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ago.-set. 2014 - N. 8-9 Land grabbing all’italiana €4 Quando gli «arraffa terre» siamo noi algeria C’è chi dice no (a Bouteflika) reportage Siria, i cristiani che restano brasile I semi di dom Hélder editoriale Stefano Femminis Direttore di Popoli - [email protected] - @stefanofemminis Coerenza cercasi Il 3 luglio il viceministro degli Esteri italiano, Lapo Pistelli, ha incontrato ad Asmara il dittatore Isaias Afewerki con l’obiettivo - citiamo il comunicato stampa della Farnesina - di «favorire un pieno reinserimento dell’Eritrea quale attore responsabile e fondamentale della comunità internazionale nelle dinamiche di stabilizzazione regionale». Come si possa pensare di far diventare «attore responsabile» chi da oltre vent’anni affama il suo popolo, imprigiona gli oppositori e costringe alla fuga decine di migliaia di giovani, ricattando le loro famiglie in patria, è un dilemma che forse solo il viceministro potrà chiarire. Altrettanto misterioso è che cosa intenda Pistelli quando dichiara: «Ho voluto chiarire personalmente anche al presidente Isaias qui ad Asmara che l’Italia è pronta a mostrare una disponibilità nuova». Probabilmente si riferisce alla disponibilità a potenziare gli interscambi economici, e qualche beninformato assicura sia compresa anche la vendita di armi tricolori (non un bel modo per promuovere la «stabilizzazione regionale»). Certamente la missione governativa italiana in Eritrea (la prima dal 1997) nasce dal desiderio di arginare in qualche modo i flussi di migranti che dal Corno d’Africa arrivano sulle nostre coste - insieme ai tanti in fuga dalla Siria -, ma dubitiamo che la strada migliore sia sostenere e legittimare personaggi con le mani sporche di sangue. A costo Ha senso lanciare una grande operazione di difesa di passare per ingenui, dei diritti umani e poi dialogare con chi li tradisce? ci piacerebbe che tra le La visita del nostro viceministro degli Esteri al precondizioni di qualunque dittatore eritreo è il sintomo di una certa confusione rapporto diplomatico ci fosse il rispetto dei diritti umani. Un’attenzione questa che, va detto, si riscontra invece nell’operazione Mare nostrum. Vincendo l’eterna tentazione di voltarsi dall’altra parte e sfidando anche qualche rischio di impopolarità, da ottobre 2013 l’Italia è impegnata in un’azione meritevole che ha sinora salvato più di 50mila migranti, il 30% dei quali sono proprio eritrei. Dunque soccorriamo persone in fuga da una dittatura, ma poi discutiamo amabilmente con colui che di quella dittatura è il responsabile. Questa sorta di stato confusionale del governo in politica estera si nota anche in altri dossier: non è chiaro quale sia la nostra posizione sulla Siria, posto che ce ne sia una; quando nel 2011 sono scoppiate le primavere arabe siamo stati a guardare, timorosi di possibili derive fondamentaliste, e lo stesso stiamo facendo ora che trionfano la restaurazione (come in Egitto) o il caos (come in Libia); nel suo viaggio di giugno in Cina e in Vietnam, Matteo Renzi è stato accompagnato dalle principali aziende italiane e ha stretto accordi con alcune delle maggiori imprese asiatiche per stimolare il commercio tra Italia e Asia orientale, ma non ha speso una sola parola su democrazia, diritti umani e libertà. E si potrebbe continuare ricordando che il mondo della cooperazione internazionale è in subbuglio per una serie di anomalie nell’ultimo bando del Ministero degli Esteri, con molte Ong rimaste a secco di finanziamenti e altre invece particolarmente beneficiate. Insomma, se davvero il governo Renzi intende durare mille giorni - come lo stesso presidente del Consiglio ha promesso e come noi gli auguriamo -, sarebbe bene che mettesse a fuoco e spiegasse agli italiani qual è la propria linea in politica estera. Per ora non si è capito. AGOSTO-SETTEMBRE 2014 Popoli 1 Coerenza cercasi S. Femminis PICS CAMMINI DI GIUSTIZIA Stranieri nostrani foto G. Angri, A. Di Girolamo e D. Fracchia sommario n. 8-9 - agosto-settembre 2014 01EDITORIALE 24 Inchiesta Land grabbing all’italiana M. Gatti, E. Casale, D. Bezzi 21Nicaragua Quei morti di nulla D. Cobo 24Algeria C’è chi dice no (a Bouteflika) E. Zuccalà 27Solidarietà Umorismo volontario F. Pistocchini IDENTITÀ - DIFFERENZA Reportage Siria, quelli che restano A. Milluzzi 36Musica Contaminazione globale C. Zonta SJ 39Il fatto, il commento Il Sinodo sulla famiglia, una sfida al plurale J. Costadoat SJ In copertina: Indonesia, un tratto di foresta nel Borneo occidentale disboscato da aziende straniere per produrre olio di palma per biodiesel (Foto Afp Photo/ Romeo Gacad) 14 inchiesta 27 7 PICS 08 DIALOGO E ANNUNCIO Cina Il mandarino di Dio D. Magni SJ 43Brasile I semi di dom Hélder G. Fazzini 46Storia Da Ignazio a Francesco/7 Il ritorno dei gesuiti G. Pireddu SJ, P. Zahoránsky SJ 43 RUBRICHE 04Lettere e idee 05Contromano G. Ferrario 06Multitalia Se la politica (anche a sinistra) scarica i rom M. Ambrosini 06Made in China Esame di maturità E. Zanetti SJ 07La sete di Ismaele Ciò che salva una vita P. Dall’Oglio SJ reportage 30 07Scusate il disagio Collirio divino G. Poretti 52Jsn/Jrs/Amo 70Postcard 72L’ultima Parola Il carcere, la seconda Chiesa d’Europa S. Fausti SJ E tra lettere e idee SIRIA, IL DIALOGO IN TEMPO DI GUERRA Domenica 8 giugno, a Milano, si è svolto un concerto benefico per la Comunità monastica di Deir Mar Musa, in Siria, fondata dal nostro collaboratore Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria da oltre un anno. L’evento - che ha visto una grande partecipazione - è stato possibile grazie alla presenza gratuita dell’ensemble Entr’Acte, composto prevalentemente da musicisti della Scala. All’inizio della serata è stata letta una testimonianza inviata dalla SCRIVETECI Indirizzate le vostre lettere a: [email protected] Redazione Popoli Piazza San Fedele 4 20121 Milano 02.86352802 (fax) www.popoli.info Comunità di Mar Musa. Pubblichiamo qui il testo imtegrale. Cari amici, la pace del Signore sia con tutti voi. Prima di tutto vogliamo, come comunità, esprimere il nostro ringraziamento e la nostra gratitudine per il vostro gesto di solidarietà con noi e con la nostra Siria. Grazie ad ogni persona che dà del suo tempo e offre la sua preghiera per la Siria. Grazie anche per ogni gesto di solidarietà materiale con noi. Vogliamo condividere con voi alcune delle notizie sulla nostra vita e sulle nostre attività in questo tempo critico per il nostro paese. La comunità ha deciso di rimanere nel monastero malgrado le difficoltà e la carenza, se non vogliamo dire l’assenza quasi totale degli ospiti. Continuiamo la nostra vita di preghiera, fiduciosi nel Signore che non ci lascia mai. La preghiera è, infatti, la sorgente dalla quale at- tingiamo forza per andare avanti. La vita del lavoro manuale continua anche se in modo molto limitato, in questo tempo abbiamo potuto fare alcuni lavori di manutenzione del monastero e alcuni lavori di agricoltura. Il nostro sforzo è stato riversato sugli aiuti umanitari. Il nostro secondo monastero, Deir Mar Elian ha ricevuto quasi 5mila profughi per diversi mesi. È stato un rifugio per tante famiglie musulmane dei villaggi vicini. La comunità ha sostenuto queste famiglie distribuendo aiuti alimentari e medicinali e vivendo come una grande famiglia. Siamo riusciti a fare questo grazie al sostegno di tanti benefattori e al Jesuit Refugee Service. C’erano quasi 110 bambini, per i quali abbiamo organizzato giornate di attività di gioco con i giovani volontari della parrocchia. Abbiamo insistito anche per mandarli a scuola e provvedere ai loro bisogni. La gioia che ci dava il sorriso di un solo bambino era capace di farci dimenticare ogni fatica! Ora queste famiglie sono tornate nelle loro case e continuiamo ad aiutarle per quanto è possibile per rendere vivibili le loro case semidistrutte. Nebek, la città più vicina al monastero di Mar Musa, ha subito tanti danni. Non dimenticheremo la commozione di tutti quando, dopo giorni di difficoltà, abbiamo potuto celebrare insieme ad alcune famiglie la Messa di Natale. Adesso proviamo ad aiutare tante famiglie che si trovano in difficoltà o per mancanza di lavoro o per problemi di salute. In collaborazione con un centro musulmano che si interessa delle persone diversamente abili, siamo riusciti a organizzare visite per alcune famiglie in difficoltà nelle città di Nebek e Yabroud (un’altra città molto segnata dalla guerra). Abbiamo soprattutto pensato a quelle Anno di fondazione: 1915 Direttore responsabile Stefano Femminis Redazione Enrico Casale, Davide Magni SJ, Francesco Pistocchini Segreteria di Redazione Cinzia Giovari (0286352415) Sede Piazza San Fedele 4 - 20121 Milano Contatti tel 02863521 - fax 0286352802 [email protected] - www.popoli.info Editore e proprietario Fondazione Culturale San Fedele - Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 265 del 17/05/1986 Stampa àncora arti grafiche - Milano Progetto grafico Donatello Occhibianco Ufficio stampa [email protected] Abbonamenti 2014 (10 numeri) Ordinario € 32, Web € 25 (solo rivista on line), Ridotto € 25 (per giovani con meno di 25 anni), Cumulativo € 59, Sostenitore € 60, Estero € 45 (un numero € 4) Servizio abbonamenti tel. 02.86352424 [email protected] Gruppo di consulenza editoriale Marco Aime, Stefano Allievi, Maurizio Ambrosini, Stefano Bittasi SJ, Anna Casella, Guido Dotti, Miriam Giovanzana, Luca Moscatelli, Gianni Vaggi Opportunità per gli abbonati - Silvano Fausti, Sogni, allergie, benedizioni (San Paolo 2013, € 14), in omaggio a chi regala uno o più abbonamenti e agli abbonati Issn 0394-4247 Sostenitori; a € 12 (compresa spedizione) Nel rispetto del D.Lgs. n. 196/2003, Popoli garantisce per gli altri abbonati (nuovi o rinnovi). che i dati personali relativi agli abbonati sono custoditi - Chiavetta Usb (1Gb) con i pdf 2013 di Popo- nel proprio archivio elettronico con le opportune misure li e Aggiornamenti Sociali: in regalo agli abbo- di sicurezza. 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Viviamo questa nostra vocazione in una forma di dialogo non teologico ma vitale e concreto. Lavoriamo e preghiamo per il futuro della Siria e per il futuro del mondo senza mai perdere la speranza. Grazie di nuovo! La comunità di Mar Musa (Al-Khalil) Siria RICCI BEATO? NON NECESSARIO Cari amici di Popoli, leggo con piacere i servizi e le testimonianze riportate di mese in mese sulla rivista. Con riferimento all’articolo sulla possibile, e auspicata dall’autore, beatificazione di Matteo Ricci e Xu Guagqi, devo QUESTO NUMERO Come ogni anno, in estate Popoli diventa bimestrale: questo è il numero di agosto-settembre. Da ottobre si ricomincia con la cadenza mensile. dire che da tempo sono una ammiratrice di Matteo Ricci e amo molto la cultura cinese. Non ritengo vitale ufficializzare la santità di Matteo e di Xu che come Romero, Câmara e altri sono già nella gioia di Dio. Se tuttavia vogliamo aggiungere alcuni motivi per dichiararli agli occhi degli uomini «santi» aggiungerei le voci seguenti: intelligenza della mente e del cuore; coerenza e giustizia una volta scelto il Cammino; amore fedele per una terra, un popolo, una cultura. Questo è l’amore che ti fa abbracciare Dio in tutto l’Universo. Magda Gaetani [email protected] LE CRISI AFRICANE e IL SILENZIO DEI MEDIA Negli ultimi mesi ho letto sul sito di Popoli alcuni articoli sulle crisi in corso nella Repubblica centrafricana e in Sudan. Purtroppo, come in passato, i grandi media si sono quasi completamente disinteressati di queste guerre. Se non ci fossero riviste e siti come i vostri, difficilmente si saprebbe qualcosa. Detto questo, resta l’amarezza per l’ennesima prova di maturità fallita dal continente africano, incapace di costruire democrazie solide e pace stabile. Lorenzo D’Angelo Pescara Esame fallito, sì, ma con ampie e decisive complicità delle (mature?) democrazie occidentali... CONTROMANO di Giuseppe Ferrario ebook € 4,49 in vendita su e su tutte le piattaforme digitali (Amazon, Kobostore, iBookstore...) agosto-settembre 2014 Popoli 5 lettere e idee Se la politica (anche a sinistra) scarica i rom L’ Multitalia Maurizio Ambrosini Università di Milano, direttore della rivista Mondi migranti assessore alle Politiche sociali di una grande città, governata dal centrosinistra, ha dichiarato recentemente: «Per i rom non spenderemo un euro del bilancio comunale». Probabilmente intendeva dire che gli interventi per la chiusura degli insediamenti abusivi e per dare un’accoglienza dignitosa alle famiglie erano finanziati con risorse dello Stato, mediante un capitolo del controverso piano Maroni di qualche governo fa. Ma l’espressione riportata dai giornali e il contesto, in cui gli esponenti dell’opposizione attaccavano la giunta comunale sostenendo il contrario, rivelano un serio problema, culturale e politico. La grande maggioranza dell’opinione pubblica è convinta che non sia lecito spendere denaro pubblico per quella che è stata definita la minoranza più discriminata d’Europa. Al punto da non avere titolo per accedere alle pur modeste risorse destinate a persone e famiglie in difficoltà. Il possesso della cittadinanza italiana o europea non basta a scalfire questa condanna preventiva: più dei diritti formali pesa l’esclusione sociale. Le forze politiche in parte fomentano, in parte cavalcano, in parte subiscono questa impostazione: se parlano apertamente di interventi per l’integrazione sociale dei rom, per sottrarli a condizioni degradanti e avviarli all’autonomia e al lavoro, perdono consensi. Completano il triste scenario certi paladini dei rom, per i quali ogni sgombero è sbagliato per principio, anche quando alle famiglie vengono offerte soluzioni concrete e percorsi di emancipazione. C’è chi vuole lasciare in piedi a tutti i costi le favelas urbane, in cui i bambini contendono il terreno ai topi, limitandosi a qualche intervento di riduzione del danno. E c’è chi teorizza una versione locale delle riserve indiane: per preservare la cultura, istituzionalizzare ghetti semivolontari destinati ai rom. Di fronte a tutto questo, si cercano operatori responsabili, osservatori seri, e soprattutto politici coraggiosi. Esame di maturità N MADE IN CHINA Emilio Zanetti SJ Gesuita, lavora al Kuangchi Program Service (produzione televisiva) di Taipei el 2003 il mio amico Chen Xin aveva vinto una borsa di studio nella più quotata scuola superiore di Pechino come miglior studente di fisica dell’intera Cina. Ora sta concludendo un dottorato alla Loyola Universiy a Chicago, ateneo dei gesuiti, e racconta: «Siamo cresciuti imparando tutto a memoria, giocando con le equazioni di fisica e matematica; fare gli esami era una specie di sport, di dimostrazione della forza della nostra memoria». In effetti per molti asiatici, le soluzioni a complessi problemi matematici sono cose molto semplici. Ho ripensato a Chen Xin in queste settimane: mentre scrivo, in Cina si sta svolgendo l’esame di maturità, chiamato Gaokao, e - parlando anche con altri confratelli - viene spontaneo chiedersi fino a che punto la memorizzazione lasci spazio all’intuizione e all’innovazione. «Guardando i nostri alunni di oggi - mi dice il professor Wang, preside di una scuola superiore della capitale - quello che forse colpisce di più è la voglia di imparare che caratterizza le giovani generazioni. La voglia di migliorare e di essere al passo con i tempi. Anche se questo sembrerebbe “normale”, tuttavia per noi richiede un cambiamento di mentalità: anzitutto perché il sistema tradizionale degli esami, tipico della lunga storia 6 Popoli agosto-settembre 2014 cinese, richiedeva una preparazione molto vasta, in cui si dovevano memorizzare molte cose a scapito, però, dell’innovazione e delle nuove idee». Questo approccio in realtà è ancora presente nella maggioranza dei casi. Lo stesso professor Wang dice che «gli studenti sono spesso “macchinette per fare esami”. Sono abituati a rispondere esattamente alle domande preconfezionate, poi quando si trovano a lavorare in un’azienda sono vittime della paura di sbagliare, perché sono stati abituati a esami standardizzati». Per questa ragione si cerca di importare nuove idee, di copiare altri sistemi educativi. Il governo nel 2006 ha steso un piano preciso dichiarando di voler trasformare la Cina «in una società innovatrice entro il 2020». E gli incentivi finanziari ed economici sono molto alti, dalle grandi università alle piccole scuole nei villaggi. Perché i problemi sono tanti ma vanno risolti. Wang porta un esempio concreto: «Pensiamo al grande problema dell’inquinamento: ora molte aziende cinesi sono all’avanguardia nella produzione dei pannelli solari e delle fonti alternative. La stessa capacità di innovazione serve in molti altri campi: vista la marea di giovani talenti cinesi, è una sfida che verrà sicuramente vinta». Ciò che salva una vita Nella speranza di riabbracciare presto padre Paolo, rapito in Siria nel luglio 2013, continuiamo la lettura dei suoi libri. Qui un brano di Mar Musa. Un monastero, un uomo, un deserto (a cura di G. Montjou, Paoline 2008). L’ ipotesi che si possa fallire la propria vita è drammatica. E tuttavia non invalida in nessun punto l’amore che Dio ha per ognuno. Fallire la propria vita sul piano sociale, professionale, psicologico, relazionale, fisico non è grave, a patto che si riesca a cogliere, nello sguardo di qualcuno, la certezza che essa non sia fallita sul piano ontologico. Se io cominciassi a credere che certe persone sono abbandonate da Dio, a ritenere il Creatore incapace di occuparsi di ognuno, a credere nella fatalità, se cedessi di un millimetro a questa logica, allora sarei io il primo a essere perduto. Senza contare che un Dio così non mi interesserebbe affatto... Il vero, unico modo per fallire la propria vita è odiare l’amore di Dio. Si fallirebbe la propria vita se si pensasse che Dio è stupido ad ammazzarsi di fatica per cercarci, se ci si domandasse: «Perché, dopo tutto, questo Dio ama così tanto gli uomini (tanto da crearli, dare loro la libertà, la parola) e come fa a sopportare di essere ringraziato così malamente?». Se si lasciasse questa domanda senza risposta, finiremmo presto per odiare ciò che è buono e gratuito. E qui si fallirebbe la propria vita. In caso contrario, si è catturati, condannati alla bontà. La sete di ismaele Paolo Dall’Oglio SJ Gesuita, fondatore della Comunità monastica di Deir Mar Musa (Siria) Collirio divino Termina con questo articolo la serie di Giacomo Poretti dedicata a una rilettura semiseria dei Dieci comandamenti. Se vi siete persi qualche puntata le potete ritrovare tutte su www. popoli.info nella sezione che raccoglie gli articoli di Poretti. C ome tutti i dettami del Decalogo, anche l’ultimo - «Non desiderare la roba d’altri» - è materia ostica per qualunque essere umano. Per gli Italiani, poi, in questo momento storico, il decimo Comandamento è una spina nel fianco. Come si fa a non desiderare la nazionale degli altri? Quella tedesca in particolare. Come si fa a non desiderare il bilancio di un altro Paese? Quello tedesco in particolare. Come si fa a non desiderare la determinazione di un altro popolo? Quello tedesco in particolare. Come si fa a non desiderare un’altra progettualità, un’altra serietà, un’altra onestà, un altro amor patrio, un altro senso dello Stato? Sempre quello tedesco per la cronaca. Nella Divina Commedia agli invidiosi come punizione venivano cuciti gli occhi, poiché con quello sguardo avevano desiderato quello che gli altri possedevano, ma soprattutto con quello sguardo avevano desiderato che il male si abbattesse sugli altri. Però come si fa a non chiedere dall’Alto un altro sguardo, o se proprio il Padreterno non ne avesse a disposizione, un collirio almeno, che di punto in bianco guarisca la nostra cecità, che ci riconsegni un altro sguardo, non invidioso, ma impietosamente autocritico. Perché la fantasia, la creatività, la (presunta) genialità, se non hanno un metodo, un progetto, anche nella Fede, finiscono come la Nazionale di Prandelli. scusate il disagio Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo agosto-settembre 2014 Popoli 7 Stranieri nostrani Foto Gin Angri, Antonella Di Girolamo e Dino Fracchia Sono diventati indispensabili in un settore chiave della produzione italiana: si tratta degli immigrati che lavorano nell’agroalimentare. Dai campi ai piccoli laboratori, fino alle industrie, sono qui ritratti da tre fotografi di BuenaVista photo G. ANGRI agosto-settembre 2014 Popoli 9 D. FRACCHIA A. DI GIROLAMO 10 Popoli agosto-settembre 2014 “ “ Il treno che viene dal sud Non porta soltanto Marie Con le labbra di corallo E gli occhi grandi così Porta gente gente nata tra gli ulivi Porta gente che va a scordare il sole Ma è caldo il pane Lassù nel nord Accade di ascoltare: «La vendemmia quest’anno è salva grazie agli immigrati»; «non avremmo abbastanza braccia per raccogliere la frutta». Non servono gli episodi più crudeli di sfruttamento per sapere che il sistema produttivo agricolo italiano oggi si fermerebbe senza lavoratori di origine straniera. Nelle campagne oltre un decimo dei braccianti sono albanesi, marocchini, indiani, ghanesi e di numerosi altri Paesi. Non si produrrebbe Barolo senza macedoni né Brunello senza tunisini. E poi c’è chi è attivo nelle migliaia di piccole e medie industrie alimentari. A conferma che un contributo consistente - in termini di quantità, ma anche di qualità del Made in Italy alimentare -, è dato da chi, forse, domani sarà italiano. Nei campi del Nord come del Sud, nelle aziende che producono prosciutto, formaggi, pollame, una galleria di ritratti scattati da tre fotografi attenti alle trasformazioni della società italiana, racconta questa dimensione già «mondiale» del nostro cibo. G. ANGRI D. FRACCHIA “ “ Nel treno che viene dal sud Sudore e mille valigie Occhi neri di gelosia Arrivederci Maria Senza amore è più dura la fatica Ma la notte è un sogno sempre uguale Avrò un casa Per te per me agosto-settembre 2014 Popoli 11 A. DI GIROLAMO PIANETA CIBO Continua nel 2014 il viaggio per immagini dedicate al tema del cibo nelle sue mille declinazioni: fondamentale (e spesso carente) sostegno per la vita, occasione per promuovere o negare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente, espressione di identità culturali, elemento di feste e riti. «Nutrire il Pianeta. Energia per la vita» è anche il tema dell’Esposizione Universale che si apre a Milano il 1º maggio 2015 e nella quale anche Popoli è coinvolta, attraverso la promozione di alcuni eventi. Con il contributo di: “ 12 Popoli agosto-settembre 2014 Dal treno che viene dal sud Discendono uomini cupi Che hanno in tasca la speranza Ma in cuore sentono che Questa nuova bella società “ In collaborazione con: i fotografi Gin Angri, comasco, ha iniziato l’attività di fotografo nel 1980 lavorando nel campo della fotografia pubblicitaria, industriale, di architettura. Dopo un decennio in Mozambico, dove si è dedicato alla formazione e alla realizzazione di iniziative culturali, negli anni Novanta si è impegnato in ex Jugoslavia, Somalia e ancora in Mozambico, dove ha documentato il processo di pacificazione. Al rientro in Italia svolge attività come freelance, privilegiando i temi sociali. (www.ginangri.it) Dino Fracchia, milanese, fotografo professionista dal 1973, collabora con le maggiori testate italiane ed estere (www.dinofracchia.it). Le sue foto sono state esposte in numerose mostre personali e collettive. Dopo i primi reportage sul terremoto in Friuli e sul disastro di Seveso, si è occupato più volte di problemi sociali (dalla droga alle carceri minorili) e di tradizioni culturali. Ha documentato la nascita dei movimenti ecologisti e pacifisti in Europa, la guerra in Bosnia e le migrazioni dei profughi albanesi. Nel 2010 è stato tra i fondatori di BuenaVista photo, il primo archivio collettivo di fotografi freelance italiani, di cui fanno parte i tre autori delle immagini. G. ANGRI A. DI GIROLAMO D. FRACCHIA Antonella Di Girolamo, fotogiornalista residente a Roma, lavora da circa vent’anni nel mondo dell’editoria italiana e straniera. Insegnante di fotografia presso Upter (Università popolare di Roma), documenta numerosi aspetti della società italiana in trasformazione. (openversus.photoshelter.com) (Sergio Endrigo, Il treno che viene dal Sud, Fonit-Cetra 1967) “ “ Questa nuova grande società Non si farà Non si farà agosto-settembre 2014 Popoli 13 inchiesta Land grabbing all’italiana Il fenomeno dell’accaparramento di terra vede tra i suoi protagonisti anche diverse aziende tricolori. Con i problemi di sempre: scarso contributo alle economie locali, rottura degli equilibri basati sull’agricoltura familiare, terreni abbandonati quando i progetti falliscono. Come insegnano due storie parallele in Senegal e in India 14 Popoli agosto-settembre 2014 cammini di giustizia Testo: Marta Gatti Foto: Germana Lavagna Dakar (Senegal) I n Senegal, dal 2005 più di 80mila ettari di terra sono passati in mani italiane. Secondo il database Land Matrix, un osservatorio globale interattivo sostenuto dalla Commissione europea, tra questi ci sono molti contratti che, nel tempo, hanno avuto un esito fallimentare: investimenti che si sono fermati dopo qualche anno per mancanza di fondi o perché garantivano profitti troppo bassi. In gran parte gli investimenti italiani si sono indirizzati verso la coltivazione di prodotti agricoli da utilizzare come biocombustibili. Soprattutto nel caso italiano, ma non solo, a spingere verso la produzione a basso costo di biocarburanti sono state le politiche dell’Unione europea che hanno A Beude Dieng i n c e nt i v ato opera il Vescovini lo sviluppo Group. La di tecnoloproduzione però gie basate su non è mai decollata combustibili e i campi, ancora alternativi al occupati dalla petrolio. jatropha, non In Senegal le possono essere imprese italiautilizzati per le ne interessate colture tradizionali a questo business hanno trovato terreno fertile. Nel 2007 il governo dell’allora presidente Abdulaye Wade aveva lanciato un progetto per la coltivazione di jatropha (un arbusto i cui semi contengono olio utilizzabile come combustibile o carburante nei motori diesel) con l’obiettivo di produrre 1,19 miliardi di litri di olio, per rendere il Paese indipendente dalle importazioni di petrolio. Il programma governativo prevedeva di realizzare piantagioni da mille ettari in ogni comunità rurale del Paese. Come è possibile che le imprese straniere possano accaparrarsi una così grande quantità di terre? In Senegal agosto-settembre 2014 Popoli 15 inchiesta Il capo di uno dei 37 villaggi della riserva dello Ndiael data in concessione alla società Senhuile-Senethanol. In apertura, semi di jatropha per la produzione di biodiesel. la terra appartiene allo Stato e le concessioni devono essere date dalla comunità rurale, rappresentante del diritto consuetudinario sul territorio. La concessione segue due principi: la messa in valore e la residenza. Dopo il 2000, con la creazione di Apix, l’agenzia per favorire gli investimenti esteri nel Paese, sono cambiati anche i criteri di assegnazione. I terreni sono quindi diventati oggetto di possibile rendita per le comunità e per lo Stato che così hanno iniziato a concedere terre agli stranieri. IL CONTRATTO CHE NON C’È A pochi chilometri da Thiès (città capoluogo dell’omonima regione centrosettentrionale del Senegal) si trova il villaggio di Beude Dieng, dove 60 ettari sono coltivati a jatropha. Dire che sono coltivati è un po’ approssimativo, dato che gli arbusti sono privi di foglie perché non irrigati. Il progetto è stato avviato nel 2005, ma nessuno degli abitanti conosce il nome della società che gestisce la piantagione. «Abbiamo conosciuto solo un intermediario senegalese, che ha detto di essere originario di queste parti», spiega un contadini che ha ceduto il suo campo per il progetto. Spesso i rapporti con le comunità locali vengono gestiti da senegalesi che fanno capo a investitori italiani. In questo caso si è trattato di un ex emigrato che ha lavorato per l’azienda Società bulloneria europea, del Vescovini Group di Monfalcone (Go). A operare a Beude Dieng è stata la controllata senegalese Sbe Senegal. Alessandro Vescovini, presidente della società, ha spiegato che si è trattato di un investimento a vuoto e che l’impresa senegalese ha dichiarato fallimento nel 2012. E infatti la popolazione dichiara di non aver mai visto raccogliere i grani di jatropha negli ultimi due anni. Nella prima fase del progetto è intervenuta anche un’altra società italiana, Agroils, una società di consulenza specializzata nella promozione della jatropha e nell’accompagnamento per la prima fase della produzione. I terreni utilizzati dalla compagnia le sono stati ceduti dai singoli abitanti del villaggio tramite una cooperativa. A Beude Dieng, però, i membri della cooperativa, ovvero coloro che hanno ceduto i campi, dicono di non essersi mai riuniti. Alcuni contadini sostengono di non aver firmato un contratto, ma solo un foglio in bian- Ladri di terra L and grabbing è un termine inglese che significa letteralmente «accaparramento di terra». Con questa espressione ci si riferisce a un fenomeno complesso che riguarda l’acquisto o l’affitto su larga scala di terreni agricoli di Paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati. L’acquisizione viene effettuata per ragioni diverse: coltivazioni di vegetali per l’alimentazione o per la produzione di biocarburanti, silvicoltura per ottenerne legname pregiato, la creazione di industrie o di strutture turistiche, ecc. Il fenomeno si è affermato a partire dagli anni Duemila e si è accentuato dal 2007 con l’inasprirsi della crisi economica e con le speculazioni finanziarie del cibo. La crescita dei prezzi dei generi alimentari ha portato alcuni Paesi industrializzati a cercare di accaparrarsi terreni a basso costo in nazioni del Sud del mondo. Nazioni nelle quali, tra l’altro, è anche presente una manodopera sottopagata. A questo fenomeno si è aggiunto quello dei ricchi Paesi del Golfo che, privi di grandi estensioni coltivabili, si assicurano le derrate alimentari necessarie acquistando terreni all’estero. Il land grabbing è un fenomeno caratterizzato dalla scarsa trasparenza. La maggior parte dei contratti non sono registrati e si fondano su complicità tra multinazionali (o dei governi occidentali) ed élite locali che fanno leva sui diritti di proprietà poco chiari. Corollario sono contratti in larga parte segreti e pochissimi dati disponibili su di essi. 16 Popoli agosto-settembre 2014 Nonostante ciò, Land Matrix, un osservatorio globale interattivo supportato dalla Commissione europea, ha dato vita a un monitoraggio continuo del fenomeno costruendo una banca dati ricchissima. Dal 2000 a oggi, Land Matrix ha mappato 1.200 contratti che hanno interessato 36 milioni di ettari di terra (acquistati o ceduti in affitto per un periodo dai 30 ai 99 anni). Altri 14 milioni di ettari (una superficie poco più grande della Grecia) sono attualmente oggetto di stipula. Solo l’11% dei terreni acquisiti sono usati per coltivare vegetali commestibili, il 33% è coltivato per vegetali non commestibili, il 22% per vegetali «flessibili» (che possono essere utilizzati per alimentazione, produzione di energia, biocarburanti o fibre) e il 34% per usi diversi (industria, turismo, ecc.). Tra i principali acquirenti ci sono gli Stati Uniti che, grazie alla stipula di 82 contratti, si sono accaparrati 7,1 milioni di ettari. Seguono Malesia (3,4 milioni di ettari), Emirati arabi (2,8), Regno Unito (2,2) e India (2). I venditori sono prevalentemente concentrati in Asia e in Africa. Guida la classifica la Papua Nuova Guinea (3,7 milioni di ettari), seguita da Indonesia (3,5), Sud Sudan (3,4), Repubblica Democratica del Congo (2,7) e Mozambico (2,1). Le economie locali non traggono vantaggi dal land grabbing. Le ricadute occupazionali sono limitate e gran parte della produzione è destinata all’estero. A ciò si aggiunge il fatto che le società straniere impiantano monocolture che distruggono la ricchezza delle colture tradizionali e impoveriscono l’economia familiare pilastro dei sistemi sociali dei Paesi del Sud del mondo. Enrico Casale Villaggio di Beude Dieng: progetto di co-sviluppo dell’associazione italosenegalese Sunugal per mettere a coltura le terre circostanti. co. Altri che un contratto esiste, ma non ne hanno copia. Le famiglie che hanno creduto nel progetto jatropha non ne hanno tratto alcun vantaggio. La produzione non è mai decollata e i loro campi, ancora occupati dalle piantine, ora non possono essere utilizzati per le colture tradizionali. zienda bisognava cedere almeno tre ettari, io ne ho donati 20, avrei dovuto avere almeno sei posti nell’azienda, ma solo in tre hanno lavorato per loro, e solo per i primi quattro mesi», spiega un anziano capo villaggio. «In diversi casi i terreni, non ancora coltivati, sono stati riaffittati agli antichi utilizzatori», osserva Bocar, presidente del comitato di lotta che riunisce diversi villaggi. Anoc ha detto di essere pronta ad alzare i salari, fermi a 35mila franchi cfa, nel caso in cui il villaggio avesse dato il via libera alla compagnia per la coltivazione di arachidi. Il villaggio, composto da coltivatori di arachidi, ha messo il veto: «Sappiamo coltivare le arachidi, non abbiamo bisogno di uno straniero che coltivi i nostri campi con i nostri prodotti: che ci restituisca la terra piuttosto!». PROMESSE MANCATE Nella regione di Kaolak, nel pieno del bacino delle arachidi, si trova il villaggio di Ourour. Arrivando si vedono distese di campi di jatropha, almeno 500 ettari, distribuiti in diverse zone. Grazie alla mediazione di Apix, la compagnia italo-senegalese Anoc (African National Oil Corporation) ha ottenuto nel 2008 la cessione di 750 ettari nella zona di Ourour e 2.000 nella zona di Dianké Souf. Anche in questo caso ad accompagnare l’investimento è stata Agroils. Lo Stato senegalese non prevede la AGRICOLTORI DISCRIMINATI vendita dei terreni agli stranieri, ma Diverso per dimensione e impatto è i capi villaggio parlano di trattative il caso di land grabbing nella regione individuali per la vendita dei campi, di Saint Louis: a Fanaye prima e gestite da intermediari senegalesi. In nel parco naturale dello Ndiael, poi, cambio della terra, compensata con dopo proteste e morti. Il progetto, 20mila franchi cfa all’ettaro (circa infatti, ha sin da subito generato 30 euro), ogni famiglia avrebbe visto conflitti e ha spaccato la comunità un figlio assunto, per tutto l’anno, rurale, tra i favorevoli e contracon un salario di 75mila ri. Il 26 ottobre 2011 la franchi cfa al mese. A Ourour la Anoc situazione è degenerata Di fatto, però, spiegano vorrebbe coltivare in violenze che hanno i capi villaggio riuniti arachidi. Ma il provocato la morte di nella casa comunitaria, villaggio ha messo due persone. Il caso ha nulla di tutto ciò è av- il veto: «Sappiamo fatto discutere molto nel venuto. «Per avere un coltivare le Paese, tanto da spingere figlio impiegato nell’a- arachidi, non Wade a sospenderlo e a abbiamo bisogno di stranieri che coltivino i nostri prodotti!» ricollocarlo nello Ndiael. Oltre 26mila ettari di terra sono stati ceduti alla compagnia italosenegalese Senhuile, controllata al 51% dal gruppo italiano Tampieri. Il progetto, durante la presidenza Wade, era stato pensato per la zona di Fanaye, dove la compagnia Senethanol (formata da capitali senegalesi e stranieri), di cui successivamente divenne partner Senhuile, intendeva coltivare la patata dolce da usare per la produzione di biocarburante. Con l’ingresso di Senhuile la produzione si era spostata verso i semi di girasole, destinati ad essere esportati in Italia per la trasformazione. Il gruppo Tampieri, infatti, ha dichiarato di partecipare al progetto per internalizzare la materia prima necessaria all’azienda. Con il cambio di presidente, le autorità hanno prima sospeso e poi riconfermato il progetto (con un decreto presidenziale). Ancora oggi non c’è una chiarezza su cosa si coltivi nella piantagione. Gli attivisti parlano di riso e arachidi. L’ente che si occupa dello sviluppo agricolo senegalese, l’Isra, ha definito il progetto un punto di appoggio per la ricerca sulle sementi (per la ricostituzione del capitale dei semi). La popolazione è composta da comunità peul, dedite all’allevamento. Un giovane allevatore, venditore di bestiame a Dakar, spiega che i pastori devono camminare per chilometri per aggirare la piantagione e portare al pascolo le mandrie. A gennaio alcuni villaggi hanno firmato un accordo che prevede una zona franca di 500 metri intorno agli insediamenti. «Non bastano, gli animali moriranno nel tragitto», spiega Ardo Sow, il rappresentante delle comunità. Come se non bastasse gli abitanti dei villaggi dicono di essere sottoposti costantemente a intimidazioni da parte della polizia. Ong e associazioni senegalesi e italiane hanno lanciato un appello, finora inascoltato, per chiedere a Tampieri di rinunciare al progetto. agosto-settembre 2014 Popoli 17 inchiesta Potrebbe creare opportunità di lavoro, contribuire allo sviluppo di infrastrutture e aumentare la produzione di merci nel Sud del mondo. Rischia invece di aumentare la povertà, danneggiare l’ambiente e violare i diritti umani. Prende il nome di… landgrabbing { NON SI SA PRODOTTI AGRICOLI ALLEVAMENTO INDUSTRIA ENERGIE RINNOVABILI STOCCAGGIO CARBONIO SPECULAZIONE 28 19 11 10 10 ESTRAZIONI % TURISMO COLTIVAZIONI ALIMENTARI ogni secondo nel Sud del mondo viene acquistata un’area di terra pari a un intero campo di calcio PER COSA VENGONO USATI (%) LEGNO E FIBRA ETTARI dal 2000 ad oggi BIOCARBURANTI 50.000.000 Acquisto o affitto su larga scala di terreni agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte di multinazionali, governi stranieri o singoli soggetti privati 8 5 3 2 2 1 1 I 10 MAGGIORI PAESI ACQUIRENTI E VENDITORI (mln ettari) 2.2 Cina U.S.A. Emirati! Arabi Egitto 0.4 0.6 1.1 1.6 1.8 1.7 0.5 Ghana Nigeria Paesi acquirenti Paesi venditori 1.3 Arabia! Saudita 0.6 0.5 Sudan Congo 0.5 Corea 1.0 India Malesia 1.2 0.6 Mozambico 1.2 0.8 Singapore 1.2 Indonesia 1.3 Madagascar 0.5 Argentina InfograÞca di Ugo Guidolin 2/3 18 Popoli agosto-settembre 2014 • • degli investimenti in terreni agricoli sono in Paesi dove si soffre la fame dei raccolti frutto di quei terreni agricoli sono destinati all'esportazione Quei progetti Fiat (mai decollati) in India Daniela Bezzi I mmagina un territorio dieci volte più grande del Vaticano e fertile quanto le nostre pianure intorno al Po: dai tre ai cinque raccolti all’anno a rotazione, che danno da mangiare e da vivere a seimila famiglie, 22mila abitanti. Tra essi molti sono braccianti: da quelle terre, di cui non sono proprietari, dipendono totalmente. E in gran parte bargadars, mezzadri: protagonisti di quella riforma agraria che l’ex governo comunista del Bengala (India) varò negli anni Settanta, in risposta ai moti contadini che da Naxalbari (1967) si erano estesi ovunque, contro il sistema fondiario, i zamindars. Immagina ora tutto questo, frutto di 40 anni di paziente tessitura, fonte di lento ma sicuro progresso dopo quei lontani tumulti... raso al suolo. Immagina i bulldozer, le camionette della polizia che arrivano una mattina e vomitano 600 militari armati di bastoni e pronti anche a sparare, mentre dal megafono un ufficiale ordina di sloggiare e gruppi di scherani procedono con la recinzione (operazione che dura giorni, con la forza pubblica pronta a intervenire). L’«AUTO DEL POPOLO» Tutto questo accadeva il 2 dicembre 2006 a Singur, 40 chilometri a nord di Kolkata, Bengala occidentale. Un giorno già carico di significati per l’India moderna, anniversario del più grande disastro industriale della storia, a Bhopal. L’impressionante rievocazione di chi quella mattina si trovò ad assistere alla violenza delle requisizioni - dopo mesi di negoziati, manifestazioni di protesta, non pochi episodi drammatici (e anche qualche morto) - è contenuta in un documento firmato (tra gli altri) dalla scrittrice Mahasweta Devi, dall’attivista Medha Patkar, dall’intellettuale Dipankar Chakraborty. La posta in gioco: la Nano Car, l’utilitaria «del futuro» in quanto meravigliosamente low cost - come venne presentata anche dai nostri media, nella ignoranza (o indifferenza) circa l’impatto di tale progetto ancor prima di entrare in produzione. Perché quel ben poco glorioso insediamento (che a prima vista sembrò targato solo Tata Motors) vide in qualche modo implicata anche la Fiat, in una joint venture che tutta la stampa del mondo definì «molto promettente», in quanto appunto accordo «a tutto campo». Dall’incremento delle vendite nei rispettivi mercati, allo scambio di componenti e tecnologia (sottolineavano i prospetti diffusi in anticipo per la gioia degli investitori), quella joint venture vedeva convergere su quel particolare progetto low cost tutte le eccellenze che avevano caratterizzato la storia della nostra prima industria, dalla Topolino in poi - ma in ben più promettenti condizioni di mercato. Insomma un’autentica dream car, come amava definirla lo stesso Ratan Tata, ai vertici di un conglomerato industriale da oltre un secolo già molto forte nella produzione dell’acciaio e in una serie di prodotti tecnologici avanzati e di lusso, oltre che, dagli anni Cinquanta, anche nei motori. Tata stava ora per sviluppare un nuovo tipo di auto, the People’s Car, l’auto del popolo, per tutti: per una somma (100mila rupie) non proprio «per tutti» in India, ma in effetti minima (solo 2.500 euro), ecco una DAL MOZAMBICO ALL’ARGENTINA Tutti gli affari tricolori I due casi descritti in queste pagine non sono gli unici esempi di land grabbing italiano. Il sito di Land Matrix, ricca e dettagliata miniera di dati sul tema, informa che i Paesi in cui aziende del Belpaese hanno avviato progetti di accaparramento delle terre sono 11, tutti in Africa: oltre al Senegal, nell’elenco figurano Liberia, Ghana, Nigeria, Guinea Conakry, Congo Brazzaville, Tanzania, Etiopia, Mozambico e Madagascar. Particolarmente intensa la presenza italiana in Mozambico, una sorta di «paradiso» del land grabbing: in questo Paese, infatti, la terra non si vende, si dà in concessione. Il prezzo di concessione annuale può scendere fino a un dollaro l’ettaro e le concessioni arrivano anche a 99 anni. Land Matrix ha tracciato 117 acquisizioni di terra in Mozambico: 5 di queste sono state promosse da aziende italiane. Spicca il caso del colosso energetico Api, il cui progetto di coltivazione della jatropha si è però bloccato nel 2013. A quanto pare il problema è l’eccessiva salinità del terreno, ora però quella terra - comunque acquisita in concessione dal consorzio che fa capo ad Api - resta inutilizzata. Stessa sorte per quella che - dal punto di vista dell’estensione dei terreni - è l’operazione più rilevante di un’azienda italiana in Africa: l’acquisizione di 710mila ettari (poco meno della più estesa provincia italiana, quella di Bolzano) in Guinea Conakry da parte di Nuove iniziative industriali, azienda di Galliate (No), attiva nella produzione di energia da fonti rinnovabili. La terra è stata effettivamente acquistata, ma la produzione di jatropha non è mai partita. E pensare che sul sito dell’azienda si parla tuttora di un «rilevante risvolto sociale del progetto, che comporterà la creazione di numerosi posti di lavoro per le popolazioni coinvolte». Abbiamo scritto all’azienda per chiedere chiarimenti ma non ci è stato risposto. Fuori dall’Africa, Land Matrix non segnala nessun coinvolgimento diretto italiano nel fenomeno del land grabbing. Lo fa invece l’altrettanto interessante rapporto dell’Ong Re:Common, Gli arraffa terre, uscito nel giugno 2012: vengono citati i casi di Argentina (con la nota presenza del gruppo Benetton: 900mila ettari di terra acquistata nel 1991 per l’allevamento di pecore e la produzione di lana), Nuova Zelanda (lana), Honduras e agosto-settembre 2014 Popoli 19 Indonesia (palma da olio), Laos (jatropha). inchiesta Singur, India (2007): sorveglianza dei terreni espropriati per lo stabilimento Tata. GRANDE ALLEANZA Dalle campagne di Singur la protesta dilagò poi nel Midnapore, per 10mila acri destinati a un impianto petrolchimico della Salim, e culminò (nella primavera 2007) negli «incidenti» di Nandigram: quindici persone uccise, non si sa quanti feriti, scontri di particolare brutalità. I fatti di Singur e Nandigram coincisero con l’inizio di una nuova stagione di tensione sociale per l’India, che proprio in quell’anno celebrava i 60 anni di indipendenza dal giogo coloniale, ma non da certe pratiche autoritarie che avevano caratterizzato la sua amministrazione. Poiché oggi come all’epoca dei britannici il più indiscriminato land grabbing è autorizzato nel Paese da una legge (Land Acquisition Act) che risale al 1894, un editto coloniale. Tutto questo non passò completamente inosservato in Italia, nonostante in generale i media inneggiassero al «nuovo corso» della La Nano Car non è Fiat guidamai decollata. Una ta da Sergio serie di incidenti Marchionne. E, hanno eroso mentre i titoli l’iniziale appeal e Fiat e Tata Mola joint venture tra Fiat e Tata Motors, tors registravacome all’improvviso no apprezzamenti costanti era finita sotto i alle Borse di riflettori, è sparita Milano e di dai media Mumbai, una campagna di controinformazione riuscì a portare alla conoscenza del Parlamento italiano questo scenario di abusi nel lontano Bengala occidentale. Non meno di quattro interrogazioni parlamentari vennero stilate (raccogliendo numerosi firmatari), ma restarono lettera morta. Ma al Motor Show di Delhi nel gennaio 2008 nessuno poté ignorare il giro20 Popoli agosto-settembre 2014 AFP quattro posti a misura di famiglia indiana, che da mesi era l’oggetto della più vivace curiosità e speculazione, in primis finanziaria. tondo degli attivisti indiani intorno LE CONSEGUENZE al prototipo dell’attesa vettura, e più Che cosa resta oggi di questa impreancora le scritte sulle loro magliette, sa? Un muro, in molti punti sbrecciache denunciavano la violenza del to, che ancora difende per chilometri land grabbing di Singur. Molte testa- quel che Tata Motors insiste nel te indiane cominciarono a mettere rivendicare come lesa proprietà, con pretese di indennità e in discussione la sosteun braccio di ferro leganibilità della Nano Car: Il progetto della le pressoché insolubile non solo ambientale e Nano Car, auto con l’amministrazione sociale, ma anche sul low cost con piano tecnico. la partecipazione bengalese, che invano reclama compensazioni Il caso Singur era ormai di Fiat, fu una questione di Stato. avviato nel 2006 per gli ex contadini ormai in miseria, e qualMa di fronte alla cer- con una serie di che forma di riqualifitezza della crisi econo- espropri di terre cazione per 400 ettari mica globale nell’estate nel Bengala a di terre un tempo fertili del 2008 e a sfavorevoli danno di seimila e per sempre improdutproiezioni di crescita in famiglie tive. C’è poi lo scheletro India, anche nel settore di una promessa di sviauto, ecco l’improvvisa luppo industriale che ha decisione di Tata Motors: anche se pronti per entrare portato morte nello spirito, come nei in produzione, gli impianti nelle campi. Alla fine la Nano Car non è campagne un tempo fertili e ormai mai decollata neppure come auto a cementificate di Singur dichiara- basso costo. Una serie di incidenti rono forfait. Optarono, cioè, per (motore in fiamme in condizioni di le condizioni di massimo favore corsa, carrozzerie accartocciate al e i sussidi pubblici nello Stato del minimo urto, a fronte di costi di Gujarat che, governato da Narendra produzione irrealisticamente bassi) Modi, stava emergendo come area hanno eroso l’iniziale appeal e ri«industry-friendly». Il Bengala oc- dotto a tal punto le richieste che cidentale dovette accontentarsi dei anche gli impianti in Gujarat hanno capannoni vuoti, monumento all’in- annunciato la chiusura. dustrializzazione su cui tutti, tranne La pubblicizzata joint venture a tutto i contadini, avevano scommesso, e campo tra Fiat e Tata Motors, così cosi trovò a gestire una crisi sociale, me all’improvviso era finita sotto i rimorale e politica senza precedenti: flettori, è scomparsa dai media. Nesalle elezioni successive nello Stato suna «grande firma» che ne parlava del Bengala, il più longevo gover- bene si è più preoccupata di indagare no comunista del mondo cedette quando il socio indiano si è fatto da il timone al Partito Trinamool di parte (sebbene ancora a lungo memMamata Banerjee che era stata a bro del Consiglio di amministrazione fianco dei contadini di Singur fin della Fiat) di fronte al trasferimento degli interessi Fiat verso Detroit. dai primi moti. nicaragua La vedova di José Silva, lavoratore della canna da zucchero morto nel 2008, mostra le analisi del sangue del marito. Quei morti di nulla Sono almeno 9mila i decessi degli ultimi vent’anni per una malattia renale evidentemente connessa alla lavorazione dello zucchero. Ma le associazioni non riescono a ottenere i risarcimenti dall’impresa, di proprietà della famiglia più potente del Paese Testo e foto: Diego Cobo Chichigalpa (Nicaragua) a tagliare canna in questa piantagione sterminata nei pressi di Chichigalpa, 130 chilometri a nord osé Silva usciva di casa molto di Managua. Nessuno sa con esatpresto. La moglie gli chiedeva tezza quale sia la sua estensione: sempre la stessa cosa: «Non l’impresa parla di 50mila ettari, ma porti una bottiglia d’acqua?». E lui, alcuni attivisti sostengono che sia ogni volta, rispondeva di no: pesa- il doppio. va troppo, doveva camminare e poi Nel febbraio 2005 l’azienda ha manprendere un bus per arrivare all’In- dato José in pensione: da un controllo di routine nell’amgenio San Antonio, un enorme complesso che Le vittime hanno bulatorio dell’impresa è risultato che i suoi comprendeva (e com- lavorato tutte prende ancora) pian- nella piantagione livelli di creatinina nel sangue arrivavano a tagione, zuccherificio, e nella fabbrica distilleria. in cui si produce 5,6 mg per decilitro, un valore cinque volte Per 31 anni José ha il rum della superiore alla norma. passato le sue giornate nota marca J Flor de Caña. E si continua a morire ancora oggi I valori hanno continuato a salire finché José, stanco e zoppicante, non ce l’ha più fatta. Nel febbraio del 2008, dopo avere sussurrato alla moglie «Perdonami», la voce gli è venuta meno ed è morto, in silenzio. Josè aveva 69 anni e soffriva di insufficienza renale cronica (Irc), la stessa malattia che ha portato alla tomba circa 9mila persone, secondo i calcoli (prudenti) di varie organizzazioni. Avevano lavorato tutte nello stesso posto, dove si produce e si estrae la materia prima che, dopo essere passata attraverso la distilleria, va a riempire le bottiglie di rum della nota marca Flor de Caña. Ancora oggi continuano a morire decine di persone all’anno, nonostante il problema sia noto ormai a livello mondiale. BATTAGLIA PER UNA LEGGE Alla fine degli anni Novanta, l’azienda decise di trasferire nel centro abitato di Chichigalpa le 5.500 persone che vivevano nello zuccherificio. Infatti quello non era solo un luogo di lavoro, ma agosto-settembre 2014 Popoli 21 nicaragua un vero paese. Anzi, racconta un giovane cresciuto lì, sembrava un paradiso. C’erano le case per i dipendenti tutte disposte in fila. Non si pagava l’affitto, né la luce, né la scuola o l’ospedale. C’era persino una chiesa. Ma si moriva con una facilità impressionante. «Vedendo il numero di morti che “uscivano” dall’azienda, qualcuno iniziò a chiedersi: “Che cosa succede là dentro?”», racconta Carmen Ríos, responsabile dell’Associazione nicaraguense dei malati di insufficienza renale cronica (Anairc). Carmen è malata. Suo padre è morto a causa dell’Irc e così suo fratello e suo figlio. Questa donna dallo sguardo combattivo vive in una sorta di baraccopoli sorta a Managua nel 2009, quando una settantina di persone decisero di costruire case di legno e plastica sul ciglio della strada per rivendicare un risarcimento che nessuno voleva riconoscere loro. Ogni giorno si presentavano al quartier generale del gruppo Pellas, un edificio di vetro visibile da tutta la città. Questo colosso infatti comprende la Nicaragua Sugar States Limited (Nssl), a sua volta proprietaria dello zuccherificio Ingenio San Antonio, azienda che ancora oggi dà lavoro a circa 8mila persone. In Nicaragua parlare del Gruppo Pellas vuol dire parlare di Carlos Pellas, uno degli uomini più potenti del Paese. L’ultima marcia fu appunto quella del 2009, quando lavoratori e parenti decisero di accamparsi a oltranza, dato che il magnate non aveva risposto a numerose richieste di incontro. La prima risaliva al 2003: varie organizzazioni di lavoratori della canna da zucchero portarono avanti una battaglia a Managua per ottenere una legge che riconoscesse la Irc come malattia professionale, e avere quindi diritto a una pensione di invalidità. E ci riuscirono: il 15 giugno 2004 vide la luce la Legge 456, sul22 Popoli agosto-settembre 2014 la quale però il presidente Enrique Bolaños pose un veto parziale, tale da impedirne la piena attuazione. Grazie a un’altra marcia, nel 2005, fu tolto il veto alla legge. Ma la situazione, di fatto, è ancora bloccata dalla burocrazia e dalla mancanza di volontà politica. nemmeno l’inquinamento delle acque: in un rapporto del 2001 sosteneva che i lavoratori bevevano meno acqua di quella necessaria per i reni - 10 litri al giorno -, che esistono zone in cui il rischio di contrarre la malattia è maggiore a causa del calore intenso e che i malati non seguono le indicazioni VELENO NEL SANGUE date in ospedale per bloccare l’evoLa prima cosa che si nota quando luzione della malattia. si entra a Chichigalpa arrivando Nel 2010, una prima relazione da Managua è la distilleria dell’a- dell’Università di Boston sosteneva zienda. Si trova dietro al Parque La che non c’erano prove che la malatEstación, dove si fermava il vec- tia fosse provocata dalle sostanze chio treno che collegava la distil- chimiche. Nella stessa relazione si leria con lo zuccherificio, distante diceva che, per dedurre un rapporpoco meno di quattro chilometri. I to di causa-effetto, è necessaria la vagoni trasportavano la canna, ma «produzione di nuove conoscenze anche i morti. Le famiglie, infatti, scientifiche». Ma è un passo avanti chiedevano il permesso di traspor- rispetto allo studio svolto dall’atare i cadaveri fino al paese. zienda nove anni prima, perché A Chichigalpa tutti stanno aspet- smentisce anche il collegamento tando i risultati delle analisi del- tra la malattia e le cause generiche le acque svolte dall’Università di ipotizzate dalla compagnia, come Boston, incaricata sei anni fa da il caldo. Ingenio San Antonio. Le denunce Nemmeno lo studio del 2008 dell’Udei malati contro la compagnia niversità di León, in Nicaragua, riguardano l’uso dei pesticidi nei certifica il rapporto di causalità. campi di canna da zucchero. Si Evidenzia tuttavia l’anomala incisuppone che i vari agenti chimici denza della Irc nella popolazione. abbiano contaminato le falde e i Ipotizza come causa il consumo pozzi a cui attingono le persone eccessivo di alcol e tabacco e sucche vivono in questa zona. cessivamente specifica: «Abbiamo L’Nssl non ammette riscontrato anche una la correlazione tra in- Si suppone relazione con alcuni quinamento dell’acqua che i pesticidi fattori lavorativi, coprodotto dalla propria usati nei campi me il lavoro nell’agriattività e Irc, cosa che di canna da coltura e l’esposizione invece è evidente per zucchero a pesticidi». Un altro l’Anairc. In realtà l’a- abbiano studio, svolto dal Cenzienda non ammette contaminato le tro per la ricerca sulle falde e i pozzi a cui attingono per bere le persone che vivono qui Julio Cadenas, ex lavoratore di Ingenio San Antonio, oggi malato di insufficienza renale cronica. A lato, uno striscione di protesta. risorse idriche in Nicaragua (Cira), qualche risultato, per questo ne ha trovato sostanze tossiche in faccio parte. A noi interessa essere campioni d’acqua della zona. Ma risarciti», afferma un giovane manessuno conferma scientificamen- lato che parla in cambio dell’anonite che l’acqua inquinata provochi mato. Riceve una piccola pensione la malattia che attacca i reni. di invalidità, che si aggiunge agli «Io mi sono ammalato in azienda!», aiuti che l’associazione consegna afferma senza ombra di dubbio ogni mese ai suoi membri e che, Julio Cadenas, un ex dipenden- secondo molti, bastano a malapena te licenziato nel 1991, per coprire le necessità quando gli riscon- Un giovane, di una famiglia per tre trarono due punti di che accetta di giorni. Lui si sottopone creatinina. Quando lo parlare in cambio quattro volte al giorno ricoverarono d’urgen- dell’anonimato, a dialisi peritoneale; za in un ospedale di racconta che ogni seduta dura quasi Managua, il 31 luglio deve scegliere un’ora. Con una can2013, arrivava a 28. se comprare nula nell’addome, si Stanco e con il passo il cibo o le siede in camera sua e lento, arriva da una medicine. si inietta due sacche di delle tre sedute setti- Di solito sceglie un liquido che pulisce manali di emodialisi il primo il sangue. durante le quali deve Lo Stato copre solo alrestare quattro ore lecune cure. E questa gato a una macchina è una delle battaglie che elimina le tossine dal sangue. che i malati portano avanti, sia «Sono state fatte ricerche di tutti dall’accampamento a Managua, i tipi. Siamo stati cinque mesi sia dalle strade di Chichigalpa. davanti al Parlamento a parlare Questo giovane, dallo sguardo ascon i politici che oggi sono al sente e dolorante, deve scegliere governo. Quando comandavano i se comprare il cibo o le medicine. liberali, quei politici dicevano che Di solito sceglie il primo. Durante ci avrebbero appoggiato. Ora che un recente ricovero d’urgenza gli sono al potere, non si fanno trova- hanno prescritto 14 iniezioni di re», riassume l’uomo finché i dolori eritropoietina: se ne è potuta pernon gli impediscono di continuare. mettere soltanto una. All’ingresso dell’Istituto nazionale della previdenza sociale di ChichiTUTTI CONTRO TUTTI Più di duemila lavoratori sono riu- galpa, un altro malato ci espone niti nell’Associazione di Chichigal- le accuse mosse all’Associazione: pa per la vita (Asochivida), un’or- i 100mila dollari ricevuti da Ingenio per essere donati ai malati e ganizzazione molto criticata. «È l’unica strada che sta dando che Asochivida ha deciso invece di prestare con un tasso di interesse dell’1%; le voci circa i presunti 700 dollari al mese che ciascun dirigente dell’associazione riceverebbe dall’azienda; i libri contabili spariti. Di fronte a queste critiche, un gruppo di persone è uscito dall’Associazione e ne ha formata una nuova, l’Associazione nicaraguense dei malati e amici di persone con insufficienza renale cronica, che oggi conta circa 600 membri. Presidente è Juan Rivas, 31 anni passati a tagliare canna da zucchero e tre punti di creatinina. Juan è molto critico con Asochivida: «Si sono arricchiti e hanno accordi con l’azienda. Quando uno dei presidenti è morto, lo hanno seppellito come un personaggio importante. Non era che un tagliatore di canna come me: lì ci siamo resi conto di quali rapporti avevano con l’azienda». Mentre Asochivida aspetta i risultati di Boston che stanno ritardando ben oltre l’immaginabile, le altre organizzazioni lottano per ottenere risarcimenti. Carmen Ríos è andata in Germania a raccontare il dramma di Chichigalpa e a chiedere un sostegno al Parlamento tedesco; Juan Rivas ha inoltrato all’azienda una richiesta di 660mila dollari, e vorrebbe presentare istanze internazionali. Mentre continuano ad ammalarsi decine di lavoratori ogni anno, la Nssl riceve premi ambientali. Ha ottenuto anche un prestito di 55 milioni di dollari dalla Banca Mondiale nel 2006; la relazione di valutazione per concedere il credito non menzionava il caso di questa malattia. «Davvero lo andrà a raccontare in Europa? Davvero informerà tutto il mondo?», supplica un uomo nel salutarci. L’euforia per la risposta affermativa è di conforto, ma ciò che soprattutto vogliono a Chichigalpa è fare giustizia. E che le persone smettano di ammalarsi. agosto-settembre 2014 Popoli 23 algeria C’è chi dice no (a Bouteflika) La candidatura e l’elezione per la quarta volta consecutiva del presidente hanno acceso le proteste di una parte del Paese che si è riunita nel movimento Barakat. I militanti chiedono lo svecchiamento della politica e lottano contro il fanatismo religioso, ma il regime li osteggia Emanuela Zuccalà Algeri K amal Benkoussa ci ha provato, ma si è scontrato contro un muro. Ha 41 anni, è nato in Francia da genitori algerini, possiede un brillante curriculum in Economia e Finanza, 24 Popoli agosto-settembre 2014 nel 2000 si era trasferito a Londra costruendosi una carriera da trader nella City. Tornava spesso in Algeria per tenere conferenze nelle università finché, nell’ottobre del 2013, è rientrato in pianta stabile per candidarsi da indipendente alle elezioni presidenziali. «Credevo davvero in un cambiamento», racconta nel suo luminoso ufficio nel quartiere di Sidi Yahia, gli Champs-Élysées di Algeri. «Pensavo fosse ormai lampante che il regime non è forte come intende apparire. Ma, appena appreso che Abdelaziz Bouteflika si sarebbe candidato per la quarta volta, mi sono ritirato: non avevo speranze». Le elezioni presidenziali del 17 aprile non hanno riservato sorprese. L’immarcescibile Bouteflika, in carica dal 1999 per tre mandati consecutivi, ha stravinto contro gli avversari Ali Benflis e Louisa Hannoune con l’81,5% delle prefe- Militanti del movimento Barakat protestano contro la rielezione del presidente Bouteflika. background diverso da quello di Kamal Benkoussa. Figlia di un medico militare, è cresciuta a Bab El Ouad, il quartiere popolare nel centro di Algeri insanguinato dai massacri durante il terrore degli anni Novanta. «Quando avevo 16 anni - ricorda -, mio padre mi ha portata all’ospedale dell’esercito. Lì ho visto le teste tagliate. EraNO ALLA GERONTOCRAZIA Come molti algerini di ceto me- vamo giovani e liberi, potevamo dio, Benkoussa oggi sostiene il diventare il Paese più democratico gruppo dissidente che ha scosso dell’Africa e invece ci siamo rile altrimenti soporifere elezioni: trovati fra le braccia del diavolo. Barakat, che significa «Basta!», si Poi nel 1999 è arrivato Bouteflika. definisce un «movimento di cit- Salutato come il garante della ritadini» e, anche dopo la tornata trovata stabilità nazionale, molti elettorale, continua a impensierire però dimenticano che nel 2008 l’establishment politico. Cataliz- quest’uomo ha violato la Costituzando il malcontento verso una zione, togliendo limiti ai mandati politica stantia, conta seguaci in presidenziali e rendendosi eterno tutte le province algerine, quasi come un monarca assoluto». 37mila follower su Facebook e uno La battagliera ginecologa è comzoccolo duro nella capitale: una parsa nelle cronache il 22 febbraio settantina di professionisti, gior- di quest’anno quando ha organiznalisti, funzionari pubblici tra i 20 zato la prima iniziativa davanti e i 40 anni che non hanno leader, all’Università di Bouzareah ad Alma solo portavoce, in una logica geri, invitando alla protesta i suoi orizzontale antagonista a quella contatti Facebook e distribuendo t-shirt con scritto «No al quarto dei partiti. Barakat è nato in marzo, all’an- mandato!». «Mi hanno invitata a nuncio della ricandidatura di Bo- El Chourouk Tv, in un confronto uteflika: «Un affronto all’intelli- con Akila Rabhi, parlamentare fegenza degli algerini», sbotta Amira dele al presidente. È stato facile: Bouraoui, ginecologa di 38 anni, lei non aveva argomenti». Mentre il volto più noto del movimento. la fino ad allora ignota dottoressa «Questo signore - continua - ha Bouraoui mostrava alla nazione la istituzionalizzato la corruzione e sua verve polemica, a seguirla in lasciato nel degrado settori stra- tv c’era Mustapha Benfodil, scrittegici come sanità e istruzione. tore e giornalista del quotidiano Quando si è ammalato, è andato a indipendente El Watan. Anche lui curarsi in Francia: evidentemente aveva appena radunato una trennon si fida dei suoi stessi medici. tina di scontenti al Tantan Ville, Io lavoro in un ospedale pubblico, storico caffè letterario della capiogni giorno vedo due o tre donne tale: ha chiamato Amira e poco dopo è nato Barakat. strette nello stesso letPrimo atto pubblico: to in attesa di partori- Barakat, che manifestaziore, oppure lasciate sul significa «Basta!», una ne alla Fac Centrale, pavimento con i loro si definisce un l’Università di Algeri neo nati. È l’immagine «movimento accanto alla centralisdi un Paese allo sfa- di cittadini» e, sima piazza Audin. «La scio». anche dopo la Amira Bouraoui ha un tornata elettorale, polizia ci ha dispersi renze. E ciò, nonostante la sua assenza dalla campagna elettorale a causa di una salute sempre più precaria dopo l’infarto che lo ha limitato nei movimenti e nella parola. «Un’autentica novità però c’è stata - puntualizza Kamal Benkoussa -: la nascita di Barakat». continua a impensierire l’establishment politico e siamo stati portati in vari commissariati - spiega Amira -. Lì ci siamo conosciuti meglio e riuniti in movimento». Nella capitale, lo stato d’emergenza in vigore dai tempi del terrorismo vieta le manifestazioni: a due sostenitori di Barakat questo è costato 33 giorni di carcere prima del processo e poi una condanna a 6 mesi. Il quartier generale dei dissidenti è un seminterrato in un palazzone grigio nella zona centrale di Telemly. Mentre si beve caffè ed entrano una trentina di persone, soprattutto giovani, comincia la riunione per def inire le Riappropriarsi azioni futudegli spazi re: è adesso, a pubblici, liberare la urne chiuse e cultura, investire a elezioni diin sanità e menticate, che istruzione: per ora per Barakat si sono questi i punti gioca la partita fermi di Barakat. della credibiliOltre al deciso tà. «Non basta «no» al ritorno più l’opposidell’islamismo zione: è il momento di elaborare proposte concrete - riflette Mustapha Benfodil -. Stiamo preparando un manifesto politico, cercando di coinvolgere anche la gente delle campagne. È quella l’Algeria più profonda: quella che erroneamente vede ancora in Bouteflika la pacificazione dopo il decennio nero del terrorismo, la stabilità, lo Stato. Da noi è fortissimo il nazionalismo, accanto all’islamismo. Noi cerchiamo una terza via, quella della modernità». DALLA PROTESTA ALLA PROPOSTA Riappropriarsi degli spazi pubblici, liberare la cultura, investire in sanità e istruzione: per ora sono questi i punti fermi di Barakat. Oltre al deciso «no» al ritorno dell’islamismo, ribadito dal movimento quando, a fine maggio, il Fronte islamico di salvezza annunciaagosto-settembre 2014 Popoli 25 algeria Abdelaziz Bouteflika mentre vota. È seduto su una sedia a rotelle per i postumi di un ictus che l’ha colpito nel 2013. va il ritorno sulla scena politica. L’ultima battaglia che ha riportato in piazza i membri di Barakat è però quella contro lo sfruttamento del gas con il metodo del fracking (un sistema inquinante e, secondo alcuni, molto rischioso per i terremoti che potrebbe scatenare) da parte di compagnie francesi, secondo un accordo siglato il 21 maggio dal governo algerino. «L’Algeria non è in vendita», hanno tuonato durante un sit-in alla Grande Poste, l’8 giugno. «Lo sfruttamento del gas non convenzionale - continua Benfodil - è un progetto distruttivo sul piano politico, economico ed ecologico, deciso senza il consenso del Consiglio nazionale dell’energia, che è congelato da 15 anni». La protesta ha fugato alcuni dubbi che circolavano riguardo a un orientamento economico iperliberista del mov imento. Terreno Si dice che Barakat scivoloso, vorrebbe una in un Paese Primavera araba, che ancora rischiando di considera il trascinare l’Algeria settore prinel caos di Libia, vato come Egitto e Siria. un nemico «Mai - dice Amira -. e impone Ricordiamo troppo bene i 200mila morti alle società straniere di nel decennio nero» operare con partner locali che detengano il 51% del capitale. In un’Algeria dalla situazione economica «allarmante» e dove, secondo un recente rapporto del Fondo monetario internazionale, la disoccupazione è al 9,8% ma s’impenna oltre il 21% tra chi ha meno di 35 anni, per molti giovani colti e disillusi Barakat ha acceso una speranza di svolta, almeno culturale. Il ventiduenne Anis Saidoun, studente di Farmacia e attore di teatro, spiega: «Io non voglio emigrare, l’amore per l’Algeria è una droga, ma il sistema gerontocrati26 Popoli agosto-settembre 2014 co impedisce ai giovani di fiorire. Ci rifugiamo su Facebook perché è l’unico terreno d’espressione che ci resta e, in un Paese che vuole mantenere le masse ignoranti, persino leggere un libro o scrivere una poesia sono atti d’impegno politico. Ecco perché mi sono unito a Barakat». Ma il movimento quanto fa davvero paura alla politica? A giudicare dagli sforzi per screditarlo messi in campo dai media vicini al governo, una certa preoccupazione serpeggia. È stato scritto che Barakat sarebbe finanziato da Israele, Cia e Marocco, spauracchi perfetti per la maggioranza degli algerini. Amira Bouraoui racconta di essere costantemente pedinata e che qualcuno ha fatto pressioni contro di lei sui suoi superiori. Inoltre è stata accusata di praticare aborti clandestini (in Algeria l’aborto è illegale). Si è anche detto che dentro Barakat si nascondano islamisti del Fis («Da noi sono benvenuti solo gli islamici moderati», chiarisce Amira), e si dice che Amira e Mustapha Benfodil cerchino solo visibilità personale e in realtà disprezzino le masse popolari. Ma l’interpretazione più esplosiva è quella per cui Barakat vorrebbe una Primavera araba, rischiando di trascinare l’Algeria nello stesso caos di Libia, Egitto e Siria. «Mai - si scalda Amira -. Ricordiamo troppo bene i nostri 200mila morti nel decennio nero. Noi vogliamo una rivoluzione pacifica. E se si soffoca una rivoluzione pacifica, allora sì che prima o poi dilagherà la violenza». Umorismo volontario Alcuni artisti italiani cercano l’incontro e la scoperta delle culture portando gratuitamente la propria comicità in territori feriti del Sud del mondo: sono i Giullari senza frontiere Francesco Pistocchini ni, che, per spirito di avventura e amore per l’arte, cercano l’incontro anno un costume a strisce e scatenano sorrisi. Il loro progetto bianche e nere. Recente- è di portare per il mondo, in luoghi mente sono stati avvistati, segnati da un passato di guerra o seduti sul tetto di un pulmino che sofferenze che la povertà amplifica, percorreva la strada per Jaffna, do- una serie di spettacoli gratuiti e ocve pochi anni fa soldati dello Sri casioni di formazione per educatori, Lanka e guerriglieri tamil compi- con il gusto del volontariato puro, vano stragi. Hanno battuto piste in perché autofinanziato. Mozambico e in Bengala, risalito il Come meteore che passano, si muocorso del Mekong, esplorato villag- vono in modo forse naif, ma capaci gi nel Sertão brasiliano. Talvolta, di attirare chiunque. «È la scusa per al limitare della savana o accanto incontrare una cultura - raccona un tempio buddhista, la polizia ta Rodrigo Morganti, clown, anzi ha cercato di fermarli, preoccupata clown dottore e giocoliere milanese, dagli assembramenti di folle cala- occhi e baffi grandi da gigante buomitate dai loro spettacoli. Ma sono nissimo, che spesso si fa portavoce bastati alcuni scatti a braccetto con del gruppo -. Abbiamo voluto essere l’ufficiale in divisa per far capire liberi. Siamo un gruppo di una deciche certe risate non sono business, na di amici, alcuni con i figli al setanto meno politica e neppure «co- guito, accomunati dal fatto di essere operazione» in senso stretto. Sono professionisti che fanno spettacolo». Ogni anno i Giullari dela magia della comicità dicano circa tre mesi senza confini. Sono un gruppo a un Paese, finanzianI Giullari senza fron- di giocolieri, tiere sono rientrati in acrobati e clown do il viaggio attraverso qualche occasione di aprile da un tour di tre che, per spirito lavoro insieme in Itamesi in Sri Lanka. Sono di avventura lia. Spiegano che il loro un gruppo di giocolieri, e amore per progetto, nato nel 2003, clown e acrobati italia- l’arte, cercano H l’incontro e scatenano sorrisi in luoghi segnati da conflitti D. BOZZALLA solidarietà è stato anche una reazione a un certo modo di fare cooperazione nel Sud del mondo troppo legato al denaro. Preferiscono la libertà di scegliere tempi, ritmi e itinerari, per entrare nella cultura dei luoghi. «Eravamo in Mozambico, stavamo per iniziare uno spettacolo dedicato ai bambini di strada - continua Rodrigo -. Ci avevano invitati in un club, davanti ad alcune personalità, ma i bambini erano stati tenuti alla larga dai buttafuori… un vero controsenso». Andò meglio a Benares, in India: avvicinano i ragazzi di strada che vendono cartoline. Quella sera decidono di «fare cappello», per mostrare loro che con un’abilità artistica si può anche guadagnare. Raccolgono duemila persone sulle scalinate che scendono al Gange. In India i Giullari girano a lungo, vivono qualche tempo con alcuni sadhu musicisti, che pensano di avere trovato colleghi. «Spesso ci cercano, partecipiamo alle feste dei paesi, siamo avvolti dalla gente». DI VILLAGGIO IN VILLAGGIO Le radici del progetto affondano in esperienze precedenti che avevano portato alcuni di loro in luoghi lontani, dal Chiapas ai Balcani. In Kosovo, ad esempio, avevano lavorato i Pagliacci senza frontiere (Ong spagnola). Ma i Giullari non sono chiamati e pagati per svolgere un servizio, partono alla ricerca di un incontro senza sapere come andranno le cose. agosto-settembre 2014 Popoli 27 «Molte situazioni mi hanno colpito», racconta Stefano Catarinelli, di Foligno, uno dei fondatori. Come «giullare del diavolo» è un esperto della giocoleria, un’arte legata alle atmosfere del medioevo. Quando parte viaggia con moglie e figlio. «Ricordo il giorno in cui un gruppo di ragazzini brasiliani ha smesso di tirare colla per venire a vederci. A un festival ho incontrato un giovane mozambicano: ha iniziato a studiare arti circensi dopo un corso di giocoleria e acrobatica fatto con noi, ora gira il mondo con il suo spettacolo». E non è un caso unico, perché quando i Giullari senza frontiere incontrano artisti che li possono seguire, li coinvolgono nei loro spettacoli. A Jaffna sono stati accolti dal Center for Performing Arts (Cpa), un’organizzazione rimasta neutrale nello scontro tra singalesi e tamil e che ha chiesto formazione per i propri ragazzi. In Brasile, invece, hanno avuto a disposizione un camion che si trasformava in palco, permettendo loro di esibirsi di villaggio in villaggio, con uno spettacolo al giorno, in una zona povera e dignitosa del Nord-Est, senza cinema o altri svaghi. Iniziavano a esibirsi al calare del sole, in modo che anche gli adulti di ritorno dai campi potessero unirsi al pubblico. Applausi e abbracci. A Ilhéus (Bahia), si sono aperte per loro le porte di un carcere dove, da cinque anni (dallo scoppio dell’ultima rivolta), i detenuti non avevano più potuto fare nulla. «Sono piccoli segni di cambiamento, ottenuti con l’esempio di quello che 28 Popoli agosto-settembre 2014 fai», spiega Rodrigo. Anche a costo di esegue da anni alzando la maqualche sacrificio, come quello di cu- glietta tra risate fragorose, faceva rare l’istruzione dei figli nei mesi in scappare le donne in Marocco o cui li porti lontano dall’Italia. Talvol- in alcuni villaggi indiani. «Quindi ta l’incontro può essere molto diffici- impari, capisci. In alcuni Paesi non puoi soffiarti il naso o le. «Ti si blocca lo stomaforzare un monaco a co quando entri in certi «In un villaggio fare il volontario: sono orfanotrofi con situa- dello Sri Lanka tutte cose che fanno zioni pesanti», racconta - racconta uno Stefano. «In Cambogia, dei Giullari - dopo crescere culturalmente, ma incidenti seri non si ad esempio, c’è anche lo spettacolo sono mai verificati». l’impatto di uno sfrutta- un uomo mi ha Le emozioni più vive armento sessuale dei mi- detto che per rivano dal recente tour nori evidente e tragico la prima volta, in Sri Lanka, dove nel - aggiunge Rodrigo -. dopo la guerra e nord, anche se le armi Invece, in Africa, a volte lo tsunami, tutti hai la sensazione che sa- ridevano insieme» tacciono, ci sono di fatto situazioni di coprifuoco rai sempre un mzungu, e posti di blocco lungo un bianco, visto come le strade. I Giullari si l’operatore della Ong con quello che rappresenta... Appena fi- sono confrontati anche con la realtà nito lo spettacolo arriva un bambino dell’alcolismo diffuso tra i giovani che hanno vissuto la guerra e lo tsue chiede qualche soldo». nami. «Ma in un villaggio costiero, lacerato al suo interno - racconta VOGLIA DI RIDERE Viene da chiedersi se persone di Stefano -, dopo lo spettacolo un culture così lontane si mettano in uomo mi ha detto che per la prima relazione in modo diverso con la volta dallo tsunami di dieci anni comicità. Per Rodrigo, ovunque c’è fa vedeva tutti gli abitanti riuniti a bisogno di ridere in modo sano. ridere insieme». «Prima dicevamo di portare un sor- «Non siamo santi - chiarisce Rodririso dove guerra e povertà l’ave- go -: solo loro sanno donare senza vano impedito. Ma non è preciso: contraccambio. Noi riceviamo tanin Kosovo, ad esempio, le risate tissimo in cambio: può essere una c’erano, ma erano tese, nervose. tavola così riccamente imbandita da Invece, portando il teatro di strada, metterti in imbarazzo, o tornare da la magia dell’attimo, l’interazione uno spettacolo in una favela sentencol pubblico, si stabilisce un ritmo do una soddisfazione grande come artista». Il motto del gruppo, «La fediverso, che coinvolge tutti». Certamente, servono alcune atten- licità non esiste: oggi voglio provare zioni per i diversi ambiti culturali. a essere felice senza», pare allora un La danza del ventre, che Rodrigo desiderio che si realizza per tutti. A. GUERMANI A. GUERMANI solidarietà Chi chiede asilo lo chiede a te la vera , sicurezza è l ospitalità reportage 30 Popoli agosto-settembre 2014 identità - differenza Quelli che restano Nella Siria lacerata dalla guerra civile, i cristiani che non abbandonano il Paese preferiscono allinearsi al regime di fronte alle incognite della ribellione, sempre più influenzata dall’estremismo islamico. Viaggio all’interno di una minoranza che si arma per disperazione Testo: Andrea Milluzzi Foto: Linda Dorigo Damasco (Siria) «S criverai di me? Allora devi scrivere che amo il mio Paese, il mio Presidente e i miei connazionali. La Siria è una e dobbiamo tornare a vivere insieme». Shamo è una ragazza di 25 anni di Barabait, o Chiesa Madonna, piccolo villaggio nella valle della Jazira, nel Kurdistan siriano. Sta stendendo al vento i panni appena lavati, mentre in salotto sua madre aspetta che il pane lieviti sotto le coperte. Shamo e la sua famiglia si occupano della piccola e antichissima chiesa siro-ortodossa del villaggio, dove da tempo non viene più nessuno: «Chiesa Madonna ha 1.500 anni e mio padre ne è il custode. Io dovrei essere il prossimo, ma appena ne avrò l’occasione me ne andrò in Europa», confessa Kamil, fratello di Shamo. Il futuro della Siria si gioca sulla pelle dei giovani come Shamo e Kamil, innamorati del loro Paese ma pronti a lasciarlo se non cesseranno le violenze e le divisioni che da più di tre anni lo stanno squassando. Il 4 giugno scorso Bashar al-Assad, al potere dal 2000, dopo un trentennio di regno del padre Hafez, ha vinto le elezioni con l’88% delle preferenze. Il voto, considerato una farsa al di fuori dei confini nazionali, si è svolto in un Paese che, fra morti, rifugiati e sfollati, in tre anni ha perso oltre il 40% della popolazione e che ha al suo interno più di 6 milioni di sfollati. La Siria è talmente divisa che al Nord e in quasi tutto il Kurdistan i funzionari di Stato non Il 4 giugno Assad hanno potuto ha vinto le elezioni trasportare le con l’88% dei urne elettoravoti in un Paese li. Gli ulteriori che ha più di 6 sette anni di milioni di sfollati presidenza che ed è talmente al-Assad si è diviso che al Nord guadagnato i funzionari non saranno decihanno potuto sivi per capire trasportare le urne se la Siria tornerà a essere una nazione unita o se seguirà il destino a cui è stata lasciata la Somalia, «un Paese fallito con i signori della guerra a regnare su fazzoletti di terra», come l’ha recentemente definita Lakhdar Brahimi, inviato speciale dell’Onu dal 2012 fino a pochi mesi fa. «Noi cristiani siamo gente pacifica e vogliamo mantenere la convivenza con i musulmani. Ma è uno strazio vedere la nostra gente umiliata e i nostri luoghi occupati dai fonagosto-settembre 2014 Popoli 31 reportage damentalisti. Per questo andremo fino in fondo e vinceremo questa guerra», tuona Ahdi, ufficiale cristiano dell’esercito lealista e creatore della milizia volontaria di Saydnaya, poco a nord di Damasco. Il monastero di Nostra Signora di Saydnaya sovrasta la collina a soli 30 chilometri di distanza da Maaloula, villag«La nostra gente gio di grande valore simha paura perché bolico per il pensa che se un cr ist ianesivescovo è stato mo perché vi rapito chissà cosa si tramanda può succedere l’a r a m a ic o agli altri - osserva occidenta le: un prete siriaco di «Saydnaya è Damasco -. C’è chi seconda solo vuole difendersi e chi lasciare la Siria» a Betlemme per importanza storica - osserva la superiora, madre Febronia -. Ci sono trentasetta chiese e questo convento ha più di 1.500 anni. Siamo nel cuore della cristianità, ma il mondo ci ha abbandonato e non abbiamo più nemmeno la forza di alzare gli occhi al cielo e chiedere al nostro Dio di aver pietà di noi». Finora Saydnaya si è salvata dalla guerra. Non si può dire lo stesso di Maaloula, che per mesi è stata nelle mani dei miliziani islamisti del fronte al-Nusra, formazione qaedista. A metà aprile l’esercito di Damasco ha riconquistato la città, poche settimane dopo che le dodici suore rapite dal convento di Mar Tekla erano state liberate. Adesso Maaloula è una città disabitata dove si contano i danni provocati dall’assedio e dai combattimenti. «Noi soldati cristiani siamo stati gli ultimi ad arrenderci ad alNusra. Eravamo disposti anche a distruggere i nostri luoghi sacri pur di cacciare quei cani terroristi da Maaloula», racconta Ali, 32en- ne tecnico informatico che adesso vive con la zia a Damasco, vicino al quartiere di Jobar, dove spari ed esplosioni non sono mai cessati. Grazie all’aiuto delle truppe libanesi di Hezbollah e delle formazioni sciite giunte dall’Iraq e forte delle armi russe e delle strategie militari dei pasdaran iraniani, dal dicembre scorso il regime ha strappato alle opposizioni ampie zone del Paese. Sul Qalamoun, la montagna dell’Antilibano che divide la Siria dalla valle della Bekaa libanese, sventolano le bandiere a due stelle dei lealisti dopo le offensive militari che hanno riconquistato Yabroud, la zona cristiana del Krac dei Cavalieri (il grande castello cristiani siriani D ell’articolato scenario del cristianesimo in Siria è impossibile fornire statistiche da quando il Paese è in guerra. Prima del 2011 si poteva ipotizzare che i cristiani fossero quasi un decimo degli oltre 20 milioni di siriani. La presenza cristiana, antica come il cristianesimo stesso, è strutturata in diverse Chiese autonome o cattoliche di rito orientale, tra cui le principali hanno nella città di Antiochia (oggi in Turchia) il proprio riferimento storico. >Greco-ortodossi di Antiochia: Chiesa autocefala del mondo ortodosso, sono storicamente la denominazione più numerosa. Patriarca: Giovanni X Yazigi. >Cattolici greco-melchiti: Chiesa di rito orientale in comunione con Roma dal 1724. Patriarca: Gregorio III Laham (in Siria, 6 diocesi). Entrambe queste Chiese appartengono alla tradizione liturgica bizantina. I patriarchi hanno il titolo di Antiochia, con sede effettiva a Damasco. >Assiri d’Oriente (nestoriani): Chiesa separata dal 431 dal cri- stianesimo greco e latino. Patriarca: Mar Dinkha IV (sede negli Usa). >Caldei: cattolici di rito siriaco-orientale (assiro) in comunione con Roma dal 1553. Patriarca: Louis I Sako (sede a Baghdad). In Siria hanno un vescovo ad Aleppo, il gesuita Antoine Audo. Anche per queste Chiese la lingua liturgica è il siriaco (aramaico). >Armeni apostolici: Chiesa orientale, separatasi nel IV secolo. >Armeni cattolici: uniti a Roma dal 1742 (in Siria, 3 diocesi). Entrambe queste Chiese hanno l’armeno come lingua liturgica. >Maroniti: Chiesa di rito orientale legata storicamente al Libano, rimasta sempre unita alla Chiesa di Roma (in Siria, 3 diocesi). >Cattolici latini: vicariato apostolico ad Aleppo. >Piccole comunità protestanti: (presbiteriani e battisti arabi, armeni evangelici, ecc). al Concilio di Calcedonia del 451. Patriarca: Ignatius Aphrem II. La Siria nell’antichità ha dato i natali a 6 pontefici, uno nel II secolo, gli altri tra il VII e l’VIII secolo. Papa Gregorio III morto nel 741 fu l’ultimo papa (prima dell’attuale) nato fuori dall’Europa. cristianesimo siriaco, riconciliata con Roma nel 1662. Patriarca: Ignatius Ephrem Joseph III Younan (in Siria, 4 diocesi). 32 queste Popoli agosto-settembre 2014 (aramaico) come lingua Entrambe Chiese hanno il siriaco liturgica. I patriarchi hanno il titolo di Antiochia (sede a Beirut). Oggi, risultano nelle mani di rapitori due prelati di Aleppo, l’arcivescovo greco-ortodosso Paul Yazigi, e l’arcivescovo siriaco ortodosso Gregorios Yohanna Ibrahim, scomparsi dal 22 aprile 2013. f.p. >Siriaci ortodossi: Chiesa autocefala di rito orientale, separatasi >Siriaci cattolici: componente numericamente più ridotta del La farmacia della chiesa greco-ortodossa di Jaramana (Damasco). Nelle pagine precedenti, un soldato cristiano della milizia siriaca nel villaggio di Gharduka. dell’epoca crociata), al-Qusair e del Corano e quindi sono riusciti a Adra. Da quest’ultimo paese, a fuggire con me da Adra». 40 chilometri da Damasco, erano giunti i racconti degli ultimi orrori A DAMASCO, SCHIERATI commessi dai fondamentalisti: «Ho La maggioranza dei cristiani di visto uomini gettare nel fuoco Damasco e dintorni non ha dubbi alcuni dipendenti di un forno pub- a schierarsi a fianco del regime blico in quanto “servi di Assad”. e dell’esercito. La propaganda di Ho visto sgozzare decine di per- Stato enfatizza la necessità di salsone, cristiane e musulmane, e ho vare la Siria dai «terroristi» e le visto appendere le loro teste a un testimonianze che giungono dalle albero di Natale. Ho visto uomini città del Paese in mano ad al-Nusra tagliare la gola dei figli di una o allo Stato Islamico dell’Iraq e del donna colpevole di aver provato a Levante (Isis) hanno un impatto maggiore dei bombarnasconderli. È questa la libertà che vogliono?», Finora Saydnaya, damenti, degli arresti e degli assedi. Padre Paracconta una donna con le sue 37 olo Dall’Oglio è scomsulla quarantina da- chiese, è stata parso da oltre un anno vanti a un capannello risparmiata. e di altri due vescodi persone nel cortile Non si può dire vi ortodossi, Yohanna della farmacia di San- lo stesso di Ibrahim e Bulos Yazigi, ta Croce, a Damasco. Maaloula, che non si hanno notizie da È seduta su una sedia per mesi è stata aprile 2013. «La nostra e un raggio di sole le nelle mani dei illumina gli occhi che miliziani islamisti gente ha paura perché pensa che se un vescosi abbandonano alle la- di al-Nusra vo è stato rapito chissà crime quando ammette cosa può succedere alle di aver mandato i suoi persone normali - osfigli a rovistare nella spazzatura: «Si sono salvati perché serva dietro l’anonimato un prete ho insegnato loro qualche verso del Patriarcato siro-ortodosso di Bab Touma, sulla cui facciata campeggiano le gigantografie di padre Ibrahim e padre Yazigi -. C’è chi vuole prendere le armi e difendersi e chi vuole lasciare la Siria. Losian ha 21 anni, È difficile far il corpo tatuato cambiare loro con simboli idea quando ci cristiani e un sono 3.800 fatappeto con il miglie siriache disegno dell’ultima sfollate, vescocena sopra la vi rapiti e contesta. Da cinque tinue denunce mesi è un soldato di persecuziodel Consiglio ni contro i crimilitare siriaco stiani». Damasco è sotto assedio da qualsiasi punto la si guardi. Gran parte del centro è tornato nelle mani dei lealisti e gli abitanti provano a recitare una vita normale, tenendo i negozi aperti, andando a pranzare nei ristoranti e organizzando il traffico con semafori e vigili. Il rumore di esplosioni e scontri a fuoco arriva dalle periferie. Bab Touma, che comprende il suq più grande d’Oriente, è un dedalo di stradine ciottolose dove si affacciano vecchie case sbilenche e gli abitanti si Shamo, 25 anni, è la figlia del custode della chiesa nel paese di Barabaita (Kurdistan siriano). agosto-settembre 2014 Popoli 33 reportage aggirano laboriosi fra botteghe e negozi. Qui vive e lavora la maggioranza dei cristiani: «Quando tutti i siriani erano 4 milioni, gli armeni erano 230mila, ora che i siriani sono 17 milioni gli armeni sono solo 80mila - spiega il prete della comunità fra una stretta di mano e l’altra ai suoi fedeli durante una visita al cimitero -. La fuga è cominciata ben prima della guerra, ma questa tragedia non riguarda solo i cristiani. Sono i musulmani a soffrirne di più, perché loro sono la maggioranza». VERSO LO STALLO In occasione delle elezioni centinaia di profughi hanno voluto far ritorno dal Libano alle loro case, nonostante il governo di Beirut avesse chiaramente dichiarato di essere indisponibile a una nuova accoglienza: «L’esercito sta conquistando posizioni e anche se è tutto distrutto, per un siriano è più dignitoso piantare una tenda sul proprio suolo piuttosto che su quello straniero», spiegano i soldati di pattuglia a Damasco. Gli accordi di pacificazione fra le truppe ribelli e il regime permettono alle famiglie di fare ritorno a casa, come è accaduto a Homs, ma il dramma degli sfollati interni Damasco, l’insediamento di Yarmuk, occupato da rifugiati palestinesi e posto sotto assedio per un anno dall’esercito, con conseguenze tragiche per i civili. 34 Popoli agosto-settembre 2014 Paesaggio della Jazira (Nord-Est siriano). A sinistra, la chiesa del villaggio di Gharduka, usata come trincea e distrutta dal fronte al-Nusra. è ben lontano dall’essere risolto: Bashar al-Assad e i suoi fedelis«Solo oggi da noi sono arrivate simi sono riusciti a ricostruire il 300 nuove famiglie a cui offria- cordone vitale che lega Damasco mo pranzo e cena. Man mano alla città di Latakia, sul mare, e che i combattimenti si spostano alla costa abitata dagli alauiti di vediamo flussi provenire da nuove cui fanno parte, mentre il Nord è città», spiega Ra’id, custode della ancora un buco nero dove la guerra parrocchia melchita di Jaramana, inghiotte qualsiasi cosa. A questo città a mezz’ora dalla capitale, fa- vortice di distruzione stanno tenmosa per aver accolto migliaia di tando di sottrarsi i curdi e i siriaci profughi iracheni nel 2003. della Jazira, regione a Nord-Est Centri della Caritas, dei gesuiti, del Paese. Alcuni cristiani hanno Patriarcati di tutte le confessioni deciso di scendere in campo con sono mobilitati giorno e notte per una polizia, il Sutoro, e una midistribuire quel poco di aiuti che lizia, il Consiglio militare siriaco riescono a varcare gli sbarramenti (Msf) di fanteria leggera. «Questa è della guerra. A fine gennaio anche la nostra terra e ci sentiamo uniti il campo palestinese di Yarmuk ha al popolo curdo nella lotta per potuto finalmente ricevere viveri e l’indipendenza - spiega Barsom, coperte. Da molti mesi sotto l’asse- un giovane cristiano siriaco -. Nel dio dalle forze di Dafrattempo però col remasco, Yarmuk è uno «La fuga è gime dobbiamo ancora scheletro rumoroso che cominciata venire a patti». Barsom custodisce i corpi di ben prima della è stato da poco eletto almeno una dozzina di guerra - osserva nel neonato parlamenbambini, morti di fame un prete armeno to della Rojava, il nome nell’indifferenza del di Damasco -, ma che i curdi danno alla mondo esterno. regione nord-orientale questa tragedia non riguarda solo i cristiani. Sono i musulmani a soffrirne di più» della Jazira, in cui oggi sono la maggioranza. Pochi giorni dopo è stato arrestato e torturato dai poliziotti del regime. «So che i miei genitori sono fieri di me e che quando escono di casa possono camminare a testa alta»: Losian ha 21 anni, il corpo tatuato con simboli cristiani e un tappeto con il disegno dell’ultima cena appeso sopra la testa. Da cinque mesi è un soldato del Consiglio militare siriaco, di base a Gharduka, insieme ad altri quattro ragazzi siriaci. Sommando le loro età si arriva a malapena a cento anni. Avevano una vita normale, adesso hanno già combattuto e ucciso: «Mentre sparavo non pensavo a cosa stavo facendo. Solo dopo che ho smesso mi sono accorto di aver ammazzato quegli uomini, ma non mi sentivo in colpa», spiega Orom, 19 anni, che durante la battaglia nella vicina Tall Hamis ha attaccato una macchina del fronte al-Nusra. Questa è la vita che la Siria offre oggi ai suoi figli. agosto-settembre 2014 Popoli 35 musica Claudio Zonta SJ L a musica da sempre accompagna l’uomo nei viaggi, nei commerci, nelle peregrinazioni e nelle fughe: e così il popolo ebreo, in seguito alla diaspora, porterà con sé le proprie tradizioni musicali, contaminando e lasciandosi influenzare, generando la cosiddetta musica «sefardita» (per quanto riguarda le comunità ebraiche che si stabilirono nella Penisola iberica) e «yiddish» (per le comunità dell’Europa dell’Est). I canti dei pellegrini cristiani che si dirigevano a Roma, a Santiago di Compostela o a Gerusalemme lasceranno tracce musicali dei loro passaggi attraverso le rotte marittime o i cammini rupestri della via Francigena. Le stesse colonizzazioni furono modalità di contaminazioni L’evoluzione musicali, come tecnologica dimostra l’orista permettendo gine del blues, una costante la musica degli diffusione schiavi africadi musiche ni nelle regioni attraverso canali meridionali detelevisivi a pagamento, come gli Stati Uniti e, nella sua evolula popolarissima zione più colta, rete Channel O il jazz. Tutt’oggi, grazie anche alla facilità degli spostamenti e alle potenzialità dei mezzi di comunicazione, continuiamo ad assistere a passaggi, consegne, trasformazioni di culture musicali da un Paese all’altro che possono essere evidenziati seguendo alcune idee guida. Possiamo suddividere due modalità di «veicolazione» musicale: la prima è incentrata più sulla diffusione musicale di massa, mediante social network, canali televisivi e radio; la seconda si fonda sull’artista stesso che assorbe, rielabora e ripropone la musica, dando vita a percorsi personali e originali. 36 Popoli agosto-settembre 2014 Contaminazione globale Ovunque si sposti, l’uomo porta con sé i suoni della propria terra che si fondono e influenzano quelli del luogo che lo ospita. Nascono così percorsi musicali unici. Un processo che continua anche e soprattutto nell’era della globalizzazione, sfruttando le nuove tecnologie GLOBALIZZAZIONE TELEVISIVA L’evoluzione tecnologica sta permettendo una costante diffusione di generi musicali attraverso canali televisivi a pagamento che trasmettono musica commerciale 24 ore al giorno, come la popolare rete sudafricana Channel O (http://channelo.dstv.com/home)che propone video di musica afro-pop, hip-hop, r&b, dance, rap, kwaito e soul. I video, che mantengono una stretta relazione con la musica americana da cui la maggior parte dei cantanti e gruppi africani prendono ispirazione, presentano un sovraffollamento di belle ragazze tra balli sensuali (2Shotz, For The Ladies), luminarie di locali notturni (Loyal, Chris Brown ft. Lil Wayne & Tiga) o scenari bellici (Ragga Bomb with Ragga Twins). Lester Din, il marketing manager di Channel O (il cui canale è seguitissimo in Nigeria, Ghana, Kenya, Uganda e Tanzania) afferma che la programmazione In apertura, l’Orchestra di Piazza Vittorio. Sotto, Mayra Andrade, promettente cantante di origini capoverdiane. è «Made for Africa, in Africa, by Africans» («Creata per l’Africa, in Africa, da africani»). Un altro importante progetto, qualitativamente differente, si chiama Playing For Change. Sfruttando le potenzialità multimediali, si propone di mettere in relazione diversi continenti attraverso la musica; come si legge nella pagina Web, è «un movimento multimediale creato per ispirare, connettere e portare la pace nel mondo attraverso la musica». La sfida ha dell’incredibile: può la stessa canzone essere eseguita allo stesso tempo in differenti città del Chao), Stand by Me, War/No more Trouble scritta da Bob Marley e cantata anche da Bono degli U2, La Tierra del Olvido, ecc. Il movimento di Playing For Change, come suggerisce il nome, non solo si propone di promuovere un particolare modo di fare musica all’interno dei differenti Paesi ma, sfruttando la musica come linguaggio comune, desidera trasmettere un messaggio di pace e di convivenza. SONORITÀ METICCE Esistono poi percorsi individuali, personali, di ricerca e di speri- mondo, come Casablanca, Budapest, mentazione: musicisti che hanno Dakar, Kanchipuram, Buenos Aires, iniziato a studiare le musiche tradiNew Orleans da musicisti che suo- zionali nei rispettivi Paesi di originano i propri strumenti tradizionali ne e successivamente si sono rivolti ciascuno stando per strada o in un all’estero riuscendo, da una parte, a trasmettere la belparco o su una panchilezza e la particolarità na in mezzo alla gente? Musicisti hanno Attraverso questa mo- studiato le musiche delle proprie sonorità e, dall’altra, facendosi dalità di fare musica tradizionali nei contaminare musicalsono state rilette celebri Paesi di origine mente. canzoni come Clande- e poi si sono Ci riferiamo ad artisti stino (con la parteci- rivolti all’estero. come Habib Koité, nato pazione stessa di Manu Così hanno trasmesso le proprie sonorità e si sono fatti contaminare in Senegal ma vissuto in Mali, proveniente da una famiglia di griot, cantastorie dell’Africa occidentale. L’artista coniuga un percorso derivato dallo studio delle radici della musica maliana con la frequentazione più tecnica del National Institute National des Arts (Ina) di Bamako. Il risultato è uno stile innovativo con contaminazioni di blues e ritmi locali, che nel 1991 gli ha fatto vincere il primo premio al Festival Voxpole di Perpignan (Francia). Da questo momento Habib Koité inizia una serie di collaborazioni con musicisti come Eric Bibb (We don’t care) e Bonnie Raitt (Back Around) comparendo anche nel progetto Playing For Change nel brano United, esperienza che fanno conoscere il suo stile e la sua musica oltre i confini dell’Africa, sebbene il musicista continui a vivere e a suonare nel Mali. Un’altra artista che ha fatto della sua vita un affascinante e intenso viaggio musicale è Mayra Andrade, giovane e promettente cantante e compositrice capoverdiana che ha saputo accogliere e rileggere ritmi e tradizioni musicali di culture differenti. Per comprendere il suo modo di fare musica è necessario conoscere alcuni aspetti della sua vita: nasce a Cuba nel 1985, ma cresce a Capo Verde (Paese di origine della famiglia), successivamente vive in Senegal, Angola, Germania e Francia, dove risiede attualmente. Di ogni Paese nel quale ha vissuto ha saputo cogliere, oltre agli aspetti culturali e linguistici, la ricchezza sonora, creando un personale linguaggio musicale. Nelle sue note ritroviamo i ritmi capoverdiani, rimandi ai differenti stili brasiliani (dal choro alla bossa nova), accenni al fado portoghese, così come alla canzone d’autore francese: e questi sono solo alcuni degli ingredienti contenuti nelle canzoni di Mayra Andrade, che canta in creolo capoverdiano, francese, inglese e agosto-settembre 2014 Popoli 37 musica Habib Koité (a sinistra), cantante maliano, discendente da una famiglia di griot. portoghese. Una voce che sa accarezzare e amalgamare i tanti accenti musicali, sottolineando in ogni suo lavoro (sono quattro gli album finora pubblicati: Navega, Stória Stória, Studio 105 e Lovely Difficult pubblicato nel 2013) la bellezza di una musica che, pur mescolando sonorità diverse, mantiene viva la propria identità. ORCHESTRA INTEGRATA La musica si sposta con l’uomo e così in questi tempi di forti migrazioni possiamo assistere a formazioni di orchestre composte da strumentisti di passaggio, che La musica si suonano, contrasmette in taminano con maniera naturale la propria cule spesso tura la musica inconsapevole e poi magari ed è il primo ripartono per «biglietto da visita» che l’uomo altre città. Tra le più celebri in porge quando Italia ricordiaarriva o approda mo l’Orchestra in un altro Paese di Piazza Vittorio, a Roma. Così si legge nel sito dell’orchestra: «Diciotto musicisti che provengono da dieci Paesi e parlano nove lingue diverse. Insieme, trasformano le loro variegate radici e culture in una lingua singola, la musica. Questa è l’Orche- stra di Piazza Vittorio. Partendo dalla musica tradizionale di ogni Paese, mischiandola e intingendola con rock, pop, reggae e classica, si arriva alla sonorità unica dell’Orchestra. Tra musicisti che partono e altri che arrivano, cambia il suono dell’orchestra senza mai tradire la vocazione iniziale a sfide nuove e orizzonti aperti al mondo intero. Una fusione di culture e tradizioni, memorie, sonorità antiche e nuove, PER SAPERNE DI PIÙ Monografie >Baraka Amiri Il popolo del blues, Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz Shake 2011 >Francesco Fiore Orchestre e bande multietniche in Italia Editrice Zona 2013 38 Popoli agosto-settembre 2014 Pagine web >channelo.dstv.com/home >www.habibkoite.com >playingforchange.com >www.mayra-andrade.com > www.orchestrapiazzavittorio.it Film-documentari >Dal Mali al Mississippi (Feel Like Going Home) regia di Martin Scorsese, 2003 >L’Orchestra di Piazza Vittorio film-documentario di Agostino Ferrente, 2006 strumenti sconosciuti, melodie universali, voci dal mondo». Il fenomeno di queste orchestre si va diffondendo in tutta Italia, come viene evidenziato da Francesco Fiore nel suo libro: Orchestre e bande multietniche in Italia (Editrice Zona, 2013, pp. 110, euro 11). In base alle ricerche presentate nel testo, «ad oggi le orchestre sul territorio nazionale sono 19 di diverse estrazioni e generi musicali e con un numero di musicisti che varia dagli 8 ai 25 componenti per ogni ensemble. Le varie orchestre e bande multietniche presenti in Italia sono composte da circa 200 musicisti provenienti da 40 Paesi di 5 continenti». È complesso comprendere i processi di diffusione musicale (qui abbiamo delineato solo alcune prospettive), tuttavia possiamo constatare come la musica, nella sua accezione più alta, si trasmette in maniera naturale e spesso inconsapevole e potremmo sostenere che è il primo «biglietto da visita» che l’uomo porge quando arriva in un altro Paese. il fatto, il commento Il Sinodo sulla famiglia, una sfida al plurale I Jorge Costadoat SJ Gesuita cileno, professore di Teologia nella Pontificia Università Cattolica del Cile, è direttore del Centro teologico Manuel Larraín. Ha un suo blog - «Cristo en Construcción» all’indirizzo www.jorgecostadoat.cl n vista del Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e del Sinodo generale del 2015, entrambi dedicati alla famiglia, papa Francesco ha rivolto al popolo di Dio 39 domande. Nel momento in cui scriviamo si conoscono le risposte inviate dalle conferenze episcopali di Germania, Giappone, Austria, Svizzera, Belgio e Francia. La conclusione che emerge dalla lettura è lampante: quel che la Chiesa insegna non è quel che la Chiesa pratica. Non nel senso che i cattolici vivono in modo immorale. Il problema è la enorme distanza tra come i cattolici credono che la morale sessuale cattolica debba essere vissuta e l’insegnamento ufficiale della Chiesa. Secondo la Chiesa francese, «molte risposte evidenziano l’abisso esistente tra l’insegnamento della Chiesa e le scelte delle coppie che si dichiarano cattoliche». Questa distonia è particolarmente evidente con riferimento a tre temi. Uno riguarda la paternità responsabile: i cattolici, per la stragrande maggioranza, non seguono l’Humanae vitae. Secondo la Chiesa svizzera, «la proibizione dei metodi artificiali di contraccezione è molto lontana dalla pratica e dalle idee della maggioranza dei cattolici». Un secondo tema, oggi assillante, è l’esclusione dai sacramenti delle persone divorziate e risposate. Il divieto ecclesiastico è causa di enormi sofferenze per le persone che si sentono escluse, e spesso viene percepito come uno scandalo alla luce della misericordia evangelica. I tedeschi toccati da questo tema ritengono che «l’esclusione dai sacramenti come conseguenza di un nuovo matrimonio» costituisca una «discriminazione ingiustificata e crudele». La terza questione importante nella quale si manifesta una enorme frattura è la valutazione di altri modi di vivere la sessualità fuori dal matrimonio. La stragrande maggioranza dei cattolici non vede nessun problema nelle relazioni prematrimoniali e c’è una parte considerevole che è d’accordo con le unioni o i matrimoni omosessuali. Non spettava alle conferenze episcopali indicare una via d’uscita a questa situazione critica. Tuttavia, si può dire che una nuova impostazione dottrinale e pastorale dovrà tenere conto che i cattolici sono culturalmente molto diversi tra loro. Vivere la sessualità in Giappone, dove i cattolici sono lo 0,35% della popolazione e dove Quel che la Chiesa insegna rispetto alla famiglia non è quel che la Chiesa pratica, e ci sono differenze culturali enormi di cui tenere conto: è quanto emerso dal questionario in vista dei due Sinodi di ottobre 2014 e 2015 quasi non ci sono famiglie completamente cristiane, è diverso che in America Latina. Qui, dove pure c’è una radicata presenza storica del cristianesimo, bisognerà tener conto di come arriva a formarsi oggi la famiglia: la convivenza prima del matrimonio, ad esempio, è praticamente la norma nelle fasce più povere. Le risposte ai 39 quesiti spingono a sollevare una nuova, decisiva domanda: la Chiesa di papa Francesco elaborerà un progetto dottrinale e pastorale sulla sessualità e l’affettività umana più evangelico, cioè capace di portare la buona novella di Gesù fino all’ultimo degli esseri umani, considerato con riferimento all’epoca e al contesto in cui vive? Mentre questo numero di Popoli va in stampa, è stato diffuso il testo dell’Instrumentum Laboris del Sinodo di ottobre, redatto in base alle risposte delle conferenze episcopali di tutto il mondo. In questo documento ci si rende conto ancora una volta di quanto grande sia questa sfida teologico-pastorale per la gerarchia. Papa Francesco ha messo in gioco il suo pontificato. Sarebbe meschino pensare che le sue siano domande retoriche. I due Sinodi sulla famiglia dovranno prendere sul serio le risposte che arrivano dalla fede pratica dei cattolici di tutto il mondo. cina Davide Magni SJ T rento è una città che ha legato la sua storia a quella della Chiesa non solo per il Concilio del 1545-1564, ma anche per diverse figure religiose alle quali ha dato i natali. Una di esse è il gesuita Martino Martini, che il 20 settembre 1614 nasce da una facoltosa famiglia della città. Per noi occidentali sarebbe impossibile pensare la Cina senza il suo contributo. Se Matteo Ricci, infatti, fu il primo a far conoscere la cultura e le tradizioni occidentali ai cinesi, Martino Martini è unanimemente considerato colui che per primo fece conoscere la Cina agli europei. A questo suo illustre figlio, da molti anni Trento dedica risorse e attenzioni, coordinate principalmente dal Centro studi a lui intitolato (Csmm, centrostudimartini.it). Il quarto centenario della sua nascita è, quindi, un’occasione per onorarne l’opera. Giuseppe O. Longo, nella sua biografia su Martino Martini (cfr box), fa notare come quest’uomo di forte carattere e vasta dottrina, «sebbene abbia vissuto solo 47 anni, ci ha lasciato una produzione in Per giungere campo storico, in Cina, Martini geografico, lindeve far ricorso guistico, filosoa tutta la sua fico e religioso tenacia: dopo un davvero eccezioprimo tentativo nel 1638, arriva a nale, soprattutto se si tiene conto Macao due anni che 24 anni li dopo, ma solo nel 1643 entra in spese tra l’infanzia e gli studi e Cina, a Hangzhou 12 li passò sui mari, al confino, sequestrato dai pirati e in vari viaggi. Ne restano dunque solo una decina che passò in terra cinese, dedicandosi allo studio della lingua e della cultura, all’opera di educazione e di conversione e all’organizzazione e al rafforzamento della comunità cattolica di Hangzhou, pur tra disagi e pericoli gravissimi». Considerando 40 Popoli agosto-settembre 2014 Il mandarino di Dio A quattrocento anni dalla nascita, Martino Martini, gesuita e uomo di scienze nella Cina dei Ming al tramonto, resta un riferimento per il suo stile missionario e per l’apertura culturale che fecero scoprire l’Impero di mezzo agli europei dialogo e annuncio allora questi tempi e questi impegni, «è quasi incredibile la mole di lavoro che egli riuscì a svolgere in campo scientifico e ancora più incredibile è il silenzio che per tanti anni ha avvolto questa figura eccezionale e che solo di recente ha cominciato a dissiparsi». DESIDERIO DI MISSIONE Dopo avere frequentato il collegio dei gesuiti a Trento, nel 1632 Martino entra nel noviziato romano della Compagnia di Gesù, a Sant’Andrea al Quirinale. Il desiderio della mis- sione in Estremo Oriente nasce presto in lui e nel 1634 ne parla in una lettera al Padre generale, Muzio Vitelleschi. Quando la sua richiesta è accolta, focalizza la sua preparazione soprattutto nelle materie scientifiche, facendo tesoro dell’esperienza dei gesuiti che prima di lui sono partiti per la Cina. Di particolare importanza sono i corsi che segue al Collegio romano e fondamentale è l’incontro con Athanasius Kircher (1601-1680), uomo di sconfinati interessi, tra cui la sinologia, e con il quale Martini mantiene un’intensa corrispondenza. Per giungere in Cina, però, deve far ricorso a tutta la sua tenacia: il primo tentativo risale al settembre 1638, ma alla prima meta, Macao, arriva solo nell’agosto 1640. Tre anni più tardi, finalmente, entra in Cina, a Hangzhou. Lo accompagna il superiore provinciale, Giulio Aleni (cfr Popoli 12/2013). Sono anni molto difficili e turbolenti per l’Impero di mezzo: nel 1646, con la Anche Martini morte dell’ultideve affrontare un mo imperatore viaggio in Europa della dinastia per cercare di far Ming, inizia capire, non solo l’era dei Qing, alle Congregazioni provenienti romane, ma anche dalla Manciuagli intellettuali ria, l’ultima dieuropei, la nastia dell’Imcomplessità della pero destinato situazione in Cina a crollare all’inizio del Novecento. I gesuiti si trovano, quindi, in mezzo ai lunghi e devastanti scontri del periodo di transizione, che non li lasciano indenni. Martini offre una descrizione dettagliata di questi conflitti nel suo De Bello Tartarico Historia, pubblicato nel 1654 ad Anversa. Per i suoi contributi scientifici, applicati anche alla difesa militare della nazione, Martini è nominato mandarino poco prima della caduta dei Ming. Ma questo scatena diffidenze, come dimostrano alcuni sprezzanti commenti da parte di missionari degli ordini mendicanti. INIZIATIVE L a Biblioteca del Pime di Milano (via Mosè Bianchi 94) organizza, in collaborazione con Csmm e Centro di Cultura Italia-Asia, un ciclo di iniziative dedicate al gesuita nel quarto centenario della nascita. > 9 ottobre, ore 18 - Martino Martini: dialogo di culture tra Europa e Cina > 18 ottobre, ore 18 - Spettacolo teatrale Il Mandarino di Dio > 23 ottobre, ore 18 - Confucianesimo e Cristianesimo: nuovi valori nella Cina di oggi? > 6 novembre, ore 18 - Il Novus Atlas Siagosto-settembre 2014 Popoli nensis: una nuova descrizione del41Celeste Impero e del Giappone cina Frontespizio del Novus atlas sinensis di Martino Martini (1655). Nelle pagine precedenti, una mappa dell’Atlante. LA QUESTIONE DEI RITI Come i suoi successori, anche Martini deve affrontare un viaggio di rientro in Europa per cercare di far capire, non solo alle Congregazioni romane di Propaganda Fide e del Sant’Uffizio, ma anche agli intellettuali europei, la complessità della situazione in Cina e la ragionevolezza della metodologia adottata dai gesuiti, a partire da Alessandro Valignano (15391606). Questa La sua fama era consideradi scienziato e cartografo è legata ta da molti uomini di Chiesa alla pubblicazione di quel tempo del Novus Atlas una demoniaSinensis, avvenuta ca eresia. ad Amsterdam nel Come annota 1655, un’opera Longo nelsenza precedenti la biografia, per le illustrazioni «Martini era del Celeste Impero riuscito a portare a buon fine il delicato e importantissimo compito che gli era stato affidato dai superiori presso il Sant’Uffizio: difendere la posizione della Compagnia di Gesù nella controversia con gli ordini mendicanti sui riti cinesi. La posizione intransigente dei francescani e dei domenicani, che volevano bandire del tutto le tradizioni rituali dei cinesi, considerate alla stregua di ingenue e pericolose superstizioni, e la loro rigidità in termini di presentazione della dottrina cristiana, per cui le verità di fede dovevano essere esposte tutte e subito, anche nei loro risvolti più incomprensibili ai cinesi, minacciavano di compro- PER SAPERNE DI PIÙ >Longo G. O. Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini, Springer 2010 >Longo G. O. Il Mandarino di Dio. Un gesuita nel Celeste Impero (dramma in tre scene) Centro Studi 42 Popoli agosto-settembre 2014 Martino Martini 2007 mettere i risultati ottenuti a fatica del Novus atlas sinensis, avvenuta ad Amsterdam nel 1655 per i tipi dai gesuiti». Durante il soggiorno in Europa, dell’editore Blaeu. Dedicato a Leoprotrattosi per quasi quattro anni, poldo Guglielmo, allora governatore Martini incontra numerosi lettera- austriaco del Belgio, l’Atlante di ti, scienziati, nonché alcuni editori Martini è un’opera eccezionale per olandesi interessati alla pubblica- vastità, erudizione e ricchezza di zione dei suoi libri. Il gesuita porta particolari, e sopravanza tutte le con sé molto materiale documenta- precedenti illustrazioni del Celeste rio, storico e geografico, che apre Impero, rimanendo ineguagliato per agli europei un ampio e insospet- quasi due secoli. L’opera è preceduta tato panorama sul mondo cinese. due anni prima dalla Grammatica Illustrando in una serie di confe- Sinica, in cui, per primo, riassume renze quella vasta parte del mon- le principali caratteristiche grammaticali della lingua do quasi sconosciuta e cinese e pone le fondaancora ammantata di Se Matteo Ricci menta per lo studio di leggende, Martini con- fu il primo a questa lingua in Eurotribuisce a rendere la far conoscere pa. Dal 1661 le spoglie Cina un Paese «reale». l’Occidente ai sono conservate nella La sua fama di scien- cinesi, Martini è sua Hangzhou, vicino a ziato e cartografo è le- unanimemente gata alla pubblicazione considerato colui Shanghai. che per primo fece conoscere la Cina agli europei brasile I semi di dom Hélder Moriva il 27 agosto di 15 anni fa Hélder Câmara, uno dei vescovi latinoamericani più amati, grazie alla sua passione per una Chiesa povera e dei poveri, alla sua attenzione per le persone e alla sua fede incarnata. Il ritratto di un pastore che può essere certamente considerato un precursore di papa Francesco Gerolamo Fazzini Recife (Brasile) «I l vescovo rosso Câmara sulla via della beatificazione», strillava Il Messaggero del 29 maggio scorso. Un titolo che la dice lunga su come una parte dell’opinione pubblica ha accolto la notizia dell’imminente apertura del processo canonico che potrebbe portare sugli altari dom Hélder Câmara, arcivescovo di Olinda-Recife. Tra i protagonisti della storia recente (non solo ecclesiale) dell’America Latina, Câmara stesso, per tutta la sua vita, ha dovuto fare i conti con quella pesante etichetta: «Quando do da mangiare a un povero mi chiamano santo è una delle sue frasi passate alla storia -, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora mi chiamano comunista». Curioso: anche papa Francesco, Per tutta la vita rispondendo alha manifestato le domande di una premura per un gruppo di gli ultimi che, giovani belgi, prima ancora di pochi mesi fa assumere i toni aveva chiarito: della denuncia «Ho sentito che sociale, si faceva una persona ha attenzione alle detto: con tutto persone in gesti questo parlare semplici dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, la povertà senza ideologia; i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù». Ecco: se c’è un motivo per cui valga la pena oggi, a 15 anni esatti dalla morte, rievocare la figura di dom Hélder - nato nel 1909 e morto il 27 agosto 1999 -, è la sua passione per i poveri, il suo straordinario impegno per rendere la Chiesa più fedele a quella di Gesù: «Una Chiesa povera per i poveri». In questo si può affermare, senza tema di smentite, che Câmara ha anticipato papa Bergoglio. agosto-settembre 2014 Popoli 43 brasile IL PICCOLO VESCOVO Ne riceviamo ripetute conferme a Recife. La Igreja das Fronteiras, presso cui era la residenza di Câmara, è ancora oggi il cuore pulsante della sua memoria. Sulla piazza antistante una statua del «bispinho» («piccolo vescovo», com’era soprannominato), ti accoglie a braccia aperte. A lato ha sede l’Instituto dom Hélder Câmara. Qui incontriamo uno dei membri, un’anziana ma lucida signora, Bete Barbosa, che cura le pubblicazioni di Câmara: «In molti atteggiamenti e parole di papa Francesco - dice ritroviamo accenti simili a quelli di dom Hélder. A cominciare dalla premura per le persone, per i loro bisogni». Le fa eco Luis Tenderini, 70 anni, italiano di origine, ma in Brasile da oltre 40 anni. A lungo braccio destro di Câmara in diocesi e fondatore di Emmaus Recife su incoraggiamento dello stesso dom Hélder, ci fa da guida preziosa e racconta: «Del primo incontro personale con lui, nel luglio 1979, quando mi invitò a collaborare nell’attività pastorale, ricorderò sempre il gesto finale: terminato il colloquio, mi accompagnò al portone d’uscita, aspettando che girassi l’angolo prima di rientrare. Più tardi ho scoperto che faceva la stessa cosa con chiunque lo visitasse». Un altro tratto che accomuna de- cisamente l’attuale Papa e il «ve- le, si configurava come attenzione scovo rosso» è lo stile di sobrietà alle persone in gesti semplici. In estrema e la distanza siderale da proposito, ecco una preziosa testiquella mondanità che Bergoglio monianza di Marcelo Barros, abate non smette di indicare come uno benedettino e teologo della liberadei mali della Chiesa attuale. Oggi zione, collaboratore di dom Hélder fa colpo la decisione per 12 anni: «In ogni di Francesco di vivere Anche la tomba fratello e sorella che in un modesto alloggio di Câmara parla incontrava lui vedeva a Santa Marta, rinun- di essenzialità: la presenza divina ciando al tradizionale una semplice ha scritto tempo fa su appartamento pontifi- lastra di marmo Nigrizia -. Una volta cio. Ma dom Câmara chiaro, su cui alla settimana ci riuniaveva fatto lo stesso, sono incisi solo il vamo a casa sua. Menanni prima, deciden- nome e le date di tre parlavamo, molte do di prendere dimora nascita e morte, persone bussavano alin due modesti locali con una colomba la porta. Egli stesso si adiacenti alla Igreja stilizzata alzava e le riceveva. das Fronteiras (vedi A volte si dilungava box). nell’ascolto. Diceva: Anche la tomba di “Ci tengo a riceverli Câmara parla di essenzialità: una personalmente, perché non voglio semplice lastra di marmo chiaro, perdere il privilegio di accogliere su cui sono incisi solo il nome il Signore stesso”». e le date di nascita e morte, con una colomba stilizzata. È collocata PROTAGONISTA DEL CONCILIO nella cattedrale di Olinda, antica È interessante osservare come, al città coloniale a pochi chilometri pari di Oscar Romero, altro gigante da Recife. Da quella chiesa, oggi della Chiesa latinoamericana, anmeta di pellegrini e turisti, si gode che monsignor Câmara abbia peruna vista spettacolare sulla città corso un cammino personale di sottostante e sull’intera baia. «conversione», prima di prendere le Ancora. Papa Bergoglio parla dei posizioni coraggiose che conosciapoveri come della «carne di Cri- mo. Nato in una famiglia numesto». Câmara, per tutta la sua vita, rosa, era cresciuto in un ambiente ha manifestato una premura per ecclesiale piuttosto conservatore. gli ultimi che, prima ancora di as- Ordinato sacerdote nel 1931, si consumere i toni della denuncia socia- verte ai poveri quando, nel 1952, diventa ausiliare del cardinale di Rio de Janeiro: è in quel periodo I PREMI E L’AMACA che il giovane e dinamico vescovo a canonica di dom Hélder Câmara oggi è diventata un museo. Più ancora della si conquista sul campo il soprannocattedrale di Olinda, dove si trova la tomba, è lì che ogni domenica una piccola me di «vescovo delle favelas». folla si raduna per vedere il piccolo studio del bispinho, con la biblioteca (dove camIl carisma di dom Hélder si dilata peggiano ancora volumi di Guitton, De Lubac, M.L. King, Frère Schutz, Garaudy) e la presto fuori dai confini della città. camera, dove ancora è appesa la coloratissima amaca che egli usava negli ultimi Nel 1952 è tra i promotori della tempi per dormire. Conferenza episcopale brasiliana, Al piano superiore è stata allestita da poco tempo un’esposizione permanente di di cui diventa segretario per 12 oggetti che raccontano la vita intensa di questo personaggio, tra le voci più autoanni. Tre anni dopo, lancia la conrevoli al mondo nella denuncia delle ingiustizie e del sottosviluppo. Lo attestano i vocazione a Rio della prima Confenumerosissimi riconoscimenti internazionali, dalle medaglie alle cittadinanze onorenza dei vescovi latino-americani, rarie, alle lauree honoris causa di svariate istituzioni accademiche di tutto il mondo, da cui nascerà il Celam (Consiglio conservati nel piccolo museo. episcopale latinoamericano). L 44 Popoli agosto-settembre 2014 Milano, novembre 1972: migliaia di persone riempiono il Palazzetto dello Sport per ascoltare Hélder Câmara, già noto a livello mondiale. Nel 1964 - anno del golpe che instaura il regime militare in Brasile - Câmara viene nominato arcivescovo di Recife, capitale del Pernambuco, nel Nord-Est, la regione più povera del Paese. Il giorno dell’ingresso ufficiale, il nuovo arcivescovo non vuole essere accolto dentro la cattedrale, ma sulla piazza, in mezzo alla gente. Negli anni successivi l’impegno di dom Hélder a servizio dei più deboli continuerà senza sosta, con prese di posizione coraggiose che lo renderanno famoso in tutto il mondo. Una frase riassume efficacemente il senso profondamente evangelico delle sue battaglie: «La rivoluzione sociale di cui il mondo ha bisogno non è un colpo di Stato, non è una guerra. È una trasformazione profonda e radicale che suppone Grazia divina». Pur senza prendere mai la parola durante le sessioni di lavoro, fu uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II, tra gli ispiratori del famoso «Patto delle catacombe»; per comprenderne il ruolo cruciale basta leggere le sue circolari raccolte in Roma, due del mattino (San Paolo 2011). Nel 1970 il Sunday Times arrivò a definire dom Hélder «l’uomo più influente dell’America Latina dopo Fidel Castro». Il paradosso è che l’interessato non aveva progettato una «carriera» da profeta. Anzi, all’età di 34 anni, in un momento di sconforto, aveva scritto: «Attraverserò la vita senza lasciare nessun segno incisivo. Guarderò da lontano san Francesco Saverio senza poterlo imitare. Ancor più da lontano guarderò san Francesco d’Assisi. Al mio funerale qualcuno dirà che non ho prodotto tutto quello che avrei potuto produrre». Oggi sappiamo bene che non è così: Câmara, infatti, va annoverato fra coloro che hanno impresso una svolta decisiva alla Chiesa del nostro tempo. Bastino queste ultime parole a mostrarne l’attualità: «Se Marx avesse visto intorno a sé una Chiesa incarnata, continuatrice dell’incarnazione di Cristo; Nel 1964, se avesse vissuquando Câmara to con cristiani fece il suo che amavano, in ingresso ufficiale modo reale e con nella diocesi di i fatti, gli uomiOlinda-Recife, ni come espresnon volle essere sione per eccelaccolto dentro lenza dell’amore la cattedrale, ma di Dio, se avesse sulla piazza, in vissuto nei giormezzo alla gente ni del Vaticano II, che ha riassunto tutto ciò che di meglio dice e insegna la teologia circa le realtà terrene, Marx non avrebbe presentato la religione come l’oppio dei popoli e la Chiesa come alienata e alienante». agosto-settembre 2014 Popoli 45 storia Il ritorno dei gesuiti Il 13 agosto 1773 papa Clemente XIV decretò lo scioglimento della Compagnia di Gesù raccogliendo i pressanti inviti delle monarchie borboniche. Ma l’Ordine sopravvisse in alcuni Regni e nel 1814 Pio VII lo ricostituì riconoscendo la validità dell’ideale di Ignazio Guglielmo Pireddu SJ * S e volessimo individuare le cause della soppressione della Compagnia di Gesù consultando il «breve» apostolico Dominus ac Redemptor (il documento con il quale papa Clemente XIV ne decretò lo scioglimento) resteremmo delusi. Vi troviamo l’elenco di casi in cui la Santa Sede ricorse a misure analoghe verso altri ordini religiosi, si ricordano le controversie che videro coinvolta la Compagnia, ma si tratta prevalentemente di comportamenti individuali, non sufficienti a motivare una scelta simile. Forse solo il paragrafo 22 può essere indicativo: «Ogni giorno risuonarono più alti i clamori e le lagnanze […]. Il danno e il pericolo giunsero a tal punto, che […] i Nostri carissimi figliuoli in Cristo i Re di Francia, di Spagna, di Portogallo e delle Due Sicilie sono stati costretti a licenziare ed espellere i Soci dai loro Regni […]; ritenendo che questo fosse l’estremo rimedio contro tanti mali». Il testo è illuminante: si sostiene che, a causa delle continue lagnanze pervenute dai sovrani borbonici, il Pontefice si trovò costretto, pur di riportare la pace nella cristianità, a sopprimere l’Ordine tanto vituperato. È esattamente così? Se anche fosse, ci 46 Popoli agosto-settembre 2014 troveremmo di fronte a una ragione di natura prettamente politica, non pastorale. A questo punto è d’obbligo entrare nel merito della questione, facendo un salto indietro, giacché per comprenderne il contesto è necessario rivedere le singole espulsioni che precedettero e prepararono la soppressione universale. Occorre, dunque, secondo la linea prospettata dallo storico gesuita Joseph Benítez, esaminare un insieme di concause di tipo ideologico, sociale, politico. In questo quadro vanno distinte le cause generali da quelle particolari in ciascuno dei singoli Stati teatro dell’espulsione. Le cause generali sono riconducibili al giurisdizionalismo monarchico, alleatosi con lo spirito illuministico; questi elementi cercarono di erodere la giurisdizione della Chiesa, per cui la vicenda va inquadrata dei confessori di corte, le tesi sul all’interno del deterioramento nei regicidio e la «polemica» antigesurapporti Chiesa-Stato. itica. Inoltre, in esse è opportuno Invece, le cause particolari van- distinguere tra cause strutturali e no identificate nelle querelles che congiunturali. Ad esempio, cause coinvolgevano la Comstrutturali furono la ripagnia, cioè le contro- La Compagnia forma amministrativa versie sulla Grazia e si trovò della monarchia spasul Giansenismo, sul ad affrontare gnola in senso regalista monopolio pedagogico nemici o la mentalità gallicana dei gesuiti, sul probabi- disparati della Chiesa francese. lismo, sui riti malaba- che deposero Invece cause congiunrici e cinesi, sul ruolo le loro inimicizie turali furono l’attentato per fare fronte comune per la sua dissoluzione Da Ignazio a Francesco/7 a Giuseppe I nel Portogallo, il crac La Valette in Francia, e una rivolta popolare in Spagna. A questi fattori va aggiunta l’ostilità delle corti borboniche verso un ordine religioso che sfuggiva al loro controllo. La somma di tutte queste concause spiega l’avversione generale verso la Compagnia. A questo punto, risultò determinante l’influenza che le corti borboniche esercitarono su Clemente XIV, in un momento estremamente delicato. ATTRITI ED ESPULSIONI Prima di esaminare la soppressione in sé, vanno ricordate le espulsioni locali dei gesuiti. La prima avvenne in Portogallo nel 1759 a opera del primo ministro, futuro marchese di Pombal. Le ostilità iniziarono con la revisione dei confini fra Brasile e Paraguay, con gravi ripercussioni sulle reducciones gesuitiche (cfr Popoli, n. 3/2014). Seguì una produzione libellistica in cui si denunciava la rapacità dei gesuiti, una dura polemica con il padre Gabriele Malagrida; aggiungiamoci l’attentato al re Giuseppe I, al quale fu fatto credere che i gesuiti ne fossero gli ispiratori. Fu così che Pombal ottenne il decreto di espulsione dei gesuiti dell’Assistenza di Portogallo. Non tutti, però, ebbero la fortuna di essere espulsi e di riparare nello Stato pontificio; 27 di essi furono immediatamente giustiziati, altri 88 si spensero durante la detenzione in carcere. agosto-settembre 2014 Popoli 47 storia Dopo il Paese lusitano fu la volta della Francia, dove la Compagnia aveva uno stuolo di nemici: enciclopedisti, gallicani e giansenisti. La miccia fu accesa dallo scandalo finanziario provocato dal gesuita Antoine La Valette, superiore Secondo della missione Lacouture, la della MartiniCompagnia, ca. Nel procespresentava un so che si aprì aspetto moderno fu accettata la di superamento giu r isd i zione degli interessi del Parlamento nazionali, andando di Parigi. Quecontro le istanze sto, ostile alla centralizzatrici dei Compagnia, ne sovrani assolutisti approfittò per intentarle un processo politico-religioso. Furono condannate le opere di diversi teologi gesuiti e si ordinò la chiusura dei 105 collegi. Fu in quest’occasione che il cancelliere propose alla Compagnia di salvarsi a patto di riformarsi in senso «gallicano». La proposta sarebbe stata rifiutata a Roma da Clemente XIII con la famosa (ma leggendaria) frase: «Sint ut sunt, aut non sint» («Siano come sono o non siano»). Si giunse così al decreto di scioglimento della Compagnia in Francia nel dicembre 1764. In Spagna l’espulsione giunse ina- spettata nel 1767. Fu naturale chiedersi come mai Carlo III, estimatore della Compagnia, avesse assunto un atteggiamento così ostile. Oggi la ricerca storica ha individuato una cerchia di uomini, vicini al sovrano, che ne orientò le decisioni. In Spagna va rilevato poi un forte isolamento ecclesiastico della Compagnia, causato dall’atteggiamento eccessivamente trionfalistico dei gesuiti. La scintilla che fece scoppiare l’incendio fu una protesta popolare. Riunito il Consiglio di Castiglia, il conte di Campomanes presentò al re il Dictamen Fiscal, un documento in cui s’insinuava la tesi che i gesuiti fossero gli istigatori della rivolta, e che la struttura della Compagnia fosse incompatibile con la monarchia. Emesso il decreto di espulsione, l’esercito arrestò i gesuiti delle 142 comunità spagnole e li imbarcò con destinazione Civitavecchia. Avvenne che Clemente XIII, per protestare contro l’espulsione, negò lo sbarco; i gesuiti furono allora relegati a Bonifacio in Corsica, dove dimorarono più di un anno in condizioni avverse, fin quando fu loro concesso di riparare negli Stati pontifici. A seguire, anche le altre corti borboniche emisero decreti analoghi. le parole dI papa FRANCESCO I l cuore di Cristo è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato». Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati». Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudine! [...] Noi siamo uomini in tensione, siamo anche uomini contraddittori e incoerenti, peccatori, tutti. Ma uomini che vogliono camminare sotto lo sguardo di Gesù. Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Dall'omelia pronunciata da Papa Francesco nella Chiesa del Gesù (Roma), il 3 gennaio 2014, ricorrenza del Santissimo Nome di Gesù. In quella data sono iniziate le 48 Popoli agosto-settembre 2014 celebrazioni per il II centenario della Ricostituzione della Compagnia (1814). Così furono espulsi dal Regno delle Due Sicilie (1767) e, in seguito, dal Ducato di Parma e Piacenza e da Malta (1768). In pratica, in Europa, nel giro di pochi anni, i gesuiti si ritrovarono presenti unicamente nel Regno d’Austria, in Polonia (dove la compagnia fu dissolta nel 1772), nel Regno di Sardegna, nella Repubblica di Venezia, nelle corti tedesche e nei cantoni svizzeri, oltre che, ovviamente, nello Stato pontificio. LA SOPPRESSIONE… Clemente XIII mantenne un atteggiamento di rifiuto delle richieste borboniche. Sennonché, morto improvvisamente il Papa nel 1769, i Borbone considerarono elemento imprescindibile per l’accettabilità di una candidatura al papato che il prescelto possedesse sentimenti avversi ai gesuiti; perciò i loro ambasciatori esercitarono pressioni per ottenere l’elezione di un candidato con queste caratteristiche. Fu così eletto il cardinal Lorenzo Ganganelli, francescano conventuale, che prese il nome di Clemente XIV. Questi intuì che non era Pontefice solo dei Regni borbonici, ma anche di Paesi in cui la Compagnia era stimata e che demolirla avrebbe comportato ripercussioni. Il che spiega i quattro anni intercorsi tra l’elezione papale e la soppressione. Anni in cui la situazione politica mutò, con l’indebolimento delle monarchie filo gesuitiche. Si aggiunga la pressione incessante dell’ambasciatore madrileno, José Moñino Conte di Floridablanca, e si giunse così alla redazione del breve atto di soppressione, Dominus ac Redemptor, firmato dal Pontefice il 13 agosto 1773. Come già accennato, nel documento si sostiene che la Compagnia di Gesù, fin dal suo nascere, fu coinvolta in vari contrasti. Non si tralascia inoltre di menzionare le polemiche teologiche e le accuse d’ingerenza Da Ignazio a Francesco/7 A sinistra, Clemente XIII, il Pontefice che soppresse la Compagnia. A destra, Caterina di Russia che protesse i gesuiti. negli affari politici. Compare un elenco delle occasioni di tensione che si ebbero tra la Compagnia e i Pontefici. Infine si insinua la tesi che i sovrani si videro costretti a espellere i gesuiti quale unica soluzione. Il breve apostolico desta diverse perplessità: l’abbandono a un destino penoso di uomini che avevano dedicato la vita alla difesa del Papato, il fatto che il Papa sia ricorso a un breve apostolico piuttosto che a una bolla, l’assenza di qualsiasi consultazione canonica, la mancanza di qualsiasi accenno a benemerenze dell’Ordine; compare, invece, il divieto di non commentare in alcun modo il breve apostolico. A ben vedere, non emergono quelle prove inoppugnabili che ci si aspetterebbe di trovare. Sembrerebbe che l’Ordine sia soppresso non per reale colpevolezza, bensì per recuperare il consenso pontificio tra i sovrani cattolici. Tuttavia, questa non è una prova della perversione dell’Ordine, 273 stazioni missionarie, 176 semima solo una motivazione politica. nari, 1.277 chiese. Il fatto poi che il breve apostolico Senz’altro gli ambiti maggiormente non fosse promulgato colpiti furono le misuniversalmente, ma ne Il breve sioni (la Compagnia venisse demandata la apostolico non con i suoi cinquemila notifica tramite i ve- fu promulgato missionari era l’Ordiscovi, fece sì che alcuni universalmente, ne più impegnato su sovrani si avvalessero ma demandò questo fronte), quello dei loro poteri di giuri- la notifica ai della formazione del sdizione per vietarne la vescovi, ciò clero (seminari) e l’edupromulgazione. Il che permise la cazione della gioventù permise la continuità continuità della (collegi). della Compagnia di Ge- Compagnia in Ragionando sui dati a sù nella Russia Bian- Russia e Prussia disposizione, s’intuisce ca (dove, grazie alla che la cacciata dei gezarina Caterina II, fu suiti dai possedimenti preservato quel nucleo spagnoli comportò che che avrebbe poi ricomposto la Com- 500mila indigeni rimasero senza pagnia) e in Prussia. supporto spirituale in Sudamerica e Ma qual era la consistenza della nelle Filippine. Anche le espulsioni Compagnia soppressa? Abbiamo la portoghese e francese avevano prostima del 1749: in quel momento curato seri problemi alle missioni essa contava 22.589 membri, sparsi in India, Brasile, Macao, Quebec, in 1.180 residenze in tutto il mon- Louisiana e nelle colonie africane. do, da cui dipendevano 669 collegi, Stime precise è impossibile farne, si agosto-settembre 2014 Popoli 49 storia La cattedrale di Santarém (Portogallo). Costruita dai gesuiti, dopo la soppressione dell’Ordine divenne seminario diocesano. può desumere che, data la mancanza di altri religiosi che potessero sostituire i gesuiti, centinaia di missioni furono abbandonate. …E LA SOPRAVVIVENZA In Prussia si mantenne una presenza dei gesuiti, ma solo sino al 1776, anno in cui fu concesso il placet alla pubblicazione del breve apostolico. Più rilevante fu invece la persistenza in Russia. Qui la spartizione della Polonia aveva «portato in dote» circa 200 gesuiti. L’imperatrice Caterina II stimava il loro apostolato culturale, per questo motivo si rifiutò di promulgare il breve apostolico. Il provinciale Czerniewicz consultò il pontefice Pio VI, nel frattempo succeduto a Clemente XIV, sul da farsi. La risposta papale rappresentò una tacita approvazione della presenza dei gesuiti. In seguito Czerniewicz, nominato vicario generale, ampliò il nucleo russo della Compagnia, tramite l’ammissione di diversi ex gesuiti. Nel 1783 ottenne una triplice approvazione orale circa l’esistenza di questo nucleo della Secondo Compagnia. In lo storico seguito, sotto il Giacomo Martina, nuovo zar Pala soppressione olo I, i gesuiti dei gesuiti ottennero dal era parte di un disegno volto Pontefice il 7 maggio 1801 a subordinare con il breve la Chiesa Catholicae fidei al potere il primo ricoassolutista noscimento ufficiale della loro esistenza. Per quanto riguarda l’Italia occorre ricordare che già dal 1793 si era costituita nel Ducato di Parma una Viceprovincia annessa alla Provincia russa, dal 1796 guidata da padre Panizzoni. Il primo ristabilimento ufficiale si ebbe nel Regno delle Due Sicilie con il breve Per alias (1804). Sotto la guida del nuovo provinciale Pignatelli i gesuiti italiani si recarono a Napoli ristabilendovi la 50 Popoli agosto-settembre 2014 Compagnia. Cacciati da Napoli nel 1806, si stabilirono a Roma. Dopo la morte di Pio VI (1799) gli successe Pio VII; questi poté rientrare dall’esilio a Roma nel maggio 1814 e subito si attivò per il ristabilimento della Compagnia. Il 7 agosto 1814 fu così emanata la bolla Sollicitudo omnium ecclesia rum (che decreta la ricostituzione della Compagnia di Gesù in tutti gli Stati). Interessante notare le motivazioni della ricostituzione. Emerge infatti come il Pontefice la pensi in funzione «restauratrice» per avvalersi di «rematori forti ed esperti» da opporre al liberalismo anticlericale. Il che spiega come mai, almeno in Europa, la Compagnia ottocentesca sia stata caratterizzata da un orientamento prettamente conservatore. Secondo lo storico Giacomo Martina la soppressione dei gesuiti costituì una vittoria del regalismo giurisdizionalista. L’attacco contro la Compagnia fece parte di un disegno volto a subordinare la Chiesa al potere assolutista. Jean Lacouture propone un’interessante chiave di lettura, individuata nell’universalismo gesuitico. La Compagnia fu infatti sempre connotata da un’impostazione internazionalista (mai Ignazio pensò di farsi portavoce delle istanze iberiche!). Quest’autonomia gesuitica cozzava con quella concezione secondo la quale, sotto l’insegna del nazionalismo, si celava la pretesa di controllare gli aspetti interni della vita ecclesiastica. Da questo punto di vista la Compagnia presentava un aspetto moderno di superamento degli interessi nazionali, andando contro le istanze centralizzatrici dei sovrani assolutisti. In questa lotta, tesa a indebolire l’autorevolezza della sede petrina, era indispensabile abbattere i paladini dei diritti papali: i gesuiti. Che poi i mandanti siano stati quei sovrani di cui la Compagnia veniva accusata di acquiescenza è un altro aspetto paradossale della vicenda. Dall’esame delle concause che condussero alla soppressione, risulta semplicistico individuare in un unico agente il movente della stessa. La Compagnia si trovò ad affrontare nemici tanto disparati, che deposero le loro inimicizie per fare fronte comune per la sua dissoluzione. Tuttavia fu con la sua dissoluzione che si avvertì quanto l’ideale di Ignazio fosse ancora valido, attuale, e meritevole di una completa riabilitazione, nella Chiesa e fuori da essa. * Gesuita e storico La serie «Da Ignazio a Francesco» è iniziata nel numero di gennaio di Popoli e continuerà per tutto il 2014. Da Ignazio a Francesco/7 Gesuiti oggi Peter Zahoránsky Piešt’any (Slovacchia) destino Ján Chryzostom Korec, di essere accolto tra i gesuiti, perché ono nato nel 1950 in una sapevo che, anche se ufficialmente famiglia profondamente cre- soppressi, continuavano a operare. dente. In quello stesso anno, Egli, in modo secco, mi disse: «Prelo Stato abolì tutti gli ordini religiosi ga, e se non cambierai idea entro in Cecoslovacchia. I loro membri un anno, chiedimelo di nuovo». Non furono internati nei campi di lavoro cambiai idea e fui accettato. e più tardi molti di loro, insieme a Dopo la laurea, iniziai a lavorare tanti laici cattolici, furono condan- in un ospedale di una città diversa nati a lunghe detenzioni in carcere da quella dei miei genitori, così che e qualcuno anche a morte. Un mio nessuno potesse intuire che studiavo zio medico, Silvester Krčméry, fu clandestinamente. Ciascuno di noi condannato a quattordici anni di gesuiti in formazione abitava da solo. prigione perché organizzava attività Mentre lavoravamo abbiamo studiadi apostolato tra i laici e mio padre to i «samizdaty» (testi di letteratura passò tre anni in carcere per la sua teologica, filosofica, religiosa e spiritestimonianza di cattolico tra gli tuale, diffusi di nascosto, ndt) e opere di letteratura straniera procurate operai. Negli anni Sessanta in Cecoslovac- illegalmente. Seguivamo le lezioni chia si verificò una certa distensione che ci faceva una volta al mese padre della politica antireligiosa e alcuni Emil Krapka o un altro gesuita. La condannati furono riabilitati. Grazie Compagnia garantiva la formazione a questo clima, potei essere ammesso gesuitica, di cui era responsabile alla facoltà di Medicina. Già durante padre Karol Durček. Ci incontravamo il liceo, anche io facevo apostolato circa una volta al mese, sempre in un nei limiti del possibile. Tutto si svol- appartamento diverso, e discutevageva in modo discreto: esisteva per- mo i testi studiati. fino una barzelletta in proposito: «Si Anche l’ordinazione sacerdotale fu possono riconoscere i cattolici perché rigorosamente clandestina: in una vanno in gruppo e fingono di essere chiesa chiusa al pubblico, ci trovammo solo noi candidati all’ordinazione poco visibili». Ci incontravamo in appartamenti, (eravamo quattro), padre Durček, cospesso cambiavamo luoghi di incon- me testimone per conto della Compatro e costituivamo solo piccoli grup- gnia di Gesù, e il vescovo clandestipi. Lo Stato non tollerava nessuna no Peter Dubovský. Nessuno doveva struttura che aiutasse la crescita reli- essere a conoscenza dell’ordinazione, giosa della gente e nello stesso tempo neppure i nostri genitori i quali reconfinava la fede a una dimensione starono a lungo ignari del fatto che eravamo religiosi. rigorosamente privata. Per due anni ho celebraGià in quel periodo sento la Messa da solo e di tii una certa spinta alla «Dopo essere nascosto nel mio apparvocazione spirituale, ma diventato prete, tamento. Trascorso quel cercavo di respingerla. per due anni periodo, durante il quale Solo alla fine degli stu- ho celebrato di di di medicina chiesi al nascosto in casa la notizia è rimasta segreta, ho potuto iniziare mio padre spirituale, il prima di potere gesuita e vescovo clan- iniziare a operare a operare clandestina- S come sacerdote. Nessuno doveva sapere da dove venissi» mente come sacerdote: dirigere gli esercizi spirituali, confessare e guidare spiritualmente alcune persone, ma sempre fuori dal mio luogo di abitazione e con un nome falso (per gli altri ero padre Edo). Nessuno doveva sapere da dove venissi. È stato commovente il momento in cui ho potuto dire ai miei genitori che ero sacerdote e gesuita. Un anno, alla vigilia di Natale, mentre si chiedevano dove andare alla Messa di mezzanotte, risposi loro: «Non dobbiamo andare da nessuna parte». «Perché? Verrà qualche sacerdote?», domandarono. «No - dissi -, io sono sacerdote e possiamo celebrare qui!». Entrambi piansero per la gioia. Allora mio padre mi rivelò che, da quando si erano sposati, lui e mia madre avevano sempre pregato per avere un figlio sacerdote». Mi commossi anch’io. Eravamo cinque fratelli e sorelle e io ero l’unico non ancora sposato, ma non avevano intuito. Ho vissuto la mia doppia vita fino alla «Rivoluzione di velluto» nel 1989, quando con la democrazia è rinata anche l’attività pubblica degli ordini religiosi. Lasciai il lavoro di radiologo, che amavo molto, per poter servire in senso pieno come sacerdote. E non fu facile, non soltanto perché amavo molto la medicina, ma in particolare perché non avevo mai fatto esperienza in pubblico come sacerdote. Il Signore però mi ha dato la forza. Traduzione dallo slovacco a cura di Ján Dačok SJ agosto-settembre 2014 Popoli 51 www.jsn.it S i potrebbero dire tante cose evidenziato le sfide che si devono positive, nel raccontare la So- affrontare per essere cittadini atticial Week, la Settimana del vi, o quello di Theodora Hawksley, settore sociale europeo della Com- ricercatrice e teologa dell’Università di Edimburgo, che, pagnia di Gesù, tenutasi a partire dall’esempio a Napoli dal 24 al 28 Gesuiti e laici di Mary Ward (religiogiugno e che ha visto la che lavorano in sa britannica, fondatripartecipazione di più di campo sociale a ce della congregazione 70 iscritti, provenienti livello europeo si delle Dame inglesi), ha da circa una ventina di sono incontrati a espresso l’essenza del Paesi d'Europa. Napoli lo scorso volontariato in relazione Si potrebbe riflettere su- giugno. a parole fondanti come gli interessanti contenu- Uno dei «amore» e «libertà». ti legati al tema che il partecipanti Insomma, si potrebbero Jesuit European Social racconta scrivere pagine e paCentre (Jesc), organiz- come è andata gine, che non abbiamo zatore del meeting, ha a disposizione ma che scelto per i lavori: «Vopossono essere sostituite lontariato e bene comune: impegnarsi per una cittadinanza dall’energia del proverbio africano attiva». Si potrebbero descrivere le che il Jesc ha stampato sulle borse emozioni vissute durante le visite nei di tela consegnate a ciascun partecentri di ispirazione ignaziana che cipante: «If you want to go quickly, lavorano e lottano ogni giorno, con- go alone. If you want to go far, go tro l’emarginazione, in territori dif- together» («Se vuoi andare veloce, vai ficili come Scampia, San Giovanni a da solo. Se vuoi andare lontano, vai Teduccio e il centro storico di Napoli. insieme ad altri»). Questa citazione Ancora, si potrebbe citare l'interven- ha ispirato tutte le giornate a Napoli, to di Jérôme Vignon, presidente delle in cui la condivisione di esperienze Settimane sociali di Francia, che ha e buone prassi fra gesuiti e laici provenienti da diverse organizzazioni europee sono state possibili fin da subito, attraverso lavori di gruppo mirati e momenti conviviali. Ma l’andare insieme per andare lontano porta con sé molti significati da custodire anche per il futuro. La stessa Europa che secondo la Compagnia di Gesù costituisce una dimensione e un’opportunità importante per il settore sociale, non può che fondarsi sull’andare insieme verso una giustizia comune. E davvero non è sembrato un caso che, nelle loro visite 52 Popoli agosto-settembre 2014 CHE COS'È IL JESC I l Jesuit European Social Centre (Jesc, jesc.eu) nasce nel 2012 e costituisce lo strumento con cui la Compagnia di Gesù ha scelto di essere presente a livello europeo sui temi della giustizia e dell’impegno sociale. La dimensione europea è sempre più determinante nelle politiche dei singoli Stati membri e nella vita delle persone. L’opzione per i più poveri necessita di strumenti nuovi di coordinamento fra tutte le attività sociali in Europa legate alla Compagnia e di advocacy presso le istituzioni europee. Il Jesc rappresenta la risposta dei Provinciali europei alle nuove sfide che devono affrontare i gesuiti nel Vecchio continente. in gruppo a Napoli, ciascun delegato si aggirasse con la propria borsa, portatrice di un messaggio diretto e chiaro, tanto quanto la presenza di persone di diversa provenienza, storia, formazione, tutte impegnate nella promozione della giustizia. In tale contesto, è emerso che il volontariato rappresenta un motore per un cambiamento sostanziale nelle nostre società. Attraverso le molteplici azioni di cui sono protagonisti i volontari, si ha un reale impatto sulle vite delle persone. Come è emerso dal confronto tra i partecipanti, il cambiamento a livello sociale non può prescindere dai rapporti personali, promuovendo una maggiore consapevolezza sociale e sostenendo con tutte le forze il lavoro dei volontari. Il cammino è lungo e faticoso, ma insieme è percorribile; in un’occasione Mary Ward disse: «I will do these things with love and freedom, or I will leave them alone». Nessuno ci vieta di sostituire la prima persona singolare con la prima plurale: «Noi faremo queste cose con amore e libertà». Andreas Fernandez Villa S. Ignazio Trento MATILUBA Con amore e libertà www.centroastalli.it Edelawitt diventa maggiorenne Una rifugiata etiope, compiuti 18 anni, vive una svolta nella sua esistenza e racconta timori e progetti di un futuro nuovo S ono rifugiata in Italia dall’età di 8 anni. Oggi ne ho 18. Dell’Etiopia mi ricordo la paura che da un momento all’altro potesse scoppiare la guerra. Ricordo mio padre. Io ero la sua preferita. La più piccola, quella con cui giocare e fare belle passeggiate. In Italia non siamo arrivati tutti insieme. Prima mia madre con mia sorella maggiore. Dopo due anni io e gli altri miei due fratelli. Da quando sto in Italia ho vissuto in due centri d’accoglienza e in una casa-famiglia per minori. Ora devo pensare a trovare una strada mia, indipendente, da adulta. Ma non è facile. Finché studiavo era tutto più semplice: prima le elementari, le medie, poi il diploma. Adesso trovare un lavoro è la sfida più dura da quando sono qui. Sono etiope, si vede dal colore della pelle, ma sogno e penso in italiano. Ho passato più anni a Roma che ad Addis Abeba. Vorrei andare all’estero, magari in Germania, dove vive mio zio con la sua famiglia. Dicono che per noi rifugiati lì la vita sia più semplice. È più facile trovare lavoro… non so… per ora è solo un’idea. In questi giorni scade l’ultima proroga nella casa-famiglia che mi ospita. Sono maggiorenne. Non posso più restare. I miei fratelli più grandi lavorano e vivono insieme. La cosa più ovvia è andare a stare con loro. Sono fortunata rispetto a tanti ragazzi che non hanno nessuno, ma nonostante ciò lasciare la casa-famiglia non è semplice. Per ora con tutte le mie forze vorrei lavorare, prendere in mano la mia vita e cominciare a guardare il futuro con un po’ di ottimismo. Anche quest’anno a giugno abbiamo celebrato la Giornata mondiale dei rifugiati. A tutti i ragazzi che in queste ore arrivano in Italia per chiedere asilo voglio dare un consiglio: non fate stupidaggini, rigate dritto, scegliete sempre il bene. Capite qual è la strada giusta per voi. Non sarà facile arrivare alla meta. Ma provarci può dare senso al futuro. Testimonianza raccolta da Fondazione Astalli La foto non si riferisce ai soggetti descritti nell’articolo Centro Arrupe, una comunità di famiglie rifugiate C hi arriva in un Paese straniero con la propria famiglia in fuga da guerre e persecuzioni, o dopo anni riesce a ricongiungersi con i suoi cari, si vede costretto ad affrontare una serie di difficoltà a volte inaspettate. I nuclei familiari, specie se composti da un solo genitore, rappresentano una categoria particolarmente vulnerabile perché la presenza di minori può rendere il percorso verso l’autonomia molto più lungo e tortuoso. Il compito degli operatori della comunità di famiglie rifugiate del Centro Astalli è quindi duplice: da un lato, assicurare che la permanenza nel Centro «Pedro Arrupe» di Roma sia più confortevole e serena possibile, soprattutto per i piccoli ospiti; dall’altro, lavorare fin da subito per aiutare i genitori a tornare ad essere indipendenti. La dimissione dal Centro in autonomia rappresenta infatti la sfida più difficile da affrontare, soprattutto in un momento in cui trovare un impiego regolare e potersi permettere un contratto di affitto risulta sempre più difficile. Il Centro mette a disposizione degli ospiti 40 posti, in convenzione con Roma Capitale, suddivisi in piccoli appartamenti, ciascuno dotato di due stanze e servizi indipendenti. Ogni nucleo familiare può quindi godere di una certa autonomia nelle semplici azioni quotidiane come cucinare, e di un po’ di privacy, indispensabile per riappropriarsi del senso della parola famiglia. Nonostante le difficoltà, la presenza dei bambini, ormai più numerosi degli adulti, consente a operatori e genitori di concentrarsi sul futuro con maggior fiducia. agosto-settembre 2014 Popoli 53 www.amo-fme.org Una moto e una Tv per la libertà (religiosa) Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) offre assistenza a tanti cristiani in Medio oriente. Anche in modi inaspettati U na motocicletta, un’automobile e un pulmino; una Bibbia in farsi e arabo, e le catechesi di papa Benedetto in turco. Per noi europei, con una chiesa più o meno vuota, ma aperta, a ogni angolo di strada, può sembrare strano che siano questi gli strumenti attraverso cui praticare la fede, crescere nella relazione con Dio e migliorare la convivenza con connazionali appartenenti a religioni diverse. Eppure in molte aree del mondo, Medio oriente in primis, è così. Non a caso, degli ACS, CHE COS'È L’ Opera pastorale, dal 2011 Fondazione pontificia «Aiuto alla Chiesa che soffre» è nata nel 1947 in Germania con la missione di soccorrere e sostenere i cristiani perseguitati. Il suo fondatore, Werenfried van Straaten, monaco premonstratense olandese, fu soprannominato Spekpater per le ingenti quantità di alimenti (carne, in particolare) che raccolse nell’immediato dopoguerra in Europa a sostegno dei rifugiati tedeschi. Dal 1955 Acs opera anche in Medio oriente con progetti di accoglienza ai profughi, pubblicazioni di testi sacri in lingua madre, sostegno alla formazione dei religiosi e promozione del dialogo interreligioso. Da sempre attiva nella denuncia delle violazioni subite dai cristiani per il loro credo, pubblica da dodici anni il Rapporto sulla libertà religiosa nel Popoli agosto-settembre 2014è oggi mondo. 54 Dopo l’Africa, il Medio oriente per Acs la seconda area destinataria di aiuti. oltre 88 milioni di euro raccolti nel 2013 dalla Fondazione Acs (vedi box), circa il 7% è andato a strumenti di motorizzazione, più di quanto stanziato per gli aiuti di emergenza o al sostentamento delle religiose. Come spiega Marta Petrosillo, responsabile dell’ufficio stampa di Acs, «la grave insicurezza delle strade irachene ha fatto sì che negli ultimi anni sempre meno genitori mandassero i figli a catechismo. Così a Baghdad abbiamo acquistato un pulmino per la parrocchia della cattedrale siro-cattolica, la chiesa attaccata dai terroristi nel 2010, e, grazie a un altro pullman, a Erbil (capoluogo del Kurdistan iracheno, dove sono riparati migliaia di cristiani da tutto l’Iraq), circa 1.400 ragazzi del quartiere cristiano possono continuare a partecipare alla catechesi». Altrettanto fondamentale l’acquisto di un’automobile per la comunità cattolica di Sulaymaniya, sempre nel Kurdistan iracheno, dove ha una sede la comunità monastica Al Khalil, fondata da padre Paolo Dall’Oglio. Qui gli incontri di approfondimento interreligioso aperti anche ai musulmani e la Messa si tengono la sera, dopo il lavoro, quando i bus non sono più in servizio. Per evitare che i fedeli percorrano diversi chilometri a piedi di notte, a rischio della vita, l’auto si è rivelata preziosa. Una volta arrivati nei centri di catechesi o in parrocchia, i testi in lingua madre sono lo strumento indispensabile per le attività. Acs ha sostenuto la pubblicazione e la diffusione di migliaia di copie della Bibbia del Fanciullo, in arabo e assiro orientale. Nel settembre 2012, in occasione del viaggio di Benedetto XVI in Libano, sono state distribuite 50mila copie di Youcat, il libretto giallo del catechismo per i giovani di lingua araba. Padre Andrzej Halemba, responsabile di Acs per l’area mediorientale, racconta anche un altro progetto, promosso dalla Fondazione Oasis: la traduzione in turco delle catechesi di Benedetto su San Paolo. «Questo volume - spiega - è una ricchezza per i cristiani, ma può essere discusso anche dai non cristiani, aprendo a nuove possibilità di dialogo interreligioso che spesso risente di fraintendimenti e incomprensioni causati da testi in lingue diverse». Sulla stessa linea è Sat7, la rete televisiva promossa dalle Chiese cristiane della regione, da anni sostenuta anche da Acs. Nata nel 1999, con sede centrale a Nicosia (Cipro), e captabile dall’Iran al Marocco, Sat7 dispone di quattro canali in arabo e farsi in cui trasmette 24 ore su 24, a cui si aggiungono quattro ore al giorno di programmi in turco e il canale per bambini Sat7 Kids. Il palinsesto comprende talk show su temi di attualità e religiosi, approfondimenti con esperti, ma anche film e documentari ispirati agli episodi biblici e molto apprezzati. Ben vista dalle autorità locali per la sensibilità con cui vengono trattati argomenti controversi come il ruolo della donna, la Tv viene seguita abitualmente da 7 milioni di persone. Una goccia in un mare di 300 canali Tv con un bacino di 200 milioni di utenti, ma sempre più musulmani sono tra gli spettatori, anche perché, in condizioni di sicurezza difficili, ci si chiude in casa. Senza perdere il contatto, dov’è possibile, con il mondo (cristiano) esterno. Elisa Costanzo A cura della Redazione e di Anna Casanova @casanovanna Per segnalazioni scrivi a [email protected] Carta Canta D, lo «straniero» tra noi 59 Tre domande a... Fabio Geda 58 61 Invito a teatro Tramedautore Musica Toumani e Sidiki, la tradizione continua 60 62 Cinema I ponti di Sarajevo Sapori&saperi La cucina esotica del Nuovo Mondo 66 68 Inter@gire Social media per il non profit Benvivere Frutteti urbani contro lo spreco 64 56 56 58 Leggere Novità La libreria 360gradi Sud (Roma) Carta canta D, lo «straniero» tra noi Tre domande a... Fabio Geda Guardare Cinema I ponti di Sarajevo Docu Fukushima no daimyo (Il signore di Fukushima) Invito a teatro Tramedautore Osservatorio Migranti nei media della Sardegna: un’indagine Ascoltare Musica Toumani e Sidiki, la tradizione continua On Air Radio Passagers Hit Cile Strumenti Trutruca Gustare Sapori&saperi La cucina esotica del Nuovo Mondo Verso Expo 2015 Una ricerca lunga diecimila chilometri Retrogusto Taverna catalana (Alghero) Sorseggi Tchapalo Inter@gire Social media per il non profit Decode Raccontare il mondo con il pollice alzato Benvivere Frutteti urbani contro lo spreco Ecojesuits Viaggi in aereo? Allora pianta un albero Graphic journalism Le lettere di Hilda Dajč/7 59 61 63 64 65 63 60 61 62 64 66 68 69 60 62 65 66 68 Leggere novità Aldo Marchetti Fabbriche aperte Durante la drammatica crisi economica argentina di inizio secolo si parlò molto - sui mass media di tutto il mondo - delle imprese fallite che, abbandonate dai proprietari, venivano occupate e rimesse in attività dai dipendenti. Mentre il sistema neoliberista crollava, il modello delle empresas recuperadas por sus trabajadores venne applicato negli ambiti più svariati: dall’industria manifatturiera ai servizi, dagli alberghi ai giornali. A distanza di più di 10 anni e al di là di una certa retorica giornalistica, che fine hanno fatto queste aziende? E in che cosa si distinguono da altre esperienze simili già realizzatesi nel mondo industrializzato, per esempio nel campo cooperativistico? Sono domande a cui risponde Aldo Marchetti, già docente di Sociologia del lavoro all’Università Statale di Milano. Nel suo accurato volume esamina l’esperienza a partire dalle teorie dell’autogestione, ne ricostruisce la storia e offre un aggiornamento sulla situazione attuale, testimoniando la vitalità di un esperimento ampio e duraturo. [Il Mulino, 2013, pp. 213, euro 18] la libreria L a Cooperativa sociale Armadilla di Roma ha dato vita a un’iniziativa culturale e sociale nella quale il Sud del mondo è protagonista, promuovendo temi quali la solidarietà internazionale, la cooperazione decentrata, l’intercultura, la sostenibilità. In questo progetto s’inserisce la libreria 360gradi Sud (zona Trastevere) che ospita narrativa italiana e straniera, manualistica su tematiche quali intercultura, consumo critico, sostenibilità. Molto spazio viene lasciato alla letteratura per bambini e ragazzi con una sezione speciale dedicata ai temi dell’educazione alla mondialità. Gli eventi sono tutti improntati alla promozione e divulgazione delle culture altre e del vivere sostenibile. Oltre agli incontri con gli autori e ai laboratori, vengono inoltre organizzati mercatini dell’usato, baby yoga, conferenze sul turismo responsabile, dibattiti sulle crisi politiche internazionali. Un luogo dove l’incontro con l’altro avviene anche attraverso i prodotti d’artigianato e quelli alimentari del commercio equo e solidale. 360GRADI SUD - via Toscani 11/13, Roma; www.360gradisud.it 56 Popoli agosto-settembre 2014 Alessandro Pellegatta Oman. Profumo del tempo antico «Esistono i posti speciali, che ci attendono e ci riscattano dalla precarietà e dall’insignificanza del presente: uno di questi è l’Oman». Così l’A., viaggiatore appassionato e attento, sintetizza il senso di questo libro dedicato al sultanato arabo, con una coda «pasoliniana» in Yemen. Meno presente di altre petromonarchie all’attenzione dei media internazionali, l’Oman offre il fascino di una natura e di una storia uniche. E inoltre un ambiente di tolleranza religiosa, una sorta di «terza via» dell’islam in un tempo di grandi tensioni regionali tra sunniti e sciiti. Tutto questo raccontato con la curiosità dell’esploratore e la precisione del geografo. [Salento Books, 2014, p. 149, euro 18,5] Piergiorgio Pescali Il Custode di Terra Santa Il francescano che, anche recentemente, tutto il mondo ha potuto vedere accanto a papa Francesco nel suo viaggio in Terra Santa e poi nella preghiera in Vaticano con Abu Mazen e Shimon Peres, è padre Pierbattista Pizzaballa. Da dieci anni è il Custode di Terra Santa, cioè il superiore di circa 300 frati minori del Medio Oriente e responsabile di oltre 70 santuari. In questo articolato libro-intervista, padre Pizzaballa ripercorre la storia della Custodia e il suo ruolo rispet- to alla realtà religiosa e sociale di Israele e Palestina. Nel colloquio a tutto campo, che spazia dai pellegrinaggi alla scienza, al dialogo tra le fedi, emerge l’impegno e l’amore per Gerusalemme e i luoghi che da secoli i francescani curano, attenti ai mutamenti del presente. [Add editore, 2014, p. 158, euro 13] Violeta Popescu (a cura di) Le catacombe della Romania Nei primi vent’anni in cui la Romania del dopoguerra fu sottoposta allo stalinismo, nel buio delle carceri politiche diffuse nel Paese una generazione di prigionieri subì torture e isolamento. Ogni opposizione politica e culturale fu schiacciata nel tentativo di rifondare il Paese. 44 carceri e oltre 70 campi di lavoro forzato hanno visto passare oltre tre milioni di persone, considerate nemiche del popolo. Il libro, promosso dal Centro culturale italoromeno di Milano, raccoglie una serie di testimonianze di artisti, intellettuali, religiosi, come il sacerdote ortodosso Gheorghe CalciuDumitreasa, e persone meno conosciute, come la contadina Elisabeta Rizea, eroina della resistenza alla collettivizzazione delle terre. Tutti uniti dall’esperienza di prigionia durata oltre un decennio o morti in carcere. Un documento importante per il recupero della memoria della storia recente. [Rediviva Edizioni, 2014, p. 212, euro 10] Dal 29 al 31 agosto Sarzana (Sp) Festival della mente: rassegna dedicata alla divulgazione scientifica e umanistica. Tra i relatori Marco Aime, antropologo, collaboratore di Popoli. www.festivaldellamente.it Da agosto a ottobre Roma L’Associazione culturale Immezcla e l’Anolf Cisl organizzano la prima edizione del premio internazionale di letteratura e migrazione «Fabula e Intreccio» dedicato agli immigrati di prima e seconda generazione. La partecipazione è gratuita. Le opere devono essere presentate entro il 28 ottobre. www.romamultietnica.com Dal 3 al 7 settembre Mantova Festival della letteratura: quattro giorni di incontri, dibattiti, scambi culturali con scrittori italiani e internazionali. www.festivaletteratura.it Dal 17 al 21 settembre Lucera (Fg) XII Festival della letteratura mediterranea con la presenza di autori europei, nordafricani e mediorientali. www.mediterraneocultura.it Bartolomeo Sorge Gesù sorride. Con papa Francesco oltre la religione della paura Papa Francesco, con i suoi metodi comunicativi diretti e con la sua capacità di predicare una fede semplice e gioiosa, ha avuto nel suo primo anno di pontificato un forte impatto massmediale. In questo libro, Bartolomeo Sorge, gesuita, teologo, invita però ad andare al di là dell’aspetto superficiale del «fenomeno Bergoglio» per coglierne le ragioni profonde. Secondo padre Sorge, il nuovo Pontefice è un «profeta della fiducia» che ha smosso dalle fondamenta quella «religione della paura» che per troppi anni è stata portata avanti da una parte del clero e da laici impegnati in campo economico, politico e sociale. Scommettendo sul superamento di una fede severa e punitiva, papa Francesco va incontro all’uomo di oggi che, non avendo più punti di riferimento in una «società senza padre», è ben disposto a ricevere l’annunzio di un Dio Padre misericordioso. [Piemme, 2014, pp. 110, euro 12] Tiziano Terzani Un’idea di destino Tiziano Terzani è stato indubbiamente uno dei migliori reporter italiani in Asia. In articoli dettagliati e in libri documentati ha raccontato le profonde trasformazioni del continente a partire dagli anni Sessanta. Scritti nei quali traspariagosto-settembre 2014 Popoli 57 Leggere CARTA CANTA L’«altro» nella stampa periodica italiana D, lo «straniero» tra noi D opo Io donna del Corriere della Sera, «Carta canta» prosegue analizzando D, un altro supplemento femminile de La Repubblica. Nello specifico sono state considerate le uscite del 31 maggio e del 7 e 14 giugno. La rivista è articolata in 5 macro-sezioni («attualità», «moda», «bellezza», «cucina» e «lavoro») dove testo e immagini, spesso di ottima qualità, sono complementari integrandosi a livello di significato e di disposizione grafica. La sezione «attualità», che comprende cover story, news, interviste e rubriche d’opinione affidate a firme de La Repubblica, è la parte più corposa della rivista, al cui interno si trova il maggior numero di articoli con riferimenti allo «straniero». Con il 13% di pagine dedicate ai fatti internazionali, rispetto ai femminili finora considerati D si colloca dopo il 19% di Io donna, ma ben oltre il 5% di Vanity Fair. Il punto di vista adottato è legato all’attualità e le notizie presentate rispondono alle aspettative di un lettore interessato all’«altro», un lettore che guarda allo «straniero» con un atteggiamento di credito e fiducia. Ne è un esempio il servizio Swinging Tirana (31 maggio), da collegare all’esito imminente rispetto alla richiesta dell’Albania di candidarsi per entrare nell’Unione Europea. Il «rinascimento albanese» è qui raccontato attraverso la voce dei suoi protagonisti: dall’emigrato di ritorno al conduttore di un noto talk show politico che considera l’ingresso nell’Ue «un grosso malinteso», passando per l’imprenditore italiano proprietario di un call center con sede a Tirana. Ne esce un quadro complesso dove, accanto alla corruzione e alla criminalità, emergono anche i «germogli di una società civile che inizia a farsi sentire». È il caso della manifestazione che «a novembre ha convinto [il nuovo premier] Edi Rama a negare all’alleato americano la richiesta di accogliere le armi chimiche siriane». Nella cover story del 14 giugno, L’India che vorrei, il problema della violenza femminile e dell’ingiusto sistema delle caste vengono presentati attraverso le parole di una protagonista d’eccezione: la scrittrice Arundhaty Roy. Benché lontana dalle condizioni di vita della maggior parte dei suoi concittadini, la Roy - «romanziera famosa e saggista di battaglia» - offre al lettore una prospettiva interessante per comprendere la società indiana. Si tratta infatti di un punto di vista critico interno che è ben consapevole dei paradossi sociali e culturali che attraversano l’India. Un Paese che «vive in molti secoli simultaneamente, così qui trovano voce alcune tra le donne più potenti e riconosciute del mondo, persone libere come me […] e allo stesso tempo un enorme numero di donne incontra un destino tragico». In Silicon Lady (14 giugno) lo «straniero» è considerato già integrato nella parte più ricca della società occidentale, all’interno della quale sembra essersi ritagliato uno spazio di rilievo, sposandone in pieno i principi. Come accade alle ragazze della Silicon Valley che «dirigono business multimilionari ma trovano il tempo anche per volontariato e raccolte fondi per le più varie cause», in un mix di affari e beneficenza in cui l’affermazione di sé sembra avere un’importanza non secondaria. Bita Daryabary, una delle donne più influenti della Valley afferma, a commento di una sfilata Chanel organizzata a casa sua: «Un sogno che si è avverato per me, che da ragazzina in Iran mi cucivo i vestiti da sola. Un’ottima occasione di beneficenza e d’incontro per tante di noi che apprezzano l’eleganza e la moda come uno strumento in più per esprimere la personalità». Nel complesso, in D i tre punti di vista sull’«altro» sopra evidenziati sembrano rispecchiare lo sguardo frammentato di chi abita una società multietnica. Elvio Schiocchet e Paola Gelatti 58 Popoli agosto-settembre 2014 va la sua passione per il giornalismo e una partecipazione emotiva ai cambiamenti. Ed è proprio questo suo coinvolgimento personale che emerge dalla corrispondenza della quale questo libro raccoglie numerosi stralci. Così scopriamo che l’espulsione dalla Cina per «crimini controrivoluzionari», l’esperienza deludente della società giapponese, i viaggi in Thailandia, Urss, Indocina, Asia centrale, India, Pakistan non furono solo all’origine delle sue grandi opere, ma furono costellati da dubbi, nostalgie, da una ricerca della gioia e anche dalla depressione. Ed è attraverso queste vicende personali che Terzani maturava una nuova consapevolezza di sé che poi affidava al suo diario. Sono pagine che, scorrendo parallele alla sua esperienza professionale, ci restituiscono intatta anche la sua personalità. [Feltrinelli, 2014, pp. 484, euro 17] Alberto Vitali Luigi Bettazzi. Il progetto e l’azione di un costruttore di pace In un’epoca avara di voci profetiche (anche in ambito ecclesiale), occorre approfondire il più possibile il pensiero e la prassi di chi si è distinto per avere testimoniato il Vangelo con la propria vita, senza sconti né compromessi. È il caso di Luigi Bettazzi, 90 anni compiuti lo scorso 26 novembre, una delle figure più rappresentative del pacifismo italiano (e non solo). L’A. ripercorre fedelmente la traiettoria umana e spirituale del sacerdote bolognese (anche se trevigiano di nascita), avendo sempre come criterio di lettura dei suoi gesti, delle sue prese di posizione, del suo stile pastorale l’obiettivo della costruzione della pace. Questa è stata sempre la vera stella polare di Bettazzi, negli anni della collaborazione con il cardinal Lercaro a Bologna, così come durante la sua partecipazione al Concilio; durante il suo lungo ministero episcopale a Ivrea così come, ovviamente, nella sua attività con Pax Christi, a livello italiano e internazionale. Leggere la sua biografia è poi un’occasione per «incrociare» altri giganti della fede del Novecento: da Giuseppe Dossetti a papa Roncalli, da Hélder Câmara a Tonino Bello. [Paoline, 2014, pp. 160, euro 15] Chiara Zappa Mosaico Turchia. Viaggio in un Paese che cambia Tra i molti modi di raccontare la ricchezza della Turchia e della sua complessità, Chiara Zappa sceglie il libro che si fa guida, itinerario di ricerca, pellegrinaggio. La Turchia di oggi, stratificazione di una storia antica e geografia di raccordo tra aree del mondo, è esplorata attraverso mete che hanno come filo conduttore la dimensione religiosa. Con l’esperienza della giornalista attenta alle condizioni delle minoranze, l’A. racconta di armeni, greci, siriaci, di tradizioni secolari e testimonianze recenti di fede e martirio, ma anche di identità plurime nell’islam maggioritario. Una complessità con la quale il Paese non può non fare i conti se vuole riconoscere a tutti diritti di cittadinanza e diventare così una democrazia compiuta. [Edizioni Terra Santa, 2014, p. 156, euro 14] Fabio Geda Leggere il mondo con gli occhi dei migranti L o scrittore Fabio Geda, da sempre attento all’umanità che ci circonda e ai più deboli (bambini, ragazzi o migranti), anche in questo suo ultimo romanzo Se la vita che salvi è la tua (Einaudi, 2014, pp. 230, euro 17,50) si dimostra osservatore dei malesseri del nostro tempo, sensibile indagatore dell’animo umano, fine narratore nell’intrecciare storie quotidiane investite dalle urgenze contemporanee. Il protagonista del romanzo, Andrea Luna, è un insegnante precario che, per superare una crisi di coppia con la moglie Agnese, si reca a New York (dove per altro Geda ha ultimamente trascorso svariati mesi). Ma questo breve soggiorno si trasformerà in una profonda crisi d’identità, in uno sgretolarsi delle sue certezze, in un bisogno di «perdersi» ai margini dell’umanità fino a diventare un senza fissa dimora, un irregolare, un migrante, per poi ritrovarsi e capire veramente dove e con chi vuole costruire la sua «casa». Tutti i personaggi positivi, quelli che aiutano spiritualmente e materialmente Andrea nel suo viaggio, sono migranti: Walker, il custode afro-americano, Ary, l’artista d’origine cambogiana che costruisce diorama, Antonio, il collega messicano dell’impresa di pulizie, la mamma di Aun-Liang, commerciante cinese. Come mai questa scelta? C’è un proverbio africano che tenevo appeso in camera quando facevo l’educatore: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio». Ecco, l’idea di una comunità educante attraversa un po’ tutti i miei romanzi, educante non solo con i bambini, ma con chiunque. Ciascuno di noi viene educato da chi lo circonda e ciascuno di noi è educatore nei confronti di chi gli vive a fianco. Amo New York anche per questo motivo: è una città-casa per milioni di immigrati o figli di immigrati cui è permesso di sentirsi davvero newyorchesi. Amo viaggiare e incontrare gente di ogni parte del pianeta perché attraverso i loro occhi colgo con maggiore profondità e acume la complessità del mondo e riflettendomi nel loro sguardo riconosco me stesso come parte di quella complessità. Andrea non ha fiducia nel futuro e chiede il perché al suo amico Vittorio: «È perché siamo ancora troppo ricchi? Stiamo bene e allo stesso tempo siamo gelosi di quello che hanno avuto i nostri genitori?». La nostra generazione quali valori dovrebbe recuperare? Viene facile dire che imparare a vivere nell’ottica di una «decrescita felice» forse è il modo migliore per noi trenta-quarantenni di attraversare questo periodo storico. Abbandonare l’ansia dell’accumulo e del consumo e promuovere un modello di vita sostenibile per il pianeta e i sette (o più) miliardi di persone che lo abitano è il regalo più grande che possiamo fare alle generazioni che seguiranno. Noi siamo cresciuti con il mantra del «sarete più ricchi di noi» perché così era stato, generazione dopo generazione, dagli anni Cinquanta in poi. Ora sappiamo che non è così, la ricchezza (intesa così come la intende il mercato) non è infinita. E infinite non sono neppure le risorse della Terra. Il fatto è che, come diceva Bob Kennedy, il Pil misura tutto tranne ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Il valore certamente da recuperare (o forse da acquisire per la prima volta) è che il denaro è un mezzo, non il fine. Quando Andrea decide di tornare a New York è ormai diventato un clandestino per gli Usa. Qual è l’atteggiamento dei newyorkesi nei confronti dei migranti? New York è una città che si regge sui migranti irregolari. Ce ne sono mezzo milione e migliaia sono italiani. Tutti i sindaci della città, dal repubblicano Bloomberg al democratico De Blasio, hanno sempre detto che non faranno mai la guerra ai clandestini perché, se li cacciassero, la città collasserebbe, ma allo stesso tempo pare non vogliano mettere mano a una sanatoria. È la tipica ipocrisia occidentale: sfruttare i migranti in modo da calmierare i costi grazie al lavoro nero e contemporaneamente lamentarsi dell’illegalità in cui sono costretti - in cui noi li costringiamo - a vivere. Andrea Luna passa (anche) attraverso questo tipo di esperienza ed entrerà in contatto con questa umanità vibrante. agosto-settembre 2014 Popoli 59 Guardare I ponti di Sarajevo Un’opera collettiva a cento anni dall’inizio della prima guerra mondiale. 13 autori riflettono su Sarajevo, simbolo, passato e presente dell’Europa A cent’anni dalla prima guerra mondiale, tredici registi europei riflettono sulla città di Sarajevo, dalla Storia remota (l’assassinio di Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914, e i milioni di morti che ne sono seguiti) alla tragedia del conflitto nei Balcani sul finire del «Secolo breve». Fino a oggi. Passato e presente sembrano spesso compresenti, impastati in un collage di immagini e suoni, parole, volti, letture, cartoon, morte e sangue. Tra immaginazione, verità storica e invenzione, fermo immagine e movimento, il mosaico di punti di vista e di voci mette a fuoco - o fuori fuoco - le certezze dello spettatore. A fare da cornice a ogni episodio/capitolo: le animazioni dorate e simboliche di François Schuiten e Luís da Matta Almeida 60 Popoli agosto-settembre 2014 che mostrano mani che si sfiorano, si accarezzano, si congiungono fino a formare un ponte «umano» di due braccia tra diversi punti geografici. Il «ponte» può essere attraversato da persone festanti, abbracci sporadici, o in conflitto, o esplodere all’improvviso. Il fiume sottostante - forse il Bosna, forse il Miljacka - è solcato da bare che galleggiano, centinaia di bare. Il film comincia con l’episodio di Kamen Kalev, che mostra Francesco Ferdinando e la moglie in una piscina. Hanno avuto un sogno premonitore di morte e il destino pare segnato. Lo sguardo di Kalev è febbrile, come quello in macchina dell’attore che interpreta l’arciduca. La Storia si fa incubo a occhi aperti. Il capitolo successivo racconta in voce fuori campo il flusso di coscienza del gio- vane attentatore bosniaco, Gavrilo Princip. Le parole di Princip si contrappongono e sovrappongono a immagini contemporanee di ragazzi che registrano una trasmissione radio. Il passato è (com)presente. I due episodi più potenti, però, sono L’avamposto di Leonardo Di Costanzo e I ponti dei sospiri di JeanLuc Godard. Nel primo, il regista de L’intervallo mostra un umanissimo caso di diserzione. «Signor tenente, io non ci vado, io non esco!»: un soldato rifiuta di eseguire gli ordini. Non vuole andare a morire, dopo avere visto cadere tutti i commilitoni usciti in avanscoperta sul fronte, uccisi da un cecchino. Furono circa 240mila i soldati italiani condannati a morte o alla prigione per insubordinazione, diserzione o automutilazione. Di Costanzo riesce con pochi personaggi e un pugno di inquadrature a rendere l’ombra di follia, condanna e tragedia che ogni guerra porta con sé. Un canalone innevato come tomba a cielo aperto, il crepitare dei fucili si fa assordante nel vuoto. Godard, invece, realizza un’opera grandiosa di pochi minuti sull’illusione ottica e la tragedia delle immagini che nel tempo risultano ormai svuotate della loro potenza nel raccontare la guerra. Sembra evocare le parole di Frédéric Rousseau nel Bambino di Varsavia (ed. Laterza): «Una fotografia “simbolo” è ancora in grado di parlarci o la guardiamo senza più vederla?». Il padre della Nouvelle Vague mescola immagini cinematografiche di finzione a fermo immagine di «vere» fotografie, epoche diverse, formati contrapposti. L’effetto è quello richiamato dalla voce fuori campo e dai caratteri grafici in sovrimpressione: la tragedia in immagini e la tragedia dell’immagine, falsificabile, manipolabile e fragile. Godard gioca - seriamente - con le parole: «Fauxtographe» dice, ovvero Falsografia. «Archi-faux», arcifalso. Pare suggerire che, anche nel rappresentare la guerra, nulla è «obiettivo» nell’obiettivo. È tutta una questione di «spirito» e di sguardo, prima ancora che della materia usata per racchiuderlo. Luca Barnabé Docu N ella città dell’incidente nucleare, Masami Yoshizawa, che non ha mai lasciato il territorio compromesso dall’inquinamento radioattivo, racconta in un’intervista la sua missione: sacrificare la vita per dare un messaggio. Lo Stato deve lasciare libertà a chi vuole restare, o costringere gli abitanti delle zone contaminate ad abbandonare per sempre la propria terra? Premio speciale della giuria per i Corti della Realtà all’edizione 2014 del Festival L’Anello debole (Capodarco). Fukushima no daimyo (Il signore di Fukushima) Regia di Alessandro Tesei Italia 2013 Durata: 19’55’’ Lingua: giapponese (sottotitoli in italiano) Invito a teatro Tramedautore G iunto alla sua 14ª edizione, Tramedautore, il Festival internazionale della nuova drammaturgia, si riconferma come crocevia delle lingue e culture dal mondo, in cui le espressioni teatrali più innovative si confrontano. Il Festival sente la necessità di recuperare la funzione del teatro di coesione sociale. Per questo gli artisti si propongono al pubblico milanese come «agitatori di coscienze» con opere che affrontano tematiche di forte attualità. Il Festival, che finora ha ospitato più di 300 spettacoli provenienti da 52 Paesi, quest’anno presenterà quindici spettacoli, dal 18 al 28 settembre, a Milano (sede principale, il Piccolo Teatro Grassi) di giovani autori, dall’Europa all’Asia. Dal Teatro Nau Ivanow e Perpetuum Mobile di Barcellona arriva il progetto «Piigs», il primo Festival di teatro sul dramma della crisi. L’acronimo, coniato in senso dispregiativo, riunisce i Paesi dell’euro finanziariamente più deboli (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Tramedautore porterà in scena i cinque spettacoli commissionati dal teatro spagnolo a cinque autori (nati o residenti nei Paesi «Piigs»), sulla crisi che la Ue sta vivendo. Andranno in scena, tra gli altri, Roof di Maria Tranou (Grecia) e Resgate di Armando Nascimento Rosa (Portogallo). Dall’Europa alla Corea del Sud: lo spettacolo Trascinandosi verso Yeolha di Samshik Pai, è un grande epico affresco del Paese asiatico per la regia di uno dei suoi più promettenti autori. E da Singapore, città cosmopolita, uno dei centri mondiali della finanza, arriva Best of di Haresh Sharma, importante drammaturgo. Da non perdere, infine, una nuova produzione francese, Remulus, sul rapporto tra nomadismo e stanzialità, a partire da una drammaturgia «collettiva» che riunisce autori italiani, romeni, tedeschi e francesi. Fino al 31 agosto Roma (Eur) Al Museo nazionale Preistorico Etnografico Pigorini, la mostra fotografica Perù. Tan lejos tan cerca di Gianni Pinnizzotto, reportage sociale attraverso il Paese sudamericano. www.graffitiscuola.it 4-14 settembre Milano 19ª rassegna del Milano Film Festival, che propone oltre 200 opere tra lungometraggi, corti, documentari. «Colpe di Stato» è la sezione dedicata alla complessità del sistema di potere nel mondo Migranti nei media della Sardegna: un’indagine A ll’interno delle attività del progetto ICoD (Insieme contro ogni discriminazione), finanziato dal Fondo europeo per l’integrazione e volto a contrastare i fenomeni di discriminazione etnico-razziale sul territorio della Sardegna, l’Osservatorio di Pavia ha monitorato le maggiori testate a diffusione regionale per evidenziare modalità di rappresentazione del migrante. Nei primi cinque mesi del 2014, l’immigrazione ha occupato una quota marginale dell’agenda dei media analizzati (La Nuova Sardegna, L’Unione Sarda, Videolina e Tgr Rai Sardegna): il fenomeno migratorio è stato raramente tema di dibattito pubblico, non è stato enfatizzato in chiave emergenziale, né amplificando la portata dei flussi migratori, né rimarcando l’allarme sociale. Anche il linguaggio adoperato dalle testate locali è risultato prevalentemente sobrio e in conformità con i principi espressi nel codice deontologico della Carta di Roma su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Tuttavia permane il binomio fra immigrazione e criminalità, con la sovrarappresentazione dell’immigrazione nella cronaca nera: in metà dei casi i migranti sono protagonisti di notizie di criminalità. I migranti sono spesso autori di reato (35%), ma anche vittime (14%). Un fenomeno mediatico che rafforza la percezione di insicurezza nei confronti degli stranieri. Dall’indagine emerge anche che il fenomeno migratorio è approfondito - con riferimenti a cause, Paesi di origine, approfondimenti sulle comunità, ecc. - solo in un quinto delle notizie, e marginale (15%) è anche l’attenzione alle questioni umanitarie. Il tono del linguaggio utilizzato dalle testate è prevalentemente neutro (allarmistico nell’11% delle notizie). Talvolta sono i titoli ad amplificare il sensazionalismo, inducendo sentimenti di paura fra i lettori, altre volte il tono allarmistico è insito nelle reazioni di cittadini interpellati o di politici contrari a iniziative per l’integrazione. Pur essendo le notizie, di norma, svincolate da cornici stereotipate, il fenomeno migratorio è, direttamente o indirettamente, delineato come minaccia nel 12% dei casi. Infine, i migranti hanno poco accesso diretto ai mezzi di informazione: solo il 10% ha goduto di uno spazio di intervista. giugno-luglio 2014 PopoliMilazzo 61 Giuseppe Ascoltare Toumani e Sidiki, la tradizione continua Eredi di una famiglia di griot, i Diabaté hanno portato il suono della kora sui palcoscenici internazionali. Con grande successo N ella famiglia Diabaté il talento si tramanda di padre in figlio. Dinastia di griot del Mali da sette generazioni (i griot sono cantastorie e musicisti) oggi sono rappresentati da Toumani, padre (classe 1965), e Sidiki, figlio (classe 1982), che suonano la kora, maestoso strumento a corde che caratterizza la storia musicale dell’Africa Occidentale. I due Diabaté sono un caso musicale singolare nel loro genere: non solo il ragazzo ha seguito le orme artistiche del genitore, ma L’ insieme costituiscono un duo talentuoso e originale. Qualche informazione su Diabaté padre è necessaria, visto che si tratta di uno dei più grandi musicisti africani viventi. Nonostante fosse figlio di Sidiki (il nipote porta ora il nome del nonno), leggenda della musica maliana, Toumani imparò i segreti della kora da solo, semplicemente ascoltando suonare il padre. Fece poi esperienza in Gran Bretagna, e negli anni la sua fama si diffuse a livello internazionale: tra le collaborazioni più no- Toumani e Sidiki Diabaté te quelle con il bluesman statunitense Taj Mahal, poi con i grandi africani: Ali Farka Touré e Salif Keita, con la all-star band cubano-maliana Afrocubism. Per non parlare della idea è venuta a un giornalista francese, Leonard Vincent, che da vent’anni collabora con l’associazione Reporter senza Frontiere ed è corrispondente di Rfi (canale radio francese dedicato al pubblico internazionale) e Radio France in Marocco. Perché non creare una radio per dare voce ai migranti? Così è nato il progetto Radio Passagers - La voix des migrants. Il progetto è ancora in fase di realizzazione e gli organizzatori stanno raccogliendo i fondi. Entro l’autunno, Vincent e il suo team dovrebbero riuscire a raccogliere i 25mila euro necessari per far decollare la piattaforma radiofonica. Quando aprirà i battenti, Radio Passagers sarà un’agenzia che produrrà programmi radiofonici gratuiti, scaricabili sul telefonino o lettore mp3, destinati a migranti, richiedenti asilo, rifugiati. Inizialmente saranno in francese, la lingua più usata nell’Africa occidentale e in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana, ma se il progetto funzionerà, si allargherà a inglese, arabo e alle principali lingue africane. I programmi saranno coordinati da Parigi, ma tutti i contribuiti audio saranno realizzati da giornalisti corrispondenti nei Paesi di partenza o transito dei migranti. L’obiettivo è poter «colmare il vuoto dell’esilio», di mettere in rete i migranti, le loro storie e culture. Info: it.ulule.com/radio-passagers 62 Popoli AGOSTO-SETTEMBRE 2014 presenza in dischi di Damon Albarn (ex Blur) e di Björk. Numerosi i riconoscimenti che ha ricevuto: dal Zyriab des Virtuoses (assegnato dall’Unesco) al Grammy Award per la migliore musica tradizionale, fino all’Unaids Goodwill Ambassador. Nella primavera 2014, inoltre, la prestigiosa School of Oriental and African Studies di Londra lo ha insignito dell’Honorary Degree of Doctor of Music per i suoi meriti artistici e culturali. E, se buon sangue non mente, il giovane Sidiki sta già mettendo a frutto il talento familiare, avendo completato gli studi musicali al conservatorio. I due hanno pubblicato un disco intitolato semplicemente Toumani & Sidiki (2014) dove fanno dialogare le loro kora con grande maestria. Si tratta di un album strumentale contenente otto tracce. Di queste, una porta il titolo emblematico Lampedusa. Toumani ha spiegato a questo proposito che «Lampedusa evoca l’ingiustizia delle relazioni NordSud e, oltre a quest’isola dove approdano i clandestini venuti dall’Africa, penso a coloro che muoiono in mare e a tutti gli artisti che non posso esibirsi perché i loro tour sono annullati a causa dei mancati permessi per venire in Europa. Oggi in Occidente contano più i pezzi di carta delle vite umane». Un altro brano, dedicato allo scienziato algerino Rachid Ouiguini, vuole sottolineare che al di là della situazione drammatica del Nord del Mali, le relazioni tra Algeria e Mali sono forti e profonde. Dr. Cheikh Modibo Diarra è ispirata all’ex primo ministro e ambasciatore all’Unesco, mentre Hamadoun Touré è dedicata a un ingegnere maliano segretario generale dell’Itu, agenzia dell’Onu per le telecomunicazioni. Il suono delle loro kora è cristallino, richiama l’arpa, ed evoca atmosfere che valicano i confini africani. Toumani, il «vecchio», rappresenta l’esperienza e la tradizione; Sidiki, il «giovane», si avvale di influenze svariate, frutto della sua curiosità e sperimentazione. È un disco che va ascoltato senza pregiudizi: saprà farvi viaggiare in luoghi e tempi che prima non potevate immaginare. Alessandra Abbona Hit I brani più venduti a maggio in Cile 1 Bailando Enrique Iglesias Attore e cantante spagnolo che conta all’attivo oltre 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. 2 Adrenalina Jennifer Lopez e Ricky Martin Un inedito duetto di due icone del pop latino di orgine portoricana. 3 Magic Coldplay Singolo dell’album Ghost stories del gruppo britannico di alternative rock. 4 settembre Roma Alla Città dell’Altra Economia concerto di Alpha Blondy, uno dei principali interpreti del reggae africano. www.alphablondy.info 16 settembre Milano Concerto dei Master Musician of Jajouka, band marocchina che suona musiche berbere e sufi. www.jajouka.com STRUMENTI Trutruca C i sono suoni che vengono dalla fine del mondo: quello della trutruca è uno di questi. Aerofono a forma di corno piuttosto lungo, è uno degli strumenti tipici dei mapuche, gli abitanti originari della Patagonia. Ricavato dalla colihue (un tipo di bambù), ha una canna la cui lunghezza può variare dai 2 ai 5 metri, con diametro tra i 2 e i 10 cm, ripiegata e avvolta su se stessa in modo circolare, alla cui estremità sta un corno di vacca. Tradizionalmente la trutruca è ricoperta di filamenti di intestini di animale oppure di fili di lana, i cui colori richiamano quelli della tribù di appartenenza. Anche il corno bovino viene fissato con questi filamenti. Oggi, sempre più spesso, la colihue, la canna vegetale, viene sostituita con tubi di plastica come quelli usati per l’acqua, ma la forma rimane identica a quella del passato. Il suono della trutruca può essere piuttosto potente e siccome questo corno mapuche non ha fori per l’esecuzione delle note, i diversi suoni armonici sono ottenuti attraverso la pressione delle labbra sull’imboccatura e l’intensità del soffio del suonatore. Date le dimensioni, la trutruca viene appoggiata al terreno o su un tronco per poterla suonare. Secondo la tradizione, questo corno sudamericano veniva impiegato in occasione di rituali come il guillatún, il camaruco e il loncomeo (riti di connessione con il mondo spirituale per richiedere protezione, grazie e benefici), oltre a cerimonie funebri. La trutruca viene suonata solo dagli uomini, e il suo suono ricorda qualcosa a metà tra un trombone e i corni alpino e tibetano. Ad oggi utilizzata solo in occasioni legate alla cultura mapuche, non è praticamente diffusa al di fuori della sua area di origine. a.a. Gustare La cucina esotica del Nuovo Mondo •••••••••••••••••• La ricetta ••••••••••••••••••• Se molti prodotti americani contribuirono a cambiare i gusti europei, la cucina indigena si è preservata invece intatta fino ai nostri giorni TORTA DOLCE DI CAMOTE DELL’ECUADOR Un chilo di camote viene pulito, cotto e passato nel passaverdura. Il composto viene unito a tre cucchiai di burro, una tazza di zucchero, due cucchiai di cannella in polvere, rum e tre rossi d’uovo. Al composto, ben mescolato si aggiungono canditi e tre albumi montati a neve (unendoli delicatamente). Si mette nel forno a 250° per circa 25 minuti finché la superficie sarà ben dorata. Se si vuole la torta più morbida si può usare il lievito chimico. D opo che le caravelle di Colombo ebbero aperta la strada verso le Indie, sull’Oceano Atlantico si incrociarono per secoli le rotte dei conquistadores diretti nel Nuovo Mondo e quelle di chi da quel continente appena conosciuto portava in patria i tesori scoperti. Patate, pomodori, peperoni, peperoncino, mais e fagioli approdarono dunque sulle coste del Mediterraneo come alimenti esotici e modificarono per sempre la fisionomia della cucina europea. Lo stesso non accadde nel continente americano. Perché i conquistatori portarono alcuni prodotti del Vecchio Mondo, ad esempio l’aglio, alcune tecniche, ad esempio l’arte di friggere gli alimenti, alcuni condimenti, come il grasso di maiale (in forma di lardo fresco, salato e strutto) e l’olio d’oliva per i giorni di magro. Ma, soprattutto, portarono con sé il desiderio di non allontanarsi troppo dai sapori di casa e quello di distinguersi dalle popolazioni native e dalle loro cucine. Che erano molto diverse: anzitutto Campesinos sudamericani raccolgono camote. usavano alimenti difficili per il gusto europeo, come tuberi e semi, una mescolanza di sapori dolcepiccante, animali selvatici, insetti, larve e crostacei (questo ricorda Bernardino di Sahagún, impressionato dalla varietà di prodotti venduti nei mercati aztechi). Tutte cose poco apprezzate dai nuovi venuti. Ma era soprattutto il desiderio di non confondersi con gli indigeni, dei quali si sentivano superiori, a creare il confine tra la cucina degli spagnoli e quella locale. E anche se i bianchi verso expo 2015 Una ricerca lunga diecimila chilometri U n tragitto di 10mila chilometri da percorrere in nove mesi (marzo-dicembre 2014) senza usare mezzi motorizzati. È il viaggio ecocompatibile Esmeralda Expedition che sta intraprendendo il piacentino Francesco Magistrali, partito il 17 marzo per Ushuaia (unico tratto in cui si prende l’aereo) passando per Santiago del Cile, il deserto di Atacama, il deserto di Sale Salar de Uyuni, per poi risalire il Rio delle Amazzoni fino allo sbocco sull’Oceano Atlantico. Magistrali viaggerà su una canoa che diventerà la sua casa, ma si è dotato anche di un’amaca per le tappe nella foresta. 64 Popoli agosto-settembre 2014 Esmeralda Expedition nasce da una collaborazione con l’Università Cattolica di MilanoLaboratorio ExpoLab. Francesco Magistrali farà da ricercatore in loco. Focus della spedizione sarà la conoscenza delle abitudini alimentari delle comunità locali attraverso l’analisi dei consumi. Grazie ai dati che la spedizione sta raccogliendo si potranno redigere rapporti sulle culture alimentari e sulla sostenibilità delle produzioni agroalimentari sudamericane. Durante il viaggio verrà calcolata anche l’emissione di anidride carbonica (trasporti, cibo, energia) prodotta da Magistrali. Info: www.esmeraldaexpedition.com dovettero affidarsi alle arti culinarie delle donne indigene, quella che ne derivò fu una coabitazione di sapori e di tecniche e non una creolizzazione come ci si poteva aspettare. Gli indigeni, dal canto loro, continuarono ad alimentarsi con il chuño, una patata disidratata, a riempire di peperoncino lo stufato (locro), a tostare e bollire il mais. E anche oggi le cucine indigene si distinguono perché conservano l’uso di prodotti arcaici locali, mai giunti in Europa, come l’uncucha, l’achira, la mashua, la yuca e l’ullucu. (C. Boudan, Le cucine del mondo, Donzelli, 2005). O come il camote (Ipomea batatas Lam), una patata dal colore giallo o violaceo, dolce, conosciuta in migliaia di varianti e coltivata sulle Ande e in tutto il Sudamerica fin dall’antichità. Che non smette di ricordarci quanto esotico fosse il Nuovo Mondo raggiunto dalle caravelle. Anna Casella Paltrinieri RETROGUSTO Locali etnici con una storia dietro Taverna catalana C’ è una piccola «isola» catalana in Sardegna. È Alghero, conosciuta anche come Barceloneta (piccola Barcellona). Nella città sulla costa occidentale, conquistata dai catalano-aragonesi nel 1354, non si parla sardo, ma un dialetto molto simile al catalano. Questa sua specificità culturale è stata riconosciuta dallo Stato italiano e dalla Regione Sardegna che tutelano il catalano come lingua minoritaria e ne autorizzano l’insegnamento nelle scuole e l’utilizzo negli atti pubblici. La stessa Generalitat de Catalunya, il governo della regione Catalogna (Spagna), ha aperto da anni una sede istituzionale ad Alghero per mantenere vivi i rapporti con la città della Sardegna. La specificità algherese però non si limita alla lingua, ma interessa diversi aspetti della vita culturale della città. Non ultima la cucina. Tra gli appassionati di gastronomia, Alghero è famosa per alcuni piatti che mescolano sapientemente la tradizione sarda e quella catalana: famose sono l’aragosta algherese, la coppazza (zuppa di pesce) e gli spaghetti ai ricci di mare, ma anche la paella, la crema bruciata (simile alla crema catalana) e il menjar blanc (un dolce a base di crema portato in Sardegna proprio dagli aragonesi). Questa tradizione culinaria è viva ad Alghero. Tra i locali che si richiamano ad essa c’è anche la Taverna Catalana. A crearla è stato Daniele Falconi. «Sono algherese al 100% - dice orgoglioso delle sue origini - anche se il mio cognome non è di quelli tipici della città. Però sono molto legato alla nostra storia e al legame con la Catalogna». Non è un caso che il suo locale sia arredato in completo stile catalano: con legno a vista, foto storiche, botti e una grande bandiera con i colori giallo-rossi della bandiera di Alghero ripresi da quella della Catalogna. «Il legame con Barcellona e la sua regione è forte - continua Falconi - e sono contento che il catalano sia insegnato nelle scuole perché ci permette di non disperdere la nostra tradizione». Nel suo ristorante, secondo la tradizione della cucina iberica si servono piatti combinati di carne e verdure, ma anche la paella, le bruschette e i dolci catalani. TAVERNA CATALANA Via Asfodelo 47, 07041 Alghero SORSEGGI Tchapalo A ncor prima che i colonizzatori europei ne introducessero la produzione industriale, in Africa era molto diffusa la produzione artigianale di birra. Senza risalire ai regni dei faraoni in Egitto, molti popoli sia nelle regioni orientali (in Etiopia per esempio) sia in quelle occidentali ottenevano bevande fermentate dai cereali. Il tchapalo della Costa d’Avorio è un esempio di quanto stiamo affermando. Diffusa tra le popolazioni di etnia sénoufo, lobi e koulango, questa birra di miglio ha un ruolo importante non solo come bevanda da consumarsi durante i pasti, ma anche in campo religioso e sociale. Tradizionalmente viene preparata dalle donne di età superiore ai quarant’anni che ricevono la ricetta nel corso della cerimonia di iniziazione. Il processo di produzione comunque non è diverso da quello della birra comune e prevede il germoglio del miglio, la bollitura e la lievitazione. Il risultato è una bevanda con una gradazione alcolica tra i 4 e i 6 gradi, a seconda di quanto è durato il processo di ebollizione e della qualità di miglio utilizzato. Oggi, come in passato, il tchapalo è utilizzato nel corso delle cerimonie in onore degli antenati. Proprio la bevanda e l’ebbrezza che infonde in chi la beve sarebbe il mezzo per stabilire un contatto tra il mondo visibile e quello invisibile. In Costa d’Avorio addirittura non può essere consumato dai viventi se prima non è stato offerto agli abitanti del mondo degli spiriti. 7-10 agosto Arco (Tn) Mand’s Stock, rassegna di musica e cucina internazionale. facebook.com/ mandstockfestival 6-9 settembre Bologna Sana, salone del biologico e del naturale. www.sana.it Inter@gire Social media per il non profit Ripercorriamo, a beneficio di tutti i lettori (specialmente di chi lavora nel Terzo settore), i contenuti di un corso organizzato da Popoli L a prima edizione del corso «Non profit + social media» organizzato da Popoli lo scorso giugno a Milano, di cui chi scrive è stato docente insieme a Ugo Guidolin, ci ha presentato l’opportunità di formare gli allievi su un nuovo concetto di «social org» e le prassi per attuarlo. Le sfide che il non profit ha davanti sono ampie e impegnative; l’adozione di un approccio organico ai media partecipativi e di modelli di azione integrati è un’esigenza attualissima, peraltro perfettamente coerente con il desiderio di dialogare con un pubblico più giovane e di imparare a fare storytelling delle eccezionali realtà di cui il non profit è testimone. Ripercorrendo qui quanto condiviso, contiamo di offrire un’idea di ciò che - sul tema - può essere utile a ogni operatore del settore. I social media sono venuti per restare e lasciare il segno. Offrono oggi funzionalità che si sintonizzano con bisogni, desideri e aspirazioni del singolo e collettive. Lavorano proprio in questo senso, cercando di catturare, incorporare forme di espressione del sé (dell’io, dell’ego, ma anche del noi, del voi e del loro, se vogliamo) in un insieme di veicoli come parole, immagini, video, suoni, grafici, illustrazioni. Accessibilità, mobilità e ubiquità hanno reso questi nuovi media parte integrante della nostra vita. Le comunità presenti nelle reti digitali - e non solo, perché anche il territorio resta una variabile chiave - amano contenuti credibili, trasparenti, affidabili, e questo è bene saperlo perché nessuno più del non profit li possiede già. Abbiamo un vantaggio, dobbiamo imparare a usarlo, ma non siamo soli: la competizione per l’attenzione è alle stelle. Ecco che si pone il tema di diventare rilevanti, ed ecco i fondamentali di una content strategy: offrire informazioni utili e pertinenti, che il pubblico vive come un valore, un dono, e fornirli dove, come e quando sono significativi. Per farlo, bisogna conoscere profondamente il nostro pubblico, dai desideri ai ritmi della giornata tipo, passando per i temi sensibili e l’apertura al coinvolgimento in (buone) cause, le nostre. Si deve procedere con una mappatura delle parole che connettono l’associazione non profit e il pubblico, pianificando e attuando poi un coinvolgimento che trasformi tutto in «noi», senza più distinzioni. Con le parole si costruiscono mondi, e nei mondi ci sono persone che quelle parole le usano, le rendono vive: gli influencer, gli influenti. Con strumenti gratuiti che si trovano in rete (es. Alexa e Klout) e un attento lavoro di raccolta e confronto dati, si può realizzare una lista di influenti sui social media, da classificare e organizzare secondo criteri significativi. Quindi, assegnare priorità e livello di relazione, coinvolgendo anche il proprio presidente, che probabilmente sarà chiamato a curare alcuni rapporti direttamente. Lo stesso presidente deve essere su Twitter, Linkedin, forse Facebook: questo fa parte del nostro agire, informare, comunicare, coinvolgere. Aiutiamolo. Tutti abbiamo da imparare da tutti; abbiamo fatto il caso della Coca Cola, citato il DECODE Raccontare il mondo con il pollice alzato È scrittore e fotografo ma, prima di tutto, un viaggiatore: Juan Pablo Villarino, argentino, nel 2005 ha iniziato a viaggiare in Europa, Medio Oriente, Asia e Sud America, zaino in spalla. Un giro del mondo in autostop per raccontare l’ospitalità del mondo. Dal 2010 condivide questa passione e filosofia di vita con Laura Lazzarino. Nei loro viaggi hanno contato sull’aiuto di persone di ogni etnia, religione e nazionalità: abitanti di villaggio, camionisti, insegnanti, soldati; sono stati ospiti di persone semplici, autorità o… costruttori di armi belgi che ballano la lambada. I due «acróbatas del camino» hanno così iniziato a cercare un modo per restituire quanto ricevuto dalle comunità che incontravano sulla loro strada. Nel 2009 è nato per questo l’Educational Nomadi Project (acrobatoftheroad.blogspot.it/p/ educational-project.html), un programma che si fonda sul principio della bontà intrinseca dell’essere umano, sul cooperativismo e la diversità culturale. 66 Popoli agosto-settembre 2014 Nei propri zaini i due portano con sé un proiettore portatile grazie al quale organizzano proiezioni fotografiche e conferenze nelle scuole di città, villaggi, borghi e comunità che visitano durante il viaggio intorno al mondo. L’obiettivo di queste lezioni è combattere gli stereotipi veicolati dai mass media, mostrando la realtà con testimonianze di prima mano e fotografie. È un modo diverso di promuovere una conoscenza orizzontale tra popoli, senza mediazioni. Come racconta Juan Pablo, «nei sobborghi affollati di Cali, in Colombia, gli adolescenti imparano che tutti gli arabi sono terroristi. E gli adolescenti in Afghanistan hanno sentito che tutti i colombiani sono spacciatori. Come si fa a uscire da questo circolo vizioso?». Lo stesso vale per i grandi temi dell’ambiente, dello sfruttamento minerario, della lotta per l’acqua, della violenza di genere. Dopo tutto, come diceva Miguel de Unamuno, «il razzismo si cura viaggiando»: una riflessione da non trascurare in questa stagione di vacanze e viaggi. Antonio Sonzini [email protected] discorso di Melinda Gates sulle tre cose che il non profit deve imparare dalla multinazionale americana. Loro riescono a essere capillari, a portare una lattina nei posti più remoti, noi ancora no; loro riescono a incarnare un’aspirazione («Vuoi avere tanti amici? Bevi Coca Cola»), noi ci stiamo lavorando. Capito che cosa amano le comunità in rete, reso visivamente chiaro chi siamo con una tag cloud di parole chiave, individuati bene temi e parole per cui siamo riconoscibili, passiamo alla content strategy; prima però, definiamo social media e social network: i primi sono tutti i siti in cui le persone interagiscono liberamente scambiando informazioni con un mix multimediale, mentre i secondi sono una sottocategoria dei social media, al pari di blog, wiki, virtual world, social bookmarking, podcast portal e altro. Nel Conversation Prism (www. conversationprism.com), i social network sono solo uno dei 26 quadranti. La content strategy deve poter contare su di una fase di lancio tematico o di campagna forte, che generi il picco iniziale, e su una serie di tecniche per favorire la «coda lunga» di coinvolgimento e partecipazione. Per raccontare come si generano contenuti abbiamo spiegato che cos’è una direzione editoriale e lo abbiamo fatto con un numero di Popoli in mano: temi, rubriche, fonti, firme, spazi; tipologia di contenu- ti, se fotografici, infografici, testuali (i media in rete offrono di più, e abbiamo sottolineato l’importanza del suono); spazio ai lettori. Dobbiamo generare un calendario editoriale; fatto questo e con le idee chiare su ruoli, responsabilità, policy e best practices, passiamo alla fase della regia di produzione: siamo pronti per pubblicare sui social. E qui abbiamo raccontato il mondo di Twitter e Facebook in modo approfondito: come essere efficaci nel tweeting e nel posting, le tecniche di visibilità e coinvolgimento, come e cosa misurare. Abbiamo poi ragionato sul ciclo di vita dei contenuti: mappatura fonti, analisi, organizzazione e cura dei contenuti, produzione e pubblicazione, monitoraggio. Da ultimo siamo approdati a quello che può rappresentare il caso più completo e complesso di relazione tra attivazione di logiche di comunità rete-territorio e media partecipativi: il crowdfunding. Presentati i modelli e i nomi delle principali piattaforme, abbiamo conosciuto il caso di studio di Compagnia del Perù: un esempio che integra il personal fundraising e fonde reti e territorio, relazione diretta e media(ta), influenti e coinvolgimento diretto, programmazione e flessibilità, impegno e risultato. E buon lavoro! Giovanni Vannini GooglePlus: +GiovanniVannini @giovvan + NON PROFIT SOCIAL MEDIA Nell’ultimo anno il settore del Non-profit ha cominciato a sfruttare con decisione e successo i social media soprattutto per cercare visibilità e sensibilizzare alla propria causa. Sono le associazioni Non Profit che dichiarano di utilizzare i social network. Il 51% da prima del 2011. 90% UTILIZZI & BENEFICI 72% 70% 43% 80% 65% 28% VISIBILITÀ SENSIBILIZZAZIONE FUNDRAISING BeneÞcio Utilizzo I SOCIAL NETWORK PIÙ UTILIZZATI 58% dichiara di non avere problemi ! 9% 12% 20% 42% lamenta criticità relative a tempo e risorse da impiegare 37% 22% E IL CROWDFUNDING…? 19% 5,5% Solo il 19% delle ONP ha fatto almeno una campagna di crowdfunding e solo il 5,5% ha raggiunto l’obiettivo con cifre non superiori ai 5000,00 euro. Fonte: Sodalitas.it | InfograÞca di Ugo Guidolin agosto-settembre 2014 Popoli 67 Benvivere Frutteti urbani contro lo spreco È nata in Italia un’associazione che raccoglie e distribuisce la frutta dei giardini pubblici D al Portogallo, Paese che sta vivendo una profonda crisi economica e sociale, arriva un’idea interessante di recupero della frutta e verdura, nata proprio dall’esigenza di risparmiare combattendo lo spreco. Nel novembre 2013, a Lisbona ha aperto la prima delegazione della Cooperativa Fruta Freia che si occupa di comperare frutta e verdura dai produttori piccoli e medi alla metà del prezzo di vendita. La cooperativa acquista ciò che, per questioni estetiche, viene scartato dal commercio all’ingrosso e lo rivende ai suoi soci. Un modo per combattere l’i- nefficienza del mercato e creare invece un luogo di scambio parallelo e alternativo per i consumatori e gli agricoltori. Mutuando l’esperienza portoghese è nato a Roma, pochi mesi fa, il progetto Frutta Urbana. Si tratta del primo progetto in Italia di mappatura, raccolta e distribuzione della frutta che cresce nei giardini pubblici. In questo modo l’iniziativa intende creare occupazione durante i periodi di raccolta e distribuzione della frutta, ma anche nelle fasi di manutenzione dei frutteti e della creazione di nuovi frutteti urbani e aree verdi. La creazione di frutteti offrirà anche l’occasione per dar vita a luoghi di aggregazione sociale e la possibilità di recuperare aree abbandonate. Il progetto intende reintrodurre una cultura ecologica che salvaguardi la biodiversità del territorio e sensibilizzi alla sicurezza ambientale. Una volta raccolta, la maggior parte della frutta, viene regalata a mense e banchi alimentari e ECOJESUITS Viaggi in aereo? Allora pianta un albero I gesuiti della Cambogia hanno dato il via a un progetto per neutralizzare le emissioni di anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra. L’iniziativa, destinata in primo luogo ai gesuiti del Paese, ai volontari e agli amici visitatori, offre l’opportunità a coloro che viaggiano in aereo da e per la Cambogia di controbilanciare le emissioni di carbonio dei velivoli. Ecco come funziona: chi partecipa deve riempire un formulario indicando la rotta aerea e gli aeroporti di transito da e per la Cambogia. Viene quindi calcolata l’emissione approssimativa di carbonio secondo i criteri stabiliti dalla International Civil Aviation Organization, che tiene conto di vari fattori come il tipo di aereo, il numero dei passeggeri e il consumo di carburante. La quantità di emissione di carbonio è poi convertita nel numero di alberi che è necessario piantare e in quanto tempo è necessario per farli crescere per reintegrare il carbonio consumato in quei viaggi. Il costo per piantare e far crescere gli alberi è pagato dal viaggiatore, il quale, a sua volta, riceve un codice che indica l’albero o gli alberi piantati in Cambogia. «Abbiamo fiducia che quando il nostro sito Web sarà in funzione nel corso di quest’anno - osserva padre Gabriel Lamug-Nañawa -, i nostri sostenitori saranno in grado di identificare i propri alberi e di verificarne la crescita attraverso foto fatte periodicamente». L’iniziativa si svolge in collaborazione con il vivaio di Banteay Prieb, una scuola professionale per disabili diretta dai gesuiti. solo una minima parte venduta tramite i Gruppi d’acquisto solidali, piccoli ristoranti e negozi. A breve si potranno acquistare online anche marmellate, succhi, liquori ottenuti da questi prodotti. Per sostenere il Progetto Frutta Urbana si può aderire diventando soci, facendo una donazione o diventando volontari. Per maggiori informazioni: www. fruttaurbana.org Graphic journalism “I lavori forzati sono una fortuna rispetto alla situazione in cui mi trovo ora. Noi non conosciamo né il motivo né la durata della nostra condanna”. “fuori del lager Ogni cosa, anche la più miserabile esistenza, è stupenda. il lager è l’incarnazione di tutti i mali”. “diventiamo tutti cattivi perché siamo affamati. Diventiamo cinici e arriviamo a contarci i bocconi. siamo tutti disperati, eppure nessuno uccide perché siamo tutti una massa di bestie che io disprezzo. Provo odio per ciascuno di noi perché siamo caduti tanto in basso”… 7/ continua In quale Paese si trova questo monastero? 1. Il suo più grande poeta cantò una stella 2. Ha un’ingente minoranza di «siculi» 3. Include la polenta nella sua cucina popolare Invia la risposta entro il 30 settembre a [email protected]. Alla quinta risposta esatta vinci un Atlante Geografico Moderno De Agostini 2013/2014 (regolamento su www.popoli.info) La risposta di maggio: Kaohsiung (Taiwan) Silvano Fausti S.I. Biblista e scrittore Il carcere, la seconda Chiesa d’Europa «Il carceriere “fece salire in casa” Paolo e Sila» (leggi Atti 16,16-40) L’ incontro di Paolo con il mondo pagano a Filippi è una sequenza di peripezie. C’è pure la novità di un mondo fatto di schiavi e padroni. Questo farà capire a Paolo che la sapienza e la potenza di Dio differiscono da quella mondana come la vita dalla morte. Unico potere dell’evangelizzatore è vivere ciò che dice. Partecipa al mistero del Giusto, che vince il male con il bene. Da qui persecuzioni, battiture, carcere e minacce di morte; ma anche resurrezione di carcerati e nascita a vita nuova di carcerieri. Se la prima chiesa d’Europa è la casa di Lidia, la seconda è la prigione dove abita un carceriere. Paolo e compagni vanno dalla casa di Lidia verso il fiume per pregare. Nel cammino, a «evangelizzare» ci pensa uno «spirito di divinazione». Per i greci è un dèmone, spirito buono; per i giudei è un demonio, spirito malvagio. Anche nei Vangeli i demòni proclamano per primi Gesù come Dio. Ma Gesù li zittisce. È una tentazione. Dio si rivela dalla croce. Solo lì manifesta il suo potere: amore che serve e dà vita. Il nostro potere invece è egoismo che schiavizza e dà morte. L’uomo vuol essere come Dio. Ma quale Dio? Quello propinato da satana dall’albero nel giardino (Gen 3,1ss), o quello rivelato dall’albero della croce? Anche Pietro è chiamato satana perché vuole un Dio potente (Mt 16,16-23). È quello che le religioni affermano e gli atei, a ragione, negano. Paolo scaccia il demonio dalla schiava, anche se gli fa propaganda gratuita. Ma i suoi padroni, persa la fonte di guadagno, lo accusano come un giudeo che turba l’ordine pubblico. Paolo e Sila sono bastonati e messi in ceppi di legno nel più profondo del carcere, come in un sepolcro. Anche il Cristo che trionfa sulle «reti e catene» con cui satana imprigiona tutti è inchiodato al legno della croce. Il terremoto notturno, che apre porte e scioglie ceppi e catene, è una scena di risurrezione. Il testo è un gioco di liberazioni e salvezze. La donna è liberata dallo spirito e i carcerati da catene e ceppi. Il carceriere, a sua 72 Popoli AGOSto-settembre 2014 volta, liberato da morte, è battezzato e salvato con tutta la sua casa. Se l’esorcismo mostra il trionfo di Cristo sul paganesimo, la liberazione dei carcerati - in questo mondo siamo un po’ tutti carcerieri e carcerati! - mostra che Dio vuol liberare l’uomo da ogni schiavitù. La scena è simile ad Atti 12,3-17. La missione ai pagani è opera di Dio: né battiture né ceppi, né catene né carcere la fermano. Gli stessi demòni non possono non favorirla. Davanti al bene il male si dissolve come tenebra alla luce. La città di Filippi, colonia romana, è «contesto utile» al confronto tra Vangelo e mondo pagano. Da tempo i giudei si sono «inculturati», anche se non senza difficoltà. Sono infatti visti con sospetto. La tendenza antigiudaica è antica. Pur essendo il giudaismo una «religio licita», tuttavia l’antigiudaismo è diffuso e tocca anche i giudeocristiani Paolo e Sila. Dopo l’Editto di Costantino il cristianesimo, diventato religione di Stato, ha purtroppo ereditato l’antigiudaismo tipico di tutti i potenti che temono chi è libero. La Chiesa d’Europa comincia con persone semplici e comuni: una commerciante ebrea e un carceriere pagano. Dio si svela a poveri e semplici, ma si cela a sapienti e potenti. «Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,28). Il messaggio cristiano attira a sé tutti, perché presenta il Crocifisso. Egli è «il figlio dell’uomo», che si identifica con ogni persona. In lui pure l’ultimo degli uomini può riconoscersi. E anche Dio stesso. Infatti, se togli a un uomo ciò che ha, resta ciò che è: è semplicemente uomo. E l’uomo, in quanto tale, è la sola immagine e somiglianza di Dio. Per riflettere e condividere > Perché Paolo e i carcerati sono così liberi da restare in prigione? > Perché il carceriere è così schiavo da uccidersi? > Come l’Editto di Costantino danneggiò la Chiesa?