Errata corrige e vari commenti al testo Geometria 2 di Edoardo Sernesi
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Errata corrige e vari commenti al testo Geometria 2 di Edoardo Sernesi
Errata corrige e vari commenti al testo Geometria 2 di Edoardo Sernesi Nella pagina web del corso suggerisco due testi, in alternativa: Lectures Notes on Elementary Topology and Geometry, di I. M. Singer e J. A. Thorpe, e Geometria 2, di E. Sernesi. Il primo testo è reperibile online (tramite Google Libri, per esempio). Il secondo è diffusamente presente sul mercato e gode di grande reputazione. Però contiene moltissimi errori, alcuni veramente sconcertanti, che mi vedo costretto a segnalare. Fornisco dunque un elenco di tutti gli errori che ho individuato nel testo Geometria 2 del Prof. Sernesi, importanti o banali che siano. Occasionalmente, aggiungerò qualche osservazione intesa a chiarire meglio alcuni punti. Non ho controllato le risposte date agli esercizi (pagine 375-381). Quindi su quella parte non dirò nulla. Notazioni. Seguendo una prassi consolidata, uso il simbolo ⊂ solo per indicare inclusione stretta (mentre il Sernesi lo usa per indicare inclusione debole) e denoto l’ inclusione debole con ⊆. Userò i simboli C, R, Q e Z per indicare rispettivamente il campo dei numeri complessi, il campo dei numeri reali, il campo dei numeri razionali e l’ anello degli interi. Inoltre, seguendo la notazione adottata in alcuni testi di analisi (Dieudonné, per esempio) indico l’ intervallo aperto di R di estremi a e b col simbolo ]a, b[ anzichè (a, b), per evitare ogni confusione tra intervalli di R e punti di R2 . Denoto la semiretta aperta positiva (negativa) di origine a col simbolo ]a, +∞) (rispettivamente (−∞, a[). Avverto infine che a volte, nel contare le righe di una pagina, inizio dal fondo. In quel caso indico la posizione della riga con un numero negativo. 1 Capitolo 1 Le poche osservazioni che ho da fare su questo capitolo riguardano tutte l’ Esempio 3.8.3, che contiene una breve introduzione alla topologia di Zariski. 1) Pagina 31, riga −8. Vi si afferma che (a) I1 ⊆ I2 ⇔ V (I1 ) ⊇ V (I2 ). L’ implicazione ⇒ è corretta (ed immediata) ma l’ implicazione ⇐ è falsa. Per esempio, sia I2 = hI12 i (ideale generato dai quadrati dei polinomi di I1 ). Allora V (I1 ) = V (I2 ) ma I1 ⊃ I2 . In questo caso V (I1 ) ⊇ V (I2 ) ma I1 6⊆ I2 . 1 Diamo un altro controesempio. Con K = R considerate i polinomi Pr = x2 + y 2 + r ove r > 0. Sia Jr = hPr h. Chiaramente, V (Jr ) = V (Js ) = ∅ per ogni selta di r, s > 0. Tuttavia Jr = Js solo se r = s. Il primo contoesempio dipende dal fatto che I12 non è l’ ideale massimo associabile alla varietà V (I1 ), e questo anche se K fosse algebricamente chiuso. Il secondo controesempio dipende invece dal fatto che R non é algebricamente chiuso. Perchè valga la doppia implicazione si deve dunque assumere che K sia algebricamente chiuso e si devono considerare ideali radicali. Per essere più esplicito, rammento che dato un ideale I il suo radicale é l’ ideale √ I := {P | P n ∈ I per qualche intero n > 0}. √ (Non è difficile dimostrare che I é effettivamente un ideale ed è ovvio che √ √ I ⊇ I.) Un ideale I è detto radicale se I = I. (Vedi anche le utlime tre righe di pagina 31 del testo.) Ciò premesso, vediamo come va riscritta la (a). L’ affermazione corretta è la seguente: (a’) Se K è algebricamente chiuso allora p p I1 ⊆ I2 ⇔ V (I1 ) ⊇ V (I2 ). Equivalentemente: se K è algebricamente chiuso, allora per ogni ideale I, il suo √ radicale I é ilo massimo ideale J per cui V (J) = V (I). Questo risultato è noto come il Nullstellensatz di Hilbert. Non si tratta affatto di un risultato banale. Quindi l’ affermazione fatta alla prima riga di pagina 32 del testo, che l’ equivalenza (a) sia di dimostrazione immediata, è una sciocchezza. L’ equivalenza (a) di pagina 31 non è certo di dimostrazione immediata, dal momento che la sua parte ⇐ è falsa. D’ altra parte, la sua versione corretta (a’) è tutt’ altro che immediata. 2) Pagina 31, ultime tre righe. A completamento detto dall’ Autore, p√di quanto √ √ avverto che I è esso stesso un ideale e che I = I. Quindi un ideale è radicale (vedi precedente nota (1)) se e solo se è il radicale di qualche ideale. 3) Pagina 32, riga 7: a 6∈ V (I1 ) ∪ V (I2 ). Da quel che si dice nelle prime righe di pagina 32 si deduce solo che a 6∈ V (I1 ∩ I2 ). Questo però basta per concludere che V (I1 ∩ I2 ) ⊆ V (I1 ) ∪ V (I2 ). Dopodichè, siccome si è già osservato che V (I1 ∩ I2 ) ⊇ V (I1 ) ∪ V (I2 ) (per la parte ⇒ di (a)), si può concludere che V (I1 ∩ I2 ) = V (I1 ) ∪ V (I2 ), come si voleva. 2 Capitolo 2 1) Esempio 5.4.10. Pagina 53, riga 7: “ogni poligono convesso è una 2-cella”. Vero, ma la dimostrazione non è cosı̀ banale come il testo lascia intendere. Per 2 rendersene conto, si dia una scorsa ad una monografia di teoria dei politopi. 2) Determinazione principale di z θ (Esempio 5.4.13). Avverto intanto che la descrizione della determinazione principale di w1/n fornita a pagina 53 (ultima riga prima della figura 5.4) ha senso solo se w 6= 0, non essendo definito arg(0). Ma questo non è molto importante. Piuttosto, a pagina 54 (righe 11 e −1 12) si menziona la determinazione principale di z θ2 θ1 . Questa nozione è chiara −1 quando θ2 θ1 è razionale e non è intero. Nel caso di un esponente α reale ma non razionale, dato un numero complesso non nullo z = |z|(cos φ + i sin φ), nel definire z α si assume di solito di aver preso 0 ≤ φ < 2π e si pone z α := |z|α · (cos αφ + i sin αφ). Messe le cose in questo modo, non ci sono diverse determinazioni di z α tra le quali sceglierne una da prendere come quella principale. Il problema di scegliere la determinazione principale sorge se non si impongono restrizioni su φ (però di solito questo lo si fa solo quando α è razionale). In tal caso, la determinazione principale è quella che si ottiene per 0 ≤ φ < 2π. Ovviamente, se α è intero non ci sono problemi: il numero |z|α ·(cos αφ+i sin αφ) è sempre lo stesso, comunque si prenda φ. 3) Topologia della convergenza puntuale. Pagina 69, ultime tre righe. Non riesco a dare un senso compiuto a queste righe. Le riformulerei come segue: Se f = limn→∞ fn allora per ogni sottoinsieme finito I di ]a, b[ e per ogni r > 0 deve esistere un intero positivo nI,r tale che fn ∈ p−1 x (]f (x) − r, f (x) + r[) per ogni x ∈ I ed ogni n ≥ nI,r . Il ché è come dire che fn (x) → f (x) per ogni x ∈]a, b[, come del resto intende l’ Autore. A parte questo, l’ Autore lascia intendere che la topologia prodotto su R]a,b[ sia l’ unica nella quale la convergenza di una successione di funzioni equivalga alla sua convergenza puntuale. Non lo dice, però lo lascia credere. Certamente è vero che nella topologia prodotto la convergenza equivale alla convergenza puntuale, ma non so se la topologia prodotto sia proprio l’ unica per la quale questo succede. Lo sarebbe se sostituissimo ]a, b[ con un insieme numerabile, ma per l’ appunto ]a, b[ è più che numerabile. 3 3.1 Capitolo 3 Varietà topologica di dimensione n Pagina 99, righe 19-21. Perchè la definizione abbia pienamente senso bisognerebbe dimostrare che la dimensione n è ben definita, cioè che una varietà topologica connessa non può ammettere due dimensioni diverse. Questo è vero. Lo si ottiene facilmente come corollario del seguente teorema, noto come Teorema della 3 Dimensione: Teorema. Nessun aperto di Rn può essere omeomorfo ad Rm con m 6= n. Il Teorema della Dimensione è però tutt’ altro che immediato. Lo si dimostra usando la teoria dell’ omologia. 3.2 Distanza della convergenza uniforme Pagina 123, riga 17: ¯ (x)), g(x)}. δ(f, g) = supx∈X {d(f Può capitare che δ(f, g) = ∞. Quindi in generale δ non è una distanza. Per evitare questo inconveniente, di solito si considerano non tutte le funzioni da X ad Y ma solo quelle funzioni f per le quali, per una data funzione ω : X → Y , scelta una volta per tutte, risulti δ(f, ω) < ∞. Per esempio, se X ed Y sono due spazi normati, si usa definire δ(f, g) solo per funzioni limitate, cioè tali che supx∈X ||f (x)|| < ∞. Questa scelta è un caso particolare di quella descritta sopra, ove come funzione di riferimento ω si prende l’ applicazione nulla. Ne segue che la Proposizione 10.18 è errata: in genere (Y X , δ) non è uno spazio metrico. L’ insieme Y X va sostituito con il suo sottoinsieme BY,ω (X) := {f ∈ Y X | δ(f, ω) < ∞}, per una data funzione ω : X → Y . 3.3 Teorema di Cantor (Teorema 10.14) Il cosidetto Teorema di Cantor è un teorema o un assioma? Se fosse un’ assioma, non avrebbe senso dimostrarlo. Ovviamente, tutto dipende da come sono stati definiti i numeri reali. Se, come molti fanno, si definisce il campo R dei numeri reali come l’ unico (a meno di isomorfismi) campo ordinato archimedeo soddisfacente l’ Assioma di Cantor allora quel teorema è un assioma. Immagino quindi che l’ Autore abbia in mente una diversa definizione di R. Ma non ci dice quale. Ed è anche giusto che non lo dica: è opinione comune che questo argomento non rientri tra quelli che un corso di geometria deve coprire. Ma allora nemmeno ci si può mettere a ridiscutere le proprietà di R. 3.4 Altre correzioni 1) Pagina 98, righe 5 e 6. Nel ragionamento svolto in queste righe si deve prendere P = p. 2) Pagina 99, riga −17: “... per dimostrare che uno spazio di Hausdorff X ...”. Inserire: che soddisfi il secondo assioma di numerabilità. Infatti, l’ esistenza di un atlante, anche se è sufficiente per ottenere il primo assioma di numberabilità, non basta ad ottenere il secondo, che però è inserito nella definizione di varietà. Infatti, se uno spazio di Hausdorff X è fornito di un atlante, il secondo assioma di numerabilità vale nel dominio di ogni carta dell’ atlante dato, ma potrebbe 4 non valere globalmente in X. Questo potrebbe accadere se per ricoprire X avessimo bisogno di atlanti formati da una totalità più che numerabile di carte. Questo accade per esempio se lo spazio X è unione disgiunta di una totalità più che numerabile di varietà topologiche. Però in questo caso X non è connesso. Non conosco esempi ove X sia di Hausdorff, ammetta un atlante, sia connesso, ma non soddisfi il secondo assioma di numerabilità. Ma forse ne esistono. 3) Pagina 109, riga 6: “dalla [9.2] segue che ognuno degli U ∗ interseca ogni B ∈ B”. No, la conclusione non segue dalla [9.2]. Senza sfruttare altre informazioni su U ∗ e B, dal fatto che B ∩ p−1 µi (Umi ) 6= ∅ per ogni i = 1, 2, ..., k non si pò dedurre che B ∩ ∩ki=1 p−1 (U µi ) 6= ∅. Però qui sappiamo già che mi ∗ U ∗ := ∩ki=1 p−1 (U ) ∈ B. Quindi U ∩ B 6= ∅ perchè B gode della proprietà µi µi dell’ intersezione finita. 4) Pagina 123, riga 2. Inserire “è” tra “categoria” e “costituita”. 5) Pagina 124, ultima riga (Esercizio 4). Vi si afferma che ogni spazio metrico completo è separabile, ma questo è falso. Ecco un controesempio. Sia (X, d) uno spazio metrico discreto (d(x, y) = 1 per ogni scelta di x 6= y). In questo spazio le successioni di Cauchy sono quelle costanti da un certo punto in poi. Quindi, sono tutte convergenti. Dunque (X, d) è completo. D’ altra parte, la topologia di (X, d) è quella discreta. Quindi se X è più che numerabile lo spazio (X, d) non può ammettere una base numerabile. 6) Pagina 139, riga 16. Non è vero che Ix ∪ C = Ix ∪ C ∪ Iy . Infatti Ix ∪ C = Ix ∪ C ∪ Iy ∪ Jx Jx := {(x, 1) | (x, 1)0 ≤ x ≤ 1}. ove D’ altra parte, l’ affermazione alla riga −6 di pagina 139 (che Y non è localmente connesso in (0, 1)) è vera per Y = Ix ∪ C ∪ Iy ma è falsa per Y = Ix ∪ C ∪ Iy ∪ Jx . Quindi la riga 16 va riletta cosı̀: Y := Ix ∪ C ∪ Iy , cancellando il riferimento a Ix ∪ C. Infatti Y ⊂ Ix ∪ C. 3.5 Osservazioni integrative 1) Pagina 97, riga −15. Credo che che l’ implicazione |S| > ℵ0 ⇒ |P (S)| > 2ℵ0 richieda l’ Ipotesi del Continuo. 2) Paragrafo 9.14.5. Pagina 110, righe da −11 a −3. Vale la pena osservare che un insieme può essere compatto senza essere relativamente compatto. Per esempio, sia X un insieme, K ⊂ X e sia SK la famiglia dei sottoinsiemi di X che contengono K. Allora T := SK ∪ {∅} definisce una topologia su X. In questa topologia K è compatto. Però K = X e, se X \ K è infinito, X non è compatto. 5 3) Corollario 9.13. La dimostrazione sfrutta implicitamente il fatto (cruciale) che la topologia naturale di Rn coincide con la topologia prodotto. Non sarebbe male evidenziarlo, per evitare che chi legge si faccia idee sbagliate sul caso di dimensione infinita. Infatti, se consideriamo uno spazio normato reale V di dimensione infinita, è ancora vero che gli insiemi chiusi e limitati risultano compatti nella topologia prodotto, ma non è detto che siano compatti nella topologia naturale di V . Infatti ora questa è strettamente più fine della topologia prodotto. 4) Pagina 115, Proposizione 10.3. Non sarebbe male avvertire il lettore che non è escluso che da un certo punto in poi risulti sempre Ki = X. 5) Connessione locale (Esercizio 11.10). Uno spazio può essere connesso senza essere localmente connesso. Si consideri infatti l’ insieme X = {(x, sin x1 )}x6=0 ∪ {(0, 0)}, con la topologia indotta da R2 . Lo spazio cosı̀ definto è localmente connesso in ogni punto p 6= (0, 0) ma non è localmente connesso in (0, 0). Però è connesso. L’ esempio precedente non è connesso per archi. Descriviamo ora un esempio connesso per archi ma non localmente connesso. Sia X = {x(t) | 0 ≤ t < 1} ove x(0) := (1, 0, 0) e x(t) := (cos 2πt, sin 2πt, t sin 1 ) per 0 < t < 1. t(1 − t) Topologia: quella indotta da R3 . Lo spazio X cosı̀ definito è connesso per archi. (Infatti la funzione x : [0, 1[→ R3 che porta t ∈ [0, 1[ in x(1) è continua.) Però non è localmente connesso: ogni intorno di x(0) che non coincida con tutto X è sconnesso. 4 4.1 Capitolo 4 Dimostrazione del Lemma 13.1 La conclusione della dimostrazione del Lemma 13.1 non è cosı̀ banale come il testo lascierebbe credere. Si parte da due spazi topologici X0 := X × [0, 1/2] ed X1 := X × [1/2, 1], entrambi omeomorfi ad X := X × [0, 1] mediante omeomorfismi ω0 e rispettivamente ω1 , ove ω0 (x, t) = (x, t/2) ed ω1 (x, t) = (x, t/2 + 1/2), e li si incollano lungo X ×{1/2} in modo che l’ incollatura, chiamiamola X0 ∗X1 , restituisca X , cioè sia X0 ∗ X1 = X . Poi si incollano le due applicazioni continue (omotopie) F · ω0−1 : X0 → Y e G · ω1−1 : X1 → Y , in modo da ottenere un’ unica applicazione continua (omotopia) H = F ∗ G : X → Y , tale che H|X0 = F · ω0−1 ed H|X1 = G · ω1−1 . Non si tratta di costruzioni troppo difficili. Tuttavia, vale la pena spendervi due parole. Siano U1 = (U1 , T1 ) e U2 = (U2 , T2 ) due spazi topologici ed assumiamo che U1 e U2 inducano la stessa topologia su U1 ∩ U2 (ovviamente, se U1 ∩ U2 è vuoto 6 o contiene un solo punto, questa ipotesi non dice nulla). Costruiamo un nuovo spazio U1 ∗ U2 su U1 ∪ U2 , che chiamerò incollamento di U1 e U2 su X1 ∩ X2 , prendendo come famiglia di aperti la seguente collezione di insiemi: T1 ∗ T2 := {A1 ∪ A2 | A1 ∈ T1 , A2 ∈ T2 , A1 ∩ U1 ∩ U2 = A2 ∩ U1 ∩ U2 }. Non è difficile dimostrare che T1 ∗T2 è la più fine topologia su U1 ∪U2 che induca T1 su U1 e T2 su U2 . Dato poi un altro insieme V e applicazioni f1 : U1 → V ed f2 : U2 → V tali che f1 ed f2 inducano la stessa applicazione su U1 ∩U2 , definiamo l’ incollamento f1 ∗ f2 di f1 ed f2 come l’ unica applicazione da U1 ∪ U2 a V che induca f1 su U1 ed f2 su U2 . E’ facile vedere che, se su V è data una struttura V di spazio topologico, allora f1 ∗ f2 è continua come applicazione da U1 ∗ U2 a V se e solo se sia f1 che f2 sono applicazioni continue da U1 e rispettivamente U2 a V. Supponiamo ora che U1 ed U2 siano due sottospazi di uno stesso spazio topologico U = (U, T ). Quindi T1 e T2 sono le topologie indotte da T su U1 ed U2 . Evidentemente, T1 ∗T2 è un raffinamento della topologia indotta da T su U1 ∪U2 . Per evitare situazioni complicate, si vorrebbe che T1 ∗ T2 fosse proprio la topologia indotta da T su U1 ∪ U2 . Equivalentemente, T1 ∗ T2 ⊆ T . In particolare, se U1 ∪ U2 = U si vorrebbe che T1 ∗ T2 = T . (Questa è appunto la situazione che si vuole avere quando si definisce H a partire da F e G, come a pagina 143 del testo.) Il seguente lemma fornisce una condizione sufficiente affinchè questo accada. Lemma. Supponiamo che T1 e T2 siano le topologie indotte da T su U1 ed U2 . Se U1 ed U2 sono chiusi in U allora T1 ∗T2 ⊆ T (vale a dire, T1 ∗T2 è la topologia indotta da T su U1 ∪ U2 ). Dimostrazione. Sia A1 ∪A2 ∈ T1 ∗T2 , ove A1 ∈ T1 , A2 ∈ T2 e A1 ∩U2 = A2 ∩U1 . Per ipotesi, esistono aperti B1 , B2 ∈ T tali che A1 = B1 ∩ U1 ed A2 = B2 ∩ U2 . Per i = 1, 2 poniamo Ci = Bi ∪ (U \ Ui ). Chiaramente, Ci ∩ Ui = Bi ∩ Ui = Ai . Supponiamo che Ui sia chiuso. Allora U \ Ui è aperto. Quindi Ci è aperto. Ne segue che anche C1 ∩ C2 è aperto. D’ altra parte, C1 ∩ C2 = A1 ∪ A2 . Quindi A1 ∪ A2 ∈ T . C.D.D. Nella situazione di pagina 143 del testo, gli insiemi U1 = X × [0, 1/2] ed U2 = X × [1/2, 1] sono chiusi in U = X × [0, 1]. Quindi, tutto funziona. L’ ipotesi che U1 ed U2 siano chiusi è essenziale per ottenere la conclusione del precedente lemma, come si mostra nel seguente esempio. Siano U1 = ((−∞, 0], T1 ) ed U2 = ([0, +∞), T2 ) le semirette chiuse negativa e positiva di R, con la solita topologia indotta da R. Si vede subito che U1 ∗ U2 coincide con R, con la sua solita topologia. Però possiamo definire un altro spazio U = (R, T ), prendendo come T la famiglia degli aperti di R simmetrici rispetto a 0. La topologia T induce T1 e T2 su (−∞, 0] e [0, +∞), però T è una sottofamiglia propria di T1 ∗ T2 . E infatti le semirette aperte ]0, +∞) e (−∞, 0[, che sono i complementari di (−∞, 0] e [0, +∞), non sono insiemi aperti nella topologia T . 7 4.2 Ancora sull’ omotopia A pagina 143, righe 8 e 9, si legge: un’ omotopia è essenzialmente una famiglia di applicazioni continue Ft : X → Y , t ∈ I,... Questo non è esatto. Un’ omotopia è una famiglia di funzioni continue Ft : X → Y che dipendono con continuità dal parametro t ∈ I. Ora però bisogna spiegare cosa si intende quando si dice che una famiglia di funzioni dipende con continutà da un dato parametro. Lo si può spiegare nel modo seguente. Prendiamo l’ insieme Y X di tutte le funzioni Q da X ad Y , munito della topologia prodotto. (Si rammenti che Y X = x∈X Yx ove Yx := Y per ogni x ∈ X.) Per ogni funzione F : X × I → Y sia ΦF : I → Y X l’ applicazione che ad ogni t ∈ I associa la funzione ΦF (t) : X → Y che porta x ∈ X in F (x, t). Non è difficile dimostrare che F è continua se e solo se valgono entrambe le seguenti condizioni: (a) Per ogni t ∈ I, la funzione ΦF (t) : X → Y è continua; (b) ΦF è continua in quanto applicazione da I ad Y X . Quando si dice che Ft dipende con continuità da t si intende appunto dire che ΦF è continua. 4.3 Fibre di un rivestimento 1) Pagina 162, Lemma 17.1, affermazione (d). Non c’ è bisogno di assumere che X sia localmente connesso e nemmeno è necessario assumere che n sia finito. La dimostrazione della (d) (pagina 163) può farsi in modo più semplice, come segue. Innanzitutto dimostriamo la seguente affermazione preliminare: Lemma. Per ogni numero cardinale n, sia Cn l’ insieme dei punti x ∈ X per i quali |p−1 (x)| = n. Allora Cn è aperto. Dimostrazione. Dato x ∈ Cn , sia U un intorno aperto di x tale p−1 (U ) sia unione disgiunta di aperti omeomorfi ad U . La collezione di questi aperti ha cardinalità n e, per ogni punto y ∈ U , ciascuno di questi aperti interseca p−1 (y) in esattamente un punto. Pertanto y ∈ Cn . Ne segue che U ⊆ Cn . Quindi Cn è aperto. C.D.D. Sia ora C = {Cn | Cn 6= ∅}. La famiglia C fornisce una partizione di X. Ma i membri di C sono aperti, per il Lemma precedente. Quindi, se C contiene almeno due membri, lo spazio X non può essere connesso. Pertanto, se X è connesso allora X = Cn per un unico n, come affermato nella parte (d) del Lemma 17.1. Come si vede, abbiamo usato solo l’ ipotesi che X sia connesso e non abbiamo fatto alcuna ipotesi su n. 2) Pagina 167, Corollario 17.8, parte (a). La cardinalità di p−1 (x0 ) è uguale all’ indice di p∗ (π1 (R, r0 )) anche se p−1 (x0 ) è infinito. Inoltre, perchè tutte le 8 fibre di p−1 (x) abbiano la stessa cardinalità (parte (b) del Corollario 17.8) non c’ è bisogno di supporre che R sia connesso per archi. Basta supporre che X sia connesso. (Vedi osservazione precedente.) 4.4 Connessione per archi locale e globale 1) All’ inizio della Sezione 18 (Pagina 167, ultima riga) l’ Autore avverte che per tutta la durata della Sezione 18 tutti gli spazi si supporranno implicitamente connessi per archi e localmente connessi per archi. In realtà basta supporli connessi e localmente connessi per archi. Infatti ogni spazio connesso e localmente connesso per archi è anche connesso per archi. Questo lo si dimostra come segue. Sia X localmente connesso per archi. Sia C una componente connessa per archi di X e sia x ∈ C. Siccome X è localmente connesso per archi, esiste un intorno U di x connesso per archi. Chiaramente, U ⊆ C. Quindi A è aperto. In breve, le componenti connesse per archi di X sono insiemi aperti. Quindi esse forniscono una partizione di X in aperti. Pertanto, se X è anche connesso, ha una sola componente connessa per archi. Cioè, X è connesso per archi. 2) A pagina 172, riga −10, l’ autore implicitamente fa riferimento proprio al fatto che, come osservato sopra, la connessione per archi segue dalla connessione e dalla locale connessione per archi. Infatti a quel punto dice che le varietà topologiche connesse soddifano le ipotesi del Teorema 18.9 di pagina 171, cioè connessione per archi sia locale che globale. Infatti una varietà topologica, essendo localmente omeomorfa ad Rn , è localmente connessa per archi. Quindi, se per di più è connessa, è anche connessa per archi. 3) In base all’ assunzione fatta alla fine di pagina 167, nel Teorema 18.4 si deve intendere che tutti gli spazi in esso coinvolti siano localmente connessi per archi. In realtà, non c’ è bisogno di quest’ ipotesi per dimostrare l’ implicazione (a) ⇒ (b). Ne abbiamo invece bisogno per dimostrare che (b) ⇒ (a), ma anche per questo basta meno: basta supporre che Y sia localmente connesso per archi. Il seguente esempio mostra che quest’ ultima ipotesi è veramente irrinunciabile per ottenere la parte (b) ⇒ (a) del Teorema 18.4. Sia R = R ed r0 = 0. Sia X il cerchio di R2 di centro (0, 0) e raggio 1, con la solita topologia indotta da quella di R2 . Si ponga x0 = (1, 0). Definiamo poi Y come segue (cfr. Sezione 3.5 di queste note, osservazione (3)): Y = {y(θ) | 0 < θ < π } ∪ {yt | − 1 ≤ t ≤ 1} 2 ove y(θ) := (cos 4θ, sin 4θ, sin θ · sin 1 ), sin 2θ yt := (1, 0, t). In particolare, y0 = (1, 0, 0). Topologia su Y : quella indotta da R3 . Gli spazi R, X ed Y sono connessi per archi. Sia R che X sono anche localmente connessi per archi. Invece Y non è localmente connesso (quindi tantomeno localmente 9 connesso per archi): ogni intorno di y0 che non coincida con tutto Y è sconnesso. D’ altra parte, sia X che Y sono compatti. Per quanto riguarda Y , si osservi che, in quanto sottoinsieme di R3 , è chiuso e limitato. Definiamo p : R → X ed f : Y → Y come segue. p(x) := (cos χ(x), sin χ(x)) ove χ(x) := x−k(x) e k(x) sta ad indicare il più grande multiplo di 2π (negativo se x < 0) che non supera x. f (y(θ)) := (cos 4θ, sin 4θ), f (yt ) := x0 . Allora p è un rivestimento ed f è continua. Inoltre tutte le curve chiuse di Y con base in y0 consistono di uno o più pezzi ciascuno dei quali consiste di un arco che parte da y0 seguito da un arco che ritorna indietro ad y0 per lo stesso percorso. Quindi π1 (Y, y0 ) = 1. Pertanto f∗ (π1 (Y, y0 )) = p∗ (π1 , (R, r0 )) = 1 come previsto dalla (b) del Teorema 18.4. Però la (a) del Teorema 18.4 non vale. Questo accade perchè non esiste nessuna funzione continua g : Y → R tale che pg = f . Infatti, supponiamo per assurdo che una tale funzione esista. Siccome Y è sia connesso che compatto e g è continua, anche g(Y ) deve essere sia connesso che compatto. Quindi deve essere un intervallo chiuso [a, b]. Inoltre, dalla condizione pg = f e dalla definizione di f segue che g induce una biezione da Y \ {yt | − 1 ≤ t ≤ 1} (che è ancora connesso) ad [a, b] \ p−1 (x0 ). Ne segue che [a, b] = [2kπ, 2(k + 1)π], per qualche k. Pertanto g({yt | − 1 ≤ t ≤ 1}) = [a, b] ∩ p−1 (x0 ) = {a, b}. Ma {yt | − 1 ≤ t ≤ 1} è connesso mentre {a, b, } non lo è. Questo contraddice la continuità di g. 4.5 Altre correzioni 1) Pagina 143, riga −8. E’ vero che g(x) è continua. In particolare, è continua in 0, però la dimostrazione di questo fatto è tutt’ altro che banale. 2) Pagina 149, riga 3: “Se X è dotato della topologia discreta... allora π1 (X, x0 ) = {[c0 ]}.”. Si, questo è vero, ma non è tanto ovvio. Invece l’ affermazione che π1 (X, x0 ) = {[c0 ]} è ovvia quando X è dotato della topologia banale. Forse l’ autore intendeva dire ‘topologia banale’ anzichè ‘discreta’. Ma vediamo come stanno le cose nel caso che X sia dotato della topologia discreta. Supponendo che questo sia il caso, sia α : [0, 1] → X un arco. Siccome X è uno spazio discreto, {α(t)} è un aperto per ogni t ∈ [0, 1]. Siccome α è continua, α−1 (α(t)) è aperto, per ogni t ∈ [0, 1]. Quindi [0, 1] è unione di una famiglia di insiemi aperti nella topologia di [0, 1], a due a due disgiunti. Questo è possibile solo se tale famiglia contiene un solo aperto, vale a dire: se α applica tutto [0, 1] su un singolo punto. In definitiva, X ammette solo archi costanti. E’ ora ovvio che π1 (X, x0 ) = {c0 }. 10 3) Pagina 152, riga 6: “ ... un criterio sufficiente affinchè due spazi siano omeomorfi”. No: necessario, non sufficiente. 4) Pagina 152, definizione di G(s, t), quarta clausola. Ove è scritto g(t + 3s) si legga g(t + 3s − 2). 5) Pagina 158, figura 16.1. La figura è sbagliata. Il punto g(x) corrisponde all’ estremo in basso a sinistra della corda passante per x ed f (x), non a quello in alto a destra. 6) Pagina 159, Teorema 16.10. Bisogna anche assumere che U ∩ V 6= ∅. 7) Pagina 165, righe 11 e 12. E vero che esistono s0 < s1 < ... e t0 < t1 < ... tali che per ogni scelta di j ed i risullti [sj−1 , sj ] × [ti−1 , ti ] ⊆ F −1 (Uk ) per qualche k. Però la dimostrazione di questo fatto non è semplicissima. 8) Alla fine del Capitolo 4 compaiono due teoremi entrambi contrassegnati dal numero 18.9 (pagina 171 e 172). Il Teorema 18.9 di pagina 172 dovrebbe essere 18.10. Nelle righe immediatamente precedenti il Teorema di pag 172 (riga −10 di pagina 172) si fa riferimento ad un inesistente Teorema 18.8. Deve intendersi il Teorema 18.9 di pagina 171. 5 Capitolo 5 5.1 Proposizione 19.1 Nella prima delle tre formule della Proposizione 19.1 si afferma quanto segue: (A) Dati tre vettori non nulli v, w e u = av + bw, se ciascuna delle derivate v(F )a , w(F )a e u(F )a esiste, allora risulta u(F )a = av(F )a + bw(F )a . Questa è una sciocchezza. Infatti la (A) è falsa, come ben si sa dai corsi di Analisi. Fornirò un controesempio fra poco, ma prima voglio correggere la (A). La (A) va sostituita con la seguente affermazione, dove non si assume l’ esistenza della derivata lungo av + bw ma si fanno ipotesi molto più forti sulle derivate v(F ) e w(F ). (B) Se per due vettori non nulli v e w entrambe le derivate v(F )p e w(F )p esistono in ogni punto p di un intorno U di a e, viste come funzioni di p, risultano continue in a, allora esiste anche u(F )a per ogni scelta di u = av + bw ∈ hv, wi, u 6= 0, e risulta u(F )a = av(F )a + bw(F )a . Rimando per la dimostrazione di (B) ad un qualunque testo di Analisi. Passo 11 invece al controesempio che ho promesso. Sia F : R2 → R definita cosı̀: 2 x y/(x2 + y 2 ) se (x, y) 6= (0, 0), F (x, y) = 0 se (x, y) = (0, 0). La derivata v(F )a esiste per ogni punto a = (a1 , a2 ) ed ogni vettore v = (v1 , v2 ) 6= (0, 0). Precisamente, v(F )a = a1 [(a21 − a22 )a1 v2 + 2a32 v1 ] se a 6= (0, 0), (a21 + a22 )2 v(F )(0,0) = v12 v2 + v22 v12 Tuttavia, v(F )(0,0) 6= v1 ∂F ∂F (0, 0) + v2 (0, 0). ∂x ∂y Quindi (A) è falsa. Va da sè che in questo esempio le ipotesi di (B) non sono soddisfatte. Infatti nessuna delle funzioni a 7→ v(F )a è continua in (0, 0). In particolare, ∂F/∂x e ∂F/∂y non sono continue in (0, 0). 5.2 Dimensione Definizione 19.3. La definizione è congegnata in modo tale che la dimensione n di una varietà X sia assegnata in anticipo: per definizione, tutte le carte di un atlante hanno la stessa dimensione n, cioè sono omeomorfismi da un aperto di X ad un aperto di Rn , ove n è fissato in anticipo. La definizione lascia intendere che si possa anche cambiare atlante, ma siccome una varietà è individuata da una classe di atlanti tra loro equivalenti (riga −12 di pagina 177, ove si precisa la definzione 19.3), e siccome atlanti equivalenti, essendo contenuti in un atlante più ricco, hanno la stessa dimensione dell’ atlante che li contiene, e quindi hanno la stessa dimensione, la dimensione non cambia cambiando atlante (perchè possiamo solo sostituire un atlante con un altro ad esso equivalente). Questo modo di sistemare le cose non lascia molto soddisfatti. Propongo di partire da una definizione di atlante più permissiva: un atlante è una famiglia {(Uλ , φλ )}λ∈Λ ove: (1) per ogni λ ∈ Λ esiste un intero positivo nλ tale che (Uλ , φλ ) è una nλ -carta locale (nel senso della Definizione 19.2); (2) per ogni scelta di λ, µ ∈ Λ, se Uλ ∩Uµ 6= ∅ le carte (Uλ , φλ ) e (Uµ , φµ ) sono compatibili (nel senso della Definizione 19.2, salvo che ora non si esclude a priori che possa essere nλ 6= nµ ); (3) ∪λ∈Λ Uλ = X. 12 Messe le cose in questo modo, per poter parlare della dimensione di un atlante {(Uλ , φλ )}λ∈Λ bisogna dimostrare che, se X è connessa, allora nλ = nµ per ogni scelta di λ, µ ∈ Λ. Qui possiamo rifarci alle cose già dette nella Sezione 3.1 di queste note: X è una varietà topologica. Ogni varietà topologica connessa ha una sua dimensione. Sia dunque n la dimensione di X in quanto varietà topologica. Si vede subito che nλ = n, per ogni λ ∈ Λ. Va da sè che, se X non è connessa, ogni componente connessa di X avrà una sua dimensione, ma non è detto che queste siano tutte uguali tra loro. Però non c’ è bisogno di rifarsi alla Sezione 3.1 per definire la dimensione di un atlante. Vale infatti la seguente proposizione, che si dimostra usando solo strumenti elementari di analisi ed algebra lineare. Proposizione. In una varietà differenziabile connessa, tutte le carte di uno stesso atlante hanno la stessa dimensione. Dimostrazione. Sia {(Uλ , φλ )}λ∈Λ un atlante di X. Dobbiamo dimostrare che se X è connessa allora nλ = nµ per ogni scelta di λ, µ ∈ Λ. Esaminiamo prima il caso che Uλ ∩Uµ 6= ∅. Siano φλ,U e φµ,U le restrizioni di φλ e φµ all’ aperto U := Uλ ∩Uµ ⊆ X, viste come omeomorfismi da U agli aperti −1 φλ (U ) ⊆ Rnλ e φµ (U ) ⊆ Rnµ . Poniamo Fλ,µ := φµ,U φ−1 λ,U ed Fµ,λ := φλ,U φµ,U . Siano Jλ,µ eJµ,λ le matrici Jacobiane di Fλ,µ ed Fµ,λ . Siccome Fλ,µ · Fµ,λ e Fµ,λ · Fλ,µ sono le applicazioni identità su φµ (U ) e φλ (U ) rispettivamente, risulta che Jλ,µ Jµ,λ = Inµ e Jµ,λ Jλ,µ = Inµ , ove Inλ ed Inµ sono le matrici identità di ordine nλ ed nµ . Quindi Jλ,µ e Jµ,λ hanno rango non inferiore al più grande tra nλ ed nµ . D’ altra parte, siccome esse sono matrici nµ × nλ e nλ × nµ , hanno rango non superiore al più piccolo tra nλ ed nµ . Ne segue che nλ = nµ . Come si voleva dimostrare. Resta il caso che Uλ ∩ Uµ = ∅. Sia R la relazione definita su Λ ponendo λRµ se Uλ ∩ Uµ 6= ∅ e sia R la relazione di equivalenza generata da R. Per quanto visto sopra, se λRµ allora nλ = nµ . Si poi CR l’ insieme delle classi di equivalenza di R e, per ogni C ∈ CR poniamo UC = ∪λ∈C Uλ . La famiglia {UC }C∈CR fornisce una partizione di X in aperti a due a due disgiunti. Pertanto, se X è connesso, allora R possiede una sola classe di equivalenza: CR = {Λ}. Quindi nλ = nµ per ogni scelta di λ, µ ∈ Λ. C.D.D. 5.3 Differenziabilità in campo complesso Pagina 180, primo paragrafo della Sezione 20. Apparentemente, in queste righe l’ Autore sostiene che una funzione F (u + iv) = f (u, v) + ig(u, v) da C a C è differenziabile se sia f che g sono differenziabili in quanto funzioni da R2 ad R. Ma questo è notoriamente falso. Per esempio, la funzione z 7→ z̄ che ad ogni numero complesso z associa il suo coniugato z̄ non è differenzibile (mentre alla fine del paragrafo l’ Autore dice che lo è), eppure la sua parte reale e la sua parte immaginaria sono di classe C (∞) . Come è noto dall’ Analisi Complessa, una funzione complessa di variabile complessa F (u + iv) = f (u, v) + ig(u, v) è derivabile in un punto a + ib se e solo 13 se sia f che g sono differenziabili in (a, b) e per di più ∂f ∂g (a, b) = (a, b) ∂u ∂v e ∂f ∂g (a, b) = − (a, b). ∂v ∂u Inoltre, se F è derivabile su un aperto U di C è automaticamente di classe C (∞) su U (e quindi sia f che g sono di classe C (∞) sull’ aperto di R2 corrispondente ad U ). In breve, F è olomorfa su U . Quindi, contrariamente a quanto si potrebbe evincere da quel che l’ Autore dice alla riga −6, le funzioni olomorfe non sono particolari funzioni differenziabili da aperti di C a C. Esse sono proprio le funzioni differenziabili da aperti di C a C. Ma certamente l’ Autore sa tutto questo. Forse quel che dice in queste righe va inteso diversamente. Credo che l’ interpretazione giusta sia la seguente: “Sappiamo benissimo cosa siano derivabilità e differenziabilità per funzioni da C a C, ma nel presente contesto questo non ci interessa. Daremo invece a differenziabile un altro significato, più debole, trattando le funzioni da C a C solo come funzioni da R2 a R2 , dimenticando che si tratta di funzioni complesse di variabile complessa. Quindi, parlando di differenziali non intenderemo i differenziali nel senso dell’ Analisi Complessa. Li intendiamo invece nel senso appropriato per funzioni da R2 a R2 . In questo senso, possiamo dire per esempio che la coniugazione z 7→ z̄ è un’ applicazione differenziabile, pur sapendo benissimo che non lo è nel senso dell’ Analisi Complessa.” 5.4 Orientazioni 1) Pagina 202, ultime tre righe. Che l’ insieme degli atlanti orientati di una varietà orientabile X sia ripartito in due classi disgiunte, ciascuna delle quali formata da atlanti tra loro concordemente orientati, è vero se e solo se X è connessa. Se X non è connessa il numero di tali classi è 2k , ove k è il numero delle componenti connesse di X. Per di più, le orientazioni assegnate su diverse componenti connesse di X sono tra loro imparagonabili: non ha senso dire che sono tra loro concordi o discordi, a meno che X non sia pensata immersa (nel senso della definizione 25.2) in un’ altra varietà Y , connessa, orientabile e di dimensione 1 + dim(X) (vedi più avanti, nota (4) di questa sezione). Analogamente, le affermazioni fatte nella prima metà di pagina 203, quando hanno senso (cfr. paragrafo seguente), valgono solo per varietà connesse. 2) Pagina 203, riga 7. L’ affermazione che l’ orientazione varia con continuità al variare di p non ha molto senso. In quella affermazione ci viene proposto di vedere un’ orientazione come una funzione che ad ogni punto p di una varietà X associa un qualcosa, ma non si vede cosa possa essere quel qualcosa. Ammesso che X sia orientabile, il ‘qualcosa’ da associare a p potrebbe essere una delle due classi di atlanti orientati (sempre che X sia connessa). Ma con che criterio scegliere la classe da associare ad un dato punto? La cosa più sensata da fare è scegliere una delle due classi ed associarla ad ogni punto. La funzione cosı̀ ottenuta sarebbe costante. Possiamo anche dire che varia con continuità, ma in realtà non varia affatto. 14 ∂ )p , ..., ( ∂u∂ n )p ) di Tp (X) Non so nemmeno se abbia senso dire che la base (( ∂u 1 varia con continuità al variare di p. Infatti, per poterlo dire dovremmo innanzi∂ )p , ..., ( ∂u∂ n )p ) come una funzione che ad ogni punto tutto poter interpretare (( ∂u 1 p associa una base ordinatata di Rn . La via più naturale da imboccare per definire una tale funzione è la seguente. Scegliamo innazitutto un atlante U per la varietà X ed un punto p0 ∈ X ∂ ed identifichiamo la base (( ∂u )p0 , ..., ( ∂u∂ n )p0 ) di Tp0 (X) con la base naturale 1 n (e1 , ..., en ) di R . Supponendo che X sia connessa, per ogni altro punto p ∈ X esiste in U una sequenza finita ((U0 , φ0 ), (U1 , φ1 ), ..., (Uk , φk )) di carte locali con p0 ∈ U0 , p ∈ Uk ed Ui−1 ∩ Ui 6= ∅ per ogni i = 1, 2, .., k. Scelta una tale sequenza, per ogni i = 1, 2, ...k scegliamo un punto pi ∈ Ui−1 ∩ Ui . Infine, poniamo pk+1 = p. Per ogni i = 0, ..., k, poniamo qi := φi (pi ) e qi0 := φi (pi+1 ). Possiamo scegliere in φi (Ui ) due intorni aperti Vi e Vi0 di qi ed un diffeomorfismo γi : Vi → Vi0 tale che γi (qi ) = qi0 e che la matrice Jacobiana di γi calcolata in qi sia la matrice identità. (Per esempio, γi potrebbe essere una traslazione.) Per i = 1, ..., k, poniamo ψi = φi φ−1 i−1 γi−1 e sia Ji la matrice Jacobiana di ψi calcolata in qi−1 (che, per le ipotesi fatte su γi−1 , coincide con la matrice Jacobiana −1 0 di φi φ−1 i−1 calcolata in qi−1 ). La composizione ψ := φk γk ψk ψk−1 ...ψ1 φ0 è un diffeomorfismo da un opportuno intorno aperto di p0 in U0 ad un opportuno intorno aperto di p in Uk , e porta p0 in p. La sua matrice Jacobiana in p0 è il prodotto Jk Jk−1 ...J2 J1 delle matrici Jacobiane di ψk , ψk−1 , ..., ψ2 e ψ1 (si rammenti che, per ipotesi, la matrice Jacobiana di γk è la matrice identità). ∂ )p , ..., ( ∂u∂ n )p ) vada identificata Potremmo ora convenire che la n-pla (( ∂u 1 con la n-pla delle colonne del prodotto Jk ...J2 J1 , che infatti è una base di Rn . Ma perchè questa definizione sia ben posta, la matrice Jk ...J2 J1 non deve dipendere dalla scelta delle carte (Ui , φi ), dei punti pi e dei diffeomorfismi γi . Questi ultimi non danno problemi, dal momento che li abbiamo scelti in modo che abbiano la matrice identità come matrice Jacobiana. Purtroppo, in generale, cambiando la scelta delle carte (Ui , φi ) e dei punti pi la matrice Jk ...J2 J1 cambia. Questo succede sempre quando X non è orientabile, ma succede anche quando X è orientabile se U non è orientato, cioè le sue carte sono orientate in modo incoerente. Non so se basti supporre che U sia orientato per avere che la matrice Jk ...J2 J1 non dipenda dalla scelta delle (Ui , φi ) e dei pi . Temo di no. ∂ Se è cosı̀, allora non è possibile interpretare (( ∂u )p , ..., ( ∂u∂ n )p ) come funzione 1 n da p all’ insieme delle basi di R . Quantomeno, non lo si può fare nel modo suggerito qui sopra. 3) Definizione 23.1. E’ utile definire anche il concetto di atlante orientablie: un atlante {(Uλ , φλ )}λ∈Λ è orientabile se, eventualmente cambiando di segno ad una coordinata in qualche φλ (Uλ ) oppure scambiandone due, diventa un atlante orientato nel senso della definizione 23.1. Avendo stabilito questa definizione, ci si può chiedere se tutti gli atlanti di una varietà orientabile siano orientabili. La risposta è affermativa. Siano infatti U = {(Ui , φi )}i∈I e V = {(Vj , ψj )}j∈J due atlanti per una stessa varietà X. Dobbiamo dimostrare che se uno dei due è orientabile anche l’ altro lo è. Per fissare le idee, U sia orientabile e sia ω una delle due orientazioni 15 di U. Data una carta (V, ψ) ∈ V, per ogni carta (Ui , φi ) ∈ U tale che Ui ∩ V 6= ∅, poniamo Ui,V = Ui ∩ V ed indichiamo con φi,V la restrizione di φi ad Ui,V . La famiglia UV := {(Ui,V , φi,V ) | Ui ∩ V 6= ∅} è un atlante di V . L’ orientazione ω scelta per U induce un’ orientazione di UV . Quindi V è orientabile. Siano ora (Vi , ψi ) e (Vj ψj ) due carte di V tali che Vi ∩Vj 6= ∅ e, preso un punto p ∈ Vi ∩Vj , sia (U, φ) una carta di U tale che p ∈ U . Per quanto ora detto, l’ orientazione ω assegnata in U induce orientazioni ωVi ed ωVj su Vi e Vj ed esse si accordano con l’ orientazione assegnata su U . Pertanto ωVi ed ωVj si accordano tra loro. In definitiva, ω induce un’ orientazione su V. Dunque V è orientabile. 4) Supponiamo che X sia una varietà orientabile di dimensione n, immersa in una varietà orientabile connessa Y di dimensione n + 1. Per semplificare la discussione, mi limito al caso che Y = Rn+1 . Sia U un atlante orientato di X e sia φ : X → Rn+1 un’ immersione. Per ogni punto p ∈ X siano v1 , v2 ,..., vn le colonne della matrice Jacobiana di φ, calcolata in p con l’ aiuto di una carta (Uλ , λ) ∈ U, ove p ∈ Uλ . Rammentiamo che, siccome ϕ è un’ immersione, la n-pla (v1 , ..., vn ) ha rango n. E’ ben noto che l’ n-esima potenza esterna ∧n Rn+1 di Rn+1 è canonicamente isomorfa allo spazio vettoriale Rn+1 . Sia vn+1 il vettore di Rn+1 che corrisponde a v1 ∧ v2 ∧ ... ∧ vn in quell’ isomorfismo. Siccome la n-pla (v1 , ..., vn ) ha rango n, la sequenza (v1 , ..., vn , vn+1 ) è una base ordinata di Rn+1 . Diciamo che l’ orientazione di X in p è concorde con l’ orientazione naturale di Rn+1 , e la contrassegnamo col segno +, se det(v1 , ..., vn , vn+1 ) > 0. In caso contrario la diciamo discorde e la contrassegnamo col segno −. Non è difficile vedere che, siccome U è orientato, questa definizione non dipende dalla scelta di una particolare carta (Uλ , λ) ∈ U con p ∈ Uλ . Inoltre, in ogni componente connessa di X l’ orientazione ha sempre lo stesso segno, qualunque sia il punto considerato in essa. In questo modo siamo in grado di dire se le orientazioni assegnate su due diverse componenti connesse di X sono tra loro concordi o discordi. Sono concordi se hanno lo stesso segno, altrimenti sono discordi. E’ chiaro però che l’ assegnazione dei segni è relativa alla scelta di una particolare immersione φ : X → Rn+1 . La situazione ora discussa viene considerata anche nel testo, nel Capitolo 6, ma solo nel caso particolare di n = 3. 5.5 Parametrizzazione [22.4] Pagina 202, riga 2. Si sostituisca (− π2 , π2 ) × Rn−1 con (− π2 , π2 )n−1 × R (con la mia notazione, ] − π2 , π2 [n−1 ×R). Infatti, contrariamente a quanto affermato dall’ Autore, non è vero che la matrice Jacobiana abbia rango n in tutti i punti di (− π2 , π2 ) × Rn−1 . Nei punti (θ1 , ..., θi−1 , π + kπ, θi+1 , ..., θn ) 2 (1 < i < n, k ∈ Z, π π < θ1 < ) 2 2 ha rango < n. Se invece prendiamo ] − π2 , π2 [n−1 ×R come dominio per la parametrizzazione indotta da [22.4], su di esso la matrice Jacobiana di ϕ ha sem16 pre rango n. Però i punti che ora dobbiamo togliere da S n (0, r) per poter parlare di parametrizzazione non sono solo i due punti (0, 0, ..., 0, r) e (0, 0, ..., 0, −r) ma tutti i punti (0, 0, ..., 0, xk , ..., xn+1 ) ove x2k + ... + x2n+1 = 1, per 2 ≤ k ≤ n. L’ errore che ho qui segnalato viene ripetuto a pagina 217, Esempio 25.6.2, ove è necessario fare le stesse correzioni ora indicate. 5.6 Superficie Romana di Steiner 1) La Superficie Romana di Steiner R := φ(P(R2 )) (Esempio 25.6.8) non è in realtà una superficie, nè nel senso di pagina 178 nè tantomeno nel senso di pagina 182. La cosidetta ‘superficie’ R è unione di quattro pezzi, diciamoli R0 , R1 , R2 , R3 . I punti di R0 non hanno coordinate negative mentre, per i = 1, 2, 3, nei punti di Ri l’ i-esima coordinata è non-negativa mentre le altre due sono non-positive. Due qualunque di questi pezzi si incontrano su una curva che passa per (0, 0, 0) ed appartiene solo a quei due pezzi che si intersecano su di essa. Quindi da (0, 0, 0) vediamo uscire quattro pezzi che a due a due si incontrano in una curva, in modo che ciascuna di queste sei curve stia in esattamente due pezzi. Si tratta evidentemente di una configurazione che non può essere realizzata in R2 . Però non la ritrovo nella figura 25.3. Il segmento trasversale che vi compare, che forse vuole suggerire che ci sono due punti nella figura che vanno pensati identici, non basta a rendere l’ idea. Ad ogni modo, è chiaro da quel che si è detto che il punto (0, 0, 0) di R non possiede in R intorni omeomorfi ad aperti di R2 (mentre tutti gli altri punti di R possiedono intorni omeomorfi a R2 ). Quindi R non è una varietà topologica. Tantomeno può essere una varietà differenziabile (quindi nemmeno è una superficie). Sicchè, non ha molto senso precisare che non è diffeomomorfa a P2 (R) (come invece fa l’ Autore, alla riga −8 di Pagina 220). Invece R \ f (p0 ∪ p1 ∪ p2 ) è una varietà differenziabile 2-dimensionale, diffeomomorfa a P2 (R) \ (H0 ∪ H1 ∪ H2 ), ove H0 , H1 , H2 sono tre rette coordinate di P2 (R), corrispondenti ai tre piani coordinati p0 , p1 e p2 di R3 . 2) A pagina 220, riga −9, l’ Autore avverte che ϕ non induce un’ inclusione su H0 ∪ H1 ∪ H2 . Si, questo è vero. Inoltre, il punto (0, 0, 0) di R è immagine di tre distinti punti di P2 (R), precisamente [1, 0, 0], [0, 1, 0] e [0, 0, 1]. Quindi è vero che ϕ non è un diffeomorfismo. Anzi, non è neanche un omeomorfismo di spazi topologici, tanto più che, come fatto notare nel paragrafo precedente, R non è nemmeno una varietà topologica. 3) Pagina 220, quarta riga dopo la figura: “La restrizione di f alla sfera S2 è un’ immersione”. No, falso! Infatti la matrice Jacobiana di quella restrizione, calcolata in punti di S2 ∩ (p1 ∪ p2 ∪ p3 ), non ha rango pieno. Conseguentemente, nemmeno ϕ : P2 (R) → R3 è un’ immersione, contrariamente a quel che l’ Autore dice alla riga 6 di pagina 220. E’ però un’ immersione di P2 (R) \ (H0 ∪ H1 ∪ H2 ) in R3 . 17 4) Pagina 219, riga −4. L’ Autore afferma che f manda l’ aperto R3 \(p0 ∪p1 ∪p2 ) suriettivamente su sè stesso. Questo è falso. L’ immagine di f è contenuta nell’ insieme {(v1 , v2 , v3 ) | v1 v2 v3 ≥ 0} e quest’ insieme non contiene R3 \(p0 ∪p1 ∪p0 ). 5.7 Quadriche Alla fine di pagina 224 l’ Autore fornisce due diverse definizioni di quadrica non degenere, entrambe sbagliate. Una di esse include i coni (che invece sono degeneri) ed esclude i paraboloidi, sia ellittici che iperbolici. La seconda definizione recupera i paraboloidi, esclude i coni, ma si allarga troppo ed imbarca anche i cilindri, che invece sono solitamente considerati degeneri. Però poi, quando passa ad esaminare le quadriche non degeneri di R3 una per una, l’ Autore non tiene le sue due definizioni in nessun conto e si attiene all’ elenco usuale: ellissoidi, iperbolidi ad una o due falde, parabolidi ellittici o iperbolici. Per esaminare la questione più in dettaglio, chiamo le due definizioni proposte dall’ Autore prima e seconda definizione, anche se l’ Autore non fa distinzione tra di esse, convinto (erroneamente) che siano equivalenti. 1) Prima definzione. Seguendo la notazione dell’ Autore (riga −3 di pagina 224) sia A = (aij )n+1 i,j=1 la matrice simmetrizzata dei coefficienti della parte di secondo grado del polinomio a primo membro di [26.4]. L’ autore dice che la quadrica descritta dall’ equazione [26.4] è non degenere se e solo se det(A) 6= 0. Questo è sbagliato. Infatti la condizione det(A) 6= 0 è soddisfatta dai coni (che sono degeneri) ma non dai parabolidi (che non sono degeneri). Bisogna invece considerare la seguente matrice, di ordine (n + 2) × (n + 2): A a e := A at a00 ove at = (a0,1 , ..., a0,n+1 ) ed A = (ai,j )n+1 i,j=1 , come sopra. La quadrica descritta e 6= 0. da [26.4] è non degenere (nel senso usuale) se e solo se det(A) 2) Seconda definizione. Alla riga −5 di pagina 224 l’ Autore lascia intendere che una quadrica sia non-degenere se e solo se la sua equazione [26.4] soddisfa la condizione [26.3], ed afferma che quella conduzione equivale alla condizione det(A) 6= 0. Entrambe queste affermazioni sono false. Infatti la [26.3], adattata all’ equazione [26.4], non dice che det(A) 6= 0. Dice invece che il sistema lineare Ax = a (ove a è definito come sopra ed x è il vettore delle incognite) non ha soluzioni in Rn+1 . Questa condizione è soddisfatta da tutte le quadriche non-degeneri nel senso usuale, ma anche dai cilindri. Questo perchè il punto singolare di un cilindro si colloca nel piano all’ infinito mentre, nonostante la (gratuita) sostituzione di n con n + 1, la definizione [26.3] e l’ equazione [26.4] si collocano in ambito affine. 3) Ambito affine ed ambito proiettivo. Leggendo la seconda metà di pagina 224 viene subito da chiedersi che necessità ci sia di scrivere n + 1 anzichè n. 18 Azzardo la seguente spiegazione. Forse l’ Autore intendeva veramente collocarsi in ambito proiettivo, ma poi non l’ ha fatto ed è rimasto in ambito affine, traendosi però dietro l’ impaccio di scrivere n + 1 anzichè n. Vediamo come andrebbero riformulate le cose in ambito proiettivo. Nella [24.3] si dovrebbero considerare solo polinomi omogenei in n + 1 variabili e solo sottoinsiemi omogenei X ⊆ Rn+1 \ {0} (rammento che un sottoinsieme X ⊆ Rn+1 \ {0} è detto omogeneo se tx ∈ X per ogni x ∈ X ed ogni scalare t 6= 0). Poi dovremmo riformulare la [26.4] cosı̀: n X j=1 ajj Xj2 + 2 X aij Xi Xj + 2 n X 2 a0j Xj Xn+1 + a00 Xn+1 = 0. j=1 1≤i<j≤n Lo spazio Rn viene identificato con l’ iperpiano di Rn+1 di equazione Xn+1 = 1. Ponendo Xn+1 = 1 nella precedente equazione si ritrova la [26.4] (ma con n anzichè n + 1). La condizione [26.3] (riformulata correttamente, nel modo che si è detto) applicata alla [26.4] (riscritta come si è ora detto), è proprio equivalente alla e 6= 0 (vedi sopra, nota (1), ove però n + 1 va sostituito solita condizione det(A) con n). Essa esclude la possibilità di punti singolari, non solo in Rn ma anche nel suo iperpiano all’ infinito. 4) Nell’ elenco di pagina 226 non compaiono i cosidetti ellissoidi immaginari, ma questo si può capire: in R3 , un ellissoide immaginario è null’ altro che l’ insieme vuoto. 5) Alla riga 9 di pagina 226 si afferma che le quadriche (b) ed (e) sono carattere >0 izzate dall’ equazione det(A) > 0. No, la caratterizzazione corretta è det(A) (che però include anche gli ellissoidi immaginari). 5.8 Teorema 27.4 Faccio prima qualche commento ad integrazione dell’ enunciato. Poi passerò alla dimostrazione, precisandone alcuni dettagli. 1) Innanzitutto, il Teorema 27.4 resta valido se U ⊆ Rm ed f : U → Rn con m ≤ n (vedi Corollario 27.5). Invece non è valido se m > n. Per un controesempio, basta considerare la funzione f che ad ogni (x, y) ∈ R2 associa x ∈ R. L’ immagine mediante f di una retta non verticale è tutto R, quindi ha misura +∞, ma le rette hanno misura nulla in R2 . Inoltre, il Teorema 27.4 ed il Corollario 27.5 restano validi anche se f è solo di classe C (1) . Non sono più validi se f è di classe C (0) , come si vede dal seguente esempio. Sia S =]0, 1[×{0}, insieme di misura nulla in R2 , contenuto nell’ aperto U =]0, 1[×R. Per ogni (x, y) ∈ U sia f (x, y) = g(x), ove g(x) :]0, 1[→ R2 è definita come segue. Dato un numero reale x ∈]0, 1[, sia x = 0.x1 x2 x3 ... la rappresentazione in base 2. Si rammenta che quando x ammette una rappresentazione binaria finita x = 0.x1 x2 ...xn 1000..., lo si può rappresentare anche 19 nella forma x = 0.x1 x2 ...xn 0111.... In questo caso, nel definire g(x) ci riferiamo alla rappresentazione finita x = 0.x1 x2 ...xn 1000.... Con questa convenzione, se x = 0.x1 x2 x3 ... poniamo g(x) = (0, x1 x3 x5 ..., 0.x2 x4 x6 ...). La funzione g definita in questo modo è di classe C (0) (ma non di classe C (1) ). Quindi anche f è di classe C (0) . Inoltre f (S) = g(S). Però g(S) = [0, 1] × [0, 1] \ {(0, 0), (1, 1)}, che ha misura 1. Avverto che questo esempio non contraddice il fatto che nessun aperto di Rn può essere omeomorfo ad un aperto di Rm con m 6= n (vedi Sezione 3.1 di queste note). Infatti g(S) non è aperto (e nemmeno chiuso) e g, benchè sia continua, non è un omeomorfismo. Anzi, non è nemmeno iniettiva. Infatti ci sono infiniti punti p ∈ g(S) per cui g −1 (p) consiste di due oppure quattro elementi. L’ insieme di questi punti è numerabile, ma è denso in g(S). 2) Alla riga 6 di pagina 233 si dice che, siccome V è aperto, possiamo sempre supporre che R1 , R2 ,..., Rk siano contenuti in V . In questa affermazione si sfrutta la seguente proprietà: dati due numeri reali positivi e δ e dato un plurirettangolo R, esiste sempre una famiglia finita P X di plurirettangoli tali che ∪X∈X X = R, vol(X) < per ogni X ∈ X e X∈X vol(X) < vol(R) + δ. In breve: possiamo sempre riempire R con plurirettangoli piccoli quanto si vuole e tali che la somma dei loro volumi non superi di troppo il volume di R. Si noti che il ricoprimento X non può essere una suddivisione. Infatti, necessariamente, ogni X ∈ X si sovrappone parzialmente a qualche altro X 0 ∈ X . P Quindi necessariamente risulta X∈X vol(X) > vol(R). Questo dipende dal fatto che i plurirettangoli, come definiti a pagina 231 del testo, sono insiemi aperti. Ma non è necessario definirli in quel modo. Molti autori li prendono chiusi: R(a, b) := [a1 , b1 ] × ... × [an , bn ] anzichè ]a1 , b1 [×...×]an , bn [. La teoria della misura che si può sviluppare operando con plurirettangoli chiusi è esattamente la stessa che se si usano plurirettangoli aperti, salvo che molti dettagli diventano più semplici. Per esempio, possiamo ora suddividere un plurirettangolo in plurirettangoli più piccoli, non solo ricoprirlo. Esplicitamente, dato un plurirettangolo R (chiuso) ed un numero > 0, esiste sempre una famiglia finita X di plurirettangoli (chiusi) tali che ∪X∈X X = R, vol(X) < per ogni X ∈ X e l’ intersezione X ∩ X 0 è priva di punti interni, per ogni scelta di X, X 0 ∈ X . L’ P ultima condizione esclude la possibilità di sovrapposizioni e garantisce che X∈X vol(X) = vol(R). 3) La disequazione d(x, y) < M · d(x, y) (riga 8 di pagina 233) vale anche se f è solo di classe C (1) (quindi il Teorema 27.4 resta valido anche in questa ipotesi), però non è immediata come il testo lascierebbe credere. Per dimostrarla occorre una versione del Teorema della Media valida per funzioni da Rn a Rm di classe C (1) . Rimando per questo al Capitolo 8 degli Elements d’ Analyse del Dieudonnè. 4) Pagina 233, prima riga. Tenendo presente la Definizione 27.1, si evince che Sj = S ∩ Rj . 20 5.9 Lemma 29.2 1) La definzione fornita alla riga −3 di pagina 244 è certamente sbagliata. L’ insieme K vi gioca un ruolo troppo marginale perchè il supporto di f possa dipendere in maniera significativa da K. Infatti supp(f ) dipende solo da U e da b. Come conseguenza, la definizione non garantisce che f abbia supporto compatto. Infatti, sia K = [0, 1] × [0, 1] ed U =] − δ, +∞)×] − δ, 1 + δ[ per un qualche δ > 0. Risulta d(K, R2 \ U ) = δ. Quindi δ δ δ supp(f ) = [− , +∞) × [− , 1 + ]. 2 2 2 Quest’ insieme non è compatto. Venendo alla seconda parte della definizione (ultime due righe di pagina 244), non si capisce che bisogno ci sia di limitarla al caso di U = RN . Si potrebbe pensare che le ipotesi giuste siano queste: nella prima parte della definizione (riga −3) si assume che U sia limitato. Nella seconda parte si lascia cadere questa ipotesi. Oppure, più semplicemente, si lascia cadere la prima parte della definizione e ci si attiene sempre alla seconda parte, qualunque sia U , prendendo a = −1, b = 0 e ponendo f (x) = ζ(−d(x, K)), in ogni caso. 2) Pagina 245, prima riga. L’ Autore non spiega perchè f è di classe C (∞) . Che f sia di classe C (∞) segue dai seguenti risultati, che lascio da dimostrare al lettore. In essi, ϕ sta ad indicare la funzione definita alla fine di pagina 243: Rx 2 e−1/t dt se x ≥ 0, 0 ϕ(x) = 0 se x ≤ 0. Lemma. Dato p ∈ RN , siano F e G funzioni da RN ad R, entrambe di classe C (1) in RN \ {p}, con F continua in p ed F (p) = 0. Supponiamo che esistano un intorno U di p e due numeri h, k > 0 tali che |F (x)| < h ||x − p|| e |G(x)| < 1 per ogni x ∈ U \ {p}. |F (x)|k Allora la funzione x 7→ ϕ(F (x))G(x) è classe C (1) su tutto RN ed il suo differenziale in p è il vettore nullo. Corollario. Sia F : RN → R di classe C (∞) su RN \ {p} e continua in p con F (p) = 0. Supponiamo che |F (x)|/||x − p|| sia limitata attorno a p e che per ogni derivata parziale D di F , di qualunque ordine, esistano un intorno U di p ed un numero k > 0 tali che |D(x)| < 1 per ogni x ∈ U \ {p}. |F (x)|k Allora, per ogni funzione ψ : R → R di classe C (∞) , la funzione che ad ogni R F (x) ψ(t)ϕ(t)dt è di classe C (∞) su tutto RN e tutte le sue x ∈ RN associa 0 21 derivate parziali, di qualunque ordine, sono nulle in p. Si vede subito che, se F soddisfa le ipotesi del corollario precedente e ζ è la funzione definita a pagina 244 ma con a = 0 oppure b = 0, allora anche la funzione ζ(F (x)) è di classe C (∞) su tutto RN . Ne segue che la funzione f definita alla fine di pagina 244 è di classe C (∞) . 5.10 Altre correzioni 1) Pagina 173, penultima riga: ‘se esiste...’. Aggiungere ‘finito’. 2) Pagina 175, riga 10. Sostuire la parola ‘composizioni’ con ‘funzioni’. Analogamente, alla riga 21, sostituire ‘composizione’ con ‘funzione’. 3) Pagina 175, riga 12: ‘Se un diffeomeorfismo F : U → V esiste...’. Si intenda cosı̀: Se F : U → V è un diffeomorfismo... 4) Pagina 178, rige 15, 16 e 17. Siccome non si può parlare di differenziabilità per funzioni definite su insiemi discreti di Rn , due carte (Uλ , φλ ) ed (Uµ , φµ ) di una varietà discreta sono compatibili nel senso della Definizione 19.2 se e solo se Uλ ∩ Uµ = ∅. Quindi una carta di una varietà discreta non è mai compatibile con sè stessa. Se nella definzione 19.3 richiediamo anche la compatibilità di una carta con sè stessa, allora non esistono atlanti su spazi discreti. Vale a dire, non esistono varietà discrete. Quindi alle righe 15-17 di pagina 178 si parlerebbe del nulla. Se invece nella Definizione 19.3, quando si richiede che le carte siano a due a due compatibili, ci si riferisce a carte distinte, allora esiste sempre un solo atlante su uno spazio discreto X. L’ altante in questione è la funzione che applica tutto X sull’ unico elemento di R0 . 5) Pagina 178, riga −3. Sostituire ϕU (U ) con ϕU (U ∩ F −1 (V )). 6) Pagina 195, Esercizio 1. In §20 viene proposto un solo atlante per S2 . 7) Pagina 202, riga 3. La frase ‘... ha immagine...’ sembra priva di soggetto. Presumibilmente, si deve intendere che il suo soggetto sia l’ aperto ]− π2 , π2 [n−1 ×R. 8) Pagina 204, riga −11: Tξ(x) (M ). Leggi M 0 anzichè M . 9) Pagina 208, ultima riga. Js(u, v) non è la matrice 1 v 0 u ma la sua trasposta. 22 10) Pagina 210, riga 13: ‘... nel prossimo paragrafo’. No, nel §26. (Il ‘prossimo paragrafo’ è il 25.) 11) Pagina 211, righe 20, 21 e 22. L’ uguaglianza 1 zn P( ) = z̄ ā0 + ā1 z + ... + ān z n è falsa. E’ anche falso che la funzione P (1/z̄) si estenda ad una funzione definita in 0. Quindi, se Q(z) deve potersi estendere ad una funzione definita su un’ intorno di 0 nemmeno possiamo porre Q(z) = P (1/z̄). La definizione corretta è la seguente: Q(z) := (P (z −1 ))−1 = zn ā0 z n + ā1 z n−1 + ... + ān−1 z + ān ove P (z) = ā0 + ā1 z + ... + ān−1 z n−1 + ān z n . 12) Pagina 211, ultima riga. Non è esatto che #P −1 (w) sia positivo ovunque. E’ positivo in C \ {P (z1 ), ..., P (zk )}. Però questo basta a dimostrare che P ammette zeri. Infatti, se 0 6∈ {P (z1 ), ..., P (zk )} allora #P −1 (0) > 0, quindi P (z) = 0 per qualche z. Altrimenti, 0 ∈ {P (z1 ), ..., P (zk )}. Quindi P (zi ) = 0 per qualche i. In ogni caso, P (z) = 0 per qualche z ∈ C. 13) Pagina 212, riga −11 (Esercizio 6). L’ Autore vuole che si dimostri che s è un diffeomeorfismo locale, ma questo è falso. Infatti per ϕ = π2 + kπ la matrice Jacobiana di s è singolare. 14) Pagina 213, riga 9 (Esercizio 9): h(x) = f (x). No. La posizione corretta è h(x) = g(x). 15) Pagina 216, righe −15, −13 e −12. Si sostituisca ovunque F con f . 16) Pagina 221, Esercizio 4. Il morfismo f è un’ immersione in ogni punto di R2 . Forse l’ Autore intendeva scrivere f (u, v) = (sin u, cos 2u, v). Definita cosı̀, f è un’ immersione se e solo se u 6= π2 + kπ. 17) Pagina 222, riga −3: x 7→ (x, 0). Sostituire 0 con b. 18) Pagina 224, equazione [26.4]. Sotto la seconda sommatoria, scrivere i < j anzichè j < j. 19) Pagina 230, Esercizio 3, ultime due righe. Esistono certamente sottoinsiemi di S massimali rispetto alla proprietà di essere superfici differenziabili, ma non è detto che ne esista uno solo. Se ce n’ è più d’ uno (come nell’ esempio (b)) il più grande sottoinsieme di S che sia una superficie differenziabile non esiste. 23 20) Pagina 231, riga 8. Non è detto che in un valore critico capiti sempre o che la fibra non è una varietà oppure che lo è ma ha dimensione maggiore di dim(X) − dim(Y ). Si consideri per esempio la funzione f : R3 → R2 definita dalla clausola f (x, y, z) = (x + y, x2 + y 2 ) (cfr. Esercizio 5 a pagina 231). Tutti i 2 punti (t, t2√/2) sono √ valori critici per f . Infatti la retroimmagine di (t, t /2) è la retta {(t/ 2, t/ 2, z)}z∈R e nessuno dei punti di questa retta è regolare per f . Tuttavia una retta è una varietà 1-dimensionale, e qui 1 è la dimensione giusta: 1 = 3 − 2. 21) Pagina 232, riga 15 e riga 16: bi − ai > 1 (riga 15) e bji − aji > 1 (riga 16). In entrambi i casi, si scriva > 1/ρ anziché > 1. 22) Pagina 232, riga −9: lemma 27.3(a) e (c). Si intenda: lemma 27.3(c). 23) Pagina 233, riga 11. Nel simbolo Pk i=1 vol(Ri0 )) c’ è una parentesi di troppo. 24) Pagina 247, riga −6: “ F è biunivoca”. No, è solo iniettiva. 25) Pagina 247, ultima riga. Si legga (σh ϕh )·(ϕ−1 )(u) invece di (σh ϕh )·ϕ−1 )(u). 26) Pagina 249, riga −11. Il morfismo τ è di classe C (∞) su tutto R2k+1 \ {0}, ma in 0 è solo di classe C (1) . Infatti non ammette tutte le derivate seconde in 0. Quindi la composizione f := τ · ι dell’ immersione ι : X → R2k+1 con τ non è di classe C (∞) . E’ solo di classe C (1) . Ma possiamo aggirare quest’ ostacolo come segue. Siccome dim(X) = k < 2k + 1, l’ insieme ι(X) ha misura nulla in R2k+1 (Corollario 27.5). Altrettanto vale per −ι(X). Quindi esiste un punto a ∈ R2k+1 \ (−ι(X)). Prendiamo f := τ · ta · ι, ove ta : x 7→ x + a. In questo modo evitiamo il punto 0. 5.11 Precisazioni 1) Proposizione 19.1. Nella seconda e terza formula di questa proposizione, per l’ esistenza delle derivate a primo membro basta che esistano quelle a secondo membro. 2) Pagina 179, riga 12. Supponiamo che J sia aperto. Dicendo che α : J → X è di classe C (∞) si intende che, per ogni carta (U, φ) di X con U ∩ J 6= ∅, la funzione φ · α|α−1 (U ) è di classe C (∞) . 3) Pagina 179, riga 14. Credo che l’ Autore intenda dire solo questo: nella definizione di curva non è necessario che J sia aperto, purchè si convenga di dire per che α è classe C (∞) in un punto estremale di J se in esso ammette tutte le derivate (destre o sinistre, a seconda dei casi). 4) L’ immagine di una curva differenziabile α : J → X, come definita a pagina 179, non è sempre una sottovarietà differenziabile di X nel senso della 24 Definizione 20.1 (ma ciò non impedisce che possa essere una varietà differenziabile di dimensione 1). La figura 20.1 fornisce appunto un esempio di curva in R2 che non è una sottovarietà di R2 . (Tornerò su questo esempio tra poco, alla nota (8)). Ecco un altro esempio: J = R ed α(t) = (t3 , t2 ). L’ immagine di α è una varietà 1-dimensionale (diffeomorfa ad R), ma non è una sottovarietà differenziabile di R2 . Questa questione viene affrontata nel Capitolo 6 del testo, ove si dimostra che l’ immagine α(J) di una curva differenziabile α : J → X con J aperto è una sottovarietà differenziabile di X se e solo se α è regolare. Invece affinchè α(J), con la topologia indotta da X, sia di per sè una varietà differenziabile, basta che per ogni x ∈ J esista un intorno Ux di α(x) tale che α induca un omeomorfismo (topologico) da α−1 (Ux ) ad Ux . 5) Definizione 20.1. Cosa voglia dire che un aperto di X è diffeomomorfo ad un aperto di Rn in quanto sottoinsieme di RN , viene spiegato nel testo solo dopo, alle righe 5-8. 6) Definizione 20.2. La condizione che f sia un diffeomorfismo da A ad f (A) è di per sè piuttosto vaga, dal momento che non specifica la struttura differenziale da porre su f (A). La si potrebbe interpretare in vari modi e non tutte queste interpretazioni comportano che f (A) sia una sottovarietà di RN , come invece asserito nell’ ultima riga della definizione. Tenendo presente quest’ ultimo requisito, si evince che nel dire che f è un diffeomorfismo di A su f (A) l’ Autore intende questo: l’ applicazione f : A → RN è iniettiva, differenziabile e, per ogni x ∈ f (A), esiste un intorno aperto U di x in RN ed una applicazione differenziabile F U : U → A tale che F U induce su U ∩ f (A) l’ inversa della restrizione di f ad f −1 (U ∩ f (A)). 7) Pagina 181, ultime sei righe. Nemmeno la restrizione di f a [0, 2π[ è una parametrizzazione, anche se è biunivoca. Infatti [0, 2π[ non è aperto. Per parametrizzare il cerchio occorrono almeno due parametrizzazioni, ottenute restringendo f a due opportuni aperti di R. Per esempio, A =]0 − ε, 2π − ε[ e B =]0 + ε, 2π + ε[, ove 0 < ε < π. 8) Pagina 182, prime due righe dopo la figura. La funzione α non è una curva nel senso della definizione data a pagina 179, perchè A non è un intervallo. Possiamo estendere α in modo ovvio all’ intervallo A =]0, 2π[. Detta ᾱ tale estensione, ᾱ è una curva. Tuttavia la sua immagine ᾱ(A) non è una sottovarietà differenziabile di R2 . Si noti per inciso che α(A) = ᾱ(A). Invece, posto A0 =]0, π/2[∪]π/2, 3π/2[∪]3π/2, 2π[, allora α(A0 ) = ᾱ(A) \ {(0, 0)} è una sottovarietà differenziabile di R2 , ma non è connessa. 9) Pagina 182, riga −14. Le curve piane come definite in questo paragrafo e le immagini di curve in R2 nel senso di pagina 179 non sono esattamente la stessa cosa. Le curve come definite a pagina 182 potrebbero non essere connesse, men25 tre l’ immagine di una curva nel senso di pagina 179 è sempre connessa. Però, ogni curva piana X nel senso di pagina 182, se è connessa, è l’ immagine di una opportuna curva α del senso di pagina 179 (ma di curve α che abbiano X come immagine ce n’ è sempre infinite). D’ altra parte, l’ immagine di una curva nel senso di pag. 179 potrebbe non essere una sottovarietà di R2 (vedi sopra, note (4) e (8)). In tal caso non sarebbe una curva nel senso di pagina 182. 10) Pagina 189, Esercizio 3. Perchè la domanda abbia senso bisognerebbe specificare caso per caso quale struttura di varietà differenziabile si pone sulla varietà topologica in esame. Di solito, c’ è al più una struttura differenziale possibile per una data varietà topologica, e questo è il caso per tutti gli esempi presentati in 5.4. Ma non so se sia sempre cosı̀. Comunque, di questo problema nel testo non si fa parola. 11) Pagina 189, Esercizio 6. L’ unione degli assi coordinati non è nemmeno una varietà topologica, nè tantomeno differenziabile. 12) Pagina 190, riga −6, definizione di E(X, p). Siccome in precedenza l’ Autore ha occasionalmente considerato applicazioni di classe C (k) con k finito (in particolare, k = 1), ora non è più chiaro se parlando di funzioni differenziabili intenda funzioni di classe C (1) o di classe C (∞) . Verosimilmente, intende funzioni di classe C (∞) . (Vedi anche gli avvertimenti dati a apgina 177.) 13) Sezione 22.5, Esempio 2. C’ è un modo semplicissiomo per trasformare una parametrizzazione α in un omeomorfismo che non sia più una parametrizzazione: se l’ immagine di α contiene il punto (0, 0, ..., 0), basta sostituire ogni componente di α con una sua potenza k-esima, per qualche intero dispari k ≥ 3. 14) Pagina 200, ultima riga. Vengono qui introdotti i simboli dx e dy. In questo contesto stanno ad indicare le coordinate del vettore generico di Tz (U ) rispetto alla base {∂/∂x, ∂/∂y} di Tz (U ). 15) Pagina 204. Nella discussione di questo esempio l’ Autore non si cura troppo di distinguere tra M 0 (superficie differenziabile nel senso di pagina 178) e g(M 0 ) (superfice di R3 nel senso di pagina 182). Il fatto che l’ Autore scriva g(M 0 ) anzichè M 0 fa pensare alla definizione di pagina 182, ma in realtà egli mostra solo che M 0 è una superficie differenziabile nel senso di pagina 178. Naturalmente, è anche vero che g(M 0 ) è una superficie di R3 , ma questo l’ Autore non lo dimostra. 16) Pagina 211, riga 12: funzioni olomorfe intere f : C → C. Tutte le funzioni olomorfe da C a C sono funzioni intere! 17) Pagina 213, riga −12: ‘Una sottovarietà di dimensione 0 è un sottoinsieme discreto’. Questa non è un’ affermazione, ma una convenzione. 26 18) Pagina 216, prima riga. Ad essere precisi, bisognerebbe considerare non l’ aperto U ⊆ Rm come definito alla fine di pagina 215, ma la retroimmagine ι−1 (U ) di U mediante l’ inclusione naturale ι di Rn nel sottospazio di Rm generato da primi n versori. Infatti ϕ agisce su A, ma U non è un sottoinsieme di A. Invece ι−1 (U ) ⊆ A. L’ insieme ϕ(ι−1 (U )) è l’ intorno V di x di cui si parla nella Proposizione 25.4. 19) Pagina 218. Stando alla definizione qui proposta dall’ autore, il vertice di un cono non appartiene al cono. Questa convenzione è necessaria se si vuole che il cono sia una varietà. Infatti, se conveniamo che il vertice appartenga al cono, allora il vertice non possiede nel cono intorni omeomorfi ad un aperto di R2 . In questo modo il cono non è nemmeno una varietà topologica. 20) Pagina 223, riga 10. Il simbolo N [...] sta per ‘nucleo di ...’. 21) Pagina 227, riga 5. L’ applicazione ω manda GLn (R) suriettivamente sull’ insieme delle matrici simmetriche definite positive. Ciascuna di queste matrici è un valore regolare per ω. 22) Pagina 231, riga 7: ‘un punto al di sopra del quale’. Si deve intendere cosı̀: un punto y ∈ Y tale che f −1 (y)... 23) Pagina 234, righe 15 e 16. L’ Autore afferma che, quando m è irrazionale, l’ insieme {mh − [mh] + k | h, k ∈ Z} è denso in R. Non so se questo sia vero. P∞ 24) Pagina 245, riga −6. Per essere certi che i=1 σi sia ben definita occorre che ogni x ∈ X appartenga al supporto compatto di un numero finito di funzioni σi , ma questo potrebbe non essere vero. Per aggirare l’ ostacolo, dobbiamo preliminarmente sostituire la famiglia {Bi }∞ i=1 con un suo raffinamento numerabile localmente compatto B (che esiste, perchè X è localmente compatto e soddisfa il secondo assioma di numerabilità) e poi sostituire V con {V ∩B | V ∈ V, B ∈ B}. 6 6.1 Capitolo 6 Distanza intrinseca 1) Avvertenza. Nella definizione 33.1 non è necessario supporre che S sia una superficie. Potrebbe assere anche una qualunque sottovarietà differenziabile di RN . Tutto quello che si dice nella Sezione 33 del testo, fin verso la metà di pagina 280, resta valido in questo contesto più generale. (Vedi anche più avanti, Sezione 6.6, nota (4).) Quindi di qui in poi, per tutta la durata di questa sezione, assumo che S sia una sottovarietà di RN . 2) Due modi di definire la distanza intriseca. Stando alla Definizione 33.1, la distanza intrinseca ρ(x1 , x2 ) è l’ esteremo inferiore delle lunghezze tra 27 x1 e x2 calcolate su curve differenziabili a valori in S, regolari o no, mentre poi, nel seguito del testo, si procede come se in quella definizione si dovessero considerare solo curve differenziabili regolari, come se la distanza intrinseca tra x1 a x2 fosse in realtà l’ estremo inferiore, diciamolo ρreg. (x1 , x2 ), dell’ insieme delle lunghezze di curve differenziabili regolari in S da x1 a x2 . In effetti, è proprio cosı̀ (ma di questo l’ Autore non fa parola). Infatti, come dimostreremo alla fine di questa nota, ρreg. (x1 , x2 ) = ρ(x1 , x2 ). Per dimostrare questa uguaglianza occorrono alcuni lemmi, ma prima di passare ad essi devo fare alcune precisazioni. Nel testo il dominio di una curva differenziabile è sempre un insieme connesso aperto J di R, ma nulla vieta di concedere che J sia solo un insieme connesso di R, non necessariamente aperto. In certi contesti questa convenzione provoca qualche piccola complicazione, ma nel contesto attuale seve ad evitarne. Quindi nel seguito mi atterrò ad essa. Inoltre, in base alla definizione data a pagina 252, la lunghezza di un arco tra due punti di una curva può anche essere negativa, ma nella definzione 33.1 tutte le lunghezze vengono prese positive. Vale a dire, si prendono non le lunghezze nel senso di pagina 252, ma i loro valori assoluti. Cosı̀ farò anch’ io, nel seguito. Esplicitamente, data una curva differenziabile α : [a, b] → S, pongo Rb l(α) = | a ||α0 (t)||dt|, e chiamo l(α) lunghezza di α. Una curva differenziabile a valori in S è una applicazione differenziabile α da un sottoinsieme connesso J di R a RN tale che α(J) ⊆ S. Ma possiamo anche considerarla come un’ applicazione differenziabile da J ad S, vedendo S come varietà in senso astratto, prescindendo dalla sua immersione in RN . Possiamo ancora parlare di vettori tangenti e lunghezze, ma solo considerando sottointervalli [t1 , t2 ] di J tali che α([t1 , t2 ]) ⊆ U per qualche carta locale (U, φ) di S, prendendo come vettori tangenti e lunghezze di archi di α dentro al tratto [t1 , t2 ] i vettori tangenti e lunghezze degli archi della curva differenziale φα|[t1 ,t2 ] : [t1 , t2 ] → φ(U ) ⊆ Rn . In questo modo però vettori tangenti e lunghezze di archi dipendono dalla scelta della carta (U, φ). Se (V, ψ) è un’ altra carta tale che α([t1 , t2 ]) ⊆ V , vettori tangenti e lunghezze possono cambiare, anche se la matrice Jacobiana di ψφ−1 φ(U ∩V ) ci permette di convertire vettori tangenti e lunghezze di φα[t1 ,t2 ] in vettori tangenti e lunghezze di ψα|[t1 ,t2 ] . E’ dunque opportuno distinguere tra α pensata come applicazione da J alla sottovarietà S di RN ed α pensata come applicazione da J alla varietà S astrattamente intesa. Nel seguito adotterò notazioni atte a segnalare quando α va intesa nel secondo modo. Infine, capiterà nel seguito di considerare applicazioni continue α : J → S, differenziabili su tutto J salvo eventualmente un numero finito di punti. Stando al testo, le dovrei chiamare archi. Ma mi risulta più comodo chiamarle curve. Lemma 1. Dato un numero naturale n > 1 e tre numeri reali a < c < b, sia α : [a, b] → Rn una curva, non nessariamente differenziabile in c ma tale che le restrizioni α|[a,c] ed α|[c,b] di α agli intervalli [a, c] e [c, b] siano curve differen28 ziabili regolari. Prendiamo come lunghezza di α la somma delle lunghezze di α|[a,c] ed α|[c,b] : l(α) := l(α[a,c] ) + l(α[c,b] ). In queste ipotesi e con queste convenzioni, per ogni δ > 0 esistono numeri a0 , b0 con a < a0 < c < b0 < b e una curva differenziabile regolare β : [a, b] → Rn tale che β(t) = α(t) per ogni t ∈ [a, a0 ] ∪ [b0 , b] ed |l(β) − l(α)| < δ. Dimostrazione. Per semplificare la notazione, assumiamo che a = −1, c = 0 e b = 1. Dato ε > 0 poniamo ψε (t) = ϕ(t)ϕ(ε − t), ove ϕ è la funzione definita alla fine di pagina 243 del testo e Rx ψε (t)dt . ζε (x) := R −∞ +∞ ψ (t)dt ε −∞ (Vedi pagina 244.) Poniamo γε (t) := (ζε (t) + ζε (−t)) · α(t), per ogni t ∈ [−1, 1]. L’ applicazione γε è una curva differenziabile, ma non è regolare, perchè ha velocità nulla in 0. D’ altra parte, è facile vedere che γ 0 (t) 6= 0 per ogni t 6= 0. Possiamo dunque considerare l’ applicazione Dγ : [−1, 0[∪]0, 1] → Sn−1 che ad ogni t ∈ [−1, 0[∪]0, 1] associa γ 0 (t)/||γ 0 (t)||. L’ applicazione Dγ (ristretta a ] − 1, 0[∪]0, 1[) è un morfismo di varietà differenziabili. Per il Teorema 27.6, e siccome n > 1 per ipotesi, l’ insieme Dγ ([−1, 0[∪]0, 1]) ha misura nulla. Quindi esiste un vettore v in Rn di norma ||v|| = 1 tale che γ 0 (t)/||γ 0 (t)|| 6= ±v, per ogni t ∈ [−1, 0[∪]0, 1]. Definiamo βε : [−1, 1] → Rn ponendo βε (t) := γε (t) + ψε ((t + ε)/2)v. L’ applicazione βε è una curva differenziabile regolare e coincide con α su [−1, −ε] ∪ [ε, 1]. Non è difficile vedere che limε→0 (l(βε ) − l(α)) = 0. Quindi, se ε è abbstanza piccolo, la curva β = βε ha le proprietà richieste. C.D.D. Lemma 2. Sia α : [a, b] → S una curva differenziabile. Per ogni ε > 0 esiste una curva differenziabile regolare β in S da α(a) ad α(b) tale che l(β) ≤ l(α)+ε. Dimostrazione. Ci limitiamo al caso che S abbia dimensione n > 1. Se n = 1 allora le componenti connesse di S sono curve regolari e il Lemma, pur restando valido, perde molto del suo interesse. Sia dunque n > 1. Sia U un atlante differenziabile per S. In questo modo pensiamo S come una varietà differenziabile astratta e vediamo l’ inclusione ι : S → RN come un’ immersione (Proposizione 25.3). Poniamo ᾱ = ι−1 · α. Per ogni carta (U, φ) di U ed ogni intervallo I ⊆ ᾱ−1 (U ), la funzione φ · ᾱ : I → Rn è una curva differenziabile in Rn . Siccome ᾱ([a, b]) è compatto, esiste un insieme finito V di carte di U tale che ᾱ([a, b]) ⊂ ∪(U,φ)∈V U . Per ogni (U, φ) ∈ V ed ogni punto x ∈ U ∩ ᾱ([a, b]) possiamo scegliere un aperto Vx,U contenente x tale che la sua chiusura V x,U sia contenuta in U . Abbiamo cosı̀ un nuovo ricoprimento aperto di ᾱ([a, b]) dal quale, nuovamente, possiamo estrarre un sottoricoprimento finito, diciamolo {Vj }kj=1 . Le componenti connesse delle retroimmagini in [a, b] mediante ᾱ degli 29 aperti Vj sono intervalli aperti e ci danno un ricoprimento aperto di [a, b]. Per la compattezza di [a, b], possiamo estrarne un ricoprimento finito. Sia I uno qualunque degli intervalli che formano questo nuovo ricoprimento di [a, b]. Siccome ᾱ(I) ⊂ Vj per qualche j e V j ⊂ U per qualche (U, φ) ∈ V, l’ applicazione ᾱ manda la chiusura I di I dentro U . In definitiva, possiamo trovare in [a, b] una sequenza finita di punti a = t0 < t1 < t2 < ... < tm−1 < tm = b tale che per ogni i = 1, ..., m esista (Ui , φi ) ∈ V tale che ᾱ([ti−1 , ti ]) ⊂ Ui . Sia dunque ᾱ([ti−1 , ti ]) ⊂ Ui , con (Ui , φi ) ∈ V. Indichiamo con ᾱi la restrizione di ᾱ a [ti−1 , ti ]. Quindi ᾱi è una curva differenziabile. Dalla teoria dell’ integrazione su curve in Rn sappiamo che, per ogni δi > 0, esiste una poligonale pi in Rn da φi (ᾱ(ti−1 )) a φi (ᾱ(ti )) tale che l(pi ) ≤ l(φi ᾱi ) + δi , ove l(pi ) sta ad indicare la lunghezza di pi , intesa nel senso usuale. Inoltre, per come si sono presi i punti t1 , ..., tm , possiamo sempre suppore di aver scelto pi in modo che φ−1 i (pi ) sia contenuto in un opportuno sottoinsieme compatto Ci di Ui contenente ᾱ([ti−1 , ti ]). Infine, nel caso che ᾱi sia costante, potremmo essere tentati di prendere pi degenere, cioè ridotta ad un solo punto, ma possiamo anche evitarlo. In vista del seguito della nostra dimostrazione, dobbiamo evitarlo. Quindi le poligonali pi si intendono non degeneri. Usando il precedente Lemma 1, possiamo trovare un’ opportuna curva γ̄i contenuta in Ci , tale che φi γ̄i sia differenziabile e regolare, coincida con pi salvo che in intorni dei suoi vertici interni e l(φi γ̄i ) ≤ l(pi ) + δi . Quindi |l(φi γ̄i ) − l(φi ᾱi )| ≤ 2δi . Sia γ̄ : [a, b] → S la curva ottenuta attaccando γ̄2 a γ̄1 nel punto γ̄1 (t1 ) = γ̄2 (t1 ), poi γ̄3 a γ̄2 nel punto γ̄2 (t2 ) = γ̄3 (t1 ), e cosı̀ via. La curva γ := ιγ̄ non è detto che sia differenziabile. Infatti potrebbe non ammettere vettore tangente in corrispondenza di alcuni dei punti γ̄i (ti ) = γ̄i+1 (ti ), ove γ̄i si salda con γ̄i+1 . A questo si rimedia come segue. In φi (Ui ∩ Ui+1 ), consideriamo φi γ̄i e φi γ̄i+1 . Ricorrendo nuovamente al Lemma 1, possiamo rimuovere l’ eventuale singolarità nel punto xi := φi (γ̄i (ti )) = φi (γ̄i+1 (ti )) rimpiazzando attorno a xi un tratto opportunamente corto di φi (γ̄) con una curva θi presa in modo che il rsultato dell’ operazione sia una curva regolare in Ui . Chiamiamo β̄i la nuova curva ottenuta correggendo γ̄i in questo modo. Dal Lemma 1 sappiamo che possiamo prendere θi in modo che |l(φβ̄i ) − l(φγ̄i )| ≤ δi . Quindi |l(φβ̄i ) − l(φᾱi )| ≤ 3δi . La dimostrazione del Lemma 1 mostra anche che la curva θi può essere presa in modo che β̄i ([ti−1 , ti ]) sia ancora contenuto in Ci . Sia ora β̄ : [a, b] → S la curva ottenuta attaccando tra loro i pezzi β̄i , allo stesso modo in cui abbiamo formato γ̄ attaccando tra loro γ̄1 , γ̄2 , ..., γ̄n , e poniamo β := ιβ̄. Per come abbiamo costruito β̄, la curva β = α(a) Pèmdifferenziabile e regolare e risultaPβ(a) m e β(b) = α(b). Inoltre, l(β) = i=1 l(ιβ̄i ). Analogamente, l(α) = i=1 l(ιᾱi ). Rammentiamo che, se θ è una qualunque curva differenziabile in RN ed f è un morfismo differenziabile da Rn ad RN , allora (f θ)0 (t) = J(f )θ(t) θ0 (t), ove J(f ) è la matrice Jacobiana di f . Quindi, βi0 (t) = J(ι)β̄i (t) · (φi β̄)0 (t) ed αi0 (t) = J(ι)ᾱi (t) · (φi ᾱ)0 (t). Da questo segue subito che |l(ιβ̄i ) − l(ιᾱi )| ≤ Mi · |l(φi β̄i ) − l(φi ᾱi )|, ove Mi è il valore massimo assunto in Ci dalla norma (euclidea) di J(ι). (Si rammenti che β̄i [ti−1 ] e ᾱi [ti−1 , ti ] sono contenuti in Ci 30 e che Ci è compatto.) D’Paltra parte, si è già visto che |l(φi β̄i ) − l(φi ᾱi )| ≤ 3δi . m Quindi |l(β)−l(α)| ≤ 3· i=1 Mi ·δi . Se i δi li abbiamo presi abbastanza piccoli, otteniamo che |l(β) − l(α)| < ε. C.D.D. Teorema. Per ogni coppia di punti a e b di S risulta ρ(a, b) = ρreg. (a, b). Dimostrazione. Ovviamente, ρ(a, b) ≤ ρreg. (a, b). L’ uguaglianza segue dal Lemma 2. C.D.D. 3) Se S è connessa, la distanza ρ è sempre ben definita. Se in S non esiste alcuna curva differenziabile che congiunga due punti x1 e x2 di S, siamo costretti a porre ρ(x1 , x2 ) = +∞. Dimostreremo che invece se S è connessa allora la distanza intriseca tra due suoi punti è sempre finita. Ci serve un lemma. Lemma 3. Sia A un aperto di Rn e sia α : [0, 1] → A un’ applicazione continua. Allora A contiene una poligonale da α(0) ad α(1). Dimostrazione. Per ogni t ∈ [0, 1], sia Dt un disco aperto di centro α(t) contenuto in A. Siccome α([0, 1]) è compatto, esiste una sequenza finita 0 ≤ t1 < t2 < ... < tk = 1 tale che α([0, 1]) ⊆ ∪kj=1 Dtj . Le componenti connesse delle retroimmagini α−1 (Dtj ) formano un ricoprimento aperto di [0, 1]. Per la compazza di [0, 1], possiamo estrarne un ricoprimento finito. In definitiva, esiste una sequenza 0 = s0 < s1 < ... < sm = 1 tale che per ogni i = 1, ..., m l’ arco α([si−1 , si ]) è contenuto in un disco aperto Di ⊆ A. Sia pi il segmento di Rn da α(si−1 ) ad α(si ). Allora pi ⊂ Di , quindi pi ⊂ A. La poligonale formata dai segmenti p1 , p2 , ..., pm va da α(0) ad α(1) ed è contenuta in A. C.D.D Teorema. Supponiamo che S sia connessa. Allora ρ(a, b) < +∞ per ogni coppia di punti a, b ∈ S. Dimostrazione. Dobbiamo solo dimostrare che, nell’ ipotesi che S sia connessa, esiste sempre una curva differenziabile in S da a a b. Siccome S è una varietà connessa, essa è anche connessa per archi. Quindi esiste un arco α : [0, 1] → S tale che α(0) = a ed α(1) = b. Però α potrebbe non essere una curva differenziablie. Dobbiamo sostituirlo con una curva differenziabile. Sia U un atlante di S. Per la compattezza di α([0, 1]), esiste una famiglia finita {(Ui , φi ), ..., (Um , φm )} di carte di U tale che α([0, 1]) ⊆ ∪m i=1 Ui . Come nella dimostrazione del Lemma 2 della precedente nota (2), possiamo sempre scegliere la famiglia {(Ui , φi )}m i=1 in modo che esista una sequenza 0 = t0 < t1 < ... < tm = 1 tale che α([ti−1 , ti ] ⊆ Ui per ogni i = 1, 2, ..., m. (Si noti che in quella parte della dimostrazione del Lemma 2 si sfrutta solo la continuità di α.) Per il Lemma 3, esiste in φi (Ui ) una poligonale pi da φi (α(ti−1 )) a φi (α(ti )). Poniamo γi = φ−1 (pi ) e sia γ : [0, 1] → S la curva ottenuta saldando tra loro le curve γi . Evidentemente, γ(0) = α(0) = a e γ(1) = α(1) = b. Come nella seconda parte della dimostrazione del Lemma 2, possiamo costruire una curva 31 differenziabile β : [0, 1] → S con β(0) = γ(0) e β(1) = γ(1). Dalla dimostrazione del Lemma 2 sappiamo anche che possiamo costruire β in modo che sia regolare e che resti vicina a γ quanto si vuole, ed anzi si sovrapponga ad essa salvo che nelle vicinanze dei punti di γ corrispondenti alla saldatura tra due poligonali pi e pi+1 o tra due segmenti di una stessa poligonale pi . Ma tutto questo ora non ci interessa: β è una curva differenziabile di S da a a b. Questo ci basta. C.D.D. 4) La distanza euclidea non supera mai la distanza intrinseca. Vale a dire, ρ(a, b) ≥ d(a, b), ove d(., .) sta per la distanza euclidea in RN . Il testo menziona questo fatto (riga 11 di pagina 275), ma non lo dimostra. Lo si può dimostrare come segue. Sia α : [0, 1] → RN una curva differnziabile di S con α(0) = a ed α(1) = b. Dalla teoria dell’ integrazione su curve di RN sappiamo che per ogni ε > 0 esiste in RN una poligonale p da a a b tale che l(α) > l(p) − ε. D’ altra parte, l(p) ≥ d(a, b), come risulta da ripetute applicazioni della proprietà triangolare. Pertanto l(α) > d(a, b) − ε. Per l’ arbitrarietà di ε, l(α) ≥ d(a, b). Quindi ρ(a, b) ≥ d(a, b). 5) Se S è connessa, ρ è effettivamente una distanza. L’ Autore tralascia di dimostare questo fatto. Rimediamo qui a questa lacuna. Se S non è connessa la distanza intrinseca ρ assume anche il valore +∞, quindi non è una distanza. Supponiamo invece che S sia connessa. Allora, come visto alla nota (3) di questa sezione, i valori di ρ sono sempre numeri reali non negativi. Per definizione ρ(a, b) = ρ(b, a). Siccome un’ applicazione costante è una curva differenziabile (ma non regolare) di lunghezza 0, la distanza intrinseca di un punto da sè stesso è sempre nulla. Viceversa, sia ρ(a, b) = 0. Allora d(a, b) = 0 (vedi sopra, nota (4)). Quindi a = b. Resta da dimostrare la proprietà triangolare: ρ(a, b) ≤ ρ(a, c) + ρ(c, b). Siano α e β curve differenziabili di S da a a c e rispettivamente da c a b. In virtù del Lemma 2, possiamo supporre di aver scelto α e β regolari. Sia ι l’ inclusione di S in RN . Dato ε > 0 e presa una carta locale (U, φ) di S con c ∈ U , applicando il Lemma 1 a φι−1 α e φι−1 β in φ(U ) e ritornando poi a RN , otteniamo una curva differenziabile regolare γ di S da a a c tale l(γ) < l(β) + l(α) + ε. (Il procedimento è lo stesso che abbiamo usato ripetutamente nella seconda parte della dimostrazione del Lemma 2.) Ne segue che ρ(a, b) ≤ ρ(a, c) + ρ(b, c) + ε. Per l’ arbitrarietà di ε, ρ(a, b ≤ ρ(a, c) + ρ(c, b). 6.2 Superfici rigate 1) Ultima riga di pagina 283 e prime righe di pagina 284. Poi di nuovo a pagina 300, Esempio 35.9.6. Perchè l’ applicazione x(u, v) = α(u) + uv(u) sia una parametrizzazione non basta che sia sempre v(u) 6= 0. Occorre anche che α0 (u) 6= −vv0 (u) e che v(u) non sia proporzionale ad α0 (u) + vv0 (u), per ogni scelta di u e v. 32 Quindi, quando v = α0 (riga 9 di pagina 284), per avere una parametrizzazione non basta che sia sempre α0 6= 0. Si deve anche escludere il valore v = 0 (quindi assumere v > 0 oppure v < 0) ed α00 non deve mai essere proporzionale ad α0 . Di tutto questo l’ Autore non fa parola. Si noti che quando α ha velocità costante uguale ad 1, dire che α00 non è mai proporzionale ad α0 equivale a dire che α00 non si annulla mai. Infatti, derivando l’ identità α0 • α0 = 1 si ottiene 2α0 • α00 = 0, cioè α00 ⊥ α0 . Quindi α00 (t) k α0 (t) se e solo se α00 (t) = 0. 2) Pagina 284, riga 9. Siccome, per quanto detto sopra, nell’ espressione α(u) + vα0 (u) si dovrebbe prendere v > 0 oppure v < 0, parlando di tangenti si dovrebbero intendere non rette tangenti ma piuttosto semirette tangenti (per di più, private dell’ origine). In effetti, l’ Autore fa proprio cosı̀ verso la fine della pagina, ove modificando la definzione già data a pagina 218, ridefinisce un cono come una rigata di semirette aperte che escono da uno stesso punto. 3) Pagina 218, riga 15. L’ Autore, afferma che la rigata tangente ad una curva piana è sempre un insieme aperto. Ma se per tangenti si intende ‘rette tangenti’, questo è falso. Per esempio, l’ unione delle rette tangenti ad una curva piana convessa o concava contiene sempre il grafico della curva e tutti i punti del grafico sono di frontiera per quell’ unione. Quindi quell’ unione non è un insieme aperto. Poniamo invece che con la locuzione ‘rette tangenti’ ci si riferisca a semirette, private dell’ origine e dirette in modo ‘concorde’ (prendendo per esempio v > 0). Anche cosı̀, se accantoniamo il requisito che α00 non mai nulla nè proporzionale ad α0 (vedi nota (1) di questa sezione), non è detto che l’ unione di queste semirette formi un insieme aperto. Per esempio, sia α(x) = (x, x3 ). L’ unione delle semirette tangenti alla curva α, dirette verso destra, è l’ insieme X := {(x, y) | x > 0, y ≥ 0} ∪ {(x, y) | x ≤ 0, y > x3 }. L’ insieme X non è aperto. Esso contiene la semiretta {(x, 0)}x>0 , che è contenuta nella frontiera di X. La stessa situazione, ruotata di π, si presenta se prendiamo le semirette tangenti dirette verso sinistra. Oppure, consideriamo una retta L di R2 . Essa coincide con la propria rigata tangente, comunque questa venga definita. Ma L non è un aperto di R2 . Peró in questi due esempi la derivata seconda α00 di α non è sempre diversa da 0. Non sono a conoscenza di esempi che soddisfino i requisiti richiesti alla nota (1) e nei quali almeno una delle due rigate di semirette tangenti non sia un insieme aperto, ma forse ne esistono. 6.3 Torema Egregium, prima dimostrazione Alla riga −8 di pagina 316 si dice che la componente tangenziale del secondo membro della formula alla riga −11 è nulla, ma questo è falso: non è detto che L(xu ) ed L(xv ) siano tangenziali. Pertanto, nelle formule alle righe −6 e −4 va aggiunta la coda +(...)N. 33 Nonostante questo, la formula finale di pagina 316 (ultime due righe) resta valida. Da essa segue effettivamente che K è una grandezza intrinseca. Infatti, come l’ Autore fa notare all’ inizio di pagina 316, i vettori Dxu xu e Dxv xu si possono esprimere come combinazioni lineari dei vettori xu ed xv (che, come già sappiamo, hanno natura intrinseca), usando come coefficienti funzioni di natura intrinseca. Quindi gli operatori Dxu e Dxv sono definiti in modo intrinseco. Lo stesso dicasi per loro ripetute applicazioni. Infine, il prodotto scalare di due grandezze vettoriali intrinseche è una grandezza scalare intrinseca. Ne segue che l’ espressione (∗) [Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv rappresenta una grandezza intrinseca. D’ altra parte, dall’ ultima formula di pagina 316 risulta che K = [Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv . EG − F 2 Quindi anche K è una grandezza intrinseca. Ammetto che l’ argomentazione precedente non è delle più limpide, ma certamente è possibile riformularla in modo da soddisfare i lettori più esigenti. Comunque, immagino che a questa argomentazione alluda l’ Autore all’ inizio di pagina 317, quando dice che la quantità (∗) può essere riespressa tramite le [37.3] in termini di grandezze intrinseche (in sostanza, ripetendo quanto ha già detto all’ inizio di pagina 316). Non credo che stia invitando il lettore a ricavare un’ espressione esplicita di (∗) in funzione delle derivate di E, F, G, xu ed xv . Infatti, se si esplicita (∗) in questo modo, si ottiene solo che [Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv = 1 1 = Fuv − Evv − Guu + xuv xvu − xuu xvv + det(L). 2 2 Questa equazione non è di molto aiuto per dimostrare che K o equivalentemente det(L) sono grandezze intrinseche, a meno che non si sappia già che (∗) rappresenta una grandezza intrinseca. Possiamo invece combinare l’ equazione precedente con l’ uguaglianza [Dxv (Dxu xu )] • xv − [Dxu (Dxv xu )] • xv = .... = det(L), (ultime due righe di pagina 316) ricavandone l’ identità di pagina 318, riga 2. 6.4 Assiomatica Nelle prima tre pagine della Sezione 39 viene offerta una libera esposizione dell’ assiomatica di Hilbert, seguita da una brevissima presentazione delle alternative ellittica ed iperbolica all’ assiomatica euclidea. Ma tutta questa parte lascia molto a desiderare. Discuto per primo il punto che ritengo più importante. 34 1) Nel suo sistema, Hilbert assume tre tipi di entità primitive: punti, rette e piani. Infatti Hilbert ci dá un’ assiomatizzazione di R3 . Invece nella sezione 39 del testo si parla solo di punti e rette. Questo forse è dovuto al fatto che l’ Autore vuole considerare solo assiomatizzazioni per la geometria piana, anche se non lo dice esplicitamente. Purtroppo, il sistema presentato dall’ Autore non contiene un assioma che esprima questa scelta. O meglio, ne contiene uno, l’ assioma (IV ), che però esprime anche il fatto che il piano in considerazione è euclideo. Col risultato che, una volta lasciato cadere (IV ) e sostituitolo con (IV )00 , il sistema che ne risulta è soddisfatto anche da qualunque spazio euclideo di dimensione d > 2. In particolare, da R3 . In altre parole, l’ assioma (IV ) non dice che stiamo considerando una geometria euclidea. Infatti è falso già nello spazio euclideo 3-dimensionale. Dice invece che siamo in un piano euclideo. Invece nulla in (IV )00 suggerisce che si sia in un piano. Di conseguenza, (IV )00 non ci dice che stiamo considerando una geometria iperbolica. Per uscire da questa difficoltà ci sono varie strade. La più semplice è introdurre un assioma che, indipendentemente da quante rette parallele ad una retta data si vuole che passino per un punto, esprima l’ idea della planarità. Per esempio, un assioma come questo: Planarità. Prese comunque due rette a e b ed un punto A fuori di esse, dal punto A escono sempre almeno due rette distinte tali che ciascuna delle due intersechi sia a che b in punti distinti. 2) Il sistema di Hilbert contiene un assioma che fa sı̀ che le rette siano coordinatizzabili solo dal campo R dei numeri reali. L’ assioma che nelle intenzioni dell’ Autore dovrebbe corripondere a quell’ assioma di Hilbert è (V )(2) (prime righe di pagina 326), che però non riesce a dire quel che Hilbert intende. Esso dice solo che, se in un dato modello per il sistema di assiomi proposto, esiste un insieme a0 di punti che contiene una retta a e soddisfa gli assiomi ottenuti da (II), (III)(1) e (V )(1) scrivendo sempre a0 al posto di espressioni come “una stessa retta”, ”una retta”, ecc., allora a0 = a. L’ assioma di Hilbert dice una cosa diversa. E’ un assioma di quelli che in logica vengono detti metalinguistici. Infatti, si riferisce implicitamente alla classe di tutti i modelli per un dato sottoinsieme dell’ insieme degli assiomi in questione. Per formularlo correttamente, occorre introdurre la nozione di ampliamento, come a suo modo fa anche Hilbert. Nella classe dei modelli per il sistema di assiomi (I) − (IV ) e (V )(1), diciamo che un modello M0 è un ampliamento di un modello M se l’ insieme dei punti di M è contenuto nell’ insieme dei punti di M0 ed ogni retta di M è contenuta in una retta di M0 , in modo che l’ inclusione conservi la relazione d’ ordine e le congruenze. Per non dover considerare ampliamenti impropri, si richiede inoltre che almeno una retta di M sia contenuta propriamente in una retta di M0 . Diciamo che un modello è massimale se non ammette ampliamenti. Allora l’ assioma proposto da Hilbert suona cosı̀: 35 Completezza Lineare. Si considerano solo modelli massimali. Cosı̀ formulato, l’ assioma permette di dedurre che (in un modello massimale) il campo ordinato, diciamolo K, che coordinatizza una retta è completo. Vale a dire, in esso ogni successione di Cauchy converge. Infatti, se qualche successione di Cauchy non convergesse in K, potremmo renderla convergente in un opportuno ampliamento di K. Ma, per la massimalità del modello, K non ammette ampliamenti che siano ancora campi ordinati archimedei. Quindi, ogni successione di Cauchy converge in K. Peraltro K, essendo un campo ordinato, contiene il campo Q dei numeri razionali. Quindi necessariamente K coincide col campo R dei numeri reali. Questa conclusione non è possibile nel sistema proposto dall’ Autore. Di conseguenza gli assiomi che egli fornisce sono soddisfatti anche da geometrie definite su un qualunque sottocampo di R. 3) Siccome l’ assioma (IV ), formulato come lo formula l’ Autore, vale solo in un piano, nel parlare di geometrie per gli assiomi (I)-(V ) del testo dovremmo riferirci solo a piani affini. Riformuliamo dunque cosı̀ quanto detto alla fine della nota precedente: gli assiomi proposti dall’ Autore valgono per qualunque piano affine coordinatizzato da un sottocampo di R. Ma essi sono soddisfatti anche da piani affini che non possono essere coordinatizzati da campi o addirittura nemmeno da corpi. Aggiungo due parole su questo punto. Rammento che una geometria affine è coordinatizzabile da un corpo se e solo se è desarguesiana, cioè se in essa vale il Teorema di Desargues (vedi Hilbert, Grundlagen der Geometrie). E’ ben noto che ogni geometria affine di dimensione almeno 3 è desarguesiana. Siccome il sistema di Hilbert è 3-dimensionale, in esso possiamo dedurre il Teorema di Desargues. Invece l’ assiomatica proposta dall’ Autore, essendo bidimensionale, non permette la deduzione di quel teorema. Siccome nemmeno lo contiene come assioma aggiuntivo, essa ammette tra i suoi modelli anche piani affini non desarguesiani. 4) Nell’ assioma (V )(2) si nomina il piano contenente a, ma nelle due pagine precedenti non si è mai detto cosa sia un piano. Immagino che qui per piano si debba intendere l’ insieme di tutti i punti, se è vero che l’ Autore vuole fornirci un’ assiomatica per la geometria piana. 5) Ancora sull’ Assioma (V )(2). Alla terza riga, nella frase “rispetto ad a”, si sostituisca a con a0 . Inoltre, l’ elenco (II), (III)(1) e (V )(1) è un po’ impreciso. Gli assiomi rilevanti sono (I) (ma solo le parti (2) e (3)), (II) (tutto), (III) (parti (1), (2) e (3)) e (V )(1). 6) L’ assioma (IV )00 , pensato in un piano iperbolico, suggerisce che in geometria iperbolica due rette complanari ma non intersecantesi siano sempre considerate parallele. Non è cosı̀. In geometria iperbolica, dati in un piano α un punto A ed una retta a non contenente A, esistono in α infinite rette per A che non incontrano a, ma solo due di esse sono dette parallele ad a. 36 7) Chiudo questa sezione ritornando all’ Assioma di Completezza Lineare di Hilbert. La formulazione che ne ho dato alla nota (2), esplicitamente metalinguistica, può non piacere. Ho scelto quella formulazione per esprimere al meglio quel che Hilbert intende dire, ma la si può sostituire con una combinazione di due assiomi più tranquilli, che non contengono espliciti riferimenti alla classe di tutti i modelli per gli assiomi (I) − (IV ) e (V )(1). Il primo di questi due assiomi dovrebbe solo dire che, senza creare nuovi punti, non possiamo ingrandire le rette. L’ assioma (V )(2) del testo dice appunto questo. Resta da dire che non è possibile aggiungere nuovi punti. Ma anche questo lo si può dire senza dover scomodare classi di modelli. Basta parafrasare in linguaggio geometrico uno qualunque degli assiomi adottati nei corsi di Analisi I per esprimere la completezza di R. Per esempio, l’ Assioma di Cantor: una successione di intervalli chiusi, ciascuno dei quali contiene il successivo, ha sempre intersezione non vuota (vedi paragrafo 3.3 di questo report). 6.5 Altre correzioni 1) Pagina 253, riga 3. Questa formula è corretta se θ è crescente. Se θ è decrescente, gli estremi t1 e t2 del terzo integrale vanno scambiati. 2) Pagina 258, riga −4. Non mi pare che la [31.4] c’ entri un gran chè con quel che viene detto in questa riga. 3) Pagina 272, riga 11. A me risulta κ(t) = −1 p . 2 2(1 − cos t) 4) Pagina 272, riga 13. A me risulta c(t) = (t + sin t, −1 + cos t). 5) Pagina 278, riga 8. Si corregga φ(u) in φ∗u . 6) Pagina 278, riga 9. Si sostituisca U con V . 7) Pagina 283. L’ applicazione x(u, v), cosı̀ come viene definita in questa pagina, non è una parametrizzazione. Infatti, stando alla Definizione 20.2, una parametrizzazione deve essere iniettiva, deve essere un’ immersione nel senso della definzione 25.2 e la sua immagine deve essere una sottovarietà del codominio. Nessuno di questi requisiti è soddisfatto da x(u, v). Intanto, per avere iniettività si deve restringere l’ ambito di variabilità di v ad un intervallo (aperto, in ottemperanza a 20.2) di lunghezza non superiore a 2π e si deve impedire ad u (che l’ Autore fa variare in ]π/2, π/2[) di assumere il valore 0. Infatti, posto p = (r, 0, 0), risulta x(0, v) = p qualunque sia v. Inoltre, la matrice Jacobiana di x(u, v) ha rango 1 per u = 0. Infine, l’ immagine di x(u, v) non è nemmeno 37 una varietà topologica. Infatti consiste di due spicchi di sfera appiccicati insieme dal punto p. Piu’ precisamente, posto S = S 2 (0, r), sia X ++ = S ∩ {(x, y, z) | x, y > 0}, X +− = S ∩ {(x, y, z) | x > 0 > y}. L’ immagine di x(u, v) è l’ insieme X := X ++ ∪ X +− ∪ {p}. Nessun intorno di p in X può essere omeomorfo ad un aperto di R2 . Per correggere x(u, v) in modo da avere una rappresentazione parametrica di una sottovarietà della sfera (ma non della sfera tutta intera, che non è una superficie elementare) possiamo modificarne il dominio in modo da impedire ad u di assumere il valore 0. Per esempio, prendendo 0 < u < π. Oppure, mantenendo −π/2 < u < π/2, possiamo modificare l’ espressione di x(u, v), scambiando tra loro cos u e sin u: x(u, v) = (r sin u, r cos u cos v, r cos u sin v). 8) Pagina 291, riga 9 ed ultima riga. La definizione di xuv ed xvu va corretta cosı̀: xuv = ∇xv xu ed xvu = ∇xu xv . 9) Pagina 292, riga −13: Tx (S) 6⊂ H = N (h∗x ). Si cancelli il pezzo = N (h∗x ). 10) Pagina 301, riga 8, terza matrice. Correggere r−1 in −r−1 . 11) Pagina 301, riga −13. Il segno ± non è il segno di v ma di −v. Conseguentemente, alla riga −11 bisogna cambiare segno al secondo e al terzo termine della formula. La formula corretta è L = −|v|α000 • b = −|v|τ κ. 12) Pagina 301, riga −2. A denominatore ci vuole la radice: p 1 + fu2 + fv2 . 13) Pagina 302, riga 5. Scambiare tra loro le parole “iperbolici” e “parabolici”. 14) Pagina 302, riga 11: ‘quadrica semplicemente degenere’. Questo è vero se (l, m, n) 6= (0, 0, 0). Ma potrebbe anche capitare che l = m = n = 0. In questo caso la ‘quadrica’ si riduce al piano z = 0. 15) Pagina 302, riga −8. Viene ripetuto qui l’ errore già commesso a pagina 283 (vedi sopra, nota (7)): con x(u, v) definita come la definisce l’ Autore, non si può fare variare il parametro u tra −π/2 e π/2. Si deve scegliere per esso un diverso dominio. Per esempio, 0 < u < π. 16) Pagina 302, riga −5. I punti da togliere sarebbero semmai (±a, 0, 0), non (0, 0, ±c). Comunque, anche cosı̀ le cose non funzionano. Chiarito che non si può fare variare u tra −π/2 e π/2 (vedi nota precedente), e preso ]0, π[ come dominio di v, per avere una rappresentazione che si lasci sfuggire solo i punti (±a, 0, 0) bisogna fare variare v su tutto R (ma questo non si può fare se si vuole che x(u, v) sia iniettiva) oppure su un intervallo semichiuso di lunghezza 2π. Per esempio, 0 ≤ v < 2π. Ma nemmeno questo si può fare, perchè la 38 definizione 20.2 vorrebbe un insieme aperto come dominio di x(u, v). Prendiamo allora 0 < v < 2π. Però in questo modo perdiamo non solo i due punti (−a, 0, 0) ed (a, 0, 0), ma tutto un arco di ellisse di estremi (−a, 0, 0) ed (a, 0, 0). Precisamente, si perde l’ arco {(a cos u, 0, c sin u)}0≤u≤π . 17) Pagina 305, ultima riga del testo. Non è vero che rette di sistemi diversi siano sempre incidenti. Possono anche essere parallele. Questo succede quando passano per due punti opposti dell’ ellisse Q ∩ {(x, y, 0)}x,y∈R . 18) Pagina 306, riga 12. Si sostituisca bv con −bv. Stessa correzione alla riga 15. 19) Pagina 307, prima formula. Questa formula è sbagliata. La si corregga come segue: K = −4a2 b2 < 0. (a2 b2 + 4a2 (u + v)2 + 4b2 (u − v)2 )2 20) Pagina 307, terza formula. Anche questa formula è sbagliata. La si corregga cosı̀: −b2 , H = 0. K = 2 (b + a2 v 2 )2 21) Pagina 308, righe 4, 5 e 6 (Teorema di Meusnier). Se θ è l’ angolo (acuto) tra N(t) ed il piano osculatore ad α in α(t), l’ equazione π(α0 (t), α0 (t)) = κ(t) cos θ va corretta come segue: π(α0 (t), α0 (t)) = ±κ(t) cos θ. Infatti, se cambiamo l’ orientazione della curva α, l’ angolo θ e la curvatura κ(t) non cambiano, ma il vettore n(t) si converte nel suo opposto. Quindi π(α0 (t), α0 (t)) cambia di segno, mentre il prodotto κ(t) cos θ resta invariato. Forse θ va definito diversamente, come l’ angolo (preso non superiore a π) tra i vettori N(t) ed n(t). Definito θ cosı̀, l’ equazione π(α0 (t), α0 (t)) = κ(t) cos θ è valida. 22) Pagina 308, Esercizio 4. Nella definzione di D, si prenda u2 + v 2 > 0 anzichè u2 + v 2 < 1. Infatti, se u2 + v 2 < 1 allora D conterrebbe il punto (0, 0), ma l’ applicazione x(u, v) non è differenziabile in (0, 0). Inoltre il punto (1, 1), ove viene chiesto di calcolare curvature e piano tangente, non apparterrebbe a D. 23) Pagina 309, righe −6, −4 e −2. Non si possono usare gli stessi simboli per variabili in U e in V . Inoltre, non è chiaro in che senso le componenti di y si possano vedere come funzioni delle componenti di x, come invece le scritture ∂yj /∂xi sembrano suggerire. Questa parte va corretta. Indichiamo con (r, s) la coppia di coordinate di un punto di V , mantenendo la scrittura (u, v) per punti di U . Correggiamo quindi la riga −6 scrivendo yr ∧ ys /||yr ∧ ys || invece di yu ∧ yv /||yu ∧ yv ||. Poi, alle righe −4 e −2, sostituiamo la matrice (∂yj /∂xi )x con ∂u/∂r ∂u/∂s ∂v/∂r ∂v/∂s y−1 (x) 39 ove le coordinate u, v dei punti di U vengono pensate come funzioni differenziabili di (r, s) ∈ V mediante la clausola (u, v) = x−1 (y(r, s)). 24) Pagina 318, formula 37.6. Nella seconda matrice di questa formula, all’ incrocio della seconda riga con la terza colonna, si sostituisca E con F . 25) Pagina 319, riga 10. Si inserisca la parola ‘a velocità’ tra ‘curva’ e ‘costante’. 26) Pagina 321, riga 4. Si prenda −rπ < u < rπ anzichè −π < u < π. 27) Pagina 232, riga 9. Si sostituisca ct con a + ct. Inoltre, non c’ è bisogno di prendere c > 0. Basta che c 6= 0. 28) Pagina 321, riga 12. Sostituire α con α0 . 29) Pagina 321, riga −16. Contrariamente a quel che l’ Autore dice qui, non è vero che punti in uno stesso aperto coordinatizzato siano sempre congiunti da un’ unica geodetica. Dipende dall’ aperto. Per esempio, su una sfera possiamo prendere aperti coordinatizzati che contengano infinite coppie di punti antipodali ed infiniti cerchi massimi su ciascuna di esse. In un aperto siffatto due punti antipodali sono sempre congiunti da infinite geodetiche, tutte di uguale lunghezza, e due punti non antipodali su uno stesso cerchio massimo (contenuto nell’ aperto) sono congiunti da due geodetiche, una corta ed una lunga. Immagino quindi che l’ affermazione contenuta nel libro di Stoker, cui l’ Autore rimanda, suoni un po’ diversa da come l’ Autore la formula alla riga −16. Curiosamente, l’ Autore è perfettamente al corrente del controesempio che ho ora discusso, dal momento che lui stesso lo illustra poche righe più sotto (righe da −12 a −5), aggiungendone anche un altro. 30) Pagina 328, penultima riga. Si dovrebbe assumere anche θ 6= π + 2kπ. 31) Pagina 329, riga 3. Correggere 6.6 dS dz in dSθ dz . Precisazioni 1) Pagina 268, riga 5. Nella somma in questione, gli addendi non paralleli a B sono paralleli a T o ad N , quindi ortogonali a B. Sicchè il loro contributo al prodotto scalare (α0 ∧ α00 ) • α000 è nullo. E’ per questo che possono essere trascurati. 2) Pagina 276, ultima riga. Si dice che α :]−ε, ε[→ S è adattata a v se α0 (0) = v. 3) Pagina 277, terzo paragrafo dal fondo. Qui si parla di isometrie. Si intenda: isometrie locali. (Vedi pagina 288, prima riga.) 40 4) Pagina 278, riga 10. L’ ipotesi che N = 3 entra in gioco in modo essenziale solo a metà di pagina 280, quando si comincia a lavorare con prodotti vettore in R3 . Del resto, si può definire anche il prodotto vettore di N − 1 vettori di RN (vedi nota (4) nella Sezione 5.4 di queste note.) Quindi anche quel che si dice dalla metà di pagina 280 fino alla fine della Sezione 33 si può riformulare per ipersuperfici di RN , con N ≥ 3. 5) Pagina 281. Avverto che il cilindro non è una superficie elementare. 6) Pagina 287, riga −9. La verifica che τ è un isometria non è poi tanto faticosa. Inoltre, non è vero che questo fatto non sia più utilizzato nel seguito del testo. Viene utilizzato nelle sezioni 38 e 39. 7) Pagina 294, riga −4. Qui l’ Autore sembrerebbe voler dire che un valore stazionario è sempre un massimo o un minimo assoluto. Questa però sarebbe una sciocchezza. Ovviamente l’ Autore non intende questo. Le ultime righe di pagina 294 vanno dunque intese come segue. Siccome k12 = 0, risulta dκ/dθ = (k2 − k1 ) sin 2θ. Quindi se k1 6= k2 la derivata di κ(θ) si annulla solo per θ = π/2 + kπ e per θ = kπ. Per θ = kπ si ottiene il vettore ±e1 ed il valore k1 mentre per θ = π/2 + kπ si ottengono ±e2 e k2 . Pertanto le direzioni principali sono individuate da e1 e e2 e i numeri k1 e k2 sono le curvature principali. Se invece k1 = k2 allora κ(θ) è costante. 8) Pagina 298, esempio 35.9.3. Rammento che perchè x(u, v) possa essere una parametrizzazione (di una parte della sfera) si deve prendere il suo dominio in modo tale che sin u sia sempre 6= 0. Per maggiori dettagli, si veda la nota (7) nella precedente Sezione 6.5. 9) Pagina 301, riga −13. Rammento che, come già detto in precedenza (Sezione 6.2), il parametro v va fatto variare o in ]0, +∞) oppure in (−∞, 0[. 10) Per rendere la figura 35.5 coerente col testo bisogna intendere che l’ asse orizzontale rapprenti l’ asse z e quello verticale l’ assse y. 11) Pagina 313, righe 9 e 10. L’ equazione stabilita in queste righe vale solo nell’ ipotesi (peraltro lecita) che ||v|| = 1. 12) Pagina 317. Verso la metà della pagina compare una scrittura abbastanza insolita: una t apposta al segno di determinante, in alto a sinistra. Credo che la t stia a significare che si prende il determinante della trasposta della matrice di descritta dentro le barre. (Che peraltro è uguale al determinante di quella stessa matrice.) 13) Proposizione 39.1. Il simbolo Aut(H) non è stato definito. Ad ogni modo, si capisce che sta per il gruppo delle isometrie di H. 41 14) Pagina 329, riga 10. Rammento che la funzione z 7→ −z̄ non è differenziabile in quanto funzione da C a C, ma lo è in quanto funzione da R2 ad R2 . 15) Ad integrazione di quanto detto a pagina 329, faccio notare che R normalizza PSL2 (R) e che PSL2 (R) · hRi ∼ = PGL2 (R). 7 7.1 Capitolo 7 Forma di volume Paragonando il Teorema 40.9 e la Proposizione 40.12 con quel che si legge verso la fine di pagina 355 e sopratutto con gli esempi 43.4.2 e 43.4.4 (anche gli esercizi 2 e 3 a pagina 364 e 365), qualcosa non torna. Infatti, stando al Teorema 40.9 e alla Proposizione 40.12, dovrebbe risultare vol(v1 , v2 , ..., vn ) = n! · du1 ∧ du2 ∧ ... ∧ dun (v1 , v2 , ..., vn ) mentre alle pagine 362-365 si fa come se vol(v1 , v2 , ..., vn ) = du1 ∧ du2 ∧ ... ∧ dun (v1 , v2 , ..., vn ). Peraltro, questa seconda formula appare più convincente, posto che scritture quali dv1 dv2 ...dvn , usuali in teoria dell’ integrazione, vadano intese come abbreviazioni di dv1 ∧ ... ∧ dvn . Non so quale sia il modo giusto di sanare questa incongruenza. Forse, nel definire l’ operatore Alt (pagina 335) non bisogna dividere per r!. Del resto, questa divisione viene omessa se si lavora in campi di caratteristica positiva. 7.2 Altre correzioni 1) Lemma 40.5, parte (b). Cambiare Alt(Alt(G)) = G in Alt(Alt(G)) = Alt(G). 2) Pagina 355, prima riga: teorema 40.7. Il numero giusto è 40.8. 3) Pagina 365 Esercizio 6. La Finestra di Viviani non è una δ-superficie. Essa contiene il punto p = (r, 0, 0), ma nessun intorno di p nella Finestra di Viviani è omeomorfo ad un aperto di R2 o di R2+ . 4) Pagina 374, riga −11. Nel quarto integrale, si sostitusca fˆ con fˆ∗ . 7.3 Precisazioni. 1) Pagina 345, riga 12. Si intende che U è aperto per la topologia indotta da Rn su Rn+ . 2) Pagina 350, righe −12, −11 e −10. Si dovrebbe definire anche l’ orientazione indotta da Rn . La si definisce come l’ opposta di quella indotta da Rn+ . 42 3) Pagina 354. Avverto il lettore che nel contesto attuale a simboli come du e dv viene attribuito un significato concettualmente un po’ diverso che a pagina 278. Ora du e dv vanno intesi come funzioni lineari mentre a pagina 278 indicavano le cordinate di un vettore tangente rispetto alla base {∂/∂u, ∂/∂v}. D’ altra parte, è anche vero che le coordinate di un vettore rispetto ad una data base possono sempre interpretarsi come valori di opportuni funzionali lineari. 4) Pagina 363, riga −11. Si intende che U è orientato coerentemente con l’ orientazione di X. 43