Intervento - Fondazione Giovanni Agnelli

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Intervento - Fondazione Giovanni Agnelli
SEMINARI EUROPEI, 1
VISTA DA BERLINO E DA PARIGI: LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA EUROPA
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI - TORINO, 12 NOVEMBRE 2001
Intervento
Giuseppe Sacco
LUISS - Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli, Roma
La tentazione, da parte di quasi tutti i soggetti politici internazionali, di cogliere
l'occasione storica dell’attacco alle Torri Gemelle per sottolineare l'importanza degli obiettivi
che ciascuno ha già portato avanti in passato, non risparmia – come è ovvio – neanche coloro
che hanno, spesso con appassionato convincimento, sostenuto il processo di unificazione
europea. Ed infatti è stato detto e ripetuto negli ultimi mesi del 2001 che "siccome ci troviamo
di fronte a una nuova sfida è assolutamente urgente che organizziamo anche noi una politica
comune per la difesa contro il terrorismo". A questa tentazione pare però pericoloso cedere,
perché rischia di banalizzare e quindi di perdere l’insegnamento che, sull’evoluzione della
realtà mondiale, viene dal crimine commesso a New York e Washington dagli estremisti
islamici Una crisi latente del processo di unificazione europea era infatti già in atto, ed essa è
divenuta manifesta in tutta la sua gravità, con il dispiegarsi, in tutta la sua chiarificatrice
violenza, della reazione dell’America al proditorio attacco di cui è stata vittima. Qualcuno ha
scritto che l'11 settembre è un evento apocalittico. Si tratta naturalmente di un’altra delle tante
iperboli retoriche suscitata dallo sconvolgente spettacolo del crollo delle Torri. Ma è una
espressione che si può riprendere per ricordare che l'Apocalissi è una rivelazione: un evento
che mostra a tutti ciò che prima era invisibile.
Gli eventi dell’autunno-inverno 2001 sono dunque come un lampo che ha squarciato la
notte ed ha fatto vedere che gli europei erano intenti ad organizzare, il più cartesianamente
possibile, la distribuzione delle sedie a sdraio sul ponte del Titanic, mentre questo andava
dritto verso un iceberg. Il lampo ci ha fatto vedere questo iceberg.
Fuori dalla metafora, la situazione che gli Europei stavano vivendo nello scorcio d’anno
precedente il gennaio 2002, era una situazione di avanzata verso una destinazione densa di
incognite e di difficoltà, insite nel progetto stesso di Maastricht e nel rapporto tra mezzi e fini
per i quali era stato stipulato l'accordo sulla moneta unica. Gli europei erano già sul punto di
affrontare una congiuntura estremamente problematica, di cui anche se già non mancavano
ragioni per essere molto inquieti - erano poco consapevoli, ma che ora è stata vista con
chiarezza.
Costruire con le crisi.
Perché ci siamo vincolati all’Euro? Perché abbiamo ignorato l’osservazione mille volte
ripetuta che la moneta unica senza unità politica è praticamente impossibile, che non si è mai
visto avere successo, e comunque non è mai durata nel tempo, un'unità monetaria che
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comprendesse più Stati sovrani?1 La risposta a queste domande è sempre stata che, una volta
realizzata l’unità monetaria, saremmo stati costretti dalla dinamica stessa delle cose a mettere
in comune anche gli altri aspetti della nostra vita e della nostra società, senza i quali era
impossibile mantenere la coesione imposta dalla moneta comune. E, in primo luogo, saremmo
stati costretti ad armonizzare prima, e poi ad unificare le politiche economiche e quelle fiscali,
e successivamente, tutta una serie di altre cose.
Ciò significa, in termini più espliciti, che ci siamo vincolati a progredire sulla strada
dell’unità europea malgrado i dubbi e le ostilità che noi stessi prevedevamo di avere in futuro.
C’è un modo di dire francese che descrive bene l’audace operazione tentata dagli Europei:
"gettare il cuore oltre l’ostacolo". Abbiamo preso un impegno per obbligarci a superare un
ostacolo di fronte al quale sapevamo che inevitabilmente avremmo, all’ultimo minuto, esitato.
In un certo senso – com’è confermato dal fatto che il Trattato per la Moneta unica non
preveda la possibilità di recesso - ci siamo tagliati i ponti dietro le spalle, per lasciarci come
unica strada aperta quella che porta verso l’unità politica. Ma ciò significa che ci siamo
avviati ad una costruzione dell’Europa che può passare solo attraverso crisi successive. In
pratica, ci accorgeremo a un certo punto che siamo vincolati dall’Euro, ce ne accorgeremo in
modo drammatico, per cui o coordineremo le politiche economiche, o dovremo affrontare una
crisi ed un crollo. E' stato un modo di forzare noi stessi a progredire, mettendo in moto
un’inarrestabile locomotiva che corre su un binario che in gran parte resta ancora da costruire.
E, per evitare un disastro, dovremo, mentre il treno corre, buttare avanti alla locomotiva dei
pezzi di binario. Ciò ci consentirà – forse – di continuare fino a destinazione, ma implica il
rischio di romperci il collo ad ogni passo, perché non è detto che tutte le acrobatiche opere di
ingegneria necessarie perché il treno continui la sua corsa riescano sempre, e sempre nei
tempi giusti.
Come si spiega l’aver scelto una strategia così pericolosa? Si spiega con la
consapevolezza di due statisti (o meglio, bisognerebbe dire, di due uomini politici che
volevano andare al di là della dimensione dello statista, per entrare in quella dei costruttori
dell’Europa), di fronte alla gravità della situazione in cui si trovava il Vecchio continente;
della consapevolezza di una situazione dal doppio rivolto critico: quello dovuto alla
marginalità delle Nazioni rispetto ai grandi processi politici ed economici mondiali, e a quello
che viene dalla evidente incapacità dell’opinione pubblica europea di prendere coscienza di
tale stato di marginalità. La strategia di Maastricht nasce quando Kohl e Mitterrand avvertono
che, perché l’Europa riprenda il cammino, è necessario che essa passi attraverso una serie di
shocks, che hanno come alternativa solo una caduta ancora più in basso.
All’origine della strategia di Maastricht e della partita estremamente rischiosa di
"costruire con le crisi", c'erano due leaders – fortemente rappresentativi della loro intera
generazione - che capivano che il mondo stava cambiando e che quelli che sarebbero venuti
dopo di loro non avevano né la salutare esperienza storica della catastrofe dell’Europa, né la
coscienza piena di quanto fosse ambizioso l’originario progetto comunitario, né la misura di
come la situazione mondiale non fosse più favorevole alla continuazione del progetto che gli
anziani leaders avevano cercato di portare avanti durante la loro permanenza al potere.
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A questa regola c’è una sola eccezione: l'unione monetaria dell'Africa Occidentale, ma quella è
un'organizzazione coloniale della Francia che tiene il cambio fisso con questo franco CFA. Ma quella è una
fictio. Perché è fittizia l'indipendenza di quei paesi.
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Questi due uomini politici si sono perciò risolti – con una scelta quasi disperata – a
compiere in maniera estrema la classica operazione con cui tutti i grandi politici tentano di
impegnare i loro successori a politiche destinate a perpetuare le loro scelte. Abbandonando "il
metodo europeo" della permanente ambiguità e instabilità istituzionale, essi, con la moneta
unica, hanno cristallizzato la situazione in maniera dichiaratamente irreversibile. Non si tratta
di un’operazione nuova. Anzi, è classico dell'uomo politico che è riuscito a costruire qualcosa
nella sua vita, di cercare di creare una situazione per cui il suo successore non potrà che
continuare nella sua strada, sarà obbligato a continuare e magari a portare più avanti lo stesso
progetto. Di questo comportamento si potrebbero citare molti casi. Ed è questo un
comportamento che è profondamente umano, ma anche squisitamente politico. Costruire per
le generazioni successive è il massimo dell’ambizione politica, l’ambizione dei politici veri
non di quelli che cercano soltanto il potere.
Nel caso di Kohl e Mitterrand, però, si deve notare che, per la stessa natura
straordinariamente innovativa del progetto europeo, si è lasciata ai successori un'eredità
difficilissima, ed un vincolo che li condanna ad andare avanti attraverso una serie di traumi,
una serie di crisi successive. E per di più, siccome nessuno – neanche i grandi uomini di Stato
– ha il monopolio dell’iniziativa politica, accade che noi, oggi, ci troviamo a affrontare il
passaggio all'Euro, e ad entrare nel periodo in cui saremo confrontati ad un’emergenza dopo
l’altra, nel quadro di uno sconvolgimento assai grande della situazione internazionale.
Questa non può essere una sorpresa: ogni progetto per il futuro viene inevitabilmente
posto in essere in una situazione che per l’iniziativa di altri soggetti estranei, è diversa da
quella esistente al momento in cui il progetto è stato concepito e da quella allora ipotizzata
come probabile per il momento in cui esso fosse stato posto in essere. Ciò non significa, però,
che il progetto debba essere interrotto, o abbandonato. È, infatti, buona regola che quando si è
impegnati in un lavoro non bisogna farsi distrarre dagli eventi esterni, e cercare di portarlo
avanti finché è possibile. Altrimenti, se si cerca di cambiare strada ogni volta che cambia il
vento, non si combina niente. Questa regola va però applicata razionalità e con coraggio, nel
senso che non deve essere un pretesto per essere ciechi, per evitare di accettare i fatti nuovi
che mettano a rischio la propria tranquillità intellettuale, la serenità che viene dal compiere
seriamente e accuratamente il proprio lavoro, sempre lo stesso lavoro, con coerenza politica e
morale. Quando sono in ballo i destini collettivi, bisogna saper dare lo stesso peso alla
continuità degli obiettivi e dell’azione quanto alla presa d’atto del mutare delle circostanze.
È facile vedere che con gli "apocalittici" avvenimenti di fine 2001, ci troviamo di fronte
a una situazione in cui elementi di novità sono innegabili, anche se mescolati e confusi con la
retorica del "nulla è più come prima" ripetuta da ogni parte da soggetti politici che cercano di
spingere i loro interessi e programmi tradizionali, indicandoli come la soluzione ai nuovi
problemi emersi dopo l’11 settembre, cioè da tutti coloro che hanno reincartato con giornali
post 11 settembre il pesce vecchio dei mesi precedenti. In ogni nuova situazione continuare a
combattere per gli obiettivi tradizionali con mezzi tradizionali può essere sbagliato e
controproducente. Ci sono casi in cui bisogna sapersi adattare alle mutate circostanze. Come
si dice, ci sono occasioni in cui il fuoco non si può combattere solo con l’acqua, ma occorre
combattere il fuoco col fuoco. Analogamente, ci sono anche casi in cui, non si può continuare
a combattere il nuovo col vecchio, ma ci sono casi il cui il nuovo si combatte solo col nuovo.
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Il ritorno della Russia.
Per quel che riguarda l'Europa, molte latenti novità sono diventate in questi ultimi mesi
evidenti. E' chiaro, in primo luogo, che il Presidente russo Putin sta portando avanti un
disegno generale di rilancio della politica estera del proprio paese, che lo guida con mano
assai più ferma – e soprattutto più abile – di quella del suo predecessore, e che da ultimo ha
saputo sfruttare egregiamente l’occasione storica offerta dalla guerra afghana. Sicché la
Russia, che ancora un anno fa appariva come una sorta di nuovo "uomo malato d’Europa", il
cui "fardello" la Ue e la Germania in particolare dovevano incaricarsi di portare, è tornata a
essere un attore di primo piano.
La guerra in Afghanistan ha consentito a Mosca di dimostrare che nella propria zona di
immediata influenza sono saldamente incluse non solo le Repubbliche dell’Asia centrale sino
al vecchio confine del Amu Darya, ma anche la parte nord dell’Afghanistan. Putin ha
dimostrato di essere in grado di rendere disponibile quell’area all’uso delle forze militari
americane senza che gli Stati post sovietici ne risultassero automaticamente infeudati agli
USA; ha dimostrato cioè di avere – tramite i suoi ex colleghi del KGB oggi al potere nelle
repubbliche centro-asiatiche – un controllo tanto forte da poterlo usare addirittura usare in
maniera elastica. Per di più, dopo che si era dimostrato che la cosiddetta "Alleanza del nord"
era indispensabile per sfruttare sul terreno gli effetti dei bombardamenti a tappeto (e che era
l’unica che potesse farlo), Putin ha saputo utilizzare le forze tagiche ed uzbeche, che dalla
Russia sono da sempre armate ed ispirate, secondo uno schema già mostrato alla fine della
guerra del Kosovo, quello del blitz per essere primi al centro del teatro dello scontro e della
vittoria. E Mosca ha così dimostrato di essere seriamente intenzionata a mantenere nella
propria ombra tutta quella parte dell’Afghanistan dove i frutti della fulminea conquista
potranno essere consolidati.2 Specie dopo la fiera indipendenza nei confronti della stessa
America che i Pashtun, dell’uno e dell’altro campo, quello dei vincitori e quello degli
sconfitti, hanno ancora una volta dimostrato con l’Accordo di Kandahar, è evidente che la
Russia è diventata l’ago della bilancia negli equilibri venutisi a creare tra le forze locali e
quelle esterne dopo la guerra anti-terrorismo (e anti-islamica) condotta dagli Americani in
Afghanistan.
È questa, come è noto, un’area di estrema importanza geopolitica, non solo perché
attorno ad essa si è consolidato un "triangolo" tra Russia, Cina e Repubbliche ex sovietiche
dell’Asia centrale, ma anche per le preziose risorse di idrocarburi che contiene.
Contemporaneamente, perciò, la Russia ha acquisito un ruolo preminente anche sul fronte del
petrolio.
È questo un fronte sempre aperto per il mondo occidentale, importatore netto di energia,
e ancora di più per i paesi di nuova industrializzazione come la Cina, dove gli idrocarburi
mancano in maniera ancora più grave, ed è un fronte fortemente esposto ai contraccolpi dei
conflitti che sistematicamente scuotono i rapporti tra Occidente e mondo islamico, come di
nuovo accade nel primo inverno del nuovo secolo. In un momento in cui l’Opec ha tenuto
deliberatamente separata la questione del prezzo del petrolio dai due conflitti contemporanei
dell’Afghanistan e della Palestina, Mosca, secondo esportatore mondiale di idrocarburi, è
venuta perciò a trovarsi in una posizione assolutamente determinante. L’OPEC ha infatti
2
Soprattutto le componenti Usbeca e Tagica, ma non quella Farswee e quella degli Hazara Sciiti, su cui in
diversa maniera prevale si esercita l’influenza iraniana.
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attuato, nei primi mesi del 2001, tagli di produzione per sostenere il prezzo del petrolio, che
tendeva a scendere sin dalle prime avvisaglie della recessione economica. Il Cartello, perciò,
copre ormai solo un terzo del mercato ed è chiaro che senza riduzioni di produzione anche da
parte degli esportatori non membri, non è più in grado di governare i prezzi delle risorse
energetiche, o almeno non lo è in questo frangente, senza rischiare di danneggiare se stesso.
Un nuovo taglio, non seguito dai non membri dell’OPEC, potrebbe infatti far diminuire le
entrate dei paesi membri, facendo profittare solo chi continua a vendere.
Ma la riduzione della produzione degli esportatori non Opec - come esplicitamente
dichiarato da Messico e Norvegia, altri importanti esportatori non OPEC - dipende dalla
decisione di analoghi tagli da parte del governo russo e degli oligarchi che si sono impadroniti
delle risorse energetiche delle ex URSS. Se i Russi, e quindi i produttori non OPEC,
decidessero di non seguire la linea del sostegno ai prezzi decisa dal cartello, i paesi
industrializzati, e in primo luogo gli USA, sarebbero naturalmente assai in debito nei
confronti di Mosca, perché i bassi prezzi dell’energia sono l’unico aspetto positivo della
attuale cattiva situazione congiunturale, ed un loro aumento allontanerebbe ancora di più le
speranze di ripresa. La tentazione di una politica petrolifera che trasformi la Russia in un
fornitore in grado di controbilanciare i Paesi islamici, ed avvicini ancora di più le due ex
potenze rivali è quindi assai forte sia a Mosca che a Washington.
I paesi più danneggiati da questa situazione sono, naturalmente, i membri dell’OPEC e
in primo luogo l’Arabia Saudita. Non che la Russia possa davvero sostituire il Regno
Wahabita come protagonista del mercato petrolifero mondiale. Le riserve di idrocarburi
recuperabili nell’immenso territorio dell’ex-Unione Sovietica sono infatti incomparabilmente
più ridotte di quelle del Golfo Persico, che rimane perciò – nel lungo periodo – la cassaforte
energetica del pianeta. E a ciò si aggiungono, nell’immediato tutta una serie di ostacoli
obiettivi – in particolare impianti tecnicamente obsoleti e molto malandati – ad un forte
aumento dell’export russo di petrolio. Ma nel medio periodo, se ben giocate politicamente, le
carte energetiche della Russia possono rivelarsi decisive, e per i prossimi 5 o dieci anni – un
tempo lunghissimo nel gioco internazionale della potenza – potrebbero bastare a sottrarre
all’Opec la centralità e grande parte del potere che tuttora essa detiene sul mercato
internazionale degli idrocarburi.
Rhiyad e gli altri membri del cartello potrebbero però a loro volta contrattaccare enell’immediato – potrebbero farlo in una maniera che sarebbe ben accetta ai consumatori
occidentali, ma devastante per la Russia. Con un aumento di produzione essi potrebbero
infatti far cadere i prezzi, e tenerli tanto a lungo al di sotto del costo di estrazione del petrolio
russo (che è di poco meno di 10 dollari il barile, contro circa 2 nel Golfo persico), da spezzare
il fragile benessere di cui la Russia ha goduto negli ultimi tempi, e che Putin ha saputo tanto
abilmente sfruttare sia per mantenere quel minimo di consenso interno di cui non può fare a
meno, sia per giocare le proprie carte sullo scacchiere centro-asiatico. Sono infatti queste
risorse che hanno fatto la differenza tra il blitz dell’Armata del Nord – che è riuscita a
prendersi mezzo Afghanistan – e quello dei paracadutisti russi in Kossovo, sulla cui brillante
manovra l’estrema povertà di riserve gettò un’ombra assai triste.
Questi contrastanti elementi finiscono per indicare che la Russia, se fa una politica che
la espone a un tale catastrofico rischio, deve aver avuto assicurazioni da Washington
relativamente al sostegno alla sua pesante posizione debitoria da parte delle organizzazioni
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finanziarie internazionali, dominate dagli Americani. In altri termini, ciò significa che Mosca
ha ormai con gli USA una "special relationship". Ne è in pratica l’alleato privilegiato.
A questa situazione che – come si è visto – è fondata su elementi a breve termine e tutti
reversibili, e che quindi lascia ancora un notevole potere di manovra ai paesi petroliferi araboislamici – si aggiunge però una trasformazione che tende a potenziare in maniera strutturale il
ruolo della Russia sul mercato del petrolio. E questa trasformazione sta nel fatto che la guerra
ha fortemente sbilanciato a favore della Russia il "grande gioco" in atto sui tracciati delle
pipelines attraverso le quali saranno messi sul mercato mondiale gli idrocarburi della zona
caspica. La grande perdente in tutto ciò è la Turchia. Per la quale si allontana la possibilità di
diventare il gatekeeper delle risorse della sponda occidentale del Caspio e ancor più quelle
della sponda orientale.3
Il terzo scacchiere – oltre a quello centro-asiatico e a quello petrolifero – in cui la
Russia viene ad avere un ruolo cruciale, è quello della Nato, che ha subìto con la guerra
afghana un colpo durissimo. Non che la Nato non fosse già da dieci anni almeno un’entità
sopravvissuta a se stessa e alla sua funzione, un’organizzazione che solo l’inerzia burocratica
impediva di sciogliere. Era un’organizzazione che con le guerre balcaniche era riuscita a
procurarsi almeno un simulacro di funzione, ma che con l’apocalisse delle Torri Gemelle è
stata investita da una crudele luce di verità. Il tira e molla sull’articolo 5 ed infine la decisione
americana di "fare da sé" nella guerra afghana hanno dimostrato che la presa d’atto
dell’inutilità della Nato nella sua concezione tradizionale non è più rinviabile.
Naturalmente su ciò non sono d’accordo i paesi dell’ex blocco sovietico, che vedono le
cose da un punto di vista diverso. A Budapest, Praga, Varsavia e – in maniera più ambigua anche a Kiev, la fine della "caduta libera" di Mosca nella gerarchia internazionale del potere
ravviva paure mai sopite ed evoca memorie che un decennio di indipendenza non è certo
bastato a cancellare. Paure forse eccessive, perché probabilmente Mosca limita oggi le sue
ambizioni nell’Europa orientale ad un probabile recupero della Bielorussia e ad una relazione
"aperta sul futuro" con l’Ucraina, oltre ad un ruolo di "grande alleato", di "fratello maggiore"
con la Slovacchia, la Serbia e la Bulgaria. Pur continuando ad opporsi ad un legame troppo
stretto tra le tre Repubbliche baltiche e l’Occidente, Mosca è oggi probabilmente disposta
lasciare che su Cechia, Slovenia e Croazia, e in minor misura su Polonia e Ungheria, si
eserciti l’attrazione di una Germania che dovrà ridimensionare le sue ambizioni "postcomuniste" di satellizzare – col favore dell’allargamento dell’UE – quanto più possibile di ciò
che si trova ad oriente dell’Oder, cioè dell’Europa centro-orientale, danubiana e balcanica.
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Oltre alla Turchia, che della Russia è il vero rivale – soprattutto come gatekeeper, come custode delle pipelines
per l’evacuazione del petrolio dell’Asia centrale, ma anche come "sceriffo" del mondo islamico – nella
geopolitica del petrolio ci sono altri perdenti, anche se in minor misura. Oltre all’e pipelines dirette a Ceyhan,
infatti, va questo punto va interamente ripensato, almeno dal punto di vista politico, il progetto saudita di
esportare il gas turkmeno verso il tradizionale hub del mercato dell’energia che è il Mar arabico. Questo
progetto, che fu all’origine del sostegno saudita e pachistano ai talebani, e che mirava a tenere il più possibile il
centro degli approvvigionamenti energetici mondiali nell’area anche strategicamente dominata da Arabi e
Persiani, ha infatti una sua forte razionalità in un mondo di commerci liberalizzati, in quanto non collega
consumatori e produttori di gas in maniera rigida, ma consente il trasporto via mare del gas liquefatto in impianti
costieri, e la sua offerta sul libero mercato mondiale. In altri termini, il sistema delle pipelines verso la Russia e
l’Europa tende a creare un mercato del gas assai rigido e distorto, mentre l’evacuazione verso il Golfo persico
tende a renderne meno imperfetto il mercato mondiale.
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In pratica, la sistemazione dei nuovi rapporti tra Russia ed Europa continentale potrebbe
avvenire attraverso una trasformazione radicale delle funzioni della Nato e dei suoi modi
operativi, che porterebbero la Nato ad essere non più un’alleanza, bensì un "sistema collettivo
di sicurezza".
La differenza tra i due concetti può essere chiarita con un esempio tratto dal recente
passato. Un’alleanza è infatti concepita in funzione di risposta o deterrenza rispetto ad una
minaccia esterna. Ed in questo senso, l’efficacia della Nato è stata estrema, tanto che gli
eserciti in essa integrati non hanno mia dovuto sparare un colpo fino al dissolvimento del
blocco antagonista. Altra cosa è un sistema collettivo di sicurezza, la cui logica è piuttosto
quella che ha di fatto presieduto al Patto di Varsavia. A differenza della Nato, gli eserciti
facenti parte di questo Patto sono stati attivati ben due volte, in occasione della rivoluzione
ungherese e della primavera di Praga, cioè contro due paesi facenti parte del blocco di cui
l’alleanza era il braccio militare, ma che rischiavano di passare sotto l’autorità di governi il
cui orientamento politico li avrebbe separati dal blocco stesso.
A differenza di un’alleanza, come quella Atlantica, quindi, un sistema collettivo di
sicurezza, come il Patto di Varsavia, è un tipo di coalizione internazionale particolarmente
adatto ad una strategia volta a combattere il terrorismo, che non aggredisce i Paesi membri
dell’alleanza dall’esterno, ma si manifesta al loro interno, con l’obiettivo di condizionarne la
psicologia e quindi l’atteggiamento e i comportamenti politici fino a determinarne la
trasformazione in società "nemiche" con cambio di governo e di forma istituzionale. Ciò
spiega il carattere paradossale dei sistemi collettivi di sicurezza, quello di essere diretto
principalmente contro i suoi stessi membri. Al limite, come nel caso del Patto di Varsavia, un
sistema collettivo di sicurezza è una coalizione di governi diretta contro i loro stessi popoli,
per il caso che questi volessero darsi un governo diverso.
Nella attuale congiuntura politica internazionale, tuttavia, la realtà del sistema collettivo
di sicurezza è più limitata. Per tutta una serie di motivi, ci troviamo oggi di fronte ad un
rifiuto della globalizzazione, così determinato da assumere carattere "eversivo" rispetto alla
logica stessa del sistema capitalistico nell’attuale fase storica. Questo rifiuto, che è diffuso –
ma molto minoritario - anche nei paesi sviluppati, è fortissimo nei Paesi islamici, che
finiscono per formare un blocco potenzialmente ostile e, per di più, in forte revival
demografico e identitario. La conflittualità è per molti aspetti aperta, ed i confini del mondo
islamico sono dovunque segnati da guerre (in Palestina, in Cecenia, nei Balcani, in Sudan, in
Kashmir, nelle Filippine, nelle Molucche, nel Turkestan cinese). Ed anche all’interno
dell’Occidente si manifesta una conflittualità latente attorno a comunità islamiche
rapidamente crescenti come conseguenza non solo dell’immigrazione ma anche del fenomeno
delle conversioni, il cui caso più significativo è quello dei neri americani che formano la
cosiddetta Nation of Islam. Il sistema collettivo di sicurezza Euro-russo-americano appare
insomma inevitabilmente diretto contro l’Islam sia fuori che dentro i confini stessi
dell’Europa, della Russia e dell’America. Non a caso si è cominciato a parlare, per la Nato, di
una struttura (detta 19+1), in cui la Russia sarà praticamente un attore esterno dotato di potere
di veto sulle decisioni prese collettivamente dai 19 membri dell’alleanza, le cui mosse
potranno finire per dipendere dalla Russia.
Come elemento di novità del sistema mondiale, non c’è però solo il riemergere della
Russia come possibile "perno" su cui potrebbero ruotare tre importantissimi sub-sistemi
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dell’ordine mondiale: il sistema geo-strategico dell’Asia centrale (che coinvolge a fondo
anche la Cina), il sistema petrolifero (che ha un ruolo determinante sugli equilibri interni
all’occidente), e il sistema militare euro-atlantico (destinato a garantire la sicurezza
dell’Europa occidentale e ancor più di quella orientale ex sovietica).
Un mondo gerarchizzato.
Anche visto dall’America, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il quadro mondiale appare
trasformato rispetto a quello che si era venuto delineando dopo la fine della Guerra fredda,
cioè nel periodo post-comunista, caratterizzato dall’estrema debolezza dell’ex-Urss, e dalla
delicata fase attraversata dalla Cina dopo – ma soprattutto prima – di Tien-An-Men.
Nel post-comunismo, scomparsa l’Urss, infatti, era venuta meno la necessità di
considerare che ogni crisi locale, in qualsiasi paese del mondo fosse, o potesse diventare, uno
scontro tra "proxies", cioè finisse per essere parte del più generale confronto Est-Ovest. Ciò si
applicava persino agli scontri tribali delle aree più arretrate. Le rivalità tra le tribù yemenite
portavano infatti alla nascita di due Stati yemeniti, uno filoccidentale e uno filocomunista,
mentre gli scontri tra le tribù della Somalia portavano al passaggio del Paese da un blocco
all’altro. Scomparso il confronto ideologico e di potenza, questi conflitti tribali erano diventati
irrilevanti e si era potuti così giungere alla riunificazione yemenita e al puro e semplice
disfacimento della Somalia, nel più totale disinteresse dell’Occidente (e ovviamente della
Russia). È questo il fenomeno del "fallimento" di Stati che in precedenza trovavano sempre
chi in extremis li salvasse. È stato questo il caso di buona parte dell’Africa, nel cui
disfacimento solo il Ruanda ha suscitato qualche interesse nella stampa occidentale, ma
nessun intervento, né proposta d’intervento. Neanche paesi dell’America Latina, come
Guatemala e Colombia, hanno suscitato attenzione nell’opinione pubblica e nei governi
occidentali, mentre guerre civili e guerriglie un tempo sponsorizzate dalle due superpotenze
venivano lasciate imputridire nel disinteresse generale.
L’11 settembre, il governo americano ed alcuni altri governi occidentali si sono trovati
di fronte al fatto che questi Stati "falliti" la cui irrilevanza politico-internazionale era totale
fornivano un terreno ideale per la maturazione, lo sviluppo e il rifugio di forze a-statuali,
principalmente a natura criminale ma talora anche a natura politica. Ma mentre quelle a natura
criminale, che utilizzavano le zone fuori da ogni vero controllo governativo per la produzione
della droga, potevano essere ignorate, perché una parte degli interessi coinvolti – quelli
prevalenti – sono profondamente inseriti nel meccanismo economico occidentale, ben
superiore era la pericolosità di quelle a natura politica: una pericolosità plasticamente e
tragicamente dimostrata dagli attentati portati al cuore del mondo occidentale.
La tripartizione del mondo tra Stati post-moderni, Stati moderni e Stati pre-moderni4
non può insomma più essere accettata nella sua interpretazione politica, che si traduceva nella
triade paesi "responsabili" (cioè i paesi occidentali e – tra essi – massimo esempio di
responsabilità sarebbero quelli che si arrogano il diritto tramite Echelon di controllare la
"moralità" nel modo di fare business di tutti i popoli del mondo), paesi "irresponsabili" (non
solo come la Jugoslavia e l’Iraq, ma i produttori di petrolio in generale), per i quali i primi si
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Vedi Cooper, The post-Modern State and the World Order, Demos, Londra 1996
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assumono la "responsabilità" di proteggerli (spesso contro se stessi), e paesi da abbandonare
puramente e semplicemente al loro destino.
Se si giungerà, come è verosimile, alla conclusione che non ci si può disinteressare
degli Stati falliti, i cui popoli si dimostrano incapaci di autogovernarsi, perché essi offrono il
terreno di cultura a quell’equivalente politico delle cavallette che è il terrorismo, è probabile
che si giunga alla conclusione che potenze esterne, più o meno su mandato dell’ONU,
dovranno farsi carico di garantire in questi paesi almeno la legge e l’ordine. In pratica, si
profila la possibilità di un ordine mondiale ispirato al modello della ILO (International Locust
Organisation), che dai satelliti e dagli aerei controlla le zone dove si formano gli sciami di
cavallette e interviene a bombardarle prima che possano estendersi alle zone abitate e
coltivate
Non a caso da più parti si è parlato di un "ritorno del Commonwealth", o di un rilancio
del colonialismo, riprendendo una tesi che peraltro era già stata lanciata otto anni fa dallo
storico di fama mondiale Paul Johnson5. E una volta entrati in questa logica, si può pensare
che anche altri Stati mettono a rischio l’ordine mondiale, non tanto o non solo perché
forniscono un terreno favorevole alla nascita di forze globali a carattere eversivo, ma
semplicemente perché detengono quote assai forti di risorse indispensabili al buon
funzionamento della società occidentale. Questi Stati "pericolosi" semplicemente perché
ricchi di preziose materie prime potrebbero perciò essere sottoposti a forme di tutela simili a
quella applicata oggi in Iraq, o puramente e semplicemente ricalcate sul modello degli imperi
dell’inizio del secolo.
Il mondo islamico nel suo complesso, e non solo i paesi ricchi di petrolio, potrebbe
rientrare nella parte del mondo di cui i paesi "responsabili" potrebbero decidere di farsi carico.
Se infatti gli Stati "falliti" offrono il terreno ideale perché si sviluppino movimenti eversivi
dell’ordine mondiale, non è un mistero per nessuno che molti di questi movimenti nascono
politicamente dalla grande frustrazione che l’intera "Umma", la comunità dei credenti nella
predicazione di Maometto, prova di fronte all’espansione della cultura e dei modi di vita
occidentali all’intero pianeta.
La minaccia terroristica di Al Quaeda è certo stata schiacciata ed è improbabile che le
cellule sopravvissute di questo cancro riprendano a proliferare. Ma ciò non significa che sia
stato risolto il problema del "rifiuto islamico" nei confronti dell’occidentalizzazione a tappe
forzate. Al contrario, la nuova umiliazione inflitta dagli anglo-americani ad un leader
terrorista che godeva di un largo consenso nelle piazze del mondo islamico non può che
accrescere tale frustrazione. I regimi arabi "moderati", in primo luogo quello Saudita, che da
Bin Laden erano direttamente minacciati, sono stati praticamente salvati nell’immediato, ma
non certo rafforzati nei confronti né delle masse e né delle élites islamiche. La fragilità di
questi regimi, unita alla centralità delle loro risorse petrolifere, per il benessere
dell’Occidente, pone quindi il problema se la garanzia della legge e dell’ordine sul loro
territorio non tocchi alla comunità internazionale e, per essa, alle potenze occidentali, o
meglio a quelli – tra i paesi "responsabili" – che per una ragione o per l’altra meglio si
adattino a svolgere tale ruolo.
Il ruolo che da alcune parti si cerca di dare alla Turchia, come poliziotto del mondo
islamico, può rientrare in questa logica, anche se il governo turco, che sembra più legato – pur
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Vedi "Colonialism’s back", in NYT Magazine del 18-4-93
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nelle sue ambizioni annessionistiche nei confronti dell’Iraq del nord – ad un modello di Stato
nazionale inventato da Ataturk, che non a quello del califfato che verrebbe così ad essere
riesumato. E certo ci troveremmo qui di fronte ad una strana ironia della storia se proprio con
qualcosa di molto simile all’impero turco si finisse per garantire il controllo di un mondo
globalmente occidentalizzato sulle riottose popolazioni islamiche. Si concluderebbe così
l’attacco di Bin Laden all’occidente giustificato, nelle sue stesse parole, con le umiliazioni che
l’Islam ha subìto proprio dopo la fine del califfato
A geometria variabile.
Al superamento del modello "a tre livelli", verso il quale la realtà è parsa andare alla
deriva nel decennio post-comunista si accompagna un riposizionamento degli Stati Uniti
rispetto alla situazione mondiale: un riposizionamento da cui appare evidente che le
costruzioni di alleanze regionali (di sistemi sub-mondiali) stabili e statiche hanno un ruolo
nettamente inferiore al passato.
Rinunciando a far scattare l’Alleanza atlantica, gli Usa hanno infatti dimostrato di
preferire – contro Bin Laden e l’estremismo islamico – la costruzione di una coalizione ad
hoc, che di fatto comprende le tre grandi potenze con interessi asiatici, cui sta tentando di
aggiungersi l’India, più i paesi islamici "moderati". È chiaro tuttavia che, se dopo la sconfitta
dei Talebani, la guerra al terrorismo dovesse proseguire con un attacco alla Somalia, ci
potrebbe essere (una volta superata l’ostilità inglese) una coalizione con l’Italia, e – se
toccasse al Sudan – con l’Egitto. Nel caso di una ripresa della guerra con l’Irak, la coalizione
sarebbe probabilmente ancora una volta diversa. E non potrebbe essere diversamente, perché
non esistendo una opposizione a Saddam Ussein comparabile, dal punto di vista militare,
all’Alleanza del Nord, sarebbe inevitabile coinvolgere truppe turche. Della coalizione anti
Saddam finirebbe poi per fare parte inevitabilmente anche lo Stato ebraico perché è più che
probabile che Saddam risponda ad un attacco occidentale facendo fuoco su Israele, in modo
da coinvolgerla direttamente nella guerra, e rendere assai difficile agli Arabi "moderati" di
restare nella coalizione a lui avversa. Anche per il caso di un contraccolpo islamista in
Pakistan, peraltro, era previsto un blitz congiunto israelo-americano tendente ad impossessarsi
o distruggere il potenziale nucleare di questo paese islamico.
Negli ultimi mesi è apparso chiaro che la posizione dell’America nel mondo non è
comparabile alla situazione di Roma dopo le guerre Puniche, quando più nulla se non qualche
irrilevante staterello tribale si opponeva al suo dominio dalla sponda dell’Atlantico all’impero
persiano. Quella odierna dell’America è una situazione diversa perché, se è vero che gli altri
soggetti internazionali sono molto più piccoli dell'America, essi sono comunque di taglia
medio-grande, tanto che risulta conveniente per la superpotenza stringere con essi alleanze
diversificate per operare politicamente e militarmente nelle varie parti del mondo.
Nella realtà della globalizzazione, in cui agli Stati è sfuggito il monopolio del ruolo
internazionale e della forza militare, bisogna poi tener conto di soggetti a carattere non
statuale o trasnazionale che si agitano in maniera autonoma, che per contare politicamente,
non debbono per forza avere territorio, popolazione, esercito, ecc. Una di queste realtà non
statuali è l’Islam. Di fronte a questo mondo la potenza egemone si muove con un sistema a
geometria variabile, di fronte a ogni sfida cerca di organizzare una coalizione diversa e deve
tentare d’inventare un modo nuovo di combattere. La guerra contro Al Quaeda ha mantenuto
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caratteri abbastanza tradizionali solo in virtù del fatto che l’Afghanistan – uno dei più poveri
ed arretrati paesi della terra – si trovava ad avere un governo abbastanza incapace di capire la
realtà internazionale da offrire il proprio territorio a Bin Laden per ospitarvi le sue strutture.
In assenza di questo santuario probabilmente l’organizzazione terroristica avrebbe avuto
carattere ancora più informale, e Bin Laden avrebbe probabilmente finito per trovare rifugio,
come il mitico Capitano Nemo, in una grotta sottomarina del Pacifico, oppure come
clandestino sotto falso nome in un paese dalla struttura sociale complessa ed aperta come gli
Stati Uniti. Se Bin Laden non avesse trovato, per l’insipienza politica del governo talebano,
un territorio dove tentare di creare un "santuario", e se non avesse commesso l’errore - che lo
fa apparire in definitiva meno diabolicamente intelligente di come di solito lo si dipinge – di
concentrare un grandissimo numero dei suoi seguaci in quella che doveva rivelarsi una
trappola e una tomba, anziché disseminarli in una rete clandestina nei paesi occidentali,
l’amministrazione Bush si sarebbe probabilmente trovata di fronte alla necessità di colpire i
paesi d’origine dei terroristi, anziché quello dove il loro mandante e tanti dei suoi seguaci
avevano trovato rifugio. E siccome 15 dei 19 terroristi erano Sauditi, si sarebbe posto un bel
delicato problema, e si sarebbe probabilmente ricorso ad operazioni più di polizia
internazionale, che alla guerra dall’aria.
Conclusioni.
Se di questa generale evoluzione della realtà internazionale all’indomani dell’attacco
terroristico agli Stati Uniti e della guerra che ne è seguita, si vuol trarre una valutazione, in
termini di conseguenze per il Vecchio Continente e per il processo di unificazione, il quadro
non appare, per la verità, molto consolante. Abbiamo visto che il processo avviato con la
moneta unica non solo ci mette su un cammino assai accidentato, ma ci impegna ad una
strategia fondata proprio sulla nostra capacità di reagire agli scossoni che tale cammino ci farà
subire. 6
Sennonché, la morfologia generale del terreno sul quale dovremo avanzare, la
morfologia della realtà internazionale, si è negli ultimi tempi modificata in maniera assai
significativa, sicché l'Europa in questo quadro finisce per apparire come un soggetto troppo
per affrontare un viaggio di tale asprezza. Comincia così a sorgere in alcuni paesi europei, in
tutti i paesi europei, compresa l'Italia, l'idea che ora bisogna giocare a livello nazionale, che
in questo quadro di geometria variabile su ogni sfida l'America organizza coalizioni diverse di
fatto, ciascun paese può spendere in meglio se spende da solo, in maniera diversa, in ciascuna
crisi.
Chi ne paga il prezzo è soprattutto la Germania dove non mancano le forze legate ai
demoni del passato e che si era spesso mossa in maniera che ricordava la vecchia teoria
bismarkiana, secondo cui la Russia stava alla Germania come l’Africa alle potenze coloniali
europee. Queste forze, già dall’epoca Kohl – anche se diversamente da Kohl, e addirittura
"contro" Kohl – vedevano l’allargamento della UE come una sorta di copertura per creare
attorno alla Germania riunificata, tutta una galassia di paesi. O di frammenti di paesi – che
attorno alla Germania avrebbero finito inevitabilmente per gravitare. Ma, con il riemergere
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Un po’ come quegli orologi da polso che si erano diffusi negli anni sessanta, che in tanto andavano sempre
avanti a segnar l’ora in quanto avevano un meccanismo giroscopico interno che ridava loro la carica sfruttando
gli scossoni che l’orologio riceveva per via dei normali movimenti del braccio.
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della Russia come soggetto internazionale assai pesante è chiaro che tutta la strategia
dell’allargamento della Ue verso Est appare rimessa in discussione o almeno destinata a
cambiare di significato, così come seriamente indebolita è la "garanzia" anti-russa fornita
dalla Nato ai paesi dell’Europa centrale.
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