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Il lavoro infantile agli inizi della rivoluzione industriale
Al risentimento verso la macchina si univa l’odio per la fabbrica. È facile comprendere il sentimento di intollerabile repulsione che la disciplina della fabbrica ispirava all’operaio
abituato a lavorare a domicilio oppure nella piccola bottega.
Nella sua casa, malgrado dovesse lavorare molte ore data l’esiguità del guadagno, egli poteva mettersi al lavoro e sospenderlo a piacimento 36, senza ore fisse, dividerlo come voleva,
andare e venire, fermarsi un poco a riposare, e anche astenersene, se così decideva, per due giorni interi 37. Presso la bottega del mastro artigiano, la sua libertà, pur ridotta, era ancora grande 38. Egli non si sentiva separato dal padrone da un
abisso incolmabile e i loro rapporti mantenevano la caratteristica di relazioni personali, da uomo a uomo. Non era sottomesso ad un regolamento inflessibile e trascinato come un
ingranaggio, nell’inesorabile movimento di un meccanismo
inanimato. Entrare in una fabbrica era come entrare in caserma o in prigione. Per questo i fabbricanti della prima generazione trovarono spesso gravi difficoltà a reclutare il personale
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, ed esse sarebbero state ancora maggiori se non avessero
avuto a disposizione la popolazione fluttuante che le usurpazioni dei grandi proprietari cacciavano dall’agricoltura verso
l’industria e dalle campagne verso la città. Attirati dagli alti
salari, alcuni operai giunsero anche dalle parti più povere del
regno, dalle regioni paludose dell’Irlanda, dalle montagne
della Scozia o dal Galles 40. In origine la manodopera industriale fu, quindi, reclutata sia tra gli yeomen rimasti privi di
ogni mezzo di sostentamento, sia tra gli uomini cui la fabbrica offriva una posizione preferibile a quella di cui disponevano.
Nell’industria tessile, i fabbricanti trovarono un’altra soluzione alla loro difficoltà: l’assunzione in massa di donne e, soprattutto di bambini 41. La filatura era un lavoro facile da imparare e richiedeva una forza muscolare non eccessiva. Per
alcune operazioni, la piccola taglia dei fanciulli e l’agilità
delle loro dita erano il migliore ausilio per le macchine 42. Ma
i ragazzi venivano preferiti anche per altri motivi, ancora più
decisivi. La loro debolezza era una garanzia di docilità. Senza
fatica li si poteva ridurre in uno stato di obbedienza passiva
cui gli uomini maturi non si lasciavano facilmente piegare.
Inoltre, costavano molto poco. Talvolta, si pagava loro un
compenso insignificante, che variava da un terzo a un sesto
del salario di un operaio adulto 41, e, in non pochi casi, ci si
limitava a fornire loro vitto e alloggio come pagamento. Infine, erano legati da contratti di apprendistato che li impegnavano a restare in fabbrica per sette anni e, più spesso, fino
alla maggiore età. Era evidentemente interesse degli industriali impiegare il maggior numero di bambini e ridurre in
proporzione quello degli operai. Le prime fabbriche del Lancashire ne erano piene e nelle imprese di sir Robert Peel ne
lavoravano più di mille 44.
La maggior parte di questi sfortunati fanciulli era costituita da
poveri, forniti — per non dire venduti — dalle parrocchie che
li avevano a carico. Per i fabbricanti, specialmente nella fase
iniziale del macchinismo, quando le fabbriche venivano erette fuori e spesso lontano dalla città, non sarebbe stato facile
trovare, nelle immediate vicinanze, la manodopera occorrente. D’altra parte, le parrocchie non chiedevano di meglio che
sbarazzarsi dei ragazzi assistiti 45. Tra i proprie tari di filande
e gli amministratori dell’imposta per i poveri si svolgevano,
cosi, regolari trattative 46 , vantaggiose per le due parti ma
non per i ragazzi che venivano considerati come merce 47.
Cinquanta, ottanta, cento ragazzi venivano ceduti in blocco e
spediti come bestiame alle fabbriche dove rimanevano per
lunghi anni. Alcune parrocchie, per ottenere maggiore profitto, avevano stabilito che l’acquirente avrebbe dovuto prende-
re anche gli idioti nella misura di uno su venti 48. Questi « apprendisti di parrocchia » furono inizialmente gli unici ragazzi
impiegati nelle fabbriche. Gli operai rifiutavano, e a ragione,
di inviarvi i propri 49. Disgraziatamente la loro resistenza non
durò a lungo. Spinti dal bisogno, si rassegnarono a fare ciò
che prima li aveva tanto spaventati.
L’unico fatto che attenua in parte l’odiosità di questi eventi, è
che il lavoro forzato dei bambini non era un male nuovo. Nel
laboratorio domestico lo sfruttamento dei fanciulli era una
cosa naturale. Presso i fabbricanti di chincaglie di Birmingham l’apprendistato iniziava all’età di sette anni 50; presso i
tessitori del nord e del nord-ovest, i bambini lavoravano a
cinque anni o anche a quattro anni, non appena venivano considerati capaci di prestare attenzione e di ubbidire 51. Tutt’altro che indignati, i contemporanei trovarono questo sistema
apprezzabile. Yarranton consigliava la creazione di « scuole
industriali » simili a quelle che aveva visto in Germania, dove
duecento bambine filavano senza posa costrette al silenzio
assoluto, minacciate dalla sferza di una maestra di cui assaggiavano i colpi se non lavoravano abbastanza bene o abbastanza in fretta. « In quel paese — aggiungeva — l’uomo che
possiede più figli è quello che vive meglio, mentre qui chi più
ne ha è più povero; là i figli arricchiscono il padre, qui lo riducono in miseria.» 52 Defoe, visitando Halifax, si meravigliava di vedere dei fanciulli di quattro anni guadagnarsi da
vivere come gli adulti 53. La frase di William Pitt sul lavoro
dei bambini che Michelet, con la sua abituale enfasi di sentimento e di linguaggio, gli ha rimproverato come un crimine,
non era che la banale espressione di un’opinione diffusa 54. Si
dirà che nella vecchia industria il bambino era sempre un apprendista nel vero senso della parola, cioè che imparava un
mestiere piuttosto che essere sottoposto, come avviene nelle
fabbriche, a lavori pesanti? Ma il vero apprendistato poteva
iniziare soltanto quando il bambino era grande abbastanza per
imparare un mestiere e perciò, per parecchi anni, « l’apprendista » non poteva essere altro che un aiutante dell’operaio,
pagato niente o quasi niente. Si dirà che viveva in condizioni
meno sfavorevoli per il suo sviluppo fisico? Ma sappiamo
quali fossero le condizioni igieniche del laboratorio domestico. Che era trattato gentilmente e non lavorava più di quello
che gli consentivano le sue forze? Ma se gli stessi genitori,
sotto il pungolo della necessità, si rivelavano talvolta i padroni più esigenti, se non i più duri 55.
Fatte queste riserve, bisogna riconoscere che, nelle prime filande, la sorte degli « apprendisti di parrocchia » fu particolarmente penosa. Alla mercè dei padroni che li tenevano rinchiusi in edifici isolati, lontano da testimoni che si potessero
commuovere per le loro sofferenze, erano sottoposti a una
schiavitù disumana. La giornata lavorativa era limitata soltanto dal completo sfinimento delle loro forze, e durava quattordici, sedici e anche diciotto ore 56. I capireparto, il cui salario
dipendeva dal lavoro eseguito nei settori che dirigevano, non
permettevano un momento di pausa. Nella maggior parte delle fabbriche, dei quaranta minuti concessi per il principale o
meglio l’unico pasto, venti circa erano dedicati alla pulitura
delle macchine. Spesso, per non fermare le macchine, il lavoro continuava ininterrottamente giorno e notte. In questo caso, venivano formati dei gruppi che si davano il cambio: « i
letti non si freddavano mai » 59. Gli infortuni erano molto
frequenti, soprattutto al termine delle giornate più dure,
quando i bambini, stremati, si addormentavano sul lavoro: le
dita strappate, le membra maciullate dagli ingranaggi non si
contavano più.
La disciplina era selvaggia, se si può chiamare disciplina una
brutalità senza nome e, talvolta, una crudeltà raffinata eserci-
tata a piacere su esseri indifesi. Il famoso racconto delle sofferenze patite da un apprendista di fabbrica, Robert Blincoe,
fa fremere d’orrore 60. A Lowdham, vicino a Nottingham,
dove fu inviato, nel 1799, insieme a ottanta bambini dei due
sessi, ci si accontentava di usare la frusta; ma la si usava dal
mattino alla sera, non solo per riprendere il minimo errore
degli apprendisti, ma anche per incitarli al lavoro e per tenerli
in piedi quando erano sopraffatti dalla fatica 61. Nella fabbrica di Litton era tutta un’altra cosa. Il padrone, un certo Ellice
Needham, batteva i bambini con pugni, calci, scudisciate; una
delle sue gentilezze consisteva nello stringere le orecchie tra
le unghie fino a trapassarle 62. I capi-reparto erano peggiori di
lui. Uno di essi, Robert Woodward, escogitava ingegnose
torture. Fu lui che pensò di appendere Blincoe per i polsi sopra una macchina in movimento il cui andirivieni l’obbligava
a tenere le gambe piegate, di farlo lavorare quasi nudo in inverno con forti pesi sulle spalle e di limargli i denti. Il disgraziato aveva ricevuto tante percosse che la sua testa era coperta di piaghe. Cominciarono allora a curarlo strappandogli i
capelli con una calotta di pece 63. Se le vittime di questa barbarie cercavano di fuggire, non si esitava ad immobilizzarli
con dei ferri ai piedi. Molti tentavano di suicidarsi e una
bambina che, approfittando di un momento in cui la sorveglianza si era allentata, era corsa a gettarsi in acqua, ottenne
la libertà. La mandarono via « temendo che l’effetto potesse
essere contagioso » 64.
Simili brutalità, se non vennero praticate in tutte le fabbriche,
non furono neppure tanto rare come il loro incredibile orrore
lascerebbe supporre 65, e si rinnovarono finché non fu istituito
un controllo molto severo 66. Anche senza malvagi trattamenti, l’eccesso di lavoro, la mancanza di riposo e la natura dei
compiti imposti a bambini in età di sviluppo, sarebbero bastati a rovinare la loro salute e a deformarne il corpo. Si aggiunga a questo, la cattiva ed insufficiente alimentazione: pane
nero, zuppa d’avena, e lardo rancido 67. A Litton Mill, gli apprendisti contendevano ai maiali allevati nel cortile della fabbrica il contenuto del trogolo 68. Generalmente, le fabbriche
erano ambienti insalubri e gli architetti che le costruivano si
curavano poco e dell’igiene e dell’estetica. I soffitti erano
bassi, in maniera da sprecare il minor spazio possibile, le finestre erano strette e quasi sempre chiuse 69. Nelle filande di
cotone, la borra aleggiava come una nube e penetrava nei
polmoni causando, col tempo, gravi scompensi 70. Nelle filande di lino, dove si praticava la « filatura a umido », il vapore acqueo saturava l’atmosfera e inzuppava gli abiti 71.
L’ammassarsi di numerose persone in ambienti chiusi, la cui
aria era ancora più viziata dal fumo delle candele, provocava
una febbre contagiosa simile a quella delle prigioni. I primi
casi di questa « febbre delle fabbriche », furono segnalati nel
1784 nei pressi di Manchester 72. In poco tempo si sparse nella maggior parte dei centri industriali, dove mieté numerose
vittime. Infine, la promiscuità della fabbrica e del dormitorio
favoriva lo sviluppo di una pericolosa corruzione, specialmente quando si trattava di bambini 73, disgraziatamente incoraggiata dall’indegna condotta di alcuni padroni e capireparto che ne approfittavano per dar sfogo ai loro bassi istinti
74
. Per questo insieme di depravazione e di sofferenza, di barbarie e di abiezione, la fabbrica offriva, ad una coscienza puritana, la perfetta immagine dell’inferno 75. Quelli che superavano la prova di questi terribili anni di apprendistato ne
conservavano, impresse nel corpo, le tracce: colonne vertebrali storte, membra deformate dal rachitismo o mutilate dagli infortuni sul lavoro. « Il volto pallido e molliccio, la crescita stentata, il ventre gonfio » 76, contrassegnavano già le
vittime predestinate alle infezioni cui sarebbero stati frequentemente esposti nel resto della loro vita. Il loro stato intellettuale e morale non era migliore. Uscivano dalle fabbriche
ignoranti e corrotti. Durante la loro penosa schiavitù, non solo non avevano avuto nessun tipo d’istruzione, ma non ave-
vano neppure ricevuto, nonostante le condizioni previste dal
contratto di apprendistato, l’educazione professionale necessaria per guadagnarsi da vivere. Sapevano eseguire soltanto
l’operazione alla macchina cui erano stati incatenati per lunghi e duri anni 77. Erano, pertanto, condannati a rimanere
semplici schiavi legati alla fabbrica come i servi della gleba
alla terra.
Non sarebbe però corretto giudicare la condizione di tutto il
personale operaio della grande industria sulla base di quella
degli apprendisti delle filande. Ma, sebbene l’oppressione
esercitata sugli adulti non assumesse la stessa forma dì ripugnante crudeltà, anche la loro vita era molto dura. Le ore di
lavoro erano troppe, i locali di lavoro affollati e malsani, la
sorveglianza tirannica. L’arbitrio padronale, invece che alla
violenza, ricorreva nei loro confronti alla malafede. Dato che
ogni istante di lavoro rappresentava una frazione di profitto
per il padrone, uno degli abusi più consueti era quello di allungare le giornate lavorative, rubando letteralmente una parte del tempo dedicato al riposo. Durante il pasto, l’orologio
della fabbrica andava improvvisamente avanti come per miracolo, in modo che bisognava riprendere il lavoro cinque o
dieci minuti prima dell’ora realmente fissata 78. Talvolta, il
procedimento era più semplice e meno ipocrita: la durata del
pasto e l’ora dell’uscita venivano stabiliti a discrezione del
padrone che proibiva agli operai di portare orologi 79. Scopriamo qui la vera causa dei mali attribuiti al macchinismo: il
potere assoluto ed incontrollato del capitalista. D’altronde, in
questa fase eroica delle grandi imprese, tale potere era riconosciuto, ammesso e proclamato con brutale candore. Il padrone non era tenuto a dare alcuna giustificazione di ciò che
faceva in casa propria. Ai suoi operai, egli doveva un salario ,
pagato il quale, essi non potevano pretendere altro. In breve,
questo era il modo in cui il padrone concepiva i propri diritti
e doveri. Un proprietario di filanda cui era stato chiesto cosa
facesse per i suoi apprendisti malati, rispose: « Quando assumiamo un bambino nelle nostre officine, lo facciamo con
l’assenso dei genitori e ci impegnamo a pagare un certo salario per un certo lavoro. Se questo lavoro non viene eseguito,
il bambino è a carico dei genitori. — Allora l’apprendista non
ha alcuna garanzia di soccorso in caso di malattia? — Se il
padrone si occupa di lui è per pura generosità ». Pura generosità su cui era bene non fare affidamento. Lo stesso industriale interrogato sulle ragioni che lo avevano spinto a fermare le
macchine durante la notte, rispose che l’aveva fatto per lasciare che l’acqua si accumulasse in un deposito, poiché la
corrente del fiume vicino era insufficiente. « Allora, se il
fiume avesse avuto una portata maggiore avreste continuato il
lavoro di notte? — Si, finché gli affari fossero stati sufficientemente lucrativi. — Non c’è dunque niente altro che vi impedisca di lavorare giorno e notte, oltre la mancanza d’acqua
o un peggioramento degli affari? — Non conosco leggi che
m’impediscano di farlo. » 80 Come era possibile opporsi a
questo stato di cose, finché la legge non veniva modificata?
(Da: P. Mantoux, La rivoluzione industriale, 1905, II,
pp. 476-481)