Leggi i primi capitoli

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Leggi i primi capitoli
IL ROMANZO
L’investigatore Giovanni Delleani, in arte Cutter, riesce a vederli, ne è certo. Animali
abbozzati, uomini mannari e donne fameliche formicolano in ogni quartiere di
Milano. Allucinazioni zoomorfiche le chiamano. Visioni di cui Cutter non riesce a
liberarsi neanche durante le sue indagini sregolate, le sbronze epocali e le
innumerevoli avventure galanti che non smette di collezionare. La sua vita scorre
senza preoccupazioni fin quando la sorella Marina gli affida la figlia Alice che poco
dopo sparisce, proprio mentre le cronache riportano notizie di una serie di crimini a
danno di giovani donne, uccise in maniera efferata da un serial killer ormai noto
come il Cerusico. Quando Cutter scopre che la nipote è collegata alle altre vittime da
un antico manoscritto sulla Vergine Maria che stava studiando per la tesi di laurea,
inizia una disperata corsa contro il tempo per salvare la nipote e porre fine alle gesta
del Cerusico.
L’AUTORE
D.F. Ly cas è nato ad Asti nel 1973. Si occupa di informatica e nuovi media. Ha al suo
attivo diversi romanzi e racconti horror.
La rivelazione
di
D.F. Lycas
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562503
Prima edizione eBook luglio 2014
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volontà dell’autore.
La rivelazione
Parte prima
Mickey Mouse dimostra che una creatura può
ancora sopravvivere anche se privata di
sembianze umane.
Walter Benjamin
Prologo
Cinque anni fa alle cinque di mattino; non so perché, ma le cose
peggiori a Milano succedono sempre a ridosso dell’alba. Forse è la
notte che si sforza di restare aggrappata alla città, seminando catastrofi
per intralciare il sorgere del sole.
Il giorno prima sul Naviglio Grande si era svolto il mercato di
antiquariato. Mi ero evitato il caos e la confusione della
manifestazione perché avevo accompagnato la mia nuova cliente a
Padova, all’inaugurazione di un sexy shop di cui era la madrina. Da lì
ci eravamo trasferiti nel ristorante scelto dal proprietario del negozio,
poi in una squallida discoteca dove il mojito veniva preparato con
succo di limone e basilico anziché lime e menta. Imbevibile.
Sulla strada del ritorno, Mira aveva dormito come una bambina.
Rannicchiata sul sedile posteriore, era sprofondata quasi subito in un
sonno inquieto ma profondo. Non aveva aperto gli occhi nemmeno
quando l’avevo trasportata a forza di braccia su per le scale del suo
residence, in via Mortara.
A marzo Mira se ne sarebbe tornata a Vancouver; io mi sarei
ritrovato senza più cliente né amante in un colpo solo. Un pochino la
faccenda mi rattristava, lo ammetto. Forse anche per questo motivo,
nonostante l’ora, non avevo sonno.
Dopo aver rimboccato le coperte di Mira, scesi in strada, le mani in
tasca e una cicca in bocca. Dovetti alzare il bavero del cappotto per
ripararmi dal vento gelido che tirava da est e che mi arruffava la
criniera senza troppa cortesia. Ci trovavamo in quella fase dell’inverno
in cui i barboni muoiono assiderati, i pusher vendono la loro merce
nascosti dentro agli androni e le mignotte incendiano i marciapiedi coi
loro fuochi di gomma e cartone.
A quell’ora la città era ancora mezza assopita. Il rombare rauco dei
camion della nettezza urbana sembrava un lento russare.
Sotto la stoffa del cappotto sentivo il bozzo della mia vecchia Rullo
di Morte, una Webley-Fosbery dei primi del Novecento, cimelio di
famiglia da tre generazioni. Quell’arnese, assieme alla mia stazza non
indifferente, mi concedeva una sicurezza inossidabile. Potevo persino
permettermi di abbassare la guardia, o almeno così credevo. In realtà
ero stanco come un cavallo da tiro drogato di lavoro; facile sragionare
in quelle condizioni.
Mi appoggiai alla ringhiera che costeggia il Naviglio, incamerando
quanta più aria possibile con un respiro da lupo Ezechiele.
Dimenticai Mira, la mia vita sregolata, il Coyote. Mi limitai a
guardare il corso lento del canale che quella mattina era
particolarmente limpido. Un urologo avrebbe descritto il piscio di
Milano trasparente e di colore paglierino.
A proposito di camici bianchi, l’ultima volta che ero finito in
ospedale era stato per farmi estrarre una pallottola dal collo. Niente di
grave per la verità. Si era trattato di un diabolo di piombo, cioè un
calibro 4,5 che non avrebbe ammazzato nemmeno un piccione. A
premere il grilletto era stato il figlio di una mia ex cliente.
Il ragazzino, per proteggere la madre dalle violenze di suo padre, si
era appostato in corridoio e aveva preparato un agguato al genitore
XY. Peccato che, invece del papà, quel giorno avevo accompagnato io
la mamma a casa. Ero stato appena ingaggiato, e il figlio non
sapendolo mi aveva scambiato per lo stronzo manesco. Sparandomi.
Toccarmi la cicatrice tonda e bitorzoluta che mi è rimasta proprio
sotto al gozzo è una specie di abitudine. Non è un tic. Però quando
sono assorto, mi capita di indugiare con le dita sul collo proprio in
quel punto. Probabilmente la stavo masturbando anche sul Naviglio,
quel maledetto lunedì mattina di sette anni fa.
Mentre pensavo ai fatti miei, un samba bus stava arrivando a tutta
velocità su per via Alzaia. Mi voltai verso il furgone, ma ero troppo
allumacato per improvvisare qualcosa di più che una semplice
occhiata. Di sicuro non pensai di mettere mano alla pistola. Rullo di
Morte se ne restò accoccolata nella fondina. Quel giorno sprecai
un’occasione per scaricare il tamburo contro bersagli decisamente
meritevoli.
Le Webley-Fosbery sono armi vietate nel nostro Paese perché
considerate da guerra. Io la posso tenere per via di una questione
legata all’ereditarietà della licenza di possesso. Insomma, è una delle
poche cose buone che mi ha lasciato mio padre. Certo, in teoria non
dovrei portarla in giro. In teoria. In pratica, nove volte su dieci riesco
a portare a casa la pelle proprio perché ce l’ho sempre con me.
Rullo di Morte sa sparare in sequenza. A ogni colpo il castello
arretra, arma il cane e fa ruotare il tamburo. Click-bum click-bum clickbum, senza virgole fra un’esplosione e l’altra. Pallottole da Colt alla
velocità di un mitra. O quasi. In realtà, quel giorno non era destino
che mi togliesse le castagne dal fuoco.
Il furgone inchiodò, il portellone gracchiò spalancato dall’interno, e
il Coyote seguito da due brutti ceffi scese in strada con aria trionfante.
In mano, neanche a dirlo, stringeva una dannata pistola.
Per la cronaca: Mira e il Coyote si erano conosciuti sul set di
Tegami e Legami , un filmaccio per appassionati del genere bondage
amatoriale. La scena più famosa pare sia quella in cui Mira prende a
padellate sul di dietro una schiera di uomini in guepiere. Il Coyote era
uno di quelli. A un certo punto della loro relazione però, Mira aveva
scoperto che il suo amato nutriva una profonda dedizione per gli acidi
e le amfetamine. Lo aveva mollato, ma lui non l’aveva presa bene.
All’epoca il reato di stalking non era nemmeno contemplato
dall’ordinamento. Non si sapeva cosa fosse, e liberarsi dei mariti
violenti o dei fidanzati paranoici era ancora più difficile di adesso.
Comunque ci tengo a ribadire che anche oggi non è così semplice. I
tribunali sono come i cessi delle stazioni ferroviarie, intasati o rotti, e
quindi io resto comunque molto richiesto.
Era prima mattina dunque, il Naviglio scorreva lento, faceva freddo
e il Coyote mi stava puntando contro la faccia una semiautomatica di
fabbricazione italiana. Forse avrei anche potuto disarmarlo, ma
restavano comunque i suoi due compari. Alzai le mani.
“ Ti sei portato gli amici, vedo.”
Il Coyote sogghignò. Aveva una voce stridula che bucava la quiete
dell’alba.
“ Mi aiuteranno a insegnarti le buone maniere.”
In effetti, lui da solo non avrebbe potuto insegnarmi granché.
Rispetto a me era poco più che un’acciuga.
Aveva i capelli radi sulla nuca ma folti dietro le orecchie, ciuffi
rossi scarmigliati che parevano piantine di corallo. La testa piccola,
ma pupille enormi che sporgevano dalle orbite. Occhi bianchi e lucidi
come mezze palline da ping-pong bucate nel centro e intinte nella bava
di una lumaca. Come avesse fatto Mira a invaghirsi di lui restava un
mistero.
La sua pistola puzzava di acciaio e grasso sintetico, segno che non
doveva essere stata usata granché.
“ L’hai comprata in cartoleria, quella?”
Il Coyote non rispose. Si limitò a spingere la canna dell’arma
contro di me, tanto che dovetti arretrare di un passo. Ci pensarono i
suoi due mercenari a fermarmi, bloccandomi le braccia con modi da
celerini.
La sirena di un’ambulanza urlò a qualche isolato da lì. Le serrande
di un locale rullarono. La città si stava svegliando.
“ Ho molti amici in questura” azzardai. “ Non vedo l’ora che ti
becchino col ferro in mano.”
Il Coyote scrollò il capo.
“ La sirena non è quella dei tuoi amichetti azzurri. E comunque,
abbiamo quasi finito.”
Mi colpì con il calcio dell’arma dritto sullo zigomo. Non avessi
ossa di marmo, probabilmente mi sarei ritrovato con una buca da golf
proprio sotto l’occhio. La botta mi stordì, ma potevo incassarne
ancora parecchie prima di andare giù.
“ Tutto qui?”
Uno dei cagnacci del Coyote mi afferrò la testa per i capelli,
strattonandola all’indietro. L’altro m’infilò due dita in bocca per
farmela spalancare. La mia lingua schiacciata contro i denti. La
consapevolezza di non poter far nulla per liberarmi, e di non sapere
cosa mi sarebbe accaduto. Per un attimo mi sentii davvero nella
merda. L’attimo dopo, nella merda c’ero fino al collo.
“ Adesso ti appiccico i francobolli, poi ti spedisco al Creatore”
sentenziò il Coyote. “ Così Mira non avrà più nessuno a proteggerla.”
Nonostante mi trovassi in una posizione piuttosto scomoda, con la
testa bloccata all’indietro, riuscii comunque a scorgere il Coyote che
si sporgeva verso di me. Doveva sollevarsi sulle punte dei piedi per
essere alla mia altezza. Mostrava trionfante tre pezzetti di carta stretti
fra il pollice e l’indice.
“ Uno per l’occhio sinistro” disse. “ E uno per il destro affinché tu
non possa più riconoscere nemmeno tua madre.”
Usando la precisione di un ottico che t’insegna a indossare le lenti
a contatto, mi spalancò le palpebre e appiccicò i francobolli proprio
sopra la pupilla. L’occhio prese a bruciare come se ci avesse buttato
del sale.
“ E uno per la tua lingua, così la pianterai di sparare stronzate.
Bodyguard un cazzo! Io non ti darei da guardare nemmeno le mie
bestie.”
Il terzo francobollo mi si sciolse in bocca con la rapidità di una
mentina. Non aveva alcun gusto, soltanto effetti collaterali. Mentre
nella mia testa rimbalzava come una pallina matta l’ultima parola
pronunciata dal Coyote: “ Bestie... bestie... bestie...” Tutti e tre gli
assalitori mi sollevavano oltre la ringhiera del Naviglio.
Ebbi l’impressione di spiccare un volo a campanile verso l’infinito.
Strizzai gli occhi più volte, liberandomi delle marche postali per
l’altro mondo. L’allucinogeno però era già in circolo. Il cielo s’aprì
mostrandomi angeli con occhi da gatto, cherubini con zampe di pollo
e santi ricoperti di pelliccia.
È solo un effetto della droga, pensavo, devo stare tranquillo e
passerà tutto. Non è indelebile. Non lo è per niente. Gesù Cristo però
scuoteva la sua grossa testa da formichiere con aria sconsolata.
“ Hai presente gli acidi che si usano in fotografia?” Parlava
attraverso quella bocca lunga e quelle labbra minuscole. “ Servono per
fissare le immagini sulla lastra d’argento.”
Gesù era proprio ridicolo, ma mi sforzavo di non ridere perché non
mi sembrava educato mancare di rispetto proprio a lui.
“ Ebbene” continuò. “ Sai quanto è acida l’acqua del Naviglio?”
“ No” gli dissi.
“ Più o meno come un bagno di fissaggio.”
–1–
Milano: avete mai fatto caso all’anagramma di questa città? Una
forma distorta e incompleta della parola animale. Animol.
Bestie abbozzate, uomini con teste di cavallo, lupi bambini, donne
criceto e adolescenti rospi. Io li vedo, gli animol, ma soltanto qui a
Milano.
L’altro ieri ero a Torino. Lì nessun animol. In compenso c’è
un’armeria antiquaria dalle parti di Porta Susa dove si possono trovare
lame adeguate. Coltelli e spade di acciaio finissimo che nemmeno a
Solingen, negli anni buoni dei massacri all’arma bianca, si sognavano
di forgiare. Tutta roba selezionata, antica o moderna a seconda dei
gusti. Niente robaccia cinese.
I coltelli cinesi li spacciano al mercatino di San Donato per due
euro al pezzo. Lame di ferro marcio affilate nel pangrattato, molli come
biscotti inzuppati nel caffè. Per dire, gli addominali di quel maiale di
un Griso possono fermare lame di quel tipo con una semplice
contrazione. Chi è il Griso? Un maiale, appunto, ma ve ne parlerò più
avanti.
A Torino ho sborsato cinquecento euro per una daga da reni di
manifattura spagnola. Trentacinque centimetri di morte misericordiosa
in un’unica fusione. La lama a pianta quadra. Il pomolo a forma di
testa di serpente, due salamandre in bassorilievo sull’elsa. Un
capolavoro forgiato nel XVII secolo dal miglior fabbro di Toledo,
tanto per essere precisi. L’ho battezzata Cavaocchi, e l’ho appesa alla
rastrelliera fra il martello da guerra e il mazzafrusto. In effetti le armi da
botta restano le mie preferite.
Il negoziante che mi ha venduto Cavaocchi aveva un aspetto in
linea con le mie aspettative: nerboruto, calvo, con due grossi baffi a
manubrio. Il naso a forma di cetriolo spiaccicato, gli occhi a spillo e i
denti intermittenti. Brutto, ma comunque umano. Anche la sua
commessa aveva l’aspetto giusto; un cesso, ma per lo meno senza
caratteristiche ovine o caprine. Umani erano i passanti che ho
incontrato in strada, idem i pusher che bivaccavano nel parcheggio e le
prostitute che battevano a ridosso della tangenziale.
Quando invece ho fatto ritorno a Milano, ho trovato le solite facce
da cane. E non è una metafora.
–2–
L’edicolante mi guarda tenendo la bocca dischiusa; il suo alito sa
di aglio, ma è abbastanza normale. Non ho mai trovato dei cani con
l’alito alla menta. Ha occhi arrossati e pupille enormi come se avesse
appena tuffato la testa in un grilletto d’insalata di cipolle. Il muso
marroncino di pelo raso dà l’impressione di essere seta al tatto,
soprattutto sulla strisciolina più chiara che dalla punta del naso sale
fino alla fronte.
“ Tutti quanti?” abbaia, indicando i giornali che ho scelto.
Inclina la testa a sinistra, e allora, le orecchie da cocker lunghe e
molli puntano il terreno come fili a piombo.
“ Sì, grazie.”
Piroetta sui piedi mostrandomi le spalle. È alto e dinoccolato.
Dalla giacca a vento senza maniche, troppo gonfia e larga per lui,
spuntano due braccine sottili e senza muscoli, fasciate da un pile verde
acido.
“ Le prendo una borsa” dice con una voce effeminata, rovistando nel
retro. Intanto con la coda spennacchiata che gli spunta da una feritoia
dei jeans abbozza un paio di ramazzate compiaciute.
“ Lasci stare la borsa. Li porto via così.”
Torna a voltarsi. Congiunge le mani davanti al petto, le dita tese.
Guarda di nuovo i giornali che ho appoggiato sul pensile. È buffo
perché i suoi arti umani hanno polpastrelli neri e gonfi come quelli di
un cane. Ma d’altronde è un animol, e nemmeno dei più brutti.
Si lecca la punta del naso con la lunga lingua rosa. Si schiarisce la
voce prima di proseguire: “ Il Corriere, Armi bianche, Il Sole e...
Incontri al buio?”
Solleva le sopracciglia cadenti, ammiccando con fare complice
come Super Pippo al cospetto del collega Paperinik.
“ Che c’è?” faccio io.
“ Niente niente” dice il cagnolone, mostrando le mani aperte in
segno di resa. “ Sono sei euro e ottanta.”
Affondo le mani nelle tasche dei pantaloni. Ho questa maledetta
abitudine di lasciare gli spiccioli sempre sparsi, e quando devo pagare
faccio casino. Il fatto è che odio i portamonete: in genere sono troppo
piccoli per le mie dita. Dovrei comunque versare le monete sul palmo
per prenderle, e allora tanto vale lasciarle pascolare in saccoccia.
Insieme al denaro tiro fuori anche un mio biglietto da visita
spiegazzato. Al tatto mi era sembrato una banconota da cinque euro.
Forse perché l’ho stampato alla stazione Centrale con una di quelle
macchinette automatiche che usano carta troppo sottile e scadente.
Deposito tutto quanto sui giornali, conto le monete e le sporgo
all’edicolante. Lui però si sofferma sul biglietto.
“ È suo?”
Annuisco.
L’edicolante ci appoggia sopra l’indice facendolo girare per poterlo
leggere meglio.
“ G.D. Cutter... difesa privata, protezione, security.”
Solleva il muso, gli occhi colmi di ammirazione. Porta una mano
al petto.
“ Oh” dice. “ Non ho mai conosciuto una guardia del corpo.”
La voce gli devia all’improvviso verso tonalità più acute.
“ Posso tenerlo? Nel caso ne avessi bisogno.”
“ Certo.”
Recupero i giornali. Getto una rapida occhiata sul titolone del
quotidiano: è scomparsa un’altra ragazza, e così si parla di nuovo del
Cerusico. Da qualche anno è un incubo ricorrente nella mia vita. Anzi,
nella vita di tutta la città.
Faccio per allontanarmi, quando l’edicolante mi chiama di nuovo:
“ Signor Cutter!”
Mi volto sbuffando. Sono le nove di mattina. Voglio andare a fare
colazione, leggermi il giornale, rilassarmi un attimo prima di passare
in ufficio. E poi in tarda mattinata devo pure recarmi dalla signora Di
Feo, esperienza che non auguro a nessuno.
Ho pochissima pazienza, ma l’uomo cane non lo sa. Inoltre,
sospetto che si sia innamorato di me.
“ Signor Cutter” mugola. “ Lei non ha paura del Cerusico, vero?
Quel mostro! Se penso a quello che fa alle sue vittime, inizio a
tremare come una foglia. Lei invece...”
“ Cosa?”
“ Dicevo, lei non lo teme di certo perché, immagino, chissà che
pistola che ha.”
“ Bella grossa” gli dico. “ Davvero bella grossa.”
Madre immacolata, prega per noi
L’Uomo è alto, robusto. Forte, pensa subito chi lo conosce.
Ha i capelli biondi, un po’ radi sulla nuca. Un tempo erano una
cascata di ricci dorati, fluenti come quelli di un principe azzurro, ma
quello non è mai stato il suo colore preferito. Il rosso è molto meglio.
Quando esce dal tempio, cioè dalla stanza che ha adibito per tale
funzione – ma anche il termine laboratorio o, meglio ancora macello,
potrebbero andare bene per descriverla – è rosso dalla testa ai piedi.
Si chiude la porta alle spalle.
Ci appoggia contro la schiena e trae un lungo respiro.
Gli tremano un po’ le gambe. È appagato. Soddisfatto. Spossato
come chi ha appena liberato la tensione della giornata in un piacere
esplosivo e violento.
Deposita in terra un sacco nero chiuso con un nodo. Non deve
contenere granché perché si affloscia ai suoi piedi.
L’Uomo si sfrega le mani aperte sulla pettorina già sporca del
camice, lasciando sulla stoffa altre due grosse chiazze di sangue. Ha
del sangue anche sul collo, appena sotto la mandibola. Non è suo.
Ha del sangue sul mento. Uno schizzo sopra la palpebra destra
prosegue come un accento fino alla fronte, coprendo il sopracciglio.
L’Uomo chiude gli occhi.
Congiunge le mani.
Mormora: a presto regina, madre misericordia, vita, dolcezza,
speranza... alla prossima.
Riapre gli occhi: sono chiari e gelidi come quelli di un husky.
Il corridoio davanti a lui gli appare più luminoso. Il sole che filtra
dall’esterno si è fatto più audace. Contro la parete un binario di luce
proiettato dalle fessure delle persiane traccia il percorso fino alla porta
per lo scantinato.
L’Uomo raccoglie di nuovo il sacco. Nella sua mano grande, il
sacchetto pare la carcassa di una gallina stretta per il collo. Una gallina
nera, di quelle che si uccidono durante i rituali di stregoneria.
S’incammina per il corridoio. Con la mano libera sfiora la parete
spoglia. Le dita corrono sulle rotaie disegnate dalla luce del meriggio.
Un po’ d’intonaco cade sul pavimento. La casa è vecchia, e il colore
sta saltando.
Davanti alla porta che conduce in cantina, l’Uomo indugia sui
santini fissati con delle puntine contro il legno. Sono disposti uno
accanto all’altro come tessere di un mosaico. Il santino bianco e
marrone della Madonna delle Rose in Torino accanto a quello grigio e
sbiadito del Dogma della Immacolata Concezione. Quello azzurro di
Nostra Signora di Fatima accanto a quello rosso e blu del Credo
nell’Assunzione di Maria SS. al Cielo.
L’Uomo piega la testa di lato quando si sofferma sull’elemento più
prezioso della sua collezione, ovvero il piccolo e antichissimo ritratto
della Madonna del Latte. Su di esso, la Vergine è rappresentata a seno
nudo intenta ad allattare il piccolo Gesù. Al cospetto della Vergine
compare un’altra figura adorante, un vecchio, di certo un santo.
L’Uomo infila la chiave nella serratura. Dopo il terzo scatto, apre la
porta e scende in cantina. Percorre il breve tunnel di mattoni e muffa
che conduce all’esterno, nel lato in ombra della corte.
Sebbene sia una casa di campagna, non ci sono animali in cortile.
Nessun gatto, capretta o gallina. Però non appena l’Uomo compie un
passo sul selciato, un concerto di guaiti disperati si leva dal casotto di
lamiera che si trova vicino al salice.
Un trattore sta passando lì davanti. Siccome la strada è stretta, si è
creata una breve coda di macchine. L’Uomo aspetta finché quella
processione di automobili non si allontani del tutto.
Quando i cani sentono che l’Uomo è accanto alla loro prigione,
iniziano ad abbaiare uno sull’altro. Saltano contro le pareti di latta, e
il rumore degli unghioni che graffiano il metallo sembra lo stridere
della pietra mentre affila la falce.
L’Uomo slega il nodo del sacco. Apre di una spanna appena la
porticina del capanno. Due meticci un po’ più grossi degli altri
infilano il muso nella fessura. Occhi lucidi cerchiati da nastri rossi
d’infiammazione e tristezza.
L’Uomo spinge dentro i cani con un calcio. Si sporge a sua volta
all’interno, quindi vuota il contenuto del sacco. Stracci zuppi di
sangue e grumi di materia viscida scivolano per terra, fra escrementi
calpestati, fango nero e sporcizia. Il tanfo di morte copre l’odore delle
bestie.
Per qualche istante i cani non reagisco. Poi due cuccioli si
avvicinano ai rifiuti appena scaricati, e iniziano a leccare.
“ Più di questo non posso darvi” mormora l’Uomo. “ Fatevelo
bastare.”