Afferrare la croce del coraggio

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Afferrare la croce del coraggio
Afferrare la croce del coraggio
S. Messa per l’Esercito Italiano
Roma - Basilica Ara coeli, 24 ottobre 2011
Carissimi,
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni
giorno e mi segua» (Lc 9,23). Il Vangelo, ora ascoltato, ricorda che l’identità cristiana ha un
prezzo da pagare ogni giorno. Un prezzo possibile se guardiamo il Signore Gesù. Ci sono
due impostazioni di vita: quella di Dio che prevede la croce, indicando la rinuncia a se stessi
per farsi dono agli altri e quella del mondo che esclude ogni croce, mettendo al centro l’io
nell’orizzonte del relativismo e del materialismo, incapace di generosità e dedizione.
Prendete la croce quotidiana: dice Gesù. Non portate la croce, che significa la
condizione di chi piega le spalle sotto il peso della necessità, ma prendete la croce come
scelta motivata da una profonda convinzione interiore.
Sappiamo bene che c’è croce e croce. Ci sono “croci dannose”: quelle senza Cristo,
che costruiamo con il nostro egoismo e che poniamo sulle spalle degli altri. Oggi sono in
molti a dire si a Dio. Ma dopo gli affari, il denaro, il prestigio, le persone e le cose. Quando
c’è tempo.
Ci sono “croci sprecate”: quelle subite con ribellione e risentimento e alimentate dai
propri e altrui errori. Ma ciò pone Dio ai margini dell’esistenza e lo esclude dalle scelte
quotidiane.
Ci sono “croci salvifiche”, necessarie per seguire il Signore, essere a lui fedeli e
costruire una società più giusta e umana. Dio fa appello al cuore e bussa instancabilmente
alla porta della nostra libertà per consegnarci amore.
Sono queste ultime le croci che la famiglia militare vive quando le solleva dalle
spalle dei più deboli e indifesi.
Cari amici, sono qui per dirvi grazie perché siete sempre pronti a difendere la vita dei
cittadini e della famiglia umana. Estranei alle ragioni di ogni guerra, la famiglia militare si
riconosce nella cultura della vita al servizio del bene comune. Nulla di più terribile per un
militare scoprire che le ragioni della sua professione sono falsate e non orientate dalla
nobiltà della sicurezza e della pace.
In quest’ora di preghiera desidero aprire con voi l’animo a Dio e ascoltare nel segreto
della coscienza le vostre delusioni quando dinanzi alle persone vedete prevalere la morte e
non la vita, l’offesa e non il rispetto, il rifiuto e non l’ospitalità. Penso a voi soldati che
operate in terre martoriate, ai nostri feriti che per situazioni fisiche o psicologiche, dovranno
rinunciare ai loro progetti di vita; alle famiglie distrutte dei nostri giovani caduti.
Mi chiedo se la morte di innocenti e colpevoli affidata alle moderne tecnologie e
decisa a tavolino sia l’unica via per risolvere le questioni dello sviluppo e della pace. Se non
bisogna, invece, prendere la croce del coraggio e della determinazione soffrendo e
lavorando insieme su alternative diplomatiche, sul recupero di una legislazione mondiale e
sul rafforzamento di organismi internazionali perché si procuri più concordia, stabilità
sociale e solidarietà.
Noi militari abbiamo una fede profonda e vogliamo essere autentici testimoni di
Cristo nel nostro ambiente. Non possiamo né dobbiamo odiare. Dice Gesù: «Amate coloro
che vi odiano; fate del bene a quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44). Il militare cristiano non
cerca di far del male per vendicarsi o per soddisfare il proprio odio; interviene solo per
difendere la patria e la famiglia umana, e lo fa a malincuore, perché è necessario. Così cessa
di far del male al nemico, appena questo male non è indispensabile alla difesa della sua
causa. La civiltà cristiana ha introdotto nelle guerre uno spirito di umanità che ispira il
diritto internazionale contemporaneo. Non si possono, perciò, uccidere i feriti, che vanno
curati. La difesa esige che metta il nemico fuori combattimento. Appena il risultato è
ottenuto, l’altro diventa un prossimo da assistere; la morale della guerra impone che si
faccia di tutto per aiutarlo, e, se muore, seppellirlo con onore (cfr. Jacques Leclercq, Ritorno
a Gesù, Paoline, p. 190).
Non condividiamo, perciò, le barbarie che sono frutto del peccato. Le immagini della
morte di dittatori inquietano e ricordano che un militare non deve mai abbandonare i
sentimenti di pietà per il corpo colpito a morte. L’umanità non può cedere a vendette feroci
e vergognose e la logica della prepotenza e dell’arroganza non deve seminare atrocità e
violenza, perché così non si costruirà la democrazia né si promuoveranno diritti umani.
Invece desidero richiamare l’amore con cui le nostre Forze armate soccorrono le
vittime dei terremoti e delle alluvioni, come pure i profughi, mettendo a disposizione dei più
deboli umanità, coraggio e competenza. «Penso all’esercizio della carità nel soldato
impegnato a disinnescare mine, con personale rischio e pericolo, nelle zone che sono state
teatro di guerra, come pure al soldato che, nell’ambito delle missioni di pace, pattuglia città
e territori affinché i fratelli non si uccidano fra di loro. Vi sono tanti uomini e donne in
divisa pieni di fede in Gesù, che amano la verità, che vogliono promuovere la pace e si
impegnano da veri discepoli di Cristo a servire la propria Nazione favorendo la promozione
dei fondamentali diritti umani dei popoli» (Benedetto XVI, Discorso agli Ordinari militari,
22 ottobre 2011).
La vera pace è frutto della giustizia, garanzia legale che vigila sul pieno rispetto dei
diritti e doveri e sull’equa distribuzione dei benefici. Ma poiché la giustizia umana è esposta
agli egoismi personali e di gruppo, va esercitata con il perdono che risana le ferite e
ristabilisce i rapporti umani turbati. La forza senza la giustizia rende la verità disprezzabile.
Ecco perché vale la pena rieducarci allo spirito di corpo, alla ricchezza dell’amicizia, a stare
insieme senza formalismi, ipocrisie e ritualismi solo per compiacere chi conta agli occhi
degli uomini. Il nostro Esercito ha bisogno di calore umano, di affetto reciproco, di
costruttivo dialogo, di quello spirito di pace che unisce: queste parole sono ispirate al
magistero pontificio di Giovanni XXIII, che viveva in un tempo non meno complesso del
nostro. Basti ricordare le centinaia di ragazzi che vedeva morire nelle retrovie dove era
cappellano; il rumore della rivoluzione staliniana ben udibile dalla Bulgaria del primo
decennio dopo la morte di Lenin: i più drammatici racconti e documenti sullo sterminio
degli ebrei; il sostegno alla democrazia francese e alla nascita dei nuovi organismi della
diplomazia multilaterale.
Papa Giovanni è un beato da imitare più che da ammirare. Perciò come augurio per il
futuro delle nostre Forze armate propongo uno stralcio di una lettera scritta dal giovane
Roncalli al fratello Saverio, anch’egli soldato: «Coraggio fratello mio. Tieniti pronto a tutto;
colla coscienza pura, con sante Comunioni ben fatte, con abbandono assoluto nel Signore,
che è la nostra forza e la nostra salvezza; colla coscienza e con la prontezza a compiere tutto
il tuo dovere con semplicità e ad ogni costo, guardando Dio che ci guarda e ci conforta. Ad
altri le chiacchiere: per noi il nostro sacrificio. Così si ama la Patria, e non come tanti che
l’hanno sempre in bocca e mai nel cuore... (Bergamo, 6 gennaio 1918)».
La Vergine, regina della pace, protegga noi e la famiglia umana. Amen.
+ Vincenzo Pelvi
Arcivescovo