differenziati nel tempo. I socialisti europei costruirono le loro organizzazioni nel momento di avvio della democrazia di massa nel continente,
all’alba della «vera età dei partiti»79. Di questo regime essi furono gli alfieri,
introducendovi il modello del partito organizzato che doveva dominare il
panorama politico nei decenni successivi: un partito con una coerente ideologia, fondato su una base sociale omogenea con qualche identità di classe,
mirato alla mobilitazione politica di un elettorato popolare in emancipazione o appena emancipato. Negli stessi anni, i socialisti americani intrapresero
lo stesso progetto in un paese che aveva già consumato quella esperienza,
mentre nuove condizioni rafforzavano gli ostacoli esistenti all’azione politica indipendente della classe operaia, e mettevano in discussione l’efficacia
stessa della politica elettorale e della forma-partito. Le organizzazioni politiche di massa cominciavano a mostrare segni di crisi (di legittimità, di ruolo,
di identità, di capacità di mobilitare l’elettorato) che, da questa parte dell’oceano, sono comparsi solo nel tardo secondo dopoguerra. C’è un salto
174
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
nelle scansioni temporali, in questa analisi, e le suggestioni comparativistiche
non potranno che essere diacroniche.
Dall’inizio del Novecento, le classi popolari americane bianche e maschili avevano alle spalle tre quarti di secolo di cittadinanza politica, un fatto
cruciale. Secondo gli scienziati politici Seymour Martin Lipset e Stein
Rokkan, la natura della politica operaia in Occidente è stata influenzata
dalle variazioni nelle condizioni storiche sotto le quali il proletariato è entrato nell’arena politica. Queste variazioni negli ambienti nazionali hanno determinato la struttura delle alternative politiche a disposizione dei lavoratori
nei diversi paesi prima della grande guerra. Nella sua analisi dei casi nazionali europei, Rokkan ha mostrato come l’adozione di una prospettiva comparativa storica di lunga durata consenta di apprezzare le specificità di ciascun paese in un contesto comune di continuità, cambiamenti e fratture
conflittuali; consenta di guardare più alle differenze che alle convergenze dei
sistemi partitici nazionali. Egli indica le ragioni delle divisioni partitiche e
del comportamento elettorale nel Novecento europeo in un intreccio di
molteplici eredità storiche; usando il suo linguaggio, l’eredità di due rivoluzioni (nazionale e industriale) e di quattro fratture sociali (centro-periferia,
stato-chiesa, urbano-rurale, e di classe). Rokkan rinuncia dunque a considerare come fattore determinante nello sviluppo politico europeo lo spartiacque
della frattura di classe indotta dalla seconda rivoluzione industriale, dalla
mobilitazione operaia e della nascita dei partiti socialisti; e mette implicitamente in discussione, si potrebbe aggiungere, le interpretazioni che vedono
in questo avvenimento europeo il centro problematico della diversità americana. Negli Stati Uniti, le masse ottennero il suffragio maschile e il diritto di
auto-organizzarsi prima della rivoluzione industriale, prima della formazione di una moderna classe operaia, e prima che qualsiasi tentativo di organizzarle in partiti fondati sulla coscienza di classe fosse persino concepito. Quando, alla fine dell’Ottocento, si definì la matura società industriale, i lavoratori americani erano già integrati nella società politica, con forti fedeltà di
partito. La frattura di classe attraversò quelle fedeltà, ma non generò una
ristrutturazione del sistema dei partiti perché mancò quel potente elemento
unificante, la necessità di compattarsi come classe per conquistare il diritto
a partecipare alla vita politica del paese80.
Negli Stati Uniti il suffragio universale maschile non fu una conquista
della moderna classe operaia, ma un dato di fatto (un «dono gratuito»81) che
si intrecciò con il suo processo di formazione, una componente costitutiva
della sua cultura. I primi agitatori marxisti, che vennero nel paese dopo il
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CAPITOLO
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1848, non poterono inserire la battaglia per il voto e la piena cittadinanza
politica nella loro critica di un ordine sociale gerarchizzato; non poterono
mostrare con evidenza, come facevano i loro compagni in Europa, che diritti politici e privilegi economici erano correlati. Più tardi, i socialisti di fine
Ottocento trovarono lavoratori che tendevano a differenziare il loro ruolo
di forza-lavoro (dipendente, inserito nella gerarchia delle diseguaglianze di
fabbrica, e militante) da quello di cittadini e residenti (indipendente, definito dall’eguaglianza della cittadinanza democratica, ed elettoralistico)82.
Trovarono lavoratori-cittadini che avevano incorporato i loro linguaggi di
protesta e critica nel discorso dei grandi partiti preesistenti, e che in quei
partiti avevano aperto possibilità di carriera politica per i loro dirigenti. «Quei
tipi di personalità operaie piene di talento e di ambizione che stavano lottando per costruire i partiti socialdemocratici della Seconda internazionale», ha osservato uno storico, «erano da allora negli Stati Uniti dei machine
politicians di successo»83. Certo queste machines, o meglio queste organizzazioni di partito, solo in parte riflettevano i sentimenti popolari; «imponevano anche efficaci freni e controlli sull’espressione e persino sul contenuto
delle aspirazioni e delle opinioni dei lavoratori»84. Ma ciò in verità può essere detto (ed è stato in effetti detto) di tutte le organizzazioni di massa, comprese quelle socialiste; è, in qualche misura, una condizione stessa della loro
esistenza. Si trattava dunque di partiti popolari permanenti, basati su valori
e legami comunitari, con programmi diversificati e fra loro antagonisti, in
grado di dare rappresentanza a un ampio spettro di interessi e convinzioni,
capaci di plasmare forti identità politiche e culturali e un profondo senso di
appartenenza in un elettorato partecipe e mobilitato. Come ho suggerito
nel secondo capitolo di questo volume, erano i primi partiti organizzati di
massa con una visione della «buona società» a comparire nei paesi occidentali, molto simili ai più tardi partiti ideologici (socialisti e no) d’Europa. I
socialisti americani trovarono, per così dire, il loro territorio naturale già
occupato da altre culture politiche e da altre forze organizzate.
Le contrapposizioni fra partiti ed elettori rispecchiavano fratture storiche che non erano quella di classe. Entrambi i grandi partiti della seconda
metà dell’Ottocento, il repubblicano e il democratico, erano interclassisti, e
accomodavano il voto e la partecipazione dei lavoratori. La classe operaia, a
sua volta, era divisa da un conflitto politico che ne rifletteva la storia secolare, fatta di massicci movimenti migratori e di una continua ri-stratificazione
del mercato del lavoro. Le divisioni all’interno della classe operaia americana
sono state viste di per sé come una ragione della sua peculiarità, come «il
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PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
deterrente decisivo» alla crescita di un partito socialista85. Per più di un secolo, la forza-lavoro nazionale fu alterata di continuo nella sua composizione:
memorie furono distrutte, istituzioni e tradizioni dovettero essere ricostruite,
battaglie combattute più e più volte. Come molti altri paesi, gli Stati Uniti
dopo il 1815 affrontarono il compito difficile di industrializzare e nazionalizzare intere culture, ma qui (a differenza di altrove) il processo si ripetè regolarmente per ben più di un secolo; ciascun stadio di sviluppo coinvolse diversi
gruppi operai di prima generazione, provenienti da culture e etnie diverse86.
L’emergere «precoce» di una economia capitalistica basata su una struttura
dualistica (un nucleo centrale stabile di grandi industrie, a elevata intensità di
capitale, contro una periferia fluttuante di imprese piccole e labor-intensive) e,
quindi, su un mercato del lavoro segmentato, non fece che complicare il problema; creò, prima che altrove, una spaccatura profonda fra lavoratori industriali e di mestiere, fra skilled e unskilled workers 87. Le divisioni strutturali e
etnoculturali tendevano a sovrapporsi e rafforzarsi a vicenda; dopo la depressione degli anni novanta, produssero un riallineamento politico nell’elettorato popolare. Sotto la pressione del «pericolo giallo» dell’immigrazione cinese,
il settore organizzato, qualificato, di vecchia immigrazione, della classe operaia si schierò a fianco non del nascente partito socialista, ma dei democratici
che avevano promesso di impedire l’importazione di forza-lavoro indigente
straniera; si separò così dalle componenti non qualificate e di nuova immigrazione della classe stessa. Il primo passo verso l’alleanza fra i sindacati di mestiere e i democratici fu compiuto in nome della «protezione razziale della società
e del mercato del lavoro»88.
Qui, di nuovo, la scansione temporale è importante; «precocità», non
unicità, è la parola chiave. Negli Stati Uniti del primo Novecento, gli attivisti socialisti cercarono di costruire un movimento operaio unificato in condizioni che divennero familiari ai paesi dell’Europa occidentale solo mezzo
secolo dopo, quando sviluppo capitalistico e correnti migratorie interne,
continentali e intercontinentali, cominciarono a riplasmare la struttura della loro forza-lavoro. Una classe operaia divisa, multinazionale, sempre più
multirazziale, si dimostrò un ostacolo formidabile per i socialisti americani
di ieri89; è una causa delle difficoltà dei socialisti europei di oggi. Lo stesso si
può dire a proposito dell’argomento secondo il quale i lavoratori americani
godevano sia di standard di vita più elevati che di tassi di mobilità sociale
più accentuati di quelli dei loro compagni europei. Il «roast beef e la torta di
mele» evocati da Sombart, più l’arrampicata sociale, sono stati indicati come
il bacio della morte per le utopie socialiste negli Stati Uniti. Parecchie ricer177
CAPITOLO
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che hanno, in verità, ridimensionato la portata di entrambi questi fenomeni90, ma la questione importante è un’altra, e riguarda le tendenze dinamiche nelle quali essi erano inseriti. La percezione dei lavoratori americani del
loro benessere va valutata nel contesto di una cultura del consumismo che
era già bene insediata negli Stati Uniti pre-grande guerra, e molto meno
presente altrove. La loro riluttanza all’«idealismo sociale» dovrebbe essere
intesa come conseguenza non della raggiunta felicità bensì del suo contrario:
dell’insicurezza dovuta alla necessità di provvedere a bisogni crescenti, individuali e familiari, e di elaborare anguste strategie di sopravvivenza91. Una
limitata mobilità sociale era possibile, ma non dipendeva da atteggiamenti
culturali peculiari né premiava il successo individuale; era piuttosto il prodotto di cambiamenti di lungo periodo, inter-generazionali, che riflettevano i cambiamenti strutturali di una economia sempre più centrata sui servizi. I figli e le figlie degli operai di fabbrica «salirono» a impieghi di basso
livello nel settore terziario in espansione, molto spesso perché le occupazioni dei genitori non esistevano più; salendo, voltarono le spalle ai valori culturali della famiglia di provenienza, compresi i valori socialisti quando c’erano, comprando nuovi stili di vita pseudo middle-class nel mercato di massa
dei grandi magazzini92.
In altre parole, il socialismo si affacciò sulla scena politica quando gli
Stati Uniti stavano avviandosi a diventare un paese di colletti bianchi, con
cambiamenti nella struttura occupazionale e correlati tassi di mobilità che i
comparabili paesi europei conobbero molto più tardi93. Nel primo decennio
del Novecento, negli Stati Uniti la forza-lavoro impiegata nel settore dei
servizi (il 35,3% della forza-lavoro nazionale nel 1910) superò quella impiegata nel settore industriale (31,6%). Si trattava, allora, di una situazione
senza riscontro; in Gran Bretagna il sorpasso avvenne negli anni venti, in
Germania all’inizio degli anni sessanta. In una società dominata da un terziario in espansione, i lavoratori industriali costituivano un elemento non
solo meno centrale e determinante di quanto accadesse altrove, ma anche
destinato a esserlo sempre di meno. E i socialisti americani lo sapevano benissimo. In una società di quel tipo, l’alleanza fra il mondo del lavoro e i ceti
medi diventava fondamentale ai loro occhi; quando avvenne, tuttavia, non
avvenne sotto l’ombrello di una ideologia o di un partito socialista. Nel
1928, Selig Perlman descrisse questo mancato incontro rovesciando le celebri argomentazioni sul rapporto fra proletariato e intellighentsia proposte
da Lenin nel pamphlet Che fare? (1902). Perlman, che era un immigrato
russo che aveva visto giovanissimo la rivoluzione del 1905, accettò il princi178
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
pio leniniano che la classe operaia, lasciata a se stessa, fosse capace di esprimere solo una coscienza economicista, mentre una coscienza politica di classe
doveva essere portata dall’esterno da intellettuali borghesi. E concluse, come
prima di lui avevano concluso Gompers e John Commons (che Perlman
aveva avuto come professore e maestro alla University of Wisconsin a
Madison) che il movimento operaio americano era felicemente scampato a
questo «flagello», riuscendo a mantenere la propria naturale e non-politica
job consciousness. La questione, tuttavia, non poteva più essere ridotta al
paradigma ottocentesco del rapporto fra l’intellettuale di sinistra alienato
dalla propria classe e l’operaio in rivolta; riguardava piuttosto le relazioni
dinamiche fra formazioni sociali moderne94.
Dall’inizio del Novecento, l’intellighentsia americana era parte di una
forza-lavoro istruita e in rapida crescita. Non comprendeva né quel proletariato intellettuale che ebbe un ruolo radicalizzante nella politica di sinistra
(e di destra) di molti paesi europei, né settori significativi di intellettuali
upper-class, indipendenti e aristocratici. I membri di questa nuova middle
class in ascesa e sicura di sé derivavano risorse economiche, status e prospettive sociali non dall’esercizio di una libera professione ma dal lavoro in organizzazioni specializzate e di grandi dimensioni (amministrazione pubblica,
imprese private, scuola, università, mezzi di comunicazione di massa, agenzie di pubblicità e di pubbliche relazioni). Essi condividevano una cultura
della professionalità che si autodefiniva cosmopolita, e quindi slegata dai
valori comunitari e localistici old-fashioned, e come scientifica, dedita alla
individuazione e alla soluzione dei singoli problemi, e quindi antitetica sia
alle pratiche compromissorie della politica di partito e della democrazia rappresentativa, sia alla critica radicale e socialista. Si riconobbero nelle prospettive di scienziati sociali che concepivano la nuova società come una
meritocrazia, ordinata secondo livelli di competenza e di expertise. In quanto esperti, si considerarono e si proposero come riformatori sociali e politici,
capaci di uscire dalla crisi culturale e politica di fine secolo e di ricostruire
un nazionalismo liberale aggressivo e progettuale95. Alcuni di loro indulsero
in flirt con il socialismo. Parecchi collaborarono con i dirigenti sindacali nel
gettare le fondamenta dello stato sociale. Nella stragrande maggioranza, tuttavia, non videro nel socialismo né uno strumento intellettuale né un sostegno organizzativo per le loro imprese riformatrici. La crescita economica, i
rapidi cambiamenti istituzionali e le auto-riforme dei grandi partiti dell’età
progressista, aprivano spazi politici e fornivano loro risorse sufficienti all’efficace esercizio di talenti e ambizioni. Furono semmai i socialisti riformisti a
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seguire con interesse il loro lavoro, e a considerare il socialismo nient’altro
che «lo sbocco logico del progressismo»96. Così questi intellettuali middleclass «rubarono il programma» del Socialist Party; nel frattempo, contribuirono a ridisegnare il ruolo e la struttura dei grandi partiti di massa, lavorandovi dall’interno, premendo dall’esterno.
Molti riformatori agirono tramite i partiti esistenti. Parteciparono alla
ribellione repubblicano-progressista e nel 1912 formarono la leadership del
Progressive Party di Theodore Roosevelt; parteciparono alla ribellione liberalmetropolitana fra i democratici del Nord e approdarono nell’amministrazione di Woodrow Wilson, eccitati sia dai suoi programmi sociali che, più
tardi, dalle opportunità offerte dalla guerra. Fu il partito democratico
wilsoniano (poi rooseveltiano e newdealista), e non quello socialista, a divenire luogo di incontro fra ceto medio e movimento operaio organizzato97.
Ma i riformatori del ceto medio intellettuale, in fondo, non amavano i partiti di massa. Criticarono l’invadenza degli apparati partitici, l’incapacità e la
corruzione dei politici di professione; denunciarono il ritualismo e l’irrazionalità delle fedeltà di massa ai «partiti-chiesa», l’arcaicità di organizzazioni
politiche legate a valori localistici e a interessi clientelari, la loro indifferenza
ai bisogni di una moderna ed efficiente società nazionale. Esaltarono il voto
indipendente dalle fedeltà di partito, l’attività politica tramite strutture
organizzative più flessibili come club e leghe, la democrazia diretta di tipo
referendario. Si impegnarono con successo in battaglie per introdurre riforme locali e statali (scheda di stato, elezioni primarie dirette, riforma dei
governi municipali e della pubblica amministrazione) che riducessero le
risorse dei partiti maggiori e la loro influenza sulla scelta dei candidati e sul
comportamento degli elettori, e che, collateralmente, impedissero la rappresentanza politica dei partiti minori. Si batterono per rafforzare gli organi
personalizzati, carismatici e a elezione diretta del potere esecutivo (presidente, governatore, sindaco) a discapito dei corpi della democrazia rappresentativa
dominati dai partiti. Si batterono contro «la perversione del governo di partito»; proposero, nelle parole di John Commons, di rendere «l’amministrazione più importante della legislazione». Teorizzarono e favorirono la transizione dallo «stato dei tribunali e dei partiti» a un nuovo stato amministrativo più aperto alle pressioni dei gruppi di interesse organizzati e meno sensibile alla politica elettorale, a un nuovo regime politico fortemente caratterizzato in senso plebiscitario e presidenzialista98.
Queste critiche, queste riforme proposte e attuate si fondavano su solide basi materiali. I partiti di massa avevano effettive difficoltà a dare rappresen180
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
tanza a una società in rapida trasformazione rispetto a quella che li aveva
generati. L’incapacità di affrontare il compito di governare l’economia nazionale del big business e delle grandi corporations multinazionali, che si formò fra la depressione degli anni novanta e la prima guerra mondiale, era
probabilmente il problema principale. Inoltre nuove forme di stratificazione
sociale, l’impatto del mercato di consumo di massa, l’emergere di conflitti
di razza e di genere sessuale, portarono nell’arena politica nuovi soggetti
collettivi. Movimenti single-issue e gruppi di interesse esprimevano identità
nazionali che tagliavano trasversalmente sia le appartenenze comunitarie che
le fedeltà di partito, e inventarono tecniche di partecipazione (per esempio,
la democrazia diretta) che con quelle appartenenze e fedeltà erano incompatibili. Facevano affidamento sui giornali indipendenti e commerciali a grande tiratura, che avevano sostituito i partiti e la loro stampa, diffusissima del
secolo precedente, come strumenti di comunicazione politica. «Il potere di
plasmare l’opinione pubblica è passato dalle mani del dirigente di partito a
quelle del direttore di giornale», scrisse un osservatore nel 1915; «stiamo
distruggendo gli apparati di partito e lasciando campo libero alla stampa»99.
La scomparsa della party press fu solo uno dei segnali della crisi delle agenzie di
trasmissione della cultura di partito; in una società metropolitana dominata
dai mass media (alla carta stampata si stavano sommando il cinema e, dopo la
guerra, la radio) anche la famiglia, la comunità e la chiesa sembrarono essere
indebolite, sostituite da culture professionali, giovanili, consumistiche che erano
culture di pari senza memoria storica. La crisi dei partiti era dunque reale; e
tuttavia l’assalto generalizzato alle loro prerogative istituzionali, e ormai quasicostituzionali, rispecchiava anche un tentativo di distruggere il loro radicamento
nelle classi popolari, la capacità di incorporarne, sia pure parzialmente, le domande politiche. Si trattava di constituencies e di domande che i riformatori
percepivano come ostili e marginali alle trasformazioni in atto nel paese: un
peso di cui l’America razionale, efficiente e middle-class che essi volevano plasmare avrebbe dovuto liberarsi.
L’effetto cumulativo dei queste trasformazioni fu un indebolimento non
dei partiti in quanto tali, ma della forma di massa che essi avevano assunto
nell’Ottocento. I nuovi partiti riformati che emersero nel primo dopoguerra non erano meno ideologicamente orientati dei vecchi; dimostrarono fra
l’altro considerevoli capacità progettuali (basti pensare, nell’immediato futuro, alla politica del partito democratico). Rispondevano tuttavia a uno
spettro più limitato di interessi e avevano una organizzazione insieme meno
pesante e più gerarchizzata e verticistica. Derivavano inoltre la loro
181
CAPITOLO
4
legittimazione più dall’intreccio con la politica statuale e dal riconoscimento legale che non dal loro radicamento sociale e dalla capacità di mobilitare
tutte le fascie dell’elettorato. Fra l’altro, molte riforme concepite per contenere o distruggere la cosiddetta «supremazia di partito» finirono per rafforzare il ruolo istituzionale dei due principali partiti esistenti, per imporre
d’autorità il bipartitismo, per intralciare la nascita di possibili alternative100.
Il nuovo regime politico nel quale questi partiti agivano, e di cui erano parte
costituente, premiava le attività di élite dei gruppi organizzati della democrazia «pluralista», e penalizzava esplicitamente la partecipazione di massa, politica ed elettorale, della democrazia dei partiti. Il suo aspetto più drammatico fu
infatti una drastica contrazione dell’universo elettorale secondo discriminanti
di classe. Dagli anni venti, metà dei potenziali elettori non votava neanche alle
elezioni presidenziali, le più importanti e partecipate. Si era creato un vero e
proprio «buco nell’elettorato», che aveva ingoiato soprattutto gli strati della
popolazione meno ricchi e istruiti. Esattamente nel momento in cui i lavoratori di molti paesi europei stavano raggiungendo la piena cittadinanza politica, e in qualche caso diventando contendenti organizzati alla gestione dei governi nazionali, le lower classes americane, gli immigrati e il proletariato metropolitano del Nord così come i neri e i bianchi poveri del Sud, stavano abbandonando l’uso attivo del voto101. Fu questa perdita di fatto dei diritti elettorali
che, secondo i sociologi radicali Frances Piven e Richard Cloward, potrebbe
aiutare a spiegare perché non si sia sviluppato nel paese un partito a base
operaia analogo a quelli contemporanei europei.
«Sosteniamo», hanno scritto Piven e Cloward, «che i cambiamenti elettorali che si verificarono intorno al volgere del secolo spiegano almeno parzialmente la direzione dello sviluppo politico americano. L’espulsione dal
mercato elettorale di larghi settori della classe operaia impedì l’emergere di
un partito politico che avrebbe potuto stimolare una maggiore coscienza di
classe fra i lavoratori americani dando voce ai loro interessi di classe»102.
Questa affermazione mi sembra troppo categorica, e d’altronde può essere
efficacemente rovesciata. L’uscita dei ceti popolari dall’universo elettorale
può essere interpretata come uno degli effetti della debolezza degli stimoli
organizzativi necessari alla loro mobilitazione, ovvero della inesistenza di un
partito che ne rappresentasse in maniera organica e dichiarata gli interessi103.
L’esperienza del partito democratico del New Deal che, con la sua politica
di tipo socialdemocratico, riuscì a riattivare elettoralmente alcuni settori di
classe operaia organizzata e a far lievitare per qualche tempo i livelli di affluenza alle urne, sembra confermarlo. Il quadro dunque è più complesso;
182
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
nel regime politico-sociale che si andava delineando, proprio la costruzione
di un nuovo partito costituiva obiettivamente la difficoltà centrale per i socialisti e non solo per loro. Il mancato decollo di un partito socialista negli
Stati Uniti va collocata nel contesto del declino generale dei partiti di massa
nella vita pubblica del paese, di cui la crisi di partecipazione era certamente
un aspetto importante. Tale declino rendeva più difficile che nel secolo precedente l’organizzazione in forma-partito di qualunque espressione di radical
politics. Ciò non riguardò, in verità, solo le organizzazioni radicali o socialiste, ma qualunque nuovo partito. I terzi partiti dell’Ottocento, per quanto
fossero anch’essi penalizzati dal sistema elettorale, erano «veri partiti politici», con congressi, apparati, funzionari locali, candidati eletti ai vari livelli di
governo, programmi articolati, vite relativamente lunghe, seguaci fedeli; il
Socialist Party of America, negli anni della sua ascesa, ne fu per molti versi
l’ultimo esempio. I terzi partiti del Novecento, al contrario, sono stati «poco
più che candidature di singoli individui», basati sulla forte personalità dei
fondatori e incapaci di sopravvivere a essi, con effetti mobilitanti tenui e
limitati nel tempo104.
7. Il futuro come presente di altri
Le trasformazioni della società e della politica americana fra fine Ottocento e inizio Novecento ebbero dunque un impatto radicale sui partiti e
sul sistema dei partiti del paese: ma quanto diverso dai contemporanei cambiamenti europei. Negli Stati Uniti queste trasformazioni non favorirono la
nascita dei moderni partiti di massa, ma il loro declino. Non crearono un
nuovo elettorato di massa, ma il suo opposto. Non provocarono tanto un
riallineamento partitico delle preferenze degli elettori quanto una espulsione di larghi settori di cittadini dall’universo elettorale. Non generarono un
nuovo partito (socialista, di classe), ma una sua metafora, il partito del nonvoto. In questo contesto, sembrano veramente marginali le discussioni di
coloro che hanno voluto imputare il «fallimento» del socialismo, il suo fallimento a insediarsi in maniera permanente e organizzata nella vita pubblica
americana, a errori o limiti soggettivi dei dirigenti. La lista delle loro «insufficienze» politiche e teoriche comprende i pregiudizi razziali, nativisti e da
aristocrazia operaia del loro approccio ai problemi della classe operaia. Comprende, secondo alcuni, la presunta rigidità e il settarismo di ideologhi che
cercavano (nelle parole di Weber) la salvezza dell’anima nel luogo sbagliato,
cioè nella politica; ovvero la difficoltà di fare i conti con la democrazia.
Comprende, secondo altri, l’esatto contrario di tutto ciò, e cioè l’approssi183
CAPITOLO
4
mazione ideologica, il pragmatismo senza principi e il blando, innocuo
rifomismo del «socialismo delle fognature», ovvero la troppa fiducia nella
democrazia e i troppi compromessi con la politica elettorale. Qualunque sia
il merito di queste accuse, esse potrebbero essere estese, e di fatto sono state
estese (da critici «borghesi», da «compagni» impegnati in feroci scontri fra
fazioni o organizzazioni, da storici che hanno continuato a combattere quegli scontri anche quando i protagonisti erano tutti morti) ai movimenti socialisti di tutto il mondo. Credo che il vero problema sia un altro, e cioè che
l’intera cultura politica dei socialisti della Seconda internazionale fosse finalizzata ad affrontare dinamiche sociali e politiche che non trovavano riscontro negli Stati Uniti loro contemporanei. I socialisti si illusero che prima o
poi l’America si sarebe adeguata alla loro politica, si illusero di essere in
anticipo sui tempi americani. In realtà erano fuori tempo.
C’è un caso che illustra in maniera limpida questa affermazione, ed è il
caso del rapporto dei socialisti con la politica delle donne. Il Socialist Party
of America sembrava avere le carte in regola per trarre vantaggio dalla straordinaria mobilitazione femminile di massa che sconvolse la società americana
fra Ottocento e inizio Novecento, e di cui ho parlato nel terzo capitolo di
questo volume. Appoggiò infatti pubblicamente il suffragio femminile fin
dalla sua fondazione nel 1901, e, nei primi anni del nuovo secolo, fu in
pratica l’unico partito del paese a consentire la partecipazione paritaria delle
donne alle sue attività. Le militanti socialiste americane erano attive e numerose; erano in effetti relativamente più numerose delle loro controparti
europee. Costituivano una percentuale sul totale degli iscritti al partito (1520%) che era paragonabile solo a quella della socialdemocrazia tedesca105.
La loro forza specifica, tuttavia, era il prodotto di sviluppi sociali di lungo
periodo che, lungi dal rafforzare il partito socialista, finirono per confermarne la debolezza anche su questo fronte. Le donne socialiste traevano
vigore organizzativo e suggestioni teoriche da tradizioni che erano state costruite da forti movimenti di massa indipendenti, che si erano formati prima che si cristallizzasse un moderno discorso politico di tipo socialista. Nella società capitalistica e democratica degli Stati Uniti ottocenteschi, quei
movimenti nacquero e maturarono prima che nei vari paesi europei, con la
possibile, parziale eccezione della Gran Bretagna. I loro tentativi di promuovere l’emancipazione politica delle donne stabilendo dei patti di alleanza con i radicali (uomini) furono ripetutamente respinti. All’indomani della
guerra civile, furono gli abolizionisti repubblicani, con i quali i primi gruppi
di suffragiste avevano condotto tante comuni battaglie, a decidere di esten184
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
dere il diritto di voto ai soli uomini neri, a spese degli analoghi diritti delle
donne. Nel 1892 furono gli esponenti del partito populista a rifiutare, dopo
animati confronti e lunghe discussioni, ogni appoggio alle richieste di un
movimento suffragista ormai maturo e di massa. Quando i socialisti arrivarono sulla scena politica, le donne avevano alle spalle una storia collettiva
fatta di istituzioni separate, e di riluttanza ad affidarsi a partiti o organizzazioni «generali», cioè a predominio maschile, radicali o no che fossero.
C’era inoltre un problema di incompatibilità teorico-politica. In contrasto con l’analisi di classe della questione femminile proposta dalla Seconda internazionale, le attiviste dei movimenti americani avevano elaborato
una visione del proprio ruolo e dei propri diritti che faceva appello o ai
principi liberali dell’eguaglianza degli individui (non sessuati) o a una concezione della differenza di genere basata su una specifica missione delle donne, su loro specifiche qualità. Un certo numero di queste militanti aderì in
effetti al socialismo, e alcune ne misero in discussione il «riduzionismo
classista», fondando un approccio che puntava sulla integrazione delle categorie di sesso e classe. Cercarono di introdurre nel discorso socialista il problema della subordinazione sessuale legata alla struttura patriarcale della famiglia, e quindi della lotta per distruggere il «dispotismo maschile»; una
lotta, dissero, che doveva procedere di pari passo con lo sviluppo della lotta
di classe, ma il cui risultato non dipendeva di per sé dalla soluzione della
questione sociale. Socialismo e femminismo dovevano integrarsi, l’uno aveva bisogno dell’altro. Le socialiste femministe non riuscirono tuttavia a coinvolgere il partito nel suo complesso, che rimase affezionato al primato dell’analisi di classe e che considerò ogni altro contributo un lusso o una distrazione. Il partito, inoltre, sia al livello della leadership che della base, rimase
ancorato a un mondo di cittadinanza maschile e di atteggiamenti tradizionali nei confronti della famiglia e dei ruoli sessuali al suo interno (ecco un
altro possibile errore o limite soggettivo dei socialisti: erano «maschilisti»).
Alcuni socialisti guardarono con sospetto addirittura al suffragio femminile,
temendo che, influenzato per esempio dalla chiesa, potesse indebolire la
loro causa e rafforzare i partiti conservatori. In alcuni aree, referendum statali per l’estensione del diritto di voto alle donne furono sconfitti proprio là
dove l’elettorato socialista era più forte. Alla fine, la gran massa delle donne
che era stata toccata dai movimenti andò per la propria strada, in varie direzioni ma non in quella socialista. Come ha osservato la storica Mary Jo
Buhle, «il socialismo incontrò il movimento delle donne in America non
troppo presto, ma troppo tardi»106.
185
CAPITOLO
4
Più in generale, gli strumenti intellettuali e organizzativi che il movimento socialista internazionale aveva elaborato e affinato presupponevano l’esistenza di una classe operaia in crescita, unita o unificabile, dotata di una
cultura autonoma plasmata dai rapporti di produzione e da un sistema politico che tendeva a escluderla; una classe organizzata economicamente da sindacati antagonisti al capitalismo e politicamente da un partito organizzato di
massa. Il partito, in un ambiente politico maschile in via di democratizzazione,
doveva essere strumento di interpretazione della realtà, di comunicazione ed
educazione, di direzione politica e di costruzione di alleanze sociali intorno
alla «centralità» operaia. I socialisti americani dell’inizio del Novecento trovarono invece una classe che era divisa internamente da tensioni etniche, razziali
e di genere sessuale rafforzate a loro volta dalla segmentazione del mercato del
lavoro. Trovarono una classe le cui culture (al plurale) erano intrecciate alla, e
diluite dalla, cultura di massa; le cui reti di comunicazione erano sempre più
fornite dal mercato dei mass media commerciali; i cui sindacati si comportavano come un gruppo di pressione fra tanti. Gli operai industriali costituivano una quota decrescente della forza-lavoro nazionale, e avevano una influenza politica ridotta in una società con un ceto medio in vistosa espansione. Il
suffragio universale maschile da quasi un secolo aveva socializzato i lavoratori
a una democrazia politica che essi percepivano come non ostile, e li aveva
integrati in partiti organizzati di massa secondo fratture non di classe. A causa
dell’attivismo delle donne, dell’emergere di questioni legate alle divisioni di
genere, del movimento per il suffragio femminile e dei suoi successi, l’universo politico non era più limitato a una cittadinanza esclusivamente maschile. I
socialisti americani avevano, bisogna pure ammetterlo, un compito difficile.
Avevano un compito impossibile, se si tiene conto del fatto che lo strumento
organizzativo del partito (intorno al quale lavorarono con tanta alacrità), la
democrazia dei partiti (sulla quale facevano tanto affidamento) e la mobilitazione politica ed elettorale delle masse popolari (così centrale alla loro stessa
ragion d’essere) erano negli Stati Uniti in una profonda crisi di efficacia e
legittimità.
Questi sviluppi, valutati in una prospettiva comparata sincronica, erano indubbiamente specifici del caso americano. Da un punto di vista
diacronico, tuttavia, non appaiono affatto eccezionali (e cioè intimamente
connessi a una natura diversa della società del Nuovo mondo) agli osservatori delle tendenze secolari nelle democrazie capitalistiche. Essi sono operanti in molti paesi europei di oggi, e sono alla radice delle difficoltà che vi
stanno incontrando le tradizionali strategie socialiste. Socialdemocratici, la186
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
buristi, socialisti, comunisti occidentali hanno visto messe in discussione le
loro strutture organizzative, i loro programmi, la fedeltà delle loro
constituencies popolari, mentre nuove cause radicali hanno trovato espressione in movimenti autonomi, estranei al loro orizzonte politico. Come negli
Stati Uniti di inizio secolo, la crisi specifica dei partiti di tipo socialista è
parte di una generale trasformazione di tutti i partiti di massa (che sempre
di più sembrano assumere i caratteri «americani» di partiti elettorali
«pigliatutto»), delle forme della partecipazione politica (compresi inquietanti segnali «americani» di disaffezione elettorale), e delle forme stesse della
democrazia (segnata da redistribuzioni di potere di tipo oligarchico e attraversata da sentimenti «americani» populisti, anti-partito, anti-politici e
plebiscitari)107. Se i socialisti negli Stati Uniti fallirono perché «furono i primi ad affrontare il dilemma di definire una politica socialista in una democrazia capitalista»108, i socialisti in Europa sembrano oggi chiamati a dimostrare se, come secondi arrivati, abbiano imparato qualcosa nel secolo trascorso, o se magari non ci sia niente da imparare che possa salvarli da un
destino «americano» di estinzione. Credo che questa sia una questione ancora aperta, anche perché, ovviamente, non è vero che l’America sia di necessità il futuro dell’Europa. Le profezie non sono mai vere, ammenoché
non si tratti di profezie che si auto-avverano, come potrebbe accadere in
questo caso per pigrizia e colonizzazione culturale. Accade spesso ai late
comers, ha scritto Claudio Pavone in una pagina del suo libro sulla Resistenza italiana, che essi vedano il proprio «futuro come presente di altri», magari
per ansia di portarsi al livello dei paesi percepiti come avanzati, la cui immagine viene ottimisticamente (e, aggiungerei, convenientemente) semplificata: tutto ciò non può fare altro che frenare «la progettazione del futuro come
radicale innovazione»109.
187
CAPITOLO
4
1. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo [1984], Milano, Garzanti,
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and Development of Marxian Socialism in the United States, in D.D. Egbert, S. Persons (a cura
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18. Era lo scontro, scrisse Hartz, fra due assolutismi, fra l’America, «il bizzarro paese del
liberalismo», e «la natura totalitaria del socialismo russo». Il discorso era chiuso,
l’incomunicabilità dell’America col mondo certificata: «Un popolo “nato libero” può mai
capire i popoli stranieri che devono conquistare la libertà? Può capire se stesso?». Vedi L.
Hartz, La tradizione liberale in America, cit., pp. 286- 287.
19. S.M. Lipset, Exceptionalism: The Persistence of an American Ideology, New York, Norton,
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20. S.M. Lipset, American Exceptionalism Reaffirmed, cit., p. 45. Secondo lo scienziato politico Theodore J. Lowi, il recupero delle forti discriminanti ideologiche e della forza dell’ideo-
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4
logia organizzata nell’ultimo quindicennio ha portato invece a una «europeizzazione della
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Oklahoma Press, 1995, pp. 232-233.
21. N. Bobbio, Cominciare dal metodo, in G. Bosetti (a cura di), Il legno storto, Venezia,
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Wilentz, Against Exceptionalism: Class Consciousness and the American Labor Movement, 17901920, in «International Labor and Working Class History», XXVI, autunno 1984; J. Appleby,
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LXXIX, settembre 1992, p. 420.
23. J. Higham, The Future of American History, in «Journal of American History», LXXX,
marzo 1994; I. Tyrrell, American Exceptionalism in an Age of International History, in «American
Historical Review», XCVI, ottobre 1991; D. Thelen, Of Audiences, Borderlands, and
Comparisons: Toward the Internationalization of American History, in «Journal of American
History», LXXIX, settembre 1992 (l’intero fascicolo ha come titolo Internationalizing the
JAH: An Inaugural Issue).
24. R. Grew, The Comparative Weakness of American History, in «Journal of Interdisciplinary
History», XVI, estate 1985, pp. 99-100; G.M. Frederickson, Giving a Comparative Dimension
to American History: Problems and Opportunity, in «Journal of Interdisciplinary History»,
XVI, estate 1985, pp. 107-110.
25. C.V. Woodward, America immaginata [1991], Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 21; E. Foner,
Why Is there no Socialism in the United States?, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di), Pourquoi n’y at-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit., p. 64; A.R. Zolberg, How Many Exceptionalisms?, in I.
Katznelson, A.R. Zolberg (a cura di), Working-Class Formation: Nineteenth-Century Patterns in
Western Europe and the United States, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 455.
26. Dopo la travolgente vittoria repubblicana alle elezioni congressuali del novembre 1994,
il nuovo Speaker della Camera dei Rappresentanti, Newton Gingrich, chiamò gli americani
a «riaffermare l’eccezionalismo americano». Vedi M. Lind, The Next American Nation: The
New Nationalism and the Fourth American Revolution, New York, Free Press, 1995, p. 3.
27. R. Gray, The Deconstruction of the English Working Class, in «Social History», XI, ottobre
1986, p. 373; J.E. Cronin, Neither Exceptional nor Peculiar: Towards the Comparative Study of
Labor in Advanced Societies, in «International Review of Social History», XXXVIII, aprile 1993.
28. T. Bonazzi, Un’analisi della «American Promise», cit. pp. 60-61.
29. D. Ross, Historical Consciousness in Nineteenth-Century America, in «American Historical
Review», LXXXIX, ottobre 1984; D. Ross, The Liberal Tradition Revisited and the Republican
Tradition Addressed, in J. Higham, P.K. Conkin (a cura di), New Directions in American
Intellectual History, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1979; D. Ross, The Origins
of American Social Science, New York, Cambridge University Press, 1991; S. Bercovitch, The
American Jeremiad, cit.; J.GA. Pocock, The Machiavellian Moment: Florentine Political Thought
and the Atlantic Republican Tradition, Princeton, Princeton University Press, 1975.
30. W. Whitman, Democratic Vistas [1871], in M. Van Doren (a cura di), The Portable Walt
Whitman, ed. riv. da M. Cowley, New York, Penguin Books, 1977, pp. 338, 369; E. Renan,
Che cos’è una nazione? [1882], a cura di S. Lanaro, Roma, Donzelli, 1993, p. 7.
190
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31. J. Kocka, German History before Hitler: The Debate about the German Sonderweg, in
«Journal of Contemporary History», XXIII, gennaio 1988; J. Caplan, Myths, Models and
Missing Revolutions: Comments on the Debate in Germany History, in «Radical History Review»,
34, 1986; G. Eley, Alla ricerca della rivoluzione borghese. Le particolarità della storia tedesca, in
«Passato e presente», 16, gennaio-aprile 1988; D. Blackburn, G. Eley, The Peculiarities of
German History: Bourgeois Society and Politics in Nineteenth-Century Germany, Oxford, Oxford
University Press, 1984.
32. N. Gallerano, La repubblica degli apoti, in «L’indice», novembre 1992, p. 43; M. Donovan,
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Politics», XVII, ottobre 1994, pp. 193-201.
33. M. Eve, Dentro l’Inghilterra. Ragioni e miti di un’identità, Venezia, Marsilio, 1990.
34. D. Bell, The «Hegelian Secret». Civil Society and American Exceptionalism, in B.E. Shafer
(a cura di), Is America Different?, cit., p. 47. I riferimenti al dibattito giapponese sono in
Murakami Yasusuke, «Ie» Society as a Pattern of Civilization, in «Journal of Japanese Studies»,
X, estate 1984; Symposium on «Ie» Society, in «Journal of Japanese Studies», XI, inverno
1984; Murakami Yasusuke, «Ie» Society as a Pattern of Civilization. Response to Criticism, in
«Journal of Japanese Studies», XI, estate 1985.
35. T. Bonazzi, Un’analisi della «American Promise», cit., p. 101.
36. H. Croly, The Promise of American Life [1909], New York, Dutton, 1963, pp. 2-3; E.
Renan, Che cos’è una nazione?, cit., p. 20.
37. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origins and Spread of Nationalism,
Londra, Verso, 1991; E. Gellner, Nazioni e nazionalismo [1983], Roma, Editori riuniti, 1992;
E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà [1991], Torino,
Einaudi, 1991; E.J. Hobsbawm, Tradizioni e genesi dell’identità di massa in Europa, 18701914, in E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione [1983], Torino,
Einaudi, 1987.
38. D.B. Davis, D.H. Donald, Espansione e conflitto. Gli Stati Uniti dal 1820 al 1877 [1985],
Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 352-353.
39. S. Bercovitch, The Rites of Assent: Transformations in the Symbolic Construction of America,
New York, Routledge, 1993, p. 29; S. Bercovitch, The American Jeremiad, cit., p. 11. Vedi
anche S. Bercovitch, The Rites of Assent: Rhetoric, Ritual, and the Ideology of American Consensus,
in S.B. Girgus (a cura di), The American Self: Mith, Ideology and Popular Culture, Albuquerque,
University of New Mexico Press, 1981.
40. F. Furet, Critica della rivoluzione francese [1978], Bari Laterza, 1987, p. 14; M. Walzer,
Esodo e rivoluzione, cit.
41. D. Ross, The Origins of American Social Science, cit., p. 51.
42. E.L. Godkin, The Labor Crisis, in «North American Review», CX, luglio 1867, pp. 177179, cit. in E. Foner, Why Is there no Socialism in the United States?, in «History Workshop»,
17, primavera 1984, p. 58. Sulla messa in discussione del suffragio universale negli Stati
Uniti di fine Ottocento, vedi il capitolo I di questo volume.
43. A. de Tocqueville, Democracy in America, cit., vol. I, pp. 368-382; W. Sombart, Perché
negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, cit., p. 117; E. Rossi, Gli Stati Uniti e la concorrenza
americana. Studi di agricoltura, industria e commercio, Firenze, Barbera, 1884, p. 104. Sulla
frontiera come «valvola di sicurezza» delle tensioni sociali erano d’accordo anche i socialisti
191
CAPITOLO
4
americani, per esempio A.M. Simons, Social Forces in American History, New York, MacMillan,
1911, p. 140; J. London, The Class Struggle [1903], in Ph.S. Foner (a cura di), Jack London:
An American Rebel, New York, Citadel Press, 1964, pp. 447-448. Vedi F.A. Shannon, A PostMorterm on the Labor-Safety-Valve Theory, in «Agricultural History», XIX, gennaio 1945;
R.A. Billington, America’s Frontier Heritage, New York, Holt Rinehart and Winston, 1966,
pp. 29-38; R.A. Billington, Land of Savagery, Land of Promise: The European Image of the
American Frontier in the Nineteenth Century, Norman, University of Oklahoma Press, 1985.
44. R. Hofstadter, The Progressive Historians, cit., p. 107; D.W. Noble, The End of American
History, cit.
45. F.J. Turner, La frontiera nella storia americana [1920], Bologna, Il Mulino, 1959, pp. 31,
218, 261; Francis Walker cit. in L. Benson, Turner and Beard: American Historical Writing
Reconsidered, New York, Free Press, 1951, p. 73; D.M. Wrobel, The End of American
Exceptionalism: Frontier Anxiety from the Old West to the New Deal, Lawrence, University
Press of Kansas, 1993.
46. Cit. in A. Testi, L’immagine degli Stati Uniti nella stampa socialista italiana, 1886-1914,
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47. J. Weinstein, The Decline of Socialism in America, 1912-1925, New York, Knopf, 1967,
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Wisconsin, 1900-1920, Venezia, Marsilio, 1980.
48. D. Hoerder, H. Keil, The American Case and German Social Democracy at the Turn of the
20th Century, 1878-1907, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di), Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme
aux États-Unis?, cit., p. 142.
49. E.R.A. Seligman, Economics and Social Progress, in «Publications of the American Economic
Association», IV, febbraio 1903, cit. in D. Ross, The Origins of American Social Science, cit.,
p. 149.
50. W. Lippmann, Drift and Mastery: An Attempt to Diagnose the Current Unrest [1914],
Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1961, p. 168.
51. H. Croly, The Promise of American Life, cit., pp. 5, 25, 21, 23; T. Roosevelt, The New
Nationalism [1910], Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1961.
52. R. Kelley, The Transatlantic Persuasion: The Liberal-Democratic Mind in the Age of Gladstone,
New York, Knopf, 1969; J.T. Kloppenberg, Uncertain Victory: Social-Democracy and
Progressivism in European and American Thought, 1870-1920, New York, Oxford University
Press, 1986; A. Testi (a cura di), L’età progressista negli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1984;
D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Torino,
Bollati Boringhieri, 1993.
53. T. Bonazzi, Frederick Jackson Turner’s Frontier Thesis and the Self-Consciousness of America, in
«Journal of American Studies», XXVII, agosto 1993; W.A. Williams, The Roots of the Modern
American Empire, New York, Random House, 1969; W.A. Williams, The Frontier Thesis and
American Foreign Policy, in W.A. Williams, History as a Way of Learning, New York, Watts,
1973; A. Aquarone, Le origini dell’imperialismo americano, Bologna, Il Mulino, 1973.
54. W. Wilson, Lo studio dell’amministrazione [1887], in «Storia amministrazione costituzione», Annale dell’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica, I, 1993, pp. 40, 41; A.
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Testi, Woodrow Wilson e lo studio della pubblica amministrazione negli Stati Uniti, ivi; S.
Skowronek, Building a New American State: The Expansion of National Administrative
Capacities, 1877-1920, New York, Cambridge University Press, 1982, p. 48; T.J. Lowi, The
State in Political Science: How We Become What We Study, in «American Political Science
Review», LXXXVI, marzo 1992, p. 2.
55. N.G. Levin, Jr., Woodrow Wilson and World Politics: America’s Response to War and Revolution,
New York, Oxford University Press, 1968, pp. 1-5; P. Berman, The Future of the American
Left, in «Dissent», inverno 1993, pp. 99-100.
56. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. I, p.
635; V. de Grazia, The Exception Proves the Rule: The American Example in the Recasting of
Social Strategies in Europe Between the Wars, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di), Pourquoi n’y at-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit.; A. Testi, L’immagine degli Stati Uniti nella stampa
socialista italiana, cit., pp. 338-339.
57. E.P. Thompson, The Making of the English Working Class [1963], Harmondsworth (U.
K.), Penguin Books, 1968, pp. 9-10; E.P. Thompson, The Poverty of Theory and Other Essays,
Londra, Merlin Press, 1978, pp. 298-299. Sulla fortuna dell’opera di Thompson negli Stati
Uniti vedi A. Dawley, E.P. Thompson and the Peculiarities of the Americans, in «Radical History
Review», 19, inverno 1978-1979. Discussioni di questi sviluppi sono in T.J.J. Lears, The
Concept of Cultural Hegemony: Problems and Possibilities, in «American Historical Review»,
XC, giugno 1985; J.P. Diggins, Comrades and Citizens: New Mythologies in American
Historiography, ivi; L. Fink, The New Labor History and the Powers of Historical Pessimism:
Consensus, Hegemony, and the Case of the Knights of Labor, in «Journal of American History»,
LXXV, giugno 1988.
58. E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, cit., p. 216; E.P. Thompson,
L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in E.P. Thompson, Società patrizia,
cultura plebea, Torino, Einaudi, 1981.
59. C. Clark, Politics, Language, and Class, in «Radical History Review», 34, gennaio 1986;
R. Gray, The Deconstruction of the English Working Class, cit.; J.W. Scott, On Language, Gender,
and Working Class History, in «International Labor and Working Class History», 32, autunno
1987; S. Wilentz, Chants Democratic: New York City and the Rise of the American Working
Class, 1788-1850, New York, Oxford University Press, 1984; G.S. Jones, The Languages of
Class: Studies in English Working Class History, 1832-1982, Cambridge (U.K.), Cambridge
University Press, 1983; W.H. Sewell, Jr., Work and Revolution in France: The Language of
Labor from the Old Regime to 1848, Cambridge (U.K.), Cambridge University Press, 1980.
60. G. Arrighi, T.H. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic Movements, cit., pp. 24-25; F.
Lenger, Beyond Exceptionalism: Notes on the Artisanal Phase of the Labour Movement in France,
England, Germany and the United States, in «International Review of Social History», XXXVI,
aprile 1991; B.H. Moss, Republican Socialism and the Making of the Working Class in Britain,
France, and the United States: A Critique of Thompsonian Culturalism, in «Comparative Studies
in Society and History», XXXV, aprile 1993.
61. Vedi A.A. Zolberg, How Many Exceptionalisms?, cit., p. 405, che critica la tipologia proposta da S.M. Lipset, Radicalism or Reformism: The Sources of Working-class Politics, in
«American Political Science Review», LXXVII, marzo 1983. Al saggio di Zolberg devono
molto i paragrafi che seguono.
62. R. McKibbin, Why was there no Marxism in Great Britain? [1984], in R. McKibbin, The
Ideologies of Class: Social Relations in Britain, 1880-1950, Oxford, Clarendon, 1990.
193
CAPITOLO
4
63. Queste parole-chiave erano state elaborate da sindacalisti e riformatori middle-class di
inizio Novecento impegnati a combattere l’influenza socialista nel movimento operaio americano; trovarono la loro formulazione più articolata e teorica negli anni venti con S. Perlman,
A Theory of the Labor Movement, New York, MacMillan, 1928, quando furono usate per
celebrare la «rispettabilità» del sindacalismo americano in un mondo sconvolto dalla rivoluzione. Con le stesse intenzioni, furono presentate vent’anni dopo come i princìpi che avrebbero dovuto adottare i sindacati non socialisti nell’Europa della guerra fredda. Vedi F. Romero,
Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo, 1944-1951, Roma, Edizioni lavoro, 1989; A. Carew,
Labour under the Marshall Plan: The Politics of Productivity and the Marketing of Management
Science, Manchester, Manchester University Press, 1987.
64. Al congresso nazionale della AFL del 1912, per esempio, il candidato socialista che si
battè contro Gompers per la carica di presidente ottenne un terzo dei voti dei delegati; un
altro socialista ottenne due quinti dei voti per la carica di vice-presidente. Vedi J. Weinstein,
The Decline of Socialism in America, cit., pp. 36-37; I. Kipnis, The American Socialist Movement,
1897-1912, New York, Columbia University Press, 1952, pp. 344-345; J. Weinstein, Storia
della sinistra in America [1975], Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 29-52; J.H.M. Laslett, Labor
and the Left: A Study of Socialist and Radical Influences in the American Labor Movement,
1881-1924, New York, Basic Books, 1970.
65. W.E. Forbath, Law and the Shaping of the American Labor Movement, Cambridge, Harvard
University Press, 1991.
66. D. Montgomery, Rapporti di classe nell’America del primo 900 [1979], Torino, Rosenberg
& Sellier, 1980; D. Montgomery, The Fall of the House of Labor: The Workplace, the State and
American Labor Activism, 1865-1920, New York, Cambridge University Press, 1987. Un’articolata difesa dei principi del volontarismo è in S. Gompers, Settant’anni della mia vita
[1925], a cura di P. Bairati, Milano, Feltrinelli, 1979.
67. A. Testi, Il socialismo americano nell’età progressista, cit.
68. T.J. Lowi, Why Is there no Socialism in the United States? A Federal Analysis, in J. Heffer, J.
Rovet (a cura di), Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit.; W.R. Brock,
Investigation and Responsability: Public Responsability in the United States, 1865-1900,
Cambridge (U.K.), Cambridge University Press, 1984; W. Graebner, Il federalismo nell’età
progressista. Una interpretazione strutturale della riforma, in A. Testi (a cura di), L’età progressista
negli Stati Uniti, cit.
69. D. Montgomery, Beyond Equality: Labor and the Radical Republicans, 1862-1872, New
York, Knopf, 1967, pp. 195-196; H. Gutman, Lavoro, cultura e società in America nel secolo
dell’industrializzazione, 1815-1919 [1976], a cura di B. Cartosio, Bari, De Donato, 1979,
pp. 163-164; A. Dawley, Class and Community: The Industrial Revolution in Lynn, Cambridge,
Harvard University Press, 1976; A. Dawley, P. Faler, Working-Class Culture and Politics in the
Industrial Revolution: Sources of Loyalism and Rebellion, in «Journal of Social History», IX,
estate 1976; G. Friedman, Worker Militancy and Its Consequences: Political Responses to Labor
Unrest in the United States, 1877-1914, in «International Labor and Working-Class History»,
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70. K. Voss, The Making of American Exceptionalism: The Knights of Labor and Class Formation
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Essays on Labor, Community, and American Society, Urbana, University of Illinois Press, 1983.
71. I. Katznelson, Working-Class Formation: Constructing Cases and Comparisons, in I.
Katznelson, A.R. Zolberg (a cura di), Working-Class Formation, cit., pp. 22-29.
72. A.A. Zolberg, How Many Exceptionalisms?, cit., p. 401. Un esempio di approccio comparativo microanalitico, su una questione diversa ma correlata, e cioè la politica di fabbrica, è quello
proposto da Jeffrey Haydu per Conventry, in Inghilterra, e Bridgeport, nel Connecticut, per il
periodo 1890-1920. Vedi J. Haydu, Bewteen Craft and Class: Skilled Workers and Factory Politics
in the United States and Britain, 1890-1922, Berkeley, University of California Press, 1988.
73. D. Montgomery, Citizen Worker: The Experience of Workers in the United States with Democracy
and the Free Market during the Nineteenth Century, New York, Cambridge University Press, 1993;
J.C. Moody, A. Kessler-Harris (a cura di), Perspectives on American Labor History: The Problems of
Synthesis, DeKalb, Northern Illinois University Press, 1989; B. Laurie, Artisans into Workers: Labor
in Nineteenth-Century America, New York, Hill and Wang, 1989; D.T. Rodgers, Republicanism:
The Career of a Concept, in «Journal of American History», LXXIX, giugno 1992.
74. E. Countryman, American Liberalism and the Problem of American Socialism, in J. Heffer,
J. Rovet (a cura di), Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit. Vedi G.S. Wood,
The Radicalism of the American Revolution, New York, Knopf, 1992; J.C.D. Clark, The
Language of Liberty, 1660-1832: Political Discourse and Social Dynamics in the Anglo-American
World, Cambridge (U.K.), Cambridge University Press, 1994; E. Countryman, The American
Revolution, New York, Hill and Wang, 1985.
75. R. Darnton, Intellectual and Cultural History, in M. Kammen (a cura di),The Past Before
Us: Contemporary Historical Writing in the United States, Ithaca, Cornell University Press,
1980; J. Higham, P.K. Conkin (a cura di),New Directions in American Intellectual History,
cit.; L.W. Levine, Highbrow/Lowbrow: The Emergence of Cultural Hierarchy in America,
Cambridge, Harvard University Press, 1989.
76. J.H.M. Laslett, S.M. Lipset, Social Scientists View the Problem, cit., pp. 48-55.
77. M. Vaudagna, The New Deal and European Social Democracy in Comparative Perspective,
in J. Heffer, J. Rovet (a cura di), Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit., p.
237; M. Vaudagna, Corporativismo e New Deal. Integrazione e conflitto sociale negli Stati Uniti
(1933-1941), Torino, Rosenberg & Sellier, 1981; M. Vaudagna (a cura di), Il New Deal,
Bologna, Il Mulino, 1981.
78. Per un’analisi comparata limitata ai casi europei vedi A. Pizzorno, Il sistema pluralistico di
rappresentanza, in S. Berger (a cura di), L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale.
Pluralismo, corporativismo e la trasformazione della politica, Bologna, Il Mulino, 1983.
79. P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1985, p.147.
80. S.M. Lipset, S. Rokkan (a cura di), Party Systems and Voter Alignments, New York, Free
Press, 1967; S.M. Lipset, Radicalism or Reformism: The Sources of Working-class Politics, cit.;
S.M. Lipset, The Failure of the American Socialist Movement, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di),
Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit.; S.M. Lipset, The First New Nation:
The United States in Historical and Comparative Perspective [1963], New York, Norton, 1979;
S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti [1970], Bologna, Il Mulino, 1982.
81. S. Perlman, A Theory of the Labor Movement, cit., p. 167.
82. I. Katznelson, City Trenches: Urban Politics and the Patterning of Class in the United States,
New York, Pantheon, 1981, pp. 1-21.
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83. R. Oestreicher, Urban Working-Class Political Behavior and Theories of American Electoral
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84. D. Montgomery, Citizen Worker, cit., p. 117.
85. S. Aronowitz, False Promises: The Shaping of American Working Class Consciousness, New
York, McGraw-Hill, 1973, p.140.
86. H. Gutman, Lavoro, cultura e società, cit. pp. 27-86; J. Cumbler, Migration, Class Formation,
and Class Consciousness: The American Experience, in M. Hanagan, C. Stephenson (a cura di),
Confrontation, Class Consciousness, and the Labor Process: Studies in Proletarian Class Formation,
Westport, Greenwood, 1986.
87. A.A. Zolberg, The Roots of American Exceptionalism, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di),
Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit., p. 112; D.M. Gordon, R.C. Edwards,
M. Reich, Segmented Work, Divided Workers: The Historical Transformation of Labor in the
United States, New York, Oxford University Press, 1982.
88. G. Mink, Old Labor and New Immigrants in American Political Development: Union,
Party, and State, 1875-1920, Ithaca, Cornell University Press, 1986, p. 112.
89. Vedi per esempio E. Vezzosi, Il socialismo indifferente. Immigrati italiani e Socialist Party
negli Stati Uniti del primo Novecento, Roma, Edizioni lavoro, 1991.
90. Secondo lo storico inglese Peter Shergold, se si tiene conto delle diseguaglianze di reddito
all’interno della forza lavoro, e della minore disponibilità di risorse collettive e di reti di
sicurezza sociali, i vantaggi materiali dei lavoratori americani rispetto a quelli tedeschi o
inglesi erano molto meno pronunciati di quanto normalmente si ritenga. Vedi P.R. Shergold,
Working-Class Life: The «American Standard» in Comparative Perspective, 1899-1913,
Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1982; P.R. Shergold, «Reefs of Roast Beef»: The
American Worker’s Standard of Living in Comparative Perspective, in D. Hoerder (a cura di),
American Labor and Immigration History, 1877-1920: Recent European Research, Urbana,
University of Illinois Press, 1983. Meno pronunciata di quanto si ritenga era anche la differenza fra i tassi di mobilità americani e quelli dei paesi industrializzati europei. Vedi H.
Kaelble, Social Mobility in the 19th and 20th Centuries: Europe and America in Comparative
Perspective, New York, St. Martin’s Press, 1986. Secondo Stephan Thernstrom, un pioniere
negli studi storici sulla mobilità sociale operaia americana fra Ottocento e Novecento, intorno al volgere del secolo una moderata differenza fra Stati Uniti e paesi europei esisteva, e
aveva conseguenze significative. Ne discute in S. Thernstrom, Socialism and Social Mobility,
in J.H.M. Laslett, S.M. Lipset (a cura di), Failure of a Dream?, cit.
91. J. Bodnar, Immigration, Kinship, and the Rise of Working-Class Realism in Industrial America, in «Journal of Social History», XIV, autunno 1980; J. Bodnar, Workers’ World: Kinship,
Community, and Protest in an Industrial Society, 1900-1940, Baltimora, Johns Hopkins
University Press, 1982; E. Tyler May, The Pressure to Provide: Class, Consumerism, and Divorce
in Urban America, 1880-1920, in «Journal of Social History», XII, inverno 1978. Sullo sviluppo della società dei consumi negli Stati Uniti vedi S. Ewen, Captains of Consciousness:
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York, McGraw Hill, 1982; R.W. Fox, T.J.J. Lears (a cura di), The Culture of Consumption:
Critical Essays in American History, 1880-1980, New York, Pantheon, 1983; W.I. Susman,
Culture and Society: The Transformation of American Society in the Twentieth Century, New
York, Pantheon, 1984; S.P. Benson, Counter Cultures: Saleswomen, Managers, and Consumers
196
PERCHÉ NEGLI STATI UNITI NON C’È IL SOCIALISMO
in American Department Stores, 1890-1940, Urbana, University of Illinois Press, 1986; J.D.
Norris, Advertising and the Transformation of American Society, 1865-1920, Westport,
Greenwood, 1990.
92. H. Kaelble, Social Mobility in the 19th and 20th Centuries, cit., p. 142; C. Leinenweber,
Le basi etniche e di classe del socialismo a New York, 1904-1905, in A. Testi (a cura di), L’età
progressista negli Stati Uniti, cit.; E. Ewen, Luci della città. Le donne immigrate e la nascita del
cinema, ivi.
93. A.A. Zolberg, The Roots of American Exceptionalism, cit., p. 109; S.M. Lipset, R. Bendix
(a cura di), Social Mobility in Industrial Society, Berkeley, University of California Press, 1959.
94. S. Perlman, A Theory of the Labor Movement, cit.; S. Gompers, Settant’anni della mia vita,
cit., pp. 64, 82, 201, 10; J.R. Commons, Myself [1934], Madison, University of Wisconsin
Press, 1964, pp. 80-81; J.R. Commons, Karl Marx and Samuel Gompers, in «Political Science
Quarterly», XLI, giugno 1926; A. Sturmthal, Comments on Selig Perlman’s A Theory of the
Labor Movement, in «Industrial and Labor Relations Review», IV, luglio 1951; A. Sturmthal,
P. Buhle, The Role of Intellectuals, in J.H.M. Laslett, S.M. Lipset (a cura di), Failure of a
Dream?, cit. Come nota Sturmthal, e come Roberto Michels mostrò nel 1908, anche nell’Europa occidentale la portata, la rilevanza, il significato, e le ragioni del coinvolgimento
degli intellettuali nel movimento operaio e socialista furono oggetto di discussione, in contesti nazionali molto differenziati. Vedi R. Michels, Il proletariato e la borghesia nel movimento
socialista italiano, Torino, Bocca, 1908.
95. D. Ross, The Development of the Social Sciences, in A. Oleson, J. Voss (a cura di), The
Organization of Knowledge in Modern America, 1860-1920, Baltimora, Johns Hopkins
University Press, 1979, p. 121; D. Ross, The Origins of American Social Science, cit.; B.
Bledstein, The Culture of Professionalism: The Middle Class and the Development of Higher
Education in America, New York, Oxford University Press, 1976; R.H. Wiebe, The Search for
Order, 1877-1920, New York, Hill and Wang, 1967; R. Hofstadter, Anti-Intellectualism in
American Life, New York, Knopf, 1963.
96. A. Testi, Il socialismo americano nell’età progressista, cit.
97. D. Sarasohn, The Party of Reform: Democrats in the Progressive Era, Jackson, University
Press of Mississippi, 1989; J.A. Gable, The Bull Moose Years: Theodore Roosevelt and the Progressive Party, Port Washington, Kennikat Press, 1978; G. Mowry, Theodore Roosevelt and the
Progressive Movement, Madison, University of Wisconsin Press, 1946; A. Testi, Amministrazione, efficienza e democrazia. L’educazione di un public servant progressista: Charles McCarthy,
1873-1921, in T. Bonazzi (a cura di), Potere e nuova razionalità. Alle origini delle scienze della
società e dello stato in Germania e negli Stati Uniti, Bologna, Clueb, 1982.
98. A.T. Hadley, Undercurrents in American Politics, New Haven, Yale University Press, 1915,
p. 97; J.R. Commons, Myself, cit., p. 104; S. Skowronek, Building a New American State, cit.;
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Press, 1985; R.L. McCormick, The Party Period and Public Policy: American Politics from the
Age of Jackson to the Progressive Era, New York, Oxford University Press, 1986; M.E. McGerr,
The Decline of Popular Politics: The American North, 1865-1928, New York, Oxford University
Press, 1986; R. Baritono, Oltre la politica. La crisi politico-istituzionale negli Stati Uniti fra
Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1993. Discuto queste questioni in maniera più estesa
nei primi due capitoli di questo volume, ai quali rinvio anche per una più esauriente
bibliografia.
197
CAPITOLO
4
99. A.T. Hadley, Undercurrents in American Politics, cit., pp. 159-160, 153. Vedi A. Testi,
American News 1890-1920. Vitalità e contraddizioni nell’età dell’oro del giornalismo americano, in «I viaggi di Erodoto», III, agosto 1989; A. Testi, Giornalismo e potere negli Stati Uniti,
in «Storica», I, 2, 1995.
100. R.A. Champagne, Why Are There No Third Parties in the US: Duverger’s Law or Political
Regulations?, Colchester (UK), Department of Government, University of Essex, Essex Papers
in Politics and Government n. 45, 1987; P.H. Argersinger, Structure, Process, and Party: Essays
in American Political History, Armonk, Sharpe, 1992.
101. E.E. Schattschneider, The Semisovereign People: A Realist’s View of Democracy in America,
Hinsdale, Dryden Press, 1975; P. Kleppner, Who Voted? The Dynamics of Electoral Turnout,
1870-1980, New York, Praeger, 1982; W.D. Burnham, The Current Crisis in American Politics,
New York, Oxford University Press, 1982; W.D. Burnham, The Turnout Problem, in A.J. Reichley
(a cura di), Elections American Style, Washington (D.C.), Brookings Institution, 1987. Discuto
queste questioni in A. Testi, La politica dell’esclusione. Riforma municipale e declino della partecipazione elettorale negli Stati uniti del primo Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994.
102. F.F. Piven, R.A. Cloward, Why Americans Don’t Vote, cit., pp. 8-9; vedi anche F.F. Piven,
Regole, partiti e atteggiamenti politici: l’assenteismo elettorale americano in prospettiva comparata,
in M. Vaudagna (a cura di), Il partito politico americano e l’Europa, Bari, Laterza, 1991.
103. R. Oestreicher, Urban Working-Class Political Behavior, cit., pp. 1279-1281.
104. S.J. Rosenstone, R.L. Behr, E.H. Lazarus, Third Parties in America: Citizen Response to
Major Party Failure, Princeton, Princeton University Press, 1984, pp. 11-12.
105. M.J. Buhle, Women and the Socialist Party of America, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di),
Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit., pp. 209, 211; M.J. Buhle, Women
and the Socialist Party, 1901-1914, in E. Hoshino Altbach (a cura di), From Feminism to
Liberation, Cambridge, Schenckman, 1971, p. 66; M.J. Buhle, Women and American Socialism,
1870-1920, Urbana, University of Illinois Press, 1981.
106. M.J. Buhle, Women and the Socialist Party of America, cit., p. 219.
107. O. Kirchheimer, The Transformation of the Western European Party System, in J. La Palombara,
M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton, Princeton University
Press, 1966; R.S. Flickinger, D.T. Studlar, The Disappearing Voters? Exploring Declining Turnout
in Western European Elections, in «West European Politics», XV, aprile 1992; M. Vaudagna (a
cura di), Il partito politico americano e l’Europa, cit.; M. Calise (a cura di), Come cambiano i
partiti, Il Mulino, Bologna, 1992; M. Vaudagna (a cura di), Dimensioni del populismo in Europa
e negli Stati Uniti, fasc. spec. di «Europa Europe» II, 2, 1993.
108. E. Foner, Why Is there no Socialism in the United States?, in J. Heffer, J. Rovet (a cura di),
Pourquoi n’y a-t-il pas de socialisme aux États-Unis?, cit., p. 64.
109. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati
Boringhieri, 1991, p. 576.
198
Arnaldo Testi
THE TRIUMPH AND DECLINE OF MASS POLITICAL
PARTIES IN THE UNITED STATES OF AMERICA, 1860-1930
1. The rise and fall of mass parties in the United States is largely a thing
of the past. It was in the Nineteenth century, from the eighteen-thirties
through the eighteen-nineties, that political parties structured American
public life into a party system, a party government and a party state, in an
age that has been called the party period in American history. At the outset
of this period Alexis de Tocqueville described a society which «governs itself
by itself», whose parties were «small parties» involved in lesser controversies,
whose public opinion was divided into a thousand minute shades of difference
upon questions of detail. At the end of this period, Tocqueville’s work was
adopted by some Americans as a handbook of critique of a dramatically
changed society. Johns Hopkins University president Daniel Coit Gilman
called it a «sort of chart» for «young men of education and character» (and
wealth) who intended to redeem public life from «party supremacy» (and
from the evils of universal suffrage). At the eve of World War I, many observers
were well aware that party supremacy was passing away, undermined by a
«progressive» democracy, a strong presidency, the civil service reform, the
power of an independent press, electoral reform, the impact of a consumer
society. Party leaders complained of their failure in orienting and foreseeing
the electoral behavior of their traditional voters. In 1927, historians Charles
and Mary Beard used the past tense in describing a political universe where
parties were «encamped» in possession of the government and society as a
«standing army». By then, such an universe was gone.
Historians and political scientists alike agree on the timing and direction
of the transformation. Historical developments framed by the eighteennineties economic depression and the nineteen-twenties (the «System of
1896») brought about the beginning of a secular process of weakening of
the parties’ roles in political socialization and mobilization, in the selection
of political personnel, and in the selection and policy implementation of
political demands. In the essays collected in this book, I follow the lead of
those students, and expand on their findings. I also suggest an interpretation
of those changes somewhat different from the mainstream ones. I argue that
199
SUMMARY
the decline of parties in the United States in the first quarter of the Twentieth
century may be understood as the first historical case of crisis of mass,
organized parties in a Western country. American parties exhibited signs of
decay in some of their fundamental functions which, on European shores,
surfaced only late in the post-World War II period. From this point of view,
the United States are a test case of some relevancy to any discussion of the
present predicament of mass-party organizations and of the future of party
government in many European countries. Of course, analogy is a weak
historical argument. And, of course, America is not the future of Europe.
Still, I think that a careful analysis of the American past might throw some
light upon questions raised by the European present.
2. But then, are Nineteenth-century American parties comparable with
Twentieth-century European ones? I maintain that Nineteenth-century
American parties cannot be seen as radical examples of Max Weber’s
Patronagepartei as opposed to a European-style Weltanschauungpartei. Weber
developed his thoughts on the nature of American parties relying upon such
sources as James Bryce’s The American Commonwealth (1888) and Moisei
Ostrogorski’s Democracy and the Organization of Political Parties (1902). Bryce
and Ostrogorski articulated the political culture of American upper-class
intellectuals, their radical critique of what they perceived as the prime source
of political and moral degeneration in their times: namely, the very existence
of mass-based, popular, partisan organizations. It was the Liberal Reformers
of the eighteen-seventies and eighties who originated the weberian image of
American parties: unprincipled institutions, run by corrupt bosses whose
only goal was to win elections and take over the government patronage
powers; soulless machines, which appealed to the worst instincts of the crowd
and crushed, in the process, the honest, the wise, and the independent
(namely, the upper-class Liberal Reformers themselves). As in Western
Europe, in the United States analytical thinking on party politics was fostered
by an élitist, adversary attitude (see Chapter I, These Savage, Wolfish Parties:
A Transatlantic Bad Reputation).
The patronage system was important, but it was not the central, defining
factor pointed to by Weber, and then by functionalist sociology. Functionalist
social scientists and historians offered an interpretation of party politics
founded on the latent functions of the machine: meaning its ability to provide
jobs to its clients and personalized assistance to needy newcomers, to speak
for the alternative morality of different immigrant groups. They assumed
200
SUMMARY
that the sources of mass mobilization and electoral participation lay in an
insulated pre-political world of community solidarities and personal loyalties,
utterly impervious to intellectual judgements on principles and issues,
regarded as typical of restricted élites. They located the origins of party loyalty
not in the great national controversies articulated by well-organized minorities
(and meaningless to the masses), but in the perceptions and conflicts growing
out of local cultural experiences, religious beliefs, ethnic customs and lifestyles. This assumption has been put forward frankly by some of the political
historians who have investigated Nineteenth and Twentieth-century
American voting behavior. According to them, scholars should confront the
«brute fact» that «large portions of the electorate do not have meaningful
beliefs, even on issues that have formed the basis of intense political
controversy for substantial periods of time».
Much historical evidence produced by voting-behavior and social
historians seems to point in a different direction. Nineteenth-century
American citizens did make connections between their local perspectives
and community anxieties and their perception of national issues and national
political conflicts. Party loyalty was rooted in the clash of issues. Parties
espoused policies not poses; they were able to shape consistent policies and
to govern a complex polity and a complex society. There was a strong positive linkage between party promises and party performance. According to
historian Joel Silbey, the pre-Civil War era «was a particular kind of partisan
golden age - a model of a responsible, and responsive, party system». I believe
that one might push the argument a little farther and suggest that Nineteenthcentury American parties were permanent, popular parties, based on
community bonds and values. They were able to shape a strong
Weltanschauung and to include a wide spectrum of interests and beliefs in a
highly mobilized electorate. They were the first organized, mass parties to
appear in any Western country, much like the European ideological (socialist
or otherwise) parties of a later age.
3. If one looks at Nineteenth-century party politics from this vantage
point, a clear picture emerges which is quite at odds with the conventional
boss-and-patronage image. From the eighteen-thirties through the eighteennineties, American parties developed powerful grass-roots organizations
which were able to structure public life and private lives as well. A large
majority of adult males shared a political culture that regarded parties as
«the salt of the nation» and party loyalty as an act of political consistency
201
SUMMARY
inspired by devotion to principles and not to individuals. In a régime defined
by male universal suffrage, three-quarters of the eligible electorate voted
regularly for straight party tickets with scarce and painful conversions.
According to some estimates, 2 to 5 percent of the adult male population
were engaged in active party work; half or more of the population were
spectator-participants at party speeches, rallies, picnics, parades. Party identity
was a way of life cultivated in family circles and passed on from father to
son. Partisan values were activated and reinforced by a network of party
institutions which were permanent and strongly rooted in a stratified civil
society. Party clubs (many of them requiring a membership fee) addressed
the political and social needs of distinct social, ethnic and age groups. They
managed electoral competitions and disciplined the electorate, to be sure.
They also provided meeting places for formal and informal discussion of
current events, for a spirited reading of a lively party press, or for a quiet
game of chess or backgammon. They aimed at «the Diffusion of Political
Knowledge».
The managers of such complex organizations were modern professional
politicians. The exercise of patronage powers was just one of their concerns,
although an important one. Party politicians were recruited from the middle
and lower echelons of the social hierarchy, they were not men of independent
means. Party candidates for office did not have to be rich to run, as their
campaigns were paid for by the party. The spoils system (which Andrew
Jackson chose to call a democratic rotation in office) provided parties and
party men with the necessary resources. In the eighteen-thirties, these
developments shattered the post-revolutionary pattern of deferential politics,
and led to the replacement of aristocratic gentlemen with the new
professionals. It was then, Henry Adams recalled, that «the old Ciceronian
idea of government by the best» faded, and the politicians, on whom the
«statesmen» depended for doing their dirty work, took over. What happened
was that, «almost without knowing it, the subordinates ousted their employers
and created a machine which no one but themselves could run»: a kind of
soft coup d’état. In the new democratic polity, party men filled legislative
bodies, staffed executive and administrative offices, and managed the election
machinery. At any level of government (municipal, state, federal) they shaped
party platforms which structured party divisions extending to every corner
of the country (as advocated by Martin Van Buren). And they shaped public
policies.
202
SUMMARY
Nineteenth-century parties did have programs and principles: and
competing programs and principles. Over them, they fought dramatic
national conflicts whose outcomes influenced the course of national growth.
Consider the confrontations over economic and political growth in the
Jacksonian era. Consider a bloody Civil War, which was a sectional war, an
ideological war, and (not to be forgotten) a party war. Consider the bitter
contests of the eighteen-nineties between a central urban-industrial bloc
and the rural periphery, in the turmoil of a devastating great depression. But
consider also the fact that, up to the turn of the century, the prime source of
public policies lay not so much in the federal government as in the states.
Consider then the Gilded-Age cultural battles on immigration, prohibition,
the school question (a true church-state conflict in a society without an
established national church) with their appeal to ethnic, religious, and
community values. These historical developments gave the Republican and
Democratic parties strong political and cultural identities as well as conflicting
worldviews. They built in the electorate long-standing partisan traditions
which gave the party faithful a deep-rooted sense of belonging. They built
what Walter Dean Burnham has called popular «political confessionalisms»
much like those usually associated with Twentieth-century European churchparties.In the process, they opened the political arena to the discourse of
social conflict, above all to the demands of the local workingmen’s parties
and powerful working-class constituencies of Nineteenth-century town
governments and turn-of-the-century urban machines.
4. If one accepts this broad interpretive framework of Nineteenthcentury political parties, the dynamics of their decline after the turn of the
century becomes clearer (see Chapter II, Triumph and Decline of Mass Political
Parties). Such a transformation has often been described in the language of
«modernization», which implies its objective necessity and ultimate
desirability. I suggest that this historical critical juncture could be better
understood as a sequence of bitter social and political conflicts over which
interests were to be represented in a changing polity. Before social scientists
and historians took it over, the language of modernization was articulated
and widely used by American reformers of the Progressive era. They were
members of a new, confident middle class usually employed in large-scale,
specialized organizations. They partook of a culture of professionalism that
defined itself as cosmopolitan, detached from «old-fashioned» local
community values, competent and problem-solving, antithetic to the give203
SUMMARY
and-take of politics and representative democracy. They followed the lead
of the new social scientists in their conception of society as a meritocracy,
hierarchically ordered by expertise. As experts, they considered themselves
social and political reformers.
These progressive reformers were expedient in redesigning the structure
and role of the major parties, by boring from within, by pressing from
without. On the one hand, they acted through party channels and accepted
partisan compromises on their own pet issues. They joined in the progressive insurgency in the state Republican parties, and in the urban-liberal
insurgency which made the Northern Democrats the party of reform. They
staffed the leadership and the rank and file of Theodore Roosevelt’s Progressive Party of 1912 and found their ultimate home in Woodrow Wilson’s
Democratic welfare-warfare administration. On the other hand, they
denounced the abuses of the party machine; the inadequacies of professional
politicians as policy makers, and their corruption; the ritual, irrational mass
loyalty to church-parties; the backwardness of political organizations tied to
community, localistic values and patronage interests, and their indifference
to the needs of a modern and efficient national society. They praised the
independent voter and independent political action through clubs and adhoc leagues. They undertook a successful fight to enact state and local electoral
reforms which cut down major-party influence on candidate nominations
and voter behavior, and minor-party representation as an extra bonus. They
fought to strengthen direct-election, personalized executive offices (a powerful
presidency, an authoritative mayor) at the expense of representative, partydominated bodies. They theorized the expansion of state admnistrative
capacities and of interest-group representation; they fostered the transition
from the state of courts and parties to a new plebiscitary, administrative state.
These critiques and proposals turned into actual achievements, because
Nineteenth-century-style mass parties did have problems. They were ill at
ease with the task of governing the national economy of big business and
multinational corporations brought about by the second industrial
revolution. Moreover, a newly complex and stratified society, the impact of
a mass-consumer market, emerging race and gender cleavages brought new
collective actors to the political arena; in a way, the very definition of politics
underwent a radical change. Interest groups, unions, business and professional
associations, single-issue movements, consumerism, environmentalism, civil
rights groups, women’s clubs and suffragism embodied national crosscommunity identities which cut through party loyalties. The new political
204
SUMMARY
actors’ modes of organization and participation (interest-group bargaining,
pressure-group activities, direct democracy) hardly fitted into the pattern of
party politics and of representative democracy as well. Their modes of
communication relied on an independent commercial press, which had
virtually replaced the Nineteenth-century pervasive party newspapers. Along
with the party press, other traditional sources of transmission of party values
and loyalties were hard hit in a mass-media dominated, metropolitan society;
family, community, and church institutions lost ground to youth,
professional, or consumer cultures, peer cultures with no historical memory.
5. Starting from such solid bases, the middle-class all-out assault on the
existing parties’ institutional, and by then quasi-constitutional, prerogatives
reflected also an attempt to destroy their persistent, mass roots in popular
constituencies, and the political demands they had embodied up to the turn
of the century. Such constituencies and demands were perceived as hostile
or marginal to the on-going modernization: a burden to be discarded. The
cumulative outcome of these conflicts (fought in local and state politics, but
national in extent and scope) was a weakening not of the political parties as
such, but of their Nineteenth-century, mass-based variety. The emerging
reformed parties, while no less ideologically oriented, were more vertically
organized, responsive to a narrower range of interests, less open to grassroots influence, and unable to mobilize large sectors of voters. The
«modernized» political system, which was well established by the post-war
years, rewarded élite, structured (namely, interest and pressure) group activity
and punished mass (namely, political and electoral) participation. As noted
by Walter Dean Burnham, by then politics had turned, to a remarkable extent,
into «a politics of oligarchy dressed up in the rhetoric and processes of democracy».
The most dramatic feature of the new system was a drastically reduced
and class-skewed electorate and the contextual suppression of options and
alternatives which reflected the needs of non-participants. By the nineteentwenties, half of the eligible voters did not go to the polls at presidential
elections; the non-vote was much larger in state and local elections or directdemocracy events like referendums, initiatives, and recalls. It was a veritable
hole in the electorate, which swallowed up a disproportionate fraction of
the lesser educated, less affluent strata of the population: that is, the mass
bases of party organizations, what Nineteenth-century Liberal Reformers
had called «the dangerous classes». At the historic moment when the working
classes in many European countries were reaching full political citizenship,
205
SUMMARY
and even becoming organized contenders for state power, American lower
classes (Northern immigrants, Southern blacks and poor whites) were moving
toward functional disfranchisement; a fact which, according to radical
sociologists Frances Fox Piven and Richard A. Cloward, might help «to
explain why no comparable labor-based political party developed» in the
United States. On this time-honored and much-debated question, however,
I will say something in my concluding remarks.
6. The growth of the non-vote is one of the major aspects of the
restructuring of American politics after 1900 which has been somewhat
underestimated. Another contemporary development is waiting for
incorporation into a satisfactory analysis of the period, namely the entry of
women into the political arena. The winning of national woman suffrage,
in 1920, cannot be viewed as a simple extension of the franchise to individuals
who did not enjoy it up to then. Nineteenth-century voters were not abstract
citizens, they were male citizens; parties were not abstract political
organizations, they were male organizations. Political activities and state
policies reflected gender power relations and shaped them. The 19th
Amendment to the Constitution, and the long process of getting there,
changed the gender base of politics, with important implications for the
political system as a whole. Well before suffrage, women’s movements
developed a theoretical and practical critique of a polity where the right to
vote was a determinant factor in the definition of manliness; where political
discourse (shaped by the rhetorics of other male experiences, namely war)
and party work (done in such male temples as social clubs, saloons,
barbershops) were attributes of masculinity. The structure of gender-related
roles was so strong that even men were limited in the form that their
participation could take. Party politics was the only manly man’s game in
town. Anti-party, male social reformers saw their manhood openly questioned
by party politicians, who abused them as «the third sex», they violated sexual
stereotypes as blatantly as suffragists who asked for a woman’s place in politics
(see Chapter III, Male Party, Female Reform: Theodore Roosevelt and the
Masculinization of Reform Politics).
Before and after suffrage, women brought to public life the historical
heritage of their movements and social institutions. It was a heritage of
issues which were rooted in what Victorian middle-class rhetoric called the
woman’s sphere; of modes of organization which exceeded accepted canons
of political action; of worldviews which changed the boundaries of the public
206
SUMMARY
sphere itself. As social activists, state and federal bureaucrats, and then (after
suffrage, and to a limited extent) party officials, women used the language
of motherhood to include in the public sphere areas of social and family life
which had been part of their individual or collective voluntary work
(temperance, philanthropy, social reform, school and educational reform,
consumerism, birth control); thus they fostered the transition to the welfare
state. They adopted techniques of mobilization and influence (societies, clubs,
movements) which ignored and displaced elections and parties and were
perhaps closer to those of new-style pressure groups and single-issue
movements. These changes probably (probably, because these questions are
still to be explored) hastened the decline of mass political parties and, in the
nineteen-twenties, the dissolution of popular partisan loyalties, which were
primarily constructed as male loyalties and institutions. For related reasons,
women voters further depressed the falling turn-out rates of the time.
7. These changes had important implications for the fate of socialism
in the United States. Its «failure» has been ascribed to many causes. I stress a
factor which may be better understood in a dynamic and comparative
perspective: the historical timing of party formation is the critical issue here
(see Chapter IV, Why is There no Socialism in the United States?). SecondInternational European socialists built their organizations at the outset of
mass-party democracy in the continent; in a way they spearheaded it. In the
same years, American socialists undertook a similar project in a country
where mass democracy was a century old; where mass parties had historically
socialized workers according to non-class cleavages; and where new
developments were questioning the viability itself of electoral and party
politics, eroding its mass constituency. In such a context, the missed takeoff of an American socialist party should be explored as an aspect of the
general decline of mass parties in the country’s public life; a decline which
made the organization in permanent party form of any expression of radical
(or non-mainstream) politics more difficult than in the previous century. In
the Nineteenth century, third parties were mass, organized parties with
conventions, officials, permanent structures, candidates running for local
offices, detailed platforms, relatively long lives, and faithful followers. In the
Twentieth century they have generally been «little more than candidacies of
individuals», based on the magnetic personalities of their founders, and
unable to survive without them.
207
SUMMARY
Thus, one might conclude that the social cleavages induced by the
second industrial revolution did have a historic impact on the American
party system; they brought about a veritable (though largely unrecognized)
change of régime. In the United States, unlike many European countries,
they did not foster the birth of modern mass-based parties, but their demise.
They did not create a new mass electorate, but just the opposite. They brought
about not so much a partisan realignment of voters’ preferences, as an
expulsion of a large fraction of them from the electoral universe. They did
not generate a new (class) party, but a metaphor of it, the party of nonvoters. These developments, observed in a synchronic comparative
perspective, were undoubtedly specific to the United States. From a diachronic
vantage point, however, they do not look exceptional at all to observers of
secular trends in Western industrial, capitalist democracies: the decline of
mass parties, the crisis of the culture of partisanship, the predicament of
traditional socialist-party strategies, the future of party government, the
emerging of new forms of political influence and participation (ominous
signs of electoral demobilization included) are critical issues of today’s agenda in many European countries. There is a time warp here, which any comparative analysis should account for.
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nova americana
COLLANA NOVA AMERICANA
Nova Americana è uno strumento per unire quanti nel mondo hanno
l’ambizione di giungere ad una comprensione del fatto America, sia essa del
nord, del centro e del sud del continente, sia dei collegamenti inter-americani e con il resto del mondo. Nova Americana pubblicherà saggi, studi e
ricerche riguardanti i nodi fondamentali delle Americhe. Nova Americana
è disponibile on line al sito www.otto.to.it, e in stampa.
Nova Americana aims at bringing together scholars and observers of
the American Continent and Inter-American,Trans-Atlantic and AmericanItalia relations.Nova Americana publishes advanced research and major
contributions towards a further comprehension of the Americas. Nova Americana is readily available on line,www.otto.to.it, and in book form.
Nova Americana busca reunir a estudiosos interesados en la
comprensión del continente americano y de lo americano; busca arrojar luz
en torno a las relaciones interamericanas así como sus vínculos con el contexto
internacional y europeo.Nova Americana publica investigación de vanguardia,
ensayos y estudios para una mejor comprension de las Amèricas. Nova
Americana está disponible en web, o en libro impreso.
I titoli iniziali della collana
Arnaldo Testi, Trionfo e declino dei partiti politici di massa negli Usa, 1860-1930
Marcello Carmagnani (a cura di), Costitucionalismo y orden imperial, 1850-1920
Federica Pinelli, Marco Mariano, Europa e Stati Uniti secondo il New York Times:
la corrispondenza estera di Anne O’Hare McCormick 1920-1954
Marco Bellingeri (a cura di), Dinamicás de Antiguo Régimen y orden constitucional.
Representación, justicia y administración en Iberoamérica. Siglos XVIII - XIX
Che il Novecento sia stato il secolo dei partiti di massa è
un’affermazione eurocentrica. Dal punto di vista degli Stati
Uniti, il secolo dei partiti è stato l'Ottocento, e il passaggio
al Novecento ha segnato l’inizio del loro declino.
I saggi raccolti in questo volume esaminano le ragioni
politiche, sociali e culturali del successo della "democrazia
dei partiti" (o della "supremazia di partito", come dicevano i
suoi avversari) negli Stati Uniti ottocenteschi e poi del suo
lento disgregarsi dopo il 1900. Affrontano alcune questioni
cruciali che hanno segnato le peculiarità della politica
americana novecentesca rispetto all’Europa: perché i partiti
americani sono deboli? Perché gli americani non votano?
Perché negli Stati Uniti non c’è un partito socialista?
Arnaldo Testi insegna Storia degli Stati Uniti d'America presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia dell'Università di Pisa. Ha pubblicato Il socialismo
americano nell'età progressista (Marsilio, 1980); L'età progressista negli
Stati Uniti (Il Mulino, 1984); La politica dell'esclusione (Il Mulino, 1994).
Ha curato l'edizione italiana di W.L. Riordon, Plunkitt di Tammany Hall
(ETS, 1991). Una versione del capitolo III di questo volume ha vinto il
Foreign-Language Article Prize della Organization of American Historians
(1994).
I libri della collana "Nova Americana" sono disponibili anche in formato
elettronico al sito www.otto.to.it
ISBN 978-88-87503-15-9
€ 9.90