Foa, il sindacato e il fordismo di Elio Giovannini

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Foa, il sindacato e il fordismo di Elio Giovannini
Foa, il sindacato e il fordismo
di Elio Giovannini
Vittorio Foa inizia il suo apprendistato sindacale in un paese devastato. La miseria è grande: ricorda in uno scritto del 1974 che al
primo congresso della CGIL, quello di Napoli del gennaio 1945, «si
era discusso a lungo se fosse preferibile la scala mobile oppure il salario in natura e, in questo caso, se fosse preferibile il pasto caldo alla
mensa aziendale oppure i generi freddi da portare alla famiglia». La
situazione in cui muove i primi passi la Confederazione, ricostituita
dall’accordo dei tre partiti di massa, è drammatica, e spinge al massimo l’esigenza di un forte controllo centrale di tutta la negoziazione
con la controparte padronale. Spiegherà Vittorio nel 1972 che «per
parecchi anni dopo la guerra il basso livello dei salari, al limite della
sussistenza, la riconosciuta necessità di tutelare soprattutto i redditi
minimi, il giustificato timore di ricadere nelle vecchie collusioni riformiste e corporative, indussero la CGIL a delimitare la sfera contrattuale agli accordi interconfederali rifiutandosi di dar vita a livelli
inferiori di contrattazione, con la sola eccezione (peraltro quasi mai
applicata) dei contratti nazionali di categoria».
Si trattava di una contraddizione con la linea autonomistica ufficiale del nuovo sindacalismo libero ed insieme anche di una prosecuzione del rigido inquadramento corporativo; indipendentemente
dalle intenzioni, la centralizzazione contrattuale coincise con la collaborazione confederale con il governo di coalizione, in vista di un
fine che fuoriusciva dalla sfera del contrasto di classe ed investiva la
ricostruzione economica, cioè di fatto la ricostruzione capitalistica
del paese. Che è del resto quello che Togliatti aveva scritto nel 1946
teorizzando la prima formula di compromesso storico: «la direzione
della vita economica – e quindi anche del risanamento finanziario e
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della ricostruzione – [va] lasciata, nei punti decisivi alle forze conservatrici».
L’effetto di questa linea sindacale – come osserva Foa nel 1958 –
è stato quello di allineare «i salari contrattuali al livello consentito
dalle imprese marginali», col «risultato di alimentare anche per
questa via (con delle quasi rendite salariali) la base finanziaria della
gigantesca ricostruzione in senso monopolistico del capitalismo italiano, gli alti e rapidi tassi di accumulazione e quindi di autofinanziamento, la crescente indipendenza dei maggiori gruppi industriali
dal mercato creditizio».
Negli anni Cinquanta avviene la grande trasformazione: in Italia
cambiano l’economia, la società e il lavoro. Intanto l’economia. Dal
1951 al 1958 il tasso annuo di crescita del PIL è del 5,5%, i maggiori investimenti sono nell’edilizia, nei lavori pubblici, nell’agricoltura,
ed aumenta la domanda interna. Nel quinquennio successivo fino al
1963 il PIL aumenta ad un livello mai ottenuto dalla nascita dello
Stato unitario, 6,3% annuo. E stavolta sono le macchine e gli impianti industriali ad aumentare ad un tasso annuo del 14% (contro il
6% dei sette anni precedenti): l’intera produzione industriale, in testa metalmeccanica e chimica, è più che raddoppiata e l’esportazione aumenta ad una media annua del 14,5%. Il reddito pro capite
italiano dal 1952 al 1970 cresce più rapidamente che in ogni altro
paese europeo (esclusa la Germania Occidentale) e passa da 100 a
234,1, in Francia da 100 a 136, in Inghilterra da 100 a 132. L’Italia
aveva raggiunto il 60% del reddito pro capite francese, l’82% di
quello inglese.
Cambia la società. Intanto gli occupati in agricoltura sono diminuiti di 3.000.000, dal 40% al 25%, mentre gli attivi nell’industria
sono passati dal 32% al 40%, quelli nei servizi dal 28% al 35%. Sono
cambiati col reddito le condizioni di vita ed i consumi a partire da
quelli alimentari: l’altezza media alla visita di leva dei nati nel 1963
(1,73) è di 4,5 cm superiore a quella dei nati nel 1947. La distribuzione geografica e quella sociale della popolazione italiana sono
sconvolte: dal 1955 al 1971, 9.140.000 persone abbandonano la
propria regione. E cambia anche il lavoro. Con la ristrutturazione
industriale dappertutto sono cresciuti i carichi di lavoro ed è diminuito il peso del sindacato: nel 1946-1952 nelle sole aziende controllate dall’IRI sono stati licenziati 75.000 operai. Quello che una
CGIL indebolita dalla scissione contesta in quegli anni come «super96
sfruttamento» è in realtà una profonda modifica dell’organizzazione
del lavoro: soprattutto all’inizio degli anni Sessanta la produzione in
serie prende la forma di un lavoro meccanico e ripetitivo eseguito
ad alta velocità e con poche pause nell’arco di una più lunga giornata lavorativa.
Il sindacato degli anni Cinquanta fa un’enorme fatica a leggere
dietro all’attacco ai posti di lavoro i termini nuovi della rivoluzione
che investe l’economia. Lo stesso Foa nel maggio del 1953, mentre
denuncia «la minaccia sulle produzioni industriali di base», sostiene
che «il sistema produttivo italiano attraversa un periodo di stagnazione e di indebolimento dei fattori di progresso e di sviluppo […]
la causa di questa situazione risiede nel rafforzamento degli elementi parassitari del grande capitalismo nostrano». Ma, come scrive
Paul Ginsborg, «l’intera sinistra italiana era convinta che l’industria
del paese si trovasse in condizioni di decadenza, e che dovesse essere salvata dal comportamento irresponsabile del capitalismo monopolistico». Rileggendo la storia di quegli anni nel 1991 Foa scrive
che «disoccupazione e smobilitazioni erano vissute come fenomeni
di crisi. La cultura della sinistra politica e sindacale era tutta centrata sulla crisi più o meno generale dell’economia capitalistica. Quelle
che erano necessarie riconversioni produttive erano considerate
come segnali di abbandono di ogni idea di sviluppo da parte della
borghesia. Lo stereotipo della sinistra era il messaggio di Stalin:
«Raccogliere dal fango le bandiere lasciate cadere dalla borghesia».
Questa cultura della crisi diffusa per molti anni in forme diverse
predominava proprio mentre stavano gettandosi le basi del più intenso sviluppo industriale della nostra storia». Nel 1975 Foa ricostruisce il senso della difficile battaglia combattuta dal sindacato in
quegli anni: «solo le ristrutturazioni, e non la repressione amministrativa hanno reso possibile l’attacco alle avanguardie di lotta. I capitalisti hanno riconquistato il controllo sulla forza lavoro con un
procedimento articolato, capace di usare la stessa crisi come arma
importante e collegando elementi tecnici e di organizzazione del lavoro con modificazioni nella politica di mercato e con una spregiudicata utilizzazione degli strumenti della politica economica. L’esperienza ha dimostrato che la resistenza fu possibile e poté convertirsi
in una strategia offensiva solo affondando le radici nella condizione
proletaria, dentro la fabbrica e fuori, unificando e non dividendo
coscienza di classe e coscienza politica».
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L’inizio del «ritorno alla fabbrica» e della lotta per il rinnovamento della politica contrattuale della CGIL può essere fatto risalire a
quella riunione del Comitato direttivo che si tiene dopo la clamorosa sconfitta della FIOM nelle elezioni di Commissione Interna alla
FIAT. Verrà dopo il dibattito del 1956 su Lavoratori e progresso tecnico, per finire col Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano. Di
questa lunga battaglia Vittorio Foa, segretario della FIOM e poi della
Confederazione è un protagonista.
Già nella piattaforma congressuale dei metalmeccanici (1955) si
afferma che «è necessario porre fine alla intensificazione sfrenata
dello sforzo lavorativo che finisce col far perdere gran parte del suo
valore allo stesso contratto collettivo di lavoro, e che strumento fondamentale per questa azione è la affermazione del pieno diritto dei
lavoratori e del loro sindacato di negoziare liberamente non soltanto il loro salario ma anche la durata del lavoro e tutte, nessuna
esclusa, le condizioni effettive della prestazione lavorativa (tempi di
lavorazione, tariffe di cottimo, velocità della catena, condizioni di
igiene e sicurezza, sistemi di incentivi alla produzione […])». Nello
stesso anno, a dicembre, Foa scrive su Rassegna Sindacale: «Bisogna
rendersi pienamente conto che la conoscenza di massa delle condizioni oggettive del processo di accumulazione nelle grandi fabbriche è insostituibile e insuperabile strumento per rafforzare la lotta
[…] ci troviamo ad operare in questo tempo di profonde trasformazioni industriali che preludono con ogni verosimiglianza ad una
nuova rivoluzione industriale, o noi sappiamo diventare soggetti attivi di questa trasformazione oppure ne saremo, come movimento
di classe, esclusi […] se oggi i lavoratori non possono più contrattare il loro salario senza rivendicare una dose più o meno ampia di
controllo sulle condizioni oggettive della prestazione del lavoro, e
quindi della organizzazione aziendale, questa via, pur così avanzata,
è una via obbligata».
Il neocapitalismo è una realtà è il titolo che Raniero Panzieri, direttore di Mondo Operaio, dà ad un fondamentale articolo del maggio
1957 in cui Vittorio Foa riassume i termini del confronto che ormai
da anni divide la sinistra italiana: «chi oggi cercasse ancora la crisi
nel ristagno e nella immobilità e non invece, come è giusto, nei modi
e nelle forme, nuovi e diversi gli uni e le altre, delle forze produttive
messe in moto dalla tecnica e dalla scienza, finirebbe con l’essere travolto da queste stesse forze produttive e lasciare campo libero al po98
tere del nuovo nemico». Solo una valutazione realistica della grande
trasformazione in atto può consentire l’organizzazione di una risposta politica e sindacale all’altezza della sfida. In una sezione socialista
nel dicembre 1960 Foa spiega che «l’analisi della spersonalizzazione
del lavoro, della alienazione, della creazione di un ambiente profondamente dissociato nelle grandi città industriali, analisi che sembrava
concludersi sulla liquidazione dei valori tradizionali del movimento
di classe, oggi rovescia le sue conclusioni; e l’antagonismo di classe
riappare con evidenza e con forza ed in termini nuovi che ancora
non sappiamo cogliere in pieno ma che sta a noi soltanto di saper
cogliere e di saper interpretare». E scrive sui Quaderni Rossi del 1961
che «la condizione operaia di subordinazione e di alienazione nel
luogo di lavoro, la proiezione immediata di questa condizione nella
vita associata esterna alla fabbrica […] costituiscono un punto di partenza imprescindibile per la definizione di una linea per la conquista
della democrazia socialista: in una società industrializzata la prospettiva rivoluzionaria si costruisce sul capovolgimento della alienazione,
sulla liberazione dell’uomo oggi strumento e segmento del processo
produttivo, e sul suo ricollegamento con la società degli uomini».
Come conferma al convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 è proprio
dal grande cambiamento, dall’inserimento delle masse e dei nuovi
operai nel processo di produzione, che occorre ripartire: «questo fa
precipitare rapidamente una serie di problemi che non sono più i
vecchi problemi del livello dell’occupazione, e neanche soltanto del
livello quantitativo dei salari, ma della differenziazione e della valorizzazione della forza lavoro nella sua qualità e nel suo rapporto concreto col processo di produzione».
È nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta che si avvia la faticosa costruzione di un sindacato radicato
nella concreta condizione di lavoro e nel controllo sull’organizzazione del lavoro. Scrive Foa su Quaderni Rossi che «l’impostazione rivendicativa articolata maturò attraverso l’autocritica confederale a partire dal 1955 e trovò la sua più compiuta formulazione nel Quinto
Congresso della CGIL nel 1960. Non si tratta di un semplice decentramento delle rivendicazioni e delle sedi di negoziazione e di lotta
(a livello dei settori, dei gruppi e delle aziende) ma di un orientamento tendente a radicare le rivendicazioni nella realtà concreta del
rapporto di lavoro, costruendo per questa via, attraverso una successione di obiettivi intermedi, un potere sindacale capace di contrap99
porsi in piena autonomia al padrone su tutti gli aspetti della condizione operaia nel luogo di lavoro». Nel 1983 ricorda che «l’aspetto
fondamentale della svolta non fu il decentramento contrattuale ma il
rovesciamento della legittimazione dell’azione operaia. Con un ribaltamento di tipo copernicano il movimento veniva messo con i piedi
per terra, la legittimazione operaia non dipendeva più dall’organizzazione e dal sistema politico, ma saliva dalla classe».
Il 1969 restituisce ai lavoratori la sovranità contrattuale: come
scrive Foa, la piramide è stata capovolta e rimessa coi suoi piedi per
terra. «Si rompe, per la prima volta in modo compiuto dopo l’aprile
1945 ed in modo molto più organico, il rapporto fra paga e rendimento», commenta nel 1975. Nel marzo del 1969 scrive che «negli
ultimi mesi si sono diffuse le rivendicazioni ed anche le conquiste in
ordine al controllo operaio e sindacale sulla organizzazione del lavoro (carichi di lavoro, ritmi della catena, ambiente di lavoro): sono
rivendicazioni più contestative nei confronti dell’assolutismo capitalistico nella produzione e che agevolano una presa di coscienza più
diretta del rapporto di produzione e dello scontro di classe». Al
Congresso di Livorno del giugno può affermare che «il fatto nuovo
del rinnovamento sindacale italiano è che oggi sta generalizzandosi
la capacità operaia e sindacale di contestare l’organizzazione del lavoro». E in un dibattito torinese del 1972 sottolinea che sono stati
«gli operai che hanno lottato nelle grandi aziende in barba agli accordi di tregua ed hanno ottenuto quello che ritenevano di dover
chiedere. Il riconoscimento della libertà di iniziativa operaia è stato
poi registrato nei contratti del 1969, a partire da quello dei metalmeccanici, ma solo dopo che gli operai avevano sfondato la resistenza padronale nelle fabbriche».
Vittorio ricorda nel 1983 questa straordinaria stagione del movimento operaio italiano: «Vi sono state fasi nelle quali la cultura
della organizzazione e la cultura operaia si sono avvicinate, fino
quasi ad identificarsi: questo è stato, per esempio, nei momenti alti
delle lotte fra il 1960 e il 1973, quando così la cultura dell’organizzazione come quella dei lavoratori ponevano al centro la fabbrica e
la condizione operaia nel luogo di lavoro». Ma il quadro sta cambiando e non a caso nel commiato ai compagni del 26 settembre
1970 Foa dichiara che «il sindacalismo è oggi un terreno dello scontro di classe».
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Foa e la svolta degli anni Settanta: dopo la centralità
operaia verso la complessità sociale
di Pino Ferraris
Ho scelto di offrire alcuni spunti di riflessione sugli anni Settanta
di Vittorio Foa perché nel lavoro di introduzione alla nuova edizione della Gerusalemme rimandata avevo già sfiorato alcuni problemi
politici e di analisi sociale che Vittorio si veniva ponendo nel corso
di questo decennio. Quando ho consultato la mole degli scritti, degli interventi, delle interviste di quel decennio, che Vittorio ha raccolto e conservato, mi sono trovato di fronte a problemi imprevisti e
inattesi.
Nel capitolo del Cavallo e la torre intitolato «Anni Settanta: il declino della sinistra» Foa rievoca in modo piuttosto sommario la sua
attività politica del decennio. In apertura del capitolo scrive: «Perché mai ho dimenticato quasi tutto della mia attività politica negli
anni Settanta?». Nelle prime pagine ricorrono parole amare per descrivere quello che definisce «periodo di disagio», «fase di opacità».
Sicuramente è questo il periodo più tormentato, complesso e di
difficile lettura della biografia politica di Vittorio Foa. Le carte documentano un impegno politico molto generoso, fitto di incombenze e di iniziative. Egli si spende a fondo in tutti gli aspetti della lotta
politica: comizi e apparizioni televisive, candidature al Parlamento,
noiose e interminabili discussioni di comitati centrali, attività giornalistica quotidiana nella direzione del Manifesto.
Ci troviamo di fronte ad una straordinaria ricchezza di materiali
dispersi e abbandonati che pongono l’esigenza di una raccolta sistematica e di una meditata riflessione storiografica che dovrebbe
andare ben oltre l’affrettata lettura che di essi ho potuto fare.
Inoltre per ricostruire in modo più solido e completo il Vittorio
Foa degli anni Settanta si dovrebbe cercare di condurre ad unità la
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sua intensa attività immediatamente politica, il suo privato laboratorio di scrittura della Gerusalemme rimandata e il contemporaneo impegno didattico presso l’Università di Modena. Il confronto modenese con Ferdinando Vianello, con Andrea Ginzburg e Sebastiano
Brusco è fondamentale per rischiarare l’analisi di Foa della stagflazione, per comprendere i «criteri» di politica economica di un governo delle sinistre e per ricostruire il suo pensiero sulla «riforma
della paga».
È difficile una ricostruzione di ciò che egli pensa, propone e realizza senza inserirlo dentro le tensioni e le contraddizioni del contesto storico di un decennio che resta ancora oggi tra i più riluttanti
ad una compiuta e condivisa interpretazione storiografica. In questo
breve intervento mi limiterò ad offrire alcuni stimoli e ad avanzare
alcune sommarie ipotesi di lettura che si aggiungono alle osservazioni già espresse nella Introduzione alla Gerusalemme rimandata.
Per avere un’idea di ciò che ha significato la scelta di un personaggio della statura di Vittorio Foa, al momento dello scioglimento
del PSIUP (luglio 1972), di costruire un piccolo raggruppamento
politico alla sinistra del PCI che raccoglieva socialisti di sinistra, cattolici dell’MPL e sindacalisti della CGIL e della CISL, vale la pena
ricordare un articolo di Giorgio Bocca apparso sul quotidiano Il
giorno del 19 luglio 1972. Bocca scrive che la scelta di Foa di continuare un impegno politico autonomo e in minoranza «è talmente
rara in Italia da apparire ai più incomprensibile. Anche l’estrema
destra facile all’insulto è interdetta». L’articolo si intitola Vittorio Foa
o l’antitogliatti.
Su due punti Bocca vede una radicale differenza tra Foa e Togliatti: il rapporto con il potere e la relazione tra politica e cultura.
Foa, «questo uomo che fa politica e non ha interesse per il potere»,
è l’opposto della Realpolitik togliattiana per la quale il possesso e la
durata del potere sono tutto. «In Togliatti – prosegue Bocca – l’intelligenza e la cultura sono sempre piegate alle esigenze superiori
della politica. In Foa è l’opposto: egli fa politica per arrivare all’intelligenza e la fa appassionatamente perché la considera l’esperienza intellettuale più affascinante».
Vittorio Foa, giovane membro della Costituente e dirigente di
primo piano del Partito d’Azione, abbandona prospettive politiche
di successo per fare il sindacalista a Torino. Dopo decenni di impegno nel sindacato il protagonista della ripresa sindacale degli anni
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Sessanta, invece di «salire sull’arca del PCI, affronta il mare in tempesta sull’ultima malconcia scialuppa dell’affondato PSIUP».
In questo modo, recita il sottotitolo dell’editoriale, «egli rimane
fedele a se stesso, al suo moralismo, al gusto per le imprese difficili
e la sfida intellettuale». Bocca conclude: «Buona fortuna, caro Foa, e
scusa la nostra irrimediabile vecchiaia». Eravamo nel 1972: quanti
di noi vissero, nei decenni successivi, il senso della propria vecchiaia
misurandosi con la freschezza e la giovinezza delle sue idee!
Semplificando molto, le linee politiche principali lungo le quali si
muove Foa in quegli anni sono tre. Il tentativo di far convergere
verso un indirizzo unitario, propositivo e istituzionale le forze politiche giovani e radicali emerse dal fermento sociale di quel periodo.
La transizione del controllo operaio come rigidità sul posto di lavoro verso l’iniziativa per il controllo dei tempi di lavoro in flessibile
corrispondenza con i bisogni insorgenti nei tempi della vita. La ricerca di evitare rottura e incomunicabilità tra la classe operaia centrale e garantita delle grandi fabbriche e l’area della cosiddetta «seconda società» del lavoro periferico e della disoccupazione intellettuale.
Occorre mettere in rilievo che, a partire dal 1972, si realizza una
svolta duratura nella forma e nella sostanza dell’impegno di Vittorio
Foa rispetto ai due decenni precedenti. In un’intervista rilasciata a
Rocco Pellegrini e a Guglielmo Pepe che risale alla fine del 1977
Foa accenna di «aver sperimentato intensamente il lavoro di partito,
subito dopo la Liberazione, nel 1945-47, in uno dei periodi più torbidi della vita politica italiana». Quella esperienza, aggiunge, ha determinato una reazione di rigetto portandolo a mettere al centro
del suo impegno un sindacalismo militante e fortemente politico
che fosse capace di incidere sui rapporti sociali e di forzare il quadro politico con il quale si confrontava.
Questo suo lungo e prioritario impegno in un sindacalismo militante – aggiunge nell’intervista – lo condusse a sottovalutare importanti battaglie di partito sia nel PSI che nel PSIUP. La nuova fase
dell’attività di Vittorio Foa che si apriva nel 1972 era diversa. Egli
aveva lasciato il sindacato ed ora operava in una dimensione immediatamente politica, anche se conservava un raccordo costante e indissolubile con l’analisi e l’impegno sociali.
Dalla costituzione del PdUP, nel dicembre del 1972, alla proposta del governo delle sinistre del 1974 sino alle Lettere da vicino del
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1986 indirizzate al PCI e alla Questione socialista del 1987 destinata al
PSI, Vittorio Foa è «politico a tutto tondo» che agisce in ambito di
partito o si rivolge direttamente ai partiti. Reinventare la politica è il
sottotitolo dei due interventi di «provocazione» degli anni Ottanta.
Non mi soffermerò su quello che Vittorio chiama l’«ossessivo»,
«accelerato» e «giacobino» tentativo di aggregazioni a sinistra. Questo fu l’aspetto più deprimente e frustrante dell’impegno politico di
quegli anni. Una sua esauriente testimonianza su quelle vicende è la
lunga intervista, già citata, a Pellegrini e Pepe. Esse non meritano, a
mio avviso, ulteriori richiami e particolare attenzione.
Ho ricordato che nel capitolo sul «Declino della sinistra» vi è una
descrizione piuttosto sommaria delle sue proposte e iniziative. Il caso del «governo delle sinistre» è esemplare. Tra il 1974 e il 1976
Foa lavora a segnare le distinzioni tra questa proposta e le esperienze dei fronti popolari; esamina i problemi del rapporto tra un eventuale governo che dovrà nascere coi limiti di un governo progressista moderato e le sue evoluzioni verso posizioni più radicali; si pone
il problema di come si possa governare a sinistra all’interno di una
crisi economica e sociale di grande portata. A Milano ne discutono
Nando Vianello e Michele Salvati. A Roma Vittorio dibatte con Federico Caffè, Sylos Labini e Augusto Graziani.
In una serrata polemica con Gerardo Chiaromonte, pubblicata su
Unità proletaria del 1° maggio 1975, egli raccoglie la proposta di
Riccardo Lombardi nella quale si avanza l’ipotesi che «l’economia
italiana potrebbe funzionare su due settori distinti: uno tradizionale
ad alta produttività, legato alle esportazioni e all’adozione di nuova
tecnologia, e uno nuovo fondato su investimenti ad alta intensità di
lavoro e orientato verso produzioni con forte capacità di soddisfazione dei bisogni collettivi». Questa idea dei «due settori» sarà ripresa da Foa verso la fine degli anni Settanta, in un’ottica totalmente
nuova che prende ispirazione da William Morris e che si colloca in
netta distinzione rispetto alla versione che, poco dopo, ne darà André Gorz nel suo Addio al proletariato del 1980.
Nella proposta del governo delle sinistre Vittorio Foa cerca di far
convergere due istanze fondamentali della sua visione delle dinamiche sociali: controllo operaio e unificazione sociale di un mondo del
lavoro che la crisi (disoccupazione), la ristrutturazione (decentramento) e l’inflazione tendono a lacerare e a contrapporre. È necessario vincere le versioni corporative e di resistenza passiva del con104
trollo operaio. Occorre, operando anche dall’alto, sviluppare il controllo operaio in una più larga capacità di controllo sociale dal basso. La DC – prosegue Foa – non è un mero partito di opinione che
va e viene dal governo, ma è un partito stabilmente inserito in tutte
le sedi del potere amministrativo, giudiziario, militare, economico.
Uscire dal regime democristiano non significa solo operare un ricambio di personale politico, ma occorre inserire elementi di controllo sociale nelle mille articolazioni della struttura del paese.
Nell’analisi della crisi, della stagflazione iniziata nel 73, poi intensificata e prolungata dalla crisi petrolifera, Foa conduce una polemica su due fronti. Polemizza con i comunisti che la interpretano
come una crisi congiunturale richiedente meri interventi correttivi.
Contesta a Lucio Magri e ad economisti dell’estrema sinistra una visione catastrofica della crisi che conduce il capitalismo verso una
«stretta finale». Egli ribadisce che ci si trova di fronte ad una «crisi
di sistema» dalla quale «non si uscirà con le cose come stavano prima». Da essa si può uscire con una ristrutturazione produttiva: sostituzione di macchine automatiche alla forza lavoro, forte decentramento industriale che estende l’area sociale dei lavori precari, occasionali e dell’inoccupazione, azzeramento delle conquiste operaie.
Oppure, senza pretendere di imporre un «modello» alternativo completo, si possono affermare una serie di «criteri» basati sulla priorità
dei bisogni sociali (difesa dei salari e piena occupazione) resi operativi mediante strumenti di controllo sociale per un mutamento delle
condizioni di vita e di lavoro.
Il governo delle sinistre sembrava nel 1974 e nel 1975 «imposto
dalle cose», dalla convergenza tra crisi economico-sociale e la «insanabile crisi della DC». Il risultato elettorale del giugno del 1976 con
l’inatteso «recupero e rinnovamento della DC», la polarizzazione
dell’elettorato sulle due forze maggiori (PCI e DC) che spinge verso
il governo di solidarietà nazionale generano disorientamento e alcuni mesi di faticoso ripensamento da parte di Vittorio Foa.
Un punto di svolta (segnalato anche nel Cavallo e la torre) è rappresentato dall’ultimo scritto di Foa su Il manifesto il 16 febbraio del
1977, il giorno che precede lo scontro di Luciano Lama con il movimento studentesco all’Università di Roma. È l’articolo che passa in
rassegna le «false certezze che si sono polverizzate nell’ultimo anno». Da una parte vi è l’insorgenza dei nuovi movimenti: quello
femminista e quello giovanile del 1977. Dall’altra c’è la dissoluzione
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dei raggruppamenti di «nuova sinistra»: nel novembre 1976 Lotta
Continua si è sciolta a Rimini, nei primi mesi del 1977 il tentativo di
unificazione tra PdUP per il comunismo e Avanguardia Operaia
conduce verso rissosi processi di frammentazione. La questione sindacale torna invece in primo piano. Le «false certezze» che Foa
enumera sono le seguenti: quella della precipitazione a breve termine degli equilibri sociali e politici; quella della impossibilità di
una stabilizzazione capitalistica gestita con una collaborazione dei
partiti di sinistra; quella di una rapida maturazione di uno schieramento unitario di sinistra contro la Democrazia Cristiana. Aggiunge
che «sembra poi praticamente scomparso il vecchio dogmatismo
marxista-leninista». e che è molto logorato l’estremismo come separazione minoritaria dai movimenti e dalle organizzazioni di massa,
in primo luogo dal sindacato.
Lo sviluppo del movimento femminista e il movimento giovanile
del 1977 rendono esplicite due spinte contraddittorie: da un lato
una drammatica frattura interna al mondo del lavoro, dall’altro l’emergere della «dimensione umana dei bisogni della qualità della vita» che vanno oltre la dimensione meramente produttivistica e della
quantità del consumo. Nel Cavallo e la torre Foa scrive che il movimento del 1977 «fu la prima critica ‘di sinistra’ dello stereotipo
della centralità operaia».
Nel corso del 1977, dopo la fase di prevalente attenzione per l’aggregazione politica, Vittorio riprende un discorso sul sindacalismo di
sinistra. Alla sinistra sindacale egli avanza la proposta di una lotta
contro le tendenze corporative della classe operaia centrale e un’apertura sindacale verso i bisogni emergenti dal mondo femminile e
giovanile con l’obiettivo di organizzare e rappresentare il secondo
mercato del lavoro. Tutto ciò comporta «una revisione complessiva e
radicale dello schema organizzativo del movimento operaio».
A sostegno di questa ipotesi Foa recupera ed attualizza le suggestioni che gli provengono dalla sua riflessione sull’esperienza storica
del movimento operaio. Sta lavorando sugli operai inglesi del primo Novecento e sta scrivendo La Gerusalemme rimandata.
Il saggio che esprime in modo più compiuto il pensiero di Foa
nel 1977 appare su Problemi del socialismo nel marzo del 1977 con il
titolo Il sindacato di fronte alla transizione. I limiti maggiori della tradizione del movimento operaio (rivoluzionaria o riformista) consistono, secondo Foa, nella mancata analisi del soggetto sociale prole106
tario, «della sua composizione stratificata e mutevole e soprattutto
delle contraddizioni che non gli danno tregua».
L’innovazione capitalistica è permanente e la risposta operaia è
sempre un intreccio di fasi di difesa e di attacco: nel superamento
delle divisioni tra settori forti e deboli del proletariato «avviene il
ribaltamento della difesa corporativa e il passaggio alla linea del
controllo operaio, il saldarsi di economia e politica, di lotta operaia
e linea di transizione». Il testo di questo saggio viene ripreso e attualizzato da Vittorio nella sua relazione al Quarto seminario del
CENDES sulla Critica della politica della fine di aprile 1977.
Nell’articolo di polemica con la sinistra sindacale, Il gatto e la regina, uscito sul Quotidiano dei lavoratori del 21 ottobre 1977, le annotazioni più interessanti riguardano l’invito a guardare più a fondo
sia nel movimento giovanile e femminile, sia nei comportamenti dei
giovani lavoratori delle grandi fabbriche. «È vero – scrive Foa in
quell’articolo – che nel movimento giovanile sembrano prevalere le
posizioni che negano l’organizzazione e la stessa mediazione politica […] si avvertono però, in una situazione profondamente mutata
(di tardo capitalismo anziché di resistenza artigiana all’avanzata capitalistica) degli echi di una importante tradizione del movimento
operaio, quella anarchica, essa pure molto sensibile ai valori della
persona contro l’impersonalismo e l’autoritarismo dell’organizzazione». E più avanti aggiunge che tendenze nuove e in parte convergenti si possono rilevare «nei giovani operai e tecnici che hanno un
bisogno matto di lavoro e insieme rifiutano il lavoro, hanno bisogno
di politica e rifiutano questa politica, sono proletari ma non credono più all’etica del lavoro salariato».
Rispetto a queste spinte, ancora confuse ed embrionali ma coinvolgenti un settore crescente della società, Foa scorgeva una chiusura e un irrigidimento all’interno dell’area «garantita» della classe
operaia: le capacità di controllo operaio sulle dinamiche organizzative del lavoro si esaurivano mentre cresceva una rigida resistenza
conservatrice di spazi protetti, incapace di confrontarsi positivamente sia con l’innovazione dell’impresa, sia con gli emergenti bisogni e
culture giovanili.
Era possibile, nel 1977, costruire un collegamento attivo tra l’assemblea del Lirico dei Consigli di fabbrica autoconvocati a Milano
nell’aprile, la battaglia politica all’interno dei congressi della CGIL
e della CISL del mese di giugno e il convegno del movimento gio107
vanile a Bologna del 23 settembre? Dal punto di vista «esterno» di
Vittorio questo sarebbe stato il percorso idealmente corretto dell’azione politico-culturale di un sindacalismo di sinistra. Nella drammaticità delle fratture e delle divaricazioni di quell’anno tumultuoso
rendere operativo nella pratica questo disegno era impresa troppo
ardua, se non impossibile. Di qui le incomprensioni di Vittorio con i
suoi compagni della sinistra sindacale che andavano ad aggiungersi
alle delusioni della frammentazione e della involuzione della sinistra politica radicale.
Nel dicembre del 1977 il giornale Lotta continua riporta una conversazione tra Vittorio Foa e Michele Colafato. Vittorio afferma:
«C’è un bisogno di certezza degli operai che è altrettanto se non più
importante del bisogno di salario. La difesa ad oltranza della rigidità contro il ricorso padronale alla mobilità selvaggia va letto come
bisogno di certezza. Certezza significa molte cose per gli operai: conoscenza delle macchine, comunicazione operaia, autoregolazione
dei ritmi […]. Tuttavia – prosegue Foa – la difesa della rigidità presenta il limite di una pura e semplice negazione delle decisioni padronali. Non viene e non è venuta fuori una posizione di lotta che
affermi una mobilità autonoma dell’operaio: «io operaio voglio essere mobile in questa o quest’altra direzione». Bisognerebbe pensare di più questo problema perché non si può immaginare di inchiodare un operaio vita natural durante a un posto di lavoro e poi descrivere questo rapporto di rigidità assoluta come l’optimum della
condizione operaia».
Nel Dialogo con Carlo Ginzburg Vittorio afferma: «Cercavo di capire quali ragioni interne avessero impedito che il controllo operaio
funzionasse […] perché sentivo che c’era qualche ragione per cui
fallivo». Nei primi anni Ottanta Foa elaborerà criticamente la linea
del controllo operaio nell’undicesimo capitolo della Gerusalemme rimandata.
La conversazione con Colafato ha un titolo che segna l’avvio di
un percorso di riflessione fondamentale del Foa degli anni successivi: Il Signor Tempo e l’orologio degli operai. Foa abbozza una visione
del fordismo-taylorismo che va ben oltre il tempo del cronometro e
della cadenza di lavoro, ma che comporta un’organizzazione e regolazione organica e complessiva del rapporto tra gli operai e il
tempo. Essa riguarda il tempo interno alla presenza in fabbrica, ma
anche il rapporto tra tempo di lavoro e ambiti di vita, il percorso la108
vorativo e il ciclo della vita. Se saltano queste sancite divisioni e gerarchie dei tempi, se si incrinano le rigide cadenze e le predeterminate «carriere», allora si apre una sfida generale sul controllo delle
forme e dei modi nuovi della mobilità del lavoro nel tempo scongelato.
Il passaggio di fase verso il post-fordismo, che in quegli anni si
andava realizzando, Vittorio Foa non lo coglie attraverso l’analisi
economica, e, almeno inizialmente, nemmeno nella rivoluzione tecnologica, lo percepisce soprattutto indagando nelle novità del vissuto del lavoro. Le nuove generazioni operaie e soprattutto il lavoro
femminile mettono in crisi l’ideologia lavorista, l’etica del lavoro, il
vivere per lavorare. Cade la vecchia distinzione del lavoro come un
pieno cui si contrappone il non-lavoro come un vuoto: il tempo di
vita esprime crescenti esigenze di valorizzazione e di autonomia che
aumentano la percezione del lavoro come vincolo esterno. Occorre
andare oltre le rigidità del lavoro e cogliere e gestire le esigenze di
elasticità e di mobilità che provengono dal lato del lavoro. Egli anticipa la tesi della rivoluzione del tempo scelto che sarà avanzata dai
sociologi francesi raccolti attorno a Delors.
Sono intellettualistiche le teorizzazioni, come quella di Gorz, circa il «rifiuto del lavoro». La cultura femminista non si stanca di sottolineare l’importanza che ha l’entrata delle donne nel mondo del
lavoro. Ma la valorizzazione del lavoro da parte delle donne non è
assoluta, non ha il carattere unilaterale della maschia coscienza del
produttore. È una valorizzazione del lavoro che non accetta di svalutare ciò che esiste fuori da esso, propone una tesa coesistenza di
valori contraddittori che richiede una complessa e mutevole gestione dei tempi del lavoro e di quelli della vita.
È ciò che si manifesta anche nell’indagine torinese tra i nuovi
operai assunti dalla FIAT negli anni 1977 e 1978. Giovani operai
scolarizzati entrano nel lavoro dopo un non breve periodo di socializzazione metropolitana nel gruppo dei pari che costruisce identità
e stili di comportamento autonomi. Essi portano in fabbrica irrinunciabili esigenze della vita e la ricerca di spazi di libera gestione
del proprio tempo.
Nel movimento operaio prevale la replicante e frontale «mossa
della torre». La «mossa del cavallo» su lavoro e tempo la realizza invece l’azienda quando abbatte il muro, ormai sbrecciato, della rigidità operaia e impone l’inflessibile flessibilità dell’impresa snella e a
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rete. La gestione unilaterale dei tempi del lavoro secondo gli imperativi dell’impresa esige flessibilità interna ed esterna del lavoro,
produce precarietà e mobilità selvaggia. Il tempo imposto irrompe,
contro le esigenze crescenti del tempo scelto, in modo devastante
dentro gli ambiti di lavoro e gli ambiti di vita.
Si stanno ormai facendo i conti con il neo-industrialismo elettronico ed informatico, le vecchie categorie analitiche cadono, gli orizzonti del mutamento sociale debbono essere ridisegnati. Alla fine
degli anni Settanta Vittorio Foa decide i quattro anni di silenziosa
riflessione. Quattro anni di silenzio per un uomo d’azione che ha
ormai settanta anni rappresentano una scelta difficile e dura. Sui tre
fronti principali della sua «avventura» degli anni Settanta (nuova sinistra, riunificazione sociale del lavoro, controllo operaio) Vittorio
Foa è stato sconfitto. Ma proprio dall’interno di quella esperienza e
attraverso la riflessione critica sugli errori e sulle sconfitte egli trova
la forza per esplorare le strade di un nuovo inizio.
Quasi ottuagenario Vittorio Foa lancia una sfida a se stesso e fuori di se stesso scrivendo quello che Andrea Ranieri ha giustamente
chiamato una sorta di straordinario «romanzo di formazione»: Il cavallo e la torre. Di solito i «romanzi di formazione» si scrivono tra i 25
e i 30 anni, quando si è appena oltrepassata la linea d’ombra. Rappresentano un processo di presa di coscienza critica di se stessi e dei
problemi del proprio tempo.
Vittorio Foa pubblica il suo libro quando ha 81 anni. Egli, uomo
che sta tutto dentro il Novecento, riflettendo su se stesso e sulla
propria epoca ci indica i dilemmi del tempo che verrà, del secolo
nuovo.
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