numero 2 anno VII – 14 gennaio 2015
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www.arcipelagomilano.org numero 2 anno VII – 14 gennaio 2015 edizione stampabile www.arcipelagomilano.org LA SOLUZIONE PER IL DOPO EXPO: L’URBANISTICA DELLA VITALITÀ Luca Beltrami Gadola Parafrasando quello che Manzoni fa dire a Don Abbondio potremmo noi dire che se non le si ha ”le idee uno non se le può dare”. Se la politica non ha idee sul destino delle aree del dopo Expo non può farsele dare da un comitato di saggi come pensa il Comune. Lascia sempre la bocca amara quest’abdicazione al proprio ruolo che impensierisce sul futuro. C’è una sola giustificazione: lo sconcerto di fronte alla necessità di chiudere un’operazione fallimentare iniziata e portata avanti da altri che involontariamente, ma per loro fortuna, sono usciti di scena passando ad altri il cerino acceso, chi bocciato dalle urne, chi cacciato dalla magistratura. Vale comunque la pena di ripercorrere le tappe essenziali della vicenda. Nel 2008 per partecipare alla gara per l’assegnazione di Expo 2015 bisognava indicare su che aree s’intendesse localizzare la manifestazione. Negli altri Paesi che ci hanno preceduto in questo genere di vicende, si sono indicate aree già di proprietà pubblica. Noi no. Ci siamo orientati verso aree private e, prima di avere concluso una qualsivoglia trattativa per l’acquisto fissando un prezzo, le indichiamo come collocazione della manifestazione: si imbocca così una strada capestro che dà ai venditori un inusitato potere contrattuale. Il traino è Fiera Milano che deve vendere le aree di suo possesso in origine destinate a parcheggi, acquistate per 15 milioni e che con questo scherzetto è in grado di venderle per 65. Gode la famiglia Cabassi che vende anche le sue e le vende bene perché nel frattempo una manina provvidenziale ne ha cambiato la destinazione d’uso da agricola a edificabile, tanto che l’Agenzia del Territorio, richiesta di una valutazione, la fa passare da 10 euro al metro quadro a 163. I grandi manovratori sono Letizia Moratti e Roberto Formigoni, sindaco e governatore. Fiera Milano e pure CL si rallegrano, chi per aver venduto, chi (CL), covando aspettative sulle aree per il dopo Expo, per rifarsi dall’aver perso il boccone di Cascina Merlata, altra gloriosa vicenda. Arriviamo agli ultimi passi. Arexpo SPA, una società posseduta per il 34,67% dal Comune di Milano, da Regione Lombardia per un’identica quota, per il 27,66% da Fondazione Fiera Milano, il resto da Provincia e Comune di Rho, compra per 315 milioni queste benedette aree, indebitandosi con le banche per 160 milioni. Il dopo Expo diventa una patata bollente, perché il tempo vola e al 30 giugno 2016, quando scadrà il diritto d’uso a suo tempo concesso da Arexpo a Expo 2015, le banche rivorranno indietro i loro soldi. Bisogna vendere e subito le aree, ancorché a termine. Ed ecco il bando che ne fissa un prezzo (315 milioni fissati dalla Agenzia del Territorio) e i termini per presentare le offerte: il 30 novembre dello scorso anno. Le offerte saranno valutate con una procedura del tipo “lo do a chi voglio io”. Malgrado l’ottimismo del giorno della conferenza stampa di presentazione dell’operazione, nessuno fa offerta. Condizioni troppo onerose in un momento di mercato inesistente. Bastava guardarsi intorno per capire come sarebbe finita. Chiusi nell’angolo ecco l’idea: dobbiamo sentire i saggi. Ma con che obbiettivo? Vendere in blocco o frazionare senza andar per il sottile pur di rivedere i propri soldi e quelli delle banche? Se così fosse non val la pena di spendere una sola parola in più: auguri! Se invece non è così, se di là delle belle parole si pensa davvero un po’ più al futuro, magari anche alla città metropolitana, vale la pena di porsi delle domande, cominciando da quelle di natura strettamente economica. Il futuro utilizzo, oltre al Padiglione Italia, riuscirà a tener conto dei 168 milioni spesi per la Piastra ai quali si aggiungeranno i 40 milioni di ulteriori costi reclamati dalle imprese oggi inquisite? Che cosa varrà la pena di cercare di utilizzare e in che ottica? Saranno esaminate le 15 proposte pervenute a seguito del bando del giugno scorso col quale Expo aveva sollecitato progetti e idee per risolvere il problema delle aree? In alcune di esse c’era certo del buono. Detto questo continuo a ritenere che il destino delle aree debba essere una decisione politica pur nel quadro della compatibilità economica, dando dunque all’urbanistica il senso pieno e attuale come quell’insieme di discipline che non si limita a oscillare tra norme e regolamenti da un lato e astratte attenzioni alla forma urbis dall’altro. Il successo delle trasformazioni urbane si identifica nella vitalità del costruito e della sua a continua adattabilità ai mutamenti sociali ed economici. La creazione della vitalità urbana comporta anche un’attenta regia della composizione e scomposizione delle reciprocità. In parole povere non c’è trasformazione urbana che non comporti gestione continua delle funzioni d’uso dello spazio pubblico come interfaccia dello spazio privato. Ogni funzione richiede un ambiente circostante che stimoli e favorisca le sinergie e dunque la composizione accurata delle contiguità. Nel caso delle aree di Expo e del loro futuro, considerato che una o due sole funzioni non saranno in grado di garantire vitalità all’insieme, la scelta nel ventaglio delle opportunità dovrà essere fatta incrociando le praticabili sinergie ignorando improponibili proposte di parte, il consueto assalto alla diligenza pubblica. Fare un piano, un disegno, dare regole, trovare un assetto proprietario sono solo le prime tappe di un percorso che dovrà essere guidato e assistito: un’attività di lungo respiro che travalica la funzione dell’urbanistica tradizionale e dei suoi strumenti. Almeno un quinquennio e forse più: un lavoro al quale non può sottrarsi la pubblica amministrazione e dunque la politica. Stiamo parlando della vitalità dell’urbanistica, di una nuova urbanistica. MILANO E IL NUOVO SINDACO TRA TELENOVELA E THRILLER Walter Marossi Il 2015 della politica milanese sarà caratterizzato da Pisapia e dalla domanda si ricandida o no? Finora come una fanciulla di Delly il sindaco si è negato a rispondere ma da n. 2 VII - 14 gennaio 2015 giorni il tam tam dei bene informati propende per il no. Altri sempre ben informati avvisano che è una tattica per far uscire allo scoperto gli avversari mascherati e chiarire il con- testo politico altri ancora che è un sondaggio per vedere se gli offrono la Corte Costituzionale. Indipendentemente dalle scelte finali, non alle viste, il solo fatto che si concretizzi 2 www.arcipelagomilano.org un’ipotesi di ritirata, manda in ansia il demi monde della politica. In primo luogo perché gestire una città preannunciando la dipartita diventa molto difficile, in secondo luogo perché necessariamente si aprirebbe una interminabile campagna elettorale nella quale tutti i protagonisti dovrebbero ricollocarsi, fare scelte che avrebbero volentieri rinviato, ed essere pesati. Volendo approfondire potremmo suddividere l'ansia per livelli. Livello 0 - Fratelli d'Italia, Scelta Europea et similia, UDC, Movimento 5 stelle possono serenamente affrontare l'anno convinti che non sarà peggio del 2014 in cui nessuno si è accorto della loro esistenza. Un eventuale apertura dei giochi delle candidature gli darebbe un po' di ossigeno. NCD addirittura potrebbe giocare qualche ruolo importante com’è avvenuto nelle primarie liguri. Livello 1- Il PD finora ha evitato le lacerazioni alla ligure perché non c'è stata necessità di primarie. Forte del 44,9% delle europee deve bissare il successo alle politiche, per questo ha caldeggiato l'ipotesi di cooptare Pisapia nel partito o almeno nel renzismo in modo da eliminare ogni possibile concorrenza. Il sindaco che capeggiasse un civismo poco renziano innervosisce, tanto più che parla di un “ponte” verso un mondo rispetto al quale i renziani vorrebbero invece un argine, visto che la legge elettorale parla di premio alla lista e non alla coalizione. Dover scegliere un candidato a sindaco ridefinirebbe le gerarchie interne traballanti dai tempi della dipartita di Penati, è vero che Renzi ha preso il 60,40% dei voti alle primarie, ma il sansepolcrista Bussolati il 33% e deve sorbirsi una gestione unitaria. Compito difficile quello di Bussolati che deve governare un’organizzazione ricca di voti ma perennemente sull'orlo di una crisi di nervi, dove il peso burocratico parassitario dei vecchi gruppi dirigenti spesso accidiosi è spropositato rispetto al loro peso elettorale. Senza soldi, in crisi di tesseramento, con molte prime donne sul viale del tramonto e molti caratteristi da verificare, il segretario è partito al contrattacco: la butta in politica, pone la questione centrale dell'ortodossia renziana: “o con Renzi o contro di noi”, perché “quella sinistra che verrà rappresentata nei prossimi giorni a Milano non è in linea con la volontà di cambiamento richiesta dal paese che questo governo sta interpretando”. In pratica: mettiamo alla porta i gufi ovvero meglio NCD che SEL come in Liguria, niente n. 2 VII - 14 gennaio 2015 giunte anomale (do you remember). Cioè l'esatto opposto dello schieramento e del sentiment che ha portato Pisapia alla vittoria. Facile pensare che la scelta del segretario che lascia ipotizzare nuove maggioranze provocherà vivaci dibattiti. Livello 2: il PACA (partito assessori civici e affini)- L'avvicinarsi delle elezioni riporta alla luce una organizzazione tradizionale della politica italiana: il partito degli assessori, figure forti di un ruolo conquistato per meriti propri e decisione personale del sindaco, autonomi dai partiti, solidali con Pisapia fino al sacrificio (dei colleghi). La giunta ha due anime: 1) quella minoritaria degli assessori PD che vorrebbero Pisapia sindaco per 30 anni, che lo vorrebbero iscritto al PD o al renzismo di complemento, che aborrono sentir parlare di liste e alleanze nelle quali il loro peso decisionale è trascurabile. Certamente le prime vittime di un’eventuale rinuncia a ricandidarsi; 2) quella dei non PD e dei PD “quinta colonna” che lavora alla creazione di un rassemblement politico culturale alleato/alternativo al PD in cui far confluire tutte le anime del variegato mondo progressista: l'altra sponda per cui servirebbe un ponte. A questa sponda vorrebbero dare una lista e una minima organizzazione: per l'appunto il PACA. Vecchia storia quella della giunta che si trasforma in un ridotto politico, proprio a Palazzo Marino la prima fu 100 anni fa quando Caldara andò in conflitto con il suo partito. Il PACA è erede diretto dell'arancionismo e delle liste civiche con meno ambizioni palingenetiche e meno illusioni ma con un più solido ancoraggio (si sa per l'italico popolo l'assessore ha un fascino straordinario) nella società civile e nell'exismo (quel variegato mondo di ex qualche cosa che è sempre alla ricerca di un approdo). Fautore di un sincretismo politico culturale meneghino, alieno a ogni omologazione romana, il PACA vuole essere il braccio armato di Pisapia ricandidato ma in base al detto “piutost che nient l'è mei piutost” potrebbe essere lo strumento di partenza di un nuovo “papa straniero”. Il comun denominatore del PACA è un’antipatia concorrenziale con il PD e una strategia “pas d'ennemis a gauche” che è l'esatto opposto di quella di Bussolati. Livello 3 - Da anni c'è un 10% dell'elettorato critico con le politiche liberiste e di austerità, critico con le politiche sul lavoro del governo italiano, critico sull'atlantismo, oggi critico su Renzi, un mondo che fece dell'antiberlusconismo una ragione di vita e che rimpiange i bei tempi di quando si era all'opposizione. Fondamentali nell'elezione di Pisapia ma in generale nelle vittorie del centro sinistra (nelle elezioni a turno unico, doppio turno, di collegio anche se sono proporzionalisti) non hanno mai avuto un riferimento politico unitario. È il mondo di quelli che considerano gli elettori di destra antropologicamente diversi (dei pirla) che non ama Renzi ma che non riesce a trovargli un’alternativa. Dispersi in mille associazioni questa platea è corteggiata dal PACA, è base del progetto locale del neovendolismo, ma potrebbe votare anche la minoranza PD. Con ansia tirano per la giacchetta Pisapia che è con Doria, De Magistris, Leoluca Orlando un simbolo della resistenza al renzismo dominante. Livello 4 - Più che di ansia per il centro destra occorre parlare di sindrome maniaco depressiva. Privi di candidati, privi di partito, privi di coalizione, sottoposti alla leadership alzhaimeriana di Berlusconi sperano tanto di poter rinviare scelte che provocherebbero ulteriori divisioni anche se l'apertura di un confronto politico personale nel centro sinistra con conseguenti autogol gli dà un po' di ossigeno convinti (a mio avviso giustamente) che i voti ci sono mancano i guidatori. Nervosa anche la Lega conscia che il lepenismo è bello ma non produce né sindaci né assessori né presidenti di Asl e società. Taluni ricordano anche che in Milano i risultati elettorali stagnano attorno al 6/7% e solo la campagna elettorale di Maroni (con il contributo di Ambrosoli) consentì di aggiungere un 10% con la lista personale. La leadership bifronte Maroni Salvini difficilmente reggerà. Livello 5 - Il massimo dell'ansia è quella dei candidati. In primis i parlamentari che tra legge elettorale, nuove alleanze, scissioni potenziali, primarie, rischio preferenze vivono notti insonni. Non meglio gli “spintaneamente” candidati a sindaco che la potenziale “diserzione” di Pisapia e/o le cronache locali buttano in pista. Nel PD ce ne sono una dozzina. Tra questi: Emanuele Fiano il più quotato, quello che tende a incarnare la continuità della tradizione “riformista” accusato però da sempre di essere poco “decisionista”; Lia Quartapelle, ormai candidata a tutto forse suo malgrado, che rischia l'effetto figlia del re di Siviglia “tutti la vogliono nessuno la piglia”; Pierfrancesco Majorino eterno attor giovane, che dovrebbe meditare Guicciardini: “per lo ordinario erra più chi 3 www.arcipelagomilano.org delibera presto che chi delibera tardi; ma da riprendere sommamente la tardità ad eseguire, poi che si è fatta la risoluzione”; Fabio Pizzul che preferirebbe la Regione; Stefano Boeri che preferirebbe il parlamento; il ministro Lupi (non è errore del correttore bozze) et altri ancora. Nel PACA aspiranti candidati non esistono perché oggi farebbero la fine di Ravaillac, domani chissà. Nel centro destra preso atto del ministro Lupi (non è errore del correttore bozze) di Stefania Craxi, dell'autoproclamatosi Gallera si cerca tra ex banchieri e costruttori. Su tutti, come ormai da alcuni lustri c'è l'ombra del candidato fuoriclasse, che renderebbe superflue le primarie e per taluni anche le elezioni, l'unico nome che il Corriere e Repubblica non fanno: Ferruccio De Bortoli. NOTE SULLA M4: QUESTIONI APERTE Ugo Targetti La questione della linea M4 della Metropolitana Milanese è ancora aperta e il generico consenso sulla utilità delle linee di trasporto in sotterranea non è sufficiente a sgomberare il campo da tutti i problemi che si sono affacciati e che i comitati di cittadini negli ultimi tempi hanno animato. L’appello del Forum Civico metropolitano che chiede di realizzare solo una parte della linea metropolitana M4 e di realizzare in cambio altre opere di connessione tra capoluogo e area metropolitana, preannunciato dall’articolo di Giuseppe Natale su ArcipelagoMilano n. 44 del 17 dicembre, privilegia una logica d’area vasta rispetto alla visione ”Milanocentrica” che è alla base della scelta del tracciato della M4: visione questa che ha connotato per decenni la pianificazione urbanistica e la politica dei trasporti del Comune di Milano. È quindi logico che chi sostiene che la prospettiva di Milano debba essere quella dell’area vasta, condivida l’appello del Forum Civico Metropolitano che indica un compito urgente alla neonata Città metropolitana. Edoardo Croci nel n. 40 di ArcipelagoMilano (novembre 2014) aveva invece sostenuto le ragioni dell’opera che è presentata come tassello fondamentale per la mobilità sostenibile nell’”area milanese”, intendendosi per tale il territorio di Milano capoluogo e dei comuni confinanti (o poco più). Un‘opera che, accompagnata dall’estensione dell’Area C, aumenterebbe in modo significativo la quota di spostamenti su mezzo pubblico dei milanesi. Sulla dimensione dell’indebitamento futuro del bilancio comunale e quindi sull’opportunità e possibilità di interrompere l’opera a favore di altre priorità per l’area metropolitana, ha scritto poi ampiamente Luca Beltrami Gadola nel n. 43 di ArcipelagoMilano; l’articolo affronta il tema della scadenza al 31 dicembre 2014 del contributo statale alla M4 legato ad EXPO (173 milioni) concludendo che Milano ha diritto di non farsi n. 2 VII - 14 gennaio 2015 condizionare da termini fittizi e di chiedere al Governo di spostare i finanziamenti su altre opere. La politica delle grandi infrastrutture in Lombardia e nell’area metropolitana - La valutazione delle grandi infrastrutture di trasporto in Lombardia, come la M4, sconta la tradizionale impostazione politica e culturale di fondo della Regione e del Comune di Milano che sono i decisori effettivi della maggior quota di investimenti. La Regione ha sempre operato le proprie scelte sulla base di piani caratterizzati da tre connotati. La contrattazione diretta con il Comune di Milano (e con le Ferrovie dello Stato) per la soluzione del nodo centrale. La negazione dell’area metropolitana come specificità del territorio lombardo (preferendo definizioni geografiche più sfuggenti come la regione urbana milanese dagli incerti confini). L’assenza di strumenti - modelli in grado di predire gli effetti sulla mobilità complessiva delle opere previste e delle politiche programmate (variazioni della dimensione e della direzione dei flussi di traffico, trasferimenti modali dalla gomma al ferro, effetti di concentrazione o diffusione degli insediamenti e della domanda di trasporto, ecc.) e quindi in grado di valutare il rapporto costi benefici delle opere previste e le priorità di spesa. Dati oggettivi che renderebbero trasparenti le scelte. (1) Nell’area metropolitana, dove si concentra la maggior quota di spostamenti della regione, gli investimenti importanti sono stati sempre decisi dal Comune di Milano, con una prevalente ottica di concentrazione urbana, in totale autonomia rispetto alla Provincia. La Provincia ha quindi programmato la mobilità con una visione residuale tra quella del capoluogo e quella regionale, rinunciando al ruolo di governo metropolitano. (2) L’amministrazione Pisapia, con l’approvazione delle “Linee di indirizzo per il nuovo Piano urbano della mobilità” del 2012, ha segnato una netta inversione di tendenza, politica e metodologica: il documento afferma la necessità e la volontà di pianificare la mobilità di Milano a scala metropolitana e fa esplicito riferimento alla Città metropolitana come istituzione preposta a tale compito. Il tracciato della M4 - Non ostante le dichiarazioni d’intenti le “Linee di indirizzo per il nuovo Piano urbano della mobilità” contengono una contraddizione che è emersa con forza in seno alla stessa Giunta in occasione dell’approvazione del bilancio comunale. Infatti nel documento da una parte si afferma la volontà di portare a termine quanto deciso dal precedente Piano della mobilità del 2001 e in particolare le linee metropolitane M5 e M4, che hanno un forte connotato “milanocentrico” e assorbono una grandissima parte delle risorse economiche destinate alla mobilità e dall’altra si afferma l’intenzione di “verificare il quadro delle linee di forza definite dal PGT e … del PUM 2001.. per selezionare priorità di investimenti futuri, considerato il quadro delle ridotte disponibilità economiche, in funzione della loro efficacia ….”. e di sviluppare una “Valutazione comparata tecnico economica e ambientale delle alternative”. Ciò che si sarebbe dovuto fare subito. (Al proposito occorre anche fare autocritica da parte di chi oggi chiede di interrompere l’opera, come il sottoscritto e non ha allora denunciato con forza la contraddizione del documento politico del 2012). Infatti se all’impostazione del PUM 2001 si sostituisce un’organica visione di scala metropolitana, la valutazione della priorità d’investimento cambia drasticamente. Per assumere decisioni che impegnano per decenni il bilancio pubblico, non solo del capoluogo ma anche della Regione e dello Stato e ora anche della neonata Città metropolitana, Milano, la Provincia e la Regione avrebbero dovuto predisporre un piano della mobilità integrata (gomma / ferro/ ciclabilità) per l’intera a- 4 www.arcipelagomilano.org rea metropolitana, supportato da tecniche (modelli predittivi operanti su grafi di rete, ecc) capaci di prevedere gli effetti dei singoli interventi in termini di flussi di popolazione e attività coinvolte, tempi di percorrenza, spostamenti modali e di valutarli in rapporto ai costi. Nel caso della M4 nessuno mette in dubbio l’utilità di una nuova linea metropolitana, ciò che si discute è il rapporto tra costi e benefici e la platea di cittadini cui sono destinati i benefici. Si discute quindi la priorità tra gli investimenti possibili, rispetto a un quadro di riferimento che non è quello della sola Milano ma dell’intera area metropolitana e quindi di una popolazione più che doppia rispetto al capoluogo. Certo il tracciato urbano della M4 attraversa un’area ad alta densità insediativa e quindi è destinata a “trasferire” un quota consistente di spostamenti dal mezzo privato a quello pubblico, ma in un contesto ove la popolazione ha già un alto tasso di utilizzo del mezzo pubblico (circa il 50%) mentre lascerebbe pressoché invariata la quota di spostamenti su mezzo privato nel resto dell’area metropolitana (circa il 75%). Ha senso quindi migliorare, a costi elevatissimi, il rapporto mezzo pubblico / mezzo privato in un’area ristretta ove tale rapporto è già molto alto e lasciare invariato tale rapporto in un’area più vasta e soprattutto per gli spostamenti che hanno come origine / destinazione il capoluogo? (3) Se al momento della scelta del tracciato della M4 fossero stati a disposizione dei decisori e dei cittadini un progetto di rete metropolitana e modelli di simulazione adeguati, si sarebbero potuti confrontare gli effetti sulla mobilità dell’intera area metropolitana di un investimento a oggi stimato in oltre tre miliardi (dato riportato da fonte giornalistica), concentrato su una sola linea radio centrica, piuttosto che distribuito su più opere strategiche a scala territoriale ampia. L’appello del Forum Civico metropolitano indica una serie di possibili “opere metropolitane” alternative che si riporta in nota (4). A queste aggiungerei il rafforzamento delle linee urbane di superficie con corsie riservate e precedenza semaforica, già indicato nel citato documento “Linee di indirizzo per il nuovo Piano urbano della mobilità”, intervento che estenderei ai maggiori centri urbani, come Sesto S. Giovanni e Monza. Naturalmente anche queste opere andrebbero sottoposte alla n. 2 VII - 14 gennaio 2015 valutazione di utilità relativa di un Piano metropolitano fondato su modelli previsionali e stime dei costi. Solo così si potrà avere un’elevata probabilità di massimizzare la produttività degli investimenti pubblici. Certo i risultati dei modelli non sono assolutamente “oggettivi”, perché dipendono dai dati che si immettono e da come si imposta il modello; non sono infallibili perché la realtà è sempre più complessa della formalizzazione matematica; ma i modelli mettono in relazione i fenomeni e danno loro dimensioni comparabili quindi rendono chiara la decisione di investimento anche se alla fine la decisione resta politica. Un compito urgente per la Città metropolitana- Oggi la nuova Città Metropolitana ha il compito di programmare la mobilità complessiva (viabilità, trasporto pubblico su ferro e su gomma, rete ciclabile, interscambi ecc.) per tutta l’area, senza separazioni tra capoluogo e hinterland. Gli amministratori metropolitani hanno dunque di fronte una decisione difficile, ovvero chiedere al capoluogo di modificare o quanto meno di sospendere l’attuazione di una grande opera pubblica e verificarne la congruenza in un’ottica di scala vasta. Sarebbe un atto di grande coraggio. Cambiare la destinazione di un rilevante investimento pubblico richiede tempo, vuol dire iniziare processi decisionali complessi, fare nuovi progetti, dare il via a nuove procedure e, non ultimo, affrontare la questione sotto il profilo contrattuale. Ma gli amministratori metropolitani sanno che l’investimento per realizzare la M4 assorbirà per molti anni gran parte, se non tutte le risorse per nuove infrastrutture di trasporto per Milano e per tutta la Città Metropolitana che ha oltretutto ereditato un bilancio fallimentare. D’altra parte la rapidità del processo decisionale sarà il banco di prova della nuova istituzione. Pisapia non vorrà forse essere il primo sindaco di Milano a interrompere la realizzazione di una metropolitana ma se saprà cambiar verso alle scelte passate sarà il primo vero sindaco metropolitano, tale non ope legis, ma per una visione strategica coraggiosa. Corollario: la BREBEMI - È di questi giorni la notizia che il project financing della BREBEMI, la grande opera appena inaugurata in Lombardia, non regge per mancanza di traffico e che lo Stato dovrà intervenire con 300 milioni. Se le scelte della Regione fossero state supportate da modelli previsionali efficaci sarebbe risultato evidente ciò che i decisori comunque sapevano e cioè che l’opera non era né indispensabile né tanto meno prioritaria nel completamento della rete autostradale (era la più facile da realizzare). Il drenaggio di risorse che ha comunque comportato la BREBEMI, che siano private o pubbliche, sposterà nel tempo la realizzazione della “Gronda intermedia – pedemontana” che è la vera priorità del sistema autostradale lombardo. Note (1). Nel luglio 2014 la Regione ha presentato la “Proposta preliminare di Programma regionale per la mobilità e i trasporti”; ancora oggi, non ostante l’istituzione della Città metropolitana, nel documento l’ ”area metropolitana” è citata di sfuggita; non è considerata questione centrale del piano. Eppure la programmazione europea 2014 – 2020, che riserva una quota degli investimenti ai trasporti, individua nelle aree metropolitane i referenti diretti per i programmi di investimento. Nel documento si annuncia l’aggiornamento al 2014 dell’indagine origine destinazione degli spostamenti in Lombardia; una buona notizia ma resta incerto il futuro uso dei dati. (2). In realtà il primo PTC della Provincia di Milano approvato dal Consiglio provinciale nel 1999 metteva in discussione le scelte del capoluogo di concentrare nella città gli investimenti in infrastrutture di trasporto e, insieme alle altre province lombarde, suggeriva alla Regione modifiche all’assetto del piano autostradale. Tra gli anni 1995 e 1999 la Provincia aveva anche organizzato una struttura tecnica d’avanguardia per la modellizzazione della mobilità, per assumere le decisioni di investimento sulla viabilità di sua competenza su basi “oggettive”. Le amministrazioni successive hanno revocato il PTCP e smontata la struttura tecnica. (3). Negli ultimi anni la quota di spostamenti su mezzo pubblico è generalmente aumentata in tutta la regione; a ciò a contribuito il miglioramento dell’offerta di trasporto ma anche la crisi economica. La crescita della percentuale d’uso del mezzo pubblico è stato assai più alta in Milano che nel resto dell’area metropolitana, per la strutturale capacità della rete urbana del capoluogo ma probabilmente anche per effetto dell’istituzione dell’Area C. (4). Si riporta il testo dell’appello “(...) Si avanzano alcune proposte, realizzabili in tempi brevi e sostenibili, sensate e di grande utilità: della linea 4 costruire solo il tratto Linate / aeroporto - Piazzale Dateo / passante ferroviario; collegare Linate a M2 Gobba; prolungare le linee esistenti : la M1 fino a Monza; la M2 a Vimercate; la M3 da San Donato a Paullo (sulla carta dal 2000!), come da appello di Legambiente; completare da Precotto, attraverso il quartiere Adriano, fino a Gobba, il collegamento del trasporto pubblico sulla fascia nord/ovest e nord/est tramite la metrotranvia già prevista nei piani delle opere pubbliche.” 5 www.arcipelagomilano.org LA POLITICA PASSA, L'ARCHITETTURA RESTA Jacopo Muzio Il 27 gennaio scade il Concorso Internazionale di Architettura per la riqualificazione dell'area del Mercato Ortofrutticolo di Milano, 592.000 mq - pari a due terzi della Bicocca - indetto da Sogemi, partecipata del Comune di Milano e controllata dall'Assessorato al Commercio. Un concorso che non è un concorso, segnalato all'Ordine degli Architetti di Milano in quanto potranno parteciparvi in pochi. L'Ortomercato, insieme all'ex Macello, è una delle aree più vaste, centrali e sfortunate del Comune di Milano: lì avrebbe potuto insediarsi l'Expo Nutrire il pianeta, energia per la vita senza spendere denari pubblici per l'acquisto di aree private; nelle vicinanze, dove ora c'è uno sbiadito praticello, doveva sorgere la grande Biblioteca Europea di Informazione e Cultura; negli ex Macelli, la cui riconversione è affidata agli studenti del Politecnico ed ai loro professori (un tempo insegnavano Bottoni, Viganò, oggi il quadro è molto cambiato), un accordo di programma prevedeva l'insediamento dell'Università degli Studi, finita poi in Bicocca (..); all'epoca della Moratti, quando “la mafia non esiste a Milano”, di fronte all'ingresso della Presidenza Sogemi c'era il For a King, il night della 'ndrangheta dei potenti Morabito. Tre mesi per voltare pagina. Tuttavia, scorrendo il bando, le caratteristiche richieste per parteciparvi e le domanderisposte all'ente proponente (le famose Faq!) risulta chiaro che il concorso sia cucito addosso a pochi fortunati; i concorrenti devono avere già realizzato negli ultimi dieci anni, al tempo stesso, grandi strutture di mercati ortofrutticoli, sviluppi immobiliari di vaste aree urbane, progetti energetici a scala territoriale. In questi cinque anni la Giunta comunale, sostenuta da chi sperava di vedere una discontinuità con i metodi lobbistici da Seconda Repubblica del ventennio di centro destra, ha indetto: una pre selezione per il Mu- seo della Memoria (Resistenza?), finito purtroppo in niente; un concorso aperto per un asilo di 200 mq (nel punto più in ombra di tutta Garibaldi Isola, poveri bimbi!); un concorso per il centro civico di Porta Garibaldi e un concorso per il Ponte della Bussa (promossi grazie alla piattaforma Concorrimi promosso dall'Ordine degli Architetti), il concorso per il Vigorelli, un concorso aperto per i Servizi - più che altro igienici - di Expo, indetto da Expo s.p.a., altra partecipata del Comune di Milano. Evidentemente la nostra Giunta è poco sensibile all'architettura in generale ed in particolare alla storia dei concorsi di idee, i quali sono invece un modo efficace, democratico e previdente per avere progetti interessanti e non calare dall'alto le scelte del Comune, spesso discutibili. La storia dei concorsi è interessante, in Italia potrebbe iniziare nel Rinascimento con la Cupola del Duomo di Firenze, vinto da Brunelleschi, per passare nel Risorgimento da Piazza Duomo di Milano oppure da Piazza Cordusio; episodi architettonici “epocali”, passati alla storia sia per la qualità dei concorrenti o magari dei progetti mai realizzati - di cui solo a Milano si potrebbe scrivere un libro - sia per la cifra intellettuale di chi li ha indetti. Ad esempio in Portogallo i concorsi hanno dato un nuovo volto alla giovane democrazia europea ed hanno sviluppato una scuola di architettura, divenuta nota in tutto il mondo. Invece nel 2015 accade che nel centro storico di Milano - sempre più tirato a lucido mentre le periferie languono e fermentano – ci siano grandi baruffe: la Triennale di Milano, altra partecipata del Comune, chiama dieci consulenti, li fa lavorare quasi gratuitamente sull'area di Piazza Castello e poi da il lavoro a uno di questi, sic et simpliciter. Scatta un'altra segnalazione all'Ordine degli Architetti, il cui rappresen- tante nazionale sul Corriere giustamente scrive: “Gli Architetti italiani? Sono i nuovi poveri” (una volta le parole d'ordine erano: Amate l'Architettura! Gio Ponti; Architettura o rivoluzione! Le Corbusier; oggi agli studenti più talentuosi si consiglia di espatriare). Eppure Piazza Castello è una delle piazze storicamente più rilevanti, si direbbe da manuale, già funestata dal concorso “chiuso” rigorosamente ad inviti, brutta abitudine ereditata dall'Era Albertiniana - per Expogate, il cui nome, che richiama l'americano Watergate, è tutto un programma. Sempre e solo nel centro storico, l'auspicata riqualificazione della Darsena di Milano, oggetto di un Concorso Internazionale di progettazione nel 2008 (malamente sfogliato nelle soluzioni a terra proposte) la cui direzione lavori è stata infine affidata agli inamovibili tecnici comunali (assunti negli anni d'oro di Formentini & C.), che hanno realizzato un modestissimo intervento a budget ridotto, improntato a una edilizia anni ottanta lamiera verde / mattone a vista, un regionalismo pre muro di Berlino, appropriato forse all'ambiente rurale della provincia lodigiana, non a questa parte di storia del nostro territorio. La riqualificazione di Piazza Oberdan è un altro progetto polveroso uscito dai tavoli dei tecnici comunali e dei Consigli di Zona - senza concorsi, “che fanno perdere tempo” necessario e auspicabile nelle sue premesse e funzioni, ma veramente modesto nella sua configurazione: un marciapiedone in pietra e due aiuole, con la scritta 1925 a pavimento (sic). Churchill quando c'era da ricostruire il Parlamento inglese dopo la Seconda Guerra mondiale diceva ai suoi parlamentari: “Noi diamo forma agli edifici, poi gli edifici daranno forma al nostro modo di vivere” (“Architettura e potere”, Deyan Sudjic): la politica passa, l'architettura resta. PIO ALBERGO TRIVULZIO: POCHE ALTERNATIVE PER USCIRE DALLA CRISI Sandro Antoniazzi* I problemi del Pio Albergo Trivulzio nascono molti anni fa, da quando l’allora Presidente Mario Chiesa si propose di trasformare la “Baggina” in una moderna clinica geriatrica, possibile sede di polo universitario. A questo scopo Chiesa aveva iniziato a creare nuovi padiglioni, a- n. 2 VII - 14 gennaio 2015 perto un laboratorio dalle enormi potenzialità, realizzato reparti specialistici (cardiologia, pneumologia, oncologia …) con a capo primari (titolo naturalmente limitato all’uso interno); in altre parole una realtà molto lontana dalla tradizionale natura di casa di riposo. La sua idea era di precostituire la struttura, per poi farla riconoscere con un decreto governativo, come clinica geriatrica, già pronta a funzionare. Si era creata quindi una condizione di standard elevati che non avevano un corrispettivo nei contributi regionali e nelle rette comunali, che 6 www.arcipelagomilano.org continuavano a mantenere il loro carattere “sociale”, previsti per le case di riposo o RSA. Questa situazione si è in parte aggravata con la legge regionale sulle IPAB (Istituto di pubblica assistenza e beneficienza), perché si è così definitivamente applicato a tutti i dipendenti il contratto sanitario regionale, sia per i reparti riabilitativi sanitari, sia per i reparti sociali. Si tenga presente che la maggior parte delle Case di Riposo opera con lavoratori delle cooperative, a un costo contrattuale decisamente inferiore. Per farla breve, in queste condizioni il bilancio annuale “caratteristico”, fatto dalle entrate e dalle uscite dell’attività, è strutturalmente in perdita: le entrate di contributi e rette non coprono le spese di personale e amministrative, il disavanzo ammonta annualmente attorno ai 3 milioni. Ma se a questo si aggiungono gli interessi sui mutui e gli oneri fiscali, la perdita sale a circa 10 milioni. A questi dati contabili d’esercizio, occorre poi aggiungere i dati in conto capitale: in questo caso il debito consolidato ammonta a 90 milioni, dovuti soprattutto a investimenti per mettere a standard le strutture e ai deficit pregressi accumulati (da qui gli alti interessi annui che gravano sul bilancio). Di contro il Pio Albergo Trivulzio possiede un patrimonio immobiliare che viene stimato intorno ai 400 milioni, che però non è allo stato realizzabile facilmente e in tempi rapidi. Che cosa è possibile fare? Un intervento risolutore sembra richiedere due operazioni diverse, contemporanee e convergenti. Innanzitutto occorre riportare l’attività della gestione ordinaria sotto controllo, a una situazione di pareggio economico. Non potendo tornare indietro, rispetto alle decisioni del passato e alla situazione di fatto, sarebbe bene spostare all’esterno l’attività a carattere sociale e svolgere al Trivulzio solo l’attività sanitaria; ci sarebbero così maggiori entrate che coprirebbero le spese non comprimibili del personale. In questo caso la Regione dovrebbe impegnarsi a portare al Trivulzio altre attività sanitarie - in quella visione che prese forma proprio al Trivulzio con la riabilitazione post-acuta - attività di carattere intermedio tra ospedale e medicina di base. In secondo luogo è necessario un intervento straordinario della Regione e del Comune per superare la fase critica sul piano finanziario; visto che il patrimonio esiste, ma è poco disponibile, occorre mettere in atto un’operazione finanziaria - immobiliare - patrimoniale che sollevi il Trivulzio dal peso del debito relativo sino alla sua copertura nel giro di qualche anno (con l’assunzione degli oneri per un periodo di tempo limitato oppure con un’azione di cartolarizzazione). Si tratta di un’operazione di vendita, dolorosa e che in condizioni normali non si dovrebbe fare, ma a questo punto purtroppo necessaria. Di là dalle colpe e delle responsabilità, quelle dirette ma più ancora di coloro che non vogliono vedere come stanno le cose, è chiaro che solo la Regione e il Comune possono risolvere il problema del Trivulzio, ed è bene che intervengano rapidamente per rimetterlo in grado di tornare a essere una struttura efficiente al servizio dei milanesi. *(Presidente del PAT 1992-94) PENSARE AI MILANESI, PIÙ VECCHI, PIÙ SOLI, PIÙ POVERI Paolo Peduzzi La condizione di anziano si accompagna a maggiori condizioni di vulnerabilità per la salute, connesse all’età, alle malattie, alle condizioni sociali. Le persone con un età superiore a 65 anni che vivono a Milano sono circa 328.000, pari al 24 % della popolazione. Dal 60 all’80% degli anziani sono portatori di una o più malattie croniche, con un trend che tende a crescere con l’età. Il 50% delle persone in età superiore a 75 anni risultano vivere da sole, e di queste il 20% presenta una situazione di deprivazione economica. (1) Le condizioni di malattia dell’anziano tendono pertanto a essere complesse per l’intersecarsi di problematiche sanitarie e sociali che richiedono la presa in carico della persona, non essendo sufficiente un approccio basato sulla diagnosi e cura delle singole patologie. La rete dei servizi sanitari e socio sanitari fruibili dalla popolazione anziana si presenta nella città di Milano particolarmente ricca per numero di strutture e professionisti, capillare distribuzione sul territorio, articolazione differenziata per tipologia di problemi. n. 2 VII - 14 gennaio 2015 Accanto alla rete di offerta sanitaria rivolta a tutta la popolazione, esiste un offerta di servizi sanitari e socio sanitari specifici per la popolazione anziana rappresentata dalle cure domiciliari, dai centri diurni, dalle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), dalle strutture di riabilitazione. Nel territorio dell’ASL di Milano, che comprende quindi anche i Distretti di Cinisello e Sesto San Giovanni, sano attivi 41 gestori accreditati per le cure domiciliari, che nel 2014 hanno assistito circa 10.500 anziani con prestazioni infermieristiche, assistenziali, riabilitative e medico specialistiche. I Centri diurni integrati, che offrono una semiresidenzialità agli anziani non autosufficienti, sono 28 con un utenza nel 2014 di 1.100 anziani (1). Le RSA sono 68 con 8.970 posti letto e nel 2013 11.500 ricoveri di soggetti prevalentemente non autosufficienti, portatori di patologie croniche e situazioni di disabilità più o meno complesse. Dopo un trend in crescita, negli ultimi anni la domanda si è stabilizzata; le persone tendono a ricoverarsi in età sempre più avanzata, anche per effetto della crisi economica e della conseguente ridotta disponibilità delle famiglie, per le quali, qualora le condizioni abitative lo permettono, risulta più economico rivolgersi per l’assistenza all’offerta di badanti (32.000 badanti stimate). Nell’ambito delle RSA crescono le offerte rivolte a target specifici, quali i malati di Alzheimer, per i quali sono stati attivati 22 nuclei per un totale di 475 posti letto (1). Le strutture di riabilitazione nel 2013 hanno effettuato circa 5.000 ricoveri di persone anziane, con un’offerta differenziata tra ricoveri e day hospital in riabilitazione geriatrica, ricoveri in riabilitazione specialistica ad alta intensità riabilitativa, ricoveri in riabilitazione di mantenimento per persone in dimissione verso il domicilio o le RSA (1). Complessivamente usufruisce di questi servizi circa il 10-15 % delle persone anziane, con percentuali maggiori nelle fasce di età più elevate, caratterizzate da condizioni di salute e di disabilità più complesse. La grande maggioranza degli anziani, potatrice di una domanda di presa in carico di patologie croniche con livelli differenziati di autosufficienza, si rivolge quindi in prima istanza ai propri medici di famiglia e 7 www.arcipelagomilano.org in seconda istanza alle strutture specialistiche ambulatoriali e di ricovero. I numeri sulla rete di offerta sanitaria e socio sanitaria della città di Milano poco ci dicono su quanto attualmente tale livello di assistenza risponde ai requisiti di un buon sistema di cure primarie, individuati nei più recenti documenti dell’OMS e dell’Unione europea: l’accesso facile ai servizi nelle condizioni di bisogno, la continuità della presa in carico dei problemi di salute nel tempo, il coordinamento tra le diverse figure professionali e tra le cure primarie e le cure specialistiche, la completezza delle prestazioni di cura riabilitazione e assistenza erogate secondo buoni standard professionali. I dati di alcune ricerche che hanno raccolto l’opinione dei cittadini esprimono, accanto a una buona valutazione sull’operato del proprio medico di famiglia, una criticità nel rapporto tra il proprio medico e gli altri servizi sanitari e socio sanitari; il cittadino vive come problematica la continuità del proprio percorso di cura tra i diversi servizi e professionisti e tra i servizi sanitari e i servizi sociali (2). Il problema principale non sembra essere la carenza di offerta di prestazioni, quanto la capacità del sistema di offerta di funzionare veramente come una rete, in grado di accompagnare la persona lungo il suo percorso di diagnosi cura e assistenza, garantendo in modo coordinato l’accesso alle prestazioni di cui ha bisogno e la continuità tra servizi territoriali e servizi di ricovero. La figura chiave per dare una risposta a tale problema è quella del medico di medicina generale. Da vari anni l’esigenza di una riorganizzazione dell’attività di tale figura professionale è condivisa. Recentemente a livello nazionale la legge 189/2012 ha fornito chiare indicazioni per la riorganizzazione delle cure primarie. La Regione Lombardia dal 2012 ha avviato con la sperimentazione dei CREG una modali- tà innovativa di presa in carico dell’assistito con patologia cronica da parte del medico di medicina generale. A Milano la sperimentazione interessa attualmente 143 medici e 20.000 assistiti con patologie croniche, poco meno del 10% degli anziani portatori di patologie croniche (1). Manca ancora una chiara opzione politica e tecnica sulla rilevanza delle cure primarie e della loro riorganizzazione intorno alla figura chiave del medico di medicina generale. Le indicazioni contenute nel recente Disegno di Legge Regionale sulla evoluzione del sistema socio sanitario lombardo sono a riguardo ancora confuse e contraddittorie. (1) Documento di Programmazione e Coordinamento dei Servizi socio sanitari dell’ASL di Milano (2) Il questionario come strumento di partecipazione in Prospettive Sociali e Sanitarie 3, marzo 2013. LETTERA APERTA DA PIAZZA SANT’AGOSTINO Silvana Turzio, Filippo de’ Donato, Maria Luisa Bonecchi* C’è un posto a Milano, proprio in centro, senza storia, senza anima e (forse) senza futuro. Probabilmente uno dei tanti, un luogo che nessun abitante di una città vorrebbe sotto casa. Come tutti i posti abbandonati è ogni giorno sempre più trascurato, vilipeso e triste. Eppure, lì vicino, a meno di 500 metri, c’è l’ingresso del Museo della Scienza e della Tecnica, e poco più su la Basilica di Sant’Ambrogio. Nel quartiere ci sono molti negozi e uffici e ben otto scuole di diverso ordine e grado, che ogni giorno aprono le porte a centinaia di bambini e ragazzi che attraversano piazza Sant’Agostino – è questo è il luogo senza storia e senza anima – e le vie adiacenti. In ogni momento vi transitano coloro che si servono della metropolitana, fermata Sant’Agostino (povero Santo …). E invece, questo povero slargo – usare la denominazione piazza è offensivo per tutte le piazze del mondo – nel centro di Milano di giorno è un grande parcheggio, spesso selvaggio e sempre sporco, o una distesa disordinata di bancarelle (quando c’è il mercato). Di notte, invece, diventa un luogo di ritrovo per centinaia di giovani, che bevono, fumano, urlano, giocano a calcio, fanno cori e vandalizzano automobili e palazzi. Schiamazzi, tappeti di bottiglie rotte, sporco, uri- n. 2 VII - 14 gennaio 2015 na e feci ovunque. Senza il minimo rispetto della quiete pubblica e delle regole di civile convivenza, niente educazione. E con la complicità di alcuni minimarket spuntati come funghi che vendono di tutto, violando palesemente norme fiscali e sanitarie. È stato tutto documentato e denunciato, ma per ora sono stati rari e inefficaci gli interventi delle istituzioni per ripristinare la legalità e l’ordine pubblico. La via Cesare da Sesto va a morire nella piazza. Un duplice cartello segnala l’accesso a senso unico sia a sinistra che a destra, indicando con involontaria ironia il valore di questo luogo: né piazza né parcheggio né luogo di movida né mercato, ma un po’ di tutto. Poiché è luogo sfruttato da persone diverse e in ore diverse, nessuno sa cosa succede prima o dopo il proprio passaggio. Per questo il luogo è abbandonato all’indifferenza di chi vi transita, di chi lo usa a ore o di chi lo usa a giorni, di chi lo usa di notte e di chi nelle sfere dell’amministrazione e della sicurezza pubblica, pur conoscendo la situazione, continua a fare orecchio da mercante (mai proverbio fu più adatto). Tranne i residenti, il Comitato di quartiere e un paio di valorosi Consiglieri di Zona 1. Gli unici che chiedono da tempo che questo luogo torni a essere una piazza, in cui le persone del quartiere possano passarci senza camminare sui cocci di vetro e con il naso tappato. E che in via Cesare da Sesto i cestini non diventino discariche abusive, le rotaie di un tram che non passa più da quarant’anni vengano tolte, il parcheggio in doppia fila e la massa di giovani per strada non siano più tollerati, perché un’ambulanza o un camion dei vigli del fuoco non passa, speriamo solo che non capiti un incidente, un incendio, un’urgenza qualsiasi. Il sogno è una piazza per tutti, residenti e non, giovani e meno giovani, anche insieme ogni tanto, perché no? Anche questa è politica, vera e vicina alla vita delle persone. Che i giovani debbano avere degli spazi cittadini a loro riservati è un’ideologia che ha fatto il suo tempo e che certo non favorisce la convivenza con il resto degli abitanti. E poi, quali sono oggi i giovani? Abbiamo adolescenti e giovani adulti, studenti e giovani lavoratori, giovani padri e madri, giovani in carriera, giovani senza lavoro. Un arco di tempo che va dai quattordici anni ai quaranta. Il giovane che può e soprattutto deve (sembra ormai un dovere il rito dell’happy hour e del tirar tardi sui marciapiedi) divertirsi in luoghi pubblici senza costrizioni rende molto dal punto di vista eco- 8 www.arcipelagomilano.org nomico, ma poco sul piano elettorale. Come si fa allora a continuare a pensare che la fascia “giovanile” vada protetta, coccolata, mantenuta tale il più a lungo possibile? Perseverare nel non combattere la malamovida e nel non tutelare il resto della popolazione, è segno di cecità politica sull’attualità. Perseverare nel proporre ai giovani luoghi senza barriere etiche e comportamentali è datato, non funziona più. È quindi socialmente stupido. I giovani si sono sempre scelti da soli luoghi e modi diversi da quelli dei loro vecchi. Quando li si lasciava crescere. Perseverare da parte delle istituzioni nell’ignorare le richieste di persone ragionevoli e senza secondi fini che chiedono che la piazza sia una Piazza, che le vie siano Vie, che mercato, posteggio, movida e locali fuori controllo siano resi più civili e regolati non è solo cattiva politica, è protervia. In vista di EXPO 2015, questo pezzo di città è un pessimo biglietto da visita. * Comitato Sant'Agostino VERDE URBANO: UNA METAMORFOSI POSITIVA IN ATTO Elena Grandi* Negli ultimi anni, ho scritto per ArcipelagoMilano alcuni articoli sul verde urbano. È questo un tema che mi sta particolarmente a cuore, vasto e dalle molteplici sfaccettature, che non si risolve solo nel concetto di verde pubblico o privato e della sua manutenzione, ma che riguarda la percezione che i cittadini hanno dei loro spazi verdi, la possibilità di fruirne e di condividerli, la necessità di promuovere e di sostenere una nuova cultura del verde, l’esigenza (che l’amministratore percepisce quotidianamente) di modificare la relazione tra le persone e gli spazi aperti della città, trasformandola da passiva ad attiva. La sostenibilità di una città è determinata anche dalla sua capacità di essere “verde”, nel senso più esteso del termine (ovviamente, oltre che dalla qualità della vita, dell’aria, dei servizi, dal saper essere accogliente e inclusiva, culturalmente e intellettualmente attiva, dal saper offrire strumenti di lavoro e di crescita ai suoi giovani, ecc. ): ogni azione politica tesa alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio cittadino di giardini, parchi, alberi, prati non potrà che produrre effetti positivi. Milano, negli ultimi anni, ha intrapreso questa strada virtuosa, mettendo in atto profonde trasformazioni che, anche grazie alla proficua collaborazione tra Amministrazione e cittadini, daranno vita (sia pure in tempi che non potranno essere immediati dal momento che si parla di progetti a lungo termine) a una nuova visione del verde urbano e a nuovo modo di concepire la relazione tra cittadinanza e spazi verdi. È questo un percorso davvero importante che contribuirà a fare di Milano una città più bella e più vivibile; un progetto complesso, che richiede pazienza e fiducia ma che infine porterà a risultati buoni e, soprattutto, duraturi. Ora, a meno di un anno e mezzo dal termine del mandato della Giunta Arancione, vale la pena di fare il punto di quanto è stato fatto e si sta n. 2 VII - 14 gennaio 2015 facendo nell’ambito del verde urbano: non tanto nei termini dei singoli interventi sulle aree, ma nel senso più ampio della programmazione, della gestione e della condivisione di progetti con gli abitanti. Dopo un complesso lavoro di redazione e di messa a punto, l’approvazione del nuovo Regolamento d’Uso e di Tutela del Verde Pubblico e Privato, frutto dell’impegno dell’Assessorato, dei Consigli di Zona, dei tecnici del Comune e delle associazioni di cittadini, è ormai in dirittura d’arrivo: entro breve il documento sarà sottoposto al voto del Consiglio Comunale. Con esso Milano avrà finalmente a disposizione uno strumento grazie al quale, da un lato saranno chiariti in maniera inequivocabile diritti e doveri dei cittadini rispetto all’uso e alla fruizione del verde e si porranno in essere delle regole precise sulla manutenzione, che si dimostreranno utili anche in vista di ogni futuro contratto d’appalto per la manutenzione del verde; dall’altro si regolamenteranno in maniera definitiva gli interventi sul verde privato, anche esso patrimonio prezioso della città e che deve quindi divenire oggetto di maggiore tutela rispetto a oggi. Uno strumento prezioso che farà di Milano una città all’avanguardia in tema di tutela e sviluppo del verde. Un altro punto su cui è opportuno di soffermarsi è quello che riguarda la Convenzione per i Giardini Condivisi, deliberata dalla Giunta nel 2012: un provvedimento di forte significato, che semplifica e rende più rapida la convenzione tra il Comune, in veste di proprietario, e chi richiede di potere usufruire di un’area non utilizzata per farne un luogo aperto alla comunità. Le richieste da parte di associazioni che vorrebbero dare vita a nuovi Giardini Condivisi sono in aumento in tutte le nove zone; mentre quelli già esistenti stanno dimostrandosi, nonostante le tante difficoltà con cui devono fare i conti, sempre più organizzati, apprezzati e attivi. Aree di proprietà comunale che fino a qualche anno fa erano abbandonate al degrado, oggi si sono trasformate in luoghi vivi e vissuti, di incontro, sedi di attività culturali e di promozione dell’educazione ambientale, di gioco, di feste di quartiere. Inoltre tra questi luoghi, spesso molto distanti tra loro, si è venuta a creare una rete di solidarietà che, grazie anche all’impegno di alcuni “esperti” giardinieri o agronomi che mettono a disposizione (gratuitamente) la loro esperienza e il loro entusiasmo, fa sì che vi sia un continuo e fertile scambio di idee, di progetti, di strumenti, di manodopera. In breve, la condivisione tra giardini condivisi. È quindi evidente e indiscutibile il ruolo positivo e propositivo dei giardini condivisi: sia rispetto all’esigenza dei Milanesi di potersi occupare attivamente di aree verdi e al contempo di disporre di luoghi d’incontro e di scambio; sia riguardo al recupero di luoghi non utilizzati. Per queste ragioni si sta mettendo a punto (il Consiglio di Zona 1 ha già deliberato in tal senso) una modifica di alcuni punti della convenzione inserendo nel documento quelli che dovranno essere i “doveri” del Comune, a oggi limitati solo alla cessione a titolo gratuito dell’area all’associazione richiedente che deve per contro farsi carico della gestione, manutenzione, pulizia, controllo, apertura al pubblico della stessa. Tali “doveri” del Comune dovrebbero quindi essere gli interventi di disinfestazione e di derattizzazione, di rimozione dei rifiuti da parte di AMSA, dell’allacciamento alla rete idrica e, nel caso che se ne ritenesse la necessità, della creazione di recinzioni. Una sorta di piccolo “incentivo” e di riconoscimento dell’Amministrazione nei confronti di chi spende energie, lavoro e denari non per se stesso ma per la comunità. Inoltre sarebbe auspicabile creare un ufficio all’interno del settore Verde e Agricoltura equivalente a quello che a Parigi è chiamata Main Verte: tale 9 www.arcipelagomilano.org ufficio, in collaborazione con i Consigli di Zona dovrebbe diventare un punto di riferimento, di consulenza, organizzativo per i cittadini che decidessero di dare avvio a un Giardino Condiviso. Infine, come piccola nota a margine, un esempio concreto di come stia modificandosi il modo di concepire e di sostenere non solo la cultura del verde, ma anche di come l’Amministrazione ritenga importante il promuovere e il divulgare il valore della biodiversità, del commercio di pro- dotti a km 0, della condivisione di esperienze comuni, dell’importanza di dare spazio ad attività sostenibili e di creare nuovi spazi aggregativi. A seguito della delibera del Consiglio di Zona 1 che ne ha predisposto le linee d’indirizzo, è stato emesso un bando (che resterà aperto fino al 9 febbraio) per la concessione di una parte delle cascine di viale Alemagna. Si tratta di un luogo poco conosciuto, nel cuore del parco Sempione, un tempo sede dei dipendenti del Comune addetti alla manutenzione del verde e oggi (da quando cioè la manutenzione è stata appaltata all’esterno) in gran parte non più utilizzati. È intenzione del Comune che quel luogo possa tornare a vivere come fucina e laboratorio culturale di tutti quei temi che attengono al verde urbano e all’educazione ambientale. *(Presidente Commissione Verde Ambiente Demanio Casa Consiglio di Zona 1) LA NECESSITÀ DI UNO SGUARDO OTTIMISTA Alberto Negri Nonostante la crisi profonda che investe il nostro Paese, credo che sia possibile ancora oggi costruire speranza, perché “L’Italia che produce risultati di successo c’è. E’ viva e vitale, diffusa in mezzo a noi”. È l’Italia che “non crede a chi parla la lingua della rassegnazione e del declino”. Così scrive Gianfelice Rocca, imprenditore di successo e attuale Presidente di Assolombarda, nella prefazione al recente libro di Lino Duilio, già parlamentare e Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati durante il governo Prodi, dal titolo emblematico “Alzarsi in volo. Il futuro dell’Italia tra eccellenze diffuse e rischi di declino”. Oggi più che mai, alle porte di Expo 2015, è necessario narrare la fiducia nel Made in Italy. A questo proposito l’imprenditore Oscar Farinetti, creatore di Eataly, ha ribadito recentemente che la mission degli italiani deve essere quella di andare nel mondo a “narrare bene”, meglio di quanto abbiamo fatto fino a oggi, il nostro Made in Italy. Dobbiamo imparare a comunicare con efficacia l’ingegno, il design, la biodiversità, le bellezze architettoniche e paesaggistiche del nostro Paese. Esiste infatti una singolarità di microclimi, di popoli, di culture, di tradizioni diverse, che solo il nostro Paese può vantare. L’incontro e il mixage di popoli diversi ha prodotto quel surplus di creatività che ha prodotto nel passato grandi capolavori (basta pensare agli artisti del Rinascimento che tutto il mondo ci invidia) e in un passato più recente (anni del boom economico) un grande sviluppo del manifatturiero italiano. Operai smart, artigiani smart, manager smart e imprenditori smart, figli di questa “bio-diversità” genetica, hanno decretato il successo dei prodotti italiani nel mondo. n. 2 VII - 14 gennaio 2015 Proprio alcuni esempi, forse meno conosciuti di altri ma non per questo meno significativi, di eccellenze del Made in Italy sono i protagonisti di questo libro di Duilio. Sono Italiani, eroi della quotidianità, che in questi anni si sono affermati nel mondo, sapendo coltivare con successo l’ingegno italico, forse il patrimonio più importante del nostro Paese. L’insieme di queste testimonianze costituisce un unico grande format di speranza e di fiducia. Un format costruito non sulla base di sogni o di promesse, ma strutturato giorno per giorno grazie a un impegno, a uno spirito di innovazione e di ricerca molto reale. In queste persone, protagoniste del Made in Italy possiamo trovare stimoli per innescare quella spinta fiduciaria oggi più che mai necessaria, se vogliamo far ripartire il nostro Paese, per “ritornare a volare, impresa difficile ma non impossibile” per usare le parole dell’autore del libro. Oggi più che mai abbiamo bisogno di ritrovare le coordinate di quell’Italia che vale, di quell’Italia che sa guardare in alto e volare alto per raccontare al mondo la propria capacità di fare eccellenza. Abbiamo, per esempio, bisogno della testimonianza del professor Vincenzo Mazzaferro, un grande chirurgo che ha dimostrato al mondo scientifico come sia possibile curare il cancro al fegato con il trapianto, utilizzando una modalità innovativa, andando anche contro l’opinione dell’establishment medico quando era necessario. Così come abbiamo bisogno di capire, ascoltando i direttori rispettivamente dell’Osservatorio Astronomico di Brera e del Laboratorio del Gran Sasso, quanto sia indispensabile e non più rinviabile un rapporto fecondo tra ricerca pura, ricerca applicata e trasferimento tecnologico alle imprese. Grazie a questo circolo virtuoso possono nasce poli tecnologici dell’innovazione, in grado di dare impulso alle nostre aziende e nel contempo di creare occupazione qualificata. Perché, come ribadisce Duilio, bisogna “considerare la ricerca come un investimento e non come un costo. Per esempio la pratica dei tagli lineari di spesa, seguiti dalla politica in anni recenti, vanno nella direzione contraria rispetto a quello che si doveva fare”. Interessante è anche l’esperienza di Massimo Colomban, il “sarto dei grattacieli” che ha fondato l’azienda Permasteelisa, leader mondiale nel settore degli involucri architettonici. Colomban ha trasformato una piccola azienda in una multinazionale leader mondiale nel proprio settore, grazie alla ricerca e all’innovazione. Sommersi da tante narrazioni disforiche veicolate dai media spesso con l’unico scopo di creare una morbosa attenzione sul negativo al fine di trasformare l’opinione pubblica in audience da vendere ai pubblicitari, oggi più che mai abbiamo invece bisogno di riaprire i nostri cuori verso orizzonti di razionale ottimismo. Ben diverso da quell’ottimismo emozionale, utilizzato da tanti politici, che sfocia spesso solo in una lunga serie di promesse vacue, prive di concretezza e di possibilità di incidere sulla realtà dei fatti. La crisi produce sfiducia e la sfiducia a sua volta genera crisi: si attiva in questo modo un pericoloso circolo vizioso da cui risulta difficile uscire. Tutti abbiamo bisogno di un’iniezione di fiducia e nel contempo di un invito a lottare, ad assumerci le proprie responsabilità, a non darsi mai per vinti, nonostante “lacci e laccioli” posti da leggi assurde e da vincoli burocratici ottusi. Infine non dimentichiamo che la fiducia, il patto fiduciario, in quanto patto fra due contraenti richiede, 10 www.arcipelagomilano.org quasi obbliga, a mettere in campo un atteggiamento di partecipazione e di coinvolgimento nelle scelte e nelle decisioni, quindi, per esempio, nel fare quelle leggi che hanno una ricaduta socio-economica su tutta la popolazione. Così come un buon manager, un buon imprenditore è chi sa fare squadra, che sa ascoltare, sa coinvolgere nelle decisioni e nelle scelte i suoi tecnici, i suoi operai, anche un politico che ha come mira il consenso (nel significato di con-sentire, cioè di sentire insieme) fiduciario non può e non deve porsi mai nel ruolo di soggetto unico al comando, di chi si limita a chiedere la parteci- pazione dei cittadini e delle categorie sociali solo a posteriori. La fiducia si fa insieme, con e per. Altrimenti si corre il rischio di entrare in quel tunnel che genera dapprima diffidenza e poi sfiducia assoluta. E di quest’ultima gli Italiani già ne hanno in abbondanza. MERCATO E DEMOCRAZIA: LA GRAZIA SONO GLI ALTRI Giuseppe Gario Il cineforum San Fedele a Milano offre anche film fuori distribuzione, vecchi e nuovi. Quasi un documentario, Un condannato a morte è fuggito (di Robert Bresson, 1956) racconta la vera fuga dal carcere militare di Lione gestito dalle SS, nel 1943, di un ufficiale francese condannato a morte per resistenza. Nel dibattito la moglie del regista, a quel tempo suo aiuto, chiarisce: fuggire era salvarsi, ma anzitutto lottare, con l’aiuto dei compagni di prigionia. Una grazia si rivelò l’aiuto finale di un giovane collaborazionista, alsaziano volontario e poi disertore, che gli fu messo insieme in cella, contro la regola dell’isolamento: per spiarlo? Il silenzio claustrale è rotto quasi solo dalla voce del protagonista, meditazione ininterrotta sulla scelta tra isolarsi anche per sicurezza, e fidarsi anche per necessità. Dal primo impatto col recluso della vicina cella, depresso tentato suicida che poi lo incoraggia e aiuta, fino alla penosa decisione finale – in un tempo sospeso, già agonia – di fidarsi del giovane compagno di cella, senza cui non avrebbe superato l’ultimo muro, verso la vita. La grazia sono gli altri, dice la signora Bresson. Anche da questa crisi che ci imprigiona si può uscire grazie agli altri che la condividono, se si sa e vuole farlo. Evgeny Mozorov, bielorusso di successo a Harvard e nella Silicon Valley, ci mette in guardia dal “soluzionismo”, diffusa tendenza a risolvere individualmente ogni problema comprando soluzioni, tecniche, tecnologie. Ma ottimizzare i consumi individuali di energia non basta per uscire dal cambiamento climatico, né per gli obesi la dieta: pesano gli interessi delle imprese inquinanti e alimentari. «La visione classica della politica, in cui si discute di bene comune e come realizzarlo, è sostituita dallo slogan: il problema è individuale. Ma la pretesa di risolvere tutto con l’onnipresente mercato nulla ha a che fare con la democra- n. 2 VII - 14 gennaio 2015 zia» [Martin Untersinger, Le Monde, 23/10/2014 p. 8]. Da Hongkong la Deep Knowledge Venture, che investe in start-up biotecnologiche, ci dà un altro avvertimento: nuovo amministratore per gli investimenti è la base dati Validating Investment Tool for Advancing Life Sciences, Vital, che vota coi colleghi umani ed elabora le informazioni sulle questioni da decidere senza essere turbata da sonni o cibi buoni o cattivi, preoccupazioni per i figli o dispiaceri familiari. Inizia una rivoluzione, dicono Martin Dewhurst e Paul Willmott, direttori londinesi McKinsey di consulenza strategica. Andrew McAfee, direttore associato al Massachusetts Institute of Technology, precisa: «La rivoluzione industriale ha consentito di superare i nostri limiti di capacità fisica. Le tecnologie digitali lo fanno per le nostre capacità mentali». (Già nel 1997 il programma Deep Blue batté a scacchi il campione mondiale Garry Kasparov). Molti «sottovalutano enormemente l’impatto sulle imprese delle nuove tecniche analitiche combinate con le masse dati disponibili», spiega Jeremy Howard (università di San Francisco), «solo perché le loro potenzialità evolvono esponenzialmente: difficile da capire per gli esseri umani». In The Future of Employment, i ricercatori Carl Benedikt Frey e Michael Osborne (Oxford) ricordano che nel mondo le tecnologie digitali potranno sostituire 140 milioni di lavoratori intellettuali a tempo pieno: i manager, come in DKV, dovranno rinunciare alle competenze “hard” (ragionamento applicato alle conoscenze) e sviluppare le “soft”: «individuare i talenti del mondo intero e stimolare le loro capacità creative, le loro qualità di leader e il loro pensiero strategico» [Annie Kahn, Le Monde, 23/11/2014, p. 7]. C’è un cortocircuito tra tecnologie che chiedono creatività e responsabilità, e un soluzionismo che assolutizza il mercato: la «parola d’ordine vincente, che non ammetteva repli- che, era quella della “stabilizzazione macroeconomica”, che avrebbe necessariamente, inevitabilmente, portato, tutto insieme, a breve scadenza, crescita economica, investimenti esteri, democrazia, Stato di diritto, pluralismo, burocrazia efficiente, negozi stracolmi di roba, una moneta stabile e così via trionfando» [Giulietto Chiesa, Russia addio, 2000, p. 59]. La Russia di Eltsin di metà anni 1990 fu il laboratorio della crisi assolutizzando il mercato, ma il finanziere Georges Soros non vi investiva, perché (1996) «l’attuale sistema, che io definirei di capitalismo predatorio, sta creando una grande insofferenza tra la popolazione e forma l’humus dove potrebbe crescere un messia, un leader carismatico, il quale, promettendo la salvezza della nazione, conduce il paese al totalitarismo» [p. 142]. Puro buon senso. L’assolutismo del mercato porta al totalitarismo politico. Non stupisce che il post-comunista Putin si allei con i partiti post-fascisti europei, nel cortocircuito tra tecnologie che richiedono un umanesimo globale e il loro uso predatorio in un assolutismo di mercato che corrode Stati, nazioni e società, militarmente o per via finanziaria, e spiana la via al totalitarismo. Il Senato USA, a maggioranza repubblicana, ha varato il bilancio federale solo quando il governo ha accettato di garantire i derivati, origine della crisi: è l’annuncio ufficiale di una nuova bolla e di un ulteriore, più grave, attacco della fiction finanziaria alla realtà economica, tecnologica, politica. E in Giappone, con la rielezione di Abe, rispetto al governo precedente la sola novità è Gen Nakatani, ministro della difesa che propugna la sacralità dell’imperatore, interventi militari all’estero e guerra preventiva. Dopo il vicino e medio oriente, già in balìa della guerra, e l’oriente europeo, in guerra non dichiarata, anche il lontano oriente annuncia guerra. Guerra non come soluzione, bensì logica prosecuzione della crisi, così come la crisi del 1929 fu protratta dalla 11 www.arcipelagomilano.org seconda guerra mondiale fin che, a metà anni 1950, si manifestarono gli effetti positivi dovuti al passaggio generazionale e alle prime grandi riforme di governo della finanza e dei mercati mondiali (nel 1944 il Fondo Monetario Internazionale, nel 1945 l’ONU). Di ulteriori grandi riforme di governo della finanza e dei mercati globali abbiamo oggi bisogno: il reddito di 85 super-ricchi eguaglia quello di mezza popolazione mondiale [Oxfam, Working for the few, 2014, cit. in Marco Politi, Francesco tra i lupi, 2014, p. 126]. Spostandosi incessantemente, gli uni e gli altri unificano il globo, ma in una torre di Babele. Purtroppo, molto deve ancora accadere prima di venirne fuori nel solo modo possibile: democraticamente e dal basso, con la personale capacità di accogliere la grazia della prossimità, sia fisica in spazi e tem- pi limitati, sia relazionale in spazi e tempi dilatati, poiché a questo serve la tecnologia. Possiamo uscire da questa crisi, noi europei in particolare portando a compimento l’investimento di oltre mezzo secolo in una Unione Europea ormai matura per l’unione politica democratica, dopo quella di mercato e finanziaria. Ma solo se sappiamo ciò che vogliamo, come l’ufficiale francese. Scrive Walter Monici a Claudio Bacigalupo Nello stato attuale il passaggio del traffico nella zona del Castello è necessario per chiudere l'anello di circolazione della cerchia dei navigli. Nello schema ipotizzato del piano 2003, con la chiusura del centro in zone di circolazione limitata che provengono dalla cerchia dei bastioni, piano che era stato considerato da AMAT come alternativa ad Area C con previsioni tutto sommato soddisfacenti, una qualche forma di percorribilità per il traffico privato locale deve rimanere in Foro Bonaparte o in Piazza Castello in alternativa. La mia opinione, espressa fin dalla presentazione del piano di pedonalizzazione di piazza Castello in corso Garibaldi, è che sia preferibile pedonalizzare Foro Buonaparte liberando il trasporto pubblico dalla congestione, e mantenere il residuo traffico veicolare privato in Piazza Castello dove in questo modo la separazione della pista ciclabile tornerebbe ad avere un senso. Questo era il progetto originale in base a cui era stato fatto il progetto della ciclabile. Progetto che diventa doppiamente assurdo e inutile in caso di pedonalizzazione. Ritengo che Bacigalupo volesse intendere la riapertura di Gadio in questo senso, cioè la riapertura di Piazza Castello al traffico privato con pedonalizzazione di Foro Bonaparte, idea con cui io concordo pienamente. Tutte le ipotesi di pedonalizzazione della cosiddetta Piazza Castello tendono a forzare una situazione non propizia. La piazza davanti al Castello è in realtà un percorso ad anello se- micircolare che non ha le caratteristiche morfologiche della piazza. Le utilizzazioni che ne sono scaturite lo dimostrano: file di bancarelle, mercatini popolari in allineamento, funzioni tutto sommato inutili e sprecate rispetto a quelle dovrebbero caratterizzare le vere piazza di Milano. La continuità pedonale verso via Dante non esiste perché interrotta da piazza Cairoli mentre la congestione e i ritardi danneggiano i mezzi pubblici. Molto meglio allora pedonalizzare piazza Cairoli come termine di via Dante e prevedere l'incrocio col traffico privato residuale nell'anello di Piazza Castello che ha le dimensioni sufficienti per organizzare questa funzione nel modo migliore. Scrive Gregorio Praderio a Claudio Bacigalupo Non sono molto d'accordo con la proposta di Claudio Bacigalupo di riaprire viale Gadio per ridurre il traffico su Foro Bonaparte: la continuità pedonale fra il Castello e Parco Sempione verrebbe di nuovo interrotta con pochi benefici per il sistema complessivo che va dal Duomo all'Arco della Pace. Non credo neanche che sia una soluzione "necessaria", visto che le simulazioni di traffico fatte a suo tempo per i Piani Particolareggiati del centro (si parla però del 2002, sarebbe interessante vedere i dati nuovi) mostravano che la chiusura al traffico di Piazza Castello era fattibile senza aprire nuove strade. Non è neanche del tutto vero che il Foro Bonaparte raccolga tutto il traffico di Navigli e Bastioni (c'è anche l'esedra di via Melzi d'Eril); dalle analisi pre - Area C emergeva poi anche una forte quota di traffico passante che è corretto venga trasferita su itinerari più idonei. In definitiva sono d'accordo che l'iniziativa andava gestita meglio, con valutazioni preventive più accurate; non sembra opportuno però che a iniziative affrettate e pasticciate si pensi di porre rimedio con nuove improvvisazioni o con soluzioni poco valutate. Replica Claudio Bacigalupo a Gregorio Praderio Mi permetto di aggiungere che i limiti di Area C nei pressi di Parco Sempione sono disegnati in modo strano, che l'esedra di Melzi d'Eril sposta all'esterno il flusso Bastioni prima contro il nodo del Sempione, e poi non riesce a recapitarlo su Conciliazione, il punto di ripartenza del sistema doppio dei Ba- n. 2 VII - 14 gennaio 2015 stioni; mi chiedo poi cosa sia questo "traffico passante" a cui alludete. Il traffico sulle circonvallazioni è per definizione "passante". Nel caso del Castello, mi sembra evidente che il beneficio di pedonalizzazione integrale della piazza sia superiore alla connessione Parco - Castello, dato che il Parco ha una sua dimensione notevole senza questo ampliamento. Il lato posteriore del Castello avrebbe comunque una grandiosa pedonalità a margine, mentre Gadio sarebbe da riaprire in senso unico a sezione ridotta e velocità limitata. 12 www.arcipelagomilano.org MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola [email protected] Il “Mistero” di Nino Rota Noi italiani siamo dei veri masochisti. Siamo capaci di ignorare per anni le più belle opere dei nostri artisti e sbandierare ai quattro venti opere molto più insignificanti. La cosa è evidente e plateale – a mio modesto modo di vedere – se si mettono a confronto due autori che hanno percorso il secolo scorso stando ai due poli opposti della concezione della musica “colta”: da una parte Luigi Nono (1924 – 1990) e dall’altra Nino Rota (1911 – 1979), veneziano il primo, milanese il secondo, entrambi giunti ai vertici della celebrità e del successo, ancorché in due diversi mondi (ma sempre al top, come direbbe il Briatore di Crozza!), e tutti e due personaggi di grandissima cultura e con una copiosa produzione musicale. Mentre le musiche del primo sono state in cartellone per mezzo secolo e lo abbiamo esportato in mezzo mondo – auspice, lo dico con dolore, soprattutto il grande Claudio Abbado che gli fu fedelissimo amico – del secondo il grande pubblico ha conosciuto a stento le colonne sonore dei film di Federico Fellini e di Luchino Visconti e non ha mai o quasi mai sentito alcunché in sala da concerto. Grande merito della Verdi dunque, in questo inizio di anno, è l’avere riesumato un immenso capolavoro di Nino Rota, del 1962 (cioè proprio di quegli anni in cui la cosiddetta avanguardia allontanava la gente dalla musica contemporanea) e di averlo eseguito in modo eccelso all’Auditorium: la sconosciuta – o assai poco conosciuta – Cantata sacra per soli, coro, coro di voci bianche e orchestra titolata “Mysterium”, su un collage di testi religiosi messi insieme da Vincenzo Verginelli (detto Vinci su suggerimento, pare, di D’Annunzio in occasione della bravata di Fiume!). L’opera, che dura solo settanta minuti ma ha una profondità di pensiero e una potenza espressiva che le permettono di riempire totalmente lo spazio di un intero concerto, è stata concertata e diretta con grande cura dal maestro Giuseppe Grazioli, specialista della musica di Rota di cui sta registrando l’opera omnia, affiancato dalle direttrici dei due cori, n. 2 VII - 14 gennaio 2015 Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin; ma va segnalata in particolare la straordinaria prestazione del basso Gianluca Baratto che – fors’anche grazie alla partitura che premia indubbiamente la sua parte – sovrastava di gran lunga le voci della soprano Elena Xanthoudakis, della mezzosoprano Giuseppina Bridelli e del tenore Alessandro Liberatore. Mysterium, che originariamente doveva essere intitolato Mysterium catholicum (così ha spiegato Grazioli nel dedicare la serata alle vittime del terrorismo di questi giorni e nel ricordare che l’Autore ne ha modificato il titolo per dare un significato universale alla religiosità del testo), era stato commissionato a Rota dalla Pro Civitate Christiana di Assisi. Lascia perplessi quel testo, costruito mettendo insieme versetti presi qua e là dai Vangeli di Giovanni e di Matteo e da altre Scritture cristiane per formare una sorta di Cantico senza radici e senza storia, privo di qualsiasi tradizione liturgica. Ma se pensiamo alle grandi opere della musica sacra – dalle Passioni di Bach al Messia di Händel, dal Requiem di Mozart alla Missa Solemnis di Beethoven, dal Requiem di Verdi alla Sinfonia dei Salmi di Stravinskij fino al War Requiem di Britten (scritto nello stesso anno del Mysterium!) – ci rendiamo conto di quanto poco peso abbia la qualità dei testi rispetto alla capacità espressiva propria della musica. La musica ha lo straordinario potere di rendere credibile l’incredibile! L’aspetto più intrigante di questa opera consiste nel linguaggio utilizzato da Rota, quello stesso che ci ha accompagnato per anni al cinematografo (e che per questo abbiamo ritenuto essere una sorta di linguaggio minore), che improvvisamente ritroviamo in una delle più alte espressioni musicali, votata alla elevazione spirituale e alla contemplazione del sacro. Nino Rota ci ricorda ancora una volta che la musica non si è infilata tutta nel vicolo cieco di quella “avanguardia” che dagli anni cinquanta in poi con la Scuola di Darmstadt (l’Internationale Ferienkurse für Neue Musik o il Corso estivo internazionale per la nuova musica) ha arrecato un danno incommensurabile alla storia della musica, allontanando il pubblico da tutto ciò che ha sapore di contemporaneo; ci ricorda, dicevo, che negli stessi anni molti compositori non sono cascati in quella trappola e hanno continuato a esprimersi in un linguaggio a tutti comprensibile, capace di rinnovarsi – come sempre è accaduto, in tutte le epoche e in tutte le arti – senza provocare irreversibili crisi di rigetto. Sembra che il problema della innovazione del linguaggio musicale all’inizio del novecento sia improvvisamente esploso, con Schönberg (lui sì grandissimo musicista), come una imprescindibile necessità della nuova musica, tanto che gran parte dei compositori comparsi dopo la Scuola di Vienna si sono persi nella ricerca sul linguaggio trascurando la sostanza della poetica musicale che, ovviamente, va molto oltre quel problema e tocca le corde più intime dell’animo umano; altrimenti non si potrebbe parlare di musica. La modernità del linguaggio di Rota è invece contenuta nel magico modo di usare dissonanze e modulazioni, continuamente sorprendenti, persino stranianti, ma pur sempre accattivanti e soprattutto orientate a farci entrare nella logica del racconto musicale piuttosto che a tenercene fuori con la perversa volontà di esibire diversità e innovazione. La musica è l’arte che più di ogni altra nel novecento ha provato a rinnegare totalmente la propria origine e la propria storia, quasi se ne vergognasse, con una cesura completa, senza misericordia; senza rendersi conto che così facendo tagliava i ponti anche con il suo pubblico. La musica che chiamiamo “classica” è sempre stata musica “contemporanea”, ha avuto rapporti di odio e amore con il suo pubblico, ma è stata sempre capita e, quale più quale meno, accettata come musica del proprio tempo; l’opera di Rota può darsi che non piaccia a tutti (io l’ho trovata meravigliosa) ma non si può minimamente immaginarne qualsivoglia forma di rigetto da parte del pubblico, né può esserne negata la modernità o – ricordando che ha 13 www.arcipelagomilano.org ormai mezzo secolo – la contemporaneità. Da questo punto di vista vorrei dire che possiamo considerare Nino Rota come un vero eroe della resisten- za alle lusinghe di Darmstadt e alfiere di una musicalità genuina, friendly, tanto profondamente radicata nella storia quanto proiettata nella contemporaneità, senza il complesso di dover apparire e neppure quello di voler piacere, tesa solo a capire e farsi capire. ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi [email protected] Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”. Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e fa- miglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro Mostre e buoni propositi per il 2015 Il nuovo anno inizia sempre con i migliori propositi, soprattutto in ambito sportivo e culturale: quest’anno andrò almeno una volta al mese a vedere una mostra, saranno almeno due le sere la settimana dove correre. Sull’aspetto sportivo non possiamo aiutarvi, ma per quanto riguarda le mostre vi segnaliamo ciò che accadrà a Milano nei prossimi mesi. Alcune delle proposte sono più indirizzate a Expo e al tema dell’alimentazione, altre invece più votate a mostrare il meglio dell’italianità a chi per l’occasione visiterà Milano. A Palazzo Reale faranno da padroni due grandissimi artisti, simbolo del genio italiano: Leonardo (dal 14 aprile) e Giotto (dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016). La prima è presentata come la più grande n. 2 VII - 14 gennaio 2015 mostra su Leonardo mai ideata in Italia, non celebrativa ma trasversale, a cavallo tra arte e scienza mentre la seconda ripercorre lo straordinario lavoro dell’artista fiorentino. Il grande polo espositivo ospiterà molto altro: Natura, mito e paesaggio dalla Magna Grecia a Pompei (21 luglio 2015 al 10 gennaio 2016), mostra dedicata a raccontare il paesaggio nel mondo classico, indagando come nei secoli sia cambiato e evoluto il rapporto dell'uomo con la natura che lo circonda; Arte lombarda dai Visconti agli Sforza (marzo – giugno 215) mostra che intende celebrare una delle pagine più gloriose della storia della città di Milano che sotto le due famiglie si affermò come una delle città più importanti d'Europa. La prima grande retrospettiva dedicata a Medardo Rosso (marzo giugno) verrà allestita nelle sale ottocentesche della GAM di Palestro mentre Palazzo della Ragione ospiterà da marzo a settembre Italia inside out, una raccolta di immagini che presentano al pubblico il lavoro collettivo di quei fotografi che, in momenti diversi, e con sensibilità individuale, hanno colto gli aspetti principali della vita del nostro Paese. Se cibo e alimentazione sono i temi attorni ai quali si sviluppa Expo 2015, non mancano di certo mostre che li celebrino: attesissima è infatti Arts & Foods, unica Area tematica di Expo realizzata in città e allestita negli spazi interni ed esterni della Triennale di Milano dal 9 aprile fino al 1 novembre. La grande mostra 14 www.arcipelagomilano.org (7000 mq) metterà a fuoco la pluralità di linguaggi visuali e plastici, oggettuali e ambientali che dal 1851, anno della prima Expo a Londra, fino a oggi hanno ruotato intorno al cibo, alla nutrizione e al convivio. Inoltre farà tappa a Milano dal 28 aprile al 6 settembre la mostra Il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino, ospitata prima al Palazzo del Quirinale (fino al 15 aprile) e che concluderà il proprio percorso a Fi- renze dal 16 settembre al 15 febbraio. La proposta è vastissima e in continua crescita, non resta che segnarsi le preferenze in agenda e non abbandonare i buoni propositi. L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca Se un pomeriggio d’inverno un viaggiatore avesse voglia di scoprire Milano attraverso uno dei luoghi simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello spazio è la personale di Céline Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano. L’esposizione ha un titolo che non passa inosservato: bau bau. L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e all’esperienza della scuola del Bauhaus. Effettivamente, superate le difficoltà iniziali di approccio all’apparente incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video e scritti. L’artista ha una formazione relativa all’architettura e alla cultura visuale, e ha riflettuto a lungo sulle “strutture di sostegno”, ovvero su ciò che supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che relazionale. L’amicizia diventa per l’artista una dimensione di lavoro e una forma d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia sono condensati nel libro The company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque può accomodarsi e leggerlo, e chi vuole può anche salire sul tavolo per osservare dall’alto la visuale all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta appositamente dalla Condorelli in occasione della mostra. Un altro tema forte è infatti il dialogo con gli spazi dell’Hangar. La mostra è stata pensata in relazione alle precedenti esposizioni (il pannello di legno all’ingresso è lo stesso della mostra precedente di Gusmão e Paiva, e Céline vi ha posto una ven- tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la scoperta delle opere; i video in onda su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione con lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese. Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che diventano sedute su cui i visitatori possono accomodarsi e colloquiare, tende dorate mosse dal vento: bau bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici, stupore negli appassionati. Giulia Grassini Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano fino al 10 maggio 2015 – da giovedì a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso gratuito La luna è ospite al museo di via S. Vittore Dalla Galleria dedicata a Leonardo alla luna il passo è breve se si è all’interno del Museo della Scienza e della Tecnologia, anzi è brevissimo da quando alla fine di ottobre è stata inaugurata l’Area Spazio dedicata all’esplorazione astronomica. In un percorso che comincia con gli strumenti che dall’epoca di Galileo in poi sono stati utili a osservare, studiare e misurare gli oggetti celesti, la nuova sezione del museo racconta quattro secoli di ricerca astronomica dagli albori della scienza moderna ai giorni nostri. Due le sezioni dell’esposizione: Osservare lo Spazio e Andare nello Spazio; la prima presenta i congegni e gli apparecchi che hanno accompagnato e cambiato l’osservazione dello spazio dalla Terra, tra essi i due globi celesti e i due terrestri di Coronelli e Moroncelli del XVII secolo, il modello di legno dell’Osservatorio Astronomico di Brera, il settore equatoriale di Sisson del 1774, usato per i primi studi di Urano e per la scoperta dell’aste- n. 2 VII - 14 gennaio 2015 roide Esperia, prima scoperta scientifica dell’Italia unita ad opera di Giovanni Virginio Schiaparelli. Nella seconda sezione il visitatore entra in contatto con le tecnologie che permettono di esplorare lo spazio e migliorare la conoscenza del cosmo e della Terra: si entra in una riproduzione parziale di Stazione Spaziale Internazionale con la cupola e una ricca selezione di contenuti, tra gli altri sugli schermi sono riprodotte immagini (reali e ricostruite) che ritraggono l’Italia vista dallo spazio. Sono qui esposti l’imponente Z9 - uno dei tre stadi del lanciatore Vega, il satellite San Marco per lo studio dell’atmosfera, il satellite Sirio per le telecomunicazioni e alcuni straordinari oggetti legati alle missioni lunari, tra cui la rarissima tuta Krechet che avrebbe dovuto essere indossata dai cosmonauti russi nel progetto poi abbandonato di sbarco sulla Luna. A lasciare senza fiato anche il visitatore meno coinvolto è però il piccolissimo frammento di suolo lunare esposto in una piccola palla trasparente. Nel 1973, come segno di fratellanza e collaborazione da parte degli Stati Uniti, il presidente Richard Nixon dona al Governo Italiano e poi al Museo il frammento di basalto portato sulla Terra dagli astronauti dell’Apollo 17. Proveniva dall’area chiamata 'Taurus Littrow Valley', raccolto dal comandante Eugene Cernan al termine della missione (7-19 dicembre 1972). Se anche non si è appassionati astronomi, o profondi conoscitori delle vicende del cielo è certo che quel piccolo pezzetto di luna non lascia indifferenti ma, anzi, il poterla vedere così da vicino innesca un’emozione indescrivibile. Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci Da martedì a venerdì 9.30-17 | sabato e festivi 9.30-18.30 Biglietti d’ingresso 10,00/7,50/4,50 € 15 www.arcipelagomilano.org Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento Uno straordinario racconto di un dopoguerra animato da artisti, collezionisti, intellettuali e mercanti è lo scenario che si immagina faccia da sfondo alla relazione di amicizia tra Yves Klein e Lucio Fontana raccontata nella mostra in corso al Museo del Novecento e che immergono chi vi è coinvolto con stimoli visivi e suggestioni intellettuali. Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con in comune la ricerca artistica che si articola verso nuove dimensioni spaziali e concettuali. Ripercorrendo il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due: più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si incontrano dei due artisti. L’apice del sodalizio si raggiunge quando si spalanca la vetrata sopra piazza del Duomo con la Struttura al neon di Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un dialogo straordinario all’interno del quale il visitatore non può che sentirsi coinvolto ed estasiato ammiratore. Cinque sono gli anni cui la mostra è dedicata: dal 1957, anno in cui Yves Klein espone per la prima volta a Milano alla Galleria Apollinaire una serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein. L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un monocromo dell’artista francese, diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia. Nell’esposizione sono documentati cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia dell’arte novecentesca. L’affinità in- tellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana (fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein dal monocromo al vuoto. Entrambi perseguono uno spazio immateriale, cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà. Una mostra da non perdere “Yves Klein Lucio Fontana, Milano Parigi 1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali non appaga solo la fame conoscitiva del visitatore, ma soprattutto fa sì che venga immerso in un mondo blu splendente che offre un profondo godimento emozionale. Klein Fontana. Milano Parigi 1957-1962 Museo del Novecento piazza Duomo fino al 15 marzo 2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietti :10/8/5 euro Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile voglia di visitare una mostra, quali sono le proposte della città? Intorno alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così centrale o forse proprio per il fatto che è ancora aperta. Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria Vittorio Emanuele, è una mostra in continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita un’infinità di disegni e schizzi, L3 si pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte le tipologie di pubblico con linguaggi comprensibile e divulgativi offrendo un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini che per adulti. Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del pensiero e dell’operato leonardesco: macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere smontate e rimontate; riproduzioni del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di ruolo a schermo nei quali i visitatori vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori dell’artista con un grande pannello e due touchscreen dedicati al restauro digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore. Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e ancora fino al 31 ottobre 2015, la mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la posizione decisamente strategica. Il successo di pubblico sarebbe stato migliore (forse) con un maggiore rilievo dato dalla stampa e dei social network, e da un costo del biglietto più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte: non perdiamola e anzi, dimostriamo che anche a Milano ci sono centri di ricerca capaci di produrre mostre interessanti senza necessariamente creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali. Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo 1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015 Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro Il “re delle Alpi” conquista anche Palazzo della Ragione Quella al Palazzo della Ragione non è solo una mostra di fotografia sui grandi spazi, come riporta il titolo, è un’ode alle avventure e alle montagne di Walter Bonatti. 97 gli scatti presentati in quella che si sta imponendo sempre di più come una sede espositiva di valore della città di Milano. n. 2 VII - 14 gennaio 2015 Ma alle grandi fotografie del mondo, alle riproduzioni audio e video si affiancano alcuni degli oggetti che hanno da sempre accompagnato Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai consunti, la Ferrania Condoretta, una piccola macchina fotografica che usò sul Petit Dru, e la macchina per scrivere: una Serio, modello E- verest-K2, che gli venne regalata dalla stessa azienda produttrice perché raccontasse la vera storia di ciò che successe sul K2 nel 1954. È forse grazie a quel dono che Bonatti prese ad affiancare all’alpinismo e all’esplorazione delle vette anche la narrazione. Acuto e attento osservatore del mondo, Bonatti at- 16 www.arcipelagomilano.org traverso i suoi reportage darà voce a realtà lontane appassionando i lettori delle più grandi riviste italiane, prima tra tutte Epoca. Un uomo decisamente in controtendenza rispetto al contesto nel quale viveva: nell’Italia post-bellica del boom economico Bonatti sceglie l’allontanamento dalla realtà per andare a scoprire mondi nuovi e inesplorati. Mai lo sfiora il pensiero di rimanere, anzi torna sempre a casa per raccontare il suo vissuto: da ciascun viaggio porta con sé racconti, riflessioni e tante, tantissime immagini per far sognare chi non riesce a partire con lui. Le immagini in mostra raccontano dei grandi viaggi, della sua capacità di errare solo e della sua grande ammirazione per la potenza della natura. Emerge anche una certa consapevolezza di sé: durante i suoi viaggi Bonatti escogita una serie di tecniche con fili e radiocomandi che gli consentono di essere non solo parte delle proprie fotografie, ma romantico protagonista, quasi ultimo e affascinante esploratore del mondo.Una mostra che coinvolge il visi- tatore mescolando avventura, fotografia e giornalismo, giungendo a delineare il profilo di un grande uomo che ha contribuito a fare la storia del Novecento. Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi Palazzo della Ragione Milano fino all'8 marzo 2015 - Orari Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10 euro Marc Chagall porta la leggerezza a Palazzo Reale Non si può essere a Milano nell’autunno 2014 e non aver visitato la grande retrospettiva dedicata a Marc Chagall, tale è stato il battage pubblicitario che ha tappezzato l’intera città. Non solo, ma Chagall è anche uno di quegli artisti che rimangono nei ricordi anni dopo la fine degli studi, che sembra facile capire e apprezzare e per i quali si è più predisposti a mettersi in fila per andarne a vedere una grande mostra. Su questa scia è stato pensato il percorso che ha condotto all’ideazione della mostra, che prende proprio le mosse dalla domanda “Chi è stato Marc Chagall? E cosa rappresenta oggi?” L’esposizione, a Palazzo Reale fino al 1 febbraio, accompagna il visitatore in una graduale avvicinamento all’artista; attraverso 15 sale e 220 opere si scopre l’artista affiancando l’esperienza artistica alla sua crescita anagrafica. Uomo attento e profondamente sensibile al mondo che lo circonda, Chagall, è figlio ed erede di tre culture con le quali si è confrontato e che nel suo lavoro ritornano spesso: la tradizione ebraica dalla quale eredita figure ricorrenti, come l’ebreo errante, e immagini cariche di simbologie; quella russa, sua terra natia dei bianchi paesaggi e delle chiese con le cupole a cipolla, e quella francese delle avanguardie artistiche, incontrata più volte durante i suoi soggiorni. Queste eredità si manifestano in maniera eterogenea e armonica in uno stile che rimarrà nella storia per essere solo suo: colori pieni di forma e sostanza, animali e uomini coprotagonisti in una sinergia magica, l’atmosfera quasi onirica e l’amore assoluto che ritorna in ogni coppia raffigurata, quello tra Marc e Bella Chagall e che intride di felicità e leggerezza ogni altro oggetto raffigurato intorno a loro. Persino il secondo conflitto mondiale e poi la morte dell’amata Belle paiono non appesantire il suo lavoro, quanto invece lo conducono a una maggiore profondità e pregnanza di significato. L’immediato godimento della mostra, che potrebbe essere ostacolata dalla lunghezza e dal corpus così importante di opere, è dato anche dalla capacità didattica della audioguida e dei pannelli di mediare tra il pensiero e il valore pittorico dell’artista e l’occhio poco allenato del visitatore. I supporti presenti in mostra contestualizzano in maniera chiara il periodo e i lavori del pittore, offrendo tal volta una descrizione, tal volta un approfondimento nelle voci della curatrice Claudia Zevi o dell’erede dell’artista, Meret Meyer. La mostra racconta anche la poliedricità dell’artista: attraverso i costumi, i decori e le grandi scenografie che l’artista ha realizzato per il Teatro Ebraico Kamerny di Mosca emerge lo Chagall sostenitore entusiasta e attivo protagonista in ambito culturale della Rivoluzione d’ottobre; nelle illustrazioni per le Favole di La Fontaine e nelle incisioni per Ma vie (la sua autobiografia) si incontra un altro Chagall ancora, che non teme in nessun modo il mettersi alla prova con qualcosa di nuovo e diverso. Uomo e artista che si fondono in una personalità quasi magica che al termine della percorso espositivo non si può non apprezzare e che sancisce, ancora una volta, il ruolo dell’artista nella storia dell’arte moderna. Marc Chagall. Una retrospettiva 1908 - 1985 - fino al 1 febbraio 2015 Palazzo Reale, piazza del Duomo Milano - Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30 Giovedì e sabato: 9.30-22.30 Giovanni Segantini tra colore e simbolo Una retrospettiva come Milano non ne vedeva da tempo: 18 sale ricche di ricerca, dipinti e testi che ripercorrono la vita e il lavoro del maggiore divisionista italiano, Giovanni Segantini. Si tratta di un ritorno ideale quello di Segantini a Milano, il capoluogo lombardo rappresentò infatti il polo di riferimento intellettuale e artistico per l’artista; era la Milano della rivoluzione divisionista che stava lentamente dimenticando lo spirito scapigliata per cogliere la sfida simbolista. Al fianco del Segantini maturo delle valli e delle montagne n. 2 VII - 14 gennaio 2015 svizzere si riscopre anche un giovane Segantini che a Milano compie il proprio apprendistato e ritrae i Navigli sotto la neve o delle giovani donne che passeggiano in via San Marco. La mostra è un racconto complesso sul mondo di Giovanni Segantini che accompagna il visitatore in un graduale avvicinamento all’artista, che lo invita ad avvicinarsi attraverso i quadri, alle emozioni, ai pensieri e alle riflessioni che alle opere sono vincolati. I grandi spazi, gli animali, le montagne sono elementi non di complemento e non casuali in Segantini ma anzi, acquisiscono un valore mistico e quasi panteistico che permea l’intero lavoro, frutto del forte legame tra l’artista e la natura. Questa ultima, madre spirituale per l’artista (e orfano di quella biologica), è spesso resa (co)protagonista delle opere al punto che giocando sui titoli e sulla compresenza tra uomo e animali si arrivi interrogarsi su quale sia il vero protagonista. L’uso dei colori, che si scopre con il tempo, 17 www.arcipelagomilano.org sempre più potente grazie alla giustapposizione dei colori complementari e uno dei momenti culmine si raggiunge nell’azzurro senza eguali del cielo di Mezzogiorno sulle alpi (1891). La mostra può essere percorsa e goduta in diverse maniere: in ordine cronologico seguendo l’evoluzione artistica e personale dell’artista accompagnati dallo scandire degli accadimenti della vita dell’artista, oppure seguendo le sette sezioni tematiche in cui l’esposizione è suddivisa: Gli esordi, Il ritratto, Il vero ripensato, Natura e vita dei campi, Natura e Simbolo attraverso i pannelli chiari e lineari che accompagnano ciascun gruppo di sale; o ancora, lasciandosi trasportare dall’uso magistrale della tavolozza dei colori, che ha reso Segantini il maggiore esponente del divisionismo italiano. È una delle poche occasioni dove le scelte curatoriali e allestitive consentono al visitatore di unire la vita e il lavoro dell’artista creando un percorso omogeneo dal quale emerge la complessità del carattere dell’artista, composto, come tutti gli uomini, da vari ruoli: figlio, padre, uomo, artista. Qualsiasi modalità si sia scelta per la fruizione della mostra se ne uscirà con appagata la necessità di bellezza e colore, ma più vivida quella di percorrere le montagna e le valli tanto amate dall’artista. Una nota positiva: i toni alle pareti che vengono giustapposti uno dopo l'altro, stanza dopo stanza, creando come una rappresentazione visiva al sedimentarsi delle conoscenze dell’artista. Una nota negativa: nessuna segnalazione all’ingresso della mostra sul numero di sale e il tempo previsto di visita, l’orario di chiusura sono le 19.30 ma dalle 19 i custodi provvedono incessantemente a fare presente la questione facendo uscire il pubblico dalle sale alcuni minuti prima dello scoccare della mezza. Alla stessa ora chiude anche il bookshop, non una scelta vincente laddove quest’ultimo rappresenta notoriamente una delle maggiori fonti di entrata per mostre e musei. Segantini fino al 18 gennaio 2015 Palazzo Reale (Piazza Duomo, 12 20121 Milano) Biglietti (con audioguida in omaggio) €12/10/6 Orari Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, Mercoledì, Venerdì e Domenica: 9.3019.30 Giovedì e Sabato: 9.30-22.30 LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero [email protected] Jean Echenoz '14 Adelphi , settembre 2014 pp.110, euro 14 Nella sterminata produzione di ricerche storiche, opere memorialistiche o di narrativa, carteggi, epistolari, fumetti dedicati alla Grande Guerra in questo anno centenario, il brevissimo (110 pagine) romanzo del francese Echenoz merita un'attenzione tutta particolare per i lampi di icasticità che proietta nella banalità dell'orrore quotidiano della vita di trincea. L'autore, dopo le fortunate biografie dedicate a Maurice Ravel, Emile Zàtopek e Nikola Tesla è tornato con " '14 " al romanzo, costruendolo come una serie di istantanee scattate nel mare di sensazioni che nessun essere umano aveva mai provato prima dell'inferno di quella guerra. Un'istantanea, ovviamente, esige un occhio che guarda, in questo caso l'occhio del protagonista Anthime, che percepisce sgomento una serie di eventi di cui avverte l'accadere ma senza comprenderne il perché. Echenoz delinea, così, l'infantile entusiasmo iniziale di tutti, ma proprio di tutti, per una guerra che sarebbe durata poche settimane (???): "si concluderà molto prima di Natale ....", dicevano i coscritti sulla tradotta che li portava al fronte; le agghiaccianti sensazioni olfattive che incombono sulle trincee, senza che n. 2 VII - 14 gennaio 2015 nemmeno gli spostamenti d'aria dei bombardamenti possano diradarle; lo scurirsi del metallo delle baionette, reso opaco dai gas, che nessuno avvertiva; il lavoro silenzioso dei genieri francesi, che fissano i fili del telefono "per mettere in contatto comandi e trincee, utilizzando come supporto gli arti irrigiditi dei compagni caduti. E tutto senza che il protagonista e i suoi camerati capiscano alcunché dell'ignoto in cui si sono immersi, così come pure delle cause, dei motivi, degli sviluppi, delle strategie, delle tattiche di quell'evento tenebroso e indecifrabile di cui sono attori e vittime. Già, vittime innanzitutto, vittime di classi dirigenti che - ma questo Echenoz non lo dice e lo lascia capire al lettore riflessivo - mandano i loro uomini sul campo di battaglia con l'uniforme dai pantaloni rossi, come a Solferino 50 anni prima, ben visibili a mitraglieri tedeschi e con il kepi al posto dell'elmetto, che una volta introdotto, ricorda il romanzo, essendo un aggeggio di cui non era stato specificato l'utilizzo, veniva adibito a fini culinari. Ma anche l'elmetto, come il kepi, doveva essere azzurro lucido e, riflettendo i raggi del sole, trasformava chi l'aveva indossato in un allettante bersaglio. E i fanti delle trincee si vedevano costretti, ben inteso di loro iniziativa, a cospargerlo di fango. Un evento tragico, la perdita del braccio destro, strappa - paradossalmente per sua fortuna- il protagonista dall'orrore delle trincee e lo trascina nelle esperienze di un invalido di guerra. Echenoz così trasferisce la sua penna tagliente nel mondo dell'assistenza ai reduci feriti, regalandoci pagine tanto amare quanto esilaranti sulle attenzioni che la Rèpublique riserva ai suoi figli menomati dalla guerra. Memorabile è il passo dedicato al rapporto tra Anthime e il suo braccio mancante, e al riaffiorare, nei mesi successivi all'amputazione, della presenza dell'arto perduto nella organizzazione complessiva del corpo. Come non meno pervasa di umorismo nero è la descrizione del pistolotto che il medico militare dedica all'evento di cui è stato vittima l'ormai ex fantaccino. Un apologo surreale che va dagli aneddoti storici sull'ammiraglio Nelson, che vedeva nella sua mutilazione la prova dell'esistenza dell'anima, a battute di bassa lega ("è all'anulare della mano sinistra che si infila la fede, la quale ha bisogno della mano destra per essere tolta: qui sta il problema per il monco in- 18 www.arcipelagomilano.org fedele") e a paragoni agghiaccianti ("certi a cui era stato amputato il pene, hanno confessato di avere erezioni e eiaculazioni fantasma"). Paolo Bonaccorsi SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi [email protected] La donne che legge – il conflitto tra i sessi nel teatro di Gabrielli Intervista a Renato Gabrielli Come è nato e di cosa parla il testo "La donna che legge", in scena al Teatro Out Off dal 14 gennaio all'8 febbraio. L'ho scritto circa tre anni fa. Mi sono inventato una strana storia ambientata in una città italiana di provincia, sul mare. Un ricco signore di mezz'età, poeta fallito, si invaghisce di una ragazza che ha visto assorbita nella lettura di un grosso volume, sulla spiaggia. Vuole di nuovo contemplarla mentre legge, e per questo la fa contattare da una donna avvocato, sua ex amante, offrendole dei soldi. Si avvia così una perversa relazione a distanza che assume tratti via via sempre più paradossali e inquietanti. Dal punto di vista tematico, oltre alla questione dello sguardo maschile sulla figura della donna lettrice - riguardo alla quale ho tratto spunto da un saggio di critica letteraria di Francesca Serra, Le brave ragazze non leggono romanzi (Bollati Boringhieri) - mi interessava esplorare la conflittualità tra sessi e generazioni nell'Italia dei nostri giorni. Nel copione si richiede agli attori di entrare e uscire dai propri personaggi, alternando i punti di vista nella narrazione. È un meccanismo molto delicato; e anche per questo sono molto felice che il testo sia nelle mani di un regista intelligente e sensibile alla nuova drammaturgia come Lorenzo Loris e di tre interpreti del calibro di Alessia Giangiuliani, Cinzia Spanò e Massimiliano Speziani. In cosa è diverso questo testo dai tuoi precedenti? Come è cambiato negli anni, dal tuo debutto a fine anni '80 a oggi, il tuo rapporto con la scrittura? Ci sono degli elementi di continuità: per esempio, l'avversione al naturalismo. Sono sempre stato affascinato (anche e soprattutto come spettatore) dal teatro capace di creare una dimensione autonoma, che attinge alla "realtà" esterna senza la pretesa di riprodurla, o rappresentarla. Nel corso degli anni è però diminuita la mia propensione per l'assurdo esplicito, il grottesco, la satira. Credo di aver appreso a utilizzare convenzioni realistiche, per sovvertirle dall'interno, in maniera un po' più sottile. Da anni insegni drammaturgia alla Paolo Grassi, l'insegnamento ha cambiato il tuo modo di scrivere? Penso di sì. Appartengo alla categoria d'insegnanti di scrittura che non fanno riferimento direttamente al proprio lavoro autorale, ma guidano gli allievi nello studio di altri drammaturghi (soprattutto contemporanei). Questa metodologia mi ha portato a guardare con più oggettività anche a poetiche con cui non sento un'affinità immediata. In questo modo, spero che la mia gamma espressiva come autore si sia un po' ampliata. Lavori sia come Dramaturg che come "autore puro", qual è la differenza fra i due approcci? In realtà non sono mai stato un autore "purissimo". Amo seguire le prove dei miei testi e se necessario intervenire, tagliare, rimaneggiare. Faccio così fin dai miei primi lavori alla fine degli '80, con il regista Mauricio Paroni de Castro al CRT. Se ci sono le condizioni, mi piace costruire testi su improvvisazioni d'attore, come è successo nel recente Questi amati orrori con Massimiliano Speziani e lo scenografo Luigi Mattiazzi. Da Dramaturg bisogna mettersi al servizio di quello che nasce e si sviluppa sulla scena, che talvolta non prevede la scrittura di un testo vero e proprio. L'identità d'autore va messa tra parentesi. Ho trovato molto bello e interessante costruire, con il Teatro delle Moire o con la compagnia Estia, drammaturgie totalmente "mute". Com'è secondo te la situazione teatrale milanese? E quella italiana? Malgrado la crisi, a Milano si produce e ospita ancora parecchio buon teatro, di generi diversi. Mi pare che restino forti e competitive le tre "corazzate" teatrali che possono offrire al pubblico una programmazione su più sale: Piccolo, Elfo e Franco Parenti. Più difficile la sopravvivenza per gli spazi di piccola e media dimensione. A quanto sembra, il nuovo decreto ministeriale sui finanziamenti pubblici favorirà ulteriormente l'accentramento. Per quel che vale la mia opinione (cioè nulla), non sono d'accordo. A livello nazionale ciò che più preoccupa, da anni, è il dilagare del lavoro gratuito o sottopagato. Dato il contesto economico e politico, è sorprendente la quantità di buoni spettacoli che si riescono comunque a proporre. Come vorresti che fosse il teatro italiano fra 20 anni? Più aperto e connesso di oggi al resto del teatro europeo, con fitti scambi di testi e spettacoli e con frequenti coproduzioni. Il più possibile autonomo nel suo rapporto con il pubblico, svincolato dal traino del divismo cine-televisivo. Finanziato dagli enti pubblici soprattutto per quanto riguarda la formazione e il welfare dei lavoratori dello spettacolo, senza privilegiare alcune imprese teatrali rispetto ad altre. Emanuele Aldrovandi CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi [email protected] Pride di Matthew Warchus [Gran Bretagna, 2014, 120'] con Bill Nighy, Imelda Staunton, Dominic West, Paddy Considine, George MacKay n. 2 VII - 14 gennaio 2015 19 www.arcipelagomilano.org 1984, nel Regno Unito di sua ‘maestà’ Margaret Thatcher capita che attivisti gay londinesi si spostino dalla sfilata del Gay Pride alle miniere del Galles per sostenere il lungo sciopero dei minatori contro il governo. Il regista Matthew Warchus porta in scena la storia vera dell’inconsueta alleanza e solidarietà tra i LGSM (Lesbians and Gays Support The Miners) e i minatori gallesi, ed è subito successo al botteghino in patria e fuori. Film costato poco e per tutti, lontano da intellettualismi, gioca sui luoghi comuni e gli equivoci con un cast di attori consumati e nuovi talenti (Bill Nighy, Imelda Staunton, Paddy Considine, George MacKay). Punto di forza una sceneggiatura accorta e fluida che costruisce il racconto sull’evoluzione del punto di vista dei minatori nei confronti degli esuberanti supporter, dalla guardinga e diffidente tolleranza iniziale, all’affetto sincero oltre i pregiudizi e il sarcasmo delegittimante della stampa conservatrice nazionale che culmina nella scena conclusiva. Tra coming out, feste di paese, dove i gay (oltre a dimostrare che anche gli uomini sanno ballare) riescono a sciogliere i cuori e a suscitare empatia, crowdfunding degli attivisti per le strade di Londra, per raccogliere soldi per i minatori e le loro famiglie senza lavoro per molti mesi, e un megaconcerto, il film scorre mettendo armonicamente in fila episodi divertenti con diverse licenze poetiche rispetto alla vicenda storica. I drammi che fanno parte della vita vera di entrambe i soggetti, lavora- tori e omosessuali, vengono messi da parte per lasciare spazio al tema dell’aiuto reciproco per la lotta per i diritti, e la conclusione dello sciopero con la ‘sconfitta’ e il rientro in miniera dei minatori non viene approfondito. Da ricordare però il finale commovente con l’inconsueta e imprevista presenza dei minatori in testa al corteo del Pride di Londra e l’understatement del non più giovane minatore Cliff, un Bill Nighy molto in parte, mentre prepara tramezzini per gli scioperanti. Colonna sonora strepitosa con il meglio dei pezzi cult dei Mid 80’s: dalla dance Shame shame shame di Shirley & Co al funky di Silvester a Boy George e Frankie Goes to Hollywood. AdeleH & NY152 IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE TEMPORARY PARK ASPETTANDO LA BIBLIOTECA DEGLI ALBERI http://blog.urbanfile.org/2015/01/08/zona-porta-nuova-un-campo-agricolo-in-citta-per-expo/ MILANO ZONA 9 secondo [ Beatrice ] Beatrice Uguccioni DA ORA A FINE LEGISLATURA http://youtu.be/etk6kY8UwQE n. 2 VII - 14 gennaio 2015 20