Diffamazione, i problemi del nuovo ddl,Non si ferma il ddl sulla

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Diffamazione, i problemi del nuovo ddl,Non si ferma il ddl sulla
Diffamazione, i problemi del nuovo ddl
Lo scorso 29 ottobre, il Senato della Repubblica italiana ha approvato un disegno di legge (che ora
andrà alla Camera), contenente alcune modifiche sulla diffamazione a mezzo stampa, riguardanti le
testate online, che hanno fatto parecchio discutere.
Tolto il carcere, come pena per i diffamatori – un’anomalia, in Occidente, soltanto italiana – è stato
innalzato l’ammontare delle multe (che possono arrivare fino a 50mila euro e riguardano non solo
l’autore dell’articolo, ma anche il direttore o vicedirettore della pubblicazione) e inasprita la
disciplina della rettifica da inserire, senza commento, entro 48 ore.
Scandali, grida di “bavaglio” e contro il liberticidio. Giustificate? É complicato. E qualsiasi riflessione
sull’argomento non può prescindere dal contesto in cui tale discussione si svolge: un Paese in cui,
unico caso in Europa assieme alla Turchia, la stampa è stata classificata come “semi-libera” secondo
un rapporto Freedom House. E in cui da anni si assiste a tentativi di limitare ulteriormente il diritto
di cronaca, censurare la pubblicazione di intercettazioni telefoniche e altro ancora. Comprensibile,
dunque, che i nervi siano un po’ scoperti. Le posizioni, in ogni caso, sono piuttosto variegate.
C’è a chi la bozza di legge piace poco o nulla, come all’avvocato esperto di Internet Guido Scorza:
“l’unico aspetto realmente positivo – dice all’Ejo – è l’abolizione del carcere per chi viene ritenuto
responsabile di diffamazione. Ma stiamo parlando solo del fatto che non si andrà più in carcere per
diffamazione e non del fatto che si è depenalizzata la diffamazione come l’Europa ci chiede da anni.
Una sufficienza – davvero risicata – merita, inoltre, l’aver previsto che, almeno in linea di principio,
chi prova a mettere a tacere con una querela chi vuol fare informazione, possa essere condannato a
risarcire il querelato se l’azione risulta temeraria. Ma anche sul punto occorre essere onesti: il
principio è in buona parte già presente nel nostro Ordinamento ma, purtroppo, sotto-utilizzato,
anche perché spesso è difficile ritenere ‘temeraria’ una querela”.
Fin qui le note positive, secondo Scorza. Che però vede molti più aspetti problematici; in primis, la
disciplina, completamente nuova, relativa all’online che stabilisce che chiunque possa chiedere al
gestore di un motore di ricerca la deindicizzazione di qualsiasi contenuto ritenuto diffamatorio o di
qualsiasi proprio dato personale. “É una soluzione insostenibile perché finisce con il trasformare
Google – e gli altri gestori dei motori di ricerca – in giudici, chiamati a decidere cosa indicizzare e
cosa non disindicizzare. Nel dubbio, per evitare di trovarsi di fronte a un giudice, è chiaro che
preferiranno eliminare qualche bit in più”.
Non convince neppure l’irrigidimento delle pene pecuniarie, in un momento come l’attuale, in cui la
maggior parte dei contenuti giornalistici viene prodotta da giovani collaboratori esterni sottopagati.
“È ovvio – dice ancora Scorza - che una sanzione pecuniaria da decine di migliaia di euro, irrogata
nell’ambito di un giudizio penale, è da sola sufficiente a disincentivarli ad occuparsi di temi ‘a
rischio’, perché una sola condanna potrebbe costar loro più di quanto guadagneranno nel corso di
anni e anni di professione”.
Non tutti però la pensano così. Per Elena Poddighe, docente di diritto dell’informazione a Sassari e
Lugano, la nuova disciplina rappresenta invece un mutamento sostanzialmente positivo. “Oggi ci
sono pochi strumenti per difendersi da un’accusa falsa pubblicata da un giornale – racconta - è vero,
c’è lo strumento della calunnia, ma bisogna dare la prova del danno e non è semplicissimo da
dimostrare, per cui chi lede i diritti altrui spesso rischia poco. E ci sono testate poco serie che se ne
approfittano, anche perché molti ‘diffamati’ non denunciano per non dover sostenere esose spese
legali”. Dunque, secondo questa interpretazione, la nuova disciplina potrebbe impedire la
diffamazione “per calcolo”. “Certi dicono – aggiunge Poddighe – dato che per chiudere una causa e
per un eventuale risarcimento ci possono volere anche dieci anni, magari alla fine qualcosa pago, ma
intanto ci guadagno. Per cui il gioco può valere la candela”.
La studiosa fa inoltre notare che con la nuova disciplina i tempi di rettifica vengono sostanzialmente
equiparati a quelli della carta stampata, sanando una distinzione ormai anacronistica. “L’importante
comunque – sottolinea Scorza – è che la rettifica non si trasformi in uno strumento per consentire al
protagonista di ogni vicenda negativa di raccontare la sua versione dei fatti, ribaltando – anche
senza adeguati elementi probatori – la ricostruzione di fatto operata da qualcun altro attraverso un
mezzo di informazione”. È qui che si annida l’aspetto forse più oscuro del testo.
Come fa notare anche il direttore dell’agenzia giornali locali del Gruppo Espresso, Andrea Iannuzzi,
non è chiaro se l’obbligo di rettifica scatti in maniera automatica, dopo la richiesta dell’interessato, o
se vi possa essere una qualche forma di discrezionalità, da parte della testata, anche a prescindere
dall’intervento di un giudice. Se fosse vera la prima ipotesi, ci troveremmo, come scrive Iannuzzi, in
una situazione in cui “ogni contenuto viene considerato potenzialmente diffamatorio, fino a
eventuale prova contraria”. In cui spetterebbe cioè ai giornalisti, e non al soggetto che si sente
diffamato, dimostrare che tale accusa non regge.
All’instaurazione dunque, di un regime di cautela preventiva in cui, pur di non rischiare di trovarsi in
un’aula di tribunale, le redazioni preferiranno con ogni probabilità pubblicare sempre e comunque la
rettifica, anche quando hanno dei buoni motivi per ritenere la richiesta di correzione infondata. È
questo l’aspetto forse più preoccupante – al di là degli eccessi critici e delle reazioni sopra le righe –
di tutto l’impianto legislativo. Aspetto che peraltro non si sanerebbe con singole modifiche a uno
specifico comma, perché insito nell’impostazione stessa di tutto il disegno di legge. Che sarebbe
meglio probabilmente stralciare e riscrivere del tutto, prendendo spunto dalla critiche ricevute.
Per approfondire:
Diffamazione, perché quella legge è sbagliata, di Andrea Iannuzzi (Valigia Blu)
Diffamazione preventiva. Vi spiego perché non mi piace la nuova legge, di Andrea Iannuzzi
(Repubblica)
Il mio regno per un bavaglio, di Luca Sofri (Wittgenstein)
Ddl diffamazione: il Senato sostituisce Google ai giudici, di Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)
Il pasticciaccio brutto del ddl diffamazione sul diritto all’oblio, di Fabio Chiusi (Wired)
Photo credits: Palazzo Chigi / Flickr CC
Non si ferma il ddl sulla diffamazione
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ione di ieri al Pantheon. Foto di Sara Sbaffi
A nulla per ora sono valse le polemiche e le critiche sollevate dalle categorie e dalle
associazioni dei giornalisti contro il ddl diffamazione in questi giorni al vaglio del Senato.
“La legge liberticida” come è stata definita da FNSI non è ancora scongiurata e minaccia di
fatto di mettere il bavaglio all’informazione italiana. Per capirne di più abbiamo fatto
qualche domanda a Guido Scorza, esperto di diritto dell’informazione e regolamentazione
dei nuovi media, giornalista e docente presso il Master di diritto delle nuove tecnologie
della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.
Via libera alla diminuzione fino ai due terzi della pena prevista a carico del giornalista per il reato di
diffamazione a mezzo stampa in caso di pubblicazione della rettifica, questo quanto stabilito ieri dal
Senato. Non ci sarà dunque il carcere per chi diffama e la sanzione massima sarà di 50 mila
euro. Per il resto bisognerà attendere i risultati della seduta di stamani, in ogni caso l’Aula ha serie
difficoltà nel portare avanti discussione e approvazione dell’emendamento. Franco Siddi, segretario
generale della Federazione nazionale della stampa italiana, ha commentato cosi “Il Senato si e’
assunto una grave responsabilità. Non ci fermeremo qui, anzi, la nostra azione si intensificherà da
questo momento in poi”.
Norma Anti-Gabanelli e ammazza-blog
Ciclicamente viene presentato un piano di riforma che invece di modificare la vecchia legge 47 sulla
stampa del 1948 e portare l’Italia ad un livello di libertà d’espressione paragonabile agli altri paesi
europei, presenta degli aspetti da più parti indicati come pericolosi per la libera circolazione
dell’informazione e pone un’attenzione sempre maggiore alle dinamiche delle news sui nuovi media.
Dopo l’allarme lanciato dalla vicenda del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, condannato a
14 mesi di detenzione per aver pubblicato un articolo giudicato diffamatorio, il Parlamento italiano si
è subito messo al lavoro per la proposta di nuove regole.
Che nuove regole fossero necessarie se ne discuteva da tempo ma il nuovo testo sulla diffamazione
anziché riscontrare favore di pubblico sin dall’inizio ha creato molte polemiche. “Legge liberticida” è
stata definita dalla Federazione Nazionale della Stampa italiana.
Le prime voci di dissenso si sono levate forte con la norma contenuta nel testo ribattezzata “anti
Gabanelli”, un emendamento del senatore Pdl Giacomo Caliendo che mirava a rendere nulle tutte le
clausole contrattuali che prevedono la tutela del giornalista da parte dell’editore in caso di
diffamazione. Il giornalista che fa inchieste o articoli sgraditi secondo Caliendo in futuro avrebbe
dovuto rispondere di tasca propria a querele che – economicamente – non avrebbe mai potuto
sostenere. Grazie all’appello di Articolo21, sostenuto da organizzazioni come “Il Popolo viola” e FNSI
e da quotidiani come Il Fatto Quotidiano, sono state raccolte oltre 15mila firme e l’emendamento di
Caliendo non vedrà la luce.
Tuttavia le polemiche rimangono, dato che le nuove regole coinvolgono anche i giornali on line.
Dopo il decreto Romani, che allarga il suo raggio d’azione oltre il recinto disegnato dalla direttiva
comunitaria 65 del 2007 in materia di attività televisive, si usa ancora una volta un pretesto pur di
mettere mano alla libertà di chi fa informazione in rete. Eppure la Cassazione aveva di recente
escluso i giornali on line dall’applicazione delle stesse regole che valgono per la stampa. Gli spazi on
line su i quali la mobilitazione si è fatta sentire sono moltiplicati con il passare delle ore e anche
l’enciclopedia telematica Wikipedia ha lanciato un appello.
Il parere di Guido Scorza
A 64 anni di distanza dalla legge sulla stampa, l’Italia ancora non è pronta ad accettare una nuova
legge al pari delle altre democrazie occidentali: “In realtà non è il paese ma sono i parlamentari a
non essere pronti – spiega Guido Scorza, esperto di diritto dell’informazione e regolamentazione dei
nuovi media, giornalista e docente presso il Master di diritto delle nuove tecnologie della facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Bologna. – Il paese chiede a gran voce di ammorbidire le sanzioni
per i giornalisti. C’è un conflitto di interessi perché i parlamentari fanno le leggi e sono anche quelli
che si ritengono più diffamati, mentre scrivono la legge pensano che potrebbero essere proprio loro
parte in causa, questo è un paradosso”.
“Il carcere è stato rimpiazzato da pene pecuniare troppo alte. Per molti freelance o giornalisti on line
in condizioni economiche precarie è più comodo farsi 14 mesi di carcere piuttosto che pagare quelle
cifre”. Ma come si può sfruttare la caratteristica principale della rete, cioè la permanenza delle
notizie on line, garantendo al contempo il diritto ad una corretta informazione, ad eventuali
rettifiche e il diritto all’oblio? “Connettendo informazioni in rete, associando più posizioni diverse,
sia chi scrive sia chi è oggetto delle notizie. Sarebbe auspicabile che ci siano le condizioni per
affiancare posizioni diverse lasciando poi al lettore la decisione finale”. Gli effetti dell’approvazione
di questo disegno di legge andrebbero a discapito delle fasce più deboli dell’ecosistema informativo:
“Il primo effetto per carta, web e tv sarebbe che solo quelli più ricchi sarebbero messi nella
condizione di fare informazione perché i rischi economici sarebbero sostenibili solo nei loro bilanci.
Ma per i freelance e i giornalisti on line sarebbe troppo rischioso, si metterebbero a fare sport o
cucina!”. A pesare nella proposta di legge e nel via libera dell’Aula potrebbe essere la vicinanza di
una scadenza elettorale: “Come stiamo vedendo anche per le elezioni in Sicilia, nella prossima
tornata elettorale si userà tantissimo il web, ci sono parecchi competitors, come il Movimento
Cinque Stelle. Quindi è ovvio che frange più conservatrici del Parlamento vogliano neutralizzare la
libertà dell’informazione on line”. Nella comparazione con gli altri paesi europei, l’Italia non fa una
bella figura.
“Nel rapporto delle Nazioni Unite per la promozione e tutela della libertà di informazione – afferma
Scorza – si cita l’Italia tra i Paesi nei quali, nonostante dal 2009 si sia fatto richiesta al governo di un
invito degli ispettori delle Nazioni Unite per verificare lo stato della libertà di informazione, non ha
ancora ottenuto risposta. In questo siamo più vicini a paesi che hanno grossi problemi con la libertà
d’informazione – vedi Iran, Thailandia, Sri Lanka, Tunisia, Uganda, Venezuela e Bolivia – Soprattutto
perché in nessun altro paese europeo esiste il diritto di rettifica per il blogger”. Tuttavia l’iter del ddl
va avanti con il Parlamento che ieri ha bocciato il rinvio del testo in commissione. Nelle stesse ore la
FNSI, Articolo21, Giulia e Popolo Viola hanno manifestato il loro dissenso con un sit in davanti al
Pantheon di Roma. “E’ una brutta notizia ma la battaglia non si chiude qui – afferma a caldo Roberto
Natale, presidente FNSI – L’opinione pubblica ha capito che si tratta di una legge bavaglio e di una
legge punitiva nei confronti dell’informazione”.
Anche Stefano Corradino, direttore di Articolo21, è intervenuto: “Si tratta di una
strumentalizzazione del caso Sallusti. Una legge del genere va fatta con un clima sereno e non come
se fosse un regolamento di conti”.
Legge bavaglio: a rischio la libera
informazione in rete
A distanza di un anno si è tornati a parlare di “legge
bavaglio” in Italia in relazione al “ddl intercettazioni” e
al comma 29 all’articolo 3 del decreto, contenente le
disposizioni relative ai “siti informatici”, noto
all’opinione pubblica come “ammazza-blog”. Dopo una
prima approvazione alla Camera nel giugno del 2009 il
ddl era stato rilasciato dal Senato, anche se con
modifiche, l’anno seguente e rimandato alla Camera per
una nuova discussione dove, l’argomento non era stato
più all’ordine del giorno per un anno intero per via delle
criticità dello stesso Berlusconi sulla nuova versione del testo a suo dire “stravolto”. Ora, in
concomitanza con l’inasprirsi dello scandalo escort e la susseguente nuova pubblicazione di
intercettazioni imbarazzanti che vedono coinvolto il premier, la maggioranza di governo ha
calendarizzato nuovamente e in tutta fretta l’iter sul decreto bloccandolo però con un voto di fiducia
che lo mette al riparo dalla discussione parlamentare e dagli emendamenti.
Il testo varato nel 2010 presenta disposizioni che restringono le possibilità di utilizzo delle
intercettazioni da parte dei magistrati e di pubblicazione sui media introducendo provvedimenti
molto restrittivi per i giornalisti e gli editori che rendessero pubblici i tabulati delle telefonate o altri
materiali relativi a inchieste in corso: i giornalisti rischiano fino a un mese di carcere e multe fino a
10mila euro mentre gli editori sarebbero responsabili dell’eventuale pubblicazione di “materiale
irrilevante” di cui sia stata ordinata la distruzione con pene massime fino a 300mila euro. A detta
persino di alcune sigle sindacali della Polizia di Stato, la legge ostacolerebbe le indagini rendendo
complesso e svilito l’utilizzo di uno strumento fondamentale per l’attività investigativa, paragonabile
a detta del procuratore di Torino Gian Carlo Caselli alle radiografie per i medici. Sul fronte della
circolazione delle notizie, invece, Il quotidiano Repubblica ha stilato una lista di rivelazioni recenti
attinenti a scandali politici italiani rese note grazie alla pubblicazione delle intercettazioni di cui i
cittadini non sarebbero mai venuti a conoscenza se la “legge bavaglio” fosse già in vigore. Il timore
di molti osservatori è che il governo, con la scusa di tutelare la privacy voglia in realtà imprimere
una stretta alla circolazione di notizie potenzialmente destabilizzanti e imbarazzanti, ferendo il
diritto all’informazione.
A spaventare ulteriormente gli addetti ai lavori, tornati in piazza lo scorso giovedì 29 settembre per
protestare contro la legge, è la seconda parte del ddl e la sezione direttamente riferita ai “siti
informatici” – compresi i blog -, per i quali il ddl introduce l’obbligo di replica, aprendo un nuovo
fronte nella disputa sulla libertà della rete.
Il comma 29 dell’articolo 3 del provvedimento infatti prevede “Per i siti informatici, ivi compresi i
giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono
pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa
metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”. In sostanza
chiunque, in maniera fondata o meno, potrà richiedere al gestore di un sito internet (o a un semplice
blogger non professionista!) di pubblicare una rettifica entro 48 ore in relazione a un contenuto
ritenuto dal soggetto offensivo o illecito. La mancata pubblicazione della rettifica entro i tempi
previsti farebbe scattare una sanzione pecuniaria fino a 12mila euro. La legge pone sullo stesso
piano i blogger ai grandi siti di informazione dei quotidiani e di grandi gruppi editoriali, bypassando
completamente le evidenti differenze strutturali tra i due ambiti e le diverse finalità delle loro
pubblicazioni online. Un blogger che si vedesse richiedere una rettifica, in maniera arbitraria da
parte di un soggetto, sarà costretto a pubblicare una rettifica per paura di possibili sanzioni, come
ha fatto notare Guido Scorza, presidente dell’Istituto per le Politiche dell’Innovazione ed esperto di
diritto online. La sostanza della questione si può riassumere con una domanda: quanti blogger
sarebbero disposti a far valere il loro di diritto alla libertà di espressione a fronte di 12mila euro di
eventuale ammenda qualora non aggiornassero il loro blog per più 48 ore o non venissero a
conoscenza di una eventuale richiesta di rettifica inviata via mail?
La rete italiana ha protestato contro questo provvedimento facendo notare come la responsabilità di
quanto viene scritto dai blogger comunque non è messa in discussione: l’istituto della vecchia
“querela” resta attivo e nessuno si sognerebbe mai di pretenderne l’abolizione, ma la legge, con il
suo tono quasi minaccioso, rischia di mettere alle strette la già poco sviluppata rete italica,
ingessandone le possibilità di movimento. Stefano Rodotà, giurista ed ex garante della privacy, ha
fatto notare come l’equiparazione tra blog e siti professionali sia figlia da un lato di un’esplicita
volontà censoria di un mondo, quello della rete, rapsodico e fuori dagli schemi dell’informazione
mainstream e dall’altro di una totale estraneità del governo italiano dal mondo di internet, affrontato
con superficialità ed ignoranza. Gli esempi di questo pressapochismo sono frequenti e proprio nel
corso di un recente dibattito televisivo in relazione proprio alla norma “ammazza-blog” Maurizio
Gasparri, ex ministro delle Comunicazioni e membro della maggioranza di governo, ha definito
internet in modo piuttosto generico come uno “strumento micidiale”. Il clima pesante attorno a
internet in Italia ha però origini più profonde e considerando il comma relativo ai blog del “ddl
intercettazioni” insieme alle disposizioni recentemente discusse dall’Agcom sui contenziosi relativi al
diritto di copyright in rete lo scenario si fa preoccupante.
Che vi sia in Italia il bisogno di una regolamentazione in materia di intercettazioni, indagini,
pubblicazioni e diritto alla privacy non è segreto per nessuno e il dibattito è più vecchio della
polemica di questi giorni. Per quanto riguarda le intercettazioni, a rappresentare un’anomalia è però
la contiguità tra gli scandali – di ambivalente colore politico – e la conseguente ricerca di strumenti
giuridici dai toni repressivi che va a sostituirsi alla normale discussione sui difetti del sistema di
rapporti troppo enfatizzati tra informazione e giustizia. Allo stesso modo è evidente come vi sia un
gap abnorme tra la rete, la blogosfera e la percezione che di questo mondo ha la politica. Sono più
unici che rari i politici italiani in grado di distinguere un blog, da un sito o da Facebook ma per via di
questa inadeguatezza non ci si può permettere di mettere a repentaglio i diritti fondamentali della
rete libera.
La preoccupazione per le misure in discussione al Parlamento italiano in relazione a questi temi è
condivisa anche da molti osservatori stranieri come l‘Economist, il Daily Telegraph, il Times e la
BBC, i quali hanno criticato la situazione della giustizia nel nostro paese facendo notare come il ddl
potrebbe rallentare le indagini in fatto di mafia, preso comunque atto della ferma e condivisa
necessità di regolamentare l’uso delle intercettazioni spesso utilizzate impropriamente. L’azienda di
servizio pubblico britannica ha addirittura paventato la possibilità che il decreto possa essere
portato davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per i suoi intenti censori.
Legge bavaglio per i media ungheresi
Il primo caso in Europa di una legge bavaglio
per i media ha suscitato molto clamore. L’EJO in
una serie di articoli racconta come hanno
reagito media e giornalisti dei vari paesi
europei, della Russia e degli Stati Uniti.
E’ stato il Fidesz – partito conservatore di destra con i 2/3 della maggioranza in parlamento – a
emendare la legge all’inizio dell’anno imponendo di fatto un ampio controllo dello Stato su tutti i
media e la loro attività di informazione. In caso di inosservanza di uno dei 175 articoli contenuti
nella riforma sono previste multe ingenti: da 700 mila euro per le tv a 89 mila per i giornali e i siti
internet. Tra le misure più restrittive, la soppressione delle redazioni di giornali e radio così da
concentrare tutta l’informazione primaria sull’agenzia di stampa nazionale finanziata dallo Stato;
l’istituzione di un tetto del 20 per cento per la cronaca nera nei telegiornali; l’imposizione per le
radio di inserire almeno il 40 per cento di musica ungherese; l’obbligo per i giornalisti di rivelare
le proprie fonti per questioni legate alla “sicurezza nazionale”. Nel frattempo però, messo alle
strette dalla Commissione UE che minacciava l’avvio di una procedura di infrazione ma anche dalle
forti critiche e pressioni dei media europei, a fine febbraio il governo conservatore ungherese ha
fatto un passo indietro presentando in parlamento le sue modifiche e correzioni.
Le proposte, presentate dal vicepremier e ministro della giustizia Tibor Navracsics, riguardano in
particolare quattro punti:
l’obbligo di “copertura equilibrata pena sanzioni salate”, sarà sostituito col concetto del
“principio di par condicio”
-
i media audiovisivi con base all’estero non saranno soggetti alla legge
l’obbligo di registrazione di tutte le testate presso una autorità nazionale per i media, creata
all’inizio dell’anno e composta esclusivamente da membri vicini al governo sarà ammorbidito
il “divieto di offesa a rappresentanti di minoranze o maggioranze sarà sostituito col divieto più
mite di “incitamento all’odio e alla discriminazione”
La decisione di Budapest è stata accolta con sollievo a Bruxelles: “sono molto soddisfatta che le
autorità ungheresi abbiano accettato di emendare la legge e di garantire il rispetto del diritto
europeo, in particolare della Carta dei diritti fondamentali”, ha detto la commissaria competente,
Neelie Kroes. La Commissione comunque, ha sottolineato, “continuerà a vigilare” per assicurarsi che
le modifiche annunciate siano effettivamente apportate e che la legge emendata sia “correttamente
applicata”.
Ma è davvero sufficiente? O bisognerebbe intervenire con modifiche più radicali?
I media magiari hanno in programma una manifestazione per il 15 marzo, giornata mondiale degli
ungheresi, e intendono presentare un ricorso alla Corte costituzionale.
Nel frattempo, in attesa di ulteriori evoluzioni, l’Osservatorio Europeo di Giornalismo con l’aiuto
degli studenti di giornalismo della Università di Dortmund*,l ha deciso di analizzare i diversi
contributi e i servizi pubblicati a riguardo a cavallo tra dicembre 2010 e i primi mesi del 2011 da
Germania, Austria, Svizzera, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Portogallo, Svezia, Russia e Stati
Uniti, mettendo in luce reazioni e opinioni dei diversi media e giornalisti.
Il punto di vista dei media tedeschi
Tanto clamore attorno ad un piccolo paese
di Andreas Sträter
Il 1° gennaio in Ungheria è entrata in vigore una legge piuttosto anomala per un paese membro
della UE che sottopone i media pubblici e privati a una nuova autorità di vigilanza, dotata di un
ampio potere regolatorio e sanzionatorio. Questa nuova legge ha destato molto clamore in Germania
e nel mondo in generale, in particolare perché appoggiata dalla presidenza della Commissione
Europea. Tanto che a partire dalla fine di dicembre testate di qualità, media online e agenzie di
stampa ne rendono conto con reportage e servizi dettagliati. Anche i telegiornali delle maggiori
emittenti
pubbliche
e
private
come
Tagesthemendi
ARD,
Heute
journal della ZDF e Aktuell di RTL hanno dedicato ampi servizi a riguardo, tutti con l’obiettivo di
mettere in rilievo sia i principi dell’Unione Europea sia i fatti storici che hanno determinato la
moderna situazione politica ungherese, in particolare la rivoluzione del 1948 e la pace di Trianon.
L’attenzione però è stata soprattutto orientata al ruolo particolarmente delicato dell’Unione
Europea, la contraddizione è infatti evidente: in uno stato membro è stata emanata una legge sui
media che non rispetta i principi fondamentali dell’Unione Europea.
Poco prima di Natale era già evidente l’intenzione del governo conservativo di Orbán. Il 22 dicembre
Doris Simon, corrispondente a Bruxelless del Deutschlandfunks, diede un primo commento: “In
questo caso guardare dall’altra parte significa acconsenitire tacitamente alla violazione dei valori
europei fondamentali da parte dell’Ungheria. Oggettivamente nessuno dovrebbe appoggiare il primo
ministro Viktor Orbán”. Segue l’affermazione ancora più esplicita: “L’Unione Europea deve ricordare
al governo Orbán i suoi doveri in modo molto più deciso” e conclude con la richiesta nei confronti
della Commissione di intentare un procedimento per violazione degli accordi.
Il giorno dopo, il titolo di Davide Denk in taz, “Sulla strada verso la dittatura”, commenta da solo le
possibili conseguenze di questa legge sulle dinamiche redazionali: “Tempi duri per i giornalisti
ungheresi […], che temono gravi risvolti per la loro professione, qualora iniziassero a costare troppo
cari ai loro datori di lavoro”. Se non si comportano bene e non prendono sul serio le autorità di
vigilanza, le conseguenze potrebbero tradursi in un massimo di 750.000 euro in sanzioni pecunarie.
“Le impacciate redazioni ungheresi, di certo più indipendenti fino a questo momento, non sembrano
però riuscire a tenere testa al rischio dell’autocensura.”
Nella trasmissione del 3 gennaio della ZDF, il caporedattore di Heute journal Peter Frey esprime
chiaramente il suo parere: “A partire dal nuovo anno, i concetti di libertà di stampa e di pluralità
dell’informazione non hanno più alcun fondamento in Ungheria. Ed è un problema che non riguarda
solo i 10 milioni di Ungheresi, interessa tutta l’Europa e copre di ridicolo tutti i 26 capi di governo
dell’Unione”.
Il 10 gennaio, in un contributo all’interno di Die Welt, lo storico György Dalos tenta di spiegare la
“Follia ungherese”: l’Ungheria deve comprendere “che la democrazia è qualcosa di più del governo
di una maggioranza di elettori, in quanto deve anche tenere conto della libera espressione della
volontà di tutti i suoi protagonisti, volontà non sanzionabile dal punto di vista monetario.”
La Süddeutsche Zeitung si è occupata spesso del caso sulla pagina dedicata alla politica estera e alla
riflessione sui media. In un testo di Martin Winter di Bruxelles (del 23 dicembre) si legge: “L’articolo
7 rappresenta l’arma più potente dell’Unione contro uno stato membro che infrange i valori
condivisi. […] Ma nessuno può essere escluso dalla UE. Eppure, se uno stato […] non ancora incluso
nell’Unione avesse una legge sui media come quella ungherese, non verrebbe certamente ammesso”.
Recentemente è stato Michael Frank a biasimare il comportamento della UE rispetto alla
legislazione sui media dell’Ungheria. Il giudizio è già palpabile dal titolo: “Una missiva troppo
indulgente da Bruxelles” (articolo datato il 28 gennaio, non disponibile nella versione online). Si
ironizza sul fatto che il comunicato all’Ungheria sia stato redatto dalla penna di Neelie Kroes,
commissario per i media digitali, piuttosto che dal responsabile della difesa dei principi europei,
Viviane Reding, e sottolinea infine come non sia stato per nulla trattata la questione del controllo sul
flusso delle informazioni e delle opinioni.
Persino per la stampa boulevardistica la questione riveste una certa rilevanza e in un’intervista
piuttosto ampia e pubblicata in due parti (datata 17 gennaio) il Bild pone al primo ministro
ungherese la domanda:“Vieterebbe anche la pubblicazione del BILD?”
Accanto ai quotidiani e alle trasmissioni radiofoniche, il tema trova anche importanti ripercussioni
sui watchblog, soprattutto in netzpolitik.org e in Carta (blog d’autore per la politica, l’economia e la
comunicazione mediale). La chiarezza espostiva con cui Netzpolitik.org illustra i retroscena della
legge ungherese ha conquistato il feed-back di ben 50 commenti che invitano a una profonda
riflessione sul ruolo della politica mediatica in Europa.
Su Carta il contributo di Hubertus Gersdorf (23 Dicembre) scredita l’attenzione dedicata al
problema da parte dell’Unione Europa, che lo ritiene solo uno dei tanti casi da trattare. In altri testi
e servizi si parla di Variante ungherese dell’indifferenza, Barbarie approvata dalla costituzione a
Budapest oppure ancora della conseguenza di un minuto di silenzio in un programma radio
ungherese . Già, un minuto di silenzio in difesa della pluralità di informazione e della libertà di
stampa.
Il punto di vista dei media austriaci
Ungheria – un paese di farabutti o di immaturi?
di Patricia Käfer, Medienhaus Wien
Dalla fine di dicembre fino all’inizio di febbraio Lo Standard, quotidiano regionale di Vienna, ha
realizzato – per lo meno online – molti pezzi a riguardo, tra cui articoli, post sui blog, videocast,
commenti, ecc. Il tono dei commenti è palesemente critico nei confronti del Fidesz : verso la metà di
gennaio il capo redattore Alexandra Föderl-Schmid richiede infatti “un’uniformazione del diritto
mediatico in Europa, affinchè vengano impediti interventi di questo genere” e conclude dichiarando
che “L’UE non è solo una comunità economica, bensì anche una comunità di valori”.
La replica giunge pochi giorni dopo direttamente dall’ambasciatore ungherese a Vienna, Vince
Szalay-Bobrovniczky, in un commento intitolato “l’Ungheria non è uno stato di farabutti”. A fine
gennaio il corrispondente di Bruxelles dello Standard ,Thomas Mayer, lascia intendere nel suo blog
che la presidenza ungherese cercherà di convincere la UE “abbellendo” la legge qua e la, mentre il
pubblicista Robert Misik, direttore di un videoblog su derStandard.at la interpreta (riferendosi
all’appello di Jürgen Habermas nella SZ) solo come sintomo di un problema molto più ampio: “una
grande ondata di chiarezza sta attraversando il paese”.
Dall’inizio di dicembre il quotidiano Die Presse espone le sue proteste contro la pianificazione della
legge e la sua successiva entrata in vigore in modo decisamente molto divergente. Già il 21
dicembre, Paul Lendvai, pubblicista austriaco di fama popolare e di origini ungheresi afferma: “E’ un
passo in direzione della Bielorussia nonché una regressione verso i tempi bui della storia ungherese”
e dichiara di essere molto rammaricato per una tale involuzione antidemocratica. Da questa data
fino all’inizio di febbraio quasi ogni giorno compare almeno un articolo o un contributo di un autore
ospite in merito a questo argomento. L’orientamento dei pezzi varia alquanto: in un editoriale viene
invocata la “forza autopurificante” di “un paese immaturo” e qualsiasi tipo di intervento negli affari
interni dell’Ungheria viene ritenuto controproducente. Ma l’8 gennaio il medesimo autore, Wolfgang
Böhm, ritorna sull’argomento affermando: “Il capo del governo Viktor Orbán non è in grado di
confrontarsi con la critica mossa da tutto il mondo contro la nuova legge sui media”. Pochi giorni
dopo l’ex corrispondente della ARD Detlef Kleinert scrive nella Presse che la limitazione della libertà
di opinione e di stampa imposta dalla legge è certamente da condannare, ma che una tale critica
appare piuttosto ipocrita se mossa da un paese come l’Austria “in cui è proprio il partito del
cancelliere a decidere a chi spettano incarichi influenti nella radio di stato”.
Anche il Kurier affronta l’argomento in numerosi articoli e commenti del suo sito web, anche se in
modo piuttosto superficiale. La posizione è alquanto critica nei confronti del Fidesz e del suo leader,
come scrive il caporedattore Helmut Brandstätter in un editoriale di fine dicembre: “La UE deve
tenere d’occhio Viktor Orbán e, se necessario, dargli una bella bacchettata”.
In modo meno dettagliato ma decisamente polemico, il portale online della Kronen Zeitung, foglio
boulevardistico di altissima tiratura, si occupa a fine dicembre 2010 della promulgazione della
legge e a fine gennaio parla di una possibile modifica della legge ungherese sui media.
Il punto di vista dei media svizzeri
La neutralità della Svizzera
Di Selina Duelli
La trattazione del problema è risultata piuttosto contenuta da parte dei media svizzeri del cantone
tedesco e di quello italiano, sia dal punto di vista della quantità degli articoli, sia dal punto di vista
dell’esposizione argomentativa.
I servizi sono per la maggior parte di natura nozionistica e oggettiva. In particolare la Neue Zürcher
Zeitung (NZZ) ha assunto una precisa posizione critica nei confronti della Unione Europea.
Il quotidiano vede nelle violente reazioni dei paesi membro contro la nuova legge la conseguenza
della perdita di credibilità della UE a livello internazionale e la relativa necessità di recuperarla
mediante una coerente gestione degli affari di politica interna.
“Tuttavia, la commissione di Bruxelles e il Parlamento Europeo non sono tenuti ad assolvere la
funzione di comitato di assistenza sociale e a vigilare su garbugli democratici”, così recita l’articolo.
Al rappresentante dei Socialdemocratici e dei Verdi del Parlamento Europeo il giornalista Eric Gujer
ricorda poi il dovere di “onorare l’impegno della difesa dei diritti fondamentali contro una politica di
interessi”, senza far passare le forze conservative per democratiche, perché questo non fa altro che
palesare la politica “ipocrita” dell’Unione Europea.
Il quotidiano ticinese Corriere del Ticino in data 17 gennaio riporta un commento di Sergio Romano
nel quale il giornalista critica i toni nazionalisti e populisti del governo ungherese ma si dice altresì
sicuro che fattori determinanti come la presidenza della UE e la crisi economica del paese
costringeranno Viktor Òrban ad abbassare i toni e a scendere a compromessi.
I quotidiani gratuiti Blick Am Abend e 20 Minuten sui loro siti realizzano generalmente pochi servizi
propri, tendenza ancor più accentuata nella trattazione degli affari esteri. Nel caso qui discusso
hanno attinto completamente dal materiale delle agenzie di stampa, senza offrire alcun articolo di
opinione.
I siti internet dei telegiornali più importanti offrono ancor meno contenuti redazionali di propria
realizzazione. In toponline.ch predomina il materiale delle agenzie, mentre nella sua
hompage ZüriNews non dispone di alcun contenuto redazionale; solo SF1 si occupa in modo più
preciso dell’argomento, attingendo però prevalentemente ai documenti delle agenzie. Anche qui, del
tutti assenti gli articoli di opinione.
Il punto di vista dei media inglesi
Legge bavaglio, rinascita del comunismo e critiche della UE
di Miryam Nadkarni
Il quotidiano liberale The Guardian tratta il tema da diversi punti di vista. Nel complesso la
redazione cerca di fornire una trattazione neutrale e oggettiva, ma alcuni articoli esplicitano
l’atteggiamento fortemente critico dei giornalisti nei confronti della nuova legge.
Riportiamo l’esempio di un commento redazionale del 5 gennaio 2011: “Viktor Orbán è l’ultima
persona idonea in Europa a poter assumere la presidenza della UE”. I contributi di The
Guardian non hanno solo l’Ungheria nel mirino, bensì anche la Comunità Europea stessa, come ad
esempio si legge nell’articolo intitolato “The EU’s Hungary headache – and a whiff of double
standards” (“La pecora nera della UE- due pesi e due misure”) del 20 gennaio 2011. L’autore Simon
Tisdall critica il modo di procedere dell’Unione nei confronti della politica ungherese e argomenta
sostenendo che ci sono certo altri stati membri che non rispettano le direttive europee ma che non
vengono condannati solo perchè più grandi e più influenti. Tuttavia, il giornalista ritiene in ogni caso
necessario procedere contro l’Ungheria venga presa di esempio per altri paesi con discutibili diritti
civili .
Il Daily Mail, uno dei giornali scandalisitici inglesi più letti, si occupa di questa tematica solamente
due volte. Il primo articolo è datato il 23 dicembre e intitolato“Hungary gags media and throws its
EU presidency into doubt with Communist-style measure” (“L’Ungheria imbavaglia i media e
scredita la presidenza dell’UE per la sua politica di impronta comunista”).
All’interno dell’articolo prende la parola il politico tedesco Daniel Cohn-Bendit: “l’Ungheria si sta
orientando nuovamente verso una dittatura comunista di controllo del popolo”. Con tanto di foto di
Orbán, serissimo e ritratto da sottinsù, un tipico espediente stilistico per esprimere un
atteggiamento di minaccia e autorità.
Al contrario del Daily Mail, i servizi della BBC sono encomiabili e ben approfonditi. Al di là degli
articoli che trattano specificatamente della legge e ospitano sempre interviste con numerosi politici,
vengono proposti anche contributi relativi all’organizzazione e alla storia dell’Ungheria, nonchè
persino l’inno nazionale.
Il più amato giornale scandalistico inglese, The Sun, non affronta l’argomento e si limita a
pubblicare online un video di twitter sulle proteste del popolo ungherese, rintracciabile però solo
passando per il sito della BBC, in cui del resto sono sempre segnalati ulteriori link per approfondire
la tematica.
In sintesi, i media inglesi più rilevanti hanno esaminato la tematica in modo preciso, ponderato e
responsabile, mentre i giornali scandalistici hanno trattato la questione solo se allettati da materiale
sensazionale. Negli articoli si è sempre cercato di drammatizzare la faccenda con citazioni ad effetto
e la critica ha interessato sia la Comunità Europea sia il presidente ungherese, critica probabilmente
motivata dal fatto che gli inglesi hanno spesso avuto da ridire contro la UE.
Il punto di vista dei media francesi
Un’influenza populistica
di Thilo Kötters
“L’Ungheria si fa beffa dell’Europa” – il principale quotidiano regionale francese Le Monde ritiene
che l’intenzione, ormai nota dall’inizio di gennaio, di introdurre una legge sui media così restrittiva
non apporti alcun vantaggio all’Ungheria, nè tanto meno agli altri 26 paesi membri. Anche altri
media francesi sottolineano la portata europea di questa decisione politica, nonchè l’ombra gettata
sulla presidenza ungherese del Consiglio Europeo, iniziata il 1 gennaio 2011.
In un editoriale del 4 gennaio, Le Monde sostiene che il governo ungherese stia palesemente
infrangendo gli accordi comunitari. Il quotidiano disapprova la mancata presa di posizione degli altri
paesi e dichiara che le decisioni di ciascun stato membro non siano per nulla svincolabili dai valori
politici della UE.
Data la situazione, il quotidiano di Lille, La Voix du Nord, non vede l’Europa “in gran forma” bensì
affetta da una sorta di “influenza populistica” (articolo del 5 gennaio). Proprio il paese che dovrebbe
garantire l’unione europea diffonde invece una grande sensazione di disagio a causa di una legge
che risulta inconciliabile con il principio della libertà di stampa sancito dalla Carta Europea dei
Diritti.
“Populismo esagerato” titola il giornale regionale di maggiore tiratura, Ouest-France (Rennes)
bollando lo stile del governo ungherese e annoverando il premier Viktor Orbán tra i populisti di
destra, insieme all’austriaco Jörg Haider e all’olandese Geert Wilders. E‘ una legge che imbavaglia i
media e Orbán, prosegue il giornale citando da Wikileaks, “sta giocando con il fuoco”, conclude
affermando che quello che sta succedendo a Budapest debba coinvolgere e riguardare tutti.
Anche l’Humanité, giornale di stampo socialistico, teme la fase di una “presidenza
turbolenta” nell’Unione Europea. Nell‘uscita del 4 gennaio condanna la critica moderata degli altri
stati e l’eccessiva inerzia della UE, che ha contenuto così a lungo i suoi timori fino ad assistere alla
definitiva approvazione della legge. Anche Ouest-France delinea dei parallelismi con la storia della
politica austriaca e ricorda la comminazione di numerose sanzioni dopo il successo delle elezioni
dell’estrema destra del 2000.
“Cortina di ferro per la libertà di stampa”, questo il titolo della Libération del 4 gennaio, che
denuncia la violazione della Carta Europea dei Diritti Fondamentali e interpreta la legge quale un
passo indietro verso l’autocensura dei tempi del comunismo, a giudicare dalle ingenti sanzioni
disciplinari.
L’Europa ha molto da perdere se chiude gli occhi di fronte agli sviluppi della politica ungherese, si
legge in un blog del settimanale L’Express, attento, così come altri media francesi, alla portata
internazionale delle leggi sui media e agli altri provvedimenti intrapresi dal governo ungherese. Se
la Commissione Europea facesse sentire un pò di più la sua voce “Viktor Orbán capirebbe di non
poter essere a capo dell’Europa senza rispettare i suoi valori fondamentali”. L’autore ammette certo
che l’Ungheria è stato spesso teatro di conflitti tra i media e gli organi di controllo, ma che questo
non giustifica l’introduzione di sanzioni draconiane per servizi immorali e avventati.
Il punto di vista dei media spagnoli
Alla Spagna non interessa la libertà dei media in Ungheria
Di Daniel Fernández
Solo in rari casi i media spagnoli hanno parlato delle limitazioni della libertà di stampa in Ungheria,
come se fosse un tema lontano, che non li toccasse direttamente. I quotidiani El País ed El Mundo
sono gli unici ad argomentare le misure interventistiche nei confronti della libertà dei media
ungheresi. Mentre El Mundo pubblica in internet un contributo di un corrispondente dell’agenzia di
stampa reuters , la versione online di El País affronta il tema dal punto di vista di un reporter della
propria redazione.
Un po’ più di attenzione viene dedicata quando a metà gennaio il Parlamento Europeo interviene nel
dibattito, in numerosi articoli viene pertanto sottolineato il ruolo della presidenza del Consiglio
Europeo mentre alcuni si occupano delle reazioni degli altri paesi. Curioso il fatto che siano proprio
le televisioni a prendere distanza dall’argomento, le emittenti si concentrano infatti molto di più sui
servizi di intrattenimento piuttosto che di informazione, e tale tendenza vale anche per la trattazione
della cronaca estera. Solo il servizio pubblico della TVE offre a riguardo informazioni di carattere
generale e alcuni video.
Il punto di vista dei media portoghesi
Assolto il dovere di cronaca
di Mariella Trilling
La nuova legge ungherese sui media non è un tema poi così avvincente per i giornalisti portoghesi e
neanche per il web. Non si va oltre il diritto di cronaca. Certo, l’attenzione verte completamente
sulle prossime elezioni, eppure persino in Brasile, a 10.000 chilometri di distanza e anche lui nelle
mani di un governo appena eletto, ci si occupa in modo più dettagliato del bavaglio alla libertà di
stampa.
3 gennaio 2010. Sono trascorse già due settimane da quando le delibere del presidente ungherese
Viktor Orbán hanno per la prima volta influenzato i titoli della maggior parte dei media
europei. “Fine della libertà di stampa in Ungheria”, così recita un titolo nella testata
portoghese Público, il primo articolo che compare sull’argomento nel portale online, www.publico.pt.
Tre giorni dopo la redazione parla dell’atteggiamento conciliante del governo ungherese e
dell’intenzione di emendare sul sito parti della legge tanto dibattuta.
Anche l’homepage del foglio di qualità Jornal de Notícias potrebbe farlo ma il caso ungherese
sembra non costituire un tema sufficientemente interessante. Solo tre articoli trattano l’argomento –
come in Público– e solo in data 3 gennaio, ben due settimane dopo che gli altri media europei ne
avevano già ampiamente parlato.
Il settimanale Expresso si occupa della nuova legge sui media nella regolare offerta di notizie del suo
sito internet, lo sviluppo della questione viene poi seguito e commentato nei blog. A differenza dei
giornalisti del Público, qui gli autori si sbilanciano un po’ di più e il comportamento del governo di
Orbán viene talvolta giudicato sfrontato (“Come un ragazzotto maleducato“), talvolta criticato in
tono compassionevole (“L’inizio poco fortunato della presidenza della UE dell’Ungheria” ). Ai lettori
maggiormente interessati viene messo a disposizione il link a presseurop.eu , in cui viene
quotidianamente pubblicata una selezione di articoli tradotti in 10 lingue tratti da oltre 200
quotidiani, riviste e magazine.
Sebbene lontani dall’Europa, sia geograficamente che culturalmente, i media brasiliani trattano
ampiamente il problema, per certi versi anche in modo molto dettagliato. Un esempio è il sito
del Folha de São Paulo : con un solo giorno di ritardo rispetto ai loro colleghi europei, i giornalisti di
questa testata pubblicano il primo articolo sul tema. A brevi intervalli di tempo seguono sempre più
informazioni relative allo sviluppo della questione, tratte da agenzie di stampa e dalla Deutsche
Welle, non solo, nessun media brasiliano di una certa rilevanza si permette di trascurare gli sviluppi
della questione.
E i Portoghesi? Anche loro ne parlano, certo. Ma analizzano e commentano ben poco, non si
schierano e lasciano ai margini gli sviluppi della notizia. Semplice dovere di cronaca quindi, nulla di
più.
Il punto di vista dei media svedesi
Il Dagens Nyheter è l’unico a dire la sua
di Eva-Maria Spiller
In Svezia solo uno dei quattro più importanti quotidiani si occupa in modo approfondito dello
scandalo, il Dagens Nyheter (DN), la più grande testata svedese di qualità. In un lasso di tempo che
intercorre dal 22 dicembre 2010 al 19 gennaio 2011 compaiono in tutto sette contributi sul tema. In
tre casi il materiale dell’agenzia di stampa Tidningarnas Telegrambyrå (TT) non subisce variazioni,
mentre in altri due viene rielaborato per la pubblicazione.
E’ una corrispondente del Dagens Nyheter a redigere l’ articolo più interessante e approfondito,
(datato 3 gennaio) e ad affrontare i seguenti quesiti da un punto di vista critico: cosa è la legge sui
media? E’ legittima? Come reagisce la UE nei confronti delle idee politiche ungheresi? Può una tale
decisione essere sostenuta dalla UE? Come reagiscono gli altri paesi membri? In confronto agli altri
quotidiani oggetto della presente indagine, il DN è l’unico a proporre un’argomentazione critica: si
indaga sul potere sempre più forte del governo, si cerca di colmare le lacune della legislazione
comunitaria e si commentano le critiche e i punti di vista degli altri paesi. La tesi di fondo è che i
cittadini vengono derubati in buona parte della loro libertà di espressione mentre i media sono
privati del loro unico strumento di verità. Secondo il quotidiano, il governo ungherese non intende
rinunciare al suo potere e, d’altra parte, la comunità europea non è in grado di proporre soluzioni
adeguate in tema di sanzioni e tasse, argomentazioni del tutto assenti nel Göteborg-Posten,
nell’ Expressen e nel Aftonbladet .
In un arco di tempo che intercorre dal 3 al 19 gennaio, Il Göteborgs-Posten, il secondo più grande
quotidiano di qualità, pubblica complessivamente nella sua offerta online sei contributi. Quattro di
questi derivano dall’agenzia di stampa TT, altri due sono commenti di due deputati svedesi del
Parlamento Europeo, uno di cui è stato anche ospitato nelle pagine del DN. Assolutamente assenti i
servizi dei corrispondenti.
Decisamente scarsa l’attenzione dedicata da parte dei principali giornali scandalistici svedesi,
l’Expressen e l’Aftonbladet. L’unico articolo di quest’utlimo risale al 19 gennaio e attinge ai
comunicati della TT, il cui materiale è stato del resto utilizzato anche dal DN e
dall’Expressen proprio nel medesimo giorno.
Il 20 gennaio l’Expressen pubblica poi un commento di un deputato europeo, in cui viene illustrata la
posizione del premier svedese Reinfeldt nei confronti della politica ungherese. Invece di tematizzare
l’attentato alla libertà del popolo ungherese, l’articolo verte soprattutto sulle apparenti
manchevolezze del premier svedese, senza tuttavia chiaramente delineare l’opinione del politico né
palesare i punti fondamentali del suo pensiero.
Il punto di vista dei media russi
“Una cosa del genere non ce la saremmo aspettata dall’Ungheria”
Di Anja Willner
Nei media russi tradizionali il problema viene affrontato o in modo distaccato, per puro dovere di
cronaca, o non se ne parla proprio, ma alcune voci hanno sorprendentemente esposto il loro punto di
vista critico.
In un breve contributo il quotidiano Iswestija, nota testata di qualità, critica ad esempio il
comportamento della Commissione Europea nei confronti del problema e accenna timidamente alla
dichiarazione di Viktor Orbán di apportare alcune modifiche alla legge.
Dopo le elezioni di aprile il Iswestija ha designato Viktor Orbán come colui che trasformato il partito
liberale Fidesz in un gruppo conservativo, tanto da meritarsi l’etichetta di “populista”, tuttavia, non
ci si addentra in un giudizio esplicito nei confronti delle sue idee politiche.
Si accenna anche al fatto che da Orbán ci si sarebbe piuttosto aspettati una repubblica filorussa, al
contrario dei suoi predecessori che miravano invece a includere il paese nel patto Nato. Nei mesi di
novembre e dicembre, Viktor Orbán si è incontrato a Mosca con il Primo ministro Putin, destando
l’attenzione della maggior parte dei media russi, non solo, Putin sembra avergli concesso un’udienza
privata anche prima della sua elezione: si pone quindi l’interrogativo se la svolta nei rapporti russoungheresi abbia a che fare con una trattazione così limitata di questo problema.
Ecco invece quello che scrive a proposito il Nesawissimaja Gaseta (“Giornale indipendente”): “La
legge non è stata ancora sottoscritta dal presidente, ma ha già scatenato una certa risonanza”. La
legge viene qui definita come una vera e propria “pietra dello scandalo” e additata quale la causa
che potrebbe fare traballare la presidenza ungherese del Consiglio Europeo. Il contributo si limita
però a individuare gli argomenti delle posizioni critiche internamente alla Commissione e al
Parlamento Europei, tra cui del resto la Germania si distingue per la sua posizione particolarmente
critica. Si riporta infatti l’avvertimento pubblicato da Angela Merkel per mezzo del ministro Hoyer,
in cui la cancelliera mette in guardia contro il rischio di ferire importanti principi legali mediante la
gestione dei mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia, la posizione del giornale nei confronti del
problema non viene più di tanto esplicitata.
Il quotidiano economico Kommersant specifica la serie di scandali con cui inizia la presidenza
europea dell’Ungheria, tra cui si annovera appunto la nuova legge sui media. L’analisi del problema
verte sulle aspettative disattese di questa presidenza, che si sarebbe dovuta occupare di
problematiche più serie, quali la grave crisi economica e che, invece, già dalle prime tre settimane
del suo incarico ha diffuso un clima di insoddisfazione. Sono soprattutto i deputati europei e i capi di
partito Martin Schulz e Daniel Cohn-Bendit a beneficiare di un ampio spazio per esprimere il proprio
parere.
E’ degno di nota, ritiene il Kommersant, che Orbán abbia iniziato il suo discorso di ingresso nel
Parlamento Europeo soffermandosi sui valori della libertà e della democrazia. Vengono poi riportati
gli argomenti sostenuti dal governo ungherese – la legge sui media riguarda gli affari interni e
l’Ungheria è una delle prime democrazie della ex Unione Sovietica – e il paragrafo sulla tanto
dibattuta legge sui media è già concluso, senza lasciare trasparire l’opinione dell’autore.
Anche il Komsomolskaja prawda ha gridato allo “scandalo”, come recitano i titoli di testa, peccato
però che lo scandalo consista più nel famigerato tappeto che il governo ungherese ha fatto mettere
nell’edificio del Consiglio Europeo, in quanto rappresenta sì l’Ungheria ma con i confini del 1848.
Il giornale scandalistico lascia quindi in secondo piano la questione della legge sui media, trattata
solo ai margini, in una frase secondaria : “anche gli stati membro disapprovano una legge sui media,
in quanto basata sulla censura”.
Di tutt’altro tono è il sito di notizie dell’opposizione moderata, lenta.ru: “I media ungheresi costretti
a seppellire la libertà di espressione”, “La fine della libertà”, così citano i titoli dei redattori. Viene
anche riportata la protesta di due quotidiani ungheresi, ma si tratta solo di un’esposizione
cronachistica dei fatti, nulla di più.
In un altro articolo il discorso è incentrato sull’ “effettiva introduzione della censura” in
Ungheria. lenta.ru si occupa inoltre di un possibile ricorso costituzionale da parte di un quotidiano
ungherese, cosa che del resto il redattore russo ritiene poco probabile, dato che “dall’aprile 2010
Viktor Orbán ha fatto qualsiasi cosa per consolidare il potere del partito”. Tuttavia, grande fiducia
viene riposta in un efficiente azione di controllo da parte della Commissione Europea.
Un evidente attegiamento critico è anche riscontrabile dall’emittente estera Wolos Rossii (“La voce
della Russia”, prima “Radio Mosca”). L’emittente viene finanziata dallo stato e ha l’obiettivo di
rappresentare all’estero la Russia, una funzione simile a quella della Deutsche Welle per la
Germania. Ciò che sorprende è l’ampio spazio dedicato alle voci critiche nei confronti della legge
sui media. Un esempio è Boris Rezik, vicepresidente della Commissione della Duma per la politica
dell’informazione. Il suo parere nei confronti della legge sui media è assolutamente negativo:
“Dall’Ungheria non ci saremmo mai aspettati una simile decisione, perché il paese si è proclamato
quale stato libero e democratico e un segno della società democratica è proprio determinato dalla
libertà dei mass media”, ed esprime poi il timore che l’Ungheria possa assurgere a modello da
imitare.
Anche la “Voce della Russia” prende posizione e la richiesta volta alla Commissione Europea di
modificare la legge viene ritenuta dall’autore assolutamente “fondata”. La cosa sorprende molto,
dato che la Russia non può certo essere considerata la “culla” della libertà di stampa. Perlomeno – e
questo preme particolarmente ai politici russi –in Russia non è in vigore alcuna legge, che
renderebbe lecita la censura.
Il punto di vista dei media americani
La vendetta di Orbán contro i trasgressori
Di Julia Weiß
Il New York Times si è ampliamente interessato alla legge ungherese sui media. Su nyt.com si
possono infatti leggere numerosi articoli approfonditi sia su questo tema sia sul ruolo dell’Ungheria
all’interno della Comunità Europea. Il corrispondente Stephen Castle si occupa dell’Ungheria
soprattutto dalla prospettiva della UE, della funzione della presidenza europea e del contestato
presidente Orbán bersagliato dalle critiche degli altri paesi membro. Vengono illustrate le tappe
della carriera di Orbán, giudicando poi quale mossa alquanto sbagliata la promulgazione della legge
sui media all’inizio della sua funzione di presidente del Consiglio Europeo, su questi passi falsi e
sulle relative difficoltà l’autore redige poi anche un ulteriore contributo. Con la medesima
oggettività Judy Dempsey commenta da Berlino il contesto europeo in cui si inserisce la legge sui
media.: riepiloga brevemente la “labile posizione” dei paesi dell’Europa dell’Est e dipinge la
questione ungherese come xenofoba e antisemitica.
E’ il Washington Post a promuovere il dibattito culturale più intenso. Nella colonna intitolata
“Jeopardizing democracy in Hungary” (“La minaccia alla democrazia in Ungheria”) Anne Applebaum
delinea la situazione politica ungherese e interpreta la legge come “vendetta” intimata dal
presidente nei confronti di quei giornalisti che non intendono adeguarvisi: una vera e propria azione
di corruzione a cui tuttavia l’elite e i media ungherese non sembrano attribuire l’adeguata
attenzione. Segue poi il parallelismo con i politici americani, anche loro talvolta ben volentieri
tentati di sbarazzarsi dei giornalisti un po’ scomodi, e conclude in tono piuttosto moderato: “Orbán è
cresciuto in uno stato governato monopartitico, la sua consapevolezza storica dovrebbe trattenerlo
dall’instaurare nuovamente un regime simile”.
Numerose sono state le lettere dei lettori dopo la pubblicazione dell’articolo “The Putinization of
Hungary” (“La putinizzazione dell’Ungheria”). Un lettore avanza la proposta di indagare più
approfonditamente sul ruolo dell’Ungheria nella UE e scredita la validità della sua presidenza del
Consiglio Europeo, mentre un altro replica che una nuova legge sui media non debba
necessariamente implicare le dimissioni dell’Ungheria e invita ad attendere gli effetti prima di
avventare qualsiasi tipo di giudizio.
USA Today assume a proposito una posizione piuttosto passiva, probabilmente per la sua natura di
tabloid. Tuttavia, il 14 gennaio, viene pubblicato online – usatoday.com – un articolo sulle proteste
contro la restrizione della libertà di stampa, Se da una parte l’articolo appare molto simile a un
comunicato d’agenzia, piuttosto interessanti risultano i cinque commenti che ne seguono. Il primo
commento critica la mancanza di fiducia stessa degli Americani nella libertà di stampa, mentre un
altro lettore polemizza sulle informazioni approssimative fornite dalla redazione. Scrive infatti die
aver partecipato di persona alle proteste in Ungheria e di poter confermare che i dimostranti fossero
ben oltre di solo duemila.
Traduzione dall’originale tedesco “Maulkorb für die Medien” di Mariaelena Caiola
*L’analisi è stata svolta dagli studenti del corso di “Giornalismo e Scienze Culturali” della
Technische Universität di Dortmund nell’ambito del seminario “Media e Cronaca
Estera” con la supervisione dello staff dell’EJO