La cooperazione decentrata e gli enti locali. Un approccio per

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La cooperazione decentrata e gli enti locali. Un approccio per
La cooperazione decentrata e gli enti locali. Un approccio per collegare
immigrazione e cooperazione allo sviluppo
José Luis Rhi-Sausi
Cooperazione allo sviluppo e immigrazione internazionale
(inserire da p. 49 a p. 57)
Dalla cooperazione delle amministrazioni decentrate alla cooperazione
decentrata
La cooperazione allo sviluppo svolta dalle amministrazioni decentrate -regioni,
provincie, comunità, municipalità, grandi città- non è nuova nella cooperazione
europea, anzi in alcuni casi costituisce una delle forme più tradizionali della
cooperazione nell'Ue. In particolare, le attività dei länder della Germania, delle
comunità linguistiche-culturali del Belgio e delle Comunidades autonómicas di
Spagna,
nascono abbinate alle cooperazioni dei governi centrali e
frequentemente non sono meno ricce e complesse di queste.
Negli anni '90, però, questa forma di cooperazione è diventata parte di
una più vasta tematica: la cooperazione decentrata, cioè "un nuovo approccio
alle relazioni di cooperazione che tenta di stabilire rapporti diretti con gli
organismi rappresentativi locali ne di stimolare la loro capacità di progettare e
portare a termine iniziative di sviluppo con la partecipazione diretta dei gruppi di
popolazione interessati, dei quali prende in considerazione gli interessi e gli
approcci allo sviluppo” (EC, 1992). In quest'approccio -ancora in fase di una più
precisa definizione concettuale- le amministrazioni locali e regionali dei paesi
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donatori vengono investite di un maggiore ruolo e di nuovi compiti e
responsabilità, al di là delle tradizionali forme di cooperazione orizzontale,
quale il 'gemellaggio' tra le autorità locali del Nord e del Sud.
La cooperazione decentrata non è semplicemente un altro strumento, ma
-come sostiene Commissione europea (EC)- un nuovo approccio emerso come
una delle innovazioni della IV Convenzione di Lomé (1989), e che ha sancito
formalmente l'eliminazione del monopolio delle agenzie dei governi centrali dei
paesi ACP nell'utilizzazione delle risorse disponibili.
La cooperazione decentrata, ancorata al territorio e all'interazione tra
soggetti sociali ed istituzionali di cui tende a valorizzare e non ad annullare la
diversità, si propone di apportare un contributo significativo alla costruzione di
una nuova partnership Nord-Sud fondata sulla visione di cosviluppo.
L'approccio decentrato ambisce inoltre a garantire una maggiore trasparenza
decisionale e gestionale dei programmi di cooperazione, e soprattutto una
maggiore valorizzazione del particolare know how di cui risulta portatore quel
tessuto di attori istituzionali, associazioni sociali e professionali, Ong, soggetti
economici medi e piccoli che con varia intensità sono presenti sul territorio.
Sfuggendo ai limiti degli accordi intergovernativi, le cui dinamiche si presentano
inclinate verso una visione top-down dello sviluppo, esso offre una possibilità
inedita di giungere a forme di convergenza tra quest'ultima e quella bottom-up,
superando una contrapposizione che tradizionalmente ha indebolito in modo
grave le politiche di sviluppo. Pur non negando l'apporto della cooperazione non
governativa di cui invece valora le specificità e le potenzialità, la cooperazione
decentrata si vuole collocare in uno spazio diverso, caratterizzato dalla ricerca
delle modalità possibili di concertazione tra soggetti sociali e istituzioni locali. In
tal modo si presenta come un laboratorio in cui è possibile affrontare in modo
originale quel nodo di problemi oggi al centro delle politiche di sviluppo e
costituito dai rapporti: governativo-non governativo, livello centrale-livelli
periferici dell'amministrazione statale, logiche di mercato-logiche di solidarietà
sociale.
La cooperazione decentrata nella Convenzione di Lomé
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Come indica lo studio dell'ECDPM sulla cooperazione decentrata nei
paesi ACP (J. Bossuyt, 1994), la rilevanza di questo approccio deve essere
rapportato alle seguenti cause principali:
a. I cambiamenti politici (il binomio mercato-democrazia si è posto come nuova
base dell’organizzazione sociale, aprendo nuovi spazi all’intervento di una
molteplicità di soggetti nel processo di sviluppo);
b. Una diversa visione del ruolo dello Stato e dello sviluppo (anteporre le
persone alle cose, lo sviluppo come risultato da un processo di apprendimento
piuttosto che da una decisione dall’alto, decentramento, partecipazione e
valorizzazione delle diversità, ecc.);
c. L’esigenza di ottenere buoni risultati dagli interventi (è necessario avere un
impatto positivo con minore risorse. Gli attori non-statali sono quindi emersi
come canali alternativi per una efficace distribuzione dell’aiuto).
Per la Commissione europea la cooperazione decentrata si colloca perciò
come "un ulteriore passo avanti sulla via di una maggiore partecipazione delle
persone direttamente interessate ai programmi di sviluppo (sviluppo
partecipativo)”. Essa dovrebbe contribuire inoltre a "rafforzare la democrazia e
promuovere il ripetto dei diritti umani", così come a "mobilitare il know-how e
gli unput delle organizzazioni europee, sotto forma di accordi di partnership tra
l’Europa e i Paesi in via di sviluppo”.
Va ricordato, però, che la cooperazione decentrata dell'EC si muove
comunque all'interno del framework dei rapporti con i governi dei Paesi in via di
sviluppo, alle cui Delegazioni nazionali di autorizzazione spetta la prerogativa
"di determinare priorità e metodi".
In termini finanziari l'EC, oltre al Fondo europeo di sviluppo (FED),
prevede l'utilizzazione del budget comunitario per programmi di cooperazione
decentrata negli accordi con l’Asia e l’America latina (PVD-ALA) e del Bacino
mediterraneo meridionale e orientale. Infine, esiste anche una linea di bilancio
speciale per le Ong e una piccola linea di finanziamento per la cooperazione
decentrata nei Paesi in via di sviluppo aperta nel 1992. La Commissione non
prevede delle precise priorità settoriali nei progetti di cooperazione decentrata,
ma i criteri guida per selezionare le candidature sono legati alla qualità
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dell’organizzazione che presenta il progetto e all’obiettivo di rafforzare le
capacità e le potenzialità di azione degli organismi locali.
Più avanti saranno indicati i più recenti programmi di promozione della
cooperazione decentrata da parte dell'CE.
Per quanto riguarda l'esperienza pratica della cooperazione decentrata
all'interno della Convenzione di Lomé, essa è ancora limitata e mostra non pochi
problemi riguardo alle sue aspirazioni teoriche. Nel già citato studio
dell'ECDPM sono individuati sei ordini di problemi al riguardo:
- Resistenze politiche negli stati ACP
- La natura stessa della Convenzione di Lomé (basta su accordi tra governi)
- Concezioni discordanti sugli obiettivi della cooperazione decentrata
- Mancanza di strumenti operativi
- Mancanza di informazioni
- Problemi di capacità di gestione negli ACP
Nell’attuale dibattitto sul futuro della Convenzione di Lomé la cooperazione
decentrata ha trovato un notevole interesse, in particolare l’Italia considera
questa modalità di cooperazione uno dei pilastri nelle relazioni UE-ACP (CeSPI,
1997).
Le amministrazioni decentrate europee come soggetti internazionali
Una seconda tendenza che spinge verso l'affermazione della cooperazione
decentrata è costituita dal crescente ruolo delle amministrazioni regionali e
locali europee come soggetti della vita internazionale (J. Borja, 1995), in quei
paesi -con tradizionali strutture istituzionali substatali- dove è in atto un ulteriore
processo di decentramento amministrativo. Questa tendenza quindi non è
riscontrabili in tutti i paesi, nè si registra con la stessa intensità.
Senza pretendere di tracciare un quadro exaustivo su paesi europei a
seconda il ruolo internazionale degli enti substatali si può tenere presente il
seguente schema indicativo:
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Grado di attività internazionali delle Regioni e degli Enti locali in vari paesi
europei
----------------------------------------------------------------------------------------------------------Forte attività
BELGIO, GERMANIA,
Crescente attività
ITALIA, SPAGNA
Bassa, ma crescente attività
FRANCIA
Nulla attività
GRAN BRETAGNA
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------
La maggior parte delle indicazioni a questo proposito emergono da
un'ampia ricerca sulla Europa delle Regioni (S. Petschen, 1993), dove è
considerato sia il quadro normativo, che le principali attività internazionali,
compresa la cooperazione allo sviluppo.
Il quadro normativo sull'attività internazionale delle amministrazioni decentrate
Il Belgio è sicuramente il paese europeo con la normativa più ampia
sull'attività internazionale da parte degli organi substatali. Specificamente la
riforma all'Art. 68 della Costituzionale nel 1993, ha abilitato alle comunità della
Vallonia, delle Fiandre e di Bruxelles "sulla base del principio generale della loro
autonomia, a negoziare e concludere trattati internazionali". Questa riforma ha
costituito la conslusione di una fase favorevole all'autonomia delle comunità
nelle attività internazionali, iniziatasi con le riforme costituzionali del 1980.
Per quanto riguarda la Germania, la normativa (Art. 73 della Legge
fondamentale) prevede che i länder possano concertare accordi internazionali a
condizione di avere l'assenso del governo federale, contemporaneamente secondo l'Accordo di Lindau del 1957- se il trattato riguarda una materia di
competenza esclusiva dei länder, allora è necessario il loro assenso e la loro
partecipazione nelle negoziazioni.
I casi della Spagna e dell'Italia si collocano in una posizione intermedia e
presentano alcune somiglianze di fondo. Da un lato, sia la Costituzione italiana
(1947), che quella spagnola (1978) collocano i rapporti internazionali tra le
materie di competenza esclusiva degli organi centrali dello stato. Dall'altro,
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benché l'ius contrahendi sia un'esclusività dello Stato, ciò non si applica ad altri
tipi di rapporti internazionali qualificati come "attività promozionali o di
rilevanza internazionale".
Ed è su questa definizione della rilevanza
internazionale (proposta dalla letteratura giuridica italiana), che si sono
sustentanti numerosi "accordi non normativi" internazionali (rapporti di low
profile) delle istituzioni substatali nei due paesi.
Nel caso italiano ciò ha permesso alla Corte Costituzionale di classificare
(Sentenza n.179/1987) i diversi tipi di relazioni internazionali. Da quelli di
esclusiva pertinenza del governo centrale, a quelle che richiedono l'assenso dello
stato, a quello che non richiedono alcun accordo con il governo centrale.
Per quanto riguarda specificamente la cooperazione, negli ultimi tempi,
sia la normativa spagnola che quella italiana, hanno riconosciuto il ruolo della
cooperazione decentrata. Nel caso italiano il processo di riforma legislativa,
avviato dai primi mesi del 1998, comprenderà quasi sicuramente un maggiore
ruolo dei governi regionali e locali.
Resta da esaminare in questa breve rassegna il caso francese. Si tratta,
come è noto, di una struttura statuale fortemente centralizzata, ma è interessante
notare come anche in questo caso ha fatto breccia l'attività internazionale delle
amminsitrazioni decentrate. In particolare, nella Legge di orientamento n.92-125
(1992) è stato inserito il Tit. IV sulla Cooperazione decentrata, il cui Art. 131-1
dice: "Le collettività territoriali e i loro raggruppamenti possono concludere
convenzioni con collettività territoriali straniere e le loro aggregazioni, nei limiti
delle loro competenze e nel rispetto degli impegni internazionali della Francia";
inoltre è prevista anche una Commissione nazionale per la cooperazione
decentrata a carattere consultivo.
Le attività di cooperazione delle amministrazioni decentrate europee
Il quadro delle attività di cooperazione delle Regioni e gli enti locali è
estremamente composito. L'iniziativa della Conferenza delle Regioni e i poteri
locali del Consiglio d'Europa, agli inizi degli anni '90, per raccogliere i dati su
queste attività non ha avuto particolare successo (CPLRE, “Rapport sur les
relations extérieures des Collectivités teritoriales”, in S. Petschen, 1993).
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In termini generali, si possono distinguere due momenti di comparazione.
Da un lato, le differenze nelle attività di cooperazione delle amministrazioni
decentrate vanno viste nel quadro delle differenze nazionali, sia in conseguenza
delle diversità normative sia per le differenti tradizioni e condizioni economiche.
In questo senso i länder tedeschi si collocano al primo posto in assoluto e le
Comunidades spagnole contano su una base di risorse fiscali proprie e una
maggiore tradizione che le Regioni italiane. Come dati di riferimento si tenga
presente che nel 1992 i länder tedeschi hanno erogato più di 350 milioni di
dollari per la cooperazione (Freres, 1995), cioè una cifra superiore all'attuale
valotre della cooperazione bilaterale italiana e la sola cooperazione del País
Vasco ha superato i 30 milioni di dollari nel 1996. Dall'altro lato, si può
sostenere che la maggiore o minore intensità della cooperazione allo sviluppo
delle amministrazioni decentrate non dipende tanto delle differenze nazionali,
quanto delle diferenze regionali in se stesse, indipendentemente del paese di
appartenenza. In questo senso è possibile identificare una concentrazione di
cooperazione nei cosiddetti "quattro motori" regionali europei: BadenWürtemberg, Catalogna, Lombardia e Lione-Alpi. Anche se al loro interno le
differenze sono notevoli. Infine, un'ultima importante distinzione relativa al
livello di attività delle amministrazioni decentrate europee deriva dalle
opportunità offerte dai paesi riceventi e dai programmi di cooperazione della
Commissione europea e delle cooperazioni nazionali. Due esempi a questo
proposito sono offerte dall'interesse delle regioni dell'Europa del Sud riguardo
all'area mediterranea (Regione Toscana, 1995) e delle regioni dell'Europa del
Nord riguardo ai paesi dell'Europa orientale.
L'Unione uropea e le amministrazioni decentrate
Il Comitato delle Regioni e dei Poteri locali, costituito dal Trattato di
Maastricht, ha sollecitato -nel quadro della revisione del Trattato previsto per il
1996- di essere consultato in merito alle misure riguardanti la politica di
cooperazione allo sviluppo. Nell'aprile 1995 nella Conferenza di Madrid sulle
"Regioni europee e la cooperazione decentrata Nord-Sud", le Regioni europee
partecipanti, tutte facenti parte dell'Assemblea delle Regioni di Europa, hanno
sollecitato un dialogo permanente tra la Commissione europea e l'Assemblea nel
quale "si chiariscano le priorità, si identifichino i progetti e si collochino in
comune le risorse nell'ambito della cooperazione allo sviluppo "(Dichiarazione
finale della Conferenza di Madrid).
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Questa iniziativa è indicativa del crescente ruolo che vogliono giocare le
istituzioni substatali nel campo della cooperazione allo sviluppo. Dall'inizio
degli anni '90, la Commissione europea ha cercato di "seguire ed stimolare
questo movimento", in particolare:
- stabilendo un dialogo più regolare con le organizzazioni rappresentative dei
poteri locali in Europa (ARE, CCRE, IULA, asociazioni nazionali di poteri
locali, Città unite), specialmente al livello dei servizi della CE responsabili della
cooperazione decentrata;
- promuovendo diverse iniziative specificamente destinate ai poteri locali, che
affrontano lo sviluppo delle reti di associazione con il Sud, quali i programmi
MEDURBS nel Mediterraneo o ALURBS in America latina;
- grazie al rafforzamento asociativo fra Ong e autorità locali, una serie di
iniziative di colletività europee si avvalgono del sistema di cofinanziamento
destinato alle Ong europee;
- impegnandosi ad una maggiore apertura degli strumenti tradizionali di
cooperazione (FED specialmente) ai bisogni, alle iniziative e ai progetti portati
avanti dagli attori decentrati, facendo attenzione che questi stessi strumenti siano
coerenti con gli obiettivi comunitari. Ciò comporterà una nuova generazione di
programmi orientati allo sviluppo locale nei suoi diversi componenti;
- un crescente numero di Programmi Indicativi Nazionali del FED prendono in
considerazione la possibilità di appoggiare, mediante cofinanziamenti, le varie
iniziative degli attori decentrati, frequentemente in associazione con gli omologhi
del Sud o con Ong europee.
- creando, dal 1992, una budget line per incentivare la cooperazione decentrata.
Si è data una speciale attenzione alle colletività locali con un doppio obiettivo: a)
seguire più attentamente le dinamiche create dell'emergere dei poteri e delle
collettività locali organizzate nei Pvs, e sperimentare nuovi campi e metodi di
lavoro, in particolare per una miglior collaborazione tra popolazione, poteri locali
e governo centrale; b) rafforzare, intensificare e dotare di strumenti reti di
cooperazione Nord-Sud e Sud-Sud tra collettività locali, suscettibili di orientare
a loro volta l'azione delle collettività europee verso gestioni più integrate, di
cooperazione durevole e di sostegno alle dinamiche locali emergenti nel Sud;
- Sono state promosse varie piattaforme di questo tipo, ad esempio in Africa e in
Centroamerica. sulla base di reti che coinvolgono municipi, associazioni
nazionali di municipi, Ong, dotate di linee finanziarie per azioni concrete
nell'ambito della gestione municipale, o dello sviluppo sociale o della creazione
di occupazione.
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Quello che sostiene e giustifica gli orientamenti dell'azione comunitaria in
materia di cooperazione decentrata -conclude il documento della Commissione
(DGVIII-EC, 1995)- è l’esigenza di conugare l'emergere di nuove dinamiche
locali favorevoli allo sviluppo del Sud con il rafforzamento e la moltiplicazione
dei contributi degli attori decentrati europei.
Una proposta di Agenda sulla cooperazione decentrata
1. Cos'è cooperazione decentrata. La necessità di un chiarimento concettuale
Nell'utilizzazione più estesa dell’approccio del donatore, la cooperazione
decentrata "si riferisce alle azioni della cooperazione internazionale sviluppate
dalle entità territoriali decentrate dei vari paesi europei" (J.L. Abalos, 1993). Nel
dibattito italiano (V. Ianni, 1995), come è stato accennato, questa concezione è
considerata limitativa e viene denominata cooperazione orizzontale perché fa
riferimento soltanto a rapporti fra organismi omologhi: unità territoriali, ordini
professionali, e così via, senza cogliere il rapporto globale tra comunità. La
cooperazione decentrata invece si propone come un nuovo approccio fondato
sull'idea del co-sviluppo, che permetta di affrontare in modo coerente una
molteplicità di aspetti che legano le due o più comunità decentrate coinvolte (non
solo i tradizionali campi dell'Aiuto pubblico allo sviluppo, ma anche la
cooperazione economica e l'immigrazione extracomunitaria). Allo stesso tempo,
questo tipo di cooperazione si propone di incrementare l'efficacia dell'aiuto e
contribuire a ridurre i limiti degli approcci top-down (intergovernativi) e bottomup (tra Ong).
Una concezione molto più pragmatica -e con una base di partenza
diversa- sembra invece ispirare la Commissione europea. La riflessione sulla
cooperazione decentrata ha origine nel decentramento dei Pvs, non da quello nei
Paesi europei, e viene strettamente rapportata ai problemi della efficacia della
cooperazione e all'affermazione dell’approccio del beneficiario (recipient
approch). La cooperazione decentrata serve a potenziare le nuove dinamiche
locali nei Pvs favorevoli allo sviluppo e il problema fondamentale diventa how
"fare del nuovo approccio una realtà concreta" (J. Bossuyt, 1994).
2. Quali sono le dimensioni della cooperazione decentrata europea
Praticamente tutti gli esperti considerano che la cooperazione decentrata è in
ascesa. Nella ricerca promossa del CeSPI su "Coordinating Development Aid
Policies" (J.L. Rhi-Sausi e M. Dassù, 1994) in sei dei sette studi di caso
considerati -Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Paesi Bassi, Spagna e
Svezia- si registra una crescente importanza delle autorità locali nella
cooperazione allo sviluppo; solo in Gran Bretagna le autorità locali non
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partecipano nell’aiuto ai Paesi in via di sviluppo. Ma tranne alcuni studi
nazionali, non si conta con indagini a livello europeo, che permettano di valutare
le dimensioni del fenomeno e definire le caratteristiche delle varie cooperazioni
decentrate. Il dibattitto sulla cooperazione decentrata richiede di una casistica
molto più consistente per ancorare la riflessione all'evoluzione pratica di questo
tipo di cooperazione.
3. Qual'è la qualità della cooperazione decentrata
Strettamente legata al problema precedente è la valutazione sull'esperienza delle
cooperazioni decentrate. Sebbene in termini teorici l'approccio sulla
cooperazione decentrata presenti indubbi aspetti positivi, essi debbono
confrontarsi con i soggetti concreti di gestione. A questo proposito vanno
considerati tre ordini di problemi.
In primo luogo, come spiega J. Bossuyt, "non vi alcuna garanzia che il
processo politico locale sia più ‘rilevante’ di quello nazionale. Non si possono
escludere tensioni locali o interessi settoriali". Il fatto che il livello locale non sia
di per sé più relevante di quello nazionale vale anche per autorità locali dei paesi
donatori.
In secondo luogo, come dimostra l'esperienza trentennale "dell'altra"
cooperazione, essa richiede di un forte expertising sia dalla parte dei paesi
donatori che dei paesi beneficiari. La maggior parte degli amministratori e
funzionari locali, sia al Nord che al Sud, ai quali spetta la gestione dei progetti di
cooperazione, frequentemente non ne conosce nemmeno gli elementi di base.
Come dice l'ECDPM "esiste una esigenza pressante di sviluppo delle capacità a
livello locale, tra tutti i potenziali beneficiari del progetto".
In terzo luogo, la molteplicazione dei soggetti della cooperazione
comporta dei rischi sia in termini dell'efficacia, sia in termini di coordinamento a
livello nazionale (con il governo centrale) e internazionale (agenzie nazionali e
internazionali).
4. Coordinamento e complementarietà nella cooperazione dell'UE. Quali rapporti
delle amministrazioni decentrate con le agenzie nazionali di cooperazione e con
la Commissione
Se la cooperazione decentrata diventa rilevante, essa inciderà in modo
sostanziale nel dibattito (e nell’esperienza concreta) relativo alla
complementarietà e al coordinamento delle politiche di cooperazione a livello
europeo. In modo sintetico si possono individuare le seguenti tematiche:
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a. Il Trattato di Maastricht stabilisce che nelle politiche di cooperazione allo
sviluppo non si applica il principio di sussidarietà e al suo posto (Art. 130u) ha
inserito il concetto di complementarietà, che è più debole di quello della
sussidarietà. Nel dibattito a questo proposito si è potuto constatare la vaghezza e
le difficoltà di applicare il principio di complementarietà nel coordinamento delle
politiche europee (oltre alla ricerca promossa dal CeSPI, cfr. W. Gocht, A.
Hewitt, P. Hoebink, 1994). L'ingresso dei soggetti substatali europei nella
cooperazione allo sviluppo ripropone il principio di sussidarietà e rende ancora
più complessa l'applicazione del principio di complementarietà.
b. Certamente questo problema si presenta in modo molto diverso da paese a
paese. In termini generali, però, è possibile constatare una tensione fra le agenzie
nazionali di cooperazione e gli organismi territoriali della cooperazione
decentrata.
c. Parallelamente, anche in termini generali, si può osservare come le entità
territoriali regionali e locali europee cerchino un dialogo diretto con la
Commissione europea. In prima istanza, per accedere agli strumenti finanziarie
comunitari, ma anche per trovare una leggitimazione senza passare per i governi
nazionali. Come nel caso delle Ong, le Regioni e gli enti locali, stanno
diventando naturalmente filo-cuminatarie. Dall'altro canto, la Commissione
sembra mostrare un particolare interesse verso questi soggetti, non solo per le
ragioni strettamente legate all'efficacia della cooperazione decentrata, ma anche
come parte di una strategia di decentramento più ampia, dove gli strumenti di
cooperazione allo sviluppo e di cooperazione economica vengono utilizzati
direttamente da soggetti privati e a livelli istituzionali non statuali.
Bibliografia citata:
José Luis Abalos M. (1993), "La cooperación descentralizada", II Curso de
Especialización en cooperación para el desarrollo, Córdoba.
Jordi Borja (1995), "I rapporti internazionali delle città", Conferenza
dell’Internazionale Socialista: Il governo delle sinistre e la città, 28-29 gennaio,
Bologna.
J. Bossuyt (1994), "Decentralised Cooperation and the African Public Sector:
Several Players in Search of a Dramatist", ECDPM Working Paper 94-1,
Maastricht.
Commissione Europea- DGVIII (1992), "Decentralized Cooperation. Objectives
and Methods", Bruxelles.
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CE - DGVIII (1995), "Orientaciones de la CE en materia de cooperación
descentralizada", Conference on North-South, Madrid.
Christian Freres (Coord.) (1995), "La Cooperación para el Desarrollo de los
Estados Miembros de la Unión Europea con América Latina", Rapporto per la
Commissione Europea, Madrid.
Werner Gocht, Adrian Hewitt, Paul Hoebink (1994), "The Comparative
Effectiveness and the Co-ordination efforts of EU donors", NAR/ODI, The
Hague.
Vanna Ianni (1995), Guida alla cooperazione decentrata, Movimondo, Roma.
Santiago Petschen (1993), La Europa de las regiones (The Europe of the
Regions), Institut d'Estudis Autonòmics, Generalitat de Catalunya, Barcelona.
Regione Toscana (1995), "Cooperazione nel Mediterraneo", Conference on
North-South Decentralised Cooperation: The European Regions, Madrid, 27
aprile.
José L. Rhi-Sausi e Marta Dassù (Eds.) (1994), "Coordinating the Development
Aid Policies of European Countries", 2 V., CeSPI, Roma.
Il caso italiano
La cooperazione decentrata come cooperazione tra comunità
La legge 49 del 1987 che regola le attività di cooperazione allo sviluppo
dell'Italia ha disegnato nell'ultima parte degli anni Ottanta un modello di
cooperazione articolato che riconosce alla società civile uno spazio importante
nella ricerca degli "obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei
diritti fondamentali dell'uomo" (art.1). Un indicatore dell'importanza attribuita
alla partecipazione degli attori sociali è il ruolo di "canale propositivo e
strumento attuativo" per la prima volta riconosciuto a Regioni, Provincie
autonome ed Enti Locali.
Tuttavia, nel quadro di parziale e discutibile attuazione della legge 49/87, la
parte relativa al decentramento si è caratterizzata per un particolare ritardo e per
le insufficienze di fondo che ne hanno frenato l'avvio. Sono mancate:
- la volontà politica del governo di impegnarsi in tale direzione:
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- la visione strategica dell'importanza di un tale impegno;
- una definizione puntuale dei ruoli dei diversi soggetti;
- l'individuazione di forme sinergiche di coordinamento;
- la persistenza della pressione sociale a favore del nuovo approccio.
Ugualmente forte è stato il peso delle difficoltà derivanti dalla particolare
debolezza degli attori istituzionali periferici coinvolti dal nuovo approccio.
Regioni, Provincie autonome ed Enti Locali, nonostante la loro dichiarata
disponibilità, sono risultati esposti alla variabilità degli equilibri politici interni ed
alla lentezza di procedimenti burocratici particolarmente rigidi. La situazioneè
migliorata con la nuova legge elettorale del 1993? che introduce l'elezione diretta
del sindaco e del presidente della Regione conferendo così una maggiore
stabilità all'intera amministrazione.
L'assetto istituzionale dello Stato italiano presenta una struttura regionalizzata e
suddivisa in tre livelli: il primo, comunale, con 8074 comuni; il secondo,
provinciale, con 95 provincie; e il terzo, regionale, con 20 regioni di cui 5 a
statuto speciale. Tuttavia, la peculiarità del processo di formazione dello stato
unitario e delle vicende ad esso seguite ha reso particolarmente lenta1 e tesa la
realizzazione del modello regionale previsto dalla Costituzione del 1948. Le
ambiguità di quest'ultimo, caratterizzato da una struttura di tipo stellare2, hanno
alimentato e consolidato due culture e due sistemi di relazioni differenziati e
tendenzialmente confliggenti: l'uno "regionale", impegnato insieme nella
rivendicazione di autonomia dal centro e di un ruolo-guida nei confronti delle
collettività locali, l'altro "locale", inclinato a conservare i rapporti diretti con il
centro e a difendere la propria autonomia di fronte ai poteri regionali.
L'amministrazione centrale ha favorito lo sviluppo di questo duplice sistema di
relazioni tendendo a mantenere attraverso di esso il controllo sui diversi livelli
1
L'ultimo atto di tale processo è rappresentato dalla riforma realizzata dalla legge 142 del 1990, che
ridefinisce l'assetto delle collettività locale in ordine alla nuova ripartizione di competenze tra livello centrale e
regionale. Vedasi l'interessante panorama sulle collettività decentrate dell'Unione europea tracciato dallo
studio, Les collectivités décentralisées de l'Union européenne (direction, Alain Delcamp),Paris, La
documentation française, 1994. Per il caso italiano, Francesco Merloni, Italie: l'Etat régional contre la
centralisation?, pp. 233-255.
2 Tale modello colloca lo Stato al centro di un complesso sistema di relazioni dirette e incrociate con regioni,
provincie, comuni.
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dell'amministrazione periferica. Questa diffidenza e resistenza dello stato
centrale e queste tensioni tra strutture territoriali hanno pesato e pesano ancora in
modo particolarmente forte sull'avvio delle attività di cooperazione decentrata,
che concernono l'ambito delicato della politica estera.
A metà degli anni Novanta l'approccio decentrato entra però in una fase nuova,
di sperimentazione e di emergenza di inedite modalità metodologiche e
contenutistiche di attuazione, sotto la spinta dell'intrecciarsi di un insieme
complesso di fattori di ordine diverso, di portata insieme nazionale e
internazionale. Tali fattori risultano espressione:
- della crisi generale delle politiche di cooperazione allo sviluppo e della
manifestazione particolare che tale crisi assume nel caso italiano;
- dei mutamenti avviati dalla fine del bipolarismo sul piano delle relazioni
internazionali e del sistema politico nazionale;
- della crisi epocale del welfare state, e conseguentemente della modalità
particolare di articolazione stato-società ad essa collegata, nella forma assunta
nel contesto italiano;
- dei processi di globalizzazione economica e internazionalizzazione delle
società civile3 che ridefiniscono i cleavages tra internazionale-nazionale-locale.
Il caso italiano offre una prospettiva tra le più interessanti per studiare
l'intrecciarsi delle spinte al mutamento, per la elevata esposizione che ad esse
manifesta date le particolarità del suo.sistema politico e della sua configurazione
sociale.
Come effetto di tale intreccio, nella seconda parte del 1994, divengono visibili un
insieme di tendenze nuove. Si configurano momenti inediti di concertazione tra
associazionismo nazionale ed associazionismo di solidarietà internazionale,
soprattutto come risposta alle emergenze causate dalla crisi dei regimi dell'Est4.
3
Sul rapporto tra globalizzazione economica, trasformazione della società civile e libertà politica vedasi Ralf
Darrendorf, Economic opportunity, civil society and political liberty. Ed. italiana, Quadrare il cerchio,
Laterza, Bari 1995. Per il rapporto tra globalizzazione e dimensione locale vedasi il numero 141 del 1995 di
Revue Tiers-Monde dedicato al tema, Sociétés en mutation entre restructurations mondiales et initiatives
locales.
4 E' il caso soprattutto dei numerosi gemellaggi tra città italiane e città dell'ex Jugoslavia.
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Molteplici indicatori concorrono a segnalare inoltre una forte attivazione dei
soggetti sociali e istituzionali su base territoriale, intorno a modalità operative e
forme di presenza inedite. I flussi migratori crescenti, la mondializzazione della
comunicazione, i numerosi e drammatici conflitti etnici e religiosi che
sconvolgono anche aree interne all'Europa, il carattere mutato delle
interdipendenze che legano il Nord e il Sud rendono sempre più difficile
separare l'impegno a favore del benessere nazionale da quello a favore dello
sviluppo delle altre collettività. Comincia a prendere forma una nuova
partnership tra comunità italiane e comunità dell'Est e del Sud che costituisce un
apporto particolare dell'esperienza italiana al contesto europeo. Forme nuove di
mobilitarsi nell'emergenza politica, sociale e naturale ma anche intorno ad azioni
meno puntuali, legate all'impegno di singoli, di gruppi a volte estremamente
fluidi, di associazioni professionali o imprenditoriali, di Ong con e senza
idoneità, configurano un legame mobile tra la società italiana e l'Est e il Sud del
mondo, la cui consistenza appare difficile da determinare ma le cui potenzialità
si rivelano notevoli. Il territorio si rivela fin dall'inizio il momento decisivo di
raccordo e di catalizzazione, mentre il rapporto tra attori sociali ed autorità
locali, intese in senso ampio - regionale, provinciale e municipale - si presenta
come l'elemento decisivo perché la "cooperazione spontanea" possa acquisire
spessore, continuità e strategia.
Nella crisi generale delle politiche di cooperazione, quella italiana manifesta una
propria specificità. Nel suo caso, le conseguenze della fine del bipolarismo, della
tendenza strutturale ad una riduzione dei flussi dell'Aps e della delegittimazione
derivante dal bilancio offerto dalle politiche di cooperazione degli ultimi tre
decenni presentano un carattere di maggiore gravità a causa della drasticità del
calo delle risorse destinate all'Aps e dei fenomeni di corruzione che hanno
accompagnato le politiche degli ultimi anni. Uno dei suoi effetti è quello di
ripercuotersi fortemente sul rapporto tra cooperazione governativa ed Ong,
ponendo fine ad una situazione di subalternità di quest'ultime prodottasi nella
seconda metà degli anni 80 e mettendo in modo un periodo confuso di
ridefinizione del rapporto governativo-non governativo. Tutto ciò si presenta
accompagnato da un insieme di interventi legislativi più o meno frammentari che
incidono sull'assetto generale dello stato e sui suoi rapporti con il volontariato e
l'associazionimso nazionale e internazionale.
16
L'associazionismo di solidarietà internazionale costituisce in Italia un universo
particolarmente differenziato, suddiviso grosso modo in due aree dai confini
mobili e confusi. Il riconoscimento di idoneità da parte del Mae5 e i rapporti
stabiliti con l'Unione Europea separano gli organismi che li posseggono da quelli
che non sono presenti in nessuno di questi due spazi istituzionali. Un numero
considerevoli di organismi occupa inoltre, per assetto organizzativo e modalità
operativa, una fascia intermedia che rende in parte continue le due aree. Su
quella più fluida e cambiante, l'informazione disponibile è ancor oggi
estremamente ridotta essendosi la maggior parte degli studi concentrati sulla
quella più istituzionalizzata rappresentata dalle Ong di sviluppo. Quest'ultima
presenta un'elevata eterogeneità interna, derivante non solo da differenze nella
componente culturale - area cattolica o laica e loro suddivisioni interne- e nel
modo di intendere i problemi dello sviluppo, ma anche da differenze nella
visibilità sociale e nelle capacità professionali ed istituzionali raggiunte6. Ci sono
inoltre alcune realtà le cui caratteristiche e i cui legami non le rendono
immediatamente omologabili con il resto degli organismi; tra cui le tre Ong che
emanano direttamente dalle maggiori confederazioni sindacali, e le tre
federazioni, la cui identità è stata finora essenzialmente quella di strutture di
secondo livello7.
L'incrociarsi di tali differenze, riflesso solo parzialmente dalla griglia delle
federazioni, costituisce quella componente pluralista che, come molte volte è
stato segnalato, rappresenta una ricchezza caratteristica dell'attore Ong8. Essa si
presenta associata, però, alla tendenza a rifuggire dal coordinamento e dal lavoro
in comune, e quest'ultima appare particolarmente forte nel caso italiano, dove il
pluralismo ha alimentato con difficoltà rapporti sinergici tra gli organismi e tra
5
Tale riconoscimento, previsto dall'articolo 28 della legge 49/87, viene concesso attraverso decreto dal
Ministro degli Affari Esteri, sentito il parere della Commissione Ong. Esso costituisce la condizione per poter
accedere ai benefici concessi alle Ong dalla legge (cofinanziamento dei progetti e tutela dei volontari e
cooperanti). L'idoneità può essere riconosciuta per cinque tipi di attività: progetti nei Pvs; selezione,
formazione ed impiego di volontari in servizio civile; formazione di cittadini dei Pvs; informazione;
educazione allo sviluppo.
6 Si registra inoltre la presenza di alcuni organismi caratterizzati da una notevole componente parassitaria o da
interessi non immediatamente riconducibili nell'àmbito della cooperazione senza fini di lucro.
7 Quest'ultime si sono trovate spinte a sollecitare il riconoscimento dell'idoneità anche perché l'attuale legge
italiana prevede il cofinanziamento solo per i singoli organismi. Vedasi Anna Focà, Italia. In Asal e
L'Harmattan Italia, Organizzazioni non governative e governi: un tandem per lo sviluppo (ed. italiana a cura di
maria Stella Rognoni). Roma 1995.
8 Elena Borghese, Un ponte tra il Nord e il Sud. Asal, Roma 1988, p. 21.
17
essi e le altre realtà del mondo associativo, operando piuttosto come fattore di
dispersione, di spreco di risorse, di limitata capacità d'accumulazione delle
conoscenze e d'innovazione. Sono notevoli le difficoltà che le Ong italiane hanno
manifestato per esprimere forme di coordinamento forti ed efficaci, difficoltà
accresciute dalle trasformazioni degli anni Ottanta che, aumentando la loro
eterogeneità, hanno reso ancor più problematico individuare forme comuni di
rappresentanza9.
Negli anni 90 l'associazionismo di solidarietà internazionale partecipa dei
mutamenti che trasformano il mondo dell'associazionismo nella sua globalità. In
particolare, per le Ong si tratta di una fase di grande fragilità e di forti tensioni,
ma anche di inedite potenzialità. Segnali nuovi manifestano l'esistenza di spinte
ad un riassetto anche strategico della loro azione, la ricerca di forme nuove e
flessibili di finanziamento e di aggregazione. Nascono modalità associative
nuove, come nel caso di Movimondo e di Una10. Si trasforma la figura dei
volontari in servizio nei Paesi in via di sviluppo (Pvs)11:diminuisce il loro
numero, si riduce il tempo di permanenza all'estero e cresce il numero di coloro
che partono senza garanzie governative. Tende a mutare anche la tipologia degli
interventi attuati e la loro localizzazione geografica; emerge un interesse inedito
verso nuove forme di finanziamento12 e s'intensifica l'attenzione verso lo
scenario comunitario. Crescono anche qualitativamente i rapporti con i Comuni e
9 Nell'ottobre
1994 le Ong con idoneità Mae raggiungono il numero di 126. All'inizio del 1995 si trovano al di
fuori delle federazioni 36 organismi, cioè poco più del 28% dell'intero universo, mentre all'inizio del 1993 tale
area era pari al 26%, e nel 1991 al 33%. Anche l'Assemblea generale delle Ong, spazio di riflessione unitario
nato nel luglio 1988, non è mai riuscita a sviluppare tutte le sue potenzialità e vede affermarsi l'esigenza di
una sua profonda trasformazione, in corrispondenza con la crisi del rapporto con l'interlocutore ministeriale.
D'altra parte, il rapporto che le Ong sviluppano negli anni Ottanta con quest'ultimo, è una manifestazione
significativa degli effetti negativi prodotti da una relazione tra sfera pubblica e associazionismo sociale basata
insieme sull'accesso a risorse facili e sull'assenza di regole certe.
10 Movimondo, è un'aassociazione di solidarietà e cooperazione internazionale senza fine di lucro, impegnata
in Italia e in Europa in programmi di educazione allo sviluppo, attività di sensibilizzazione e formazione, volte
alla promozione di una cultura della pace e della solidarietà. In Movimondo confluiscono organizzazioni non
governative di cooperazione, associazioni di volontariato e solidarietà, singoli cittadini.
Una, è un'associazione senza alcuna finalità di lucro che riunisce Ong della Lombardia: La sua finalità
generale è operare per l'incremento e la migliore utilizzazione delle risorse destinate alla solidarietà
internazionale ed allo sviluppo dei popoli.
11 Per il dibattito sviluppatosi su tale tema, vedasi in particolare A.A.V.V., Cooperazione : inganno dei poveri.
Emi, Bologna 1993 e il Dossier, Nuovi percorsi e nuovi assetti del volontariato internazionale in Volontari e
Terzo Mondo, 1-2 1995.
12 Vedasi Mauro Bigi, Fund raising: una sfida per il presente: Il caso di Rtm. In Volontari e Terzo Mondo, 12 1995.
18
con altri soggetti del Terzo settore e non (Università, Centri di studio,
associazioni di diversa natura, piccola imprenditoria).
La trasformazione della società italiana si rivela profonda e complessa,
proseguendo i processi già avviati nel decennio precedente, e manifestandosi in
modo particolare nell'area dell'associazionismo, in cui si manifesta una spinta ad
un impegno maggiore nella solidarietà internazionale. Identità e forme
organizzative tendono a mutare, soprattutto sembra verificarsi un significativo
avvicinamento tra soggetti ed attività situati, fino alla fine degli anni '80, in spazi
differenziati. L'associazionismo internazionale sotto la spinta dei mutamenti
intervenuti e, in primo luogo, dell'impatto dei flussi migratori, tende a spostare
parte considerevole delle proprie attività sul territorio nazionale, in iniziative che
vanno al di là delle tradizionali azioni di informazione ed educazione allo
sviluppo. Al tempo stesso l'associazionismo nazionale, sensibilizzato
dall'insorgere di traumatici conflitti in aree anche molto prossime al nostro paese,
tende in modo crescente a canalizzare la propria solidarietà verso l'ambito
internazionale. Sembra essere in atto l'inizio di un interessante fenomeno di
concertazione su obiettivi specifici tra i soggetti di volontariato rispondenti nei
decenni precedenti alla differenziazione nazionale/internazionale. Non si tratta di
confondere modalità e livelli di interventi, identità e patrimoni culturali specifici,
ma di sviluppare sinergie tra soggetti portatori di saperi che non possono
permanere separati senza precudere le possibilità di crescita delle loro stesse
competenze particolari. Siamo in presenza di qualcosa di radicalmente nuovo,
anche se ancora in processo di definizione.
Il particolare modello di welfare state affermatosi in Italia, caratterizzato da
momenti di concertazione frammentati, riferiti ad ambiti locali, e privi di un forte
ruolo di direzione dello Stato 13, entra in un processo complesso di ridefinizione,
all'interno del quale il volontariato e l'associazionismo cominciano a trovare una
propria regolamentazione formale.
13
Vedasi Costanzo Ranci, The role of the third sector in welare policies in Italy. Paper, luglio 1994. dello
stesso autore, Azione volontaria e crisi del Welfare, in Quaderni di azione sociale, 1990 n. 75-76 e La
mobilitazione dell'altruismo. Condizioni e processi di diffusione dell'azione volontaria in Italia, in Polis, 1992,
n. 3.
19
Nel processo di ridefinizione degli attori e delle reti sociali, processo ovunque
non lineare e non immediatamente trasparente14, esercita una spinta
particolarmente forte in Italia la crisi dei paesi dell'Est, in modo particolare il
caso dell'Albania e dell'ex-Iugoslavia. Il conflitto etnico che contrappone le
popolazioni di quest'ultima ripercuote direttamente sul territorio italiano,
colpemdo in modo particolare la sensibilità della società civile e ponendo la
questione delle forme possibili di solidarietà con i profughi nel territorio
nazionale e no. Intorno all'emergenza della ex-Iugoslavia prendono forma
modelli inediti di azione sociale che registrano l'affiorare di un nuovo rapporto
fra i soggetti della società civile e fra quest'ultima ed i poteri dello stato. Nasce il
Consorzio italiano di solidarietà con la ex Iugoslavia (Cis), un fenomeno inedito
di concertazione tra volontariato nazionale, volontariato internazionale ed Enti
locali che esprime una nuova ed estremamente flessibile forma di coordinamento
di estensione nazionale, coinvolgendo un numero particolarmente elevato di
gruppi e di associazioni e mobilitando una quantità ingente di know how e di
risorse monetarie15. Si costituisce nel giugno 1993, presso la Presidenza del
Consiglio, il Tavolo di coordinamento per le iniziative di carattere umanitario
riguardanti sia l'invio di aiuti nel territorio della ex Iugoslavia sia l'assistenza ai
profughi nel territorio italiano. Il Tavolo, che riunisce mensilmente
rappresentanti di ben 6 ministeri, di Regioni, di Provincie, di Comuni, e di
numerosissime associazioni di varia tipologia, costituisce una sede in cui matura
un'interessante esperienza di conoscenza e di negoziato tra soggetti istituzionali
e sociali.
Si tratta di fenomerni inediti che rivelano la possibilità e la potenzialità di una
nuova forma di cooperazione allo sviluppo, non necessariamente limitata
nell'ambito della emergenza ma aperta all'individuazione del raccordo tra
emergenza-riabilitazione e sviluppo. Costituiscono una delle manifestazioni di
come la "cooperazione spontanea", la "cooperazione non governativa" delle Ong
e la cooperazione "ufficiale" esprimano in Italia, con livelli ed intensità diverse,
una medesima esigenza di innovazione e mutamento.
14
Per la riflessione sviluppatasi a partire dal caso degli Stati Uniti, vedasi in particolare Robert D. Putnam,
Bowling alone: America's declining social capital. In Journal of Democracy, january 1995; Lester M.
Salamon, The rise of the nonprofit sector, in Foreign Affairs, july/august 1994; Robert A. Dahl, Problem of
civic competence, in Journal of Democracy, october 1992.
15 Vedasi Lunaria e Cis, La sfida della solidarietà. Roma 1995e Mae., Dgcs Ufficio emergenza, Rapporto
annuale di attività 1994. Roma 1995, pp. 93-98.
20
In tale clima sociale e politico prendono avvio interessanti esperienze di
cooperazione decentrata all'interno di programmi multilaterali, il cui merito
maggiore è quello di cogliere la duplice spinta ad un nuovo ruolo degli attori su
base territoriale, proveniente contemporaneamente e quasi autonomamente dal
Nord e dal Sud. Esse
- nel contesto della transizione italiana della metà degli anni Novanta,
contribuiscono a far avanzare i processi di definizione e di avvio anche operativo
della cooperazione decentrata;
- nell'àmbito della politica di cooperazione dell'Unione Europea, costituiscono
un segnale importante della molteplicità di percorsi aperti alla cooperazione
decentrata, esplorando in particolare quello del partenariato tra "parti" della
società civile del Sud e del Nord.
Fra queste esperienze è da segnalare quella del programma Prodere16. Al suo
interno, la ricerca-azione sulla cooperazione decentrata collega in un rapporto
sinergico l'sperienza acquisita in America centrale e l'impegno a favore dello
sviluppo espresso dalla società italiana e solo parzialmente raccolto dalla
cooperazione governativa. Il riconoscimento dell'importanza ai fini dello
sviluppo umano del protagonismo delle realtà locali centroamericane porta a
cercare d'instaurare una relazione di partnership con il Nord in grado di
valorizzare quel patrimonio sotterrato di solidarietà, di risorse scientifiche, di
competenze tecniche, di capacità imprenditoriali e di elaborazioni culturali legato
alla dimensione territoriale locale.
Nell'ambito dello Smalp17 s'inserisce invece il progetto di cooperazione ArezzoSalcedo (Repubblica Dominicana), mettendo in luce in modo nitido ed articolato
la modalità di cooperazione tra comunità caratteristica della cooperazione
decentrata in Italia e la centralità in essa assunta dalla nozione di co-sviluppo.
16
Prodere -Programa de desarrollo para desplazados, refugiados y repatriados en América centra- nasce
alla fine degli anni Ottanta da una iniziativa congiunta dello Undp e dell'Italia.
17 Lo Smalp (Salud, Medio ambiente y lucha contra la pobreza), a cui l'Italia partecipa insieme all'Ops/Oms
(Organizzazione panamericama della salute/Organizzazione mondiale della salute) ha le proprie Aree
d'intervento nel Brasile, Colombia, Perù e Repubblica Dominicana. L'aspetto strategico che caratterizza i suoi
interventi è la trasformazione dei sistemi sanitari nazionali e la creazione dei sistemi sanitari locali (Silos),
attraverso una metodologia i cui principali punti qualificanti sono la promozione: della partecipazione
sociale;del decentramento; della concertazione politica; del coordinamento intersettoriale, interprogrammatico
e interistituzionale.
21
Tale progetto, i cui settori dì'intervnto fondamentali riguardano i settori della
sanità, dell'educazione e dell'ambiente, è promosso da un Comitato locale
presieduto dal Comune, a cui partecipano soggetti istituzionali e
dell'associazionsimo locale. La formazione del Comitato, mentre riprende una
modalità di attuazione degli interventi decentrati presente in altre realtà italiane,
sintetizza l'esperienza di concertazione tra attori sociali e istituzionali maturata a
livello locale in diversi sedi e in primo luogo nel Centro interculturale e di prima
accoglienza, creato sotto la spinta dell'impatto di un flusso immigratorio di una
certa consistenza.
Tali progetti-pilota mettono in evidenza l'impatto che una tale metodologia di
intervento è in grado di produrre anche all'interno delle comunità del nord,
mettendo in moto rilevanti processi di crescita sociale e istituzionale. Nel caso
specifico, esso permetterà di riqualificare il ruolo politico della città di Arezzo,
contribuirà significativamente ad un elevamento dell'educazione allo sviluppo e
alla mondialità e produrrà un impatto ugualmente forte sulla lotta all'esclusione
sociale, attraverso il sostegno che potrà dare al nascente Osservatorio
sull'esclusione sociale.
Nel loro insieme tali progetti-pilota di cooperazione decentrata contribuiscono ad
evidenziare:
- l'emergere in Italia di un modello particolare di cooperazione decentrata, la
cooperazione tra comunità, fondata su un doppio meccanismo di decentramento,
al nord e al sud;
- l'importanza del contributo che l'approccio decentrato può offrire al processo di
ridefinizione del quadro nazionale della cooperazione allo sviluppo.
In particolare essi mettono in luce l'esistenza di mutamenti nella società civile e
nello Stato italiani che rendono possibile tale approccio e che concernono:
- il rapporto società civile-istituzioni, che tende a orientarsi verso l'individuazione
di forme di concertazione e di presenza dell'associazionismo nelle sedi locali di
definizione delle politiche pubbliche d'intervento;
- il rapporto all'interno della società civile tra i diversi attori sociali, in cui
acquista centralità il territorio come luogo di incontro e valorizzazione delle
22
rispettive competenze. Sembra possibile ipotizzare che le segmentazioni e
tensioni tuttora esistenti in Italia tra le diverse tipologie di volontariato e più in
generale tra le diverse modalità associative possono trovare un cammino
percorribile di ricomposizione nel nuovo ruolo assunto dalla dimensione
territoriale e nell'importanza di un rapporto a rete che essa sollecita a costruire
nella chiarezza della distinzione dei ruoli;
L'emergenza di un nuovo rapporto tra associazionismo ed istituzioni nel campo
della solidarietà internazionale si manifesta parte di un processo complesso ed
ancora fragile il cui consolidamento richiede di un insieme di fattori precisi, tra
cui in primo luogo la capacità di darsi una dimensione progettuale, al cui interno
definire ruoli differenziati, sulla base delle rispettive competenze, e rispetto ai
quali stabilire momenti chiari di verifica. Tale processo si collega a sua volta a
un cambiamento della visione del rapporto Nord-Sud, in cui la coscienza della
crescente interdipendenza porta non solo ad un rafforzamento dell'azione di
educazione allo sviluppo e alla mondialità ma anche all'impegno
nell'individuazione di meccanismi di trasferimento di know how non più a senso
unico. L'approccio decentrato si rivela una delle modalità privilegiate di stabilire
un nuovo rapporto di partneriato tra Nord e Sud, fondato sulla concertazione tra
comunità e la ricerca di un linguaggio in grado di rendere possibile la
traducibilità delle rispettive esperienze.
Riflessioni generali
Attualità della cooperazione decentrata
Una delle potenzialità più rilevanti della cooperazione decentrata è data
non solo dalla pluralità di soggetti che essa tenda a coinvolgere ma anche dalla
loro eterogeneità, soggetti che si sono caratterizzati nel passato per una forte
difficoltà ad interagire ed una persistente propensione a collocare la propria
azione su binari differenziati. In particolare sono risultati problematici i rapporti:
- tra Ongs ed associazioni di base (grassroots) da una parte, ed istituzioni
statali dall'altra. Nei decenni passati visioni opposte del cammino dello sviluppo
hanno ostacolato la nascita di rapporti di collaborazione soprattutto nei Pvs;
- tra governo centrale e poteri regionali o comunali. Al Nord come al Sud,
il centralismo dello Stato ha confinato in spazi limitati gli organismi locali;
23
- tra solidarismo e imprenditorialità, che si sono contrapposti con effetti
negativi sulla coerenza ed efficacia delle politiche di sviluppo. Le logiche di
promozione dell'interesse privato hanno contribuito a rendere le politiche di
cooperazione troppo permeabili alle finalità della politica commerciale o della
politica estera;
- tra Ongs e associazioni di base. Anche in questo campo, nonostante le
caratteristiche dei soggetti coinvolti, si sono manifestate tendenze alla
lacerazione, che segnalano l'urgenza di individuare modalità distinte di
articolazione all'interno dei programmi e dei progetti di sviluppo.
La cooperazione decentrata proponendosi di andare al di là di tali
incomprensioni, sollecita i diversi soggetti a partecipare, sulla base delle
rispettive competenze, ad un comune progetto di sviluppo il cui asse unificante
sia costituito dal territorio. In tal modo essa consente di:
- ancorare le politiche di sviluppo al territorio, in consonanza con le diversità
locali presenti all'interno di una stessa realtà nazionale;
- favorire il rafforzamento della società civile, con la creazione di meccanismi di
dialogo e concertazione tra i diversi attori sociali;
- valorizzare la dimensione partecipativa nelle sue molteplici dimensioni,
economica, sociale e politico-istituzionale;
- attenuare la possibile conflittualità tra attori sociali ed attore statale, attraverso
meccanismi di dialogo territorialmente localizzati;
- promuovere il superamento del gap tradizionalmente esistente tra interventi
macro e interventi micro per mezzo del coordinamento territoriale,
coordinamento che opera come spinta alla coerenza anche nei confronti dei
diversi donatori internazionali;
- contribuire a promuovere una riforma dello Stato guidata dalla nozione di buon
governo (good governance), attraverso il rafforzamento dell'autonomia dei
poteri locali, del negoziato politico ed un aumento generale delle capacità
amministrative dello Stato;
24
- sostenere i processi di pacificazione e di democratizzazione nel Sud e nell'Est,
con modalità di cooperazione meno rigide di quelle che intercorrono tra i governi
centrali.
- assicurare la sostenibilità dei processi di sviluppo avviati, attraverso il ricorso
ad interventi plurisettoriali basati sull'interazione di molteplici attori istituzionali,
economici e sociali.
Al Nord e al Sud, la cooperazione decentrata costituisce una forma di
cooperazione flessibile e dotata di grande adattabilità alla varietà delle situazioni
locali che offre un contributo importante alla promozione di uno sviluppo locale
non chiuso ai processi di internazionalizzazione crescente e al rinnovamento più
in generale delle politiche di cooperazione. Tale flessibilità rende possibili
metodologie e procedure diverse. La cooperazione tra comunità costituisce una
di esse, rappresentando in Italia la manifestazione più matura di un percorso al
cui interno è possibile individuare fasi e livelli diversi. La distinzione concettuale
tra cooperazione orizzontale e cooperazione decentrata permette di cogliere e
sottolineare il passaggio teorico ed operativo che caratterizza tali fasi.. La prima
si riferisce a quelle forme di cooperazione che collegano soggetti omologhi del
tessuto sociale del Nord e del Sud; la seconda al rapporto sinergico che si
stabilisce quando soggetti sociali diversi ed autorità locali di realtà territoriali del
nord e del sud cooperano alla definizione e alla realizzazione di una strategia di
sviluppo, che pur incentrata sul secondo ha ricadute importanti anche nel primo
Queste considerazioni di ordine generale circa la specificità e le potenzialità
dell'approccio decentrato conducono al riconoscimento del carattere
sperimentale che esso presenta nella fase attuale nei diversi modelli di
cooperazione allo sviluppo, il che dà valore prioritario all'esigenza di creare
momenti di raccordo e di confronto tra le esperienze in atto nell'Ue e nei paesi
comunitari.
Proposte
Linee di un programma di ricerca
Creare un network di Centri intorno alla tematica della cooperazione decentrata
con la. finalità di promuovere momenti di raccordo e di confronto tematici tra le
25
diverse esperienze nazionali, sulla base di un programma di ricerca volto a
realizzare:
- un registro delle esperienze avviate nei diversi contesti nazionali;
- un approccio alla tematica del rapporto governativo-non governativo all'interno
di una visione più articolata del governativo e del sociale;
- una riflessione sulle potenzialità e modalità del decentramento in relazione alla
diversità nazionali esistenti al Sud e al Nord;
- - un'analisi delle metodologie e delle procedure vigenti o in definizione.
Problema quest'ultimo quanto mai aperto, che nel caso italiano spinge a ricercare
assetti normativi in grado di:
1. inquadrare i progetti di cooperazione decentrata all'interno dei "programmi
paese" o dei "programmi di riferimento". destinando inoltre una quantità
determinata di risorse a tal fine. Si rivela importante riuscire a soddisfare la
duplice esigenza di non limitare l'autonomia dei soggetti decentrati e di non
favorire interventi a pioggia..
2. costituire interfaccia chiamati a svolgere le funzioni di coordinamento-filtro
delle iniziative locali e di partnership con la Dgcs (Direzione generale della
cooperazione allo sviluppo) e con l'Ue. La determinazione dell'ambito territoriale
o meno di tali interfaccia e al suo interno del sistema di relazioni da promuovere
rimane ancora questione da apporofondire.
3. individuare modalità particolari di finanziamento, di gestione e di esecuzione
degli interventi decentrati.