IN PRINCIPIO ERA IL DOPPIO di Giovanna dalla

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IN PRINCIPIO ERA IL DOPPIO di Giovanna dalla
IN PRINCIPIO ERA IL DOPPIO
di Giovanna dalla Chiesa
Ciò che per secoli abbiamo chiamato “universo”, con riferimento al
carattere di unità del suo orientamento, è messo in discussione, da oltre un
cinquantennio, dalla scienza contemporanea che nelle proprie
scoperte e teorie è venuta a trovarsi sempre più prossima alle idee di
Giordano Bruno, gli “infiniti mondi possibili”, oggi interpretati dalle
concezioni del “multiverso”, dalla “teoria delle bolle”o delle “stringhe”
destinate ad affermare, egualmente, la mancanza di un centro nel grande
mondo infinito e a rappresentare la nostra stessa storia come una delle tante
storie possibili che la complessità della fisica e dei sistemi simbolici vengono a
raccontarci, mettendoci nella condizione di “testimoni coinvolti”.
Nulla è immutabile, tutto si trasforma, a partire dall’universo in espansione
che è il nostro.
L’opera degli artisti non puo’ fare eccezione, attraverso di essi si
compie, in larga parte, l’evoluzione dello spirito umano.
Anche l’opera di Vettor Pisani, sin dagli esordi, è in continua trasformazione.
Gioca su uno scacchiere fisso, su uno spartito situato tra le polarità di terra e
cielo e mette in scena un cosmo capace di riverberarsi per sottili riflessi e
rimandi, come per forti umori-odori, a significare la storia dell’uomo in senso
anche antropologico, ma attraverso la storia dell’arte e i suoi indelebili
simboli.
La sua visione si condensa all’interno di una “bolla”, quella destinata al
proprio essere seminale, al limite di altri mondi - se non comunicando con essi
- potenzialmente esercitando una reciprocità con l’esterno, ma in parallelo e
sulla soglia, benché in una compiuta architettura di pensiero che
scompartisce, delimita e definisce.
Con i suoi “Studi su Marcel Duchamp 1965-1970”, l’artista, subito, teorizza il
plagio (1), avverte la congiuntura temporale, che ha appena doppiato la
medianità del secolo che, come un equatore, divide un polo dall’altro.
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(1)Plagio è, etimologicamente, l’atto con cui si riduce in soggezione qualcuno, è implicito
in esso l’idea di sovrapporsi a qualcuno violentemente in modo coercitivo.
Duchamp, padre riconosciuto dell’avanguardia - scomparso nel 1968 –
ha originato, infatti, un prima e un dopo di sé, oltre il quale è impossibile
procedere. Vettor Pisani inizia il suo capovolgimento e forza la vitrea finestra
del Grand Oeuvre-Grand Verre dai congegni consegnati all’inerzia, per farli
scendere nello spazio reale e ricominciare quel gioco che nel “passaggio dalla
quarta dimensione al vetro”(2) erano ridotti in virtuale posizione di stallo,
mettendo sotto scacco, potenzialmente, anche le possibilità dell’arte a venire.
“Maschile, Femminile, Androgino - Incesto e Cannibalismo in Marcel
Duchamp”- la prima mostra che a Roma, nel 1970, decreta il successo
dell’artista consegnandolo indiscutibilmente alla storia - è, di fatto, la stanza
funebre per la morte del padre, in cui all’elaborazione del lutto
(la putrefactio della carne), al peso schiacciante, e a perpendicolo, del cielo che
tritura e macina la terra - come la carne dell’uomo - fa da contrappeso la
traiettoria in fuga di un giavellotto su rotelle che, in parallelo, incrocia la
tavola terrestre, verso un orizzonte tagliato a metà dalle linee concentriche di
un bersaglio.
Il “Giavellotto per un eroe da camera” e la “Castrazione d’artista” - la
tavolozza da cui pendono “guanti da levatrice” con un pollice amputato, per
l’artista socratico e mentale - sono l’annuncio della ripresa del lavoro di
trasmutazione dell’Opera che si è rimessa in cammino, senza “sporcarsi le
mani”, ridisegnando con il pensiero i confini del proprio universo, decisa a
non lasciarsi inghiottire né dalla natura – Io non amo la natura, 1970 - né dal
ritmo produttivo del sistema industriale, per situarsi, invece, là dove ogni
opera d’arte deve di diritto situarsi: al confine tra la realtà di un mondo fisico
e politico e quella di un mondo onirico e spirituale, rappresentati dualmente,
ma con movimento ellittico, dal simbolo, che nella propria aspirazione a
comporsi - come pregno di una possibile nascita - ogni volta condensa
opposte polarità in tensione, in modo da non disperderne il potenziale e
poterlo poi riversare ancora nella realtà, con un percorso incrociato.
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(2) Duchamp descrive anche così “La Mariée”
La serpentina mercuriale, che s’intreccia rapidamente tra il mondo osservato
ed esteriore e il mondo nascosto e interiore, è il sigillo di questo procedere
analitico e sintetico insieme con attraversamenti complessi, ma rapidi come
folgorazioni, destinati a comporsi e ricomporsi riccamente, senza perdere in
dinamismo, libertà e leggerezza.
La stanza funebre, altre volte denominata “La tomba di Edipo” o “La camera
dell’Eroe”, al cui ingresso, in omaggio alla sua opera occulta, l’artista aveva
posto la targa “Silenzio Marcel Duchamp” ha ora il suo doppio nella stanza
che c’introduce nel luogo appartato - segreto/secreto - della morte di Vettor
Pisani.
Come, nel 1970, era il tempo per interrogarsi sulla perdita dello storico capo
dell’avanguardia, oggi è il tempo di interrogarsi sulla perdita di colui che in
Italia ha indelebilmente intrecciato il suo cammino con quello di un pensiero
parallelo che costeggia, influenza, penetra nei meandri della modernità, ma la
ricongiunge alle tradizioni di un grande passato. La corrente dei Rosacroce
che Pisani condivide con altri giganti della prima metà del secolo scorso, quali
Duchamp, Beuys, Yves Klein - é come l’alchimia, un modo, una fede e una
missione – ma mai un dogma – che lascia libertà e aperture di soluzione, ogni
volta, a seconda dell’utilizzatore, ma incontrovertibilmente lo conduce verso
la conoscenza di sé, l’unica, a potergli riconsegnare un ruolo nei destini del
mondo. Anche qui un avviso speculare, con la scritta “Silenzio Vettor
Pisani”(2), ci immette per la “porta stretta” di un’iniziazione, verso lo
spettacolo, la consumazione rituale/cultuale, che si addice al theatrum sempre
corteggiato dall’artista.
Avvolto in una luce d’oltremare che bagna appena la tenebra cupa, lo
scheletro bianco della morte ci accoglie nell’atto di suonare il violino.
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(2) Alla collaborazione stabilita con Pistoletto nelle mostre “Amore mio”, “Persona”, “Plagio: Sonata a
cinque dita per Meret Oppenheim” sia da Sperone a Torino, che a La Salita (1971) e alla Marlbourough di
Roma (1973), si aggiunse quella alla Biennale di Venezia del 1976, dove Pistoletto dichiarò in catalogo che
come Pisani aveva fatto incidendo su una targa “Silenzio Marcel Duchamp” lui incideva ora “Silenzio
Vettor Pisani”. Forse un giorno qualcuno avrebbe inciso “Silenzio Michelangelo Pistoletto”. Entrambi,
per continuare l’opera, invitavano poi Franco Summa a unirsi al plagio.
E’ l’antico tema boeckliniano - citato dall’artista - che allude al “transito” tra i
due mondi, visibile e invisibile e accompagna costantemente l’opus artistico
con un esercizio di trasformazione/trasmutazione che dallo stadio fisico
trabocca in continuazione in quello spirituale.
Il cavo che s’innalza da terra disegna una parabola verso la sommità,
mimando la cuspide di una piramide sotto cui, avvertiamo, si delinea la forma
e la struttura del luogo che attraversiamo, dove, sgusciata velocemente in alto
attraverso il dispositivo di una carrucola, una presenza evanescente e leggera camice o camicia decorata dalla croce di Malta - sta prodigiosamente sospesa.
Anche la Sposa duchampiana – “impiccato femmina o scheletro” – s’innalza
sopra l’orizzonte e, dopo aver perduto i colori che il mondo dell’ illusione
terrestre le conferisce, si presenta denudata, spoglia di ogni attributo terreno,
adamantina e pronta a ricondensare in sé il seme vitale dell’eros in fredda,
quintessenziale sapienza: l’ormai raggiunta pietra filosofale.
Sul pavimento, tre vasi a tenuta stagna trattengono, infatti, il pigmento dei
colori rosso, bianco e verde, allusivi, da sempre, nell’opera di Pisani, sia del
“tema italiano” che dell’alchimia.
Nell’universo bipolare che si offre alla tentazione e alla sfida verso la
ricomposizione – sempre il tendere verso una potenzialità - bisogna
chiedersi allora che cosa faccia da contrappeso alla stanza del Re morto,
e come, sullo scacchiere della partita, la vita giochi a dadi con la morte.
Nel “theatrum” espositivo, le due stanze maggiori, per caso, si trovano
disposte a squadra o, secondo le predilezioni di Vettor Pisani, a
semicroce.
Nel braccio di sinistra, alla parabola che s’innalza verso il cielo della stanza
appena visitata sulla destra, corrisponde la piramide rovesciata che capovolge
la visione verso il basso della terra: otto quadri, in file di quattro, tre e uno,
denominati “Pannello lunare”, convergono sulla coppia di filosofi e alchimisti
Gino De Dominicis e Vettor Pisani, indicati dalle cifre in oro di J e B – Jachin &
Boaz – quali pilastri del Tempio salomonico, su cui poggia la forma di un altro
tempio, che si apre a vaso nella sommità ma, nel chiasma specchiato della
fuga del tempo, in loro si ricongiunge.
La somma della sequenza dà il numero otto, ruotato di 90 gradi è il simbolo
dell’infinito, della quantità innumerevole o dell’equibrio cosmico. Segno di
azzeramento, dopo il quale ogni forza ricomincia a sviluppare tensione.
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Qui, sono elencati i doppi della molteplicità femminile, contrapposti all’unità
polarizzata dell’universo maschile, in relazione agli orizzonti teatrali, visivi e
letterari di Mimma - doppio reale e controfigura psicologica di Vettor - il
quale dagli Anni Novanta inizia a declinarne il ruolo chiave nel suo
effervescente Teatro della Vergine: dalla diva-dea, alla ninfetta, dalla scrittrice
alla pittrice, dall’anoressica alla saffica in una mutevole, caleidoscopica
visione.
Dallo scenario mondano di rotocalchi, pubblicità e cronaca essi scivolano
“virtualmente” nella sua opera digitale, per assieparsi poi nei pannelli in p.v.c,
che per l’artista è simbolo secolarizzato d’immortalità.
Insieme al Vero Falso d’Autore, sorta di “ready-made corretto” di nuova
invenzione, essi non sono più soltanto “plagio” che sovrappone e ricongiunge
specularmente le immagini del doppio, ma clonazioni e reinvenzioni che, da
uno stereotipo dato, consentono all’artista paradossali reinterpretazioni della
storia in chiave psicoanalitica, commenti sulla scena politica, artistica o
culturale e che, attraverso il lapsus e la “Psicopatologia della vita quotidiana”,
planano direttamente dalla mente di un Freud - ormai fuor di senno e
risucchiato nella paranoia del mito - sulla scena del mondo, incanalandosi, dal
pretenzioso “Cogito ergo sum” cartesiano, verso il constatato “Co(g)ito ergo
sum”della parossistica reincarnazione di simulacri, ormai depotenziati, sia di
contenuto che di fede simbolica, dell’ultimo Vettor Pisani.
Lo sguardo è fermo, impassibile e altero, dalla inattaccabile posizione di una
sopra-realtà-surrealtà, che vede il mondo dall’alto con occhio “stonato”, ma é
in grado di restituirlo, dal proprio spaesamento, in forma di calembour e motto
di spirito, frutto di un catastrofico precipitato visivo e della mente che lo
traduce in cifra e lo sospende, però, in incognita, segno, enigmatica X, traccia,
indizio dell’umana follia, ma ancora capace, nella sua essenza, di riscattarsi in
arte, benché l’azione dell’artista, sia quella “a-patica/a-tarassica” di un
trasformare sé stesso in medium e puro tramite, sulla via, ora, dominata
soprattutto da Warhol - non da Duchamp - di cui Warhol, tuttavia, è figlio.
Lo spartiacque tra primo e secondo braccio della croce, è infatti segnato dal
Vero/Falso, con una scala puntata verso il cielo del soffitto, dove due teste di
Freud dominano, sia in alto che in basso, come chiare dichiarazioni di intento
con gli immensi attributi fallici che ne avvolgono la testa.
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Nel nostro tempo, orientato verso il dato e l’informazione, la psicoanalisi
assolve il ruolo che l’interpretazione assolveva già con la storia, oggi
“imballata”, nella propria facoltà di formulare giudizi e interpretare, dal
cumulo di dati in cui intervengono innumerevoli nuovi fattori, solo per il fatto
che essendone ormai consapevoli ne teniamo conto, tanto da costruire
attenuanti e varianti molteplici, sinché non ci troveremo impossibilitati a
formulare un giudizio definitivo.
Come fin troppo spesso riscontriamo – la giustizia sociale, politica e
culturale, nei settori deputati ad esercitare il giudizio - intorno a cui ruotano
preferenze, indirizzi legislativi, popolarità, preposti a determinare scelte
economiche, giudiziarie o etiche - è priva di attendibilità, tanto da pareggiare
il conto tra imputati e giudici, colpevoli e innocenti a meno di considerare,
come Cocteau (3), a proposito di De Chirico, che in caso di “una perquisizione
della polizia in una tela di De Chirico o nella camera di un poeta…meglio
sarebbe tacere e lasciarsi tagliare il collo” in quanto il più piccolo oggetto
potrebbe testimoniare contro di lui.
In questa chiave, è evidente anche la parabola, di cui Pisani mostra di
riconoscersi debitore, “tutti colpevoli o tutti innocenti”, che ci insedia in quella
logica di “patta” in cui Duchamp, considerandola come condizione ideale,
poneva i due giocatori di scacchi, se abbastanza agguerriti da potersi entrambi
dare scacco matto, giunti al limite del proprio gioco, sicché la resa divenga
l’unica scelta possibile, oltreché quella più auspicabile.
Mi è capitato di pensare, anche recentemente, di quali condizioni avrebbe
avuto bisogno un artista della grandezza di Vettor Pisani o di Gino De
Dominicis - ma molti altri ne potrei citare che soffrono la condizione di una
penalizzante sottovalutazione - di cui l’Italia non disponesse, per emergere
alla stregua di quelli che già, meritatamente, hanno raggiunto fama
internazionale e incoraggianti valutazioni economiche. E non so rispondere
che con queste, forse vecchie, parole: libertà di giudizio, che vuol dire anche
imparzialità, perseveranza nelle scelte, non condizionabili da spinte estranee
all’intrinseco valore dell’arte.
Qualcosa che da molti anni, quasi nessuno, in un’Italia pesantemente
condizionata dal mercato straniero, si è piu’sentito di fare, limitandosi alla
constatazione di impedimenti e condizionamenti che divengono reali, solo se
supinamente accettati.
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(3) Jean Cocteau “Le Mystère laic”, Edition des Quatres Chemins, Paris 1928; edizioni Lerici, Cosenza 1979
In Italia, d’altra parte, lo si è visto già con la metafisica di Giorgio De Chirico,
occultismo, esoterismo e alchimia sono spesso stati tacciati di essere pensiero
“malato”, dannoso, o ancor peggio, “di setta”.
Nel tentare di interpretarli, infatti, non solo c’è bisogno, di strumenti per la
“pesca di profondità”o, viceversa, di attrezzature “da altura”, ma bisogna non
aver timore di rispondere a quesiti morali talora estremi. E temo che
l’abbondante produzione di “eroi” di cui siamo notoriamente capaci, escluda,
di per sé, condizioni che non invitino, spesso, il singolo, particolarmente
dotato, a rischiare per tutti.
Vettor Pisani che con ironia e leggerezza si è definito “eroe da camera” –
giocando sull’idea di camera-laboratorio e fucina di idee, in questo senso,
dunque, correttamente – e’ stato, invece, ad uno sguardo franco, capace di non
fermarsi alla superficie, un artista universale e con un grande obbiettivo:
quello, rivoluzionario, di trasformare il mondo.
La volontà di una vera rivoluzione di pensiero e di costume, nell’arte, è
passata nel nostro secolo, certo non per caso, attraverso le figure di Marcel
Duchamp, Joseph Beuys e Yves Klein – e, in Italia, di Vettor Pisani – che
perseguivano una concezione filosofica in grado di corrispondere a un’etica e
insieme a un’ideale di fratellanza umana, elementi che la dottrina
rosacrociana, da ognuno di loro diversamente e liberamente praticata, era in
grado di offrire: una storia ancora in gran parte da scrivere, ma matura per
essere raccontata, in questi anni di rinnovata e necessaria rilettura degli Anni
Settanta.
La partita non puo’ essere giocata superficialmente, tuttavia, benché tutti
possano parteciparvi. Una grande responsabilità, non solo per il suo privilegio
nell’interpretare, ma nell’affiancare operativamente l’artista e sposo è, ora,
nelle mani di Mimma Pisani, di cui assistiamo, con questa mostra, alla prima
messinscena in flagrante presenza-assenza .
Dopo i tre, primi, formidabili anni di esordio - 1970-73 - che includono mostre
fondamentali non solo per i Pisani, ma per la scena artistica internazionale,
dal ruolo di muta collaboratrice, che la vede protagonista di magistrali
installazioni – Vitalità del Negativo e Biennale di Parigi 1970-71 - Vettor
decide di promuoverla al ruolo di sua preferenziale voce critica, destinata a
restituire la parola allo spettacolo visivo che si compie “Dal silenzio di
Duchamp al Rumore di Beuys ”.
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Ecco perché questo “Doppio” è “Ludico”, ancorchè posto sotto il segno
inquietante dell’immenso padre Freud, lettura psicologica che Pisani dà,
anche, di tutto il gruppo italiano presente alla Biennale di Parigi del 1971. La
fotografia di Massimo Piersanti – autore anche dell’opera che dà il titolo alla
mostra, “Doppio Ludico”- con un De Dominicis che inalbera il cartello “Che
cosa c’entra la morte ?”, nell’intento di sconfessare la teoria della morte
dell’arte di Argan con la sua utopia artistica sull’immortalità, è stata, infatti,
rielaborata da Pisani inserendo, dinanzi al gruppo, il divano su cui i pazienti
svolgevano la terapia nello studio di Freud, indicando, in questo modo, il suo
ironico giudizio sulle complicità artistiche di quegli anni.
Un doppio, quello tra sé e sua moglie Mimma, talmente inscindibile,
nonostante la complessità dei ruoli, da restare unico nell’arte italiana, ma
paradigmatico anche nel resto del mondo.
“Doppiati”, il video di Mimma Pisani in questa mostra - che accompagnava,
autorevolmente, anche l’ultima mostra di Vettor Pisani, alla Fondazione
Morra di Napoli, dal luglio all’ottobre scorso - evidenzia polemicamente, con
grande efficacia visiva, il ruolo di violenta frattura che l’uomo esercita
nell’universo femminile. Ma il Doppio Ludico di Vettor e Mimma è un doppio
incrociato, chiasmico, non dell’identico, ma del “mème”, quello da Platone
inteso a fondare la figura quintessenziale e divina dell’Androgino, Uovo
Cosmico, Re-bis (Res-bis, La doppia cosa, o Re-bys, da cui Rebus) o Pietra
filosofale intorno a cui ruota la poetica dei Pisani. Senza una delle due parti
diminuisce non una quantità, ma una qualità dell’essere, che è sempre
nell’ordine di una varietà e di un confronto.
Nel braccio di sinistra della galleria, le figure di un’Afrodite ebbra e di un
Hermes meditante, poggiati sulla pedana circolare, ruotante di un tornio,
alludono alla “Vertigine”, sino alla perfetta fusione nell’Ermafrodito che
intreccia le loro distinte polarità in un’ibrida paradossale figura di
ri-congiunzione.
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“Il due” ha scritto Edgard Morin (4) “è l’universo. Affinché vi sia un universo,
bisogna in effetti che si operi una separazione. Un’unità, anche infinita, non
puo’produrre alcun universo…“All’inizio Elohim separò la luce dalle
tenebre”- indica la Genesi – “molto semplicemente, affinché vi sia un
universo, è necessario almeno il “due”.
In sostanza, come l’Unità, l’Uno è una conquista, qualcosa a cui tendere e da
raggiungere, ma senza doversi affrettare, perché, nonostante l’inizio sia il
Due, e questo sia nell’Uno e l’Uno si divida in due, “sempre la molteplicita’
affiora nell’unità” per formare un cosmo. “Il cosmo è Uno, non un Uno
assoluto, ma che produce e recupera le molteplicità…si pone qui il problema
dell’organizzazione dell’universo e nell’universo. Quando un insieme di parti
si trova legato in un’organizzazione, essa produce, come intero, qualità e
proprietà che non erano nelle parti”.
Anche il “Doppio Ludico” di Vettor e Mimma Pisani dà origine a un cosmo.
Lo potremmo, senz’altro, definire il cosmo Pisani.
Roma, 13 marzo 2012
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(4) Edgar Morin Michel Cassé “Alle origini del cosmo” - Dialogo intorno ai misteri dell’uomo e
dell’universo; editrice Pisani, Isola del Liri (Fr), 2003