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ago.-set. 2014 - N. 8-9
Land grabbing
all’italiana
€4
Quando gli «arraffa terre» siamo noi
algeria
C’è chi dice no
(a Bouteflika)
reportage
Siria, i cristiani
che restano
brasile
I semi
di dom Hélder
editoriale
Stefano Femminis
Direttore di Popoli - [email protected] -
@stefanofemminis
Coerenza
cercasi
Il 3 luglio il viceministro degli Esteri italiano, Lapo Pistelli, ha incontrato ad
Asmara il dittatore Isaias Afewerki con l’obiettivo - citiamo il comunicato
stampa della Farnesina - di «favorire un pieno reinserimento dell’Eritrea
quale attore responsabile e fondamentale della comunità internazionale nelle
dinamiche di stabilizzazione regionale». Come si possa pensare di far diventare
«attore responsabile» chi da oltre vent’anni affama il suo popolo, imprigiona
gli oppositori e costringe alla fuga decine di migliaia di giovani, ricattando
le loro famiglie in patria, è un dilemma che forse solo il viceministro potrà
chiarire. Altrettanto misterioso è che cosa intenda Pistelli quando dichiara:
«Ho voluto chiarire personalmente anche al presidente Isaias qui ad Asmara
che l’Italia è pronta a mostrare una disponibilità nuova». Probabilmente si
riferisce alla disponibilità a potenziare gli interscambi economici, e qualche
beninformato assicura sia compresa anche la vendita di armi tricolori (non
un bel modo per promuovere la «stabilizzazione regionale»).
Certamente la missione governativa italiana in Eritrea (la prima dal 1997)
nasce dal desiderio di arginare in qualche modo i flussi di migranti che dal
Corno d’Africa arrivano sulle nostre coste - insieme ai tanti in fuga dalla
Siria -, ma dubitiamo che la strada migliore sia sostenere e legittimare
personaggi con le mani
sporche di sangue. A costo
Ha senso lanciare una grande operazione di difesa
di passare per ingenui,
dei diritti umani e poi dialogare con chi li tradisce?
ci piacerebbe che tra le
La visita del nostro viceministro degli Esteri al
precondizioni di qualunque
dittatore eritreo è il sintomo di una certa confusione
rapporto diplomatico ci fosse
il rispetto dei diritti umani. Un’attenzione questa che, va detto, si riscontra
invece nell’operazione Mare nostrum. Vincendo l’eterna tentazione di
voltarsi dall’altra parte e sfidando anche qualche rischio di impopolarità,
da ottobre 2013 l’Italia è impegnata in un’azione meritevole che ha sinora
salvato più di 50mila migranti, il 30% dei quali sono proprio eritrei.
Dunque soccorriamo persone in fuga da una dittatura, ma poi discutiamo
amabilmente con colui che di quella dittatura è il responsabile. Questa sorta
di stato confusionale del governo in politica estera si nota anche in altri
dossier: non è chiaro quale sia la nostra posizione sulla Siria, posto che ce
ne sia una; quando nel 2011 sono scoppiate le primavere arabe siamo stati
a guardare, timorosi di possibili derive fondamentaliste, e lo stesso stiamo
facendo ora che trionfano la restaurazione (come in Egitto) o il caos (come in
Libia); nel suo viaggio di giugno in Cina e in Vietnam, Matteo Renzi è stato
accompagnato dalle principali aziende italiane e ha stretto accordi con alcune
delle maggiori imprese asiatiche per stimolare il commercio tra Italia e Asia
orientale, ma non ha speso una sola parola su democrazia, diritti umani e
libertà. E si potrebbe continuare ricordando che il mondo della cooperazione
internazionale è in subbuglio per una serie di anomalie nell’ultimo bando del
Ministero degli Esteri, con molte Ong rimaste a secco di finanziamenti e altre
invece particolarmente beneficiate.
Insomma, se davvero il governo Renzi intende durare mille giorni - come
lo stesso presidente del Consiglio ha promesso e come noi gli auguriamo -,
sarebbe bene che mettesse a fuoco e spiegasse agli italiani qual è la propria
linea in politica estera. Per ora non si è capito.
AGOSTO-SETTEMBRE 2014 Popoli 1
Coerenza cercasi
S. Femminis
PICS
CAMMINI DI GIUSTIZIA
Stranieri nostrani
foto G. Angri, A. Di Girolamo e D. Fracchia
sommario
n. 8-9 - agosto-settembre 2014
01EDITORIALE
24
Inchiesta
Land grabbing all’italiana
M. Gatti, E. Casale, D. Bezzi
21Nicaragua
Quei morti di nulla
D. Cobo
24Algeria
C’è chi dice no
(a Bouteflika)
E. Zuccalà
27Solidarietà
Umorismo volontario
F. Pistocchini
IDENTITÀ - DIFFERENZA
Reportage
Siria, quelli che restano
A. Milluzzi
36Musica
Contaminazione globale
C. Zonta SJ
39Il fatto, il commento
Il Sinodo sulla famiglia,
una sfida al plurale
J. Costadoat SJ
In copertina: Indonesia, un tratto di foresta nel Borneo
occidentale disboscato da aziende straniere per produrre olio
di palma per biodiesel (Foto Afp Photo/ Romeo Gacad)
14
inchiesta
27
7
PICS
08
DIALOGO E ANNUNCIO
Cina
Il mandarino di Dio
D. Magni SJ
43Brasile
I semi di dom Hélder
G. Fazzini
46Storia
Da Ignazio a Francesco/7
Il ritorno dei gesuiti
G. Pireddu SJ, P. Zahoránsky SJ
43
RUBRICHE
04Lettere e idee
05Contromano
G. Ferrario
06Multitalia
Se la politica
(anche a sinistra)
scarica i rom
M. Ambrosini
06Made in China
Esame di maturità
E. Zanetti SJ
07La sete di Ismaele
Ciò che salva una vita
P. Dall’Oglio SJ
reportage
30
07Scusate il disagio
Collirio divino
G. Poretti
52Jsn/Jrs/Amo
70Postcard
72L’ultima Parola
Il carcere, la seconda
Chiesa d’Europa
S. Fausti SJ
E tra
lettere e idee
SIRIA, IL DIALOGO
IN TEMPO DI GUERRA
Domenica 8 giugno, a
Milano, si è svolto un
concerto benefico per la
Comunità monastica di
Deir Mar Musa, in Siria,
fondata dal nostro collaboratore Paolo Dall’Oglio,
rapito in Siria da oltre un
anno.
L’evento - che ha visto
una grande partecipazione - è stato possibile grazie alla presenza gratuita
dell’ensemble Entr’Acte,
composto prevalentemente da musicisti della Scala. All’inizio della serata
è stata letta una testimonianza inviata dalla
SCRIVETECI
Indirizzate le
vostre lettere a:
[email protected]
Redazione Popoli
Piazza San Fedele 4
20121 Milano
02.86352802 (fax)
www.popoli.info
Comunità di Mar Musa.
Pubblichiamo qui il testo
imtegrale.
Cari amici, la pace del
Signore sia con tutti voi.
Prima di tutto vogliamo,
come comunità, esprimere il nostro ringraziamento e la nostra gratitudine per il vostro gesto
di solidarietà con noi e
con la nostra Siria. Grazie ad ogni persona che
dà del suo tempo e offre
la sua preghiera per la
Siria. Grazie anche per
ogni gesto di solidarietà
materiale con noi. Vogliamo condividere con voi
alcune delle notizie sulla
nostra vita e sulle nostre
attività in questo tempo
critico per il nostro paese.
La comunità ha deciso di
rimanere nel monastero
malgrado le difficoltà e la
carenza, se non vogliamo
dire l’assenza quasi totale
degli ospiti. Continuiamo
la nostra vita di preghiera, fiduciosi nel Signore
che non ci lascia mai.
La preghiera è, infatti, la
sorgente dalla quale at-
tingiamo forza per andare
avanti. La vita del lavoro
manuale continua anche
se in modo molto limitato,
in questo tempo abbiamo
potuto fare alcuni lavori
di manutenzione del monastero e alcuni lavori di
agricoltura.
Il nostro sforzo è stato
riversato sugli aiuti umanitari. Il nostro secondo monastero, Deir Mar
Elian ha ricevuto quasi
5mila profughi per diversi
mesi. È stato un rifugio
per tante famiglie musulmane dei villaggi vicini.
La comunità ha sostenuto queste famiglie distribuendo aiuti alimentari
e medicinali e vivendo
come una grande famiglia. Siamo riusciti a fare
questo grazie al sostegno
di tanti benefattori e al
Jesuit Refugee Service.
C’erano quasi 110 bambini, per i quali abbiamo organizzato giornate
di attività di gioco con
i giovani volontari della
parrocchia. Abbiamo insistito anche per mandarli
a scuola e provvedere ai
loro bisogni. La gioia che
ci dava il sorriso di un
solo bambino era capace
di farci dimenticare ogni
fatica! Ora queste famiglie sono tornate nelle loro case e continuiamo ad
aiutarle per quanto è possibile per rendere vivibili
le loro case semidistrutte.
Nebek, la città più vicina
al monastero di Mar Musa, ha subito tanti danni. Non dimenticheremo
la commozione di tutti
quando, dopo giorni di
difficoltà, abbiamo potuto
celebrare insieme ad alcune famiglie la Messa di
Natale. Adesso proviamo
ad aiutare tante famiglie
che si trovano in difficoltà
o per mancanza di lavoro
o per problemi di salute.
In collaborazione con un
centro musulmano che
si interessa delle persone
diversamente abili, siamo riusciti a organizzare
visite per alcune famiglie
in difficoltà nelle città di
Nebek e Yabroud (un’altra
città molto segnata dalla guerra). Abbiamo soprattutto pensato a quelle
Anno di fondazione: 1915
Direttore responsabile
Stefano Femminis
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Francesco Pistocchini
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La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla
legge 7 agosto 1990, n. 250.
famiglie dove ci sono uomini invalidi o donne divorziate o vedove. Queste
visite, belle e costruttive,
servivano per capire la
loro situazione e provare
ad aiutare provvedendo
ai bisogni più essenziali.
Il contatto con persone
che sono in maggioranza musulmane è un’occasione concreta per vivere
fino in fondo la nostra
consacrazione al dialogo
interreligioso. Viviamo
questa nostra vocazione
in una forma di dialogo
non teologico ma vitale e
concreto.
Lavoriamo e preghiamo
per il futuro della Siria
e per il futuro del mondo
senza mai perdere la speranza. Grazie di nuovo!
La comunità di
Mar Musa (Al-Khalil)
Siria
RICCI BEATO?
NON NECESSARIO
Cari amici di Popoli, leggo con piacere i servizi e
le testimonianze riportate di mese in mese sulla
rivista. Con riferimento
all’articolo sulla possibile,
e auspicata dall’autore,
beatificazione di Matteo
Ricci e Xu Guagqi, devo
QUESTO NUMERO
Come ogni anno, in estate
Popoli diventa bimestrale: questo è il numero
di agosto-settembre. Da
ottobre si ricomincia con
la cadenza mensile.
dire che da tempo sono
una ammiratrice di Matteo Ricci e amo molto la
cultura cinese.
Non ritengo vitale ufficializzare la santità di
Matteo e di Xu che come
Romero, Câmara e altri
sono già nella gioia di
Dio. Se tuttavia vogliamo
aggiungere alcuni motivi
per dichiararli agli occhi
degli uomini «santi» aggiungerei le voci seguenti: intelligenza della mente e del cuore; coerenza e
giustizia una volta scelto
il Cammino; amore fedele
per una terra, un popolo,
una cultura. Questo è l’amore che ti fa abbracciare
Dio in tutto l’Universo.
Magda Gaetani
[email protected]
LE CRISI AFRICANE
e IL SILENZIO DEI MEDIA
Negli ultimi mesi ho letto
sul sito di Popoli alcuni
articoli sulle crisi in corso
nella Repubblica centrafricana e in Sudan. Purtroppo, come in passato, i
grandi media si sono quasi
completamente disinteressati di queste guerre. Se
non ci fossero riviste e siti
come i vostri, difficilmente si saprebbe qualcosa.
Detto questo, resta l’amarezza per l’ennesima prova
di maturità fallita dal continente africano, incapace
di costruire democrazie
solide e pace stabile.
Lorenzo D’Angelo
Pescara
Esame fallito, sì, ma con
ampie e decisive complicità delle (mature?) democrazie occidentali...
CONTROMANO
di Giuseppe Ferrario
ebook
€ 4,49
in vendita su
e su tutte le piattaforme digitali
(Amazon, Kobostore, iBookstore...)
agosto-settembre 2014 Popoli 5
lettere e idee
Se la politica (anche a sinistra) scarica i rom
L’
Multitalia
Maurizio Ambrosini
Università di Milano,
direttore della rivista
Mondi migranti
assessore alle Politiche sociali di una grande città, governata dal centrosinistra,
ha dichiarato recentemente: «Per i rom non spenderemo un euro del bilancio
comunale». Probabilmente intendeva dire che gli interventi per la chiusura degli insediamenti abusivi e per dare un’accoglienza dignitosa alle famiglie erano finanziati
con risorse dello Stato, mediante un capitolo del controverso piano Maroni di qualche
governo fa. Ma l’espressione riportata dai giornali e il contesto, in cui gli esponenti
dell’opposizione attaccavano la giunta comunale sostenendo il contrario, rivelano un
serio problema, culturale e politico.
La grande maggioranza dell’opinione pubblica è convinta che non sia lecito spendere
denaro pubblico per quella che è stata definita la minoranza più discriminata d’Europa.
Al punto da non avere titolo per accedere alle pur modeste risorse destinate a persone
e famiglie in difficoltà. Il possesso della cittadinanza italiana o europea non basta a
scalfire questa condanna preventiva: più dei diritti formali pesa l’esclusione sociale.
Le forze politiche in parte fomentano, in parte cavalcano, in parte subiscono questa impostazione: se parlano apertamente di interventi per l’integrazione sociale dei rom, per
sottrarli a condizioni degradanti e avviarli all’autonomia e al lavoro, perdono consensi.
Completano il triste scenario certi paladini dei rom, per i quali ogni sgombero è sbagliato per principio, anche quando alle famiglie vengono offerte soluzioni concrete
e percorsi di emancipazione. C’è chi vuole lasciare in piedi a tutti i costi le favelas
urbane, in cui i bambini contendono il terreno ai topi, limitandosi a qualche intervento
di riduzione del danno. E c’è chi teorizza una versione locale delle riserve indiane: per
preservare la cultura, istituzionalizzare ghetti semivolontari destinati ai rom.
Di fronte a tutto questo, si cercano operatori responsabili, osservatori seri, e soprattutto politici coraggiosi.
Esame di maturità
N
MADE IN CHINA
Emilio Zanetti SJ
Gesuita, lavora al
Kuangchi Program
Service (produzione
televisiva) di Taipei
el 2003 il mio amico Chen Xin aveva vinto una
borsa di studio nella più quotata scuola superiore di Pechino come miglior studente di fisica
dell’intera Cina. Ora sta concludendo un dottorato
alla Loyola Universiy a Chicago, ateneo dei gesuiti,
e racconta: «Siamo cresciuti imparando tutto a
memoria, giocando con le equazioni di fisica e
matematica; fare gli esami era una specie di sport,
di dimostrazione della forza della nostra memoria».
In effetti per molti asiatici, le soluzioni a complessi
problemi matematici sono cose molto semplici.
Ho ripensato a Chen Xin in queste settimane:
mentre scrivo, in Cina si sta svolgendo l’esame
di maturità, chiamato Gaokao, e - parlando anche
con altri confratelli - viene spontaneo chiedersi
fino a che punto la memorizzazione lasci spazio
all’intuizione e all’innovazione.
«Guardando i nostri alunni di oggi - mi dice il
professor Wang, preside di una scuola superiore
della capitale - quello che forse colpisce di più è
la voglia di imparare che caratterizza le giovani
generazioni. La voglia di migliorare e di essere al
passo con i tempi. Anche se questo sembrerebbe
“normale”, tuttavia per noi richiede un cambiamento di mentalità: anzitutto perché il sistema
tradizionale degli esami, tipico della lunga storia
6 Popoli agosto-settembre 2014
cinese, richiedeva una preparazione molto vasta,
in cui si dovevano memorizzare molte cose a scapito, però, dell’innovazione e delle nuove idee».
Questo approccio in realtà è ancora presente
nella maggioranza dei casi. Lo stesso professor
Wang dice che «gli studenti sono spesso “macchinette per fare esami”. Sono abituati a rispondere
esattamente alle domande preconfezionate, poi
quando si trovano a lavorare in un’azienda sono
vittime della paura di sbagliare, perché sono stati
abituati a esami standardizzati».
Per questa ragione si cerca di importare nuove
idee, di copiare altri sistemi educativi. Il governo
nel 2006 ha steso un piano preciso dichiarando
di voler trasformare la Cina «in una società innovatrice entro il 2020». E gli incentivi finanziari ed
economici sono molto alti, dalle grandi università
alle piccole scuole nei villaggi. Perché i problemi sono tanti ma vanno risolti. Wang porta un
esempio concreto: «Pensiamo al grande problema
dell’inquinamento: ora molte aziende cinesi sono
all’avanguardia nella produzione dei pannelli solari e delle fonti alternative. La stessa capacità
di innovazione serve in molti altri campi: vista la
marea di giovani talenti cinesi, è una sfida che
verrà sicuramente vinta».
Ciò che salva una vita
Nella speranza di riabbracciare presto padre Paolo, rapito in Siria nel luglio 2013, continuiamo la lettura
dei suoi libri. Qui un brano di Mar Musa. Un monastero, un uomo, un deserto (a cura di G. Montjou,
Paoline 2008).
L’
ipotesi che si possa fallire la propria vita è
drammatica.
E tuttavia non invalida in nessun punto l’amore
che Dio ha per ognuno. Fallire la propria vita sul
piano sociale, professionale, psicologico, relazionale, fisico non è grave, a patto che si riesca a
cogliere, nello sguardo di qualcuno, la certezza
che essa non sia fallita sul piano ontologico.
Se io cominciassi a credere che certe persone sono
abbandonate da Dio, a ritenere il Creatore incapace
di occuparsi di ognuno, a credere nella fatalità, se
cedessi di un millimetro a questa logica, allora sarei
io il primo a essere perduto. Senza contare che un
Dio così non mi interesserebbe affatto...
Il vero, unico modo per fallire la propria vita è
odiare l’amore di Dio. Si fallirebbe la propria vita
se si pensasse che Dio è stupido ad ammazzarsi di fatica per cercarci, se ci si domandasse:
«Perché, dopo tutto, questo Dio ama così tanto
gli uomini (tanto da crearli, dare loro la libertà, la
parola) e come fa a sopportare di essere ringraziato così malamente?». Se si lasciasse questa
domanda senza risposta, finiremmo presto per
odiare ciò che è buono e gratuito.
E qui si fallirebbe la propria vita. In caso contrario,
si è catturati, condannati alla bontà.
La sete di ismaele
Paolo Dall’Oglio SJ
Gesuita, fondatore della
Comunità monastica
di Deir Mar Musa (Siria)
Collirio divino
Termina con questo articolo la serie di Giacomo Poretti dedicata a una rilettura semiseria
dei Dieci comandamenti. Se vi siete persi qualche puntata le potete ritrovare tutte su www.
popoli.info nella sezione che raccoglie gli articoli di Poretti.
C
ome tutti i dettami del Decalogo, anche l’ultimo - «Non desiderare la roba d’altri» - è
materia ostica per qualunque essere umano. Per gli Italiani, poi, in questo momento
storico, il decimo Comandamento è una spina nel fianco.
Come si fa a non desiderare la nazionale degli altri? Quella tedesca in particolare.
Come si fa a non desiderare il bilancio di un altro Paese? Quello tedesco in particolare.
Come si fa a non desiderare la determinazione di un altro popolo? Quello tedesco in
particolare.
Come si fa a non desiderare un’altra progettualità, un’altra serietà, un’altra onestà, un
altro amor patrio, un altro senso dello Stato? Sempre quello tedesco per la cronaca.
Nella Divina Commedia agli invidiosi come punizione venivano cuciti gli occhi, poiché con
quello sguardo avevano desiderato quello che gli altri possedevano, ma soprattutto con
quello sguardo avevano desiderato che il male si abbattesse sugli altri.
Però come si fa a non chiedere dall’Alto un altro sguardo, o se proprio il Padreterno
non ne avesse a disposizione, un collirio almeno, che di punto in bianco guarisca la
nostra cecità, che ci riconsegni un altro sguardo, non invidioso, ma impietosamente
autocritico.
Perché la fantasia, la creatività, la (presunta) genialità, se non hanno un metodo, un
progetto, anche nella Fede, finiscono come la Nazionale di Prandelli.
scusate il disagio
Giacomo Poretti
del trio Aldo, Giovanni
e Giacomo
agosto-settembre 2014 Popoli 7
Stranieri
nostrani
Foto
Gin Angri, Antonella Di Girolamo e Dino Fracchia
Sono diventati indispensabili in un settore chiave
della produzione italiana: si tratta degli immigrati
che lavorano nell’agroalimentare. Dai campi ai
piccoli laboratori, fino alle industrie, sono qui
ritratti da tre fotografi di BuenaVista photo
G. ANGRI
agosto-settembre 2014 Popoli 9
D. FRACCHIA
A. DI GIROLAMO
10 Popoli agosto-settembre 2014
“
“
Il treno che viene dal sud
Non porta soltanto Marie
Con le labbra di corallo
E gli occhi grandi così
Porta gente
gente nata tra gli ulivi
Porta gente che va
a scordare il sole
Ma è caldo il pane
Lassù nel nord
Accade di ascoltare: «La vendemmia
quest’anno è salva grazie agli immigrati»;
«non avremmo abbastanza braccia per
raccogliere la frutta». Non servono gli
episodi più crudeli di sfruttamento per
sapere che il sistema produttivo agricolo
italiano oggi si fermerebbe senza lavoratori
di origine straniera. Nelle campagne oltre
un decimo dei braccianti sono albanesi,
marocchini, indiani, ghanesi e di numerosi
altri Paesi. Non si produrrebbe Barolo senza
macedoni né Brunello senza tunisini. E poi
c’è chi è attivo nelle migliaia di piccole e
medie industrie alimentari. A conferma
che un contributo consistente - in termini
di quantità, ma anche di qualità del Made
in Italy alimentare -, è dato da chi, forse,
domani sarà italiano. Nei campi del Nord
come del Sud, nelle aziende che producono
prosciutto, formaggi, pollame, una galleria
di ritratti scattati da tre fotografi attenti
alle trasformazioni della società italiana,
racconta questa dimensione già «mondiale»
del nostro cibo.
G. ANGRI
D. FRACCHIA
“
“
Nel treno che viene dal sud
Sudore e mille valigie
Occhi neri di gelosia
Arrivederci Maria
Senza amore
è più dura la fatica
Ma la notte è un sogno
sempre uguale
Avrò un casa
Per te per me
agosto-settembre 2014 Popoli 11
A. DI GIROLAMO
PIANETA CIBO
Continua nel 2014 il viaggio per immagini dedicate al tema del
cibo nelle sue mille declinazioni: fondamentale (e spesso carente)
sostegno per la vita, occasione per promuovere o negare i diritti dei
lavoratori e dell’ambiente, espressione di identità culturali, elemento
di feste e riti. «Nutrire il Pianeta. Energia per la vita» è anche il tema
dell’Esposizione Universale che si apre a Milano il 1º maggio 2015
e nella quale anche Popoli è coinvolta, attraverso la promozione di
alcuni eventi.
Con il contributo di:
“
12 Popoli agosto-settembre 2014
Dal treno che viene dal sud
Discendono uomini cupi
Che hanno in tasca
la speranza
Ma in cuore sentono che
Questa nuova
bella società
“
In collaborazione con: i fotografi
Gin Angri, comasco, ha iniziato l’attività di fotografo nel 1980 lavorando nel campo
della fotografia pubblicitaria, industriale, di architettura. Dopo un decennio in
Mozambico, dove si è dedicato alla formazione e alla realizzazione di iniziative
culturali, negli anni Novanta si è impegnato in ex Jugoslavia, Somalia e ancora in
Mozambico, dove ha documentato il processo di pacificazione. Al rientro in Italia
svolge attività come freelance, privilegiando i temi sociali. (www.ginangri.it)
Dino Fracchia, milanese, fotografo professionista dal 1973, collabora con le
maggiori testate italiane ed estere (www.dinofracchia.it). Le sue foto sono state
esposte in numerose mostre personali e collettive. Dopo i primi reportage sul
terremoto in Friuli e sul disastro di Seveso, si è occupato più volte di problemi
sociali (dalla droga alle carceri minorili) e di tradizioni culturali. Ha documentato
la nascita dei movimenti ecologisti e pacifisti in Europa, la guerra in Bosnia e le
migrazioni dei profughi albanesi. Nel 2010 è stato tra i fondatori di BuenaVista
photo, il primo archivio collettivo di fotografi freelance italiani, di cui fanno parte
i tre autori delle immagini.
G. ANGRI
A. DI GIROLAMO
D. FRACCHIA
Antonella Di Girolamo, fotogiornalista residente a Roma, lavora da circa vent’anni
nel mondo dell’editoria italiana e straniera. Insegnante di fotografia presso Upter
(Università popolare di Roma), documenta numerosi aspetti della società italiana
in trasformazione. (openversus.photoshelter.com)
(Sergio Endrigo, Il treno che viene dal Sud,
Fonit-Cetra 1967)
“
“
Questa nuova
grande società
Non si farà
Non si farà
agosto-settembre 2014 Popoli 13
inchiesta
Land grabbing
all’italiana
Il fenomeno dell’accaparramento di terra vede tra
i suoi protagonisti anche diverse aziende tricolori.
Con i problemi di sempre: scarso contributo alle
economie locali, rottura degli equilibri basati
sull’agricoltura familiare, terreni abbandonati
quando i progetti falliscono. Come insegnano
due storie parallele in Senegal e in India
14 Popoli agosto-settembre 2014
cammini di giustizia
Testo: Marta Gatti
Foto: Germana Lavagna
Dakar (Senegal)
I
n Senegal, dal 2005 più di 80mila ettari di terra sono passati in
mani italiane. Secondo il database Land Matrix, un osservatorio
globale interattivo sostenuto dalla
Commissione europea, tra questi ci
sono molti contratti che, nel tempo,
hanno avuto un esito fallimentare:
investimenti che si sono fermati
dopo qualche anno per mancanza
di fondi o perché garantivano profitti troppo bassi. In gran parte gli
investimenti italiani si sono indirizzati verso la coltivazione di prodotti
agricoli da utilizzare come biocombustibili. Soprattutto nel caso italiano, ma non solo, a spingere verso la
produzione a basso costo di biocarburanti sono state le politiche dell’Unione europea
che
hanno
A Beude Dieng
i n c e nt i v ato
opera il Vescovini
lo sviluppo
Group. La
di tecnoloproduzione però
gie basate su
non è mai decollata
combustibili
e i campi, ancora
alternativi al
occupati dalla
petrolio.
jatropha, non
In Senegal le
possono essere
imprese italiautilizzati per le
ne interessate
colture tradizionali
a questo business hanno trovato terreno fertile.
Nel 2007 il governo dell’allora presidente Abdulaye Wade aveva lanciato un progetto per la coltivazione
di jatropha (un arbusto i cui semi
contengono olio utilizzabile come
combustibile o carburante nei motori
diesel) con l’obiettivo di produrre 1,19
miliardi di litri di olio, per rendere
il Paese indipendente dalle importazioni di petrolio. Il programma
governativo prevedeva di realizzare
piantagioni da mille ettari in ogni
comunità rurale del Paese.
Come è possibile che le imprese straniere possano accaparrarsi una così
grande quantità di terre? In Senegal
agosto-settembre 2014 Popoli 15
inchiesta
Il capo di uno dei 37 villaggi della riserva
dello Ndiael data in concessione alla società
Senhuile-Senethanol. In apertura, semi di
jatropha per la produzione di biodiesel.
la terra appartiene allo Stato e le
concessioni devono essere date dalla
comunità rurale, rappresentante del
diritto consuetudinario sul territorio.
La concessione segue due principi: la
messa in valore e la residenza. Dopo
il 2000, con la creazione di Apix,
l’agenzia per favorire gli investimenti
esteri nel Paese, sono cambiati anche
i criteri di assegnazione. I terreni
sono quindi diventati oggetto di possibile rendita per le comunità e per
lo Stato che così hanno iniziato a
concedere terre agli stranieri.
IL CONTRATTO CHE NON C’È
A pochi chilometri da Thiès (città
capoluogo dell’omonima regione centrosettentrionale del Senegal) si trova
il villaggio di Beude Dieng, dove 60
ettari sono coltivati a jatropha. Dire
che sono coltivati è un po’ approssimativo, dato che gli arbusti sono
privi di foglie perché non irrigati.
Il progetto è stato avviato nel 2005,
ma nessuno degli abitanti conosce
il nome della società che gestisce
la piantagione. «Abbiamo conosciuto
solo un intermediario senegalese, che
ha detto di essere originario di queste
parti», spiega un contadini che ha
ceduto il suo campo per il progetto.
Spesso i rapporti con le comunità
locali vengono gestiti da senegalesi
che fanno capo a investitori italiani.
In questo caso si è trattato di un ex
emigrato che ha lavorato per l’azienda Società bulloneria europea,
del Vescovini Group di Monfalcone
(Go). A operare a Beude Dieng è stata
la controllata senegalese Sbe Senegal. Alessandro Vescovini, presidente
della società, ha spiegato che si è
trattato di un investimento a vuoto
e che l’impresa senegalese ha dichiarato fallimento nel 2012. E infatti la
popolazione dichiara di non aver mai
visto raccogliere i grani di jatropha
negli ultimi due anni. Nella prima
fase del progetto è intervenuta anche
un’altra società italiana, Agroils, una
società di consulenza specializzata
nella promozione della jatropha e
nell’accompagnamento per la prima
fase della produzione. I terreni utilizzati dalla compagnia le sono stati ceduti dai singoli abitanti del villaggio
tramite una cooperativa.
A Beude Dieng, però, i membri della cooperativa, ovvero coloro che
hanno ceduto i campi, dicono di non
essersi mai riuniti. Alcuni contadini
sostengono di non aver firmato un
contratto, ma solo un foglio in bian-
Ladri di terra
L
and grabbing è un termine inglese che significa letteralmente
«accaparramento di terra». Con questa espressione ci si riferisce a un fenomeno complesso che riguarda l’acquisto o l’affitto
su larga scala di terreni agricoli di Paesi in via di sviluppo da parte
di multinazionali, governi stranieri e singoli soggetti privati. L’acquisizione viene effettuata per ragioni diverse: coltivazioni di vegetali
per l’alimentazione o per la produzione di biocarburanti, silvicoltura
per ottenerne legname pregiato, la creazione di industrie o di strutture turistiche, ecc.
Il fenomeno si è affermato a partire dagli anni Duemila e si è
accentuato dal 2007 con l’inasprirsi della crisi economica e con
le speculazioni finanziarie del cibo. La crescita dei prezzi dei generi alimentari ha portato alcuni Paesi industrializzati a cercare di
accaparrarsi terreni a basso costo in nazioni del Sud del mondo.
Nazioni nelle quali, tra l’altro, è anche presente una manodopera
sottopagata. A questo fenomeno si è aggiunto quello dei ricchi Paesi del Golfo che, privi di grandi estensioni coltivabili, si assicurano
le derrate alimentari necessarie acquistando terreni all’estero.
Il land grabbing è un fenomeno caratterizzato dalla scarsa trasparenza. La maggior parte dei contratti non sono registrati e si
fondano su complicità tra multinazionali (o dei governi occidentali)
ed élite locali che fanno leva sui diritti di proprietà poco chiari.
Corollario sono contratti in larga parte segreti e pochissimi dati
disponibili su di essi.
16 Popoli agosto-settembre 2014
Nonostante
ciò, Land Matrix, un osservatorio globale interattivo
supportato dalla Commissione europea, ha dato vita a un monitoraggio continuo del fenomeno costruendo una banca dati ricchissima. Dal 2000 a oggi, Land Matrix ha mappato 1.200 contratti che
hanno interessato 36 milioni di ettari di terra (acquistati o ceduti
in affitto per un periodo dai 30 ai 99 anni). Altri 14 milioni di ettari
(una superficie poco più grande della Grecia) sono attualmente
oggetto di stipula. Solo l’11% dei terreni acquisiti sono usati per
coltivare vegetali commestibili, il 33% è coltivato per vegetali non
commestibili, il 22% per vegetali «flessibili» (che possono essere
utilizzati per alimentazione, produzione di energia, biocarburanti o
fibre) e il 34% per usi diversi (industria, turismo, ecc.).
Tra i principali acquirenti ci sono gli Stati Uniti che, grazie alla
stipula di 82 contratti, si sono accaparrati 7,1 milioni di ettari.
Seguono Malesia (3,4 milioni di ettari), Emirati arabi (2,8), Regno
Unito (2,2) e India (2). I venditori sono prevalentemente concentrati in Asia e in Africa. Guida la classifica la Papua Nuova Guinea
(3,7 milioni di ettari), seguita da Indonesia (3,5), Sud Sudan (3,4),
Repubblica Democratica del Congo (2,7) e Mozambico (2,1).
Le economie locali non traggono vantaggi dal land grabbing. Le
ricadute occupazionali sono limitate e gran parte della produzione
è destinata all’estero. A ciò si aggiunge il fatto che le società straniere impiantano monocolture che distruggono la ricchezza delle
colture tradizionali e impoveriscono l’economia familiare pilastro
dei sistemi sociali dei Paesi del Sud del mondo.
Enrico Casale
Villaggio di Beude Dieng: progetto di
co-sviluppo dell’associazione italosenegalese Sunugal per mettere a coltura
le terre circostanti.
co. Altri che un contratto esiste, ma
non ne hanno copia. Le famiglie che
hanno creduto nel progetto jatropha
non ne hanno tratto alcun vantaggio.
La produzione non è mai decollata e
i loro campi, ancora occupati dalle
piantine, ora non possono essere
utilizzati per le colture tradizionali.
zienda bisognava cedere almeno tre
ettari, io ne ho donati 20, avrei
dovuto avere almeno sei posti nell’azienda, ma solo in tre hanno lavorato
per loro, e solo per i primi quattro
mesi», spiega un anziano capo villaggio. «In diversi casi i terreni, non
ancora coltivati, sono stati riaffittati
agli antichi utilizzatori», osserva Bocar, presidente del comitato di lotta
che riunisce diversi villaggi. Anoc
ha detto di essere pronta ad alzare
i salari, fermi a 35mila franchi cfa,
nel caso in cui il villaggio avesse dato il via libera alla compagnia per la
coltivazione di arachidi. Il villaggio,
composto da coltivatori di arachidi,
ha messo il veto: «Sappiamo coltivare le arachidi, non abbiamo bisogno
di uno straniero che coltivi i nostri
campi con i nostri prodotti: che ci
restituisca la terra piuttosto!».
PROMESSE MANCATE
Nella regione di Kaolak, nel pieno
del bacino delle arachidi, si trova
il villaggio di Ourour. Arrivando si
vedono distese di campi di jatropha,
almeno 500 ettari, distribuiti in diverse zone. Grazie alla mediazione di
Apix, la compagnia italo-senegalese
Anoc (African National Oil Corporation) ha ottenuto nel 2008 la cessione
di 750 ettari nella zona di Ourour
e 2.000 nella zona di Dianké Souf.
Anche in questo caso ad accompagnare l’investimento è stata Agroils.
Lo Stato senegalese non prevede la AGRICOLTORI DISCRIMINATI
vendita dei terreni agli stranieri, ma Diverso per dimensione e impatto è
i capi villaggio parlano di trattative il caso di land grabbing nella regione
individuali per la vendita dei campi, di Saint Louis: a Fanaye prima e
gestite da intermediari senegalesi. In nel parco naturale dello Ndiael, poi,
cambio della terra, compensata con dopo proteste e morti. Il progetto,
20mila franchi cfa all’ettaro (circa infatti, ha sin da subito generato
30 euro), ogni famiglia avrebbe visto conflitti e ha spaccato la comunità
un figlio assunto, per tutto l’anno, rurale, tra i favorevoli e contracon un salario di 75mila
ri. Il 26 ottobre 2011 la
franchi cfa al mese.
A Ourour la Anoc situazione è degenerata
Di fatto, però, spiegano vorrebbe coltivare in violenze che hanno
i capi villaggio riuniti arachidi. Ma il
provocato la morte di
nella casa comunitaria, villaggio ha messo due persone. Il caso ha
nulla di tutto ciò è av- il veto: «Sappiamo fatto discutere molto nel
venuto. «Per avere un coltivare le
Paese, tanto da spingere
figlio impiegato nell’a- arachidi, non
Wade a sospenderlo e a
abbiamo bisogno
di stranieri
che coltivino
i nostri prodotti!»
ricollocarlo nello Ndiael. Oltre 26mila ettari di terra sono stati ceduti alla
compagnia italosenegalese Senhuile,
controllata al 51% dal gruppo italiano Tampieri.
Il progetto, durante la presidenza
Wade, era stato pensato per la zona
di Fanaye, dove la compagnia Senethanol (formata da capitali senegalesi e stranieri), di cui successivamente
divenne partner Senhuile, intendeva
coltivare la patata dolce da usare per
la produzione di biocarburante. Con
l’ingresso di Senhuile la produzione
si era spostata verso i semi di girasole, destinati ad essere esportati in
Italia per la trasformazione. Il gruppo Tampieri, infatti, ha dichiarato di
partecipare al progetto per internalizzare la materia prima necessaria
all’azienda. Con il cambio di presidente, le autorità hanno prima sospeso e poi riconfermato il progetto
(con un decreto presidenziale). Ancora oggi non c’è una chiarezza su
cosa si coltivi nella piantagione. Gli
attivisti parlano di riso e arachidi.
L’ente che si occupa dello sviluppo
agricolo senegalese, l’Isra, ha definito il progetto un punto di appoggio
per la ricerca sulle sementi (per la
ricostituzione del capitale dei semi).
La popolazione è composta da comunità peul, dedite all’allevamento.
Un giovane allevatore, venditore di
bestiame a Dakar, spiega che i pastori devono camminare per chilometri per aggirare la piantagione
e portare al pascolo le mandrie. A
gennaio alcuni villaggi hanno firmato un accordo che prevede una
zona franca di 500 metri intorno agli
insediamenti. «Non bastano, gli animali moriranno nel tragitto», spiega
Ardo Sow, il rappresentante delle
comunità. Come se non bastasse gli
abitanti dei villaggi dicono di essere
sottoposti costantemente a intimidazioni da parte della polizia. Ong
e associazioni senegalesi e italiane
hanno lanciato un appello, finora
inascoltato, per chiedere a Tampieri
di rinunciare al progetto.
agosto-settembre 2014 Popoli 17
inchiesta
Potrebbe creare opportunità di lavoro, contribuire allo sviluppo di infrastrutture
e aumentare la produzione di merci nel Sud del mondo. Rischia invece di aumentare
la povertà, danneggiare l’ambiente e violare i diritti umani. Prende il nome di…
landgrabbing
{
NON SI SA
PRODOTTI AGRICOLI
ALLEVAMENTO
INDUSTRIA
ENERGIE RINNOVABILI
STOCCAGGIO CARBONIO
SPECULAZIONE
28 19 11 10 10
ESTRAZIONI
%
TURISMO
COLTIVAZIONI ALIMENTARI
ogni secondo
nel Sud
del mondo viene acquistata un’area di terra pari a un intero
campo di calcio
PER COSA VENGONO USATI (%)
LEGNO E FIBRA
ETTARI dal 2000 ad oggi
BIOCARBURANTI
50.000.000
Acquisto o affitto su larga scala di terreni
agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte
di multinazionali, governi stranieri o singoli
soggetti privati
8
5
3
2
2
1
1
I 10 MAGGIORI PAESI ACQUIRENTI E VENDITORI (mln ettari)
2.2
Cina
U.S.A.
Emirati!
Arabi
Egitto
0.4
0.6
1.1
1.6
1.8
1.7
0.5
Ghana
Nigeria
Paesi acquirenti
Paesi venditori
1.3
Arabia!
Saudita
0.6
0.5
Sudan
Congo
0.5
Corea
1.0
India
Malesia
1.2
0.6
Mozambico
1.2
0.8
Singapore
1.2
Indonesia
1.3
Madagascar
0.5
Argentina
InfograÞca di Ugo Guidolin
2/3
18 Popoli agosto-settembre 2014
•
•
degli investimenti in terreni agricoli sono in
Paesi dove si soffre la fame
dei raccolti frutto di quei terreni agricoli sono
destinati all'esportazione
Quei progetti Fiat
(mai decollati) in India
Daniela Bezzi
I
mmagina un territorio dieci volte più grande del Vaticano e
fertile quanto le nostre pianure
intorno al Po: dai tre ai cinque raccolti all’anno a rotazione, che danno
da mangiare e da vivere a seimila
famiglie, 22mila abitanti. Tra essi
molti sono braccianti: da quelle terre, di cui non sono proprietari, dipendono totalmente. E in gran parte
bargadars, mezzadri: protagonisti di
quella riforma agraria che l’ex governo comunista del Bengala (India)
varò negli anni Settanta, in risposta
ai moti contadini che da Naxalbari
(1967) si erano estesi ovunque, contro il sistema fondiario, i zamindars.
Immagina ora tutto questo, frutto di
40 anni di paziente tessitura, fonte
di lento ma sicuro progresso dopo
quei lontani tumulti... raso al suolo.
Immagina i bulldozer, le camionette
della polizia che arrivano una mattina e vomitano 600 militari armati
di bastoni e pronti anche a sparare,
mentre dal megafono un ufficiale
ordina di sloggiare e gruppi di scherani procedono con la recinzione
(operazione che dura giorni, con la
forza pubblica pronta a intervenire).
L’«AUTO DEL POPOLO»
Tutto questo accadeva il 2 dicembre
2006 a Singur, 40 chilometri a nord
di Kolkata, Bengala occidentale. Un
giorno già carico di significati per
l’India moderna, anniversario del
più grande disastro industriale della
storia, a Bhopal. L’impressionante
rievocazione di chi quella mattina
si trovò ad assistere alla violenza
delle requisizioni - dopo mesi di
negoziati, manifestazioni di protesta, non pochi episodi drammatici (e
anche qualche morto) - è contenuta
in un documento firmato (tra gli altri) dalla scrittrice Mahasweta Devi,
dall’attivista Medha Patkar, dall’intellettuale Dipankar Chakraborty.
La posta in gioco: la Nano Car, l’utilitaria «del futuro» in quanto meravigliosamente low cost - come venne
presentata anche dai nostri media,
nella ignoranza (o indifferenza) circa l’impatto di tale progetto ancor
prima di entrare in produzione. Perché quel ben poco glorioso insediamento (che a prima vista sembrò
targato solo Tata Motors) vide in
qualche modo implicata anche la
Fiat, in una joint venture che tutta la
stampa del mondo definì «molto promettente», in quanto appunto accordo «a tutto campo». Dall’incremento
delle vendite nei rispettivi mercati,
allo scambio di componenti e tecnologia (sottolineavano i prospetti
diffusi in anticipo per la gioia degli
investitori), quella joint venture vedeva convergere su quel particolare
progetto low cost tutte le eccellenze
che avevano caratterizzato la storia
della nostra prima industria, dalla
Topolino in poi - ma in ben più promettenti condizioni di mercato.
Insomma un’autentica dream car,
come amava definirla lo stesso Ratan Tata, ai vertici di un conglomerato industriale da oltre un secolo
già molto forte nella produzione
dell’acciaio e in una serie di prodotti
tecnologici avanzati e di lusso, oltre
che, dagli anni Cinquanta, anche nei
motori. Tata stava ora per sviluppare
un nuovo tipo di auto, the People’s
Car, l’auto del popolo, per tutti: per
una somma (100mila rupie) non proprio «per tutti» in India, ma in effetti
minima (solo 2.500 euro), ecco una
DAL MOZAMBICO ALL’ARGENTINA
Tutti gli affari tricolori
I
due casi descritti in queste pagine non sono gli unici esempi di land grabbing italiano.
Il sito di Land Matrix, ricca e dettagliata miniera di dati sul tema, informa che i Paesi
in cui aziende del Belpaese hanno avviato progetti di accaparramento delle terre sono
11, tutti in Africa: oltre al Senegal, nell’elenco figurano Liberia, Ghana, Nigeria, Guinea
Conakry, Congo Brazzaville, Tanzania, Etiopia, Mozambico e Madagascar.
Particolarmente intensa la presenza italiana in Mozambico, una sorta di «paradiso» del
land grabbing: in questo Paese, infatti, la terra non si vende, si dà in concessione. Il
prezzo di concessione annuale può scendere fino a un dollaro l’ettaro e le concessioni
arrivano anche a 99 anni. Land Matrix ha tracciato 117 acquisizioni di terra in Mozambico: 5 di queste sono state promosse da aziende italiane. Spicca il caso del colosso
energetico Api, il cui progetto di coltivazione della jatropha si è però bloccato nel 2013.
A quanto pare il problema è l’eccessiva salinità del terreno, ora però quella terra - comunque acquisita in concessione dal consorzio che fa capo ad Api - resta inutilizzata.
Stessa sorte per quella che - dal punto di vista dell’estensione dei terreni - è l’operazione più rilevante di un’azienda italiana in Africa: l’acquisizione di 710mila ettari
(poco meno della più estesa provincia italiana, quella di Bolzano) in Guinea Conakry da
parte di Nuove iniziative industriali, azienda di Galliate (No), attiva nella produzione di
energia da fonti rinnovabili. La terra è stata effettivamente acquistata, ma la produzione
di jatropha non è mai partita. E pensare che sul sito dell’azienda si parla tuttora di un
«rilevante risvolto sociale del progetto, che comporterà la creazione di numerosi posti di
lavoro per le popolazioni coinvolte». Abbiamo scritto all’azienda per chiedere chiarimenti
ma non ci è stato risposto.
Fuori dall’Africa, Land Matrix non segnala nessun coinvolgimento diretto italiano nel
fenomeno del land grabbing. Lo fa invece l’altrettanto interessante rapporto dell’Ong
Re:Common, Gli arraffa terre, uscito nel giugno 2012: vengono citati i casi di Argentina
(con la nota presenza del gruppo Benetton: 900mila ettari di terra acquistata nel 1991
per l’allevamento di pecore e la produzione di lana), Nuova Zelanda (lana), Honduras e
agosto-settembre 2014 Popoli 19
Indonesia (palma da olio), Laos (jatropha).
inchiesta
Singur, India (2007): sorveglianza dei
terreni espropriati per lo stabilimento Tata.
GRANDE ALLEANZA
Dalle campagne di Singur la protesta dilagò poi nel Midnapore, per
10mila acri destinati a un impianto
petrolchimico della Salim, e culminò
(nella primavera 2007) negli «incidenti» di Nandigram: quindici persone uccise, non si sa quanti feriti,
scontri di particolare brutalità. I fatti
di Singur e Nandigram coincisero
con l’inizio di una nuova stagione
di tensione sociale per l’India, che
proprio in quell’anno celebrava i
60 anni di indipendenza dal giogo
coloniale, ma non da certe pratiche
autoritarie che avevano caratterizzato la sua amministrazione. Poiché
oggi come all’epoca dei britannici il
più indiscriminato land grabbing è
autorizzato nel Paese da una legge
(Land Acquisition Act) che risale al
1894, un editto coloniale.
Tutto questo non passò completamente inosservato in Italia, nonostante in generale i media inneggiassero al «nuovo
corso» della
La Nano Car non è
Fiat
guidamai decollata. Una
ta da Sergio
serie di incidenti
Marchionne. E,
hanno eroso
mentre i titoli
l’iniziale appeal e
Fiat e Tata Mola joint venture tra
Fiat e Tata Motors, tors registravacome all’improvviso no apprezzamenti costanti
era finita sotto i
alle Borse di
riflettori, è sparita
Milano e di
dai media
Mumbai, una
campagna di controinformazione riuscì a portare alla conoscenza del
Parlamento italiano questo scenario
di abusi nel lontano Bengala occidentale. Non meno di quattro interrogazioni parlamentari vennero stilate (raccogliendo numerosi firmatari), ma restarono lettera morta. Ma
al Motor Show di Delhi nel gennaio
2008 nessuno poté ignorare il giro20 Popoli agosto-settembre 2014
AFP
quattro posti a misura di famiglia
indiana, che da mesi era l’oggetto
della più vivace curiosità e speculazione, in primis finanziaria.
tondo degli attivisti indiani intorno LE CONSEGUENZE
al prototipo dell’attesa vettura, e più Che cosa resta oggi di questa impreancora le scritte sulle loro magliette, sa? Un muro, in molti punti sbrecciache denunciavano la violenza del to, che ancora difende per chilometri
land grabbing di Singur. Molte testa- quel che Tata Motors insiste nel
te indiane cominciarono a mettere rivendicare come lesa proprietà, con
pretese di indennità e
in discussione la sosteun braccio di ferro leganibilità della Nano Car: Il progetto della
le pressoché insolubile
non solo ambientale e Nano Car, auto
con l’amministrazione
sociale, ma anche sul low cost con
piano tecnico.
la partecipazione bengalese, che invano
reclama compensazioni
Il caso Singur era ormai di Fiat, fu
una questione di Stato. avviato nel 2006 per gli ex contadini ormai in miseria, e qualMa di fronte alla cer- con una serie di
che forma di riqualifitezza della crisi econo- espropri di terre
cazione per 400 ettari
mica globale nell’estate nel Bengala a
di terre un tempo fertili
del 2008 e a sfavorevoli danno di seimila
e per sempre improdutproiezioni di crescita in famiglie
tive. C’è poi lo scheletro
India, anche nel settore
di una promessa di sviauto, ecco l’improvvisa
luppo industriale che ha
decisione di Tata Motors: anche se pronti per entrare portato morte nello spirito, come nei
in produzione, gli impianti nelle campi. Alla fine la Nano Car non è
campagne un tempo fertili e ormai mai decollata neppure come auto a
cementificate di Singur dichiara- basso costo. Una serie di incidenti
rono forfait. Optarono, cioè, per (motore in fiamme in condizioni di
le condizioni di massimo favore corsa, carrozzerie accartocciate al
e i sussidi pubblici nello Stato del minimo urto, a fronte di costi di
Gujarat che, governato da Narendra produzione irrealisticamente bassi)
Modi, stava emergendo come area hanno eroso l’iniziale appeal e ri«industry-friendly». Il Bengala oc- dotto a tal punto le richieste che
cidentale dovette accontentarsi dei anche gli impianti in Gujarat hanno
capannoni vuoti, monumento all’in- annunciato la chiusura.
dustrializzazione su cui tutti, tranne La pubblicizzata joint venture a tutto
i contadini, avevano scommesso, e campo tra Fiat e Tata Motors, così cosi trovò a gestire una crisi sociale, me all’improvviso era finita sotto i rimorale e politica senza precedenti: flettori, è scomparsa dai media. Nesalle elezioni successive nello Stato suna «grande firma» che ne parlava
del Bengala, il più longevo gover- bene si è più preoccupata di indagare
no comunista del mondo cedette quando il socio indiano si è fatto da
il timone al Partito Trinamool di parte (sebbene ancora a lungo memMamata Banerjee che era stata a bro del Consiglio di amministrazione
fianco dei contadini di Singur fin della Fiat) di fronte al trasferimento
degli interessi Fiat verso Detroit.
dai primi moti.
nicaragua
La vedova di José Silva, lavoratore della
canna da zucchero morto nel 2008,
mostra le analisi del sangue del marito.
Quei morti
di nulla
Sono almeno 9mila i decessi degli ultimi
vent’anni per una malattia renale evidentemente
connessa alla lavorazione dello zucchero.
Ma le associazioni non riescono a ottenere
i risarcimenti dall’impresa, di proprietà della
famiglia più potente del Paese
Testo e foto: Diego Cobo
Chichigalpa (Nicaragua)
a tagliare canna in questa piantagione sterminata nei pressi di
Chichigalpa, 130 chilometri a nord
osé Silva usciva di casa molto di Managua. Nessuno sa con esatpresto. La moglie gli chiedeva tezza quale sia la sua estensione:
sempre la stessa cosa: «Non l’impresa parla di 50mila ettari, ma
porti una bottiglia d’acqua?». E lui, alcuni attivisti sostengono che sia
ogni volta, rispondeva di no: pesa- il doppio.
va troppo, doveva camminare e poi Nel febbraio 2005 l’azienda ha manprendere un bus per arrivare all’In- dato José in pensione: da un controllo di routine nell’amgenio San Antonio, un
enorme complesso che Le vittime hanno bulatorio dell’impresa
è risultato che i suoi
comprendeva (e com- lavorato tutte
prende ancora) pian- nella piantagione livelli di creatinina nel
sangue arrivavano a
tagione, zuccherificio, e nella fabbrica
distilleria.
in cui si produce 5,6 mg per decilitro,
un valore cinque volte
Per 31 anni José ha il rum della
superiore alla norma.
passato le sue giornate nota marca
J
Flor de Caña.
E si continua
a morire
ancora oggi
I valori hanno continuato a salire
finché José, stanco e zoppicante,
non ce l’ha più fatta. Nel febbraio
del 2008, dopo avere sussurrato
alla moglie «Perdonami», la voce
gli è venuta meno ed è morto, in
silenzio.
Josè aveva 69 anni e soffriva di
insufficienza renale cronica (Irc), la
stessa malattia che ha portato alla
tomba circa 9mila persone, secondo
i calcoli (prudenti) di varie organizzazioni. Avevano lavorato tutte
nello stesso posto, dove si produce e
si estrae la materia prima che, dopo
essere passata attraverso la distilleria, va a riempire le bottiglie di
rum della nota marca Flor de Caña.
Ancora oggi continuano a morire
decine di persone all’anno, nonostante il problema sia noto ormai a
livello mondiale.
BATTAGLIA PER UNA LEGGE
Alla fine degli anni Novanta,
l’azienda decise di trasferire nel
centro abitato di Chichigalpa le
5.500 persone che vivevano nello
zuccherificio. Infatti quello non
era solo un luogo di lavoro, ma
agosto-settembre 2014 Popoli 21
nicaragua
un vero paese. Anzi, racconta un
giovane cresciuto lì, sembrava un
paradiso. C’erano le case per i dipendenti tutte disposte in fila. Non
si pagava l’affitto, né la luce, né la
scuola o l’ospedale. C’era persino
una chiesa. Ma si moriva con una
facilità impressionante.
«Vedendo il numero di morti che
“uscivano” dall’azienda, qualcuno
iniziò a chiedersi: “Che cosa succede là dentro?”», racconta Carmen
Ríos, responsabile dell’Associazione
nicaraguense dei malati di insufficienza renale cronica (Anairc).
Carmen è malata. Suo padre è morto a causa dell’Irc e così suo fratello e suo figlio. Questa donna
dallo sguardo combattivo vive in
una sorta di baraccopoli sorta a
Managua nel 2009, quando una
settantina di persone decisero di
costruire case di legno e plastica sul
ciglio della strada per rivendicare
un risarcimento che nessuno voleva riconoscere loro. Ogni giorno si
presentavano al quartier generale
del gruppo Pellas, un edificio di vetro visibile da tutta la città. Questo
colosso infatti comprende la Nicaragua Sugar States Limited (Nssl),
a sua volta proprietaria dello zuccherificio Ingenio San Antonio,
azienda che ancora oggi dà lavoro
a circa 8mila persone. In Nicaragua
parlare del Gruppo Pellas vuol dire
parlare di Carlos Pellas, uno degli
uomini più potenti del Paese.
L’ultima marcia fu appunto quella del 2009, quando lavoratori e
parenti decisero di accamparsi a
oltranza, dato che il magnate non
aveva risposto a numerose richieste di incontro. La prima risaliva
al 2003: varie organizzazioni di
lavoratori della canna da zucchero
portarono avanti una battaglia a
Managua per ottenere una legge
che riconoscesse la Irc come malattia professionale, e avere quindi
diritto a una pensione di invalidità. E ci riuscirono: il 15 giugno
2004 vide la luce la Legge 456, sul22 Popoli agosto-settembre 2014
la quale però il presidente Enrique
Bolaños pose un veto parziale, tale
da impedirne la piena attuazione.
Grazie a un’altra marcia, nel 2005,
fu tolto il veto alla legge. Ma la situazione, di fatto, è ancora bloccata
dalla burocrazia e dalla mancanza
di volontà politica.
nemmeno l’inquinamento delle acque: in un rapporto del 2001 sosteneva che i lavoratori bevevano
meno acqua di quella necessaria
per i reni - 10 litri al giorno -, che
esistono zone in cui il rischio di
contrarre la malattia è maggiore
a causa del calore intenso e che i
malati non seguono le indicazioni
VELENO NEL SANGUE
date in ospedale per bloccare l’evoLa prima cosa che si nota quando luzione della malattia.
si entra a Chichigalpa arrivando Nel 2010, una prima relazione
da Managua è la distilleria dell’a- dell’Università di Boston sosteneva
zienda. Si trova dietro al Parque La che non c’erano prove che la malatEstación, dove si fermava il vec- tia fosse provocata dalle sostanze
chio treno che collegava la distil- chimiche. Nella stessa relazione si
leria con lo zuccherificio, distante diceva che, per dedurre un rapporpoco meno di quattro chilometri. I to di causa-effetto, è necessaria la
vagoni trasportavano la canna, ma «produzione di nuove conoscenze
anche i morti. Le famiglie, infatti, scientifiche». Ma è un passo avanti
chiedevano il permesso di traspor- rispetto allo studio svolto dall’atare i cadaveri fino al paese.
zienda nove anni prima, perché
A Chichigalpa tutti stanno aspet- smentisce anche il collegamento
tando i risultati delle analisi del- tra la malattia e le cause generiche
le acque svolte dall’Università di ipotizzate dalla compagnia, come
Boston, incaricata sei anni fa da il caldo.
Ingenio San Antonio. Le denunce Nemmeno lo studio del 2008 dell’Udei malati contro la compagnia niversità di León, in Nicaragua,
riguardano l’uso dei pesticidi nei certifica il rapporto di causalità.
campi di canna da zucchero. Si Evidenzia tuttavia l’anomala incisuppone che i vari agenti chimici denza della Irc nella popolazione.
abbiano contaminato le falde e i Ipotizza come causa il consumo
pozzi a cui attingono le persone eccessivo di alcol e tabacco e sucche vivono in questa zona.
cessivamente specifica: «Abbiamo
L’Nssl non ammette
riscontrato anche una
la correlazione tra in- Si suppone
relazione con alcuni
quinamento dell’acqua che i pesticidi
fattori lavorativi, coprodotto dalla propria usati nei campi
me il lavoro nell’agriattività e Irc, cosa che di canna da
coltura e l’esposizione
invece è evidente per zucchero
a pesticidi». Un altro
l’Anairc. In realtà l’a- abbiano
studio, svolto dal Cenzienda non ammette contaminato le
tro per la ricerca sulle
falde e i pozzi a
cui attingono per
bere le persone
che vivono qui
Julio Cadenas, ex lavoratore di Ingenio San
Antonio, oggi malato di insufficienza renale
cronica. A lato, uno striscione di protesta.
risorse idriche in Nicaragua (Cira), qualche risultato, per questo ne
ha trovato sostanze tossiche in faccio parte. A noi interessa essere
campioni d’acqua della zona. Ma risarciti», afferma un giovane manessuno conferma scientificamen- lato che parla in cambio dell’anonite che l’acqua inquinata provochi mato. Riceve una piccola pensione
la malattia che attacca i reni.
di invalidità, che si aggiunge agli
«Io mi sono ammalato in azienda!», aiuti che l’associazione consegna
afferma senza ombra di dubbio ogni mese ai suoi membri e che,
Julio Cadenas, un ex dipenden- secondo molti, bastano a malapena
te licenziato nel 1991,
per coprire le necessità
quando gli riscon- Un giovane,
di una famiglia per tre
trarono due punti di che accetta di
giorni. Lui si sottopone
creatinina. Quando lo parlare in cambio quattro volte al giorno
ricoverarono d’urgen- dell’anonimato,
a dialisi peritoneale;
za in un ospedale di racconta che
ogni seduta dura quasi
Managua, il 31 luglio deve scegliere
un’ora. Con una can2013, arrivava a 28. se comprare
nula nell’addome, si
Stanco e con il passo il cibo o le
siede in camera sua e
lento, arriva da una medicine.
si inietta due sacche di
delle tre sedute setti- Di solito sceglie
un liquido che pulisce
manali di emodialisi il primo
il sangue.
durante le quali deve
Lo Stato copre solo alrestare quattro ore lecune cure. E questa
gato a una macchina
è una delle battaglie
che elimina le tossine dal sangue. che i malati portano avanti, sia
«Sono state fatte ricerche di tutti dall’accampamento a Managua,
i tipi. Siamo stati cinque mesi sia dalle strade di Chichigalpa.
davanti al Parlamento a parlare Questo giovane, dallo sguardo ascon i politici che oggi sono al sente e dolorante, deve scegliere
governo. Quando comandavano i se comprare il cibo o le medicine.
liberali, quei politici dicevano che Di solito sceglie il primo. Durante
ci avrebbero appoggiato. Ora che un recente ricovero d’urgenza gli
sono al potere, non si fanno trova- hanno prescritto 14 iniezioni di
re», riassume l’uomo finché i dolori eritropoietina: se ne è potuta pernon gli impediscono di continuare. mettere soltanto una.
All’ingresso dell’Istituto nazionale
della previdenza sociale di ChichiTUTTI CONTRO TUTTI
Più di duemila lavoratori sono riu- galpa, un altro malato ci espone
niti nell’Associazione di Chichigal- le accuse mosse all’Associazione:
pa per la vita (Asochivida), un’or- i 100mila dollari ricevuti da Ingenio per essere donati ai malati e
ganizzazione molto criticata.
«È l’unica strada che sta dando che Asochivida ha deciso invece di
prestare con un tasso di interesse
dell’1%; le voci circa i presunti 700
dollari al mese che ciascun dirigente
dell’associazione riceverebbe dall’azienda; i libri contabili spariti.
Di fronte a queste critiche, un
gruppo di persone è uscito dall’Associazione e ne ha formata una
nuova, l’Associazione nicaraguense dei malati e amici di persone
con insufficienza renale cronica,
che oggi conta circa 600 membri.
Presidente è Juan Rivas, 31 anni
passati a tagliare canna da zucchero e tre punti di creatinina.
Juan è molto critico con Asochivida: «Si sono arricchiti e hanno
accordi con l’azienda. Quando uno
dei presidenti è morto, lo hanno
seppellito come un personaggio
importante. Non era che un tagliatore di canna come me: lì ci siamo
resi conto di quali rapporti avevano con l’azienda».
Mentre Asochivida aspetta i risultati di Boston che stanno ritardando ben oltre l’immaginabile, le
altre organizzazioni lottano per
ottenere risarcimenti. Carmen Ríos
è andata in Germania a raccontare
il dramma di Chichigalpa e a chiedere un sostegno al Parlamento
tedesco; Juan Rivas ha inoltrato
all’azienda una richiesta di 660mila dollari, e vorrebbe presentare
istanze internazionali.
Mentre continuano ad ammalarsi
decine di lavoratori ogni anno,
la Nssl riceve premi ambientali.
Ha ottenuto anche un prestito di
55 milioni di dollari dalla Banca
Mondiale nel 2006; la relazione
di valutazione per concedere il
credito non menzionava il caso di
questa malattia.
«Davvero lo andrà a raccontare in
Europa? Davvero informerà tutto
il mondo?», supplica un uomo nel
salutarci. L’euforia per la risposta
affermativa è di conforto, ma ciò
che soprattutto vogliono a Chichigalpa è fare giustizia. E che le
persone smettano di ammalarsi.
agosto-settembre 2014 Popoli 23
algeria
C’è chi dice no
(a Bouteflika)
La candidatura e l’elezione per la quarta volta
consecutiva del presidente hanno acceso
le proteste di una parte del Paese che si è riunita
nel movimento Barakat. I militanti chiedono
lo svecchiamento della politica e lottano contro
il fanatismo religioso, ma il regime li osteggia
Emanuela Zuccalà
Algeri
K
amal Benkoussa ci ha provato, ma si è scontrato contro un muro. Ha 41 anni,
è nato in Francia da genitori algerini, possiede un brillante curriculum in Economia e Finanza,
24 Popoli agosto-settembre 2014
nel 2000 si era trasferito a Londra
costruendosi una carriera da trader nella City. Tornava spesso in
Algeria per tenere conferenze nelle
università finché, nell’ottobre del
2013, è rientrato in pianta stabile
per candidarsi da indipendente
alle elezioni presidenziali. «Credevo davvero in un cambiamento»,
racconta nel suo luminoso ufficio
nel quartiere di Sidi Yahia, gli
Champs-Élysées di Algeri. «Pensavo fosse ormai lampante che il
regime non è forte come intende
apparire. Ma, appena appreso che
Abdelaziz Bouteflika si sarebbe
candidato per la quarta volta, mi
sono ritirato: non avevo speranze».
Le elezioni presidenziali del 17
aprile non hanno riservato sorprese. L’immarcescibile Bouteflika,
in carica dal 1999 per tre mandati
consecutivi, ha stravinto contro
gli avversari Ali Benflis e Louisa
Hannoune con l’81,5% delle prefe-
Militanti del movimento Barakat
protestano contro la rielezione
del presidente Bouteflika.
background diverso da quello di
Kamal Benkoussa. Figlia di un
medico militare, è cresciuta a Bab
El Ouad, il quartiere popolare nel
centro di Algeri insanguinato dai
massacri durante il terrore degli
anni Novanta. «Quando avevo 16
anni - ricorda -, mio padre mi ha
portata all’ospedale dell’esercito.
Lì ho visto le teste tagliate. EraNO ALLA GERONTOCRAZIA
Come molti algerini di ceto me- vamo giovani e liberi, potevamo
dio, Benkoussa oggi sostiene il diventare il Paese più democratico
gruppo dissidente che ha scosso dell’Africa e invece ci siamo rile altrimenti soporifere elezioni: trovati fra le braccia del diavolo.
Barakat, che significa «Basta!», si Poi nel 1999 è arrivato Bouteflika.
definisce un «movimento di cit- Salutato come il garante della ritadini» e, anche dopo la tornata trovata stabilità nazionale, molti
elettorale, continua a impensierire però dimenticano che nel 2008
l’establishment politico. Cataliz- quest’uomo ha violato la Costituzando il malcontento verso una zione, togliendo limiti ai mandati
politica stantia, conta seguaci in presidenziali e rendendosi eterno
tutte le province algerine, quasi come un monarca assoluto».
37mila follower su Facebook e uno La battagliera ginecologa è comzoccolo duro nella capitale: una parsa nelle cronache il 22 febbraio
settantina di professionisti, gior- di quest’anno quando ha organiznalisti, funzionari pubblici tra i 20 zato la prima iniziativa davanti
e i 40 anni che non hanno leader, all’Università di Bouzareah ad Alma solo portavoce, in una logica geri, invitando alla protesta i suoi
orizzontale antagonista a quella contatti Facebook e distribuendo
t-shirt con scritto «No al quarto
dei partiti.
Barakat è nato in marzo, all’an- mandato!». «Mi hanno invitata a
nuncio della ricandidatura di Bo- El Chourouk Tv, in un confronto
uteflika: «Un affronto all’intelli- con Akila Rabhi, parlamentare fegenza degli algerini», sbotta Amira dele al presidente. È stato facile:
Bouraoui, ginecologa di 38 anni, lei non aveva argomenti». Mentre
il volto più noto del movimento. la fino ad allora ignota dottoressa
«Questo signore - continua - ha Bouraoui mostrava alla nazione la
istituzionalizzato la corruzione e sua verve polemica, a seguirla in
lasciato nel degrado settori stra- tv c’era Mustapha Benfodil, scrittegici come sanità e istruzione. tore e giornalista del quotidiano
Quando si è ammalato, è andato a indipendente El Watan. Anche lui
curarsi in Francia: evidentemente aveva appena radunato una trennon si fida dei suoi stessi medici. tina di scontenti al Tantan Ville,
Io lavoro in un ospedale pubblico, storico caffè letterario della capiogni giorno vedo due o tre donne tale: ha chiamato Amira e poco
dopo è nato Barakat.
strette nello stesso letPrimo atto pubblico:
to in attesa di partori- Barakat, che
manifestaziore, oppure lasciate sul significa «Basta!», una
ne alla Fac Centrale,
pavimento con i loro si definisce un
l’Università di Algeri
neo­
nati. È l’immagine «movimento
accanto alla centralisdi un Paese allo sfa- di cittadini» e,
sima piazza Audin. «La
scio».
anche dopo la
Amira Bouraoui ha un tornata elettorale, polizia ci ha dispersi
renze. E ciò, nonostante la sua assenza dalla campagna elettorale a
causa di una salute sempre più precaria dopo l’infarto che lo ha limitato nei movimenti e nella parola.
«Un’autentica novità però c’è stata
- puntualizza Kamal Benkoussa -:
la nascita di Barakat».
continua a
impensierire
l’establishment
politico
e siamo stati portati in vari commissariati - spiega Amira -. Lì ci
siamo conosciuti meglio e riuniti
in movimento». Nella capitale, lo
stato d’emergenza in vigore dai
tempi del terrorismo vieta le manifestazioni: a due sostenitori di
Barakat questo è costato 33 giorni
di carcere prima del processo e poi
una condanna a 6 mesi.
Il quartier generale dei dissidenti
è un seminterrato in un palazzone grigio nella zona centrale di
Telemly. Mentre si beve caffè ed
entrano una trentina di persone,
soprattutto giovani, comincia la
riunione per
def inire
le
Riappropriarsi
azioni futudegli spazi
re: è adesso, a
pubblici, liberare la
urne chiuse e
cultura, investire
a elezioni diin sanità e
menticate, che
istruzione: per ora
per Barakat si
sono questi i punti
gioca la partita
fermi di Barakat.
della credibiliOltre al deciso
tà. «Non basta
«no» al ritorno
più l’opposidell’islamismo
zione: è il momento di elaborare proposte concrete - riflette Mustapha Benfodil
-. Stiamo preparando un manifesto
politico, cercando di coinvolgere
anche la gente delle campagne. È
quella l’Algeria più profonda: quella che erroneamente vede ancora
in Bou­teflika la pacificazione dopo
il decennio nero del terrorismo,
la stabilità, lo Stato. Da noi è fortissimo il nazionalismo, accanto
all’islamismo. Noi cerchiamo una
terza via, quella della modernità».
DALLA PROTESTA
ALLA PROPOSTA
Riappropriarsi degli spazi pubblici,
liberare la cultura, investire in
sanità e istruzione: per ora sono
questi i punti fermi di Barakat. Oltre al deciso «no» al ritorno dell’islamismo, ribadito dal movimento
quando, a fine maggio, il Fronte
islamico di salvezza annunciaagosto-settembre 2014 Popoli 25
algeria
Abdelaziz Bouteflika mentre vota. È seduto
su una sedia a rotelle per i postumi
di un ictus che l’ha colpito nel 2013.
va il ritorno sulla scena politica.
L’ultima battaglia che ha riportato
in piazza i membri di Barakat è
però quella contro lo sfruttamento
del gas con il metodo del fracking
(un sistema inquinante e, secondo alcuni, molto rischioso per i
terremoti che potrebbe scatenare)
da parte di compagnie francesi, secondo un accordo siglato il
21 maggio dal governo algerino.
«L’Algeria non è in vendita», hanno tuonato durante un sit-in alla
Grande Poste, l’8 giugno.
«Lo sfruttamento del gas non convenzionale - continua Benfodil - è
un progetto distruttivo sul piano
politico, economico ed ecologico,
deciso senza il consenso del Consiglio nazionale dell’energia, che è
congelato da 15 anni». La protesta
ha fugato alcuni dubbi che circolavano riguardo a un orientamento economico iperliberista del
mov imento. Terreno
Si dice che Barakat
scivoloso,
vorrebbe una
in un Paese
Primavera araba,
che ancora
rischiando di
considera il
trascinare l’Algeria
settore prinel caos di Libia,
vato come
Egitto e Siria.
un nemico
«Mai - dice Amira -.
e
impone
Ricordiamo troppo
bene i 200mila morti alle società
straniere di
nel decennio nero»
operare con
partner locali che detengano il
51% del capitale.
In un’Algeria dalla situazione economica «allarmante» e dove, secondo un recente rapporto del
Fondo monetario internazionale, la
disoccupazione è al 9,8% ma s’impenna oltre il 21% tra chi ha meno
di 35 anni, per molti giovani colti
e disillusi Barakat ha acceso una
speranza di svolta, almeno culturale. Il ventiduenne Anis Saidoun,
studente di Farmacia e attore di
teatro, spiega: «Io non voglio emigrare, l’amore per l’Algeria è una
droga, ma il sistema gerontocrati26 Popoli agosto-settembre 2014
co impedisce ai giovani di fiorire.
Ci rifugiamo su Facebook perché
è l’unico terreno d’espressione che
ci resta e, in un Paese che vuole mantenere le masse ignoranti,
persino leggere un libro o scrivere
una poesia sono atti d’impegno
politico. Ecco perché mi sono unito
a Barakat».
Ma il movimento quanto fa davvero paura alla politica? A giudicare
dagli sforzi per screditarlo messi
in campo dai media vicini al governo, una certa preoccupazione
serpeggia. È stato scritto che Barakat sarebbe finanziato da Israele,
Cia e Marocco, spauracchi perfetti
per la maggioranza degli algerini.
Amira Bouraoui racconta di essere costantemente pedinata e che
qualcuno ha fatto pressioni contro
di lei sui suoi superiori. Inoltre è
stata accusata di praticare aborti
clandestini (in Algeria l’aborto è
illegale). Si è anche detto che dentro Barakat si nascondano islamisti del Fis («Da noi sono benvenuti
solo gli islamici moderati», chiarisce Amira), e si dice che Amira e
Mustapha Benfodil cerchino solo
visibilità personale e in realtà disprezzino le masse popolari. Ma
l’interpretazione più esplosiva è
quella per cui Barakat vorrebbe
una Primavera araba, rischiando
di trascinare l’Algeria nello stesso
caos di Libia, Egitto e Siria. «Mai
- si scalda Amira -. Ricordiamo
troppo bene i nostri 200mila morti
nel decennio nero. Noi vogliamo
una rivoluzione pacifica. E se si
soffoca una rivoluzione pacifica,
allora sì che prima o poi dilagherà
la violenza».
Umorismo
volontario
Alcuni artisti italiani cercano l’incontro e
la scoperta delle culture portando gratuitamente
la propria comicità in territori feriti del Sud
del mondo: sono i Giullari senza frontiere
Francesco Pistocchini
ni, che, per spirito di avventura e
amore per l’arte, cercano l’incontro
anno un costume a strisce e scatenano sorrisi. Il loro progetto
bianche e nere. Recente- è di portare per il mondo, in luoghi
mente sono stati avvistati, segnati da un passato di guerra o
seduti sul tetto di un pulmino che sofferenze che la povertà amplifica,
percorreva la strada per Jaffna, do- una serie di spettacoli gratuiti e ocve pochi anni fa soldati dello Sri casioni di formazione per educatori,
Lanka e guerriglieri tamil compi- con il gusto del volontariato puro,
vano stragi. Hanno battuto piste in perché autofinanziato.
Mozambico e in Bengala, risalito il Come meteore che passano, si muocorso del Mekong, esplorato villag- vono in modo forse naif, ma capaci
gi nel Sertão brasiliano. Talvolta, di attirare chiunque. «È la scusa per
al limitare della savana o accanto incontrare una cultura - raccona un tempio buddhista, la polizia ta Rodrigo Morganti, clown, anzi
ha cercato di fermarli, preoccupata clown dottore e giocoliere milanese,
dagli assembramenti di folle cala- occhi e baffi grandi da gigante buomitate dai loro spettacoli. Ma sono nissimo, che spesso si fa portavoce
bastati alcuni scatti a braccetto con del gruppo -. Abbiamo voluto essere
l’ufficiale in divisa per far capire liberi. Siamo un gruppo di una deciche certe risate non sono business, na di amici, alcuni con i figli al setanto meno politica e neppure «co- guito, accomunati dal fatto di essere
operazione» in senso stretto. Sono professionisti che fanno spettacolo».
Ogni anno i Giullari dela magia della comicità
dicano circa tre mesi
senza confini.
Sono un gruppo
a un Paese, finanzianI Giullari senza fron- di giocolieri,
tiere sono rientrati in acrobati e clown do il viaggio attraverso
qualche occasione di
aprile da un tour di tre che, per spirito
lavoro insieme in Itamesi in Sri Lanka. Sono di avventura
lia. Spiegano che il loro
un gruppo di giocolieri, e amore per
progetto, nato nel 2003,
clown e acrobati italia- l’arte, cercano
H
l’incontro e
scatenano sorrisi
in luoghi segnati
da conflitti
D. BOZZALLA
solidarietà
è stato anche una reazione a un
certo modo di fare cooperazione
nel Sud del mondo troppo legato al
denaro. Preferiscono la libertà di
scegliere tempi, ritmi e itinerari, per
entrare nella cultura dei luoghi.
«Eravamo in Mozambico, stavamo
per iniziare uno spettacolo dedicato ai bambini di strada - continua
Rodrigo -. Ci avevano invitati in un
club, davanti ad alcune personalità,
ma i bambini erano stati tenuti alla
larga dai buttafuori… un vero controsenso». Andò meglio a Benares,
in India: avvicinano i ragazzi di
strada che vendono cartoline. Quella
sera decidono di «fare cappello»,
per mostrare loro che con un’abilità
artistica si può anche guadagnare.
Raccolgono duemila persone sulle
scalinate che scendono al Gange.
In India i Giullari girano a lungo,
vivono qualche tempo con alcuni
sadhu musicisti, che pensano di
avere trovato colleghi. «Spesso ci
cercano, partecipiamo alle feste dei
paesi, siamo avvolti dalla gente».
DI VILLAGGIO IN VILLAGGIO
Le radici del progetto affondano in
esperienze precedenti che avevano
portato alcuni di loro in luoghi
lontani, dal Chiapas ai Balcani. In
Kosovo, ad esempio, avevano lavorato i Pagliacci senza frontiere (Ong
spagnola). Ma i Giullari non sono
chiamati e pagati per svolgere un
servizio, partono alla ricerca di un
incontro senza sapere come andranno le cose.
agosto-settembre 2014 Popoli 27
«Molte situazioni mi hanno colpito», racconta Stefano Catarinelli, di
Foligno, uno dei fondatori. Come
«giullare del diavolo» è un esperto
della giocoleria, un’arte legata alle atmosfere del medioevo. Quando parte
viaggia con moglie e figlio. «Ricordo
il giorno in cui un gruppo di ragazzini brasiliani ha smesso di tirare colla
per venire a vederci. A un festival ho
incontrato un giovane mozambicano:
ha iniziato a studiare arti circensi dopo un corso di giocoleria e acrobatica
fatto con noi, ora gira il mondo con il
suo spettacolo».
E non è un caso unico, perché quando i Giullari senza frontiere incontrano artisti che li possono seguire,
li coinvolgono nei loro spettacoli. A
Jaffna sono stati accolti dal Center
for Performing Arts (Cpa), un’organizzazione rimasta neutrale nello
scontro tra singalesi e tamil e che
ha chiesto formazione per i propri
ragazzi. In Brasile, invece, hanno
avuto a disposizione un camion che
si trasformava in palco, permettendo
loro di esibirsi di villaggio in villaggio, con uno spettacolo al giorno,
in una zona povera e dignitosa del
Nord-Est, senza cinema o altri svaghi. Iniziavano a esibirsi al calare
del sole, in modo che anche gli adulti
di ritorno dai campi potessero unirsi
al pubblico. Applausi e abbracci. A
Ilhéus (Bahia), si sono aperte per loro
le porte di un carcere dove, da cinque anni (dallo scoppio dell’ultima
rivolta), i detenuti non avevano più
potuto fare nulla.
«Sono piccoli segni di cambiamento,
ottenuti con l’esempio di quello che
28 Popoli agosto-settembre 2014
fai», spiega Rodrigo. Anche a costo di esegue da anni alzando la maqualche sacrificio, come quello di cu- glietta tra risate fragorose, faceva
rare l’istruzione dei figli nei mesi in scappare le donne in Marocco o
cui li porti lontano dall’Italia. Talvol- in alcuni villaggi indiani. «Quindi
ta l’incontro può essere molto diffici- impari, capisci. In alcuni Paesi non
puoi soffiarti il naso o
le. «Ti si blocca lo stomaforzare un monaco a
co quando entri in certi «In un villaggio
fare il volontario: sono
orfanotrofi con situa- dello Sri Lanka
tutte cose che fanno
zioni pesanti», racconta - racconta uno
Stefano. «In Cambogia, dei Giullari - dopo crescere culturalmente,
ma incidenti seri non si
ad esempio, c’è anche lo spettacolo
sono mai verificati».
l’impatto di uno sfrutta- un uomo mi ha
Le emozioni più vive armento sessuale dei mi- detto che per
rivano dal recente tour
nori evidente e tragico la prima volta,
in Sri Lanka, dove nel
- aggiunge Rodrigo -. dopo la guerra e
nord, anche se le armi
Invece, in Africa, a volte lo tsunami, tutti
hai la sensazione che sa- ridevano insieme» tacciono, ci sono di fatto
situazioni di coprifuoco
rai sempre un mzungu,
e posti di blocco lungo
un bianco, visto come
le strade. I Giullari si
l’operatore della Ong con
quello che rappresenta... Appena fi- sono confrontati anche con la realtà
nito lo spettacolo arriva un bambino dell’alcolismo diffuso tra i giovani
che hanno vissuto la guerra e lo tsue chiede qualche soldo».
nami. «Ma in un villaggio costiero,
lacerato al suo interno - racconta
VOGLIA DI RIDERE
Viene da chiedersi se persone di Stefano -, dopo lo spettacolo un
culture così lontane si mettano in uomo mi ha detto che per la prima
relazione in modo diverso con la volta dallo tsunami di dieci anni
comicità. Per Rodrigo, ovunque c’è fa vedeva tutti gli abitanti riuniti a
bisogno di ridere in modo sano. ridere insieme».
«Prima dicevamo di portare un sor- «Non siamo santi - chiarisce Rodririso dove guerra e povertà l’ave- go -: solo loro sanno donare senza
vano impedito. Ma non è preciso: contraccambio. Noi riceviamo tanin Kosovo, ad esempio, le risate tissimo in cambio: può essere una
c’erano, ma erano tese, nervose. tavola così riccamente imbandita da
Invece, portando il teatro di strada, metterti in imbarazzo, o tornare da
la magia dell’attimo, l’interazione uno spettacolo in una favela sentencol pubblico, si stabilisce un ritmo do una soddisfazione grande come
artista». Il motto del gruppo, «La fediverso, che coinvolge tutti».
Certamente, servono alcune atten- licità non esiste: oggi voglio provare
zioni per i diversi ambiti culturali. a essere felice senza», pare allora un
La danza del ventre, che Rodrigo desiderio che si realizza per tutti.
A. GUERMANI
A. GUERMANI
solidarietà
Chi chiede
asilo
lo chiede
a te
la vera
, sicurezza
è l ospitalità
reportage
30 Popoli agosto-settembre 2014
identità - differenza
Quelli che
restano
Nella Siria lacerata dalla guerra civile, i cristiani
che non abbandonano il Paese preferiscono
allinearsi al regime di fronte alle incognite della
ribellione, sempre più influenzata dall’estremismo
islamico. Viaggio all’interno di una minoranza
che si arma per disperazione
Testo: Andrea Milluzzi
Foto: Linda Dorigo
Damasco (Siria)
«S
criverai di me? Allora
devi scrivere che amo
il mio Paese, il mio
Presidente e i miei connazionali.
La Siria è una e dobbiamo tornare
a vivere insieme». Shamo è una
ragazza di 25 anni di Barabait, o
Chiesa Madonna, piccolo villaggio
nella valle della Jazira, nel Kurdistan siriano. Sta stendendo al vento i panni appena lavati, mentre
in salotto sua madre aspetta che il
pane lieviti sotto le coperte. Shamo e la sua famiglia si occupano
della piccola e antichissima chiesa
siro-ortodossa del villaggio, dove
da tempo non viene più nessuno:
«Chiesa Madonna ha 1.500 anni e
mio padre ne è il custode. Io dovrei
essere il prossimo, ma appena ne
avrò l’occasione me ne andrò in
Europa», confessa Kamil, fratello
di Shamo. Il futuro della Siria si
gioca sulla pelle dei giovani come
Shamo e Kamil, innamorati del
loro Paese ma pronti a lasciarlo
se non cesseranno le violenze e le
divisioni che da più di tre anni lo
stanno squassando.
Il 4 giugno scorso Bashar al-Assad,
al potere dal 2000, dopo un trentennio di regno del padre Hafez,
ha vinto le elezioni con l’88% delle preferenze. Il voto, considerato
una farsa al di fuori dei confini
nazionali, si è svolto in un Paese
che, fra morti, rifugiati e sfollati,
in tre anni ha perso oltre il 40%
della popolazione e che ha al suo
interno più di 6 milioni di sfollati.
La Siria è talmente divisa che al
Nord e in quasi tutto il Kurdistan
i funzionari
di Stato non
Il 4 giugno Assad
hanno potuto
ha vinto le elezioni
trasportare le
con l’88% dei
urne elettoravoti in un Paese
li. Gli ulteriori
che ha più di 6
sette anni di
milioni di sfollati
presidenza che
ed è talmente
al-Assad si è
diviso che al Nord
guadagnato
i funzionari non
saranno decihanno potuto
sivi per capire
trasportare le urne
se la Siria tornerà a essere una nazione unita o
se seguirà il destino a cui è stata
lasciata la Somalia, «un Paese fallito con i signori della guerra a regnare su fazzoletti di terra», come
l’ha recentemente definita Lakhdar
Brahimi, inviato speciale dell’Onu
dal 2012 fino a pochi mesi fa.
«Noi cristiani siamo gente pacifica
e vogliamo mantenere la convivenza con i musulmani. Ma è uno strazio vedere la nostra gente umiliata
e i nostri luoghi occupati dai fonagosto-settembre 2014 Popoli 31
reportage
damentalisti. Per questo andremo
fino in fondo e vinceremo questa
guerra», tuona Ahdi, ufficiale cristiano dell’esercito lealista e creatore della milizia volontaria di
Saydnaya, poco a nord di Damasco.
Il monastero di Nostra Signora di
Saydnaya sovrasta la collina a soli
30 chilometri di distanza da Maaloula, villag«La nostra gente
gio di grande
valore simha paura perché
bolico per il
pensa che se un
cr ist ianesivescovo è stato
mo perché vi
rapito chissà cosa
si tramanda
può succedere
l’a r a m a ic o
agli altri - osserva
occidenta le:
un prete siriaco di
«Saydnaya è
Damasco -. C’è chi
seconda solo
vuole difendersi e
chi lasciare la Siria» a Betlemme
per importanza storica - osserva la superiora,
madre Febronia -. Ci sono trentasetta chiese e questo convento ha
più di 1.500 anni. Siamo nel cuore
della cristianità, ma il mondo ci
ha abbandonato e non abbiamo più
nemmeno la forza di alzare gli occhi al cielo e chiedere al nostro Dio
di aver pietà di noi».
Finora Saydnaya si è salvata dalla
guerra. Non si può dire lo stesso
di Maaloula, che per mesi è stata
nelle mani dei miliziani islamisti
del fronte al-Nusra, formazione
qaedista. A metà aprile l’esercito di
Damasco ha riconquistato la città,
poche settimane dopo che le dodici
suore rapite dal convento di Mar
Tekla erano state liberate. Adesso
Maaloula è una città disabitata
dove si contano i danni provocati
dall’assedio e dai combattimenti.
«Noi soldati cristiani siamo stati
gli ultimi ad arrenderci ad alNusra. Eravamo disposti anche a
distruggere i nostri luoghi sacri
pur di cacciare quei cani terroristi
da Maaloula», racconta Ali, 32en-
ne tecnico informatico che adesso
vive con la zia a Damasco, vicino
al quartiere di Jobar, dove spari ed
esplosioni non sono mai cessati.
Grazie all’aiuto delle truppe libanesi di Hezbollah e delle formazioni
sciite giunte dall’Iraq e forte delle
armi russe e delle strategie militari
dei pasdaran iraniani, dal dicembre scorso il regime ha strappato
alle opposizioni ampie zone del
Paese. Sul Qalamoun, la montagna
dell’Antilibano che divide la Siria
dalla valle della Bekaa libanese,
sventolano le bandiere a due stelle dei lealisti dopo le offensive
militari che hanno riconquistato
Yabroud, la zona cristiana del Krac
dei Cavalieri (il grande castello
cristiani siriani
D
ell’articolato scenario del cristianesimo in Siria è impossibile
fornire statistiche da quando il Paese è in guerra. Prima del
2011 si poteva ipotizzare che i cristiani fossero quasi un decimo
degli oltre 20 milioni di siriani. La presenza cristiana, antica come
il cristianesimo stesso, è strutturata in diverse Chiese autonome
o cattoliche di rito orientale, tra cui le principali hanno nella città
di Antiochia (oggi in Turchia) il proprio riferimento storico.
>Greco-ortodossi di Antiochia: Chiesa autocefala del mondo
ortodosso, sono storicamente la denominazione più numerosa.
Patriarca: Giovanni X Yazigi.
>Cattolici greco-melchiti: Chiesa di rito orientale in comunione
con Roma dal 1724. Patriarca: Gregorio III Laham (in Siria, 6
diocesi).
Entrambe queste Chiese appartengono alla tradizione liturgica
bizantina. I patriarchi hanno il titolo di Antiochia, con sede effettiva
a Damasco.
>Assiri d’Oriente (nestoriani): Chiesa separata dal 431 dal cri-
stianesimo greco e latino. Patriarca: Mar Dinkha IV (sede negli
Usa).
>Caldei: cattolici di rito siriaco-orientale (assiro) in comunione
con Roma dal 1553. Patriarca: Louis I Sako (sede a Baghdad).
In Siria hanno un vescovo ad Aleppo, il gesuita Antoine Audo. Anche per queste Chiese la lingua liturgica è il siriaco (aramaico).
>Armeni apostolici: Chiesa orientale, separatasi nel IV secolo.
>Armeni cattolici: uniti a Roma dal 1742 (in Siria, 3 diocesi).
Entrambe queste Chiese hanno l’armeno come lingua liturgica.
>Maroniti: Chiesa di rito orientale legata storicamente al Libano,
rimasta sempre unita alla Chiesa di Roma (in Siria, 3 diocesi).
>Cattolici latini: vicariato apostolico ad Aleppo.
>Piccole comunità protestanti: (presbiteriani e battisti arabi,
armeni evangelici, ecc).
al Concilio di Calcedonia del 451. Patriarca: Ignatius Aphrem II.
La Siria nell’antichità ha dato i natali a 6 pontefici, uno nel II secolo, gli altri tra il VII e l’VIII secolo. Papa Gregorio III morto nel 741
fu l’ultimo papa (prima dell’attuale) nato fuori dall’Europa.
cristianesimo siriaco, riconciliata con Roma nel 1662. Patriarca:
Ignatius Ephrem Joseph III Younan (in Siria, 4 diocesi).
32 queste
Popoli agosto-settembre
2014 (aramaico) come lingua
Entrambe
Chiese hanno il siriaco
liturgica. I patriarchi hanno il titolo di Antiochia (sede a Beirut).
Oggi, risultano nelle mani di rapitori due prelati di Aleppo, l’arcivescovo greco-ortodosso Paul Yazigi, e l’arcivescovo siriaco ortodosso Gregorios Yohanna Ibrahim, scomparsi dal 22 aprile 2013.
f.p.
>Siriaci ortodossi: Chiesa autocefala di rito orientale, separatasi
>Siriaci cattolici: componente numericamente più ridotta del
La farmacia della chiesa greco-ortodossa
di Jaramana (Damasco). Nelle pagine
precedenti, un soldato cristiano della
milizia siriaca nel villaggio di Gharduka.
dell’epoca crociata), al-Qusair e del Corano e quindi sono riusciti a
Adra. Da quest’ultimo paese, a fuggire con me da Adra».
40 chilometri da Damasco, erano
giunti i racconti degli ultimi orrori A DAMASCO, SCHIERATI
commessi dai fondamentalisti: «Ho La maggioranza dei cristiani di
visto uomini gettare nel fuoco Damasco e dintorni non ha dubbi
alcuni dipendenti di un forno pub- a schierarsi a fianco del regime
blico in quanto “servi di Assad”. e dell’esercito. La propaganda di
Ho visto sgozzare decine di per- Stato enfatizza la necessità di salsone, cristiane e musulmane, e ho vare la Siria dai «terroristi» e le
visto appendere le loro teste a un testimonianze che giungono dalle
albero di Natale. Ho visto uomini città del Paese in mano ad al-Nusra
tagliare la gola dei figli di una o allo Stato Islamico dell’Iraq e del
donna colpevole di aver provato a Levante (Isis) hanno un impatto
maggiore dei bombarnasconderli. È questa la
libertà che vogliono?», Finora Saydnaya, damenti, degli arresti e
degli assedi. Padre Paracconta una donna con le sue 37
olo Dall’Oglio è scomsulla quarantina da- chiese, è stata
parso da oltre un anno
vanti a un capannello risparmiata.
e di altri due vescodi persone nel cortile Non si può dire
vi ortodossi, Yohanna
della farmacia di San- lo stesso di
Ibrahim e Bulos Yazigi,
ta Croce, a Damasco. Maaloula, che
non si hanno notizie da
È seduta su una sedia per mesi è stata
aprile 2013. «La nostra
e un raggio di sole le nelle mani dei
illumina gli occhi che miliziani islamisti gente ha paura perché
pensa che se un vescosi abbandonano alle la- di al-Nusra
vo è stato rapito chissà
crime quando ammette
cosa può succedere alle
di aver mandato i suoi
persone normali - osfigli a rovistare nella
spazzatura: «Si sono salvati perché serva dietro l’anonimato un prete
ho insegnato loro qualche verso del Patriarcato siro-ortodosso di
Bab Touma, sulla cui facciata campeggiano le gigantografie di padre
Ibrahim e padre Yazigi -. C’è chi
vuole prendere le armi e difendersi
e chi vuole lasciare la Siria.
Losian ha 21 anni,
È difficile far
il corpo tatuato
cambiare loro
con simboli
idea quando ci
cristiani e un
sono 3.800 fatappeto con il
miglie siriache
disegno dell’ultima
sfollate, vescocena sopra la
vi rapiti e contesta. Da cinque
tinue denunce
mesi è un soldato
di persecuziodel Consiglio
ni contro i crimilitare siriaco
stiani».
Damasco è sotto assedio da qualsiasi punto la si guardi. Gran parte
del centro è tornato nelle mani dei
lealisti e gli abitanti provano a recitare una vita normale, tenendo i
negozi aperti, andando a pranzare
nei ristoranti e organizzando il
traffico con semafori e vigili. Il rumore di esplosioni e scontri a fuoco
arriva dalle periferie. Bab Touma,
che comprende il suq più grande
d’Oriente, è un dedalo di stradine
ciottolose dove si affacciano vecchie case sbilenche e gli abitanti si
Shamo, 25 anni, è la figlia del custode
della chiesa nel paese di Barabaita
(Kurdistan siriano).
agosto-settembre 2014 Popoli 33
reportage
aggirano laboriosi fra botteghe e
negozi. Qui vive e lavora la maggioranza dei cristiani: «Quando
tutti i siriani erano 4 milioni, gli
armeni erano 230mila, ora che i
siriani sono 17 milioni gli armeni
sono solo 80mila - spiega il prete
della comunità fra una stretta di
mano e l’altra ai suoi fedeli durante
una visita al cimitero -. La fuga è
cominciata ben prima della guerra,
ma questa tragedia non riguarda
solo i cristiani. Sono i musulmani
a soffrirne di più, perché loro sono
la maggioranza».
VERSO LO STALLO
In occasione delle elezioni centinaia di profughi hanno voluto far
ritorno dal Libano alle loro case,
nonostante il governo di Beirut
avesse chiaramente dichiarato di
essere indisponibile a una nuova
accoglienza: «L’esercito sta conquistando posizioni e anche se è
tutto distrutto, per un siriano è
più dignitoso piantare una tenda
sul proprio suolo piuttosto che
su quello straniero», spiegano i
soldati di pattuglia a Damasco.
Gli accordi di pacificazione fra le
truppe ribelli e il regime permettono alle famiglie di fare ritorno
a casa, come è accaduto a Homs,
ma il dramma degli sfollati interni
Damasco, l’insediamento di Yarmuk, occupato da rifugiati
palestinesi e posto sotto assedio per un anno dall’esercito,
con conseguenze tragiche per i civili.
34 Popoli agosto-settembre 2014
Paesaggio della Jazira (Nord-Est siriano). A sinistra,
la chiesa del villaggio di Gharduka, usata come
trincea e distrutta dal fronte al-Nusra.
è ben lontano dall’essere risolto: Bashar al-Assad e i suoi fedelis«Solo oggi da noi sono arrivate simi sono riusciti a ricostruire il
300 nuove famiglie a cui offria- cordone vitale che lega Damasco
mo pranzo e cena. Man mano alla città di Latakia, sul mare, e
che i combattimenti si spostano alla costa abitata dagli alauiti di
vediamo flussi provenire da nuove cui fanno parte, mentre il Nord è
città», spiega Ra’id, custode della ancora un buco nero dove la guerra
parrocchia melchita di Jaramana, inghiotte qualsiasi cosa. A questo
città a mezz’ora dalla capitale, fa- vortice di distruzione stanno tenmosa per aver accolto migliaia di tando di sottrarsi i curdi e i siriaci
profughi iracheni nel 2003.
della Jazira, regione a Nord-Est
Centri della Caritas, dei gesuiti, del Paese. Alcuni cristiani hanno
Patriarcati di tutte le confessioni deciso di scendere in campo con
sono mobilitati giorno e notte per una polizia, il Sutoro, e una midistribuire quel poco di aiuti che lizia, il Consiglio militare siriaco
riescono a varcare gli sbarramenti (Msf) di fanteria leggera. «Questa è
della guerra. A fine gennaio anche la nostra terra e ci sentiamo uniti
il campo palestinese di Yarmuk ha al popolo curdo nella lotta per
potuto finalmente ricevere viveri e l’indipendenza - spiega Barsom,
coperte. Da molti mesi sotto l’asse- un giovane cristiano siriaco -. Nel
dio dalle forze di Dafrattempo però col remasco, Yarmuk è uno «La fuga è
gime dobbiamo ancora
scheletro rumoroso che cominciata
venire a patti». Barsom
custodisce i corpi di ben prima della
è stato da poco eletto
almeno una dozzina di guerra - osserva
nel neonato parlamenbambini, morti di fame un prete armeno
to della Rojava, il nome
nell’indifferenza del di Damasco -, ma che i curdi danno alla
mondo esterno.
regione nord-orientale
questa tragedia
non riguarda solo
i cristiani. Sono
i musulmani a
soffrirne di più»
della Jazira, in cui oggi sono la
maggioranza. Pochi giorni dopo è
stato arrestato e torturato dai poliziotti del regime.
«So che i miei genitori sono fieri
di me e che quando escono di casa
possono camminare a testa alta»:
Losian ha 21 anni, il corpo tatuato
con simboli cristiani e un tappeto
con il disegno dell’ultima cena appeso sopra la testa. Da cinque mesi
è un soldato del Consiglio militare
siriaco, di base a Gharduka, insieme ad altri quattro ragazzi siriaci.
Sommando le loro età si arriva a
malapena a cento anni. Avevano
una vita normale, adesso hanno
già combattuto e ucciso: «Mentre
sparavo non pensavo a cosa stavo
facendo. Solo dopo che ho smesso
mi sono accorto di aver ammazzato
quegli uomini, ma non mi sentivo
in colpa», spiega Orom, 19 anni,
che durante la battaglia nella vicina Tall Hamis ha attaccato una
macchina del fronte al-Nusra. Questa è la vita che la Siria offre oggi
ai suoi figli.
agosto-settembre 2014 Popoli 35
musica
Claudio Zonta SJ
L
a musica da sempre accompagna l’uomo nei viaggi, nei
commerci, nelle peregrinazioni e nelle fughe: e così il popolo
ebreo, in seguito alla diaspora,
porterà con sé le proprie tradizioni musicali, contaminando e
lasciandosi influenzare, generando
la cosiddetta musica «sefardita»
(per quanto riguarda le comunità
ebraiche che si stabilirono nella
Penisola iberica) e «yiddish» (per
le comunità dell’Europa dell’Est).
I canti dei pellegrini cristiani che
si dirigevano a Roma, a Santiago
di Compostela o a Gerusalemme
lasceranno tracce musicali dei loro
passaggi attraverso le rotte marittime o i cammini rupestri della via
Francigena.
Le stesse colonizzazioni furono
modalità
di
contaminazioni
L’evoluzione
musicali, come
tecnologica
dimostra l’orista permettendo
gine del blues,
una costante
la musica degli
diffusione
schiavi africadi musiche
ni nelle regioni
attraverso canali
meridionali detelevisivi a
pagamento, come gli Stati Uniti e,
nella sua evolula popolarissima
zione più colta,
rete Channel O
il jazz.
Tutt’oggi, grazie anche alla facilità
degli spostamenti e alle potenzialità dei mezzi di comunicazione, continuiamo ad assistere a passaggi,
consegne, trasformazioni di culture
musicali da un Paese all’altro che
possono essere evidenziati seguendo alcune idee guida.
Possiamo suddividere due modalità
di «veicolazione» musicale: la prima
è incentrata più sulla diffusione
musicale di massa, mediante social
network, canali televisivi e radio; la
seconda si fonda sull’artista stesso
che assorbe, rielabora e ripropone
la musica, dando vita a percorsi
personali e originali.
36 Popoli agosto-settembre 2014
Contaminazione
globale
Ovunque si sposti, l’uomo porta con sé i suoni
della propria terra che si fondono e influenzano
quelli del luogo che lo ospita. Nascono così
percorsi musicali unici. Un processo che continua
anche e soprattutto nell’era della globalizzazione,
sfruttando le nuove tecnologie
GLOBALIZZAZIONE TELEVISIVA
L’evoluzione tecnologica sta permettendo una costante diffusione
di generi musicali attraverso canali
televisivi a pagamento che trasmettono musica commerciale 24 ore al
giorno, come la popolare rete sudafricana Channel O (http://channelo.dstv.com/home)che propone
video di musica afro-pop, hip-hop,
r&b, dance, rap, kwaito e soul. I
video, che mantengono una stretta
relazione con la musica americana
da cui la maggior parte dei cantanti e gruppi africani prendono
ispirazione, presentano un sovraffollamento di belle ragazze tra balli
sensuali (2Shotz, For The Ladies),
luminarie di locali notturni (Loyal,
Chris Brown ft. Lil Wayne & Tiga)
o scenari bellici (Ragga Bomb with
Ragga Twins). Lester Din, il marketing manager di Channel O (il cui
canale è seguitissimo in Nigeria,
Ghana, Kenya, Uganda e Tanzania)
afferma che la programmazione
In apertura, l’Orchestra di Piazza Vittorio.
Sotto, Mayra Andrade, promettente
cantante di origini capoverdiane.
è «Made for Africa, in Africa, by
Africans» («Creata per l’Africa, in
Africa, da africani»).
Un altro importante progetto, qualitativamente differente, si chiama
Playing For Change. Sfruttando le
potenzialità multimediali, si propone di mettere in relazione diversi
continenti attraverso la musica; come si legge nella pagina Web, è «un
movimento multimediale creato per
ispirare, connettere e portare la pace nel mondo attraverso la musica».
La sfida ha dell’incredibile: può la
stessa canzone essere eseguita allo
stesso tempo in differenti città del
Chao), Stand by Me, War/No more
Trouble scritta da Bob Marley e
cantata anche da Bono degli U2, La
Tierra del Olvido, ecc.
Il movimento di Playing For Change, come suggerisce il nome, non
solo si propone di promuovere un
particolare modo di fare musica
all’interno dei differenti Paesi ma,
sfruttando la musica come linguaggio comune, desidera trasmettere un
messaggio di pace e di convivenza.
SONORITÀ METICCE
Esistono poi percorsi individuali,
personali, di ricerca e di speri-
mondo, come Casablanca, Budapest, mentazione: musicisti che hanno
Dakar, Kanchipuram, Buenos Aires, iniziato a studiare le musiche tradiNew Orleans da musicisti che suo- zionali nei rispettivi Paesi di originano i propri strumenti tradizionali ne e successivamente si sono rivolti
ciascuno stando per strada o in un all’estero riuscendo, da una parte,
a trasmettere la belparco o su una panchilezza e la particolarità
na in mezzo alla gente? Musicisti hanno
Attraverso questa mo- studiato le musiche delle proprie sonorità
e, dall’altra, facendosi
dalità di fare musica tradizionali nei
contaminare musicalsono state rilette celebri Paesi di origine
mente.
canzoni come Clande- e poi si sono
Ci riferiamo ad artisti
stino (con la parteci- rivolti all’estero.
come Habib Koité, nato
pazione stessa di Manu Così hanno
trasmesso le
proprie sonorità
e si sono fatti
contaminare
in Senegal ma vissuto in Mali, proveniente da una famiglia di griot,
cantastorie dell’Africa occidentale.
L’artista coniuga un percorso derivato dallo studio delle radici della
musica maliana con la frequentazione più tecnica del National
Institute National des Arts (Ina)
di Bamako. Il risultato è uno stile
innovativo con contaminazioni di
blues e ritmi locali, che nel 1991
gli ha fatto vincere il primo premio
al Festival Voxpole di Perpignan
(Francia). Da questo momento Habib Koité inizia una serie di collaborazioni con musicisti come Eric
Bibb (We don’t care) e Bonnie Raitt
(Back Around) comparendo anche
nel progetto Playing For Change
nel brano United, esperienza che
fanno conoscere il suo stile e la sua
musica oltre i confini dell’Africa,
sebbene il musicista continui a vivere e a suonare nel Mali.
Un’altra artista che ha fatto della
sua vita un affascinante e intenso
viaggio musicale è Mayra Andrade,
giovane e promettente cantante e
compositrice capoverdiana che ha
saputo accogliere e rileggere ritmi
e tradizioni musicali di culture
differenti. Per comprendere il suo
modo di fare musica è necessario
conoscere alcuni aspetti della sua
vita: nasce a Cuba nel 1985, ma
cresce a Capo Verde (Paese di origine della famiglia), successivamente
vive in Senegal, Angola, Germania
e Francia, dove risiede attualmente.
Di ogni Paese nel quale ha vissuto
ha saputo cogliere, oltre agli aspetti
culturali e linguistici, la ricchezza
sonora, creando un personale linguaggio musicale. Nelle sue note
ritroviamo i ritmi capoverdiani,
rimandi ai differenti stili brasiliani
(dal choro alla bossa nova), accenni al fado portoghese, così come
alla canzone d’autore francese: e
questi sono solo alcuni degli ingredienti contenuti nelle canzoni di
Mayra Andrade, che canta in creolo
capoverdiano, francese, inglese e
agosto-settembre 2014 Popoli 37
musica
Habib Koité (a sinistra),
cantante maliano, discendente
da una famiglia di griot.
portoghese. Una voce che sa accarezzare e amalgamare i tanti accenti musicali, sottolineando in ogni
suo lavoro (sono quattro gli album
finora pubblicati: Navega, Stória
Stória, Studio 105 e Lovely Difficult
pubblicato nel 2013) la bellezza di
una musica che, pur mescolando
sonorità diverse, mantiene viva la
propria identità.
ORCHESTRA INTEGRATA
La musica si sposta con l’uomo e
così in questi tempi di forti migrazioni possiamo assistere a formazioni di orchestre composte da
strumentisti di
passaggio, che
La musica si
suonano, contrasmette in
taminano con
maniera naturale
la propria cule spesso
tura la musica
inconsapevole
e poi magari
ed è il primo
ripartono per
«biglietto da
visita» che l’uomo altre città. Tra
le più celebri in
porge quando
Italia ricordiaarriva o approda
mo l’Orchestra
in un altro Paese
di Piazza Vittorio, a Roma. Così si legge nel sito
dell’orchestra: «Diciotto musicisti
che provengono da dieci Paesi e
parlano nove lingue diverse. Insieme, trasformano le loro variegate
radici e culture in una lingua singola, la musica. Questa è l’Orche-
stra di Piazza Vittorio. Partendo
dalla musica tradizionale di ogni
Paese, mischiandola e intingendola
con rock, pop, reggae e classica, si
arriva alla sonorità unica dell’Orchestra.
Tra musicisti che partono e altri che arrivano, cambia il suono
dell’orchestra senza mai tradire la
vocazione iniziale a sfide nuove e
orizzonti aperti al mondo intero.
Una fusione di culture e tradizioni,
memorie, sonorità antiche e nuove,
PER SAPERNE DI PIÙ
Monografie
>Baraka Amiri
Il popolo del blues,
Sociologia degli afroamericani
attraverso il jazz
Shake 2011
>Francesco Fiore
Orchestre e bande
multietniche in Italia
Editrice Zona 2013
38 Popoli agosto-settembre 2014
Pagine web
>channelo.dstv.com/home
>www.habibkoite.com
>playingforchange.com
>www.mayra-andrade.com
> www.orchestrapiazzavittorio.it
Film-documentari
>Dal Mali al Mississippi
(Feel Like Going Home)
regia di Martin Scorsese, 2003
>L’Orchestra di Piazza Vittorio
film-documentario di Agostino
Ferrente, 2006
strumenti sconosciuti, melodie universali, voci dal mondo».
Il fenomeno di queste orchestre
si va diffondendo in tutta Italia,
come viene evidenziato da Francesco Fiore nel suo libro: Orchestre e bande multietniche in Italia
(Editrice Zona, 2013, pp. 110, euro
11). In base alle ricerche presentate
nel testo, «ad oggi le orchestre sul
territorio nazionale sono 19 di diverse estrazioni e generi musicali
e con un numero di musicisti che
varia dagli 8 ai 25 componenti per
ogni ensemble. Le varie orchestre
e bande multietniche presenti in
Italia sono composte da circa 200
musicisti provenienti da 40 Paesi di
5 continenti».
È complesso comprendere i processi di diffusione musicale (qui
abbiamo delineato solo alcune prospettive), tuttavia possiamo constatare come la musica, nella sua
accezione più alta, si trasmette in
maniera naturale e spesso inconsapevole e potremmo sostenere che
è il primo «biglietto da visita» che
l’uomo porge quando arriva in un
altro Paese.
il fatto, il commento
Il Sinodo sulla famiglia,
una sfida al plurale
I
Jorge Costadoat SJ
Gesuita cileno,
professore di Teologia
nella Pontificia
Università Cattolica
del Cile, è direttore
del Centro teologico
Manuel Larraín. Ha
un suo blog - «Cristo
en Construcción» all’indirizzo
www.jorgecostadoat.cl
n vista del Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e del
Sinodo generale del 2015,
entrambi dedicati alla famiglia,
papa Francesco ha rivolto al
popolo di Dio 39 domande. Nel
momento in cui scriviamo si
conoscono le risposte inviate
dalle conferenze episcopali di
Germania, Giappone, Austria,
Svizzera, Belgio e Francia.
La conclusione che emerge dalla lettura è lampante: quel che
la Chiesa insegna non è quel
che la Chiesa pratica. Non nel
senso che i cattolici vivono in
modo immorale. Il problema è
la enorme distanza tra come i
cattolici credono che la morale
sessuale cattolica debba essere
vissuta e l’insegnamento ufficiale della Chiesa. Secondo la
Chiesa francese, «molte risposte
evidenziano l’abisso esistente
tra l’insegnamento della Chiesa
e le scelte delle coppie che si
dichiarano cattoliche».
Questa distonia è particolarmente evidente con riferimento
a tre temi. Uno riguarda la paternità responsabile: i cattolici,
per la stragrande maggioranza,
non seguono l’Humanae vitae.
Secondo la Chiesa svizzera, «la
proibizione dei metodi artificiali
di contraccezione è molto lontana dalla pratica e dalle idee
della maggioranza dei cattolici».
Un secondo tema, oggi assillante, è l’esclusione dai sacramenti delle persone divorziate e
risposate. Il divieto ecclesiastico
è causa di enormi sofferenze
per le persone che si sentono
escluse, e spesso viene percepito come uno scandalo alla luce
della misericordia evangelica.
I tedeschi toccati da questo
tema ritengono che «l’esclusione dai sacramenti come
conseguenza di un nuovo matrimonio» costituisca una
«discriminazione ingiustificata e crudele».
La terza questione importante nella quale si manifesta una enorme frattura è la valutazione di altri
modi di vivere la sessualità fuori dal matrimonio. La
stragrande maggioranza dei cattolici non vede nessun
problema nelle relazioni prematrimoniali e c’è una
parte considerevole che è d’accordo con le unioni o i
matrimoni omosessuali.
Non spettava alle conferenze episcopali indicare una
via d’uscita a questa situazione critica. Tuttavia, si può
dire che una nuova impostazione dottrinale e pastorale
dovrà tenere conto che i cattolici sono culturalmente
molto diversi tra loro. Vivere la sessualità in Giappone,
dove i cattolici sono lo 0,35% della popolazione e dove
Quel che la Chiesa insegna rispetto alla
famiglia non è quel che la Chiesa pratica, e ci
sono differenze culturali enormi di cui tenere
conto: è quanto emerso dal questionario in
vista dei due Sinodi di ottobre 2014 e 2015
quasi non ci sono famiglie completamente cristiane, è
diverso che in America Latina. Qui, dove pure c’è una
radicata presenza storica del cristianesimo, bisognerà
tener conto di come arriva a formarsi oggi la famiglia:
la convivenza prima del matrimonio, ad esempio, è
praticamente la norma nelle fasce più povere.
Le risposte ai 39 quesiti spingono a sollevare una
nuova, decisiva domanda: la Chiesa di papa Francesco elaborerà un progetto dottrinale e pastorale sulla
sessualità e l’affettività umana più evangelico, cioè
capace di portare la buona novella di Gesù fino all’ultimo degli esseri umani, considerato con riferimento
all’epoca e al contesto in cui vive?
Mentre questo numero di Popoli va in stampa, è stato
diffuso il testo dell’Instrumentum Laboris del Sinodo di
ottobre, redatto in base alle risposte delle conferenze
episcopali di tutto il mondo. In questo documento ci
si rende conto ancora una volta di quanto grande sia
questa sfida teologico-pastorale per la gerarchia.
Papa Francesco ha messo in gioco il suo pontificato.
Sarebbe meschino pensare che le sue siano domande
retoriche. I due Sinodi sulla famiglia dovranno
prendere sul serio le risposte che arrivano
dalla fede pratica dei cattolici di tutto
il mondo.
cina
Davide Magni SJ
T
rento è una città che ha legato
la sua storia a quella della
Chiesa non solo per il Concilio
del 1545-1564, ma anche per diverse
figure religiose alle quali ha dato i
natali. Una di esse è il gesuita Martino Martini, che il 20 settembre 1614
nasce da una facoltosa famiglia della
città. Per noi occidentali sarebbe impossibile pensare la Cina senza il suo
contributo. Se Matteo Ricci, infatti,
fu il primo a far conoscere la cultura
e le tradizioni occidentali ai cinesi,
Martino Martini è unanimemente
considerato colui che per primo fece
conoscere la Cina agli europei. A
questo suo illustre figlio, da molti
anni Trento dedica risorse e attenzioni, coordinate principalmente dal
Centro studi a lui intitolato (Csmm,
centrostudimartini.it). Il quarto centenario della sua nascita è, quindi,
un’occasione per onorarne l’opera.
Giuseppe O. Longo, nella sua biografia su Martino Martini (cfr box),
fa notare come quest’uomo di forte
carattere e vasta dottrina, «sebbene abbia vissuto solo 47 anni, ci
ha lasciato una
produzione in
Per giungere
campo storico,
in Cina, Martini
geografico, lindeve far ricorso
guistico, filosoa tutta la sua
fico e religioso
tenacia: dopo un
davvero eccezioprimo tentativo
nel 1638, arriva a nale, soprattutto
se si tiene conto
Macao due anni
che 24 anni li
dopo, ma solo
nel 1643 entra in spese tra l’infanzia e gli studi e
Cina, a Hangzhou
12 li passò sui
mari, al confino, sequestrato dai
pirati e in vari viaggi. Ne restano
dunque solo una decina che passò
in terra cinese, dedicandosi allo
studio della lingua e della cultura,
all’opera di educazione e di conversione e all’organizzazione e al
rafforzamento della comunità cattolica di Hangzhou, pur tra disagi e
pericoli gravissimi». Considerando
40 Popoli agosto-settembre 2014
Il mandarino
di Dio
A quattrocento anni dalla nascita, Martino Martini,
gesuita e uomo di scienze nella Cina dei Ming
al tramonto, resta un riferimento per il suo stile
missionario e per l’apertura culturale che fecero
scoprire l’Impero di mezzo agli europei
dialogo e annuncio
allora questi tempi e questi impegni,
«è quasi incredibile la mole di lavoro
che egli riuscì a svolgere in campo
scientifico e ancora più incredibile
è il silenzio che per tanti anni ha
avvolto questa figura eccezionale e
che solo di recente ha cominciato a
dissiparsi».
DESIDERIO DI MISSIONE
Dopo avere frequentato il collegio
dei gesuiti a Trento, nel 1632 Martino entra nel noviziato romano della
Compagnia di Gesù, a Sant’Andrea
al Quirinale. Il desiderio della mis-
sione in Estremo Oriente nasce presto in lui e nel 1634 ne parla in una
lettera al Padre generale, Muzio Vitelleschi. Quando la sua richiesta è
accolta, focalizza la sua preparazione soprattutto nelle materie scientifiche, facendo tesoro dell’esperienza
dei gesuiti che prima di lui sono
partiti per la Cina. Di particolare
importanza sono i corsi che segue
al Collegio romano e fondamentale
è l’incontro con Athanasius Kircher
(1601-1680), uomo di sconfinati interessi, tra cui la sinologia, e con il
quale Martini mantiene un’intensa
corrispondenza.
Per giungere in Cina, però, deve
far ricorso a tutta la sua tenacia: il
primo tentativo risale al settembre
1638, ma alla prima meta, Macao,
arriva solo nell’agosto 1640. Tre anni più tardi, finalmente, entra in
Cina, a Hangzhou. Lo accompagna
il superiore provinciale, Giulio Aleni (cfr Popoli 12/2013). Sono anni
molto difficili e turbolenti per l’Impero di mezzo:
nel 1646, con la
Anche Martini
morte dell’ultideve affrontare un
mo imperatore
viaggio in Europa
della dinastia
per cercare di far
Ming, inizia
capire, non solo
l’era dei Qing,
alle Congregazioni
provenienti
romane, ma anche
dalla Manciuagli intellettuali
ria, l’ultima dieuropei, la
nastia dell’Imcomplessità della
pero destinato
situazione in Cina
a crollare all’inizio del Novecento. I gesuiti si
trovano, quindi, in mezzo ai lunghi
e devastanti scontri del periodo di
transizione, che non li lasciano indenni. Martini offre una descrizione
dettagliata di questi conflitti nel suo
De Bello Tartarico Historia, pubblicato nel 1654 ad Anversa.
Per i suoi contributi scientifici, applicati anche alla difesa militare
della nazione, Martini è nominato
mandarino poco prima della caduta dei Ming. Ma questo scatena
diffidenze, come dimostrano alcuni
sprezzanti commenti da parte di
missionari degli ordini mendicanti.
INIZIATIVE
L
a Biblioteca del Pime di Milano (via Mosè
Bianchi 94) organizza, in collaborazione
con Csmm e Centro di Cultura Italia-Asia,
un ciclo di iniziative dedicate al gesuita nel
quarto centenario della nascita.
> 9 ottobre, ore 18 - Martino Martini: dialogo
di culture tra Europa e Cina
> 18 ottobre, ore 18 - Spettacolo teatrale
Il Mandarino di Dio
> 23 ottobre, ore 18 - Confucianesimo e Cristianesimo: nuovi valori nella Cina di oggi?
> 6 novembre, ore 18 - Il Novus Atlas Siagosto-settembre
2014 Popoli
nensis:
una nuova descrizione
del41Celeste
Impero e del Giappone
cina
Frontespizio del Novus atlas sinensis
di Martino Martini (1655). Nelle pagine
precedenti, una mappa dell’Atlante.
LA QUESTIONE DEI RITI
Come i suoi successori, anche Martini deve affrontare un viaggio di
rientro in Europa per cercare di far
capire, non solo alle Congregazioni
romane di Propaganda Fide e del
Sant’Uffizio, ma anche agli intellettuali europei, la complessità della
situazione in Cina e la ragionevolezza della metodologia adottata dai
gesuiti, a partire da Alessandro Valignano (15391606). Questa
La sua fama
era consideradi scienziato e
cartografo è legata ta da molti uomini di Chiesa
alla pubblicazione
di quel tempo
del Novus Atlas
una demoniaSinensis, avvenuta
ca eresia.
ad Amsterdam nel
Come annota
1655, un’opera
Longo
nelsenza precedenti
la biografia,
per le illustrazioni
«Martini era
del Celeste Impero
riuscito a portare a buon fine il delicato e importantissimo compito che gli era
stato affidato dai superiori presso il
Sant’Uffizio: difendere la posizione della Compagnia di Gesù nella
controversia con gli ordini mendicanti sui riti cinesi. La posizione
intransigente dei francescani e dei
domenicani, che volevano bandire
del tutto le tradizioni rituali dei
cinesi, considerate alla stregua di
ingenue e pericolose superstizioni,
e la loro rigidità in termini di presentazione della dottrina cristiana,
per cui le verità di fede dovevano
essere esposte tutte e subito, anche
nei loro risvolti più incomprensibili
ai cinesi, minacciavano di compro-
PER SAPERNE DI PIÙ
>Longo G. O.
Il gesuita che disegnò
la Cina. La vita e le opere
di Martino Martini,
Springer 2010
>Longo G. O.
Il Mandarino di Dio.
Un gesuita nel Celeste Impero
(dramma in tre scene)
Centro Studi
42 Popoli agosto-settembre 2014
Martino Martini 2007
mettere i risultati ottenuti a fatica del Novus atlas sinensis, avvenuta
ad Amsterdam nel 1655 per i tipi
dai gesuiti».
Durante il soggiorno in Europa, dell’editore Blaeu. Dedicato a Leoprotrattosi per quasi quattro anni, poldo Guglielmo, allora governatore
Martini incontra numerosi lettera- austriaco del Belgio, l’Atlante di
ti, scienziati, nonché alcuni editori Martini è un’opera eccezionale per
olandesi interessati alla pubblica- vastità, erudizione e ricchezza di
zione dei suoi libri. Il gesuita porta particolari, e sopravanza tutte le
con sé molto materiale documenta- precedenti illustrazioni del Celeste
rio, storico e geografico, che apre Impero, rimanendo ineguagliato per
agli europei un ampio e insospet- quasi due secoli. L’opera è preceduta
tato panorama sul mondo cinese. due anni prima dalla Grammatica
Illustrando in una serie di confe- Sinica, in cui, per primo, riassume
renze quella vasta parte del mon- le principali caratteristiche grammaticali della lingua
do quasi sconosciuta e
cinese e pone le fondaancora ammantata di Se Matteo Ricci
menta per lo studio di
leggende, Martini con- fu il primo a
questa lingua in Eurotribuisce a rendere la far conoscere
pa. Dal 1661 le spoglie
Cina un Paese «reale».
l’Occidente ai
sono conservate nella
La sua fama di scien- cinesi, Martini è
sua Hangzhou, vicino a
ziato e cartografo è le- unanimemente
gata alla pubblicazione considerato colui Shanghai.
che per primo
fece conoscere
la Cina
agli europei
brasile
I semi
di dom Hélder
Moriva il 27 agosto di 15 anni fa Hélder Câmara,
uno dei vescovi latinoamericani più amati,
grazie alla sua passione per una Chiesa povera
e dei poveri, alla sua attenzione per le persone
e alla sua fede incarnata. Il ritratto di un pastore
che può essere certamente considerato
un precursore di papa Francesco
Gerolamo Fazzini
Recife (Brasile)
«I
l vescovo rosso Câmara
sulla via della beatificazione», strillava Il Messaggero del 29 maggio scorso. Un
titolo che la dice lunga su come
una parte dell’opinione pubblica ha
accolto la notizia dell’imminente
apertura del processo canonico
che potrebbe portare sugli altari
dom Hélder Câmara, arcivescovo
di Olinda-Recife. Tra i protagonisti
della storia recente (non solo ecclesiale) dell’America Latina, Câmara
stesso, per tutta la sua vita, ha dovuto fare i conti con quella pesante
etichetta: «Quando do da mangiare
a un povero mi chiamano santo è una delle sue frasi passate alla
storia -, ma quando chiedo perché
i poveri non hanno cibo, allora mi
chiamano comunista».
Curioso: anche
papa Francesco,
Per tutta la vita
rispondendo alha manifestato
le domande di
una premura per
un gruppo di
gli ultimi che,
giovani belgi,
prima ancora di
pochi mesi fa
assumere i toni
aveva chiarito:
della denuncia
«Ho sentito che
sociale, si faceva
una persona ha
attenzione alle
detto: con tutto
persone in gesti
questo parlare
semplici
dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, la
povertà senza ideologia; i poveri
sono al centro del Vangelo di Gesù».
Ecco: se c’è un motivo per cui valga la pena oggi, a 15 anni esatti
dalla morte, rievocare la figura
di dom Hélder - nato nel 1909 e
morto il 27 agosto 1999 -, è la sua
passione per i poveri, il suo straordinario impegno per rendere la
Chiesa più fedele a quella di Gesù:
«Una Chiesa povera per i poveri».
In questo si può affermare, senza
tema di smentite, che Câmara ha
anticipato papa Bergoglio.
agosto-settembre 2014 Popoli 43
brasile
IL PICCOLO VESCOVO
Ne riceviamo ripetute conferme
a Recife. La Igreja das Fronteiras, presso cui era la residenza di
Câmara, è ancora oggi il cuore
pulsante della sua memoria. Sulla piazza antistante una statua
del «bispinho» («piccolo vescovo»,
com’era soprannominato), ti accoglie a braccia aperte. A lato ha sede l’Instituto dom Hélder Câmara.
Qui incontriamo uno dei membri,
un’anziana ma lucida signora, Bete
Barbosa, che cura le pubblicazioni
di Câmara: «In molti atteggiamenti
e parole di papa Francesco - dice ritroviamo accenti simili a quelli
di dom Hélder. A cominciare dalla
premura per le persone, per i loro
bisogni».
Le fa eco Luis Tenderini, 70 anni,
italiano di origine, ma in Brasile da
oltre 40 anni. A lungo braccio destro di Câmara in diocesi e fondatore di Emmaus Recife su incoraggiamento dello stesso dom Hélder,
ci fa da guida preziosa e racconta:
«Del primo incontro personale con
lui, nel luglio 1979, quando mi
invitò a collaborare nell’attività
pastorale, ricorderò sempre il gesto
finale: terminato il colloquio, mi
accompagnò al portone d’uscita,
aspettando che girassi l’angolo prima di rientrare. Più tardi ho scoperto che faceva la stessa cosa con
chiunque lo visitasse».
Un altro tratto che accomuna de-
cisamente l’attuale Papa e il «ve- le, si configurava come attenzione
scovo rosso» è lo stile di sobrietà alle persone in gesti semplici. In
estrema e la distanza siderale da proposito, ecco una preziosa testiquella mondanità che Bergoglio monianza di Marcelo Barros, abate
non smette di indicare come uno benedettino e teologo della liberadei mali della Chiesa attuale. Oggi zione, collaboratore di dom Hélder
fa colpo la decisione
per 12 anni: «In ogni
di Francesco di vivere Anche la tomba
fratello e sorella che
in un modesto alloggio di Câmara parla
incontrava lui vedeva
a Santa Marta, rinun- di essenzialità:
la presenza divina ciando al tradizionale una semplice
ha scritto tempo fa su
appartamento pontifi- lastra di marmo
Nigrizia -. Una volta
cio. Ma dom Câmara chiaro, su cui
alla settimana ci riuniaveva fatto lo stesso, sono incisi solo il vamo a casa sua. Menanni prima, deciden- nome e le date di tre parlavamo, molte
do di prendere dimora nascita e morte,
persone bussavano alin due modesti locali con una colomba la porta. Egli stesso si
adiacenti alla Igreja stilizzata
alzava e le riceveva.
das Fronteiras (vedi
A volte si dilungava
box).
nell’ascolto. Diceva:
Anche la tomba di
“Ci tengo a riceverli
Câmara parla di essenzialità: una personalmente, perché non voglio
semplice lastra di marmo chiaro, perdere il privilegio di accogliere
su cui sono incisi solo il nome il Signore stesso”».
e le date di nascita e morte, con
una colomba stilizzata. È collocata PROTAGONISTA DEL CONCILIO
nella cattedrale di Olinda, antica È interessante osservare come, al
città coloniale a pochi chilometri pari di Oscar Romero, altro gigante
da Recife. Da quella chiesa, oggi della Chiesa latinoamericana, anmeta di pellegrini e turisti, si gode che monsignor Câmara abbia peruna vista spettacolare sulla città corso un cammino personale di
sottostante e sull’intera baia.
«conversione», prima di prendere le
Ancora. Papa Bergoglio parla dei posizioni coraggiose che conosciapoveri come della «carne di Cri- mo. Nato in una famiglia numesto». Câmara, per tutta la sua vita, rosa, era cresciuto in un ambiente
ha manifestato una premura per ecclesiale piuttosto conservatore.
gli ultimi che, prima ancora di as- Ordinato sacerdote nel 1931, si consumere i toni della denuncia socia- verte ai poveri quando, nel 1952,
diventa ausiliare del cardinale di
Rio de Janeiro: è in quel periodo
I PREMI E L’AMACA
che il giovane e dinamico vescovo
a canonica di dom Hélder Câmara oggi è diventata un museo. Più ancora della
si conquista sul campo il soprannocattedrale di Olinda, dove si trova la tomba, è lì che ogni domenica una piccola
me di «vescovo delle favelas».
folla si raduna per vedere il piccolo studio del bispinho, con la biblioteca (dove camIl carisma di dom Hélder si dilata
peggiano ancora volumi di Guitton, De Lubac, M.L. King, Frère Schutz, Garaudy) e la
presto fuori dai confini della città.
camera, dove ancora è appesa la coloratissima amaca che egli usava negli ultimi
Nel 1952 è tra i promotori della
tempi per dormire.
Conferenza episcopale brasiliana,
Al piano superiore è stata allestita da poco tempo un’esposizione permanente di
di cui diventa segretario per 12
oggetti che raccontano la vita intensa di questo personaggio, tra le voci più autoanni. Tre anni dopo, lancia la conrevoli al mondo nella denuncia delle ingiustizie e del sottosviluppo. Lo attestano i
vocazione a Rio della prima Confenumerosissimi riconoscimenti internazionali, dalle medaglie alle cittadinanze onorenza dei vescovi latino-americani,
rarie, alle lauree honoris causa di svariate istituzioni accademiche di tutto il mondo,
da cui nascerà il Celam (Consiglio
conservati nel piccolo museo.
episcopale latinoamericano).
L
44 Popoli agosto-settembre 2014
Milano, novembre 1972: migliaia
di persone riempiono il Palazzetto dello
Sport per ascoltare Hélder Câmara,
già noto a livello mondiale.
Nel 1964 - anno del golpe che instaura il regime militare in Brasile
- Câmara viene nominato arcivescovo di Recife, capitale del Pernambuco, nel Nord-Est, la regione
più povera del Paese. Il giorno
dell’ingresso ufficiale, il nuovo
arcivescovo non vuole essere accolto dentro la cattedrale, ma sulla
piazza, in mezzo alla gente. Negli
anni successivi l’impegno di dom
Hélder a servizio dei più deboli
continuerà senza sosta, con prese
di posizione coraggiose che lo renderanno famoso in tutto il mondo.
Una frase riassume efficacemente
il senso profondamente evangelico
delle sue battaglie: «La rivoluzione
sociale di cui il mondo ha bisogno
non è un colpo di Stato, non è
una guerra. È una trasformazione
profonda e radicale che suppone
Grazia divina».
Pur senza prendere mai la parola
durante le sessioni di lavoro, fu
uno dei protagonisti del Concilio
Vaticano II, tra gli ispiratori del
famoso «Patto delle catacombe»;
per comprenderne il ruolo cruciale
basta leggere le sue circolari raccolte in Roma, due del mattino (San
Paolo 2011). Nel 1970 il Sunday
Times arrivò a definire dom Hélder
«l’uomo più influente dell’America
Latina dopo Fidel Castro».
Il paradosso è che l’interessato non
aveva progettato una «carriera» da
profeta. Anzi, all’età di 34 anni, in
un momento di sconforto, aveva
scritto: «Attraverserò la vita senza lasciare nessun segno incisivo.
Guarderò da lontano san Francesco Saverio senza poterlo imitare.
Ancor più da lontano guarderò
san Francesco d’Assisi. Al mio
funerale qualcuno dirà che non
ho prodotto tutto quello che avrei
potuto produrre».
Oggi sappiamo bene che non è così:
Câmara, infatti, va annoverato fra
coloro che hanno impresso una
svolta decisiva alla Chiesa del nostro tempo. Bastino queste ultime
parole a mostrarne l’attualità: «Se
Marx avesse visto intorno a sé
una Chiesa incarnata, continuatrice dell’incarnazione di Cristo;
Nel 1964,
se avesse vissuquando Câmara
to con cristiani
fece il suo
che amavano, in
ingresso ufficiale
modo reale e con
nella diocesi di
i fatti, gli uomiOlinda-Recife,
ni come espresnon volle essere
sione per eccelaccolto dentro
lenza dell’amore
la cattedrale, ma
di Dio, se avesse
sulla piazza, in
vissuto nei giormezzo alla gente
ni del Vaticano
II, che ha riassunto tutto ciò che
di meglio dice e insegna la teologia circa le realtà terrene, Marx
non avrebbe presentato la religione
come l’oppio dei popoli e la Chiesa
come alienata e alienante».
agosto-settembre 2014 Popoli 45
storia
Il ritorno
dei gesuiti
Il 13 agosto 1773 papa Clemente XIV decretò
lo scioglimento della Compagnia di Gesù
raccogliendo i pressanti inviti delle monarchie
borboniche. Ma l’Ordine sopravvisse in
alcuni Regni e nel 1814 Pio VII lo ricostituì
riconoscendo la validità dell’ideale di Ignazio
Guglielmo Pireddu SJ *
S
e volessimo individuare le
cause della soppressione
della Compagnia di Gesù
consultando il «breve» apostolico
Dominus ac Redemptor (il documento con il quale papa Clemente
XIV ne decretò lo scioglimento)
resteremmo delusi. Vi troviamo l’elenco di casi in cui la Santa Sede
ricorse a misure analoghe verso
altri ordini religiosi, si ricordano
le controversie che videro coinvolta la Compagnia, ma si tratta
prevalentemente di comportamenti
individuali, non sufficienti a motivare una scelta simile. Forse solo il
paragrafo 22 può essere indicativo:
«Ogni giorno risuonarono più alti i
clamori e le lagnanze […]. Il danno
e il pericolo giunsero a tal punto,
che […] i Nostri carissimi figliuoli
in Cristo i Re di Francia, di Spagna,
di Portogallo e delle Due Sicilie
sono stati costretti a licenziare ed
espellere i Soci dai loro Regni […];
ritenendo che questo fosse l’estremo
rimedio contro tanti mali». Il testo è
illuminante: si sostiene che, a causa
delle continue lagnanze pervenute
dai sovrani borbonici, il Pontefice
si trovò costretto, pur di riportare
la pace nella cristianità, a sopprimere l’Ordine tanto vituperato. È
esattamente così? Se anche fosse, ci
46 Popoli agosto-settembre 2014
troveremmo di fronte a una ragione
di natura prettamente politica, non
pastorale.
A questo punto è d’obbligo entrare
nel merito della questione, facendo
un salto indietro, giacché per comprenderne il contesto è necessario
rivedere le singole espulsioni che
precedettero e prepararono la soppressione universale.
Occorre, dunque, secondo la linea
prospettata dallo storico gesuita Joseph Benítez, esaminare un insieme di concause di tipo ideologico,
sociale, politico. In questo quadro
vanno distinte le cause generali da
quelle particolari in ciascuno dei
singoli Stati teatro dell’espulsione.
Le cause generali sono riconducibili
al giurisdizionalismo monarchico,
alleatosi con lo spirito illuministico; questi elementi cercarono di
erodere la giurisdizione della Chiesa, per cui la vicenda va inquadrata dei confessori di corte, le tesi sul
all’interno del deterioramento nei regicidio e la «polemica» antigesurapporti Chiesa-Stato.
itica. Inoltre, in esse è opportuno
Invece, le cause particolari van- distinguere tra cause strutturali e
no identificate nelle querelles che congiunturali. Ad esempio, cause
coinvolgevano la Comstrutturali furono la ripagnia, cioè le contro- La Compagnia
forma amministrativa
versie sulla Grazia e si trovò
della monarchia spasul Giansenismo, sul ad affrontare
gnola in senso regalista
monopolio pedagogico nemici
o la mentalità gallicana
dei gesuiti, sul probabi- disparati
della Chiesa francese.
lismo, sui riti malaba- che deposero
Invece cause congiunrici e cinesi, sul ruolo le loro inimicizie
turali furono l’attentato
per fare fronte
comune
per la sua
dissoluzione
Da Ignazio
a Francesco/7
a Giuseppe I nel Portogallo, il crac
La Valette in Francia, e una rivolta
popolare in Spagna. A questi fattori va aggiunta l’ostilità delle corti
borboniche verso un ordine religioso che sfuggiva al loro controllo.
La somma di tutte queste concause
spiega l’avversione generale verso
la Compagnia. A questo punto, risultò determinante l’influenza che
le corti borboniche esercitarono
su Clemente XIV, in un momento
estremamente delicato.
ATTRITI ED ESPULSIONI
Prima di esaminare la soppressione
in sé, vanno ricordate le espulsioni
locali dei gesuiti. La prima avvenne
in Portogallo nel 1759 a opera del
primo ministro, futuro marchese di
Pombal. Le ostilità iniziarono con
la revisione dei confini fra Brasile
e Paraguay, con gravi ripercussioni sulle reducciones gesuitiche
(cfr Popoli, n. 3/2014). Seguì una
produzione libellistica in cui si
denunciava la rapacità dei gesuiti,
una dura polemica con il padre
Gabriele Malagrida; aggiungiamoci
l’attentato al re Giuseppe I, al quale
fu fatto credere che i gesuiti ne
fossero gli ispiratori. Fu così che
Pombal ottenne il decreto di espulsione dei gesuiti dell’Assistenza di
Portogallo. Non tutti, però, ebbero
la fortuna di essere espulsi e di riparare nello Stato pontificio; 27 di
essi furono immediatamente giustiziati, altri 88 si spensero durante la
detenzione in carcere.
agosto-settembre 2014 Popoli 47
storia
Dopo il Paese lusitano fu la volta
della Francia, dove la Compagnia
aveva uno stuolo di nemici: enciclopedisti, gallicani e giansenisti.
La miccia fu accesa dallo scandalo
finanziario provocato dal gesuita
Antoine La Valette, superiore
Secondo
della missione
Lacouture, la
della MartiniCompagnia,
ca. Nel procespresentava un
so che si aprì
aspetto moderno
fu accettata la
di superamento
giu r isd i zione
degli interessi
del Parlamento
nazionali, andando
di Parigi. Quecontro le istanze
sto, ostile alla
centralizzatrici dei
Compagnia, ne
sovrani assolutisti
approfittò per
intentarle un processo politico-religioso. Furono condannate le opere
di diversi teologi gesuiti e si ordinò
la chiusura dei 105 collegi. Fu in
quest’occasione che il cancelliere
propose alla Compagnia di salvarsi
a patto di riformarsi in senso «gallicano». La proposta sarebbe stata
rifiutata a Roma da Clemente XIII
con la famosa (ma leggendaria)
frase: «Sint ut sunt, aut non sint»
(«Siano come sono o non siano»).
Si giunse così al decreto di scioglimento della Compagnia in Francia
nel dicembre 1764.
In Spagna l’espulsione giunse ina-
spettata nel 1767. Fu naturale chiedersi come mai Carlo III, estimatore
della Compagnia, avesse assunto
un atteggiamento così ostile. Oggi
la ricerca storica ha individuato
una cerchia di uomini, vicini al
sovrano, che ne orientò le decisioni.
In Spagna va rilevato poi un forte
isolamento ecclesiastico della Compagnia, causato dall’atteggiamento
eccessivamente trionfalistico dei
gesuiti.
La scintilla che fece scoppiare l’incendio fu una protesta popolare.
Riunito il Consiglio di Castiglia, il
conte di Campomanes presentò al re
il Dictamen Fiscal, un documento
in cui s’insinuava la tesi che i gesuiti fossero gli istigatori della rivolta,
e che la struttura della Compagnia
fosse incompatibile con la monarchia. Emesso il decreto di espulsione, l’esercito arrestò i gesuiti delle
142 comunità spagnole e li imbarcò con destinazione Civitavecchia.
Avvenne che Clemente XIII, per
protestare contro l’espulsione, negò
lo sbarco; i gesuiti furono allora
relegati a Bonifacio in Corsica, dove dimorarono più di un anno in
condizioni avverse, fin quando fu
loro concesso di riparare negli Stati
pontifici.
A seguire, anche le altre corti borboniche emisero decreti analoghi.
le parole dI papa FRANCESCO
I
l cuore di Cristo è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato». Ognuno di
noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso.
Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati». Essere uomini
che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia
è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende
sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta.
Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto,
dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria
di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine
della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudine! [...]
Noi siamo uomini in tensione, siamo anche uomini contraddittori e incoerenti,
peccatori, tutti. Ma uomini che vogliono camminare sotto lo sguardo di Gesù. Noi
siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce
nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri.
Dall'omelia pronunciata da Papa Francesco nella Chiesa del Gesù (Roma), il 3 gennaio 2014,
ricorrenza
del Santissimo
Nome di Gesù. In quella data sono iniziate le
48 Popoli
agosto-settembre
2014
celebrazioni per il II centenario della Ricostituzione della Compagnia (1814).
Così furono espulsi dal Regno delle
Due Sicilie (1767) e, in seguito, dal
Ducato di Parma e Piacenza e da
Malta (1768). In pratica, in Europa,
nel giro di pochi anni, i gesuiti
si ritrovarono presenti unicamente
nel Regno d’Austria, in Polonia
(dove la compagnia fu dissolta nel
1772), nel Regno di Sardegna, nella
Repubblica di Venezia, nelle corti
tedesche e nei cantoni svizzeri,
oltre che, ovviamente, nello Stato
pontificio.
LA SOPPRESSIONE…
Clemente XIII mantenne un atteggiamento di rifiuto delle richieste
borboniche. Sennonché, morto improvvisamente il Papa nel 1769,
i Borbone considerarono elemento
imprescindibile per l’accettabilità
di una candidatura al papato che il
prescelto possedesse sentimenti avversi ai gesuiti; perciò i loro ambasciatori esercitarono pressioni per
ottenere l’elezione di un candidato
con queste caratteristiche.
Fu così eletto il cardinal Lorenzo
Ganganelli, francescano conventuale, che prese il nome di Clemente
XIV. Questi intuì che non era Pontefice solo dei Regni borbonici, ma
anche di Paesi in cui la Compagnia
era stimata e che demolirla avrebbe comportato ripercussioni. Il che
spiega i quattro anni intercorsi
tra l’elezione papale e la soppressione. Anni in cui la situazione
politica mutò, con l’indebolimento
delle monarchie filo gesuitiche. Si
aggiunga la pressione incessante
dell’ambasciatore madrileno, José
Moñino Conte di Floridablanca, e si
giunse così alla redazione del breve
atto di soppressione, Dominus ac
Redemptor, firmato dal Pontefice il
13 agosto 1773.
Come già accennato, nel documento
si sostiene che la Compagnia di Gesù, fin dal suo nascere, fu coinvolta
in vari contrasti. Non si tralascia
inoltre di menzionare le polemiche
teologiche e le accuse d’ingerenza
Da Ignazio
a Francesco/7
A sinistra, Clemente XIII, il Pontefice
che soppresse la Compagnia. A destra,
Caterina di Russia che protesse i gesuiti.
negli affari politici. Compare un
elenco delle occasioni di tensione
che si ebbero tra la Compagnia e i
Pontefici. Infine si insinua la tesi
che i sovrani si videro costretti a
espellere i gesuiti quale unica soluzione.
Il breve apostolico desta diverse
perplessità: l’abbandono a un destino penoso di uomini che avevano
dedicato la vita alla difesa del Papato, il fatto che il Papa sia ricorso
a un breve apostolico piuttosto che
a una bolla, l’assenza di qualsiasi
consultazione canonica, la mancanza di qualsiasi accenno a benemerenze dell’Ordine; compare, invece, il divieto di non commentare
in alcun modo il breve apostolico.
A ben vedere, non emergono quelle
prove inoppugnabili che ci si aspetterebbe di trovare. Sembrerebbe che
l’Ordine sia soppresso non per reale
colpevolezza, bensì per recuperare
il consenso pontificio tra i sovrani
cattolici. Tuttavia, questa non è una
prova della perversione dell’Ordine, 273 stazioni missionarie, 176 semima solo una motivazione politica.
nari, 1.277 chiese.
Il fatto poi che il breve apostolico Senz’altro gli ambiti maggiormente
non fosse promulgato
colpiti furono le misuniversalmente, ma ne Il breve
sioni (la Compagnia
venisse demandata la apostolico non
con i suoi cinquemila
notifica tramite i ve- fu promulgato
missionari era l’Ordiscovi, fece sì che alcuni universalmente,
ne più impegnato su
sovrani si avvalessero ma demandò
questo fronte), quello
dei loro poteri di giuri- la notifica ai
della formazione del
sdizione per vietarne la vescovi, ciò
clero (seminari) e l’edupromulgazione. Il che permise la
cazione della gioventù
permise la continuità continuità della
(collegi).
della Compagnia di Ge- Compagnia in
Ragionando sui dati a
sù nella Russia Bian- Russia e Prussia disposizione, s’intuisce
ca (dove, grazie alla
che la cacciata dei gezarina Caterina II, fu
suiti dai possedimenti
preservato quel nucleo
spagnoli comportò che
che avrebbe poi ricomposto la Com- 500mila indigeni rimasero senza
pagnia) e in Prussia.
supporto spirituale in Sudamerica e
Ma qual era la consistenza della nelle Filippine. Anche le espulsioni
Compagnia soppressa? Abbiamo la portoghese e francese avevano prostima del 1749: in quel momento curato seri problemi alle missioni
essa contava 22.589 membri, sparsi in India, Brasile, Macao, Quebec,
in 1.180 residenze in tutto il mon- Louisiana e nelle colonie africane.
do, da cui dipendevano 669 collegi, Stime precise è impossibile farne, si
agosto-settembre 2014 Popoli 49
storia
La cattedrale di Santarém (Portogallo).
Costruita dai gesuiti, dopo la soppressione
dell’Ordine divenne seminario diocesano.
può desumere che, data la mancanza di altri religiosi che potessero
sostituire i gesuiti, centinaia di
missioni furono abbandonate.
…E LA SOPRAVVIVENZA
In Prussia si mantenne una presenza
dei gesuiti, ma solo sino al 1776,
anno in cui fu concesso il placet alla
pubblicazione del breve apostolico.
Più rilevante fu invece la persistenza in Russia. Qui la spartizione della
Polonia aveva «portato in dote» circa
200 gesuiti. L’imperatrice Caterina
II stimava il loro apostolato culturale, per questo motivo si rifiutò di
promulgare il breve apostolico. Il
provinciale Czerniewicz consultò il
pontefice Pio VI, nel frattempo succeduto a Clemente XIV, sul da farsi.
La risposta papale rappresentò una
tacita approvazione della presenza
dei gesuiti. In seguito Czerniewicz,
nominato vicario generale, ampliò
il nucleo russo della Compagnia,
tramite l’ammissione di diversi ex
gesuiti. Nel 1783 ottenne una triplice approvazione orale circa l’esistenza di questo nucleo della
Secondo
Compagnia. In
lo storico
seguito, sotto il
Giacomo Martina,
nuovo zar Pala soppressione
olo I, i gesuiti
dei gesuiti
ottennero dal
era parte
di un disegno volto Pontefice il 7
maggio 1801
a subordinare
con il breve
la Chiesa
Catholicae fidei
al potere
il primo ricoassolutista
noscimento ufficiale della loro esistenza.
Per quanto riguarda l’Italia occorre
ricordare che già dal 1793 si era
costituita nel Ducato di Parma una
Viceprovincia annessa alla Provincia russa, dal 1796 guidata da padre
Panizzoni. Il primo ristabilimento
ufficiale si ebbe nel Regno delle Due
Sicilie con il breve Per alias (1804).
Sotto la guida del nuovo provinciale Pignatelli i gesuiti italiani si
recarono a Napoli ristabilendovi la
50 Popoli agosto-settembre 2014
Compagnia. Cacciati da Napoli nel
1806, si stabilirono a Roma.
Dopo la morte di Pio VI (1799)
gli successe Pio VII; questi poté rientrare dall’esilio a Roma nel
maggio 1814 e subito si attivò per
il ristabilimento della Compagnia.
Il 7 agosto 1814 fu così emanata la
bolla Sollicitudo omnium ecclesia
rum (che decreta la ricostituzione
della Compagnia di Gesù in tutti gli
Stati). Interessante notare le motivazioni della ricostituzione. Emerge
infatti come il Pontefice la pensi in
funzione «restauratrice» per avvalersi di «rematori forti ed esperti» da
opporre al liberalismo anticlericale.
Il che spiega come mai, almeno in
Europa, la Compagnia ottocentesca
sia stata caratterizzata da un orientamento prettamente conservatore.
Secondo lo storico Giacomo Martina
la soppressione dei gesuiti costituì
una vittoria del regalismo giurisdizionalista. L’attacco contro la Compagnia fece parte di un disegno volto a subordinare la Chiesa al potere
assolutista. Jean Lacouture propone
un’interessante chiave di lettura,
individuata nell’universalismo gesuitico. La Compagnia fu infatti
sempre connotata da un’impostazione internazionalista (mai Ignazio
pensò di farsi portavoce delle istanze iberiche!). Quest’autonomia gesuitica cozzava con quella concezione
secondo la quale, sotto l’insegna del
nazionalismo, si celava la pretesa di
controllare gli aspetti interni della
vita ecclesiastica. Da questo punto
di vista la Compagnia presentava
un aspetto moderno di superamento
degli interessi nazionali, andando
contro le istanze centralizzatrici dei
sovrani assolutisti.
In questa lotta, tesa a indebolire
l’autorevolezza della sede petrina,
era indispensabile abbattere i paladini dei diritti papali: i gesuiti.
Che poi i mandanti siano stati quei
sovrani di cui la Compagnia veniva
accusata di acquiescenza è un altro
aspetto paradossale della vicenda.
Dall’esame delle concause che
condussero alla soppressione, risulta semplicistico individuare in
un unico agente il movente della
stessa. La Compagnia si trovò ad
affrontare nemici tanto disparati,
che deposero le loro inimicizie per
fare fronte comune per la sua dissoluzione. Tuttavia fu con la sua
dissoluzione che si avvertì quanto
l’ideale di Ignazio fosse ancora valido, attuale, e meritevole di una
completa riabilitazione, nella Chiesa e fuori da essa.
* Gesuita e storico
La serie «Da Ignazio a Francesco»
è iniziata nel numero di gennaio di
Popoli e continuerà per tutto il 2014.
Da Ignazio
a Francesco/7
Gesuiti oggi
Peter Zahoránsky
Piešt’any (Slovacchia)
destino Ján Chryzostom Korec, di
essere accolto tra i gesuiti, perché
ono nato nel 1950 in una sapevo che, anche se ufficialmente
famiglia profondamente cre- soppressi, continuavano a operare.
dente. In quello stesso anno, Egli, in modo secco, mi disse: «Prelo Stato abolì tutti gli ordini religiosi ga, e se non cambierai idea entro
in Cecoslovacchia. I loro membri un anno, chiedimelo di nuovo». Non
furono internati nei campi di lavoro cambiai idea e fui accettato.
e più tardi molti di loro, insieme a Dopo la laurea, iniziai a lavorare
tanti laici cattolici, furono condan- in un ospedale di una città diversa
nati a lunghe detenzioni in carcere da quella dei miei genitori, così che
e qualcuno anche a morte. Un mio nessuno potesse intuire che studiavo
zio medico, Silvester Krčméry, fu clandestinamente. Ciascuno di noi
condannato a quattordici anni di gesuiti in formazione abitava da solo.
prigione perché organizzava attività Mentre lavoravamo abbiamo studiadi apostolato tra i laici e mio padre to i «samizdaty» (testi di letteratura
passò tre anni in carcere per la sua teologica, filosofica, religiosa e spiritestimonianza di cattolico tra gli tuale, diffusi di nascosto, ndt) e opere di letteratura straniera procurate
operai.
Negli anni Sessanta in Cecoslovac- illegalmente. Seguivamo le lezioni
chia si verificò una certa distensione che ci faceva una volta al mese padre
della politica antireligiosa e alcuni Emil Krapka o un altro gesuita. La
condannati furono riabilitati. Grazie Compagnia garantiva la formazione
a questo clima, potei essere ammesso gesuitica, di cui era responsabile
alla facoltà di Medicina. Già durante padre Karol Durček. Ci incontravamo
il liceo, anche io facevo apostolato circa una volta al mese, sempre in un
nei limiti del possibile. Tutto si svol- appartamento diverso, e discutevageva in modo discreto: esisteva per- mo i testi studiati.
fino una barzelletta in proposito: «Si Anche l’ordinazione sacerdotale fu
possono riconoscere i cattolici perché rigorosamente clandestina: in una
vanno in gruppo e fingono di essere chiesa chiusa al pubblico, ci trovammo solo noi candidati all’ordinazione
poco visibili».
Ci incontravamo in appartamenti, (eravamo quattro), padre Durček, cospesso cambiavamo luoghi di incon- me testimone per conto della Compatro e costituivamo solo piccoli grup- gnia di Gesù, e il vescovo clandestipi. Lo Stato non tollerava nessuna no Peter Dubovský. Nessuno doveva
struttura che aiutasse la crescita reli- essere a conoscenza dell’ordinazione,
giosa della gente e nello stesso tempo neppure i nostri genitori i quali reconfinava la fede a una dimensione starono a lungo ignari del fatto che
eravamo religiosi.
rigorosamente privata.
Per due anni ho celebraGià in quel periodo sento la Messa da solo e di
tii una certa spinta alla «Dopo essere
nascosto nel mio apparvocazione spirituale, ma diventato prete,
tamento. Trascorso quel
cercavo di respingerla. per due anni
periodo, durante il quale
Solo alla fine degli stu- ho celebrato di
di di medicina chiesi al nascosto in casa la notizia è rimasta segreta, ho potuto iniziare
mio padre spirituale, il prima di potere
gesuita e vescovo clan- iniziare a operare a operare clandestina-
S
come sacerdote.
Nessuno doveva
sapere da dove
venissi»
mente come sacerdote: dirigere gli
esercizi spirituali, confessare e guidare spiritualmente alcune persone,
ma sempre fuori dal mio luogo di
abitazione e con un nome falso (per
gli altri ero padre Edo). Nessuno doveva sapere da dove venissi.
È stato commovente il momento in
cui ho potuto dire ai miei genitori
che ero sacerdote e gesuita. Un anno, alla vigilia di Natale, mentre si
chiedevano dove andare alla Messa di mezzanotte, risposi loro: «Non
dobbiamo andare da nessuna parte».
«Perché? Verrà qualche sacerdote?»,
domandarono. «No - dissi -, io sono
sacerdote e possiamo celebrare qui!».
Entrambi piansero per la gioia. Allora
mio padre mi rivelò che, da quando si
erano sposati, lui e mia madre avevano sempre pregato per avere un figlio
sacerdote». Mi commossi anch’io. Eravamo cinque fratelli e sorelle e io ero
l’unico non ancora sposato, ma non
avevano intuito.
Ho vissuto la mia doppia vita fino
alla «Rivoluzione di velluto» nel 1989,
quando con la democrazia è rinata
anche l’attività pubblica degli ordini
religiosi. Lasciai il lavoro di radiologo,
che amavo molto, per poter servire in
senso pieno come sacerdote. E non
fu facile, non soltanto perché amavo
molto la medicina, ma in particolare
perché non avevo mai fatto esperienza in pubblico come sacerdote. Il
Signore però mi ha dato la forza. Traduzione dallo slovacco
a cura di Ján Dačok SJ
agosto-settembre 2014 Popoli 51
www.jsn.it
S
i potrebbero dire tante cose evidenziato le sfide che si devono
positive, nel raccontare la So- affrontare per essere cittadini atticial Week, la Settimana del vi, o quello di Theodora Hawksley,
settore sociale europeo della Com- ricercatrice e teologa dell’Università di Edimburgo, che,
pagnia di Gesù, tenutasi
a partire dall’esempio
a Napoli dal 24 al 28 Gesuiti e laici
di Mary Ward (religiogiugno e che ha visto la che lavorano in
sa britannica, fondatripartecipazione di più di campo sociale a
ce della congregazione
70 iscritti, provenienti livello europeo si
delle Dame inglesi), ha
da circa una ventina di sono incontrati a
espresso l’essenza del
Paesi d'Europa.
Napoli lo scorso
volontariato in relazione
Si potrebbe riflettere su- giugno.
a parole fondanti come
gli interessanti contenu- Uno dei
«amore» e «libertà».
ti legati al tema che il partecipanti
Insomma, si potrebbero
Jesuit European Social racconta
scrivere pagine e paCentre (Jesc), organiz- come è andata
gine, che non abbiamo
zatore del meeting, ha
a disposizione ma che
scelto per i lavori: «Vopossono essere sostituite
lontariato e bene comune: impegnarsi per una cittadinanza dall’energia del proverbio africano
attiva». Si potrebbero descrivere le che il Jesc ha stampato sulle borse
emozioni vissute durante le visite nei di tela consegnate a ciascun partecentri di ispirazione ignaziana che cipante: «If you want to go quickly,
lavorano e lottano ogni giorno, con- go alone. If you want to go far, go
tro l’emarginazione, in territori dif- together» («Se vuoi andare veloce, vai
ficili come Scampia, San Giovanni a da solo. Se vuoi andare lontano, vai
Teduccio e il centro storico di Napoli. insieme ad altri»). Questa citazione
Ancora, si potrebbe citare l'interven- ha ispirato tutte le giornate a Napoli,
to di Jérôme Vignon, presidente delle in cui la condivisione di esperienze
Settimane sociali di Francia, che ha e buone prassi fra gesuiti e laici provenienti da diverse organizzazioni
europee sono state possibili fin da
subito, attraverso lavori di gruppo
mirati e momenti conviviali. Ma
l’andare insieme per andare lontano
porta con sé molti significati da custodire anche per il futuro. La stessa
Europa che secondo la Compagnia
di Gesù costituisce una dimensione
e un’opportunità importante per il
settore sociale, non può che fondarsi
sull’andare insieme verso una giustizia comune. E davvero non è sembrato un caso che, nelle loro visite
52 Popoli agosto-settembre 2014
CHE COS'È IL JESC
I
l Jesuit European Social Centre (Jesc,
jesc.eu) nasce nel 2012 e costituisce
lo strumento con cui la Compagnia di Gesù ha scelto di essere presente a livello
europeo sui temi della giustizia e dell’impegno sociale. La dimensione europea è
sempre più determinante nelle politiche
dei singoli Stati membri e nella vita delle
persone. L’opzione per i più poveri necessita di strumenti nuovi di coordinamento
fra tutte le attività sociali in Europa legate alla Compagnia e di advocacy presso
le istituzioni europee. Il Jesc rappresenta
la risposta dei Provinciali europei alle
nuove sfide che devono affrontare i gesuiti nel Vecchio continente.
in gruppo a Napoli, ciascun delegato
si aggirasse con la propria borsa,
portatrice di un messaggio diretto
e chiaro, tanto quanto la presenza
di persone di diversa provenienza,
storia, formazione, tutte impegnate
nella promozione della giustizia.
In tale contesto, è emerso che il volontariato rappresenta un motore per
un cambiamento sostanziale nelle
nostre società. Attraverso le molteplici azioni di cui sono protagonisti i
volontari, si ha un reale impatto sulle
vite delle persone. Come è emerso dal
confronto tra i partecipanti, il cambiamento a livello sociale non può
prescindere dai rapporti personali,
promuovendo una maggiore consapevolezza sociale e sostenendo con
tutte le forze il lavoro dei volontari.
Il cammino è lungo e faticoso, ma insieme è percorribile; in un’occasione
Mary Ward disse: «I will do these
things with love and freedom, or I will
leave them alone». Nessuno ci vieta di
sostituire la prima persona singolare
con la prima plurale: «Noi faremo
queste cose con amore e libertà».
Andreas Fernandez
Villa S. Ignazio Trento
MATILUBA
Con amore
e libertà
www.centroastalli.it
Edelawitt
diventa maggiorenne
Una rifugiata etiope, compiuti 18 anni, vive una svolta nella
sua esistenza e racconta timori e progetti di un futuro nuovo
S
ono rifugiata in Italia dall’età di 8 anni. Oggi ne ho 18.
Dell’Etiopia mi ricordo la
paura che da un momento all’altro
potesse scoppiare la guerra. Ricordo
mio padre. Io ero la sua preferita.
La più piccola, quella con cui giocare e fare belle passeggiate.
In Italia non siamo arrivati tutti
insieme. Prima mia madre con mia
sorella maggiore. Dopo due anni io
e gli altri miei due fratelli.
Da quando sto in Italia ho vissuto
in due centri d’accoglienza e in una
casa-famiglia per minori.
Ora devo pensare a trovare una
strada mia, indipendente, da adulta.
Ma non è facile. Finché studiavo
era tutto più semplice: prima le
elementari, le medie, poi il diploma.
Adesso trovare un lavoro è la sfida
più dura da quando sono qui.
Sono etiope, si vede dal colore della
pelle, ma sogno e penso in italiano.
Ho passato più anni a Roma che ad
Addis Abeba.
Vorrei andare all’estero, magari in
Germania, dove vive mio zio con
la sua famiglia. Dicono che per noi
rifugiati lì la vita sia più semplice. È
più facile trovare lavoro… non so…
per ora è solo un’idea.
In questi giorni scade l’ultima proroga nella casa-famiglia che mi
ospita. Sono maggiorenne. Non
posso più restare.
I miei fratelli più grandi lavorano e
vivono insieme. La cosa più ovvia è
andare a stare con loro. Sono fortunata rispetto a tanti ragazzi che
non hanno nessuno, ma nonostante
ciò lasciare la casa-famiglia non è
semplice.
Per ora con tutte le mie forze vorrei
lavorare, prendere in mano la mia
vita e cominciare a guardare il futuro con un po’ di ottimismo.
Anche quest’anno a giugno abbiamo celebrato la Giornata mondiale
dei rifugiati. A tutti i ragazzi che
in queste ore arrivano in Italia per
chiedere asilo voglio dare un consiglio: non fate stupidaggini, rigate
dritto, scegliete sempre il bene. Capite qual è la strada giusta per voi.
Non sarà facile arrivare alla meta. Ma provarci può dare senso al
futuro.
Testimonianza raccolta da
Fondazione Astalli
La foto non si riferisce
ai soggetti descritti nell’articolo
Centro Arrupe, una comunità di famiglie rifugiate
C
hi arriva in un Paese straniero con la propria famiglia in
fuga da guerre e persecuzioni, o dopo anni riesce a ricongiungersi con i suoi cari, si vede costretto ad affrontare
una serie di difficoltà a volte inaspettate. I nuclei familiari,
specie se composti da un solo genitore, rappresentano una
categoria particolarmente vulnerabile perché la presenza
di minori può rendere il percorso verso l’autonomia molto
più lungo e tortuoso.
Il compito degli operatori della comunità di famiglie rifugiate del Centro Astalli è quindi duplice: da un lato, assicurare che la permanenza nel Centro «Pedro Arrupe» di Roma
sia più confortevole e serena possibile, soprattutto per i
piccoli ospiti; dall’altro, lavorare fin da subito per aiutare i
genitori a tornare ad essere indipendenti.
La dimissione dal Centro in autonomia rappresenta infatti
la sfida più difficile da affrontare, soprattutto in un momento in cui trovare un impiego regolare e potersi permettere
un contratto di affitto risulta sempre più difficile.
Il Centro mette a disposizione degli ospiti 40 posti, in
convenzione con Roma Capitale, suddivisi in piccoli appartamenti, ciascuno dotato di due stanze e servizi indipendenti. Ogni nucleo familiare può quindi godere di una certa
autonomia nelle semplici azioni quotidiane come cucinare,
e di un po’ di privacy, indispensabile per riappropriarsi
del senso della parola famiglia. Nonostante le difficoltà,
la presenza dei bambini, ormai più numerosi degli adulti,
consente a operatori e genitori di concentrarsi sul futuro
con maggior fiducia.
agosto-settembre 2014 Popoli 53
www.amo-fme.org
Una moto e una Tv
per la libertà (religiosa)
Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) offre assistenza a tanti
cristiani in Medio oriente. Anche in modi inaspettati
U
na motocicletta, un’automobile e un pulmino; una Bibbia
in farsi e arabo, e le catechesi
di papa Benedetto in turco. Per noi
europei, con una chiesa più o meno
vuota, ma aperta, a ogni angolo di
strada, può sembrare strano che siano questi gli strumenti attraverso
cui praticare la fede, crescere nella
relazione con Dio e migliorare la
convivenza con connazionali appartenenti a religioni diverse. Eppure in
molte aree del mondo, Medio oriente
in primis, è così. Non a caso, degli
ACS, CHE COS'È
L’
Opera pastorale, dal 2011 Fondazione
pontificia «Aiuto alla Chiesa che soffre»
è nata nel 1947 in Germania con la missione di soccorrere e sostenere i cristiani
perseguitati. Il suo fondatore, Werenfried van
Straaten, monaco premonstratense olandese, fu soprannominato Spekpater per le
ingenti quantità di alimenti (carne, in particolare) che raccolse nell’immediato dopoguerra
in Europa a sostegno dei rifugiati tedeschi.
Dal 1955 Acs opera anche in Medio oriente
con progetti di accoglienza ai profughi, pubblicazioni di testi sacri in lingua madre, sostegno alla formazione dei religiosi e promozione
del dialogo interreligioso. Da sempre attiva
nella denuncia delle violazioni subite dai
cristiani per il loro credo, pubblica da dodici
anni il Rapporto sulla libertà religiosa nel
Popoli
agosto-settembre
2014è oggi
mondo. 54
Dopo
l’Africa,
il Medio oriente
per Acs la seconda area destinataria di aiuti.
oltre 88 milioni di euro raccolti nel
2013 dalla Fondazione Acs (vedi box),
circa il 7% è andato a strumenti di
motorizzazione, più di quanto stanziato per gli aiuti di emergenza o al
sostentamento delle religiose.
Come spiega Marta Petrosillo, responsabile dell’ufficio stampa di Acs,
«la grave insicurezza delle strade irachene ha fatto sì che negli ultimi anni sempre meno genitori mandassero
i figli a catechismo. Così a Baghdad abbiamo acquistato un pulmino
per la parrocchia della cattedrale
siro-cattolica, la chiesa attaccata dai
terroristi nel 2010, e, grazie a un
altro pullman, a Erbil (capoluogo
del Kurdistan iracheno, dove sono
riparati migliaia di cristiani da tutto
l’Iraq), circa 1.400 ragazzi del quartiere cristiano possono continuare a
partecipare alla catechesi».
Altrettanto fondamentale l’acquisto
di un’automobile per la comunità
cattolica di Sulaymaniya, sempre nel
Kurdistan iracheno, dove ha una sede la comunità monastica Al Khalil,
fondata da padre Paolo Dall’Oglio.
Qui gli incontri di approfondimento
interreligioso aperti anche ai musulmani e la Messa si tengono la sera,
dopo il lavoro, quando i bus non
sono più in servizio. Per evitare che
i fedeli percorrano diversi chilometri
a piedi di notte, a rischio della vita,
l’auto si è rivelata preziosa.
Una volta arrivati nei centri di catechesi o in parrocchia, i testi in lingua
madre sono lo strumento indispensabile per le attività. Acs ha sostenuto
la pubblicazione e la diffusione di
migliaia di copie della Bibbia del
Fanciullo, in arabo e assiro orientale.
Nel settembre 2012, in occasione del
viaggio di Benedetto XVI in Libano,
sono state distribuite 50mila copie di
Youcat, il libretto giallo del catechismo per i giovani di lingua araba.
Padre Andrzej Halemba, responsabile di Acs per l’area mediorientale,
racconta anche un altro progetto,
promosso dalla Fondazione Oasis: la
traduzione in turco delle catechesi
di Benedetto su San Paolo. «Questo
volume - spiega - è una ricchezza per
i cristiani, ma può essere discusso
anche dai non cristiani, aprendo a
nuove possibilità di dialogo interreligioso che spesso risente di fraintendimenti e incomprensioni causati da
testi in lingue diverse».
Sulla stessa linea è Sat7, la rete televisiva promossa dalle Chiese cristiane della regione, da anni sostenuta
anche da Acs. Nata nel 1999, con sede
centrale a Nicosia (Cipro), e captabile
dall’Iran al Marocco, Sat7 dispone
di quattro canali in arabo e farsi in
cui trasmette 24 ore su 24, a cui si
aggiungono quattro ore al giorno di
programmi in turco e il canale per
bambini Sat7 Kids. Il palinsesto comprende talk show su temi di attualità e religiosi, approfondimenti con
esperti, ma anche film e documentari
ispirati agli episodi biblici e molto apprezzati. Ben vista dalle autorità locali per la sensibilità con cui vengono
trattati argomenti controversi come il
ruolo della donna, la Tv viene seguita
abitualmente da 7 milioni di persone.
Una goccia in un mare di 300 canali
Tv con un bacino di 200 milioni di
utenti, ma sempre più musulmani
sono tra gli spettatori, anche perché,
in condizioni di sicurezza difficili,
ci si chiude in casa. Senza perdere il
contatto, dov’è possibile, con il mondo (cristiano) esterno.
Elisa Costanzo
A cura della Redazione
e di Anna Casanova
@casanovanna
Per segnalazioni scrivi a
[email protected]
Carta Canta
D, lo «straniero» tra noi
59
Tre domande a...
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Toumani e Sidiki,
la tradizione continua
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contro lo spreco
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56
56
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La libreria 360gradi Sud (Roma)
Carta canta D, lo «straniero» tra noi
Tre domande a... Fabio Geda Guardare
Cinema I ponti di Sarajevo
Docu Fukushima
no daimyo (Il signore di Fukushima)
Invito a teatro Tramedautore
Osservatorio Migranti nei
media della Sardegna: un’indagine Ascoltare
Musica Toumani e Sidiki, la tradizione continua
On Air Radio Passagers
Hit Cile
Strumenti Trutruca Gustare
Sapori&saperi La cucina
esotica del Nuovo Mondo
Verso Expo 2015 Una ricerca lunga diecimila chilometri
Retrogusto
Taverna catalana (Alghero)
Sorseggi Tchapalo Inter@gire
Social media per il non profit
Decode Raccontare il mondo con il pollice alzato Benvivere
Frutteti urbani contro lo spreco
Ecojesuits Viaggi in aereo? Allora pianta un albero Graphic journalism
Le lettere di Hilda Dajč/7
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61
63
64
65
63
60
61
62
64
66
68
69
60
62
65
66
68
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novità
Aldo Marchetti
Fabbriche aperte
Durante la drammatica crisi economica argentina di inizio secolo
si parlò molto - sui mass media di
tutto il mondo - delle imprese fallite che, abbandonate dai proprietari, venivano occupate e rimesse
in attività dai dipendenti. Mentre
il sistema neoliberista crollava, il
modello delle empresas recuperadas por sus trabajadores venne
applicato negli ambiti più svariati: dall’industria manifatturiera ai
servizi, dagli alberghi ai giornali.
A distanza di più di 10 anni e al
di là di una certa retorica giornalistica, che fine hanno fatto queste
aziende? E in che cosa si distinguono da altre esperienze simili
già realizzatesi nel mondo industrializzato, per esempio nel campo
cooperativistico? Sono domande a
cui risponde Aldo Marchetti, già
docente di Sociologia del lavoro
all’Università Statale di Milano.
Nel suo accurato volume esamina
l’esperienza a partire dalle teorie
dell’autogestione, ne ricostruisce
la storia e offre un aggiornamento
sulla situazione attuale, testimoniando la vitalità di un esperimento ampio e duraturo. [Il Mulino,
2013, pp. 213, euro 18]
la libreria
L
a Cooperativa sociale Armadilla di Roma ha dato
vita a un’iniziativa culturale
e sociale nella quale il Sud
del mondo è protagonista,
promuovendo temi quali la
solidarietà internazionale,
la cooperazione decentrata,
l’intercultura, la sostenibilità.
In questo progetto s’inserisce la libreria 360gradi Sud
(zona Trastevere) che ospita
narrativa italiana e straniera, manualistica su tematiche quali intercultura, consumo critico, sostenibilità. Molto spazio viene lasciato alla letteratura per bambini e
ragazzi con una sezione speciale dedicata ai temi dell’educazione alla
mondialità. Gli eventi sono tutti improntati alla promozione e divulgazione delle culture altre e del vivere sostenibile. Oltre agli incontri
con gli autori e ai laboratori, vengono inoltre organizzati mercatini
dell’usato, baby yoga, conferenze sul turismo responsabile, dibattiti
sulle crisi politiche internazionali. Un luogo dove l’incontro con l’altro
avviene anche attraverso i prodotti d’artigianato e quelli alimentari del
commercio equo e solidale.
360GRADI SUD - via Toscani 11/13, Roma; www.360gradisud.it
56 Popoli agosto-settembre 2014
Alessandro Pellegatta
Oman. Profumo
del tempo antico
«Esistono i posti speciali, che ci
attendono e ci riscattano dalla
precarietà e dall’insignificanza del
presente: uno di questi è l’Oman».
Così l’A., viaggiatore appassionato
e attento, sintetizza il senso di
questo libro dedicato al sultanato
arabo, con una coda «pasoliniana»
in Yemen. Meno presente di altre petromonarchie all’attenzione
dei media internazionali, l’Oman
offre il fascino di una natura e
di una storia uniche. E inoltre un
ambiente di tolleranza religiosa,
una sorta di «terza via» dell’islam
in un tempo di grandi tensioni
regionali tra sunniti e sciiti. Tutto
questo raccontato con la curiosità
dell’esploratore e la precisione del
geografo. [Salento Books, 2014, p.
149, euro 18,5]
Piergiorgio Pescali
Il Custode
di Terra Santa
Il francescano che, anche recentemente, tutto il mondo ha potuto
vedere accanto a papa Francesco
nel suo viaggio in Terra Santa e
poi nella preghiera in Vaticano
con Abu Mazen e Shimon Peres,
è padre Pierbattista Pizzaballa. Da
dieci anni è il Custode di Terra
Santa, cioè il superiore di circa 300
frati minori del Medio Oriente e
responsabile di oltre 70 santuari. In
questo articolato libro-intervista,
padre Pizzaballa ripercorre la storia
della Custodia e il suo ruolo rispet-
to alla realtà religiosa e sociale di
Israele e Palestina. Nel colloquio a
tutto campo, che spazia dai pellegrinaggi alla scienza, al dialogo tra
le fedi, emerge l’impegno e l’amore
per Gerusalemme e i luoghi che da
secoli i francescani curano, attenti
ai mutamenti del presente. [Add
editore, 2014, p. 158, euro 13]
Violeta Popescu
(a cura di)
Le catacombe
della Romania
Nei primi vent’anni in cui la Romania del dopoguerra fu sottoposta
allo stalinismo, nel buio delle carceri politiche diffuse nel Paese una
generazione di prigionieri subì torture e isolamento. Ogni opposizione
politica e culturale fu schiacciata
nel tentativo di rifondare il Paese.
44 carceri e oltre 70 campi di lavoro
forzato hanno visto passare oltre
tre milioni di persone, considerate
nemiche del popolo. Il libro, promosso dal Centro culturale italoromeno di Milano, raccoglie una
serie di testimonianze di artisti,
intellettuali, religiosi, come il sacerdote ortodosso Gheorghe CalciuDumitreasa, e persone meno conosciute, come la contadina Elisabeta
Rizea, eroina della resistenza alla
collettivizzazione delle terre. Tutti
uniti dall’esperienza di prigionia
durata oltre un decennio o morti in
carcere. Un documento importante
per il recupero della memoria della
storia recente. [Rediviva Edizioni,
2014, p. 212, euro 10]
Dal 29 al 31 agosto
Sarzana (Sp)
Festival della mente: rassegna
dedicata alla divulgazione
scientifica e umanistica.
Tra i relatori Marco Aime,
antropologo, collaboratore
di Popoli.
www.festivaldellamente.it
Da agosto a ottobre
Roma
L’Associazione culturale
Immezcla e l’Anolf Cisl
organizzano la prima
edizione del premio
internazionale di letteratura
e migrazione «Fabula e
Intreccio» dedicato agli
immigrati di prima e
seconda generazione. La
partecipazione è gratuita.
Le opere devono essere
presentate entro il 28
ottobre.
www.romamultietnica.com
Dal 3 al 7 settembre
Mantova
Festival della letteratura:
quattro giorni di incontri,
dibattiti, scambi culturali con
scrittori italiani
e internazionali.
www.festivaletteratura.it
Dal 17 al 21 settembre
Lucera (Fg)
XII Festival della letteratura
mediterranea con la presenza
di autori europei, nordafricani
e mediorientali.
www.mediterraneocultura.it
Bartolomeo Sorge
Gesù sorride.
Con papa Francesco
oltre la religione
della paura
Papa Francesco, con i suoi metodi
comunicativi diretti e con la sua
capacità di predicare una fede semplice e gioiosa, ha avuto nel suo
primo anno di pontificato un forte impatto massmediale. In questo
libro, Bartolomeo Sorge, gesuita,
teologo, invita però ad andare al
di là dell’aspetto superficiale del
«fenomeno Bergoglio» per coglierne
le ragioni profonde. Secondo padre
Sorge, il nuovo Pontefice è un «profeta della fiducia» che ha smosso
dalle fondamenta quella «religione
della paura» che per troppi anni è
stata portata avanti da una parte
del clero e da laici impegnati in
campo economico, politico e sociale. Scommettendo sul superamento
di una fede severa e punitiva, papa
Francesco va incontro all’uomo di
oggi che, non avendo più punti di
riferimento in una «società senza
padre», è ben disposto a ricevere
l’annunzio di un Dio Padre misericordioso. [Piemme, 2014, pp. 110,
euro 12]
Tiziano Terzani
Un’idea di destino
Tiziano Terzani è stato indubbiamente uno dei migliori reporter
italiani in Asia. In articoli dettagliati e in libri documentati ha raccontato le profonde trasformazioni
del continente a partire dagli anni
Sessanta. Scritti nei quali traspariagosto-settembre 2014 Popoli 57
Leggere
CARTA CANTA L’«altro» nella stampa periodica italiana
D, lo «straniero» tra noi
D
opo Io donna del Corriere della Sera, «Carta canta» prosegue analizzando D, un altro supplemento femminile de La Repubblica. Nello specifico sono state considerate le uscite del 31 maggio e del 7 e 14 giugno.
La rivista è articolata in 5 macro-sezioni («attualità», «moda», «bellezza»,
«cucina» e «lavoro») dove testo e immagini, spesso di ottima qualità, sono
complementari integrandosi a livello di significato e di disposizione grafica.
La sezione «attualità», che comprende cover story, news, interviste e rubriche d’opinione affidate a firme de La Repubblica, è la parte più corposa
della rivista, al cui interno si trova il maggior numero di articoli con riferimenti allo «straniero». Con il 13% di pagine dedicate ai fatti internazionali,
rispetto ai femminili finora considerati D si colloca dopo il 19% di Io donna,
ma ben oltre il 5% di Vanity Fair.
Il punto di vista adottato è legato all’attualità e le notizie presentate rispondono alle aspettative di un lettore interessato all’«altro», un lettore che
guarda allo «straniero» con un atteggiamento di credito e fiducia. Ne è un
esempio il servizio Swinging Tirana (31 maggio), da collegare all’esito imminente rispetto alla richiesta dell’Albania di candidarsi per entrare nell’Unione Europea. Il «rinascimento albanese» è qui raccontato attraverso la
voce dei suoi protagonisti: dall’emigrato di ritorno al conduttore di un noto
talk show politico che considera l’ingresso nell’Ue «un grosso malinteso»,
passando per l’imprenditore italiano proprietario di un call center con sede
a Tirana. Ne esce un quadro complesso dove, accanto alla corruzione e
alla criminalità, emergono anche i «germogli di una società civile che inizia
a farsi sentire». È il caso della manifestazione che «a novembre ha convinto
[il nuovo premier] Edi Rama a negare all’alleato americano la richiesta di
accogliere le armi chimiche siriane».
Nella cover story del 14 giugno, L’India che vorrei, il problema della violenza femminile e dell’ingiusto sistema delle caste vengono presentati
attraverso le parole di una protagonista d’eccezione: la scrittrice Arundhaty
Roy. Benché lontana dalle condizioni di vita della maggior parte dei suoi
concittadini, la Roy - «romanziera famosa e saggista di battaglia» - offre al
lettore una prospettiva interessante per comprendere la società indiana. Si
tratta infatti di un punto di vista critico interno che è ben consapevole dei
paradossi sociali e culturali che attraversano l’India. Un Paese che «vive
in molti secoli simultaneamente, così qui trovano voce alcune tra le donne
più potenti e riconosciute del mondo, persone libere come me […] e allo
stesso tempo un enorme numero di donne incontra un destino tragico».
In Silicon Lady (14 giugno) lo «straniero» è considerato già integrato nella
parte più ricca della società occidentale, all’interno della quale sembra
essersi ritagliato uno spazio di rilievo, sposandone in pieno i principi.
Come accade alle ragazze della Silicon Valley che «dirigono business multimilionari ma trovano il tempo anche per volontariato e raccolte fondi per
le più varie cause», in un mix di affari e beneficenza in cui l’affermazione di
sé sembra avere un’importanza non secondaria. Bita Daryabary, una delle
donne più influenti della Valley afferma, a commento di una sfilata Chanel
organizzata a casa sua: «Un sogno che si è avverato per me, che da ragazzina in Iran mi cucivo i vestiti da sola. Un’ottima occasione di beneficenza
e d’incontro per tante di noi che apprezzano l’eleganza e la moda come
uno strumento in più per esprimere la personalità».
Nel complesso, in D i tre punti di vista sull’«altro» sopra evidenziati
sembrano rispecchiare lo sguardo frammentato di chi abita una società
multietnica.
Elvio Schiocchet e Paola Gelatti
58 Popoli agosto-settembre 2014
va la sua passione per il giornalismo e una partecipazione emotiva
ai cambiamenti.
Ed è proprio questo suo coinvolgimento personale che emerge dalla
corrispondenza della quale questo
libro raccoglie numerosi stralci.
Così scopriamo che l’espulsione
dalla Cina per «crimini controrivoluzionari», l’esperienza deludente
della società giapponese, i viaggi in Thailandia, Urss, Indocina,
Asia centrale, India, Pakistan non
furono solo all’origine delle sue
grandi opere, ma furono costellati
da dubbi, nostalgie, da una ricerca
della gioia e anche dalla depressione. Ed è attraverso queste vicende
personali che Terzani maturava
una nuova consapevolezza di sé
che poi affidava al suo diario. Sono
pagine che, scorrendo parallele alla sua esperienza professionale, ci
restituiscono intatta anche la sua
personalità. [Feltrinelli, 2014, pp.
484, euro 17]
Alberto Vitali
Luigi Bettazzi. Il
progetto e l’azione
di un costruttore
di pace
In un’epoca avara di voci profetiche
(anche in ambito ecclesiale), occorre approfondire il più possibile
il pensiero e la prassi di chi si è
distinto per avere testimoniato il
Vangelo con la propria vita, senza
sconti né compromessi. È il caso di
Luigi Bettazzi, 90 anni compiuti
lo scorso 26 novembre, una delle
figure più rappresentative del pacifismo italiano (e non solo). L’A.
ripercorre fedelmente la traiettoria
umana e spirituale del sacerdote bolognese (anche se trevigiano
di nascita), avendo sempre come
criterio di lettura dei suoi gesti,
delle sue prese di posizione, del
suo stile pastorale l’obiettivo della
costruzione della pace. Questa è
stata sempre la vera stella polare
di Bettazzi, negli anni della collaborazione con il cardinal Lercaro a
Bologna, così come durante la sua
partecipazione al Concilio; durante
il suo lungo ministero episcopale
a Ivrea così come, ovviamente,
nella sua attività con Pax Christi,
a livello italiano e internazionale. Leggere la sua biografia è poi
un’occasione per «incrociare» altri
giganti della fede del Novecento: da
Giuseppe Dossetti a papa Roncalli,
da Hélder Câmara a Tonino Bello.
[Paoline, 2014, pp. 160, euro 15]
Chiara Zappa
Mosaico Turchia.
Viaggio in un Paese
che cambia
Tra i molti modi di raccontare la
ricchezza della Turchia e della sua
complessità, Chiara Zappa sceglie il
libro che si fa guida, itinerario di
ricerca, pellegrinaggio. La Turchia
di oggi, stratificazione di una storia
antica e geografia di raccordo tra
aree del mondo, è esplorata attraverso mete che hanno come filo
conduttore la dimensione religiosa.
Con l’esperienza della giornalista
attenta alle condizioni delle minoranze, l’A. racconta di armeni,
greci, siriaci, di tradizioni secolari
e testimonianze recenti di fede e
martirio, ma anche di identità plurime nell’islam maggioritario. Una
complessità con la quale il Paese
non può non fare i conti se vuole
riconoscere a tutti diritti di cittadinanza e diventare così una democrazia compiuta. [Edizioni Terra
Santa, 2014, p. 156, euro 14]
Fabio Geda
Leggere il mondo
con gli occhi dei migranti
L
o scrittore Fabio Geda, da sempre attento all’umanità che ci circonda e ai più
deboli (bambini, ragazzi o migranti), anche in questo suo ultimo romanzo Se la vita
che salvi è la tua (Einaudi, 2014, pp. 230, euro 17,50) si dimostra osservatore dei
malesseri del nostro tempo, sensibile indagatore dell’animo umano, fine narratore
nell’intrecciare storie quotidiane investite dalle urgenze contemporanee. Il protagonista del romanzo, Andrea Luna, è un insegnante precario che, per superare una crisi di
coppia con la moglie Agnese, si reca a New York (dove per altro Geda ha ultimamente
trascorso svariati mesi). Ma questo breve soggiorno si trasformerà in una profonda
crisi d’identità, in uno sgretolarsi delle sue certezze, in un bisogno di «perdersi» ai
margini dell’umanità fino a diventare un senza fissa dimora, un irregolare, un migrante, per poi ritrovarsi e capire veramente dove e con chi vuole costruire la sua «casa».
Tutti i personaggi positivi, quelli che aiutano spiritualmente e materialmente Andrea nel
suo viaggio, sono migranti: Walker, il custode afro-americano, Ary, l’artista d’origine cambogiana che costruisce diorama, Antonio, il collega messicano dell’impresa di pulizie, la
mamma di Aun-Liang, commerciante cinese. Come mai questa scelta?
C’è un proverbio africano che tenevo appeso in camera quando facevo l’educatore:
«Per educare un bambino ci vuole un villaggio». Ecco, l’idea di una comunità educante
attraversa un po’ tutti i miei romanzi, educante non solo con i bambini, ma con chiunque. Ciascuno di noi viene educato da chi lo circonda e ciascuno di noi è educatore
nei confronti di chi gli vive a fianco. Amo New York anche per questo motivo: è una
città-casa per milioni di immigrati o figli di immigrati cui è permesso di sentirsi davvero
newyorchesi. Amo viaggiare e incontrare gente di ogni parte del pianeta perché attraverso i loro occhi colgo con maggiore profondità e acume la complessità del mondo e
riflettendomi nel loro sguardo riconosco me stesso come parte di quella complessità.
Andrea non ha fiducia nel futuro e chiede il perché al suo amico Vittorio: «È perché
siamo ancora troppo ricchi? Stiamo bene e allo stesso tempo siamo gelosi di quello che
hanno avuto i nostri genitori?». La nostra generazione quali valori dovrebbe recuperare?
Viene facile dire che imparare a vivere nell’ottica di una «decrescita felice» forse è
il modo migliore per noi trenta-quarantenni di attraversare questo periodo storico.
Abbandonare l’ansia dell’accumulo e del consumo e promuovere un modello di vita
sostenibile per il pianeta e i sette (o più) miliardi di persone che lo abitano è il regalo
più grande che possiamo fare alle generazioni che seguiranno. Noi siamo cresciuti
con il mantra del «sarete più ricchi di noi» perché così era stato, generazione dopo
generazione, dagli anni Cinquanta in poi. Ora sappiamo che non è così, la ricchezza
(intesa così come la intende il mercato) non è infinita. E infinite non sono neppure le
risorse della Terra. Il fatto è che, come diceva Bob Kennedy, il Pil misura tutto tranne
ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Il valore certamente da recuperare (o forse da acquisire per la prima volta) è che il denaro è un mezzo, non il fine.
Quando Andrea decide di tornare a New York è ormai diventato un clandestino per gli
Usa. Qual è l’atteggiamento dei newyorkesi nei confronti dei migranti?
New York è una città che si regge sui migranti irregolari. Ce ne sono mezzo milione e
migliaia sono italiani. Tutti i sindaci della città, dal repubblicano Bloomberg al democratico De Blasio, hanno sempre detto che non faranno mai la guerra ai clandestini
perché, se li cacciassero, la città collasserebbe, ma allo stesso tempo pare non
vogliano mettere mano a una sanatoria. È la tipica ipocrisia occidentale: sfruttare i
migranti in modo da calmierare i costi grazie al lavoro nero e contemporaneamente
lamentarsi dell’illegalità in cui sono costretti - in cui noi li costringiamo - a vivere. Andrea Luna passa (anche) attraverso questo tipo di esperienza ed entrerà in contatto
con questa umanità vibrante.
agosto-settembre 2014 Popoli 59
Guardare
I ponti
di Sarajevo
Un’opera collettiva a cento anni dall’inizio
della prima guerra mondiale. 13 autori
riflettono su Sarajevo, simbolo, passato e
presente dell’Europa
A
cent’anni dalla prima
guerra mondiale, tredici registi europei riflettono sulla città di Sarajevo,
dalla Storia remota (l’assassinio di Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914,
e i milioni di morti che ne
sono seguiti) alla tragedia
del conflitto nei Balcani
sul finire del «Secolo breve». Fino a oggi.
Passato e presente sembrano spesso compresenti,
impastati in un collage di
immagini e suoni, parole, volti, letture, cartoon,
morte e sangue. Tra immaginazione, verità storica
e invenzione, fermo immagine e movimento, il
mosaico di punti di vista
e di voci mette a fuoco - o
fuori fuoco - le certezze
dello spettatore.
A fare da cornice a ogni
episodio/capitolo: le animazioni dorate e simboliche di François Schuiten
e Luís da Matta Almeida
60 Popoli agosto-settembre 2014
che mostrano mani che si
sfiorano, si accarezzano, si
congiungono fino a formare un ponte «umano» di due
braccia tra diversi punti
geografici.
Il «ponte» può essere attraversato da persone festanti, abbracci sporadici,
o in conflitto, o esplodere
all’improvviso. Il fiume
sottostante - forse il Bosna,
forse il Miljacka - è solcato
da bare che galleggiano,
centinaia di bare.
Il film comincia con l’episodio di Kamen Kalev,
che mostra Francesco Ferdinando e la moglie in una
piscina. Hanno avuto un
sogno premonitore di morte
e il destino pare segnato. Lo
sguardo di Kalev è febbrile,
come quello in macchina
dell’attore che interpreta
l’arciduca. La Storia si fa
incubo a occhi aperti. Il
capitolo successivo racconta in voce fuori campo il
flusso di coscienza del gio-
vane attentatore bosniaco,
Gavrilo Princip. Le parole
di Princip si contrappongono e sovrappongono a
immagini contemporanee
di ragazzi che registrano
una trasmissione radio. Il
passato è (com)presente.
I due episodi più potenti,
però, sono L’avamposto di
Leonardo Di Costanzo e I
ponti dei sospiri di JeanLuc Godard. Nel primo, il
regista de L’intervallo mostra un umanissimo caso
di diserzione. «Signor tenente, io non ci vado, io
non esco!»: un soldato rifiuta di eseguire gli ordini.
Non vuole andare a morire,
dopo avere visto cadere
tutti i commilitoni usciti
in avanscoperta sul fronte,
uccisi da un cecchino. Furono circa 240mila i soldati
italiani condannati a morte
o alla prigione per insubordinazione, diserzione o automutilazione. Di Costanzo
riesce con pochi personaggi e un pugno di inquadrature a rendere l’ombra di
follia, condanna e tragedia
che ogni guerra porta con
sé. Un canalone innevato
come tomba a cielo aperto,
il crepitare dei fucili si fa
assordante nel vuoto.
Godard, invece, realizza
un’opera grandiosa di pochi
minuti sull’illusione ottica
e la tragedia delle immagini che nel tempo risultano
ormai svuotate della loro
potenza nel raccontare la
guerra. Sembra evocare le
parole di Frédéric Rousseau
nel Bambino di Varsavia
(ed. Laterza): «Una fotografia “simbolo” è ancora in
grado di parlarci o la guardiamo senza più vederla?».
Il padre della Nouvelle Vague mescola immagini cinematografiche di finzione
a fermo immagine di «vere»
fotografie, epoche diverse,
formati contrapposti. L’effetto è quello richiamato
dalla voce fuori campo e
dai caratteri grafici in sovrimpressione: la tragedia
in immagini e la tragedia
dell’immagine, falsificabile, manipolabile e fragile.
Godard gioca - seriamente - con le parole: «Fauxtographe» dice, ovvero Falsografia. «Archi-faux», arcifalso. Pare suggerire che,
anche nel rappresentare la
guerra, nulla è «obiettivo»
nell’obiettivo. È tutta una
questione di «spirito» e di
sguardo, prima ancora che
della materia usata per racchiuderlo.
Luca Barnabé
Docu
N
ella città dell’incidente nucleare, Masami Yoshizawa, che
non ha mai lasciato il territorio compromesso dall’inquinamento radioattivo, racconta in un’intervista la sua missione:
sacrificare la vita per dare un messaggio. Lo Stato deve lasciare
libertà a chi vuole restare, o costringere gli abitanti delle zone
contaminate ad abbandonare per sempre la propria terra? Premio
speciale della giuria per i Corti della Realtà all’edizione 2014 del
Festival L’Anello debole (Capodarco).
Fukushima no daimyo (Il signore di Fukushima)
Regia di Alessandro Tesei
Italia 2013
Durata: 19’55’’
Lingua: giapponese (sottotitoli in italiano)
Invito a teatro
Tramedautore
G
iunto alla sua 14ª edizione, Tramedautore, il Festival internazionale
della nuova drammaturgia, si riconferma
come crocevia delle lingue
e culture dal mondo, in cui
le espressioni teatrali più
innovative si confrontano. Il
Festival sente la necessità
di recuperare la funzione del
teatro di coesione sociale. Per
questo gli artisti si propongono al pubblico milanese come
«agitatori di coscienze» con
opere che affrontano tematiche di forte attualità. Il Festival, che finora ha ospitato più
di 300 spettacoli provenienti
da 52 Paesi, quest’anno presenterà quindici spettacoli, dal 18 al 28
settembre, a Milano (sede principale, il
Piccolo Teatro Grassi) di giovani autori,
dall’Europa all’Asia.
Dal Teatro Nau Ivanow e Perpetuum
Mobile di Barcellona arriva il progetto
«Piigs», il primo Festival di teatro sul
dramma della crisi. L’acronimo, coniato
in senso dispregiativo, riunisce i Paesi
dell’euro finanziariamente più deboli (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
Tramedautore porterà in scena i cinque
spettacoli commissionati dal
teatro spagnolo a cinque autori (nati o residenti nei Paesi
«Piigs»), sulla crisi che la Ue
sta vivendo. Andranno in scena, tra gli altri, Roof di Maria
Tranou (Grecia) e Resgate di
Armando Nascimento Rosa
(Portogallo).
Dall’Europa alla Corea del
Sud: lo spettacolo Trascinandosi verso Yeolha di Samshik
Pai, è un grande epico affresco del Paese asiatico per
la regia di uno dei suoi più
promettenti autori. E da Singapore, città
cosmopolita, uno dei centri mondiali della
finanza, arriva Best of di Haresh Sharma,
importante drammaturgo. Da non perdere, infine, una nuova produzione francese,
Remulus, sul rapporto tra nomadismo e
stanzialità, a partire da una drammaturgia «collettiva» che riunisce autori italiani,
romeni, tedeschi e francesi.
Fino al 31 agosto
Roma (Eur)
Al Museo nazionale
Preistorico Etnografico
Pigorini, la mostra
fotografica Perù. Tan
lejos tan cerca di Gianni
Pinnizzotto, reportage
sociale attraverso il Paese
sudamericano.
www.graffitiscuola.it
4-14 settembre
Milano
19ª rassegna del Milano
Film Festival, che propone
oltre 200 opere tra
lungometraggi, corti,
documentari. «Colpe
di Stato» è la sezione
dedicata alla complessità
del sistema di potere
nel mondo
Migranti nei media della Sardegna: un’indagine
A
ll’interno delle attività del progetto ICoD (Insieme contro
ogni discriminazione), finanziato dal Fondo europeo per
l’integrazione e volto a contrastare i fenomeni di discriminazione etnico-razziale sul territorio della Sardegna, l’Osservatorio
di Pavia ha monitorato le maggiori testate a diffusione regionale per evidenziare modalità di rappresentazione del migrante.
Nei primi cinque mesi del 2014, l’immigrazione ha occupato
una quota marginale dell’agenda dei media analizzati (La Nuova Sardegna, L’Unione Sarda, Videolina e Tgr Rai Sardegna):
il fenomeno migratorio è stato raramente tema di dibattito
pubblico, non è stato enfatizzato in chiave emergenziale, né
amplificando la portata dei flussi migratori, né rimarcando
l’allarme sociale. Anche il linguaggio adoperato dalle testate
locali è risultato prevalentemente sobrio e in conformità con i
principi espressi nel codice deontologico della Carta di Roma
su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti.
Tuttavia permane il binomio fra immigrazione e criminalità,
con la sovrarappresentazione dell’immigrazione nella cronaca
nera: in metà dei casi i migranti sono protagonisti di notizie di
criminalità. I migranti sono spesso autori di reato (35%), ma
anche vittime (14%). Un fenomeno mediatico che rafforza la
percezione di insicurezza nei confronti degli stranieri.
Dall’indagine emerge anche che il fenomeno migratorio è approfondito - con riferimenti a cause, Paesi di origine, approfondimenti sulle comunità, ecc. - solo in un quinto delle notizie, e
marginale (15%) è anche l’attenzione alle questioni umanitarie.
Il tono del linguaggio utilizzato dalle testate è prevalentemente
neutro (allarmistico nell’11% delle notizie). Talvolta sono i titoli
ad amplificare il sensazionalismo, inducendo sentimenti di
paura fra i lettori, altre volte il tono allarmistico è insito nelle
reazioni di cittadini interpellati o di politici contrari a iniziative
per l’integrazione.
Pur essendo le notizie, di norma, svincolate da cornici stereotipate, il fenomeno migratorio è, direttamente o indirettamente,
delineato come minaccia nel 12% dei casi. Infine, i migranti
hanno poco accesso diretto ai mezzi di informazione: solo il
10% ha goduto di uno spazio di intervista.
giugno-luglio 2014
PopoliMilazzo
61
Giuseppe
Ascoltare
Toumani e Sidiki,
la tradizione continua
Eredi di una famiglia di griot, i Diabaté hanno
portato il suono della kora sui palcoscenici
internazionali. Con grande successo
N
ella famiglia Diabaté
il talento si tramanda
di padre in figlio. Dinastia
di griot del Mali da sette
generazioni (i griot sono
cantastorie e musicisti)
oggi sono rappresentati
da Toumani, padre (classe 1965), e Sidiki, figlio
(classe 1982), che suonano
la kora, maestoso strumento a corde che caratterizza la storia musicale
dell’Africa Occidentale.
I due Diabaté sono un caso musicale singolare nel
loro genere: non solo il
ragazzo ha seguito le orme
artistiche del genitore, ma
L’
insieme costituiscono un
duo talentuoso e originale.
Qualche informazione su
Diabaté padre è necessaria, visto che si tratta di
uno dei più grandi musicisti africani viventi. Nonostante fosse figlio di Sidiki
(il nipote porta ora il nome
del nonno), leggenda della
musica maliana, Toumani
imparò i segreti della kora da solo, semplicemente
ascoltando suonare il padre. Fece poi esperienza in
Gran Bretagna, e negli anni la sua fama si diffuse a
livello internazionale: tra
le collaborazioni più no-
Toumani e Sidiki Diabaté
te quelle con il bluesman
statunitense Taj Mahal,
poi con i grandi africani:
Ali Farka Touré e Salif
Keita, con la all-star band
cubano-maliana Afrocubism. Per non parlare della
idea è venuta a un giornalista francese, Leonard Vincent, che
da vent’anni collabora con l’associazione Reporter senza
Frontiere ed è corrispondente di Rfi (canale radio francese dedicato
al pubblico internazionale) e Radio France in Marocco.
Perché non creare una radio per dare voce ai migranti? Così è nato il
progetto Radio Passagers - La voix des migrants. Il progetto è ancora
in fase di realizzazione e gli organizzatori stanno raccogliendo i fondi.
Entro l’autunno, Vincent e il suo team dovrebbero riuscire a
raccogliere i 25mila euro necessari per far decollare la piattaforma
radiofonica. Quando aprirà i battenti, Radio Passagers sarà
un’agenzia che produrrà programmi radiofonici gratuiti, scaricabili
sul telefonino o lettore mp3, destinati a migranti, richiedenti asilo,
rifugiati. Inizialmente saranno in francese, la lingua più usata
nell’Africa occidentale e in alcuni Paesi dell’Africa subsahariana, ma
se il progetto funzionerà, si allargherà a inglese, arabo e alle principali
lingue africane. I programmi saranno coordinati da Parigi, ma tutti
i contribuiti audio saranno realizzati da giornalisti corrispondenti
nei Paesi di partenza o transito dei migranti. L’obiettivo è poter
«colmare il vuoto dell’esilio», di mettere in rete i migranti, le loro
storie e culture.
Info: it.ulule.com/radio-passagers
62 Popoli AGOSTO-SETTEMBRE 2014
presenza in dischi di Damon Albarn (ex Blur) e di
Björk. Numerosi i riconoscimenti che ha ricevuto:
dal Zyriab des Virtuoses
(assegnato dall’Unesco) al
Grammy Award per la migliore musica tradizionale,
fino all’Unaids Goodwill
Ambassador. Nella primavera 2014, inoltre, la prestigiosa School of Oriental and African Studies
di Londra lo ha insignito
dell’Honorary Degree of
Doctor of Music per i suoi
meriti artistici e culturali.
E, se buon sangue non
mente, il giovane Sidiki
sta già mettendo a frutto il
talento familiare, avendo
completato gli studi musicali al conservatorio.
I due hanno pubblicato un
disco intitolato semplicemente Toumani & Sidiki
(2014) dove fanno dialogare le loro kora con
grande maestria. Si tratta
di un album strumentale
contenente otto tracce. Di
queste, una porta il titolo
emblematico Lampedusa. Toumani ha spiegato a questo proposito che
«Lampedusa evoca l’ingiustizia delle relazioni NordSud e, oltre a quest’isola
dove approdano i clandestini venuti dall’Africa,
penso a coloro che muoiono in mare e a tutti gli artisti che non posso esibirsi
perché i loro tour sono
annullati a causa dei mancati permessi per venire in
Europa. Oggi in Occidente
contano più i pezzi di carta delle vite umane». Un
altro brano, dedicato allo
scienziato algerino Rachid
Ouiguini, vuole sottolineare che al di là della situazione drammatica del
Nord del Mali, le relazioni tra Algeria e Mali
sono forti e profonde. Dr.
Cheikh Modibo Diarra è
ispirata all’ex primo ministro e ambasciatore all’Unesco, mentre Hamadoun
Touré è dedicata a un ingegnere maliano segretario
generale dell’Itu, agenzia
dell’Onu per le telecomunicazioni.
Il suono delle loro kora è
cristallino, richiama l’arpa, ed evoca atmosfere che
valicano i confini africani. Toumani, il «vecchio»,
rappresenta l’esperienza
e la tradizione; Sidiki, il
«giovane», si avvale di
influenze svariate, frutto
della sua curiosità e sperimentazione.
È un disco che va ascoltato senza pregiudizi: saprà
farvi viaggiare in luoghi e
tempi che prima non potevate immaginare.
Alessandra Abbona
Hit
I brani più venduti a maggio in Cile
1
Bailando
Enrique Iglesias
Attore e cantante spagnolo che conta
all’attivo oltre 100 milioni di dischi
venduti in tutto il mondo.
2
Adrenalina
Jennifer Lopez e Ricky Martin
Un inedito duetto di due icone del pop
latino di orgine portoricana.
3
Magic
Coldplay
Singolo dell’album Ghost stories del
gruppo britannico di alternative rock.
4 settembre
Roma
Alla Città dell’Altra
Economia concerto
di Alpha Blondy,
uno dei principali
interpreti del reggae
africano.
www.alphablondy.info
16 settembre
Milano
Concerto dei Master
Musician of Jajouka,
band marocchina
che suona musiche
berbere e sufi.
www.jajouka.com
STRUMENTI
Trutruca
C
i sono suoni che vengono dalla fine del
mondo: quello della trutruca è uno di
questi. Aerofono a forma di corno piuttosto
lungo, è uno degli strumenti tipici dei mapuche, gli abitanti originari della Patagonia.
Ricavato dalla colihue (un tipo di bambù), ha
una canna la cui lunghezza può variare dai
2 ai 5 metri, con diametro tra i 2 e i 10 cm,
ripiegata e avvolta su se
stessa in modo circolare, alla cui estremità sta
un corno di vacca.
Tradizionalmente
la
trutruca è ricoperta di
filamenti di intestini di
animale oppure di fili di
lana, i cui colori richiamano quelli della tribù di
appartenenza. Anche il
corno bovino viene fissato con questi filamenti.
Oggi, sempre più spesso, la colihue, la canna
vegetale, viene sostituita con tubi di plastica
come quelli usati per l’acqua, ma la forma
rimane identica a quella del passato.
Il suono della trutruca può essere piuttosto
potente e siccome questo corno mapuche
non ha fori per l’esecuzione delle note, i diversi suoni armonici sono ottenuti attraverso
la pressione delle labbra sull’imboccatura e
l’intensità del soffio del suonatore. Date le
dimensioni, la trutruca viene appoggiata al
terreno o su un tronco per poterla suonare.
Secondo la tradizione, questo corno sudamericano veniva impiegato
in occasione di rituali
come il guillatún, il camaruco e il loncomeo
(riti di connessione con
il mondo spirituale per
richiedere protezione,
grazie e benefici), oltre a
cerimonie funebri.
La trutruca viene suonata solo dagli uomini,
e il suo suono ricorda
qualcosa a metà tra un
trombone e i corni alpino e tibetano. Ad oggi
utilizzata solo in occasioni legate alla cultura
mapuche, non è praticamente diffusa al di
fuori della sua area di origine.
a.a.
Gustare
La cucina esotica
del Nuovo Mondo
••••••••••••••••••
La ricetta
•••••••••••••••••••
Se molti prodotti americani contribuirono a
cambiare i gusti europei, la cucina indigena si è
preservata invece intatta fino ai nostri giorni
TORTA DOLCE DI CAMOTE DELL’ECUADOR
Un chilo di camote viene pulito, cotto e passato nel passaverdura. Il composto viene unito a tre cucchiai di burro,
una tazza di zucchero, due cucchiai di cannella in polvere, rum e tre rossi d’uovo. Al composto, ben mescolato
si aggiungono canditi e tre albumi montati a neve (unendoli delicatamente). Si mette nel forno a 250° per circa
25 minuti finché la superficie sarà ben dorata. Se si vuole la torta più morbida si può usare il lievito chimico.
D
opo che le caravelle di Colombo ebbero
aperta la strada verso le Indie, sull’Oceano Atlantico
si incrociarono per secoli
le rotte dei conquistadores
diretti nel Nuovo Mondo e
quelle di chi da quel continente appena conosciuto
portava in patria i tesori
scoperti. Patate, pomodori, peperoni, peperoncino,
mais e fagioli approdarono
dunque sulle coste del Mediterraneo come alimenti
esotici e modificarono per
sempre la fisionomia della
cucina europea.
Lo stesso non accadde nel
continente americano. Perché i conquistatori portarono alcuni prodotti del Vecchio Mondo, ad esempio
l’aglio, alcune tecniche, ad
esempio l’arte di friggere
gli alimenti, alcuni condimenti, come il grasso di
maiale (in forma di lardo
fresco, salato e strutto) e
l’olio d’oliva per i giorni
di magro. Ma, soprattutto,
portarono con sé il desiderio di non allontanarsi
troppo dai sapori di casa e
quello di distinguersi dalle
popolazioni native e dalle loro cucine. Che erano
molto diverse: anzitutto
Campesinos sudamericani
raccolgono camote.
usavano alimenti difficili
per il gusto europeo, come
tuberi e semi, una mescolanza di sapori dolcepiccante, animali selvatici,
insetti, larve e crostacei
(questo ricorda Bernardino
di Sahagún, impressionato
dalla varietà di prodotti
venduti nei mercati aztechi). Tutte cose poco apprezzate dai nuovi venuti.
Ma era soprattutto il desiderio di non confondersi
con gli indigeni, dei quali
si sentivano superiori, a
creare il confine tra la cucina degli spagnoli e quella
locale. E anche se i bianchi
verso expo 2015
Una ricerca lunga diecimila chilometri
U
n tragitto di 10mila chilometri da percorrere in nove mesi (marzo-dicembre 2014)
senza usare mezzi motorizzati. È il viaggio
ecocompatibile Esmeralda Expedition che
sta intraprendendo il piacentino Francesco
Magistrali, partito il 17 marzo per Ushuaia
(unico tratto in cui si prende l’aereo) passando per Santiago del Cile, il deserto di Atacama, il deserto di Sale Salar de Uyuni, per poi
risalire il Rio delle Amazzoni fino allo sbocco
sull’Oceano Atlantico. Magistrali viaggerà su
una canoa che diventerà la sua casa, ma si è
dotato anche di un’amaca per le tappe nella
foresta.
64 Popoli agosto-settembre 2014
Esmeralda Expedition nasce da una collaborazione con l’Università Cattolica di MilanoLaboratorio ExpoLab. Francesco Magistrali
farà da ricercatore in loco.
Focus della spedizione sarà la conoscenza
delle abitudini alimentari delle comunità locali
attraverso l’analisi dei consumi. Grazie ai dati
che la spedizione sta raccogliendo si potranno
redigere rapporti sulle culture alimentari e sulla
sostenibilità delle produzioni agroalimentari sudamericane. Durante il viaggio verrà calcolata
anche l’emissione di anidride carbonica (trasporti, cibo, energia) prodotta da Magistrali.
Info: www.esmeraldaexpedition.com
dovettero affidarsi alle arti
culinarie delle donne indigene, quella che ne derivò fu una coabitazione di
sapori e di tecniche e non
una creolizzazione come ci
si poteva aspettare.
Gli indigeni, dal canto loro,
continuarono ad alimentarsi con il chuño, una patata disidratata, a riempire
di peperoncino lo stufato
(locro), a tostare e bollire
il mais. E anche oggi le
cucine indigene si distinguono perché conservano
l’uso di prodotti arcaici locali, mai giunti in Europa,
come l’uncucha, l’achira, la
mashua, la yuca e l’ullucu.
(C. Boudan, Le cucine del
mondo, Donzelli, 2005).
O come il camote (Ipomea
batatas Lam), una patata
dal colore giallo o violaceo, dolce, conosciuta in
migliaia di varianti e coltivata sulle Ande e in tutto
il Sudamerica fin dall’antichità. Che non smette di
ricordarci quanto esotico
fosse il Nuovo Mondo raggiunto dalle caravelle.
Anna Casella Paltrinieri
RETROGUSTO Locali etnici con una storia dietro
Taverna catalana
C’
è una piccola «isola» catalana
in Sardegna. È Alghero, conosciuta anche come Barceloneta
(piccola Barcellona). Nella città sulla
costa occidentale, conquistata dai
catalano-aragonesi nel 1354, non si
parla sardo, ma un dialetto molto
simile al catalano. Questa sua specificità culturale è stata riconosciuta
dallo Stato italiano e dalla Regione
Sardegna che tutelano il catalano
come lingua minoritaria e ne autorizzano l’insegnamento nelle scuole e
l’utilizzo negli atti pubblici. La stessa
Generalitat de Catalunya, il
governo della regione Catalogna (Spagna), ha aperto da
anni una sede istituzionale
ad Alghero per mantenere vivi
i rapporti con la città della
Sardegna.
La specificità algherese però
non si limita alla lingua, ma
interessa diversi aspetti della vita
culturale della città. Non ultima la
cucina. Tra gli appassionati di gastronomia, Alghero è famosa per alcuni
piatti che mescolano sapientemente
la tradizione sarda e quella catalana:
famose sono l’aragosta algherese,
la coppazza (zuppa di pesce) e gli
spaghetti ai ricci di mare, ma anche
la paella, la crema bruciata (simile
alla crema catalana) e il menjar blanc
(un dolce a base di crema portato in
Sardegna proprio dagli aragonesi).
Questa tradizione culinaria è viva ad
Alghero. Tra i locali che si richiamano
ad essa c’è anche la Taverna Catalana. A crearla è stato Daniele Falconi.
«Sono algherese al 100% - dice orgoglioso delle sue origini - anche se
il mio cognome non è di quelli tipici
della città. Però sono molto legato
alla nostra storia e al legame con
la Catalogna». Non è un caso che il
suo locale sia arredato in completo
stile catalano: con legno a vista, foto
storiche, botti e una grande bandiera
con i colori giallo-rossi della bandiera di Alghero ripresi da quella della
Catalogna. «Il legame con Barcellona
e la sua regione è forte - continua Falconi - e sono contento che il catalano
sia insegnato nelle scuole perché ci
permette di non disperdere la nostra
tradizione». Nel suo ristorante, secondo la tradizione della cucina
iberica si servono piatti combinati di carne e verdure, ma
anche la paella, le bruschette
e i dolci catalani.
TAVERNA CATALANA
Via Asfodelo 47,
07041 Alghero
SORSEGGI
Tchapalo
A
ncor prima che i colonizzatori europei ne introducessero la produzione
industriale, in Africa era molto diffusa la
produzione artigianale di birra. Senza
risalire ai regni dei faraoni in Egitto,
molti popoli sia nelle regioni orientali
(in Etiopia per esempio) sia in quelle
occidentali ottenevano
bevande fermentate dai
cereali.
Il tchapalo della Costa
d’Avorio è un esempio di
quanto stiamo affermando. Diffusa tra le popolazioni di etnia sénoufo,
lobi e koulango, questa
birra di miglio ha un ruolo importante non solo
come bevanda da consumarsi durante
i pasti, ma anche in campo religioso
e sociale. Tradizionalmente viene preparata dalle donne di età superiore ai
quarant’anni che ricevono la ricetta nel
corso della cerimonia di iniziazione. Il
processo di produzione comunque non
è diverso da quello della birra comune e
prevede il germoglio del miglio, la bollitura e la lievitazione. Il risultato è una
bevanda con una gradazione alcolica
tra i 4 e i 6 gradi, a seconda di quanto
è durato il processo di
ebollizione e della qualità
di miglio utilizzato.
Oggi, come in passato, il
tchapalo è utilizzato nel
corso delle cerimonie in
onore degli antenati. Proprio la bevanda e l’ebbrezza che infonde in chi la
beve sarebbe il mezzo per
stabilire un contatto tra
il mondo visibile e quello invisibile. In
Costa d’Avorio addirittura non può essere consumato dai viventi se prima non
è stato offerto agli abitanti del mondo
degli spiriti.
7-10 agosto
Arco (Tn)
Mand’s Stock, rassegna
di musica e cucina
internazionale.
facebook.com/
mandstockfestival
6-9 settembre
Bologna
Sana, salone del biologico
e del naturale.
www.sana.it
Inter@gire
Social media
per il non profit
Ripercorriamo, a beneficio di tutti i lettori
(specialmente di chi lavora nel Terzo settore),
i contenuti di un corso organizzato da Popoli
L
a prima edizione del
corso «Non profit + social media» organizzato da
Popoli lo scorso giugno a
Milano, di cui chi scrive
è stato docente insieme a
Ugo Guidolin, ci ha presentato l’opportunità di
formare gli allievi su un
nuovo concetto di «social
org» e le prassi per attuarlo.
Le sfide che il non profit
ha davanti sono ampie e
impegnative; l’adozione di
un approccio organico ai
media partecipativi e di
modelli di azione integrati
è un’esigenza attualissima,
peraltro perfettamente coerente con il desiderio di
dialogare con un pubblico
più giovane e di imparare a
fare storytelling delle eccezionali realtà di cui il non
profit è testimone.
Ripercorrendo qui quanto
condiviso, contiamo di offrire un’idea di ciò che - sul
tema - può essere utile a
ogni operatore del settore.
I social media sono venuti per restare e lasciare il
segno. Offrono oggi funzionalità che si sintonizzano con bisogni, desideri
e aspirazioni del singolo e
collettive. Lavorano proprio in questo senso, cercando di catturare, incorporare forme di espressione
del sé (dell’io, dell’ego, ma
anche del noi, del voi e
del loro, se vogliamo) in
un insieme di veicoli come
parole, immagini, video,
suoni, grafici, illustrazioni. Accessibilità, mobilità e
ubiquità hanno reso questi
nuovi media parte integrante della nostra vita.
Le comunità presenti nelle
reti digitali - e non solo, perché anche il territorio resta una variabile
chiave - amano contenuti
credibili, trasparenti, affidabili, e questo è bene saperlo perché nessuno più
del non profit li possiede
già. Abbiamo un vantaggio, dobbiamo imparare a
usarlo, ma non siamo soli:
la competizione per l’attenzione è alle stelle. Ecco
che si pone il tema di diventare rilevanti, ed ecco
i fondamentali di una content strategy: offrire informazioni utili e pertinenti,
che il pubblico vive come
un valore, un dono, e fornirli dove, come e quando sono significativi. Per
farlo, bisogna conoscere
profondamente il nostro
pubblico, dai desideri ai
ritmi della giornata tipo,
passando per i temi sensibili e l’apertura al coinvolgimento in (buone) cause,
le nostre.
Si deve procedere con una
mappatura delle parole che
connettono l’associazione
non profit e il pubblico,
pianificando e attuando
poi un coinvolgimento che
trasformi tutto in «noi»,
senza più distinzioni. Con
le parole si costruiscono
mondi, e nei mondi ci sono
persone che quelle parole
le usano, le rendono vive:
gli influencer, gli influenti.
Con strumenti gratuiti che
si trovano in rete (es. Alexa
e Klout) e un attento lavoro di raccolta e confronto
dati, si può realizzare una
lista di influenti sui social media, da classificare
e organizzare secondo criteri significativi. Quindi,
assegnare priorità e livello
di relazione, coinvolgendo
anche il proprio presidente, che probabilmente sarà
chiamato a curare alcuni
rapporti direttamente.
Lo stesso presidente deve
essere su Twitter, Linkedin,
forse Facebook: questo fa
parte del nostro agire, informare, comunicare, coinvolgere. Aiutiamolo. Tutti
abbiamo da imparare da
tutti; abbiamo fatto il caso
della Coca Cola, citato il
DECODE
Raccontare il mondo con il pollice alzato
È
scrittore e fotografo ma, prima di tutto, un viaggiatore: Juan
Pablo Villarino, argentino, nel 2005 ha iniziato a viaggiare
in Europa, Medio Oriente, Asia e Sud America, zaino in spalla.
Un giro del mondo in autostop per raccontare l’ospitalità del
mondo. Dal 2010 condivide questa passione e filosofia di vita
con Laura Lazzarino.
Nei loro viaggi hanno contato sull’aiuto di persone di ogni etnia,
religione e nazionalità: abitanti di villaggio, camionisti, insegnanti, soldati; sono stati ospiti di persone semplici, autorità
o… costruttori di armi belgi che ballano la lambada.
I due «acróbatas del camino» hanno così iniziato a cercare
un modo per restituire quanto ricevuto dalle comunità che
incontravano sulla loro strada. Nel 2009 è nato per questo
l’Educational Nomadi Project (acrobatoftheroad.blogspot.it/p/
educational-project.html), un programma che si fonda sul principio della bontà intrinseca dell’essere umano, sul cooperativismo e la diversità culturale.
66 Popoli agosto-settembre 2014
Nei propri zaini i due portano con sé un proiettore portatile
grazie al quale organizzano proiezioni fotografiche e conferenze
nelle scuole di città, villaggi, borghi e comunità che visitano durante il viaggio intorno al mondo. L’obiettivo di queste lezioni è
combattere gli stereotipi veicolati dai mass media, mostrando
la realtà con testimonianze di prima mano e fotografie.
È un modo diverso di promuovere una conoscenza orizzontale
tra popoli, senza mediazioni. Come racconta Juan Pablo, «nei
sobborghi affollati di Cali, in Colombia, gli adolescenti imparano
che tutti gli arabi sono terroristi. E gli adolescenti in Afghanistan hanno sentito che tutti i colombiani sono spacciatori.
Come si fa a uscire da questo circolo vizioso?». Lo stesso vale
per i grandi temi dell’ambiente, dello sfruttamento minerario,
della lotta per l’acqua, della violenza di genere.
Dopo tutto, come diceva Miguel de Unamuno, «il razzismo si
cura viaggiando»: una riflessione da non trascurare in questa
stagione di vacanze e viaggi.
Antonio Sonzini
[email protected]
discorso di Melinda Gates
sulle tre cose che il non
profit deve imparare dalla
multinazionale americana.
Loro riescono a essere capillari, a portare una lattina nei posti più remoti, noi
ancora no; loro riescono
a incarnare un’aspirazione
(«Vuoi avere tanti amici?
Bevi Coca Cola»), noi ci
stiamo lavorando.
Capito che cosa amano le
comunità in rete, reso visivamente chiaro chi siamo
con una tag cloud di parole chiave, individuati bene
temi e parole per cui siamo
riconoscibili, passiamo alla
content strategy; prima però, definiamo social media
e social network: i primi
sono tutti i siti in cui le
persone interagiscono liberamente scambiando
informazioni con un mix
multimediale, mentre i secondi sono una sottocategoria dei social media, al
pari di blog, wiki, virtual
world, social bookmarking,
podcast portal e altro. Nel
Conversation Prism (www.
conversationprism.com), i
social network sono solo
uno dei 26 quadranti.
La content strategy deve
poter contare su di una
fase di lancio tematico o
di campagna forte, che generi il picco iniziale, e su
una serie di tecniche per
favorire la «coda lunga»
di coinvolgimento e partecipazione. Per raccontare
come si generano contenuti
abbiamo spiegato che cos’è
una direzione editoriale e
lo abbiamo fatto con un
numero di Popoli in mano:
temi, rubriche, fonti, firme,
spazi; tipologia di contenu-
ti, se fotografici, infografici, testuali (i media in rete
offrono di più, e abbiamo
sottolineato l’importanza
del suono); spazio ai lettori. Dobbiamo generare un
calendario editoriale; fatto
questo e con le idee chiare
su ruoli, responsabilità, policy e best practices, passiamo alla fase della regia di
produzione: siamo pronti
per pubblicare sui social.
E qui abbiamo raccontato
il mondo di Twitter e Facebook in modo approfondito: come essere efficaci
nel tweeting e nel posting,
le tecniche di visibilità e
coinvolgimento, come e cosa misurare. Abbiamo poi
ragionato sul ciclo di vita
dei contenuti: mappatura
fonti, analisi, organizzazione e cura dei contenuti,
produzione e pubblicazione, monitoraggio.
Da ultimo siamo approdati
a quello che può rappresentare il caso più completo e complesso di relazione
tra attivazione di logiche
di comunità rete-territorio
e media partecipativi: il
crowdfunding. Presentati
i modelli e i nomi delle
principali piattaforme, abbiamo conosciuto il caso
di studio di Compagnia del
Perù: un esempio che integra il personal fundraising
e fonde reti e territorio, relazione diretta e media(ta),
influenti e coinvolgimento
diretto, programmazione e
flessibilità, impegno e risultato.
E buon lavoro!
Giovanni Vannini
GooglePlus:
+GiovanniVannini
@giovvan
+
NON PROFIT
SOCIAL MEDIA
Nell’ultimo anno il settore del Non-profit ha cominciato a
sfruttare con decisione e successo i social media soprattutto
per cercare visibilità e sensibilizzare alla propria causa.
Sono le associazioni Non
Profit che dichiarano
di utilizzare i social network.
Il 51% da prima del 2011.
90%
UTILIZZI & BENEFICI
72%
70%
43%
80%
65%
28%
VISIBILITÀ
SENSIBILIZZAZIONE
FUNDRAISING
BeneÞcio
Utilizzo
I SOCIAL NETWORK PIÙ UTILIZZATI
58%
dichiara di non
avere problemi
!
9%
12%
20%
42%
lamenta criticità
relative a tempo e
risorse da impiegare
37%
22%
E IL CROWDFUNDING…?
19%
5,5%
Solo il 19% delle ONP ha fatto almeno una campagna
di crowdfunding e solo il 5,5% ha raggiunto l’obiettivo con cifre non superiori ai 5000,00 euro.
Fonte: Sodalitas.it | InfograÞca di Ugo Guidolin
agosto-settembre 2014 Popoli 67
Benvivere
Frutteti urbani
contro lo spreco
È nata in Italia un’associazione che raccoglie
e distribuisce la frutta dei giardini pubblici
D
al Portogallo, Paese
che sta vivendo una
profonda crisi economica
e sociale, arriva un’idea
interessante di recupero della frutta e verdura,
nata proprio dall’esigenza di risparmiare combattendo
lo spreco. Nel novembre 2013, a Lisbona ha aperto la
prima delegazione
della Cooperativa
Fruta Freia che si occupa di comperare frutta
e verdura dai produttori
piccoli e medi alla metà
del prezzo di vendita. La
cooperativa acquista ciò
che, per questioni estetiche, viene scartato dal
commercio all’ingrosso e
lo rivende ai suoi soci. Un
modo per combattere l’i-
nefficienza del mercato e
creare invece un luogo di
scambio parallelo e alternativo per i consumatori e
gli agricoltori.
Mutuando l’esperienza
portoghese è nato
a Roma, pochi mesi
fa, il progetto Frutta Urbana. Si tratta
del primo progetto
in Italia di mappatura, raccolta e
distribuzione della
frutta che cresce nei giardini pubblici. In questo
modo l’iniziativa intende
creare occupazione durante i periodi di raccolta e
distribuzione della frutta, ma anche nelle fasi di
manutenzione dei frutteti
e della creazione di nuovi frutteti urbani e aree
verdi.
La creazione di frutteti
offrirà anche l’occasione
per dar vita a luoghi di
aggregazione sociale e la
possibilità di recuperare
aree abbandonate. Il progetto intende reintrodurre
una cultura ecologica che
salvaguardi la biodiversità
del territorio e sensibilizzi
alla sicurezza ambientale.
Una volta raccolta, la
maggior parte della frutta, viene regalata a mense e banchi alimentari e
ECOJESUITS
Viaggi in aereo? Allora pianta un albero
I
gesuiti della Cambogia hanno dato il
via a un progetto per neutralizzare le
emissioni di anidride carbonica, principale
responsabile dell’effetto serra. L’iniziativa,
destinata in primo luogo ai gesuiti del Paese, ai volontari e agli amici visitatori, offre
l’opportunità a coloro che viaggiano in
aereo da e per la Cambogia di controbilanciare le emissioni di carbonio dei velivoli.
Ecco come funziona: chi partecipa deve
riempire un formulario indicando la rotta
aerea e gli aeroporti di transito da e per la
Cambogia. Viene quindi calcolata l’emissione approssimativa di carbonio secondo
i criteri stabiliti dalla International Civil
Aviation Organization, che tiene conto di
vari fattori come il tipo di aereo, il numero
dei passeggeri e il consumo di carburante.
La quantità di emissione di carbonio è
poi convertita nel numero di alberi che è
necessario piantare e in quanto tempo è
necessario per farli crescere per reintegrare il carbonio consumato in quei viaggi. Il
costo per piantare e far crescere gli alberi
è pagato dal viaggiatore, il quale, a sua volta, riceve un codice che indica l’albero o
gli alberi piantati in Cambogia. «Abbiamo
fiducia che quando il nostro sito Web sarà
in funzione nel corso di quest’anno - osserva padre Gabriel Lamug-Nañawa -, i nostri
sostenitori saranno in grado di identificare
i propri alberi e di verificarne la crescita
attraverso foto fatte periodicamente». L’iniziativa si svolge in collaborazione con il
vivaio di Banteay Prieb, una scuola professionale per disabili diretta dai gesuiti.
solo una minima parte
venduta tramite i Gruppi
d’acquisto solidali, piccoli
ristoranti e negozi. A breve si potranno acquistare
online anche marmellate,
succhi, liquori ottenuti da
questi prodotti. Per sostenere il Progetto Frutta Urbana si può aderire
diventando soci, facendo
una donazione o diventando volontari. Per maggiori informazioni: www.
fruttaurbana.org
Graphic journalism
“I lavori forzati sono una fortuna
rispetto alla situazione in cui mi
trovo ora. Noi non conosciamo
né il motivo né la durata della
nostra condanna”.
“fuori del lager Ogni cosa,
anche la più miserabile
esistenza, è stupenda.
il lager è l’incarnazione
di tutti i mali”.
“diventiamo tutti cattivi
perché siamo affamati.
Diventiamo cinici e arriviamo
a contarci i bocconi.
siamo tutti disperati,
eppure nessuno uccide
perché siamo tutti una
massa di bestie che io
disprezzo. Provo odio
per ciascuno di noi
perché siamo caduti
tanto in basso”…
7/ continua
In quale Paese si trova
questo monastero?
1. Il suo più grande poeta
cantò una stella
2. Ha un’ingente minoranza di «siculi»
3. Include la polenta nella sua cucina popolare
Invia la risposta entro il 30 settembre a
[email protected]. Alla quinta risposta esatta
vinci un Atlante Geografico Moderno De Agostini
2013/2014 (regolamento su www.popoli.info)
La risposta di maggio:
Kaohsiung (Taiwan)
Silvano Fausti S.I.
Biblista e scrittore
Il carcere, la seconda
Chiesa d’Europa
«Il carceriere “fece salire in casa” Paolo e Sila» (leggi
Atti 16,16-40)
L’
incontro di Paolo con il mondo pagano a Filippi
è una sequenza di peripezie. C’è pure la novità
di un mondo fatto di schiavi e padroni. Questo farà
capire a Paolo che la sapienza e la potenza di Dio
differiscono da quella mondana come la vita dalla
morte. Unico potere dell’evangelizzatore è vivere
ciò che dice. Partecipa al mistero del Giusto, che vince il male con il bene. Da qui persecuzioni, battiture,
carcere e minacce di morte; ma anche resurrezione
di carcerati e nascita a vita nuova di carcerieri. Se la
prima chiesa d’Europa è la casa di Lidia, la seconda
è la prigione dove abita un carceriere.
Paolo e compagni vanno dalla casa di Lidia verso il
fiume per pregare. Nel cammino, a «evangelizzare»
ci pensa uno «spirito di divinazione». Per i greci è un
dèmone, spirito buono; per i giudei è un demonio,
spirito malvagio. Anche nei Vangeli i demòni proclamano per primi Gesù come Dio. Ma Gesù li zittisce.
È una tentazione. Dio si rivela dalla croce. Solo lì
manifesta il suo potere: amore che serve e dà vita.
Il nostro potere invece è egoismo che schiavizza e dà
morte. L’uomo vuol essere come Dio. Ma quale Dio?
Quello propinato da satana dall’albero nel giardino
(Gen 3,1ss), o quello rivelato dall’albero della croce?
Anche Pietro è chiamato satana perché vuole un
Dio potente (Mt 16,16-23). È quello che le religioni
affermano e gli atei, a ragione, negano.
Paolo scaccia il demonio dalla schiava, anche se gli
fa propaganda gratuita. Ma i suoi padroni, persa la
fonte di guadagno, lo accusano come un giudeo che
turba l’ordine pubblico. Paolo e Sila sono bastonati
e messi in ceppi di legno nel più profondo del carcere, come in un sepolcro. Anche il Cristo che trionfa
sulle «reti e catene» con cui satana imprigiona tutti
è inchiodato al legno della croce. Il terremoto notturno, che apre porte e scioglie ceppi e catene, è una
scena di risurrezione. Il testo è un gioco di liberazioni e salvezze. La donna è liberata dallo spirito
e i carcerati da catene e ceppi. Il carceriere, a sua
72 Popoli AGOSto-settembre 2014
volta, liberato da morte, è battezzato e salvato con
tutta la sua casa.
Se l’esorcismo mostra il trionfo di Cristo sul paganesimo, la liberazione dei carcerati - in questo mondo
siamo un po’ tutti carcerieri e carcerati! - mostra
che Dio vuol liberare l’uomo da ogni schiavitù.
La scena è simile ad Atti 12,3-17. La missione ai pagani è opera di Dio: né battiture né ceppi, né catene
né carcere la fermano. Gli stessi demòni non possono
non favorirla. Davanti al bene il male si dissolve
come tenebra alla luce.
La città di Filippi, colonia romana, è «contesto utile» al confronto tra Vangelo e mondo pagano. Da
tempo i giudei si sono «inculturati», anche se non
senza difficoltà. Sono infatti visti con sospetto. La
tendenza antigiudaica è antica. Pur essendo il giudaismo una «religio licita», tuttavia l’antigiudaismo
è diffuso e tocca anche i giudeocristiani Paolo e
Sila. Dopo l’Editto di Costantino il cristianesimo,
diventato religione di Stato, ha purtroppo ereditato
l’antigiudaismo tipico di tutti i potenti che temono
chi è libero.
La Chiesa d’Europa comincia con persone semplici e
comuni: una commerciante ebrea e un carceriere pagano. Dio si svela a poveri e semplici, ma si cela a
sapienti e potenti. «Dio ha scelto ciò che nel mondo
è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a
nulla le cose che sono» (1Cor 1,28). Il messaggio cristiano attira a sé tutti, perché presenta il Crocifisso.
Egli è «il figlio dell’uomo», che si identifica con
ogni persona. In lui pure l’ultimo degli uomini può
riconoscersi. E anche Dio stesso. Infatti, se togli a un
uomo ciò che ha, resta ciò che è: è semplicemente
uomo. E l’uomo, in quanto tale, è la sola immagine
e somiglianza di Dio.
Per riflettere e condividere
> Perché Paolo e i carcerati sono così liberi da restare in prigione?
> Perché il carceriere è così schiavo da uccidersi?
> Come l’Editto di Costantino danneggiò la Chiesa?