numero 2 anno VII – 14 gennaio 2015

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LA SOLUZIONE PER IL DOPO EXPO: L’URBANISTICA DELLA VITALITÀ
Luca Beltrami Gadola
Parafrasando quello che Manzoni fa
dire a Don Abbondio potremmo noi
dire che se non le si ha ”le idee uno
non se le può dare”. Se la politica
non ha idee sul destino delle aree
del dopo Expo non può farsele dare
da un comitato di saggi come pensa
il Comune. Lascia sempre la bocca
amara quest’abdicazione al proprio
ruolo che impensierisce sul futuro.
C’è una sola giustificazione: lo
sconcerto di fronte alla necessità di
chiudere un’operazione fallimentare
iniziata e portata avanti da altri che
involontariamente, ma per loro fortuna, sono usciti di scena passando
ad altri il cerino acceso, chi bocciato
dalle urne, chi cacciato dalla magistratura. Vale comunque la pena di
ripercorrere le tappe essenziali della
vicenda.
Nel 2008 per partecipare alla gara
per l’assegnazione di Expo 2015
bisognava indicare su che aree
s’intendesse localizzare la manifestazione. Negli altri Paesi che ci
hanno preceduto in questo genere
di vicende, si sono indicate aree già
di proprietà pubblica. Noi no. Ci
siamo orientati verso aree private e,
prima di avere concluso una qualsivoglia trattativa per l’acquisto fissando un prezzo, le indichiamo come collocazione della manifestazione: si imbocca così una strada capestro che dà ai venditori un inusitato potere contrattuale. Il traino è Fiera Milano che deve vendere le aree
di suo possesso in origine destinate
a parcheggi, acquistate per 15 milioni e che con questo scherzetto è
in grado di venderle per 65. Gode la
famiglia Cabassi che vende anche
le sue e le vende bene perché nel
frattempo una manina provvidenziale ne ha cambiato la destinazione
d’uso da agricola a edificabile, tanto
che l’Agenzia del Territorio, richiesta
di una valutazione, la fa passare da
10 euro al metro quadro a 163. I
grandi manovratori sono Letizia Moratti e Roberto Formigoni, sindaco e
governatore. Fiera Milano e pure CL
si rallegrano, chi per aver venduto,
chi (CL), covando aspettative sulle
aree per il dopo Expo, per rifarsi
dall’aver perso il boccone di Cascina Merlata, altra gloriosa vicenda.
Arriviamo agli ultimi passi. Arexpo
SPA, una società posseduta per il
34,67% dal Comune di Milano, da
Regione Lombardia per un’identica
quota, per il 27,66% da Fondazione
Fiera Milano, il resto da Provincia e
Comune di Rho, compra per 315
milioni queste benedette aree, indebitandosi con le banche per 160 milioni.
Il dopo Expo diventa una patata bollente, perché il tempo vola e al 30
giugno 2016, quando scadrà il diritto
d’uso a suo tempo concesso da Arexpo a Expo 2015, le banche rivorranno indietro i loro soldi. Bisogna
vendere e subito le aree, ancorché
a termine. Ed ecco il bando che ne
fissa un prezzo (315 milioni fissati
dalla Agenzia del Territorio) e i termini per presentare le offerte: il 30
novembre dello scorso anno. Le offerte saranno valutate con una procedura del tipo “lo do a chi voglio
io”. Malgrado l’ottimismo del giorno
della conferenza stampa di presentazione dell’operazione, nessuno fa
offerta. Condizioni troppo onerose in
un momento di mercato inesistente.
Bastava guardarsi intorno per capire
come sarebbe finita.
Chiusi nell’angolo ecco l’idea: dobbiamo sentire i saggi. Ma con che
obbiettivo? Vendere in blocco o frazionare senza andar per il sottile pur
di rivedere i propri soldi e quelli delle banche? Se così fosse non val la
pena di spendere una sola parola in
più: auguri!
Se invece non è così, se di là delle
belle parole si pensa davvero un po’
più al futuro, magari anche alla città
metropolitana, vale la pena di porsi
delle domande, cominciando da
quelle di natura strettamente economica. Il futuro utilizzo, oltre al Padiglione Italia, riuscirà a tener conto
dei 168 milioni spesi per la Piastra
ai quali si aggiungeranno i 40 milioni
di ulteriori costi reclamati dalle imprese oggi inquisite? Che cosa varrà la pena di cercare di utilizzare e
in che ottica? Saranno esaminate le
15 proposte pervenute a seguito del
bando del giugno scorso col quale
Expo aveva sollecitato progetti e
idee per risolvere il problema delle
aree? In alcune di esse c’era certo
del buono.
Detto questo continuo a ritenere che
il destino delle aree debba essere
una decisione politica pur nel quadro della compatibilità economica,
dando dunque all’urbanistica il senso
pieno
e
attuale
come
quell’insieme di discipline che non si
limita a oscillare tra norme e regolamenti da un lato e astratte attenzioni alla forma urbis dall’altro. Il
successo delle trasformazioni urbane si identifica nella vitalità del costruito e della sua a continua adattabilità ai mutamenti sociali ed economici.
La creazione della vitalità urbana
comporta anche un’attenta regia
della composizione e scomposizione delle reciprocità. In parole povere non c’è trasformazione urbana
che non comporti gestione continua
delle funzioni d’uso dello spazio
pubblico come interfaccia dello spazio privato. Ogni funzione richiede
un ambiente circostante che stimoli
e favorisca le sinergie e dunque la
composizione accurata delle contiguità.
Nel caso delle aree di Expo e del
loro futuro, considerato che una o
due sole funzioni non saranno in
grado di garantire vitalità all’insieme, la scelta nel ventaglio delle
opportunità dovrà essere fatta incrociando le praticabili sinergie ignorando improponibili proposte di
parte, il consueto assalto alla diligenza pubblica. Fare un piano, un
disegno, dare regole, trovare un assetto proprietario sono solo le prime
tappe di un percorso che dovrà essere guidato e assistito: un’attività di
lungo respiro che travalica la funzione dell’urbanistica tradizionale e
dei suoi strumenti. Almeno un quinquennio e forse più: un lavoro al
quale non può sottrarsi la pubblica
amministrazione e dunque la politica. Stiamo parlando della vitalità
dell’urbanistica, di una nuova urbanistica.
MILANO E IL NUOVO SINDACO TRA TELENOVELA E THRILLER
Walter Marossi
Il 2015 della politica milanese sarà
caratterizzato da Pisapia e dalla
domanda si ricandida o no? Finora
come una fanciulla di Delly il sindaco si è negato a rispondere ma da
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giorni il tam tam dei bene informati
propende per il no. Altri sempre ben
informati avvisano che è una tattica
per far uscire allo scoperto gli avversari mascherati e chiarire il con-
testo politico altri ancora che è un
sondaggio per vedere se gli offrono
la Corte Costituzionale. Indipendentemente dalle scelte finali, non alle
viste, il solo fatto che si concretizzi
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un’ipotesi di ritirata, manda in ansia
il demi monde della politica. In primo luogo perché gestire una città
preannunciando la dipartita diventa
molto difficile, in secondo luogo perché necessariamente si aprirebbe
una interminabile campagna elettorale nella quale tutti i protagonisti
dovrebbero ricollocarsi, fare scelte
che avrebbero volentieri rinviato, ed
essere pesati. Volendo approfondire
potremmo suddividere l'ansia per
livelli.
Livello 0 - Fratelli d'Italia, Scelta Europea et similia, UDC, Movimento 5
stelle possono serenamente affrontare l'anno convinti che non sarà
peggio del 2014 in cui nessuno si è
accorto della loro esistenza. Un eventuale apertura dei giochi delle
candidature gli darebbe un po' di
ossigeno. NCD addirittura potrebbe
giocare qualche ruolo importante
com’è avvenuto nelle primarie liguri.
Livello 1- Il PD finora ha evitato le
lacerazioni alla ligure perché non c'è
stata necessità di primarie. Forte del
44,9% delle europee deve bissare il
successo alle politiche, per questo
ha caldeggiato l'ipotesi di cooptare
Pisapia nel partito o almeno nel
renzismo in modo da eliminare ogni
possibile concorrenza. Il sindaco
che capeggiasse un civismo poco
renziano innervosisce, tanto più che
parla di un “ponte” verso un mondo
rispetto al quale i renziani vorrebbero invece un argine, visto che la
legge elettorale parla di premio alla
lista e non alla coalizione.
Dover scegliere un candidato a sindaco ridefinirebbe le gerarchie interne traballanti dai tempi della dipartita di Penati, è vero che Renzi
ha preso il 60,40% dei voti alle primarie, ma il sansepolcrista Bussolati il 33% e deve sorbirsi una gestione unitaria. Compito difficile quello
di Bussolati che deve governare
un’organizzazione ricca di voti ma
perennemente sull'orlo di una crisi
di nervi, dove il peso burocratico
parassitario dei vecchi gruppi dirigenti spesso accidiosi è spropositato rispetto al loro peso elettorale.
Senza soldi, in crisi di tesseramento, con molte prime donne sul viale
del tramonto e molti caratteristi da
verificare, il segretario è partito al
contrattacco: la butta in politica, pone la questione centrale dell'ortodossia renziana: “o con Renzi o
contro di noi”, perché “quella sinistra
che verrà rappresentata nei prossimi giorni a Milano non è in linea con
la volontà di cambiamento richiesta
dal paese che questo governo sta
interpretando”. In pratica: mettiamo
alla porta i gufi ovvero meglio NCD
che SEL come in Liguria, niente
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giunte anomale (do you remember).
Cioè l'esatto opposto dello schieramento e del sentiment che ha portato Pisapia alla vittoria. Facile pensare che la scelta del segretario che
lascia ipotizzare nuove maggioranze provocherà vivaci dibattiti.
Livello 2: il PACA (partito assessori
civici e affini)- L'avvicinarsi delle elezioni riporta alla luce una organizzazione tradizionale della politica
italiana: il partito degli assessori,
figure forti di un ruolo conquistato
per meriti propri e decisione personale del sindaco, autonomi dai partiti, solidali con Pisapia fino al sacrificio (dei colleghi). La giunta ha due
anime: 1) quella minoritaria degli
assessori PD che vorrebbero Pisapia sindaco per 30 anni, che lo vorrebbero iscritto al PD o al renzismo
di complemento, che aborrono sentir parlare di liste e alleanze nelle
quali il loro peso decisionale è trascurabile. Certamente le prime vittime di un’eventuale rinuncia a ricandidarsi;
2) quella dei non PD e dei PD “quinta colonna” che lavora alla creazione di un rassemblement politico culturale alleato/alternativo al PD in cui
far confluire tutte le anime del variegato mondo progressista: l'altra
sponda per cui servirebbe un ponte.
A questa sponda vorrebbero dare
una lista e una minima organizzazione: per l'appunto il PACA. Vecchia storia quella della giunta che si
trasforma in un ridotto politico, proprio a Palazzo Marino la prima fu
100 anni fa quando Caldara andò in
conflitto con il suo partito. Il PACA è
erede diretto dell'arancionismo e
delle liste civiche con meno ambizioni palingenetiche e meno illusioni
ma con un più solido ancoraggio (si
sa per l'italico popolo l'assessore ha
un fascino straordinario) nella società civile e nell'exismo (quel variegato mondo di ex qualche cosa che è
sempre alla ricerca di un approdo).
Fautore di un sincretismo politico
culturale meneghino, alieno a ogni
omologazione romana, il PACA vuole essere il braccio armato di Pisapia ricandidato ma in base al detto
“piutost che nient l'è mei piutost” potrebbe essere lo strumento di partenza di un nuovo “papa straniero”.
Il comun denominatore del PACA è
un’antipatia concorrenziale con il
PD e una strategia “pas d'ennemis a
gauche” che è l'esatto opposto di
quella di Bussolati.
Livello 3 - Da anni c'è un 10% dell'elettorato critico con le politiche liberiste e di austerità, critico con le politiche sul lavoro del governo italiano, critico sull'atlantismo, oggi critico
su Renzi, un mondo che fece
dell'antiberlusconismo una ragione
di vita e che rimpiange i bei tempi di
quando si era all'opposizione. Fondamentali nell'elezione di Pisapia
ma in generale nelle vittorie del centro sinistra (nelle elezioni a turno
unico, doppio turno, di collegio anche se sono proporzionalisti) non
hanno mai avuto un riferimento politico unitario. È il mondo di quelli che
considerano gli elettori di destra antropologicamente diversi (dei pirla)
che non ama Renzi ma che non riesce a trovargli un’alternativa. Dispersi in mille associazioni questa
platea è corteggiata dal PACA, è
base del progetto locale del neovendolismo, ma potrebbe votare
anche la minoranza PD. Con ansia
tirano per la giacchetta Pisapia che
è con Doria, De Magistris, Leoluca
Orlando un simbolo della resistenza
al renzismo dominante.
Livello 4 - Più che di ansia per il
centro destra occorre parlare di sindrome maniaco depressiva. Privi di
candidati, privi di partito, privi di
coalizione, sottoposti alla leadership
alzhaimeriana di Berlusconi sperano
tanto di poter rinviare scelte che
provocherebbero ulteriori divisioni
anche se l'apertura di un confronto
politico personale nel centro sinistra
con conseguenti autogol gli dà un
po' di ossigeno convinti (a mio avviso giustamente) che i voti ci sono
mancano i guidatori. Nervosa anche
la Lega conscia che il lepenismo è
bello ma non produce né sindaci né
assessori né presidenti di Asl e società. Taluni ricordano anche che in
Milano i risultati elettorali stagnano
attorno al 6/7% e solo la campagna
elettorale di Maroni (con il contributo
di Ambrosoli) consentì di aggiungere un 10% con la lista personale. La
leadership bifronte Maroni Salvini
difficilmente reggerà.
Livello 5 - Il massimo dell'ansia è
quella dei candidati. In primis i parlamentari che tra legge elettorale,
nuove alleanze, scissioni potenziali,
primarie, rischio preferenze vivono
notti insonni. Non meglio gli “spintaneamente” candidati a sindaco che
la potenziale “diserzione” di Pisapia
e/o le cronache locali buttano in pista. Nel PD ce ne sono una dozzina. Tra questi: Emanuele Fiano il
più quotato, quello che tende a incarnare la continuità della tradizione
“riformista” accusato però da sempre di essere poco “decisionista”;
Lia Quartapelle, ormai candidata a
tutto forse suo malgrado, che rischia
l'effetto figlia del re di Siviglia “tutti la
vogliono nessuno la piglia”; Pierfrancesco Majorino eterno attor giovane, che dovrebbe meditare Guicciardini: “per lo ordinario erra più chi
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delibera presto che chi delibera tardi; ma da riprendere sommamente
la tardità ad eseguire, poi che si è
fatta la risoluzione”; Fabio Pizzul
che preferirebbe la Regione; Stefano Boeri che preferirebbe il parlamento; il ministro Lupi (non è errore
del correttore bozze) et altri ancora.
Nel PACA aspiranti candidati non
esistono perché oggi farebbero la
fine di Ravaillac, domani chissà. Nel
centro destra preso atto del ministro
Lupi (non è errore del correttore
bozze) di Stefania Craxi, dell'autoproclamatosi Gallera si cerca tra ex
banchieri e costruttori.
Su tutti, come ormai da alcuni lustri
c'è l'ombra del candidato fuoriclasse, che renderebbe superflue le
primarie e per taluni anche le elezioni, l'unico nome che il Corriere e
Repubblica non fanno: Ferruccio De
Bortoli.
NOTE SULLA M4: QUESTIONI APERTE
Ugo Targetti
La questione della linea M4 della
Metropolitana Milanese è ancora
aperta e il generico consenso sulla
utilità delle linee di trasporto in sotterranea non è sufficiente a sgomberare il campo da tutti i problemi
che si sono affacciati e che i comitati di cittadini negli ultimi tempi hanno
animato.
L’appello del Forum Civico metropolitano che chiede di realizzare solo una parte della linea metropolitana M4 e di realizzare in cambio altre opere di connessione tra
capoluogo e area metropolitana,
preannunciato dall’articolo di Giuseppe Natale su ArcipelagoMilano
n. 44 del 17 dicembre, privilegia una
logica d’area vasta rispetto alla visione ”Milanocentrica” che è alla
base della scelta del tracciato della
M4: visione questa che ha connotato per decenni la pianificazione urbanistica e la politica dei trasporti
del Comune di Milano. È quindi logico che chi sostiene che la prospettiva di Milano debba essere
quella dell’area vasta, condivida
l’appello del Forum Civico Metropolitano che indica un compito urgente
alla neonata Città metropolitana.
Edoardo Croci nel n. 40 di ArcipelagoMilano (novembre 2014) aveva
invece
sostenuto
le
ragioni
dell’opera che è presentata come
tassello fondamentale per la mobilità sostenibile nell’”area milanese”,
intendendosi per tale il territorio di
Milano capoluogo e dei comuni confinanti (o poco più). Un‘opera che,
accompagnata
dall’estensione
dell’Area C, aumenterebbe in modo
significativo la quota di spostamenti
su mezzo pubblico dei milanesi.
Sulla dimensione dell’indebitamento
futuro del bilancio comunale e quindi sull’opportunità e possibilità di
interrompere l’opera a favore di altre
priorità per l’area metropolitana, ha
scritto poi ampiamente Luca Beltrami Gadola nel n. 43 di ArcipelagoMilano; l’articolo affronta il tema
della scadenza al 31 dicembre 2014
del contributo statale alla M4 legato
ad EXPO (173 milioni) concludendo
che Milano ha diritto di non farsi
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condizionare da termini fittizi e di
chiedere al Governo di spostare i
finanziamenti su altre opere.
La politica delle grandi infrastrutture in Lombardia e nell’area metropolitana - La valutazione delle
grandi infrastrutture di trasporto in
Lombardia, come la M4, sconta la
tradizionale impostazione politica e
culturale di fondo della Regione e
del Comune di Milano che sono i
decisori effettivi della maggior quota
di investimenti. La Regione ha sempre operato le proprie scelte sulla
base di piani caratterizzati da tre
connotati. La contrattazione diretta
con il Comune di Milano (e con le
Ferrovie dello Stato) per la soluzione del nodo centrale. La negazione
dell’area metropolitana come specificità del territorio lombardo (preferendo definizioni geografiche più
sfuggenti come la regione urbana
milanese dagli incerti confini).
L’assenza di strumenti - modelli in grado di predire gli effetti sulla
mobilità complessiva delle opere
previste e delle politiche programmate (variazioni della dimensione e
della direzione dei flussi di traffico,
trasferimenti modali dalla gomma al
ferro, effetti di concentrazione o diffusione degli insediamenti e della
domanda di trasporto, ecc.) e quindi
in grado di valutare il rapporto costi
benefici delle opere previste e le
priorità di spesa. Dati oggettivi che
renderebbero trasparenti le scelte.
(1)
Nell’area metropolitana, dove si
concentra la maggior quota di spostamenti della regione, gli investimenti importanti sono stati sempre
decisi dal Comune di Milano, con
una prevalente ottica di concentrazione urbana, in totale autonomia
rispetto alla Provincia. La Provincia
ha quindi programmato la mobilità
con una visione residuale tra quella
del capoluogo e quella regionale,
rinunciando al ruolo di governo metropolitano. (2)
L’amministrazione Pisapia, con
l’approvazione delle “Linee di indirizzo per il nuovo Piano urbano della mobilità” del 2012, ha segnato
una netta inversione di tendenza,
politica e metodologica: il documento afferma la necessità e la volontà
di pianificare la mobilità di Milano a
scala metropolitana e fa esplicito
riferimento alla Città metropolitana
come istituzione preposta a tale
compito.
Il tracciato della M4 - Non ostante
le dichiarazioni d’intenti le “Linee di
indirizzo per il nuovo Piano urbano
della mobilità” contengono una contraddizione che è emersa con forza
in seno alla stessa Giunta in occasione dell’approvazione del bilancio
comunale. Infatti nel documento da
una parte si afferma la volontà di
portare a termine quanto deciso dal
precedente Piano della mobilità del
2001 e in particolare le linee metropolitane M5 e M4, che hanno un forte connotato “milanocentrico” e assorbono una grandissima parte delle risorse economiche destinate alla
mobilità e dall’altra si afferma
l’intenzione di “verificare il quadro
delle linee di forza definite dal PGT
e … del PUM 2001.. per selezionare
priorità di investimenti futuri, considerato il quadro delle ridotte disponibilità economiche, in funzione della loro efficacia ….”. e di sviluppare
una “Valutazione comparata tecnico
economica e ambientale delle alternative”. Ciò che si sarebbe dovuto
fare subito. (Al proposito occorre
anche fare autocritica da parte di chi
oggi chiede di interrompere l’opera,
come il sottoscritto e non ha allora
denunciato con forza la contraddizione del documento politico del
2012).
Infatti se all’impostazione del PUM
2001 si sostituisce un’organica visione di scala metropolitana, la valutazione della priorità d’investimento cambia drasticamente. Per
assumere decisioni che impegnano
per decenni il bilancio pubblico, non
solo del capoluogo ma anche della
Regione e dello Stato e ora anche
della neonata Città metropolitana,
Milano, la Provincia e la Regione
avrebbero dovuto predisporre un
piano della mobilità integrata (gomma / ferro/ ciclabilità) per l’intera a-
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rea metropolitana, supportato da
tecniche (modelli predittivi operanti
su grafi di rete, ecc) capaci di prevedere gli effetti dei singoli interventi
in termini di flussi di popolazione e
attività coinvolte, tempi di percorrenza, spostamenti modali e di valutarli in rapporto ai costi.
Nel caso della M4 nessuno mette in
dubbio l’utilità di una nuova linea
metropolitana, ciò che si discute è il
rapporto tra costi e benefici e la platea di cittadini cui sono destinati i
benefici.
Si discute quindi la priorità tra gli
investimenti possibili, rispetto a un
quadro di riferimento che non è
quello della sola Milano ma
dell’intera area metropolitana e
quindi di una popolazione più che
doppia rispetto al capoluogo. Certo
il tracciato urbano della M4 attraversa un’area ad alta densità insediativa e quindi è destinata a “trasferire”
un quota consistente di spostamenti
dal mezzo privato a quello pubblico,
ma in un contesto ove la popolazione ha già un alto tasso di utilizzo del
mezzo pubblico (circa il 50%) mentre lascerebbe pressoché invariata
la quota di spostamenti su mezzo
privato nel resto dell’area metropolitana (circa il 75%).
Ha senso quindi migliorare, a costi
elevatissimi, il rapporto mezzo pubblico / mezzo privato in un’area ristretta ove tale rapporto è già molto
alto e lasciare invariato tale rapporto
in un’area più vasta e soprattutto
per gli spostamenti che hanno come
origine / destinazione il capoluogo?
(3)
Se al momento della scelta del tracciato della M4 fossero stati a disposizione dei decisori e dei cittadini un
progetto di rete metropolitana e modelli di simulazione adeguati, si sarebbero potuti confrontare gli effetti
sulla mobilità dell’intera area metropolitana di un investimento a oggi
stimato in oltre tre miliardi (dato riportato da fonte giornalistica), concentrato su una sola linea radio centrica, piuttosto che distribuito su più
opere strategiche a scala territoriale
ampia.
L’appello del Forum Civico metropolitano indica una serie di possibili
“opere metropolitane” alternative
che si riporta in nota (4). A queste
aggiungerei il rafforzamento delle
linee urbane di superficie con corsie
riservate e precedenza semaforica,
già indicato nel citato documento
“Linee di indirizzo per il nuovo Piano
urbano della mobilità”, intervento
che estenderei ai maggiori centri
urbani, come Sesto S. Giovanni e
Monza. Naturalmente anche queste
opere andrebbero sottoposte alla
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valutazione di utilità relativa di un
Piano metropolitano fondato su modelli previsionali e stime dei costi.
Solo così si potrà avere un’elevata
probabilità di massimizzare la produttività degli investimenti pubblici.
Certo i risultati dei modelli non sono
assolutamente “oggettivi”, perché
dipendono dai dati che si immettono
e da come si imposta il modello;
non sono infallibili perché la realtà è
sempre più complessa della formalizzazione matematica; ma i modelli
mettono in relazione i fenomeni e
danno loro dimensioni comparabili
quindi rendono chiara la decisione
di investimento anche se alla fine la
decisione resta politica.
Un compito urgente per la Città
metropolitana- Oggi la nuova Città
Metropolitana ha il compito di programmare la mobilità complessiva
(viabilità, trasporto pubblico su ferro
e su gomma, rete ciclabile, interscambi ecc.) per tutta l’area, senza
separazioni tra capoluogo e hinterland. Gli amministratori metropolitani hanno dunque di fronte una decisione difficile, ovvero chiedere al
capoluogo di modificare o quanto
meno di sospendere l’attuazione di
una grande opera pubblica e verificarne la congruenza in un’ottica di
scala vasta. Sarebbe un atto di
grande coraggio. Cambiare la destinazione di un rilevante investimento
pubblico richiede tempo, vuol dire
iniziare processi decisionali complessi, fare nuovi progetti, dare il via
a nuove procedure e, non ultimo,
affrontare la questione sotto il profilo
contrattuale. Ma gli amministratori
metropolitani sanno che l’investimento per realizzare la M4 assorbirà per molti anni gran parte, se non
tutte le risorse per nuove infrastrutture di trasporto per Milano e per
tutta la Città Metropolitana che ha
oltretutto ereditato un bilancio fallimentare. D’altra parte la rapidità del
processo decisionale sarà il banco
di prova della nuova istituzione.
Pisapia non vorrà forse essere il
primo sindaco di Milano a interrompere la realizzazione di una metropolitana ma se saprà cambiar verso
alle scelte passate sarà il primo vero sindaco metropolitano, tale non
ope legis, ma per una visione strategica coraggiosa.
Corollario: la BREBEMI - È di questi giorni la notizia che il project financing della BREBEMI, la grande
opera appena inaugurata in Lombardia, non regge per mancanza di
traffico e che lo Stato dovrà intervenire con 300 milioni. Se le scelte
della Regione fossero state supportate da modelli previsionali efficaci
sarebbe risultato evidente ciò che i
decisori comunque sapevano e cioè
che l’opera non era né indispensabile né tanto meno prioritaria nel
completamento della rete autostradale (era la più facile da realizzare).
Il drenaggio di risorse che ha comunque comportato la BREBEMI,
che siano private o pubbliche, sposterà nel tempo la realizzazione della “Gronda intermedia – pedemontana” che è la vera priorità del sistema autostradale lombardo.
Note
(1). Nel luglio 2014 la Regione ha presentato la “Proposta preliminare di Programma regionale per la mobilità e i trasporti”; ancora oggi, non ostante
l’istituzione della Città metropolitana, nel
documento l’ ”area metropolitana” è citata di sfuggita; non è considerata questione centrale del piano. Eppure la programmazione europea 2014 – 2020, che
riserva una quota degli investimenti ai
trasporti, individua nelle aree metropolitane i referenti diretti per i programmi di
investimento. Nel documento si annuncia l’aggiornamento al 2014 dell’indagine
origine destinazione degli spostamenti in
Lombardia; una buona notizia ma resta
incerto il futuro uso dei dati.
(2). In realtà il primo PTC della Provincia
di Milano approvato dal Consiglio provinciale nel 1999 metteva in discussione
le scelte del capoluogo di concentrare
nella città gli investimenti in infrastrutture
di trasporto e, insieme alle altre province
lombarde, suggeriva alla Regione modifiche all’assetto del piano autostradale.
Tra gli anni 1995 e 1999 la Provincia
aveva anche organizzato una struttura
tecnica d’avanguardia per la modellizzazione della mobilità, per assumere le
decisioni di investimento sulla viabilità di
sua competenza su basi “oggettive”. Le
amministrazioni successive hanno revocato il PTCP e smontata la struttura tecnica.
(3). Negli ultimi anni la quota di spostamenti su mezzo pubblico è generalmente aumentata in tutta la regione; a ciò a
contribuito il miglioramento dell’offerta di
trasporto ma anche la crisi economica.
La crescita della percentuale d’uso del
mezzo pubblico è stato assai più alta in
Milano che nel resto dell’area metropolitana, per la strutturale capacità della rete
urbana del capoluogo ma probabilmente
anche per effetto dell’istituzione dell’Area
C.
(4). Si riporta il testo dell’appello “(...) Si
avanzano alcune proposte, realizzabili in
tempi brevi e sostenibili, sensate e di
grande utilità: della linea 4 costruire solo
il tratto Linate / aeroporto - Piazzale Dateo / passante ferroviario; collegare Linate a M2 Gobba; prolungare le linee esistenti : la M1 fino a Monza; la M2 a Vimercate; la M3 da San Donato a Paullo
(sulla carta dal 2000!), come da appello
di Legambiente; completare da Precotto,
attraverso il quartiere Adriano, fino a
Gobba, il collegamento del trasporto
pubblico sulla fascia nord/ovest e
nord/est tramite la metrotranvia già prevista nei piani delle opere pubbliche.”
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LA POLITICA PASSA, L'ARCHITETTURA RESTA
Jacopo Muzio
Il 27 gennaio scade il Concorso Internazionale di Architettura per la
riqualificazione dell'area del Mercato
Ortofrutticolo di Milano, 592.000 mq
- pari a due terzi della Bicocca - indetto da Sogemi, partecipata del
Comune di Milano e controllata
dall'Assessorato al Commercio. Un
concorso che non è un concorso,
segnalato all'Ordine degli Architetti
di Milano in quanto potranno parteciparvi in pochi.
L'Ortomercato, insieme all'ex Macello, è una delle aree più vaste, centrali e sfortunate del Comune di Milano: lì avrebbe potuto insediarsi
l'Expo Nutrire il pianeta, energia per
la vita senza spendere denari pubblici per l'acquisto di aree private;
nelle vicinanze, dove ora c'è uno
sbiadito praticello, doveva sorgere
la grande Biblioteca Europea di Informazione e Cultura; negli ex Macelli, la cui riconversione è affidata
agli studenti del Politecnico ed ai
loro professori (un tempo insegnavano Bottoni, Viganò, oggi il quadro
è molto cambiato), un accordo di
programma prevedeva l'insediamento dell'Università degli Studi,
finita poi in Bicocca (..); all'epoca
della Moratti, quando “la mafia non
esiste a Milano”, di fronte all'ingresso della Presidenza Sogemi c'era il
For a King, il night della 'ndrangheta
dei potenti Morabito. Tre mesi per
voltare pagina. Tuttavia, scorrendo il
bando, le caratteristiche richieste
per parteciparvi e le domanderisposte all'ente proponente (le famose Faq!) risulta chiaro che il concorso sia cucito addosso a pochi
fortunati; i concorrenti devono avere
già realizzato negli ultimi dieci anni,
al tempo stesso, grandi strutture di
mercati ortofrutticoli, sviluppi immobiliari di vaste aree urbane, progetti
energetici a scala territoriale.
In questi cinque anni la Giunta comunale, sostenuta da chi sperava di
vedere una discontinuità con i metodi lobbistici da Seconda Repubblica del ventennio di centro destra, ha
indetto: una pre selezione per il Mu-
seo della Memoria (Resistenza?),
finito purtroppo in niente; un concorso aperto per un asilo di 200 mq
(nel punto più in ombra di tutta Garibaldi Isola, poveri bimbi!); un concorso per il centro civico di Porta
Garibaldi e un concorso per il Ponte
della Bussa (promossi grazie alla
piattaforma Concorrimi promosso
dall'Ordine degli Architetti), il concorso per il Vigorelli, un concorso
aperto per i Servizi - più che altro
igienici - di Expo, indetto da Expo
s.p.a., altra partecipata del Comune
di Milano.
Evidentemente la nostra Giunta è
poco sensibile all'architettura in generale ed in particolare alla storia
dei concorsi di idee, i quali sono invece un modo efficace, democratico
e previdente per avere progetti interessanti e non calare dall'alto le
scelte del Comune, spesso discutibili.
La storia dei concorsi è interessante, in Italia potrebbe iniziare nel Rinascimento con la Cupola del Duomo di Firenze, vinto da Brunelleschi,
per passare nel Risorgimento da
Piazza Duomo di Milano oppure da
Piazza Cordusio; episodi architettonici “epocali”, passati alla storia sia
per la qualità dei concorrenti o magari dei progetti mai realizzati - di
cui solo a Milano si potrebbe scrivere un libro - sia per la cifra intellettuale di chi li ha indetti. Ad esempio in
Portogallo i concorsi hanno dato un
nuovo volto alla giovane democrazia europea ed hanno sviluppato
una scuola di architettura, divenuta
nota in tutto il mondo.
Invece nel 2015 accade che nel
centro storico di Milano - sempre più
tirato a lucido mentre le periferie
languono e fermentano – ci siano
grandi baruffe: la Triennale di Milano, altra partecipata del Comune,
chiama dieci consulenti, li fa lavorare quasi gratuitamente sull'area di
Piazza Castello e poi da il lavoro a
uno di questi, sic et simpliciter.
Scatta un'altra segnalazione all'Ordine degli Architetti, il cui rappresen-
tante nazionale sul Corriere giustamente scrive: “Gli Architetti italiani?
Sono i nuovi poveri” (una volta le
parole d'ordine erano: Amate l'Architettura! Gio Ponti; Architettura o
rivoluzione! Le Corbusier; oggi agli
studenti più talentuosi si consiglia di
espatriare). Eppure Piazza Castello
è una delle piazze storicamente più
rilevanti, si direbbe da manuale, già
funestata dal concorso “chiuso” rigorosamente ad inviti, brutta abitudine ereditata dall'Era Albertiniana
- per Expogate, il cui nome, che richiama l'americano Watergate, è
tutto un programma.
Sempre e solo nel centro storico,
l'auspicata riqualificazione della
Darsena di Milano, oggetto di un
Concorso Internazionale di progettazione nel 2008 (malamente sfogliato nelle soluzioni a terra proposte) la cui direzione lavori è stata
infine affidata agli inamovibili tecnici
comunali (assunti negli anni d'oro di
Formentini & C.), che hanno realizzato un modestissimo intervento a
budget ridotto, improntato a una edilizia anni ottanta lamiera verde /
mattone a vista, un regionalismo pre
muro di Berlino, appropriato forse
all'ambiente rurale della provincia
lodigiana, non a questa parte di storia del nostro territorio.
La riqualificazione di Piazza Oberdan è un altro progetto polveroso
uscito dai tavoli dei tecnici comunali
e dei Consigli di Zona - senza concorsi, “che fanno perdere tempo” necessario e auspicabile nelle sue
premesse e funzioni, ma veramente
modesto nella sua configurazione:
un marciapiedone in pietra e due
aiuole, con la scritta 1925 a pavimento (sic). Churchill quando c'era
da ricostruire il Parlamento inglese
dopo la Seconda Guerra mondiale
diceva ai suoi parlamentari: “Noi
diamo forma agli edifici, poi gli edifici daranno forma al nostro modo di
vivere” (“Architettura e potere”, Deyan Sudjic): la politica passa, l'architettura resta.
PIO ALBERGO TRIVULZIO: POCHE ALTERNATIVE PER USCIRE DALLA CRISI
Sandro Antoniazzi*
I problemi del Pio Albergo Trivulzio
nascono molti anni fa, da quando
l’allora Presidente Mario Chiesa si
propose di trasformare la “Baggina”
in una moderna clinica geriatrica,
possibile sede di polo universitario.
A questo scopo Chiesa aveva iniziato a creare nuovi padiglioni, a-
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
perto un laboratorio dalle enormi
potenzialità, realizzato reparti specialistici (cardiologia, pneumologia,
oncologia …) con a capo primari
(titolo naturalmente limitato all’uso
interno); in altre parole una realtà
molto lontana dalla tradizionale natura di casa di riposo. La sua idea
era di precostituire la struttura, per
poi farla riconoscere con un decreto
governativo, come clinica geriatrica,
già pronta a funzionare.
Si era creata quindi una condizione
di standard elevati che non avevano un corrispettivo nei contributi
regionali e nelle rette comunali, che
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continuavano a mantenere il loro
carattere “sociale”, previsti per le
case di riposo o RSA. Questa situazione si è in parte aggravata con
la legge regionale sulle IPAB (Istituto di pubblica assistenza e beneficienza), perché si è così definitivamente applicato a tutti i dipendenti il
contratto sanitario regionale, sia per
i reparti riabilitativi sanitari, sia per i
reparti sociali. Si tenga presente
che la maggior parte delle Case di
Riposo opera con lavoratori delle
cooperative, a un costo contrattuale
decisamente inferiore.
Per farla breve, in queste condizioni
il bilancio annuale “caratteristico”,
fatto dalle entrate e dalle uscite
dell’attività, è strutturalmente in
perdita: le entrate di contributi e rette non coprono le spese di personale e amministrative, il disavanzo
ammonta annualmente attorno ai 3
milioni. Ma se a questo si aggiungono gli interessi sui mutui e gli oneri fiscali, la perdita sale a circa 10
milioni. A questi dati contabili
d’esercizio, occorre poi aggiungere
i dati in conto capitale: in questo
caso il debito consolidato ammonta
a 90 milioni, dovuti soprattutto a
investimenti per mettere a standard
le strutture e ai deficit pregressi accumulati (da qui gli alti interessi annui che gravano sul bilancio). Di
contro il Pio Albergo Trivulzio possiede un patrimonio immobiliare
che viene stimato intorno ai 400
milioni, che però non è allo stato
realizzabile facilmente e in tempi
rapidi.
Che cosa è possibile fare? Un intervento risolutore sembra richiedere due operazioni diverse, contemporanee e convergenti. Innanzitutto
occorre riportare l’attività della gestione ordinaria sotto controllo, a
una situazione di pareggio economico. Non potendo tornare indietro,
rispetto alle decisioni del passato e
alla situazione di fatto, sarebbe bene spostare all’esterno l’attività a
carattere sociale e svolgere al Trivulzio solo l’attività sanitaria; ci sarebbero così maggiori entrate che
coprirebbero le spese non comprimibili del personale. In questo caso
la Regione dovrebbe impegnarsi a
portare al Trivulzio altre attività sanitarie - in quella visione che prese
forma proprio al Trivulzio con la riabilitazione post-acuta - attività di
carattere intermedio tra ospedale e
medicina di base.
In secondo luogo è necessario un
intervento straordinario della Regione e del Comune per superare la
fase critica sul piano finanziario;
visto che il patrimonio esiste, ma è
poco disponibile, occorre mettere in
atto un’operazione finanziaria - immobiliare - patrimoniale che sollevi
il Trivulzio dal peso del debito relativo sino alla sua copertura nel giro
di qualche anno (con l’assunzione
degli oneri per un periodo di tempo
limitato oppure con un’azione di
cartolarizzazione). Si tratta di
un’operazione di vendita, dolorosa
e che in condizioni normali non si
dovrebbe fare, ma a questo punto
purtroppo necessaria. Di là dalle
colpe e delle responsabilità, quelle
dirette ma più ancora di coloro che
non vogliono vedere come stanno
le cose, è chiaro che solo la Regione e il Comune possono risolvere il
problema del Trivulzio, ed è bene
che intervengano rapidamente per
rimetterlo in grado di tornare a essere una struttura efficiente al servizio dei milanesi.
*(Presidente del PAT 1992-94)
PENSARE AI MILANESI, PIÙ VECCHI, PIÙ SOLI, PIÙ POVERI
Paolo Peduzzi
La condizione di anziano si accompagna a maggiori condizioni di vulnerabilità per la salute, connesse
all’età, alle malattie, alle condizioni
sociali. Le persone con un età superiore a 65 anni che vivono a Milano
sono circa 328.000, pari al 24 %
della popolazione. Dal 60 all’80%
degli anziani sono portatori di una o
più malattie croniche, con un trend
che tende a crescere con l’età. Il
50% delle persone in età superiore
a 75 anni risultano vivere da sole, e
di queste il 20% presenta una situazione di deprivazione economica.
(1)
Le condizioni di malattia dell’anziano tendono pertanto a essere
complesse per l’intersecarsi di problematiche sanitarie e sociali che
richiedono la presa in carico della
persona, non essendo sufficiente un
approccio basato sulla diagnosi e
cura delle singole patologie. La rete
dei servizi sanitari e socio sanitari
fruibili dalla popolazione anziana si
presenta nella città di Milano particolarmente ricca per numero di
strutture e professionisti, capillare
distribuzione sul territorio, articolazione differenziata per tipologia di
problemi.
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
Accanto alla rete di offerta sanitaria
rivolta a tutta la popolazione, esiste
un offerta di servizi sanitari e socio
sanitari specifici per la popolazione
anziana rappresentata dalle cure
domiciliari, dai centri diurni, dalle
Residenze Sanitarie Assistenziali
(RSA), dalle strutture di riabilitazione.
Nel territorio dell’ASL di Milano, che
comprende quindi anche i Distretti
di Cinisello e Sesto San Giovanni,
sano attivi 41 gestori accreditati per
le cure domiciliari, che nel 2014
hanno assistito circa 10.500 anziani
con prestazioni infermieristiche, assistenziali, riabilitative e medico
specialistiche. I Centri diurni integrati, che offrono una semiresidenzialità agli anziani non autosufficienti,
sono 28 con un utenza nel 2014 di
1.100 anziani (1).
Le RSA sono 68 con 8.970 posti
letto e nel 2013 11.500 ricoveri di
soggetti prevalentemente non autosufficienti, portatori di patologie croniche e situazioni di disabilità più o
meno complesse. Dopo un trend in
crescita, negli ultimi anni la domanda si è stabilizzata; le persone tendono a ricoverarsi in età sempre più
avanzata, anche per effetto della
crisi economica e della conseguente
ridotta disponibilità delle famiglie,
per le quali, qualora le condizioni
abitative lo permettono, risulta più
economico rivolgersi per l’assistenza all’offerta di badanti (32.000
badanti stimate). Nell’ambito delle
RSA crescono le offerte rivolte a
target specifici, quali i malati di Alzheimer, per i quali sono stati attivati 22 nuclei per un totale di 475 posti
letto (1).
Le strutture di riabilitazione nel 2013
hanno effettuato circa 5.000 ricoveri
di persone anziane, con un’offerta
differenziata tra ricoveri e day hospital in riabilitazione geriatrica, ricoveri
in riabilitazione specialistica ad alta
intensità riabilitativa, ricoveri in riabilitazione di mantenimento per persone in dimissione verso il domicilio
o le RSA (1).
Complessivamente usufruisce di
questi servizi circa il 10-15 % delle
persone anziane, con percentuali
maggiori nelle fasce di età più elevate, caratterizzate da condizioni di
salute e di disabilità più complesse.
La grande maggioranza degli anziani, potatrice di una domanda di
presa in carico di patologie croniche
con livelli differenziati di autosufficienza, si rivolge quindi in prima istanza ai propri medici di famiglia e
7
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in seconda istanza alle strutture
specialistiche ambulatoriali e di ricovero.
I numeri sulla rete di offerta sanitaria e socio sanitaria della città di Milano poco ci dicono su quanto attualmente tale livello di assistenza
risponde ai requisiti di un buon sistema di cure primarie, individuati
nei più recenti documenti dell’OMS
e dell’Unione europea: l’accesso
facile ai servizi nelle condizioni di
bisogno, la continuità della presa in
carico dei problemi di salute nel
tempo, il coordinamento tra le diverse figure professionali e tra le cure
primarie e le cure specialistiche, la
completezza delle prestazioni di cura riabilitazione e assistenza erogate secondo buoni standard professionali.
I dati di alcune ricerche che hanno
raccolto l’opinione dei cittadini esprimono, accanto a una buona valutazione sull’operato del proprio
medico di famiglia, una criticità nel
rapporto tra il proprio medico e gli
altri servizi sanitari e socio sanitari;
il cittadino vive come problematica
la continuità del proprio percorso di
cura tra i diversi servizi e professionisti e tra i servizi sanitari e i servizi
sociali (2). Il problema principale
non sembra essere la carenza di
offerta di prestazioni, quanto la capacità del sistema di offerta di funzionare veramente come una rete,
in grado di accompagnare la persona lungo il suo percorso di diagnosi
cura e assistenza, garantendo in
modo coordinato l’accesso alle prestazioni di cui ha bisogno e la continuità tra servizi territoriali e servizi di
ricovero.
La figura chiave per dare una risposta a tale problema è quella del medico di medicina generale. Da vari
anni l’esigenza di una riorganizzazione dell’attività di tale figura professionale è condivisa. Recentemente a livello nazionale la legge
189/2012 ha fornito chiare indicazioni per la riorganizzazione delle
cure primarie. La Regione Lombardia dal 2012 ha avviato con la sperimentazione dei CREG una modali-
tà innovativa di presa in carico
dell’assistito con patologia cronica
da parte del medico di medicina generale. A Milano la sperimentazione
interessa attualmente 143 medici e
20.000 assistiti con patologie croniche, poco meno del 10% degli anziani portatori di patologie croniche
(1).
Manca ancora una chiara opzione
politica e tecnica sulla rilevanza delle cure primarie e della loro riorganizzazione intorno alla figura chiave
del medico di medicina generale. Le
indicazioni contenute nel recente
Disegno di Legge Regionale sulla
evoluzione del sistema socio sanitario lombardo sono a riguardo ancora
confuse e contraddittorie.
(1) Documento di Programmazione e
Coordinamento dei Servizi socio sanitari
dell’ASL di Milano
(2) Il questionario come strumento di
partecipazione in Prospettive Sociali e
Sanitarie 3, marzo 2013.
LETTERA APERTA DA PIAZZA SANT’AGOSTINO
Silvana Turzio, Filippo de’ Donato, Maria Luisa Bonecchi*
C’è un posto a Milano, proprio in
centro, senza storia, senza anima e
(forse) senza futuro. Probabilmente
uno dei tanti, un luogo che nessun
abitante di una città vorrebbe sotto
casa. Come tutti i posti abbandonati
è ogni giorno sempre più trascurato,
vilipeso e triste. Eppure, lì vicino, a
meno di 500 metri, c’è l’ingresso del
Museo della Scienza e della Tecnica, e poco più su la Basilica di
Sant’Ambrogio. Nel quartiere ci sono molti negozi e uffici e ben otto
scuole di diverso ordine e grado,
che ogni giorno aprono le porte a
centinaia di bambini e ragazzi che
attraversano piazza Sant’Agostino –
è questo è il luogo senza storia e
senza anima – e le vie adiacenti. In
ogni momento vi transitano coloro
che si servono della metropolitana,
fermata Sant’Agostino (povero Santo …).
E invece, questo povero slargo –
usare la denominazione piazza è
offensivo per tutte le piazze del
mondo – nel centro di Milano di
giorno è un grande parcheggio,
spesso selvaggio e sempre sporco,
o una distesa disordinata di bancarelle (quando c’è il mercato). Di notte, invece, diventa un luogo di ritrovo per centinaia di giovani, che bevono, fumano, urlano, giocano a
calcio, fanno cori e vandalizzano
automobili e palazzi. Schiamazzi,
tappeti di bottiglie rotte, sporco, uri-
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
na e feci ovunque. Senza il minimo
rispetto della quiete pubblica e delle
regole di civile convivenza, niente
educazione. E con la complicità di
alcuni minimarket spuntati come
funghi che vendono di tutto, violando palesemente norme fiscali e sanitarie. È stato tutto documentato e
denunciato, ma per ora sono stati
rari e inefficaci gli interventi delle
istituzioni per ripristinare la legalità e
l’ordine pubblico.
La via Cesare da Sesto va a morire
nella piazza. Un duplice cartello segnala l’accesso a senso unico sia a
sinistra che a destra, indicando con
involontaria ironia il valore di questo
luogo: né piazza né parcheggio né
luogo di movida né mercato, ma un
po’ di tutto.
Poiché è luogo sfruttato da persone
diverse e in ore diverse, nessuno sa
cosa succede prima o dopo il proprio passaggio. Per questo il luogo
è abbandonato all’indifferenza di chi
vi transita, di chi lo usa a ore o di chi
lo usa a giorni, di chi lo usa di notte
e di chi nelle sfere dell’amministrazione e della sicurezza pubblica,
pur conoscendo la situazione, continua a fare orecchio da mercante
(mai proverbio fu più adatto). Tranne i residenti, il Comitato di quartiere e un paio di valorosi Consiglieri di
Zona 1.
Gli unici che chiedono da tempo che
questo luogo torni a essere una
piazza, in cui le persone del quartiere possano passarci senza camminare sui cocci di vetro e con il naso
tappato. E che in via Cesare da Sesto i cestini non diventino discariche
abusive, le rotaie di un tram che non
passa più da quarant’anni vengano
tolte, il parcheggio in doppia fila e la
massa di giovani per strada non
siano più tollerati, perché un’ambulanza o un camion dei vigli del fuoco
non passa, speriamo solo che non
capiti un incidente, un incendio,
un’urgenza qualsiasi. Il sogno è una
piazza per tutti, residenti e non, giovani e meno giovani, anche insieme
ogni tanto, perché no? Anche questa è politica, vera e vicina alla vita
delle persone.
Che i giovani debbano avere degli
spazi cittadini a loro riservati è
un’ideologia che ha fatto il suo tempo e che certo non favorisce la convivenza con il resto degli abitanti. E
poi, quali sono oggi i giovani? Abbiamo adolescenti e giovani adulti,
studenti e giovani lavoratori, giovani
padri e madri, giovani in carriera,
giovani senza lavoro. Un arco di
tempo che va dai quattordici anni ai
quaranta. Il giovane che può e soprattutto deve (sembra ormai un dovere il rito dell’happy hour e del tirar
tardi sui marciapiedi) divertirsi in
luoghi pubblici senza costrizioni
rende molto dal punto di vista eco-
8
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nomico, ma poco sul piano elettorale.
Come si fa allora a continuare a
pensare che la fascia “giovanile”
vada protetta, coccolata, mantenuta
tale il più a lungo possibile? Perseverare nel non combattere la malamovida e nel non tutelare il resto
della popolazione, è segno di cecità
politica sull’attualità. Perseverare
nel proporre ai giovani luoghi senza
barriere etiche e comportamentali è
datato, non funziona più. È quindi
socialmente stupido. I giovani si sono sempre scelti da soli luoghi e
modi diversi da quelli dei loro vecchi. Quando li si lasciava crescere.
Perseverare da parte delle istituzioni nell’ignorare le richieste di persone ragionevoli e senza secondi fini
che chiedono che la piazza sia una
Piazza, che le vie siano Vie, che
mercato, posteggio, movida e locali
fuori controllo siano resi più civili e
regolati non è solo cattiva politica, è
protervia. In vista di EXPO 2015,
questo pezzo di città è un pessimo
biglietto da visita.
* Comitato Sant'Agostino
VERDE URBANO: UNA METAMORFOSI POSITIVA IN ATTO
Elena Grandi*
Negli ultimi anni, ho scritto per ArcipelagoMilano alcuni articoli sul verde urbano. È questo un tema che mi
sta particolarmente a cuore, vasto e
dalle molteplici sfaccettature, che
non si risolve solo nel concetto di
verde pubblico o privato e della sua
manutenzione, ma che riguarda la
percezione che i cittadini hanno dei
loro spazi verdi, la possibilità di
fruirne e di condividerli, la necessità
di promuovere e di sostenere una
nuova cultura del verde, l’esigenza
(che l’amministratore percepisce
quotidianamente) di modificare la
relazione tra le persone e gli spazi
aperti della città, trasformandola da
passiva ad attiva.
La sostenibilità di una città è determinata anche dalla sua capacità di
essere “verde”, nel senso più esteso
del termine (ovviamente, oltre che
dalla qualità della vita, dell’aria, dei
servizi, dal saper essere accogliente
e inclusiva, culturalmente e intellettualmente attiva, dal saper offrire
strumenti di lavoro e di crescita ai
suoi giovani, ecc. ): ogni azione politica tesa alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio cittadino
di giardini, parchi, alberi, prati non
potrà che produrre effetti positivi.
Milano, negli ultimi anni, ha intrapreso questa strada virtuosa, mettendo in atto profonde trasformazioni che, anche grazie alla proficua
collaborazione tra Amministrazione
e cittadini, daranno vita (sia pure in
tempi che non potranno essere immediati dal momento che si parla di
progetti a lungo termine) a una nuova visione del verde urbano e a
nuovo modo di concepire la relazione tra cittadinanza e spazi verdi. È
questo un percorso davvero importante che contribuirà a fare di Milano una città più bella e più vivibile;
un progetto complesso, che richiede
pazienza e fiducia ma che infine
porterà a risultati buoni e, soprattutto, duraturi.
Ora, a meno di un anno e mezzo
dal termine del mandato della Giunta Arancione, vale la pena di fare il
punto di quanto è stato fatto e si sta
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
facendo nell’ambito del verde urbano: non tanto nei termini dei singoli
interventi sulle aree, ma nel senso
più ampio della programmazione,
della gestione e della condivisione
di progetti con gli abitanti. Dopo un
complesso lavoro di redazione e di
messa a punto, l’approvazione del
nuovo Regolamento d’Uso e di Tutela del Verde Pubblico e Privato,
frutto dell’impegno dell’Assessorato,
dei Consigli di Zona, dei tecnici del
Comune e delle associazioni di cittadini, è ormai in dirittura d’arrivo:
entro breve il documento sarà sottoposto al voto del Consiglio Comunale.
Con esso Milano avrà finalmente a
disposizione uno strumento grazie
al quale, da un lato saranno chiariti
in maniera inequivocabile diritti e
doveri dei cittadini rispetto all’uso e
alla fruizione del verde e si porranno
in essere delle regole precise sulla
manutenzione, che si dimostreranno
utili anche in vista di ogni futuro
contratto d’appalto per la manutenzione del verde; dall’altro si regolamenteranno in maniera definitiva gli
interventi sul verde privato, anche
esso patrimonio prezioso della città
e che deve quindi divenire oggetto
di maggiore tutela rispetto a oggi.
Uno strumento prezioso che farà di
Milano una città all’avanguardia in
tema di tutela e sviluppo del verde.
Un altro punto su cui è opportuno di
soffermarsi è quello che riguarda la
Convenzione per i Giardini Condivisi, deliberata dalla Giunta nel 2012:
un provvedimento di forte significato, che semplifica e rende più rapida
la convenzione tra il Comune, in veste di proprietario, e chi richiede di
potere usufruire di un’area non utilizzata per farne un luogo aperto
alla comunità.
Le richieste da parte di associazioni
che vorrebbero dare vita a nuovi
Giardini Condivisi sono in aumento
in tutte le nove zone; mentre quelli
già esistenti stanno dimostrandosi,
nonostante le tante difficoltà con cui
devono fare i conti, sempre più organizzati, apprezzati e attivi. Aree di
proprietà comunale che fino a qualche anno fa erano abbandonate al
degrado, oggi si sono trasformate in
luoghi vivi e vissuti, di incontro, sedi
di attività culturali e di promozione
dell’educazione ambientale, di gioco, di feste di quartiere. Inoltre tra
questi luoghi, spesso molto distanti
tra loro, si è venuta a creare una
rete di solidarietà che, grazie anche
all’impegno di alcuni “esperti” giardinieri o agronomi che mettono a
disposizione (gratuitamente) la loro
esperienza e il loro entusiasmo, fa
sì che vi sia un continuo e fertile
scambio di idee, di progetti, di strumenti, di manodopera. In breve, la
condivisione tra giardini condivisi.
È quindi evidente e indiscutibile il
ruolo positivo e propositivo dei giardini condivisi: sia rispetto all’esigenza dei Milanesi di potersi occupare attivamente di aree verdi e al
contempo di disporre di luoghi
d’incontro e di scambio; sia riguardo
al recupero di luoghi non utilizzati.
Per queste ragioni si sta mettendo a
punto (il Consiglio di Zona 1 ha già
deliberato in tal senso) una modifica
di alcuni punti della convenzione
inserendo nel documento quelli che
dovranno essere i “doveri” del Comune, a oggi limitati solo alla cessione a titolo gratuito dell’area
all’associazione richiedente che deve per contro farsi carico della gestione, manutenzione, pulizia, controllo, apertura al pubblico della
stessa.
Tali “doveri” del Comune dovrebbero quindi essere gli interventi di disinfestazione e di derattizzazione, di
rimozione dei rifiuti da parte di AMSA, dell’allacciamento alla rete idrica e, nel caso che se ne ritenesse
la necessità, della creazione di recinzioni. Una sorta di piccolo “incentivo” e di riconoscimento dell’Amministrazione nei confronti di chi spende energie, lavoro e denari non per
se stesso ma per la comunità. Inoltre sarebbe auspicabile creare un
ufficio all’interno del settore Verde e
Agricoltura equivalente a quello che
a Parigi è chiamata Main Verte: tale
9
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ufficio, in collaborazione con i Consigli di Zona dovrebbe diventare un
punto di riferimento, di consulenza,
organizzativo per i cittadini che decidessero di dare avvio a un Giardino Condiviso.
Infine, come piccola nota a margine,
un esempio concreto di come stia
modificandosi il modo di concepire e
di sostenere non solo la cultura del
verde, ma anche di come l’Amministrazione ritenga importante il promuovere e il divulgare il valore della
biodiversità, del commercio di pro-
dotti a km 0, della condivisione di
esperienze comuni, dell’importanza
di dare spazio ad attività sostenibili
e di creare nuovi spazi aggregativi.
A seguito della delibera del Consiglio di Zona 1 che ne ha predisposto
le linee d’indirizzo, è stato emesso
un bando (che resterà aperto fino al
9 febbraio) per la concessione di
una parte delle cascine di viale Alemagna. Si tratta di un luogo poco
conosciuto, nel cuore del parco
Sempione, un tempo sede dei dipendenti del Comune addetti alla
manutenzione del verde e oggi (da
quando cioè la manutenzione è stata appaltata all’esterno) in gran parte non più utilizzati. È intenzione del
Comune che quel luogo possa tornare a vivere come fucina e laboratorio culturale di tutti quei temi che
attengono al verde urbano e all’educazione ambientale.
*(Presidente Commissione Verde Ambiente Demanio Casa Consiglio di Zona
1)
LA NECESSITÀ DI UNO SGUARDO OTTIMISTA
Alberto Negri
Nonostante la crisi profonda che
investe il nostro Paese, credo che
sia possibile ancora oggi costruire
speranza, perché “L’Italia che produce risultati di successo c’è. E’
viva e vitale, diffusa in mezzo a noi”.
È l’Italia che “non crede a chi parla
la lingua della rassegnazione e del
declino”. Così scrive Gianfelice
Rocca, imprenditore di successo e
attuale Presidente di Assolombarda,
nella prefazione al recente libro di
Lino Duilio, già parlamentare e Presidente della Commissione Bilancio
della Camera dei Deputati durante il
governo Prodi, dal titolo emblematico “Alzarsi in volo. Il futuro dell’Italia
tra eccellenze diffuse e rischi di declino”.
Oggi più che mai, alle porte di Expo
2015, è necessario narrare la fiducia nel Made in Italy. A questo proposito l’imprenditore Oscar Farinetti,
creatore di Eataly, ha ribadito recentemente che la mission degli italiani
deve essere quella di andare nel
mondo a “narrare bene”, meglio di
quanto abbiamo fatto fino a oggi, il
nostro Made in Italy. Dobbiamo imparare a comunicare con efficacia
l’ingegno, il design, la biodiversità,
le bellezze architettoniche e paesaggistiche del nostro Paese. Esiste
infatti una singolarità di microclimi,
di popoli, di culture, di tradizioni diverse, che solo il nostro Paese può
vantare.
L’incontro e il mixage di popoli diversi ha prodotto quel surplus di
creatività che ha prodotto nel passato grandi capolavori (basta pensare
agli artisti del Rinascimento che tutto il mondo ci invidia) e in un passato più recente (anni del boom economico) un grande sviluppo del manifatturiero italiano. Operai smart,
artigiani smart, manager smart e
imprenditori smart, figli di questa
“bio-diversità” genetica, hanno decretato il successo dei prodotti italiani nel mondo.
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
Proprio alcuni esempi, forse meno
conosciuti di altri ma non per questo
meno significativi, di eccellenze del
Made in Italy sono i protagonisti di
questo libro di Duilio. Sono Italiani,
eroi della quotidianità, che in questi
anni si sono affermati nel mondo,
sapendo coltivare con successo
l’ingegno italico, forse il patrimonio
più importante del nostro Paese.
L’insieme di queste testimonianze
costituisce un unico grande format
di speranza e di fiducia. Un format
costruito non sulla base di sogni o di
promesse, ma strutturato giorno per
giorno grazie a un impegno, a uno
spirito di innovazione e di ricerca
molto reale. In queste persone, protagoniste del Made in Italy possiamo trovare stimoli per innescare
quella spinta fiduciaria oggi più che
mai necessaria, se vogliamo far ripartire il nostro Paese, per “ritornare
a volare, impresa difficile ma non
impossibile” per usare le parole
dell’autore del libro.
Oggi più che mai abbiamo bisogno
di ritrovare le coordinate di
quell’Italia che vale, di quell’Italia
che sa guardare in alto e volare alto
per raccontare al mondo la propria
capacità di fare eccellenza. Abbiamo, per esempio, bisogno della testimonianza del professor Vincenzo
Mazzaferro, un grande chirurgo che
ha dimostrato al mondo scientifico
come sia possibile curare il cancro
al fegato con il trapianto, utilizzando
una modalità innovativa, andando
anche contro l’opinione dell’establishment medico quando era necessario. Così come abbiamo bisogno di capire, ascoltando i direttori
rispettivamente
dell’Osservatorio
Astronomico di Brera e del Laboratorio del Gran Sasso, quanto sia indispensabile e non più rinviabile un
rapporto fecondo tra ricerca pura,
ricerca applicata e trasferimento
tecnologico alle imprese.
Grazie a questo circolo virtuoso
possono nasce poli tecnologici
dell’innovazione, in grado di dare
impulso alle nostre aziende e nel
contempo di creare occupazione
qualificata. Perché, come ribadisce
Duilio, bisogna “considerare la ricerca come un investimento e non
come un costo. Per esempio la pratica dei tagli lineari di spesa, seguiti
dalla politica in anni recenti, vanno
nella direzione contraria rispetto a
quello che si doveva fare”.
Interessante è anche l’esperienza di
Massimo Colomban, il “sarto dei
grattacieli” che ha fondato l’azienda
Permasteelisa, leader mondiale nel
settore degli involucri architettonici.
Colomban ha trasformato una piccola azienda in una multinazionale
leader mondiale nel proprio settore,
grazie alla ricerca e all’innovazione.
Sommersi da tante narrazioni disforiche veicolate dai media spesso
con l’unico scopo di creare una
morbosa attenzione sul negativo al
fine di trasformare l’opinione pubblica in audience da vendere ai pubblicitari, oggi più che mai abbiamo
invece bisogno di riaprire i nostri
cuori verso orizzonti di razionale ottimismo. Ben diverso da quell’ottimismo emozionale, utilizzato da
tanti politici, che sfocia spesso solo
in una lunga serie di promesse vacue, prive di concretezza e di possibilità di incidere sulla realtà dei fatti.
La crisi produce sfiducia e la sfiducia a sua volta genera crisi: si attiva
in questo modo un pericoloso circolo vizioso da cui risulta difficile uscire. Tutti abbiamo bisogno di
un’iniezione di fiducia e nel contempo di un invito a lottare, ad assumerci le proprie responsabilità, a
non darsi mai per vinti, nonostante
“lacci e laccioli” posti da leggi assurde e da vincoli burocratici ottusi.
Infine non dimentichiamo che la fiducia, il patto fiduciario, in quanto
patto fra due contraenti richiede,
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quasi obbliga, a mettere in campo
un atteggiamento di partecipazione
e di coinvolgimento nelle scelte e
nelle decisioni, quindi, per esempio,
nel fare quelle leggi che hanno una
ricaduta socio-economica su tutta la
popolazione.
Così come un buon manager, un
buon imprenditore è chi sa fare
squadra, che sa ascoltare, sa coinvolgere nelle decisioni e nelle scelte
i suoi tecnici, i suoi operai, anche un
politico che ha come mira il consenso (nel significato di con-sentire,
cioè di sentire insieme) fiduciario
non può e non deve porsi mai nel
ruolo di soggetto unico al comando,
di chi si limita a chiedere la parteci-
pazione dei cittadini e delle categorie sociali solo a posteriori. La fiducia si fa insieme, con e per. Altrimenti si corre il rischio di entrare in
quel tunnel che genera dapprima
diffidenza e poi sfiducia assoluta. E
di quest’ultima gli Italiani già ne
hanno in abbondanza.
MERCATO E DEMOCRAZIA: LA GRAZIA SONO GLI ALTRI
Giuseppe Gario
Il cineforum San Fedele a Milano
offre anche film fuori distribuzione,
vecchi e nuovi. Quasi un documentario, Un condannato a morte è fuggito (di Robert Bresson, 1956) racconta la vera fuga dal carcere militare di Lione gestito dalle SS, nel
1943, di un ufficiale francese condannato a morte per resistenza. Nel
dibattito la moglie del regista, a quel
tempo suo aiuto, chiarisce: fuggire
era salvarsi, ma anzitutto lottare,
con l’aiuto dei compagni di prigionia.
Una grazia si rivelò l’aiuto finale di
un giovane collaborazionista, alsaziano volontario e poi disertore, che
gli fu messo insieme in cella, contro
la regola dell’isolamento: per spiarlo?
Il silenzio claustrale è rotto quasi
solo dalla voce del protagonista,
meditazione ininterrotta sulla scelta
tra isolarsi anche per sicurezza, e
fidarsi anche per necessità. Dal
primo impatto col recluso della vicina cella, depresso tentato suicida
che poi lo incoraggia e aiuta, fino
alla penosa decisione finale – in un
tempo sospeso, già agonia – di fidarsi del giovane compagno di cella, senza cui non avrebbe superato
l’ultimo muro, verso la vita. La grazia sono gli altri, dice la signora
Bresson.
Anche da questa crisi che ci imprigiona si può uscire grazie agli altri
che la condividono, se si sa e vuole
farlo.
Evgeny Mozorov, bielorusso di successo a Harvard e nella Silicon Valley, ci mette in guardia dal “soluzionismo”, diffusa tendenza a risolvere
individualmente
ogni
problema
comprando soluzioni, tecniche, tecnologie. Ma ottimizzare i consumi
individuali di energia non basta per
uscire dal cambiamento climatico,
né per gli obesi la dieta: pesano gli
interessi delle imprese inquinanti e
alimentari. «La visione classica della politica, in cui si discute di bene
comune e come realizzarlo, è sostituita dallo slogan: il problema è individuale. Ma la pretesa di risolvere
tutto con l’onnipresente mercato
nulla ha a che fare con la democra-
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
zia» [Martin Untersinger, Le Monde,
23/10/2014 p. 8].
Da Hongkong la Deep Knowledge
Venture, che investe in start-up biotecnologiche, ci dà un altro avvertimento: nuovo amministratore per gli
investimenti è la base dati Validating Investment Tool for Advancing
Life Sciences, Vital, che vota coi
colleghi umani ed elabora le informazioni sulle questioni da decidere
senza essere turbata da sonni o cibi
buoni o cattivi, preoccupazioni per i
figli o dispiaceri familiari. Inizia una
rivoluzione, dicono Martin Dewhurst
e Paul Willmott, direttori londinesi
McKinsey di consulenza strategica.
Andrew McAfee, direttore associato
al Massachusetts Institute of Technology, precisa: «La rivoluzione
industriale ha consentito di superare
i nostri limiti di capacità fisica. Le
tecnologie digitali lo fanno per le
nostre capacità mentali». (Già nel
1997 il programma Deep Blue batté
a scacchi il campione mondiale
Garry Kasparov).
Molti «sottovalutano enormemente
l’impatto sulle imprese delle nuove
tecniche analitiche combinate con le
masse dati disponibili», spiega Jeremy Howard (università di San
Francisco), «solo perché le loro potenzialità evolvono esponenzialmente: difficile da capire per gli esseri
umani». In The Future of Employment, i ricercatori Carl Benedikt
Frey e Michael Osborne (Oxford)
ricordano che nel mondo le tecnologie digitali potranno sostituire 140
milioni di lavoratori intellettuali a
tempo pieno: i manager, come in
DKV, dovranno rinunciare alle competenze “hard” (ragionamento applicato alle conoscenze) e sviluppare
le “soft”: «individuare i talenti del
mondo intero e stimolare le loro capacità creative, le loro qualità di
leader e il loro pensiero strategico»
[Annie Kahn, Le Monde, 23/11/2014, p. 7].
C’è un cortocircuito tra tecnologie
che chiedono creatività e responsabilità, e un soluzionismo che assolutizza il mercato: la «parola d’ordine
vincente, che non ammetteva repli-
che, era quella della “stabilizzazione
macroeconomica”, che avrebbe necessariamente, inevitabilmente, portato, tutto insieme, a breve scadenza, crescita economica, investimenti
esteri, democrazia, Stato di diritto,
pluralismo, burocrazia efficiente,
negozi stracolmi di roba, una moneta stabile e così via trionfando»
[Giulietto Chiesa, Russia addio,
2000, p. 59]. La Russia di Eltsin di
metà anni 1990 fu il laboratorio della
crisi assolutizzando il mercato, ma il
finanziere Georges Soros non vi investiva, perché (1996) «l’attuale sistema, che io definirei di capitalismo
predatorio, sta creando una grande
insofferenza tra la popolazione e
forma l’humus dove potrebbe crescere un messia, un leader carismatico, il quale, promettendo la salvezza della nazione, conduce il paese
al totalitarismo» [p. 142]. Puro buon
senso. L’assolutismo del mercato
porta al totalitarismo politico. Non
stupisce che il post-comunista Putin
si allei con i partiti post-fascisti europei, nel cortocircuito tra tecnologie
che richiedono un umanesimo globale e il loro uso predatorio in un
assolutismo di mercato che corrode
Stati, nazioni e società, militarmente
o per via finanziaria, e spiana la via
al totalitarismo.
Il Senato USA, a maggioranza repubblicana, ha varato il bilancio federale solo quando il governo ha
accettato di garantire i derivati, origine della crisi: è l’annuncio ufficiale
di una nuova bolla e di un ulteriore,
più grave, attacco della fiction finanziaria alla realtà economica, tecnologica, politica. E in Giappone, con
la rielezione di Abe, rispetto al governo precedente la sola novità è
Gen Nakatani, ministro della difesa
che propugna la sacralità dell’imperatore, interventi militari all’estero e
guerra preventiva. Dopo il vicino e
medio oriente, già in balìa della
guerra, e l’oriente europeo, in guerra non dichiarata, anche il lontano
oriente annuncia guerra. Guerra
non come soluzione, bensì logica
prosecuzione della crisi, così come
la crisi del 1929 fu protratta dalla
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seconda guerra mondiale fin che, a
metà anni 1950, si manifestarono gli
effetti positivi dovuti al passaggio
generazionale e alle prime grandi
riforme di governo della finanza e
dei mercati mondiali (nel 1944 il
Fondo Monetario Internazionale, nel
1945 l’ONU).
Di ulteriori grandi riforme di governo
della finanza e dei mercati globali
abbiamo oggi bisogno: il reddito di
85 super-ricchi eguaglia quello di
mezza popolazione mondiale [Oxfam, Working for the few, 2014, cit.
in Marco Politi, Francesco tra i lupi,
2014, p. 126]. Spostandosi incessantemente, gli uni e gli altri unificano il globo, ma in una torre di Babele. Purtroppo, molto deve ancora
accadere prima di venirne fuori nel
solo modo possibile: democraticamente e dal basso, con la personale
capacità di accogliere la grazia della
prossimità, sia fisica in spazi e tem-
pi limitati, sia relazionale in spazi e
tempi dilatati, poiché a questo serve
la tecnologia.
Possiamo uscire da questa crisi, noi
europei in particolare portando a
compimento l’investimento di oltre
mezzo secolo in una Unione Europea ormai matura per l’unione politica democratica, dopo quella di
mercato e finanziaria. Ma solo se
sappiamo ciò che vogliamo, come
l’ufficiale francese.
Scrive Walter Monici a Claudio Bacigalupo
Nello stato attuale il passaggio del
traffico nella zona del Castello è necessario per chiudere l'anello di circolazione della cerchia dei navigli.
Nello schema ipotizzato del piano
2003, con la chiusura del centro in
zone di circolazione limitata che
provengono dalla cerchia dei bastioni, piano che era stato considerato da AMAT come alternativa ad
Area C con previsioni tutto sommato
soddisfacenti, una qualche forma di
percorribilità per il traffico privato
locale deve rimanere in Foro Bonaparte o in Piazza Castello in alternativa. La mia opinione, espressa fin
dalla presentazione del piano di pedonalizzazione di piazza Castello in
corso Garibaldi, è che sia preferibile
pedonalizzare Foro Buonaparte liberando il trasporto pubblico dalla
congestione, e mantenere il residuo
traffico veicolare privato in Piazza
Castello dove in questo modo la separazione della pista ciclabile tornerebbe ad avere un senso.
Questo era il progetto originale in
base a cui era stato fatto il progetto
della ciclabile. Progetto che diventa
doppiamente assurdo e inutile in
caso di pedonalizzazione. Ritengo
che Bacigalupo volesse intendere la
riapertura di Gadio in questo senso,
cioè la riapertura di Piazza Castello
al traffico privato con pedonalizzazione di Foro Bonaparte, idea con
cui io concordo pienamente. Tutte le
ipotesi di pedonalizzazione della
cosiddetta Piazza Castello tendono
a forzare una situazione non propizia. La piazza davanti al Castello è
in realtà un percorso ad anello se-
micircolare che non ha le caratteristiche morfologiche della piazza.
Le utilizzazioni che ne sono scaturite lo dimostrano: file di bancarelle,
mercatini popolari in allineamento,
funzioni tutto sommato inutili e
sprecate rispetto a quelle dovrebbero caratterizzare le vere piazza di
Milano. La continuità pedonale verso via Dante non esiste perché interrotta da piazza Cairoli mentre la
congestione e i ritardi danneggiano i
mezzi pubblici. Molto meglio allora
pedonalizzare piazza Cairoli come
termine di via Dante e prevedere
l'incrocio col traffico privato residuale nell'anello di Piazza Castello che
ha le dimensioni sufficienti per organizzare questa funzione nel modo
migliore.
Scrive Gregorio Praderio a Claudio Bacigalupo
Non sono molto d'accordo con la
proposta di Claudio Bacigalupo di
riaprire viale Gadio per ridurre il traffico su Foro Bonaparte: la continuità
pedonale fra il Castello e Parco
Sempione verrebbe di nuovo interrotta con pochi benefici per il sistema complessivo che va dal Duomo
all'Arco della Pace. Non credo neanche che sia una soluzione "necessaria", visto che le simulazioni di
traffico fatte a suo tempo per i Piani
Particolareggiati del centro (si parla
però del 2002, sarebbe interessante
vedere i dati nuovi) mostravano che
la chiusura al traffico di Piazza Castello era fattibile senza aprire nuove strade. Non è neanche del tutto
vero che il Foro Bonaparte raccolga
tutto il traffico di Navigli e Bastioni
(c'è anche l'esedra di via Melzi d'Eril); dalle analisi pre - Area C emergeva poi anche una forte quota di
traffico passante che è corretto
venga trasferita su itinerari più idonei.
In definitiva sono d'accordo che l'iniziativa andava gestita meglio, con
valutazioni preventive più accurate;
non sembra opportuno però che a
iniziative affrettate e pasticciate si
pensi di porre rimedio con nuove
improvvisazioni o con soluzioni poco valutate.
Replica Claudio Bacigalupo a Gregorio Praderio
Mi permetto di aggiungere che i
limiti di Area C nei pressi di Parco
Sempione sono disegnati in modo
strano, che l'esedra di Melzi d'Eril
sposta all'esterno il flusso Bastioni
prima contro il nodo del Sempione, e poi non riesce a recapitarlo
su Conciliazione, il punto di ripartenza del sistema doppio dei Ba-
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
stioni; mi chiedo poi cosa sia questo "traffico passante" a cui alludete. Il traffico sulle circonvallazioni è per definizione "passante".
Nel caso del Castello, mi sembra
evidente che il beneficio di pedonalizzazione integrale della piazza
sia superiore alla connessione
Parco - Castello, dato che il Parco
ha una sua dimensione notevole
senza questo ampliamento. Il lato
posteriore del Castello avrebbe
comunque una grandiosa pedonalità a margine, mentre Gadio
sarebbe da riaprire in senso unico
a sezione ridotta e velocità limitata.
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MUSICA
questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected]
Il “Mistero” di Nino Rota
Noi italiani siamo dei veri masochisti. Siamo capaci di ignorare per
anni le più belle opere dei nostri artisti e sbandierare ai quattro venti
opere molto più insignificanti. La cosa è evidente e plateale – a mio
modesto modo di vedere – se si
mettono a confronto due autori che
hanno percorso il secolo scorso
stando ai due poli opposti della concezione della musica “colta”: da una
parte Luigi Nono (1924 – 1990) e
dall’altra Nino Rota (1911 – 1979),
veneziano il primo, milanese il secondo, entrambi giunti ai vertici della celebrità e del successo, ancorché in due diversi mondi (ma sempre al top, come direbbe il Briatore
di Crozza!), e tutti e due personaggi
di grandissima cultura e con una
copiosa produzione musicale. Mentre le musiche del primo sono state
in cartellone per mezzo secolo e lo
abbiamo esportato in mezzo mondo
– auspice, lo dico con dolore, soprattutto il grande Claudio Abbado
che gli fu fedelissimo amico – del
secondo il grande pubblico ha conosciuto a stento le colonne sonore
dei film di Federico Fellini e di Luchino Visconti e non ha mai o quasi
mai sentito alcunché in sala da concerto.
Grande merito della Verdi dunque,
in questo inizio di anno, è l’avere
riesumato un immenso capolavoro
di Nino Rota, del 1962 (cioè proprio
di quegli anni in cui la cosiddetta
avanguardia allontanava la gente
dalla musica contemporanea) e di
averlo eseguito in modo eccelso
all’Auditorium: la sconosciuta – o
assai poco conosciuta – Cantata
sacra per soli, coro, coro di voci
bianche e orchestra titolata “Mysterium”, su un collage di testi religiosi
messi insieme da Vincenzo Verginelli (detto Vinci su suggerimento,
pare, di D’Annunzio in occasione
della bravata di Fiume!).
L’opera, che dura solo settanta minuti ma ha una profondità di pensiero e una potenza espressiva che le
permettono di riempire totalmente lo
spazio di un intero concerto, è stata
concertata e diretta con grande cura
dal maestro Giuseppe Grazioli, specialista della musica di Rota di cui
sta registrando l’opera omnia, affiancato dalle direttrici dei due cori,
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
Erina Gambarini e Maria Teresa
Tramontin; ma va segnalata in particolare la straordinaria prestazione
del basso Gianluca Baratto che –
fors’anche grazie alla partitura che
premia indubbiamente la sua parte
– sovrastava di gran lunga le voci
della soprano Elena Xanthoudakis,
della mezzosoprano Giuseppina
Bridelli e del tenore Alessandro Liberatore.
Mysterium, che originariamente doveva essere intitolato Mysterium catholicum (così ha spiegato Grazioli
nel dedicare la serata alle vittime
del terrorismo di questi giorni e nel
ricordare che l’Autore ne ha modificato il titolo per dare un significato
universale alla religiosità del testo),
era stato commissionato a Rota dalla Pro Civitate Christiana di Assisi.
Lascia perplessi quel testo, costruito
mettendo insieme versetti presi qua
e là dai Vangeli di Giovanni e di
Matteo e da altre Scritture cristiane
per formare una sorta di Cantico
senza radici e senza storia, privo di
qualsiasi tradizione liturgica. Ma se
pensiamo alle grandi opere della
musica sacra – dalle Passioni di
Bach al Messia di Händel, dal Requiem di Mozart alla Missa Solemnis di Beethoven, dal Requiem di
Verdi alla Sinfonia dei Salmi di Stravinskij fino al War Requiem di Britten (scritto nello stesso anno del
Mysterium!) – ci rendiamo conto di
quanto poco peso abbia la qualità
dei testi rispetto alla capacità espressiva propria della musica. La
musica ha lo straordinario potere di
rendere credibile l’incredibile!
L’aspetto più intrigante di questa
opera consiste nel linguaggio utilizzato da Rota, quello stesso che ci
ha accompagnato per anni al cinematografo (e che per questo abbiamo ritenuto essere una sorta di linguaggio minore), che improvvisamente ritroviamo in una delle più
alte espressioni musicali, votata alla
elevazione spirituale e alla contemplazione del sacro. Nino Rota ci ricorda ancora una volta che la musica non si è infilata tutta nel vicolo
cieco di quella “avanguardia” che
dagli anni cinquanta in poi con la
Scuola di Darmstadt (l’Internationale
Ferienkurse für Neue Musik o il
Corso estivo internazionale per la
nuova musica) ha arrecato un danno incommensurabile alla storia della musica, allontanando il pubblico
da tutto ciò che ha sapore di contemporaneo; ci ricorda, dicevo, che
negli stessi anni molti compositori
non sono cascati in quella trappola
e hanno continuato a esprimersi in
un linguaggio a tutti comprensibile,
capace di rinnovarsi – come sempre
è accaduto, in tutte le epoche e in
tutte le arti – senza provocare irreversibili crisi di rigetto.
Sembra che il problema della innovazione del linguaggio musicale
all’inizio del novecento sia improvvisamente esploso, con Schönberg
(lui sì grandissimo musicista), come
una imprescindibile necessità della
nuova musica, tanto che gran parte
dei compositori comparsi dopo la
Scuola di Vienna si sono persi nella
ricerca sul linguaggio trascurando la
sostanza della poetica musicale
che, ovviamente, va molto oltre quel
problema e tocca le corde più intime
dell’animo umano; altrimenti non si
potrebbe parlare di musica.
La modernità del linguaggio di Rota
è invece contenuta nel magico modo di usare dissonanze e modulazioni, continuamente sorprendenti,
persino stranianti, ma pur sempre
accattivanti e soprattutto orientate a
farci entrare nella logica del racconto musicale piuttosto che a tenercene fuori con la perversa volontà di
esibire diversità e innovazione. La
musica è l’arte che più di ogni altra
nel novecento ha provato a rinnegare totalmente la propria origine e la
propria storia, quasi se ne vergognasse, con una cesura completa,
senza misericordia; senza rendersi
conto che così facendo tagliava i
ponti anche con il suo pubblico. La
musica che chiamiamo “classica” è
sempre stata musica “contemporanea”, ha avuto rapporti di odio e
amore con il suo pubblico, ma è stata sempre capita e, quale più quale
meno, accettata come musica del
proprio tempo; l’opera di Rota può
darsi che non piaccia a tutti (io l’ho
trovata meravigliosa) ma non si può
minimamente immaginarne qualsivoglia forma di rigetto da parte del
pubblico, né può esserne negata la
modernità o – ricordando che ha
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ormai mezzo secolo – la contemporaneità.
Da questo punto di vista vorrei dire
che possiamo considerare Nino Rota come un vero eroe della resisten-
za alle lusinghe di Darmstadt e alfiere di una musicalità genuina,
friendly, tanto profondamente radicata nella storia quanto proiettata
nella contemporaneità, senza il
complesso di dover apparire e neppure quello di voler piacere, tesa
solo a capire e farsi capire.
ARTE
questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected]
Quando il cibo si fa mostra
Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso
di avvicinamento e scoperta del
processo di produzione di ciò che
mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni
accompagnano il visitatore dalla
scoperta dei cibo, dall’origine
quando è seme fino alle reazioni
chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica, suggerimenti sulle modalità di conservazione o
exhibit interattivi.
La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del
Museo di Storia Naturale Milano,
rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica
promosso dal Comune di Milano
sul tema di Expo 2015. “Nutrire il
Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti
iniziative del programma di “Expo
in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono
raccontate le diverse classi e fa-
miglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine
di barattoli mostrano, portando, in
alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle
più importanti banche dei semi
italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti
dove mele, agrumi, riso, caffè e
cacao non avranno più segreti: tra
giochi interattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile
e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili
le nozioni più scientifiche a un
pubblico differenziato, senza per
questo incorrere nel rischio di
semplicismo.
Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di
tante ricette vi siano principi di
chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della
mostra illustra come funzionano
alcuni degli elettrodomestici più
comuni, con consigli sulla conservazione degli alimenti (sapevate
che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che
per meglio conservarli andrebbero
avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisico-chimiche ai
problemi di chi cucina (cosa fare
se la maionese impazzisce?).
Quando poi sembra che niente in
materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala
I sensi. Non solo gusto ovvero
niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare
giocano un ruolo determinante, al
punto talvolta di allontanare il gusto dalla reale percezione.
Il costo del biglietto è medio alto
(12/10 euro), ma la visita merita
davvero il prezzo d’ingresso se
non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il
2015.
Food. La scienza dai semi al
piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì,
Mercoledì, Venerdì, Sabato e
Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì
9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
Mostre e buoni propositi per il 2015
Il nuovo anno inizia sempre con i
migliori propositi, soprattutto in ambito sportivo e culturale: quest’anno
andrò almeno una volta al mese a
vedere una mostra, saranno almeno
due le sere la settimana dove correre. Sull’aspetto sportivo non possiamo aiutarvi, ma per quanto riguarda le mostre vi segnaliamo ciò
che accadrà a Milano nei prossimi
mesi. Alcune delle proposte sono
più indirizzate a Expo e al tema
dell’alimentazione, altre invece più
votate a mostrare il meglio dell’italianità a chi per l’occasione visiterà
Milano.
A Palazzo Reale faranno da padroni
due grandissimi artisti, simbolo del
genio italiano: Leonardo (dal 14
aprile) e Giotto (dal 2 settembre
2015 al 10 gennaio 2016). La prima
è presentata come la più grande
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
mostra su Leonardo mai ideata in
Italia, non celebrativa ma trasversale, a cavallo tra arte e scienza mentre la seconda ripercorre lo straordinario lavoro dell’artista fiorentino. Il
grande polo espositivo ospiterà molto altro: Natura, mito e paesaggio
dalla Magna Grecia a Pompei (21
luglio 2015 al 10 gennaio 2016),
mostra dedicata a raccontare il paesaggio nel mondo classico, indagando come nei secoli sia cambiato
e evoluto il rapporto dell'uomo con
la natura che lo circonda; Arte lombarda dai Visconti agli Sforza
(marzo – giugno 215) mostra che
intende celebrare una delle pagine
più gloriose della storia della città di
Milano che sotto le due famiglie si
affermò come una delle città più importanti d'Europa.
La prima grande retrospettiva dedicata a Medardo Rosso (marzo giugno) verrà allestita nelle sale ottocentesche della GAM di Palestro
mentre Palazzo della Ragione ospiterà da marzo a settembre Italia
inside out, una raccolta di immagini
che presentano al pubblico il lavoro
collettivo di quei fotografi che, in
momenti diversi, e con sensibilità
individuale, hanno colto gli aspetti
principali della vita del nostro Paese.
Se cibo e alimentazione sono i temi
attorni ai quali si sviluppa Expo
2015, non mancano di certo mostre
che li celebrino: attesissima è infatti
Arts & Foods, unica Area tematica
di Expo realizzata in città e allestita
negli spazi interni ed esterni della
Triennale di Milano dal 9 aprile fino
al 1 novembre. La grande mostra
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(7000 mq) metterà a fuoco la pluralità di linguaggi visuali e plastici, oggettuali e ambientali che dal 1851,
anno della prima Expo a Londra,
fino a oggi hanno ruotato intorno al
cibo, alla nutrizione e al convivio.
Inoltre farà tappa a Milano dal 28
aprile al 6 settembre la mostra Il
Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e
Bronzino, ospitata prima al Palazzo
del Quirinale (fino al 15 aprile) e che
concluderà il proprio percorso a Fi-
renze dal 16 settembre al 15 febbraio.
La proposta è vastissima e in continua crescita, non resta che segnarsi
le preferenze in agenda e non abbandonare i buoni propositi.
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca
Se un pomeriggio d’inverno un
viaggiatore avesse voglia di scoprire
Milano attraverso uno dei luoghi
simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi
all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello
spazio è la personale di Céline
Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano.
L’esposizione ha un titolo che non
passa inosservato: bau bau.
L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche
un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e
all’esperienza della scuola del Bauhaus.
Effettivamente, superate le difficoltà
iniziali di approccio all’apparente
incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela
ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video
e scritti.
L’artista ha una formazione relativa
all’architettura e alla cultura visuale,
e ha riflettuto a lungo sulle “strutture
di sostegno”, ovvero su ciò che
supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che
relazionale.
L’amicizia diventa per l’artista una
dimensione di lavoro e una forma
d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia
sono condensati nel libro The
company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque
può accomodarsi e leggerlo, e chi
vuole può anche salire sul tavolo
per osservare dall’alto la visuale
all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta
appositamente dalla Condorelli in
occasione della mostra.
Un altro tema forte è infatti il dialogo
con gli spazi dell’Hangar. La mostra
è stata pensata in relazione alle
precedenti esposizioni (il pannello di
legno all’ingresso è lo stesso della
mostra precedente di Gusmão e
Paiva, e Céline vi ha posto una ven-
tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la
scoperta delle opere; i video in onda
su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione
con lo stabilimento Pirelli di Settimo
Torinese.
Musica che fa da sottofondo
nell’ingresso e nei bagni, installazioni che diventano sedute su cui i
visitatori possono accomodarsi e
colloquiare, tende dorate mosse dal
vento: bau bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di
riflessione negli interessati, curiosità
negli scettici, stupore negli appassionati. Giulia Grassini
Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano
fino al 10 maggio 2015 – da giovedì
a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso
gratuito
La luna è ospite al museo di via S. Vittore
Dalla Galleria dedicata a Leonardo
alla luna il passo è breve se si è
all’interno del Museo della Scienza
e della Tecnologia, anzi è brevissimo da quando alla fine di ottobre è
stata inaugurata l’Area Spazio dedicata all’esplorazione astronomica.
In un percorso che comincia con gli
strumenti che dall’epoca di Galileo
in poi sono stati utili a osservare,
studiare e misurare gli oggetti celesti, la nuova sezione del museo racconta quattro secoli di ricerca astronomica dagli albori della scienza
moderna ai giorni nostri.
Due le sezioni dell’esposizione: Osservare lo Spazio e Andare nello
Spazio; la prima presenta i congegni e gli apparecchi che hanno accompagnato e cambiato l’osservazione dello spazio dalla Terra, tra
essi i due globi celesti e i due terrestri di Coronelli e Moroncelli del XVII
secolo, il modello di legno
dell’Osservatorio Astronomico di
Brera, il settore equatoriale di Sisson del 1774, usato per i primi studi
di Urano e per la scoperta dell’aste-
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
roide Esperia, prima scoperta scientifica dell’Italia unita ad opera di
Giovanni Virginio Schiaparelli.
Nella seconda sezione il visitatore
entra in contatto con le tecnologie
che permettono di esplorare lo spazio e migliorare la conoscenza del
cosmo e della Terra: si entra in una
riproduzione parziale di Stazione
Spaziale Internazionale con la cupola e una ricca selezione di contenuti,
tra gli altri sugli schermi sono riprodotte immagini (reali e ricostruite)
che ritraggono l’Italia vista dallo
spazio. Sono qui esposti l’imponente Z9 - uno dei tre stadi del lanciatore Vega, il satellite San Marco
per lo studio dell’atmosfera, il satellite Sirio per le telecomunicazioni e
alcuni straordinari oggetti legati alle
missioni lunari, tra cui la rarissima
tuta Krechet che avrebbe dovuto
essere indossata dai cosmonauti
russi nel progetto poi abbandonato
di sbarco sulla Luna.
A lasciare senza fiato anche il visitatore meno coinvolto è però il piccolissimo frammento di suolo lunare
esposto in una piccola palla trasparente. Nel 1973, come segno di fratellanza e collaborazione da parte
degli Stati Uniti, il presidente Richard Nixon dona al Governo Italiano e poi al Museo il frammento di
basalto portato sulla Terra dagli astronauti dell’Apollo 17. Proveniva
dall’area chiamata 'Taurus Littrow
Valley', raccolto dal comandante
Eugene Cernan al termine della
missione (7-19 dicembre 1972).
Se anche non si è appassionati astronomi, o profondi conoscitori delle vicende del cielo è certo che quel
piccolo pezzetto di luna non lascia
indifferenti ma, anzi, il poterla vedere così da vicino innesca un’emozione indescrivibile.
Museo Nazionale della Scienza e
della Tecnologia Leonardo da
Vinci Da martedì a venerdì 9.30-17
| sabato e festivi 9.30-18.30 Biglietti
d’ingresso 10,00/7,50/4,50 €
15
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Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento
Uno straordinario racconto di un
dopoguerra animato da artisti, collezionisti, intellettuali e mercanti è lo
scenario che si immagina faccia da
sfondo alla relazione di amicizia tra
Yves Klein e Lucio Fontana raccontata nella mostra in corso al Museo
del Novecento e che immergono chi
vi è coinvolto con stimoli visivi e
suggestioni intellettuali.
Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con
in comune la ricerca artistica che si
articola verso nuove dimensioni
spaziali e concettuali. Ripercorrendo
il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due:
più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si incontrano dei due artisti. L’apice del
sodalizio si raggiunge quando si
spalanca la vetrata sopra piazza del
Duomo con la Struttura al neon di
Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un
dialogo straordinario all’interno del
quale il visitatore non può che sentirsi coinvolto ed estasiato ammiratore.
Cinque sono gli anni cui la mostra è
dedicata: dal 1957, anno in cui Yves
Klein espone per la prima volta a
Milano alla Galleria Apollinaire una
serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein.
L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si
incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un
monocromo dell’artista francese,
diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia.
Nell’esposizione sono documentati
cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che
hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia
dell’arte novecentesca. L’affinità in-
tellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana
(fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein
dal monocromo al vuoto. Entrambi
perseguono uno spazio immateriale,
cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà.
Una mostra da non perdere “Yves
Klein Lucio Fontana, Milano Parigi
1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali
non appaga solo la fame conoscitiva del visitatore, ma soprattutto fa sì
che venga immerso in un mondo blu
splendente che offre un profondo
godimento emozionale.
Klein Fontana. Milano Parigi
1957-1962 Museo del Novecento
piazza Duomo fino al 15 marzo
2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì,
mercoledì, venerdì e domenica 9.30
– 19.30 giovedì e sabato 9.30 –
22.30 Biglietti :10/8/5 euro
Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio
Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile
voglia di visitare una mostra, quali
sono le proposte della città? Intorno
alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di
chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così
centrale o forse proprio per il fatto
che è ancora aperta.
Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria
Vittorio Emanuele, è una mostra in
continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro
Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché
gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita
un’infinità di disegni e schizzi, L3 si
pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte
le tipologie di pubblico con linguaggi
comprensibile e divulgativi offrendo
un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini
che per adulti.
Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali
che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del
pensiero e dell’operato leonardesco:
macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere
smontate e rimontate; riproduzioni
del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di
ruolo a schermo nei quali i visitatori
vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori
dell’artista con un grande pannello e
due touchscreen dedicati al restauro
digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore.
Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e
ancora fino al 31 ottobre 2015, la
mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la
posizione decisamente strategica. Il
successo di pubblico sarebbe stato
migliore (forse) con un maggiore
rilievo dato dalla stampa e dei social
network, e da un costo del biglietto
più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte:
non perdiamola e anzi, dimostriamo
che anche a Milano ci sono centri di
ricerca capaci di produrre mostre
interessanti senza necessariamente
creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali.
Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo
1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015
Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i
giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro
Il “re delle Alpi” conquista anche Palazzo della Ragione
Quella al Palazzo della Ragione non
è solo una mostra di fotografia sui
grandi spazi, come riporta il titolo, è
un’ode alle avventure e alle montagne di Walter Bonatti. 97 gli scatti
presentati in quella che si sta imponendo sempre di più come una sede espositiva di valore della città di
Milano.
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
Ma alle grandi fotografie del mondo,
alle riproduzioni audio e video si affiancano alcuni degli oggetti che
hanno da sempre accompagnato
Bonatti: gli scarponi di cuoio oramai
consunti, la Ferrania Condoretta,
una piccola macchina fotografica
che usò sul Petit Dru, e la macchina
per scrivere: una Serio, modello E-
verest-K2, che gli venne regalata
dalla stessa azienda produttrice
perché raccontasse la vera storia di
ciò che successe sul K2 nel 1954.
È forse grazie a quel dono che Bonatti prese ad affiancare all’alpinismo e all’esplorazione delle vette
anche la narrazione. Acuto e attento
osservatore del mondo, Bonatti at-
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traverso i suoi reportage darà voce
a realtà lontane appassionando i
lettori delle più grandi riviste italiane,
prima tra tutte Epoca.
Un uomo decisamente in controtendenza rispetto al contesto nel quale
viveva: nell’Italia post-bellica del
boom economico Bonatti sceglie
l’allontanamento dalla realtà per andare a scoprire mondi nuovi e inesplorati. Mai lo sfiora il pensiero di
rimanere, anzi torna sempre a casa
per raccontare il suo vissuto: da
ciascun viaggio porta con sé racconti, riflessioni e tante, tantissime
immagini per far sognare chi non
riesce a partire con lui.
Le immagini in mostra raccontano
dei grandi viaggi, della sua capacità
di errare solo e della sua grande
ammirazione per la potenza della
natura. Emerge anche una certa
consapevolezza di sé: durante i suoi
viaggi Bonatti escogita una serie di
tecniche con fili e radiocomandi che
gli consentono di essere non solo
parte delle proprie fotografie, ma
romantico protagonista, quasi ultimo
e affascinante esploratore del mondo.Una mostra che coinvolge il visi-
tatore mescolando avventura, fotografia e giornalismo, giungendo a
delineare il profilo di un grande uomo che ha contribuito a fare la storia del Novecento.
Walter Bonatti. Fotografie dai
grandi spazi Palazzo della Ragione
Milano fino all'8 marzo 2015 - Orari
Tutti i giorni: 9.30 - 20.30 // Giovedì
e sabato: 9.30 - 22.30 La biglietteria
chiude un’ora prima dell’orario di
chiusura Lunedì chiuso Ingresso 10
euro
Marc Chagall porta la leggerezza a Palazzo Reale
Non si può essere a Milano
nell’autunno 2014 e non aver visitato la grande retrospettiva dedicata a
Marc Chagall, tale è stato il battage
pubblicitario che ha tappezzato
l’intera città. Non solo, ma Chagall è
anche uno di quegli artisti che rimangono nei ricordi anni dopo la
fine degli studi, che sembra facile
capire e apprezzare e per i quali si è
più predisposti a mettersi in fila per
andarne a vedere una grande mostra. Su questa scia è stato pensato
il percorso che ha condotto
all’ideazione della mostra, che
prende proprio le mosse dalla domanda “Chi è stato Marc Chagall? E
cosa rappresenta oggi?”
L’esposizione, a Palazzo Reale fino
al 1 febbraio, accompagna il visitatore in una graduale avvicinamento
all’artista; attraverso 15 sale e 220
opere si scopre l’artista affiancando
l’esperienza artistica alla sua crescita anagrafica. Uomo attento e profondamente sensibile al mondo che
lo circonda, Chagall, è figlio ed erede di tre culture con le quali si è
confrontato e che nel suo lavoro ritornano spesso: la tradizione ebraica dalla quale eredita figure ricorrenti, come l’ebreo errante, e immagini cariche di simbologie; quella
russa, sua terra natia dei bianchi
paesaggi e delle chiese con le cupole a cipolla, e quella francese delle avanguardie artistiche, incontrata
più volte durante i suoi soggiorni.
Queste eredità si manifestano in
maniera eterogenea e armonica in
uno stile che rimarrà nella storia per
essere solo suo: colori pieni di forma e sostanza, animali e uomini
coprotagonisti in una sinergia magica, l’atmosfera quasi onirica e
l’amore assoluto che ritorna in ogni
coppia raffigurata, quello tra Marc e
Bella Chagall e che intride di felicità
e leggerezza ogni altro oggetto raffigurato intorno a loro. Persino il secondo conflitto mondiale e poi la
morte dell’amata Belle paiono non
appesantire il suo lavoro, quanto
invece lo conducono a una maggiore profondità e pregnanza di significato.
L’immediato godimento della mostra, che potrebbe essere ostacolata dalla lunghezza e dal corpus così
importante di opere, è dato anche
dalla capacità didattica della audioguida e dei pannelli di mediare tra il
pensiero e il valore pittorico dell’artista e l’occhio poco allenato del visitatore. I supporti presenti in mostra contestualizzano in maniera
chiara il periodo e i lavori del pittore,
offrendo tal volta una descrizione,
tal volta un approfondimento nelle
voci della curatrice Claudia Zevi o
dell’erede dell’artista, Meret Meyer.
La mostra racconta anche la poliedricità dell’artista: attraverso i costumi, i decori e le grandi scenografie che l’artista ha realizzato per il
Teatro Ebraico Kamerny di Mosca
emerge lo Chagall sostenitore entusiasta e attivo protagonista in ambito culturale della Rivoluzione d’ottobre; nelle illustrazioni per le Favole di La Fontaine e nelle incisioni
per Ma vie (la sua autobiografia) si
incontra un altro Chagall ancora,
che non teme in nessun modo il
mettersi alla prova con qualcosa di
nuovo e diverso.
Uomo e artista che si fondono in
una personalità quasi magica che al
termine della percorso espositivo
non si può non apprezzare e che
sancisce, ancora una volta, il ruolo
dell’artista nella storia dell’arte moderna.
Marc Chagall. Una retrospettiva
1908 - 1985 - fino al 1 febbraio 2015
Palazzo Reale, piazza del Duomo
Milano - Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30 Giovedì e sabato:
9.30-22.30
Giovanni Segantini tra colore e simbolo
Una retrospettiva come Milano non
ne vedeva da tempo: 18 sale ricche
di ricerca, dipinti e testi che ripercorrono la vita e il lavoro del maggiore
divisionista italiano, Giovanni Segantini. Si tratta di un ritorno ideale
quello di Segantini a Milano, il capoluogo lombardo rappresentò infatti il
polo di riferimento intellettuale e artistico per l’artista; era la Milano della rivoluzione divisionista che stava
lentamente dimenticando lo spirito
scapigliata per cogliere la sfida simbolista. Al fianco del Segantini maturo delle valli e delle montagne
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
svizzere si riscopre anche un giovane Segantini che a Milano compie il
proprio apprendistato e ritrae i Navigli sotto la neve o delle giovani
donne che passeggiano in via San
Marco.
La mostra è un racconto complesso
sul mondo di Giovanni Segantini
che accompagna il visitatore in un
graduale avvicinamento all’artista,
che lo invita ad avvicinarsi attraverso i quadri, alle emozioni, ai pensieri
e alle riflessioni che alle opere sono
vincolati.
I grandi spazi, gli animali, le montagne sono elementi non di complemento e non casuali in Segantini ma
anzi, acquisiscono un valore mistico
e quasi panteistico che permea
l’intero lavoro, frutto del forte legame tra l’artista e la natura. Questa
ultima, madre spirituale per l’artista
(e orfano di quella biologica), è
spesso resa (co)protagonista delle
opere al punto che giocando sui titoli e sulla compresenza tra uomo e
animali si arrivi interrogarsi su quale
sia il vero protagonista. L’uso dei
colori, che si scopre con il tempo,
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sempre più potente grazie alla giustapposizione dei colori complementari e uno dei momenti culmine
si raggiunge nell’azzurro senza eguali del cielo di Mezzogiorno sulle
alpi (1891).
La mostra può essere percorsa e
goduta in diverse maniere: in ordine
cronologico seguendo l’evoluzione
artistica e personale dell’artista accompagnati dallo scandire degli accadimenti della vita dell’artista, oppure seguendo le sette sezioni tematiche in cui l’esposizione è suddivisa: Gli esordi, Il ritratto, Il vero ripensato, Natura e vita dei campi,
Natura e Simbolo attraverso i pannelli chiari e lineari che accompagnano ciascun gruppo di sale; o ancora, lasciandosi trasportare dall’uso magistrale della tavolozza dei
colori, che ha reso Segantini il maggiore esponente del divisionismo
italiano. È una delle poche occasioni dove le scelte curatoriali e allestitive consentono al visitatore di unire
la vita e il lavoro dell’artista creando
un percorso omogeneo dal quale
emerge la complessità del carattere
dell’artista, composto, come tutti gli
uomini, da vari ruoli: figlio, padre,
uomo, artista. Qualsiasi modalità si
sia scelta per la fruizione della mostra se ne uscirà con appagata la
necessità di bellezza e colore, ma
più vivida quella di percorrere le
montagna e le valli tanto amate
dall’artista.
Una nota positiva: i toni alle pareti
che vengono giustapposti uno dopo
l'altro, stanza dopo stanza, creando
come una rappresentazione visiva
al sedimentarsi delle conoscenze
dell’artista.
Una nota negativa: nessuna segnalazione all’ingresso della mostra sul
numero di sale e il tempo previsto di
visita, l’orario di chiusura sono le
19.30 ma dalle 19 i custodi provvedono incessantemente a fare presente la questione facendo uscire il
pubblico dalle sale alcuni minuti
prima dello scoccare della mezza.
Alla stessa ora chiude anche il bookshop, non una scelta vincente laddove quest’ultimo rappresenta notoriamente una delle maggiori fonti di
entrata per mostre e musei.
Segantini fino al 18 gennaio 2015
Palazzo Reale (Piazza Duomo, 12 20121 Milano) Biglietti (con audioguida in omaggio) €12/10/6 Orari
Lunedì: 14.30-19.30 Martedì, Mercoledì, Venerdì e Domenica: 9.3019.30 Giovedì e Sabato: 9.30-22.30
LIBRI
questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected]
Jean Echenoz
'14
Adelphi , settembre 2014
pp.110, euro 14
Nella sterminata produzione di ricerche storiche, opere memorialistiche o di narrativa, carteggi, epistolari, fumetti dedicati alla Grande Guerra in questo anno centenario, il brevissimo (110 pagine) romanzo del
francese Echenoz merita un'attenzione tutta particolare per i lampi di
icasticità che proietta nella banalità
dell'orrore quotidiano della vita di
trincea.
L'autore, dopo le fortunate biografie
dedicate a Maurice Ravel, Emile
Zàtopek e Nikola Tesla è tornato
con " '14 " al romanzo, costruendolo
come una serie di istantanee scattate nel mare di sensazioni che nessun essere umano aveva mai provato prima dell'inferno di quella
guerra. Un'istantanea, ovviamente,
esige un occhio che guarda, in questo caso l'occhio del protagonista
Anthime, che percepisce sgomento
una serie di eventi di cui avverte
l'accadere ma senza comprenderne
il perché.
Echenoz delinea, così, l'infantile entusiasmo iniziale di tutti, ma proprio
di tutti, per una guerra che sarebbe
durata poche settimane (???): "si
concluderà molto prima di Natale
....", dicevano i coscritti sulla tradotta che li portava al fronte; le agghiaccianti sensazioni olfattive che
incombono sulle trincee, senza che
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
nemmeno gli spostamenti d'aria dei
bombardamenti possano diradarle;
lo scurirsi del metallo delle baionette, reso opaco dai gas, che nessuno
avvertiva; il lavoro silenzioso dei
genieri francesi, che fissano i fili del
telefono "per mettere in contatto
comandi e trincee, utilizzando come
supporto gli arti irrigiditi dei compagni caduti.
E tutto senza che il protagonista e i
suoi camerati capiscano alcunché
dell'ignoto in cui si sono immersi,
così come pure delle cause, dei motivi, degli sviluppi, delle strategie,
delle tattiche di quell'evento tenebroso e indecifrabile di cui sono attori e vittime.
Già, vittime innanzitutto, vittime di
classi dirigenti che - ma questo Echenoz non lo dice e lo lascia capire
al lettore riflessivo - mandano i loro
uomini sul campo di battaglia con
l'uniforme dai pantaloni rossi, come
a Solferino 50 anni prima, ben visibili a mitraglieri tedeschi e con il kepi al posto dell'elmetto, che una volta introdotto, ricorda il romanzo, essendo un aggeggio di cui non era
stato specificato l'utilizzo, veniva
adibito a fini culinari. Ma anche l'elmetto, come il kepi, doveva essere
azzurro lucido e, riflettendo i raggi
del sole, trasformava chi l'aveva indossato in un allettante bersaglio. E
i fanti delle trincee si vedevano costretti, ben inteso di loro iniziativa, a
cospargerlo di fango.
Un evento tragico, la perdita del
braccio destro, strappa - paradossalmente per sua fortuna- il protagonista dall'orrore delle trincee e lo
trascina nelle esperienze di un invalido di guerra. Echenoz così trasferisce la sua penna tagliente nel
mondo dell'assistenza ai reduci feriti, regalandoci pagine tanto amare
quanto esilaranti sulle attenzioni che
la Rèpublique riserva ai suoi figli
menomati dalla guerra.
Memorabile è il passo dedicato al
rapporto tra Anthime e il suo braccio
mancante, e al riaffiorare, nei mesi
successivi all'amputazione, della
presenza dell'arto perduto nella organizzazione complessiva del corpo. Come non meno pervasa di
umorismo nero è la descrizione del
pistolotto che il medico militare dedica all'evento di cui è stato vittima
l'ormai ex fantaccino.
Un apologo surreale che va dagli
aneddoti storici sull'ammiraglio Nelson, che vedeva nella sua mutilazione la prova dell'esistenza dell'anima, a battute di bassa lega ("è
all'anulare della mano sinistra che si
infila la fede, la quale ha bisogno
della mano destra per essere tolta:
qui sta il problema per il monco in-
18
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fedele") e a paragoni agghiaccianti
("certi a cui era stato amputato il
pene, hanno confessato di avere
erezioni e eiaculazioni fantasma").
Paolo Bonaccorsi
SIPARIO
questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected]
La donne che legge – il conflitto tra i sessi nel teatro di Gabrielli
Intervista a Renato Gabrielli
Come è nato e di cosa parla il testo "La donna che legge", in scena al Teatro Out Off dal 14 gennaio all'8 febbraio. L'ho scritto circa
tre anni fa. Mi sono inventato una
strana storia ambientata in una città
italiana di provincia, sul mare. Un
ricco signore di mezz'età, poeta fallito, si invaghisce di una ragazza che
ha visto assorbita nella lettura di un
grosso volume, sulla spiaggia. Vuole di nuovo contemplarla mentre
legge, e per questo la fa contattare
da una donna avvocato, sua ex amante, offrendole dei soldi. Si avvia
così una perversa relazione a distanza che assume tratti via via
sempre più paradossali e inquietanti.
Dal punto di vista tematico, oltre alla
questione dello sguardo maschile
sulla figura della donna lettrice - riguardo alla quale ho tratto spunto
da un saggio di critica letteraria di
Francesca Serra, Le brave ragazze
non leggono romanzi (Bollati Boringhieri) - mi interessava esplorare la
conflittualità tra sessi e generazioni
nell'Italia dei nostri giorni.
Nel copione si richiede agli attori di
entrare e uscire dai propri personaggi, alternando i punti di vista nella narrazione. È un meccanismo
molto delicato; e anche per questo
sono molto felice che il testo sia nelle mani di un regista intelligente e
sensibile alla nuova drammaturgia
come Lorenzo Loris e di tre interpreti del calibro di Alessia Giangiuliani,
Cinzia Spanò e Massimiliano Speziani.
In cosa è diverso questo testo dai
tuoi precedenti? Come è cambiato negli anni, dal tuo debutto a
fine anni '80 a oggi, il tuo rapporto con la scrittura? Ci sono degli
elementi di continuità: per esempio,
l'avversione al naturalismo. Sono
sempre stato affascinato (anche e
soprattutto come spettatore) dal teatro capace di creare una dimensione autonoma, che attinge alla "realtà" esterna senza la pretesa di riprodurla, o rappresentarla. Nel corso degli anni è però diminuita la mia
propensione per l'assurdo esplicito,
il grottesco, la satira. Credo di aver
appreso a utilizzare convenzioni realistiche, per sovvertirle dall'interno,
in maniera un po' più sottile.
Da anni insegni drammaturgia
alla Paolo Grassi, l'insegnamento
ha cambiato il tuo modo di scrivere? Penso di sì. Appartengo alla
categoria d'insegnanti di scrittura
che non fanno riferimento direttamente al proprio lavoro autorale, ma
guidano gli allievi nello studio di altri
drammaturghi (soprattutto contemporanei). Questa metodologia mi ha
portato a guardare con più oggettività anche a poetiche con cui non
sento un'affinità immediata. In questo modo, spero che la mia gamma
espressiva come autore si sia un po'
ampliata.
Lavori sia come Dramaturg che
come "autore puro", qual è la differenza fra i due approcci? In realtà non sono mai stato un autore "purissimo". Amo seguire le prove dei
miei testi e se necessario intervenire, tagliare, rimaneggiare. Faccio
così fin dai miei primi lavori alla fine
degli '80, con il regista Mauricio Paroni de Castro al CRT. Se ci sono le
condizioni, mi piace costruire testi
su improvvisazioni d'attore, come è
successo nel recente Questi amati
orrori con Massimiliano Speziani e
lo scenografo Luigi Mattiazzi.
Da Dramaturg bisogna mettersi al
servizio di quello che nasce e si sviluppa sulla scena, che talvolta non
prevede la scrittura di un testo vero
e proprio. L'identità d'autore va
messa tra parentesi. Ho trovato
molto bello e interessante costruire,
con il Teatro delle Moire o con la
compagnia Estia, drammaturgie totalmente "mute".
Com'è secondo te la situazione
teatrale milanese? E quella italiana? Malgrado la crisi, a Milano si
produce e ospita ancora parecchio
buon teatro, di generi diversi. Mi pare che restino forti e competitive le
tre "corazzate" teatrali che possono
offrire al pubblico una programmazione su più sale: Piccolo, Elfo e
Franco Parenti. Più difficile la sopravvivenza per gli spazi di piccola
e media dimensione. A quanto
sembra, il nuovo decreto ministeriale sui finanziamenti pubblici favorirà
ulteriormente l'accentramento. Per
quel che vale la mia opinione (cioè
nulla), non sono d'accordo. A livello
nazionale ciò che più preoccupa, da
anni, è il dilagare del lavoro gratuito
o sottopagato. Dato il contesto economico e politico, è sorprendente la
quantità di buoni spettacoli che si
riescono comunque a proporre.
Come vorresti che fosse il teatro
italiano fra 20 anni? Più aperto e
connesso di oggi al resto del teatro
europeo, con fitti scambi di testi e
spettacoli e con frequenti coproduzioni. Il più possibile autonomo nel suo rapporto con il pubblico,
svincolato dal traino del divismo cine-televisivo. Finanziato dagli enti
pubblici soprattutto per quanto riguarda la formazione e il welfare dei
lavoratori dello spettacolo, senza
privilegiare alcune imprese teatrali
rispetto ad altre.
Emanuele Aldrovandi
CINEMA
questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected]
Pride
di Matthew Warchus [Gran Bretagna, 2014, 120']
con Bill Nighy, Imelda Staunton, Dominic West, Paddy Considine, George MacKay
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
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1984, nel Regno Unito di sua ‘maestà’ Margaret Thatcher capita che
attivisti gay londinesi si spostino dalla sfilata del Gay Pride alle miniere
del Galles per sostenere il lungo
sciopero dei minatori contro il governo. Il regista Matthew Warchus
porta in scena la storia vera
dell’inconsueta alleanza e solidarietà tra i LGSM (Lesbians and Gays
Support The Miners) e i minatori
gallesi, ed è subito successo al botteghino in patria e fuori.
Film costato poco e per tutti, lontano
da intellettualismi, gioca sui luoghi
comuni e gli equivoci con un cast di
attori consumati e nuovi talenti (Bill
Nighy, Imelda Staunton, Paddy
Considine, George MacKay).
Punto di forza una sceneggiatura
accorta e fluida che costruisce il
racconto sull’evoluzione del punto di
vista dei minatori nei confronti degli
esuberanti supporter, dalla guardinga e diffidente tolleranza iniziale,
all’affetto sincero oltre i pregiudizi e
il sarcasmo delegittimante della
stampa conservatrice nazionale che
culmina nella scena conclusiva.
Tra coming out, feste di paese, dove i gay (oltre a dimostrare che anche gli uomini sanno ballare) riescono a sciogliere i cuori e a suscitare empatia, crowdfunding degli
attivisti per le strade di Londra, per
raccogliere soldi per i minatori e le
loro famiglie senza lavoro per molti
mesi, e un megaconcerto, il film
scorre mettendo armonicamente in
fila episodi divertenti con diverse
licenze poetiche rispetto alla vicenda storica.
I drammi che fanno parte della vita
vera di entrambe i soggetti, lavora-
tori e omosessuali, vengono messi
da parte per lasciare spazio al tema
dell’aiuto reciproco per la lotta per i
diritti, e la conclusione dello sciopero con la ‘sconfitta’ e il rientro in miniera dei minatori non viene approfondito.
Da ricordare però il finale commovente con l’inconsueta e imprevista
presenza dei minatori in testa al corteo del Pride di Londra e
l’understatement del non più giovane minatore Cliff, un Bill Nighy molto
in parte, mentre prepara tramezzini
per gli scioperanti.
Colonna sonora strepitosa con il
meglio dei pezzi cult dei Mid 80’s:
dalla dance Shame shame shame
di Shirley & Co al funky di Silvester
a Boy George e Frankie Goes to
Hollywood.
AdeleH & NY152
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
TEMPORARY PARK ASPETTANDO LA BIBLIOTECA DEGLI ALBERI
http://blog.urbanfile.org/2015/01/08/zona-porta-nuova-un-campo-agricolo-in-citta-per-expo/
MILANO ZONA 9 secondo [ Beatrice ]
Beatrice Uguccioni DA ORA A FINE LEGISLATURA
http://youtu.be/etk6kY8UwQE
n. 2 VII - 14 gennaio 2015
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