Racconto "Anch`io riposo in pace"
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Racconto "Anch`io riposo in pace"
ANCH’IO RIPOSO IN PACE di Guido Pegna 1. Lo stato dell’arte “Mi trovo a dover risolvere un difficile problema. Molto più difficile di quello che sarebbe stato se mi fossi deciso una diecina di anni fa. Il fatto è che ora siamo sotto sorveglianza. Se abbiamo il telefonino acceso, la rete dei cellulari sa in ogni momento con buona approssimazione dove ci troviamo. Poco tempo fa uno scippatore è stato arrestato nella via principale della nostra città poiché dopo avere strappato la borsetta a una ragazza aveva ricevuto una telefonata, e questa aveva sentito il nome della persona a cui si era rivolto il rapinatore. Quindi non bisogna avere con sé il telefonino. Ma anche questo può destare sospetti. In un mondo in cui tutti usano il telefonino, perché egli non ce l’ha? Cosa ha da nascondere? Ma non basta. Ci sono telecamere dappertutto, e le immagini che riprendono, con il crollo dei prezzi dei maledetti hard disk, vengono registrate ventiquattro ore su ventiquattro. L’attentatore della scuola di Brindisi, che uccise una ragazza con una bomba artigianale fatta con bombole di gas riempite con un esplosivo fatto da lui1, è stato scoperto in breve tempo perché visto da una telecamera mentre si nascondeva dietro un’edicola nel momento in cui azionava il detonatore a distanza. Ma era un dilettante. Esiste la possibilità di fabbricare in casa esplosivi molto più potenti partendo da sostanze comunemente in commercio. Questo gli avrebbe risparmiato molto del lavoro che dovette fare per fabbricare tanta di questa polvere da riempirne tre bombole di gas. Quello che questo incompetente ne ha ricavato è stata una bella condanna all’ergastolo. La tecnologia del controllo capillare, esteso e costante su ognuno di noi ha progredito. Tutte le telefonate fatte con i telefoni cellulari sono rintracciabili e ascoltabili anche dopo anni. Se viene trovato anche solamente un capello dell’assassino, un granello di forfora, una goccia di sudore sulla scena del delitto, si può ricostruire il suo DNA, e per lui non c’è scampo. Siamo tutti già schedati sulla base del nostro DNA, o lo verremo in breve tempo. Titolo di un giornale: – Ritrovato il cadavere dopo tre mesi che la ragazza era scomparsa – Il povero corpo si trovava in un prato che era stato battuto più volte palmo a palmo nei giorni successivi alla sua scomparsa. L’articolo continua così: – Una squadra di Esperti Ricerca Tracce (ERT) della polizia scientifica è in partenza da Roma per affiancare gli investigatori che dal pomeriggio stanno analizzando il cadavere, trovato in un campo. Il gruppo, già impiegato on altri casi d’omicidio, è formato da esperti in chimica, biologia e analisi della scena del crimine. L'obiettivo è quello di individuare ogni possibile traccia lasciata nella zona dove è stato ritrovato il corpo della tredicenne –. A quanto risulta a tutt’oggi nulla di utile per la scoperta dell’omicida è stato trovato. Tutto questo determina dei vincoli inderogabili per chi debba uccidere qualcuno. Il primo, più importante: non bisognerebbe essersi mai trovati sulla scena del delitto. Quindi deve trattarsi di un apparente e molto verosimile suicidio o di una falsa disgrazia accidentale. In più: è meglio lasciare il telefonino, acceso, in un luogo lontano. In alternativa uno può anche essere stato presente, ma allora deve essersi trattato di un incidente che ha portato alla morte dell’assassinando e solo della sua. Poiché questa possibilità non è del tutto esente da rischi, bisogna essere disposti, per amore della verosimiglianza, a subire nell’evento qualche danno fisico, qualche ferita non grave ma convincente. Mi torna in mente a questo proposito, il caso del “maestro” della comunità esoterica e messianica che si era insediata sulla parte meno accessibile dell’isola di San Pietro, in Sardegna, molti anni fa. Ecco come si svolsero i fatti. Or sono una ventina di anni, alcuni pescatori che accompagnavano i turisti nel giro dell’isola notarono che nel fondo di una gola stretta come un fiordo che si apre fra due alte pareti di roccia, cala Fico, male accessibile dalle strade dell’isola, proprio in riva al mare era sorto un vasto edificio di tre piani dall’aspetto sinistro. Grigio, con pochissime piccole finestre, porte di ferro. Naturalmente la notizia si sparse rapidamente, e cominciarono a concentrarsi lì le attenzioni dei curiosi e delle vecchie del paese. Risultò dopo poco che tutti i materiali per la sua costruzione non erano stati acquistati in loco, né che alcuno dei muratori locali vi aveva contribuito. Le operazioni di spionaggio si perfezionarono con appostamenti sulle alture circostanti, con binocoli e teleobiettivi. Si capì a poco a poco che si era stabilita in quel fiordo una comunità di donne che praticava il nudismo e il libero amore, diretta da un bell’uomo abbronzato e sempre adamiticamente nudo sui quarant’anni, che veniva evidentemente considerato dalle bellissime ospiti come il loro maestro e guida. Nessuno di loro si era mai visto in paese. Tutti i rifornimenti di cibo, acqua e generi di prima necessità arrivavano via mare da non si sa dove. Quella parte della costa, esposta a nord-ovest, nelle giornate di maestrale è battuta da un vento fortissimo e i marosi si frangono sulle rocce con boati spaventosi. Gli spruzzi schiumosi arrivano a grandi altezze e il vento li porta lontano. Dall’imboccatura della gola fino alla Francia c’è solamente mare. In fondo al fiordo tutto questo provoca una risacca di un paio di metri con l’acqua che arriva alla porta di ingresso del casamento grigio. Una estate, in una di queste giornate di burrasca, il maestro e una delle ospiti, ambedue nudi, presero il mare con un motoscafino di circa quattro metri. Usciti dal fiordo piegarono a sinistra. Pare che arrivati dopo un paio di miglia davanti alla spiaggia della Caletta la ragazza sia caduta in mare e annegata e il motoscafo affondato. Il maestro raggiunse la spiaggia a nuoto, chiese aiuto, era ferito. Furono fatte telefonate in paese, arrivarono quelli della Croce Verde, i carabinieri, molti curiosi. Cominciarono le ricerche della ragazza. Il cadavere fu ritrovato il giorno dopo, sfracellato e quasi irriconoscibile, nei pressi di una scogliera. Il maestro fu portato nella caserma dei carabinieri e interrogato dal maresciallone grande e grosso, di solito molto bonario e evitatore di grane, che dirigeva il tranquillo reparto di Carloforte. L’interrogatorio si prolungò per molte ore, per tutta la notte. Ogni tanto il maresciallone usciva dalla stanza con le mani fra i capelli. Il maestro parlava, parlava, parlava irrefrenabilmente, torrenzialmente, e il pover’uomo che cercava di ricostruire ciò che era accaduto non si raccapezzava. Il maestro fu trattenuto, trasferito il giorno dopo nella città capoluogo, e di lui non si seppe più nulla. Il fortilizio grigio è rimasto per anni disabitato e in abbandono. Sulla base delle osservazioni a distanza che avevano evidenziato grande libertà sessuale e quindi sicuri motivi di gelosia e di risentimento fra le adepte, le voci di paese concordarono tutte sull’omicidio. A quanto si è poi saputo il maestro se l’è cavata con una condanna minima. Questo è un caso paradigmatico di incidente con qualche lesione personale, senza testimoni e senza tracce rivelatrici sul cadavere, con cadavere molto malridotto. Un modo sicuro per non essere mai stati presenti sul luogo e nel momento del delitto è evidentemente quello di farlo eseguire da un altro. Ma in quasi tutti i casi nei quali è stata adottata questa tecnica sia il mandante che l’”esecutore materiale” sono stati smascherati per il fatto che se è già così difficile non farsi beccare per un assassino solitario, figuriamoci quando le persone sono due, con tutte le prove che inevitabilmente disseminano: incontri, telefonate, frequentazioni precedenti, prelievo e trasferimento di contanti per i pagamenti; né è da trascurare la terribile minaccia incombente: quella di esporsi al ricatto. Ricatto che può non avere mai fine, a meno di non fare uccidere a nostra volta l’esecutore materiale da un secondo esecutore materiale, e poi il secondo da un terzo e così via, in un loop infinito di crescenti pericoli. Esemplare, a questo proposito, il caso recente del delitto di Gavoi, ridente e civilissimo paesino della Sardegna sede di un importante festival letterario internazionale, nel quale un noto dentista ha fatto assassinare la moglie da un giovane amico di vent’anni più giovane. Sono stati scoperti dopo molti anni a causa delle scriteriate telefonate che usavano per comunicare, delle frequentazioni precedenti di colpo interrotte, di confidenze fatte ad amici che sono giunte agli orecchi della polizia. Il caso della ragazza scomparsa suggerisce una possibilità da non trascurare: nascondere il cadavere in luogo assolutamente sicuro, per farlo ricomparire dopo due o tre mesi, quando le eventuali tracce del DNA dell’autore e le cause della morte sono degradate, andate a male e non più riconoscibili. Su questa seconda linea si affaccia un perfezionamento. Il più classico dei metodi per farla franca, anche se non esente da pericoli, complicazioni e fatiche: seppellire il cadavere in un posto sicuro. Ma scavare una buca adatta è faticoso, bisognerebbe essere in forma perfetta, non soffrire di persistente mal di schiena. Il più sicuro di tutti viene usato da sempre con successo dalle associazioni bene organizzate presenti da noi: inglobare il corpo nella colata di cemento di una grande opera pubblica in costruzione: il pilastro di un ponte, una diga. Il progetto di queste strutture ha una tale ridondanza di dimensioni e di materiali che anche una cavità di mezzo metro cubo non causa indebolimenti; tanto più che esso prevede che si rubi abbondantemente anche sul cemento. Ma queste associazioni dispongono di strutture, mezzi meccanici e omertà letteralmente a prova di bomba, o di lupara, che fanno risparmiare rischi e fatiche”. 2. La decisione “Percorevamo lentamente in automobile la tortuosa stretta strada che partendo dal paese si snoda attraverso l’isola di San Pietro per arrivare dopo una quindicina di chilometri al faro di Capo Sandalo. Il paesaggio è molto dolce, con deboli saliscendi fra colline coperte di alberi e grandi aperture su vallate verdissime. Dalla radio veniva una soffice musica jazz: Moonlight serenade suonata dall’orchestra di Glen Miller, poi la voce di Billie Holiday che cantava il suo amore disperato per Lester. Io ricordavo. Ricordavo, e in silenzio trattenevo le lacrime. Ricordavo la spensieratezza, la leggerezza di quando una ventina di anni prima percorrevo la stessa strada con la ragazza che più ho amato, con le prime bosse nove di Joao Gilberto sui dischi a 45 giri che suonavano nel mangiadischi che avevo in macchina - Chega de saudade, A Felicidade, Saudade da Bahia - e come eravamo felici, e come la comprensione fra noi era così perfetta, e come mai più in seguito mi è capitato, e la nostalgia, il rimpianto, l’infelicità che vivevo ora. E pensavo: come potrò mai comunicare tutto ciò a questa cretina. Come posso continuare a vivere in questa mascherata superficiale di vita in comune. Come profonde e serie e totali e immense erano le emozioni di allora. Quanto spreco sto vivendo ora con questa idiota. Quanto mi impedisce di concentrarmi nel ricordo con questo chiacchiericcio insulso. Quanto mi ha costretto a seguire stupide liturgie che mi avvelenano e mi porteranno alla morte cerebrale, e poi alla morte fisica: il bacetto prima di uscire di casa e poi al rientro, il fingere di interessarmi al suo stato di salute: come va questa mattina? Il dovere rispettare pignolescamente orari di pranzo e di cena. Devo ucciderla, pensai. Se non la uccido subito morirò in breve tempo per qualche malattia mortale causata dalla infelicità e dalla depressione in cui mi trovo gettato a causa di questa idiota. Decisi di ucciderla. Devo ucciderla, pensai. Devo ucciderla, pensavo, mentre guidavo dolcemente sulla strada provinciale 104 da Carloforte a Capo Sandalo in una tiepida meravigliosa mattinata di primavera, con la musica di Glen Miller nel sottofondo”. 2. I fatti “La maledetta si allacciava sempre la cintura di sicurezza, era molto rispettosa delle norme e teneva enormemente alla propria sicurezza. In preparazione dell’auspicabile sua dipartita, avevo sostituito il sistema di ancoraggio della cintura dal lato del passeggero con uno molto più duro da sganciare. Adducendo un guasto che avrei fatto riparare prima possibile, nei giorni precedenti l’aiutavo a sganciare la sua cintura quando dovevamo scendere dalla macchina. L’idea era la seguente: gentilissimo per una volta, avrei portato la macchina, una decappottabile, su una strada che costeggia un burrone con il pretesto di bearci del bel panorama, come è per esempio la strada che sull’isola di San Pietro dopo avere superato l’antica miniera abbandonata del Becco continua fino ad un’alta scogliera sul mare. Chiacchierando del più e del meno, le avrei raccontato come da quella miniera si estraeva fino dall’epoca romana la rarissima ocra rossa, al culmine dei desideri e della vanità delle donne dell’epoca, che la usavano per tingersi le labbra e ravvivare il colore delle guance. Dopo avere raggiunto la costa alta sul mare avrei sganciato improvvisamente la mia cintura di sicurezza e avrei sterzato bruscamente verso il precipizio gettandomi simultaneamente fuori dall’auto in modo da cadere sulle rocce vicine poco più in basso, mentre l’auto, con il suo abbrivio, avrebbe fatto un volo pauroso di un centinaio di metri per finire rotolando sugli scogli in riva al mare e, se tutto andava come speravo, incendiandosi. La poveretta, trattenuta dalla cintura di sicurezza, non avrebbe avuto scampo: non avrebbe potuto fare altro che morire fra orribili sofferenze, schiacciata nell’auto e carbonizzata. “La mia memoria funziona a sprazzi. Ricordo che quella mattina, uscendo di casa, abbiamo incontrato sul marciapiede la solita vecchia demente spinta sulla sedia a rotelle dalla badante russa. – Portami da mio marito. Portami da mio marito. Portami da mio marito – diceva a voce altissima. – No. Marito GIÀ morto – aveva risposto seccamente la badante. Siamo saliti in macchina, lei si è allacciata la cintura, ci siamo diretti a passo lento verso la miniera del Becco, sulla strada del faro. La giornata è splendida, proprio adatta, ricordo che pensai. Ero molto agitato, ma cercavo di rallentare i miei movimenti, di non parlare. Guidavo dolcemente, più attento di quanto la strada richiedesse. “Mi sono risvegliato in un letto d’ospedale. Non ricordo nulla di quello che è successo. L’ultima cosa di cui ho coscienza è che avevo progettato di scagliare l’auto con dentro mia moglie giù dalla scogliera del Becco. Vedo immagini baluginanti della scogliera illuminata dal sole al tramonto, e mi ritorna in mente, in un incubo ricorrente e ripetitivo, il distico di John Dryden: Qui giace mia moglie, anche se non le piace! | Ora riposa; e anch’io riposo in pace, ma non so altro. Mi sento molto male. Mal di testa fortissimo, tremore diffuso in tutto il corpo, dolori lancinanti al ventre. È il normale decorso dopo un grave shock, così l’opinione dei sanitari. Ma le mie condizioni stanno peggiorando di ora in ora. Non so fino a quando potrò continuare questo resoconto. È passato un altro giorno. Mi hanno detto che sono stato fuori conoscenza nelle ultime 12 ore. Sento che sto morendo. Sto davvero morendo e non posso fare nulla per evitarlo. Non ho neanche la forza di attirare l’attenzione dei medici su ciò di cui sono ormai più che sicuro: non è lo shock la causa della mia morte. Oggi, in quello che sarà il mio ultimo sprazzo di lucidità, ho avuto come una visione. Mi è apparso il fantasma di mia moglie. Era seduta al mio capezzale, accanto a lei c’era un bell’uomo alto, prestante, abbronzato. Mia moglie parlava lentamente, come ad un bambino che non capisce. – Caro, vedo che stai molto male. Hai ormai poche ore di vita, così i medici, anche se non se ne spiegano la causa, e questa è anche la mia opinione. Vuoi sapere cosa è successo? È semplice. Già da un po’ avevo intuito quello che ti girava in mente. Ti vidi una sera al computer che stavi studiando il disegno delle fibbie delle cinture di sicurezza. Quando poi ho visto che trafficavi con l’interno della macchina, ne ho avuto conferma. Il mio amico qui ha capito cosa avevi fatto con la mia cintura, e allora ha quasi completamente svitato gli attacchi alla scocca in modo che si staccasse alla minima sollecitazione. Ah, a proposito, ti presento Marco, che forse riesci ancora a vedere nitidamente –, disse con un sorriso. – Marco è il mio amante da qualche tempo. Vuoi sapere qualcosa di quel giorno? – disse, e non distinguevo ormai più fra quello che poteva essere un sogno e quello che avveniva davvero lì, accanto a me, al mio letto di morte. Lei intanto proseguiva: – Tu sei stato sbalzato fuori dalla macchina, hai sbattuto da qualche parte sulle rocce poco più in basso e sei svenuto, ma non eri ferito in modo grave. Ma questo mi era indifferente, perché il tuo destino era già determinato da tempo. Io invece ho avuto più fortuna. Ero all’erta. Quando mi sono accorta che stavi sterzando verso l’abisso mi sono lanciata fuori e sono atterrata su un cespuglio di ortensie rosa li vicino. Ti chiedi perché stai morendo in questo letto d’ospedale senza poter fare nulla, non è vero? – Fece una lunga pausa, e mi guardava con un sorriso di grande tenerezza. Mi accarezzò la fronte. Mi accarezzò i pochi capelli che mi restavano, da quando avevano cominciato a cadermi a intere ciocche per volta. La rividi com’era bella, vent’anni prima. Pensavo a lei, ai nostri figli, alle nostre prime infuocate notti d’amore. Poi proseguì: – Caro, ora che non puoi più fare nulla per salvarti, né per fare sapere ai medici cosa ti sta succedendo, posso svelarti la verità. Questo mio compagno che forse intravedi qui mi ha molto aiutato. Lui è un bravo chimico. È stato semplice. Mi ha procurato qualche grammo di solfato di tallio, che ti ho somministrato con il caffè in piccolissime dosi in queste ultime settimane. Oramai sei condannato. Il tallio è un veleno che non lascia tracce2, e che agisce dopo settimane dalla somministrazione. Se chi esegue l’autopsia non sospetta l’avvelenamento da tallio, questo non verrà mai scoperto. Ma nessuno, quando sarai morto, fra due o tre giorni, ti farà l’autopsia – “Allora ho capito. Come in un sogno che uno vive pur mantenendo una parte di sé cosciente, ho capito perché la maledetta negli ultimi tempi era diventata così gentile. Mi sbaciucchiava nei momenti meno opportuni, mi portava personalmente il caffè dopo pranzo, mi lanciava languidi sguardi e sorrisi invitanti, mi scrutava. Ho capito perché avevo cominciato a soffrire così spesso di mal di testa, di tremore alle mani, di disturbi alla vista. Perché ero sempre così stanco. Avvelenamento da tallio, che viene difficilmente scoperto nelle autopsie, che agisce lentamente, lentamente, a distanza di giorni e di settimane. Sono una vittima del più classico e antico modo per uccidere qualcuno e farla franca, l’unico modo che io, come un cretino, non avevo preso in considerazione nella mia mortale disamina dei vari modi per compiere il delitto perfetto. L’unica cosa che mi reca un minimo conforto è il pensiero che fra trent’anni, quando la maledetta sarà su una sedia a rotelle e, vittima di un processo di totale degenerazione cerebrale, dirà alla badante: – Portami da mio marito! – – No. Marito GIÀ morto – si sentirà rispondere dolorosamente”. Qui termina la registrazione della voce della vittima su un piccolo registratore digitale che l’autore del presente racconto ha trovato sotto il cuscino del suo letto di morte. Non l’ho consegnato alla polizia, né spedito in un pacchetto indirizzato alla procura della repubblica; ho messo il registratore al sicuro in una cassetta di sicurezza di una banca con la quale non avevo avuto rapporti precedenti. Sto per mettere in atto il ricatto che mi arricchirà. O che mi ucciderà. 1 Si trattava del più vecchio degli esplosivi, la polvere nera, perfezionata nel 1300 dall’abate Bertold Schwartz, ma già conosciuta da molti secoli. Cinquant’anni prima ne parla anche Ruggero Bacone. Si ottiene mescolando 75 parti di salnitro, o nitrato di potassio, 15 parti di carbone e 10 di zolfo. 2 Gli atomi del tallio sono estremamente simili a quelli del potassio, e si sostituiscono lentamente a questi ultimi nelle complesse reazioni chimiche di equilibrio che avvengono nel corpo umano, determinandone dopo qualche tempo la morte anche in tracce non facilmente rivelabili.