42 Andrea Santurbano (UNESP/Assis) Una bella e immaginifica

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42 Andrea Santurbano (UNESP/Assis) Una bella e immaginifica
TRICEVERSA
Revista do Centro Ítalo-Luso-Brasileiro
de Estudos Lingüísticos e Culturais
ISSN 1981 8432
www.assis.unesp.br/cilbelc
TriceVersa, Assis, v.1, n.2, nov.2007-abr.2008
CILBELC
ITALIA E OLTRE: SENTIERI NARRATIVI (1881-2002)
Andrea Santurbano
(UNESP/Assis)
RIASSUNTO
Questo
testo
intende
presentare,
attraverso delle libere associazioni di
pensiero, una selezione di romanzi italiani
e stranieri scaturiti dall’esperienza in un
gruppo di lettura. Si tratta di autori
conosciuti, alcuni dei quali da considerare
dei “classici” e altri ancora in attività, tra
cui: Fogazzaro, Gadda, Elsa Morante,
Pasolini, Tondelli, Pontiggia, Henry James,
Canetti, Virginia Woolf, Saroyan, Salinger,
Saul Bellow, Philip Roth e Jonathan
Franzen.
PAROLE CHIAVE
Letteratura
italiana,
letteratura
comparata.
ABSTRACT
This text intends to present, by liberal
association of thoughts, a selection of
Italian and foreign novels resulted
from an experience in a reading group.
They are known authors, some of them
can be considered “classics” and
others are still in activity, for
example: Fogazzaro, Gadda, Elsa
Morante, Pasolini, Tondelli, Pontiggia,
Henry James, Canetti, Virginia Woolf,
Saroyan, Salinger, Saul Bellow, Philip
Roth and Jonathan Franzen.
KEYWORDS
Italian
literature,
comparative
literature.
Una bella e immaginifica espressione dà il titolo ad un famoso libro di
Umberto Eco, che raccoglie una serie di conferenze sulla letteratura: Sei
passeggiate nei boschi narrativi. Passeggiare nel bosco, dunque. Un’attività
senz’altro dilettevole, che presenta molte qualità intrinseche: chi passeggia,
normalmente, non ha fretta né si impone degli obiettivi, anzi si adagia al
lento scorrere delle cose attorno a sé e si predispone ad usufruirne tutte le
emozioni, estemporanee e non; e chi passeggia in un bosco si sceglie un luogo
presumibilmente romantico, appartato, incontaminato e lontano da clamori,
oltreché percorribile in varie direzioni (facendo ovviamente attenzione a non
perdersi). Il bosco, inoltre, è un ecosistema ricco, complesso e multiforme,
regolato da leggi non rigide ma organiche. Proprio come la letteratura. E in
letteratura, nel bosco o in altri luoghi naturali, il camminare o vagabondare è
spesso stato un motivo ricorrente legato al fluire libero del pensiero e
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all’inserimento senza artifici dell’io nel Mondo, da cui dipartirsi verso
introspezioni e bilanci personali. Sul solco di ameni sentieri si sono consumate
tante pagine narrative, dal promeneur solitaire di Rousseau alla delicatissima
passeggiata di un Robert Walser.
Insomma, questo preambolo è per giustificare il fatto che anche in
questo testo ci si diletterà con una passeggiata narrativa, o meglio, si
cercherà di dare un senso a un cammino già consumato, ripercorrendo testi
disseminati disordinatamente lungo un percorso di alcuni anni. Tutto nacque
da un’idea tra amici con la passione per la lettura, quella di riunirsi
mensilmente e ragionare attorno ad un romanzo scelto, di volta in volta, a
rotazione. Ora, a distanza di anni appunto, scaturisce l’esigenza di sgranchirsi
le gambe da tanti accademismi e di addentrarsi in una rilettura senza
fronzoli, ovviamente parziale perché soggettiva, delle tante critiche e
recensioni scaturite da quegli incontri. Una direzione bisogna pur prenderla
per partire, quindi la Stella polare in questo cammino à rebours (o Croce del
Sud, dipende dalla prospettive emisferiche) saranno le opere di letteratura
italiana. Che s’intratterranno man mano, in un costante dialogo, con altri
romanzi,
europei
e
americani,
quantunque
diversi
ed
eterogenei
all’apparenza. Si è parlato prima di testi disseminati disordinatamente e
allora il viandante s’intestardirà a riordinarli sinteticamente, dando loro un
carattere hegelianamente organico. Tentando di fornire abbozzi, schizzi,
suggestioni, che possano risvegliare un interesse genuino e incorrotto per la
lettura di libri classici e meno classici. Gli sia in ultimo concesso il viatico di
rinunciare a ingombranti fardelli teorici: leggeri si viaggia più spediti e
leggeri, a dar retta a Calvino, si scrive meglio.
Magari si pensa alle opere del vicentino Antonio Fogazzaro (1842-1911)
come a delle saghe tardo-romantiche, costellate di piccoli mondi antichi e
moderni; questo, almeno, è il (pre)giudizio più comune. Invece, Malombra
(1881) si rivela un romanzo piacevolissimo, dalle venature decadenti e un po’
gotiche. Mistero, amore, paesaggi struggenti, ma anche spunti di critica
sociale e idee per un rinnovamento del senso e dei costumi religiosi. Quella
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certa atmosfera sospesa sulla soglia tra reale e fantastico, inoltre, fa pensare
a Giro di vite (The turn of the screw, 1898) di Henry James (1843-1916):
finissimo ricamatore è lo scrittore americano nel tessere i fili di un labirinto al
tempo stesso psicologico, onirico e tangibile, inquietantemente percorso da
una brezza che s’infila nelle fessure e ti soffia sul viso; e, anche, crudelissimo
giocatore nell’abbandonarti col suo riso sardonico nei meandri del labirinto
della psiche da lui creato. È stato scritto da qualche parte che nella genesi
del Giro di vite potrebbe addirittura entrare una celebre ballata di Goethe
(1749-1832), Il re degli Elfi (Erlkönig, 1782), il cui pathos è stato
mirabilmente tradotto in musica da Schubert in uno dei suoi tanti lieder.
Questo perché la ballata del grande poeta tedesco si costituirebbe come un
modello nel riprodurre la tensione drammatica che scaturisce dalla
visionarietà e dalla percettività degli adolescenti contrapposta all’incredulità
e al pragmatismo degli adulti, senza che il mistero si risolva in un senso o
nell’altro.
Chissà
se
sia
davvero
così,
se
Giro
di
vite
rielabori
consapevolmente il modello goethiano, ma è indubbiamente una ipotesi
suggestiva. Si provi a leggere alcune quartine del Re degli Elfi:
[…]
“Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?”
“Non vedi, padre, il re degli Elfi?
Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?”
“Figlio, è una lingua di nebbia, nient'altro.”
[…]
“Padre mio, padre mio, la promessa non senti,
che mi sussurra il re degli Elfi?”
“Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,
tra le foglie secche, con il suo fruscio.”
[…]
“Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi
laggiù le figlie del re degli Elfi?”
“Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo;
i vecchi salci hanno un chiarore grigio.”
[…]
Preso da orrore il padre veloce cavalca,
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il bimbo che geme, stringe fra le sue braccia,
raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,
nelle sue braccia il bambino era morto.
(GOETHE, 2008)
E qui si apre un nuovo capitolo, sul dolore, compreso nell’accezione
particolare di un rapporto spezzato fra genitore e figlio. Dolore che
contrassegna, con accenti metafisici, La cognizione del dolore (prima versione
1938-41, versione definitiva 1970) di Carlo Emilio Gadda (1893-1973). Libro a
tutti gli effetti catartico, si coagulano e si esorcizzano in esso tutti le psicosi
giovanili dell’ingegnere-scrittore, dal dissesto economico familiare alla
scomparsa del padre, dalla guerra alle turbe affettive, e via dicendo; mai
come in questo caso non si può prescindere dalla biografia dell’autore per
cercare una chiave interpretativa della sua opera. Libro catartico, si diceva,
poiché si ha l’impressione che Gadda, attraverso la “terapia” della scrittura,
abbia dovuto purificarsi e alleggerirsi nel suo essere scrittore da queste tare
ancestrali. Don Gonzalo Pirobutirro, nella sua insofferenza smaniosa e
intollerante, in primo luogo verso se stesso, ha bisogno di dare un colpo di
spugna al suo mondo personale che si proietta nell’intera società borghese,
sudicia e asservita, tanto negli umili quanto nei potenti. E allora che il dolore
si esprima nella sua forma più dirompente senza inibizioni, generando odio se
necessario!
La cifra stilistica di Gadda meriterebbe un discorso a parte: tecnicismi,
voci dialettali, straniere, assemblati sincronicamente con sarcasmo e ironia.
Senz’altro ostica, a volte volutamente inafferrabile, la sua scrittura è
un’architettura composita e irregolare fatta di materiali diversi. Così come
composita è la stesura di Auto da fé (Die Blendung, 1935) di Elias Canetti
(1905-1994), eco della frammentazione sociale e psicologica fra le due guerre.
Per chi avesse già apprezzato la chiarezza analitica di questo scrittore
cosmopolita (nato da famiglia ebrea sefardita), per esempio ne La lingua
salvata,
resoconto
autobiografico
dalla
struttura
limpida
e
lineare,
l’approccio con Auto da fé può costituire una sorpresa per il drastico
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cambiamento di forma e sostanza letterarie. Una volta tanto vale la pena
usare a commento le parole del proprio autore:
[…] il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo … il
mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo
nella sua frammentazione era ancora possibile dare di esso un’immagine
veritiera. Ma non per questo bisognava accingersi ad un libro caotico nel
quale nulla fosse più comprensibile … (CANETTI, 2008)
Intenzione, questa, che nel libro raggiunge un risultato geniale.
Discontinuo e irrisolto all’inizio, non decidendosi tra un tono grottesco e
surreale ed il contrapposto naturalismo degli ambienti, il romanzo si
costruisce vieppiù solidamente nella forte caratterizzazione degli strambi
personaggi. Ne scaturisce un universo frammentato in monadi la cui
irriducibilità è l’unico dato tangibile. Da questa situazione alienante e di
rifiuto si erge una delle figure cardini della letteratura moderna, il professor
Kien, cui si associa l’iconografia della biblioteca che porta nella testa.
Tant’altro ci sarebbe da dire sulle vicende, la lunga galleria di personaggi e le
implicazioni di fondo, ma ciò che qui piace segnalare è la trasversalità con cui
questo libro attraversa il pensiero occidentale, filosofico e letterario, di
un’intera generazione e a diverse latitudini: Nietzsche, Pessoa, Kafka, solo
per citare qualche nome.
E nell’ambito delle sperimentazioni sul linguaggio rientra il coevo Le
onde (The waves, 1931) di Virginia Woolf (1882-1941). Senza troppi giri di
parole, è bene dire subito che potrebbe legittimamente risultare un’impresa
troppo ardua completarne la lettura. Non vi è azione, né un intreccio
plausibile, e neppure dialogo tra personaggi: il “disse” è fittizio, non
presuppone un interlocutore, ma introduce i soliloqui alternati di sei
personaggi. Se ogni lettura richiede un adeguato atteggiamento umorale,
l’approccio a libri come questo richiede una vera e propria vocazione che non
può scattare a comando. Chiariti questi dettagli, è possibile desumere alcune
impressioni del tutto soggettive. Innanzitutto, “ondivaga” può essere
l’attenzione nel corso dell’opera: a volte si può rimanere molto in superficie
(il cosiddetto leggere solo con gli occhi), altre provare un’affascinante
trasporto per i pensieri, ricordi, dei sei protagonisti. Incomunicabilità,
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disadattamento, insoddisfazione sono i cardini attorno a cui ruotano i
personaggi, ex compagni di scuola divisi nei loro destini. La realtà è scissa dai
meccanismi psichici più profondi, e scissa è la personalità della scrittrice che
dissemina nei suoi protagonisti proiezioni di se stessa. Le Onde sono da
considerare tra i primi libri che scardinano drasticamente le regole della
narrazione classica, dal punto di vista formale e contenutistico, ed è
necessario fornirsi degli strumenti critici adeguati per capirne/carpirne
appieno la portata innovativa.
Restando nell’ambito della scrittura al femminile (con tutte le ambiguità
che questa definizione comporta), si approda a L’isola di Arturo (1957) di Elsa
Morante (1912-1985). Prolisso all’inizio, infarcito di descrizioni didascaliche,
poi spigoloso, irritante come certi suoi protagonisti, L’isola di Arturo, a
dispetto di ogni misoginia ostentata dai personaggi maschili, può ammaliare
progressivamente come una femme fatale. È una ben strana storia, dai
contorni sfumati, quasi onirici, sospesa in atmosfere che fanno pensare a
tanta letteratura francese, da Les enfants terribles di Cocteau a certi passi de
Le Grand Meaulnes di Alain-Fournier o de Le Visionnaire di Julien Green; ma
L’isola di Arturo sfugge ad ogni inquadramento in generi o scuole. Una critica
psicanalitica può attingervi a piene mani: si veda il complesso edipico di
Arturo, quantunque possa apparire una lettura troppo semplicistica rispetto
alla complessa atipicità del personaggio. Magari un’attenta analisi psicologica
meriterebbe soprattutto l’autrice: scrivere in prima persona, nei panni di un
ragazzo adolescente, significa esorcizzare o sublimare il maschio che c’è in lei
(come da lei stessa dichiarato) o cos’altro?
Tornando al romanzo, esso si rivela, dopo il detto approccio, originale e
sorprendentemente intrigante nel realizzare una felice commistione di
realismo, lirismo e visionarietà. Provoca comunque un certo disagio
addentrarsi nel tessuto del racconto, poiché esso è disorientante come un
gioco di specchi. Specchi in cui si riflettono tabù, paure, inibizioni e omissioni
di personaggi reclusi in un multiplo sistema chiuso: la casa dei Guaglioni, la
fortezza/penitenziario, l’abitato urbano, l’isola. La dimensione spaziale è
alienante, quella temporale asimmetricamente scandita dall’andirivieni di
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Wilhelm Gerace. Il mondo incantato di Arturo, simboleggiato sin dall’inizio
dalla sua omonimia col mitico re di Bretagna, ha fine con la sua fuga. E finisce
così il processo iniziatico di un’adolescenza.
Di un’altra isola si parla, negli stessi anni, ne Il Signore delle Mosche
(Lord of the flies, 1954) di William Golding (1911-1993). Un’atmosfera
straniante, quasi surreale, a volte angosciante e claustrofobica, si diffonde
progressivamente tra le pagine di questo libro. Ben lungi dai Robinson Crusoe,
da naufragi, isole del tesoro, lagune blu e quant’altro, Golding, nel contesto
di un imprecisato conflitto mondiale, scandaglia la natura umana prendendo a
protagonisti dei bambini: anime innocenti, capaci di auto-organizzarsi
secondo un idilliaco ideale di giustizia e libertà, in un mondo incontaminato
dalla barbarie umana? Niente di tutto ciò. I tentativi di instaurare i buoni
principi di una democrazia liberale, traslata da quella britannica, falliscono
miseramente, perché l’istinto omicida e prevaricatore è connaturato
all’uomo: questa è l’amara riflessione di Golding. De Il Signore delle Mosche è
da apprezzare lo stile scevro di indugi estetici, apparentemente semplice, ma
capace di condurre, come si accennava all’inizio, in un’atmosfera straniante.
I dialoghi sono ben calibrati, incisivi e non ridondanti per l’età dei giovani
protagonisti (rischio in cui sarebbe potuto incorrere l’autore); anche lo
sviluppo psicologico di questi ultimi è mirabilmente condotto fin verso
conseguenze estreme. Golding non si attarda in moralismi di sorta nel
mostrare l’irresistibilità delle lusinghe del potere e del male che ne deriva. I
bambini nello specifico, ma anche l’uomo in generale, sublimano spesso in
paure sovrannaturali ciò che di più terribile cova invece nella loro psiche.
Siamo noi stessi, si può dire, i mostri delle nostre fantasie.
Si resta su di un’isola, stavolta urbana, della periferia romana, ne
Ragazzi di vita (1955) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). La grandezza di
Pasolini in questo romanzo sta nella capacità di rendere lirico lo squallore
esistenziale e iconografico di vite miserevoli. Naturalista nel linguaggio,
questo particolarissimo stile autoriale apre comunque squarci di partecipata
commozione, lasciando intravedere canali di comunicazione con situazioni e
oggetti che a prima vista sembrerebbero ripugnanti. Seppur sostenuto da una
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salda ideologia di fondo, Pasolini non è mai didascalico, né moraleggiante. Il
romanzo scorre da sé nella ciclicità delle stagioni (le estati) e dei corsi
d’acqua, spazi nei quali i ragazzi si muovono allo stato brado; sentimenti di
cinismo, solidarietà e quant’altro sono delle semplici epifanie spogliate di
ogni codice etico loro attribuito dalla società “civilizzata”. Il libro lascia in
questo senso sgomenti per la normalizzazione della violenza insita nell’istinto
del vivere. La miseria del sottoproletariato urbano si configura come una sorta
di coscienza sporca del fariseismo borghese, che Pasolini mette a nudo con
una crudezza che all’epoca fece scandalo (appunto perché la coscienza sporca
va tenuta nascosta).
Da una città all’altra, da un Pier all’altro, in Rimini (1985) di Pier
Vittorio Tondelli (1955-1991) ci si trova di fronte ad un romanzo totale, in cui
coesistono amore, morte, commedia, avventura, giallo. La riviera romagnola,
luogo simbolo di vacanze e divertimenti, è un grande palcoscenico dove va in
scena la commedia umana e, più in dettaglio, la storia morale di una nazione,
tra arrivismi e corruzione, dal boom economico degli anni ’60 fino all’inizio
degli anni ’80. Ma l’aspetto più significativo è la solitudine esistenziale che
accompagna i personaggi, ognuno dei quali è alla ricerca di qualcuno o di
qualcosa; l’impressione prevalente, anche nelle microstorie dagli esiti
apparentemente felici, è quella di individualità che si accumulano senza
entrare in comunione tra di loro. Si dice in un passo: “Ogni persona è
costretta a crearsi una finzione per poter continuare a vivere. C’è chi pensa
alla famiglia, chi al lavoro, chi al danaro, chi al sesso. Ma sono tutte illusioni.
Io ho la mia. Non posso fare a meno di crederci.” (TONDELLI, 2000, p. 633). I
protagonisti del libro, in definitiva, più che spinti da una vera aspirazione a
credere nel senso profondo delle cose, cercano in una situazione o in un’altra
persona la realizzazione di un’illusione, magari inconsapevole di esserlo, che
consenta loro di sopravvivere. Un esempio su tutti: la donna berlinese cerca la
sorella per cercare in realtà se stessa e si fidanza col professore di ripetizioni
per appagare la sua insoddisfazione sentimentale, al di là della persona che la
contingenza le ha posto accanto. Insomma, vi è nel romanzo una grande e
lirica amarezza di fondo.
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Di grandi scrittori l’Italia è priva ormai da tanti anni. Tondelli, pur
scomparso giovane, può essere considerato uno degli ultimi, assieme a
Gesualdo Bufalino (1920-1996), scomparso meno giovane ma rivelatosi, con
Diceria dell’untore (1981), tardivamente. A volte si creano con dei testi dei
legami irresistibili, inesplicabili. Ciò è quello che può accadere con questo
libro eccezionale. Molti vocaboli difficili rendono pesante la lettura? Niente di
tutto ciò. Ogni parola è una gemma preziosa, una nota di una partitura
sinfonica scelta per la sua carica espressiva, intrinseca: che importa non
conoscerne a volte il significato esatto? Tutto il tessuto narrativo è di
straordinaria liricità, suggestione, intensità. Questo libro è anche una miniera
inesauribile di temi esistenziali, filosofici, religiosi, confessionali. La salvezza
è vissuta come eccezione colpevole nel microcosmo del sanatorio. Il ritorno al
mondo dei “vivi” è per il narratore pseudo-autobiografico spiazzante, perché
si presenta con esso la necessità di ricostruire una ragione per vivere dopo
aver già trovato un senso nella morte. Bufalino è pessimista e umorista,
riuscendo però a ricavare dalle disarmonie esistenziali materia di struggente
umanità.
Il discorso sulle finzioni del vivere, sulle illusioni esistenziali e sui sensi
di colpa, affiorato in questi ultimi due romanzi italiani, è presente in un altro
grande romanzo del secondo Novecento, Opinioni di un clown
(Ansichten
eines Clowns, 1963) di Heinrich Böll (1917-1985). L’“opinione”, dunque, è che
si tratti di un piccolo capolavoro. Il tempo della storia non supera le due, tre
ore, mentre, attraverso una continua serie di flashbacks, il racconto
ripercorre l’adolescenza e la vicenda artistica e sentimentale di Hans Schnier.
Böll è uno straordinario satirico, dallo stile asciutto e tagliente, e un’amara
ironia si diffonde su tutto il romanzo. In una fitta rete di ipocrisie politiche e
religiose, che imperversano nella Germania del dopoguerra, quella dei falsi
sensi di colpa, c’è il tentativo soggetto a continue frustrazioni del
protagonista (io-narrante) di liberarsi dall’angustia del conformismo borghese.
Le sue debolezze, la sua necessità di sopravvivenza, rendono il suo conflitto
interiore, ancorché nei confronti con amici e familiari, più autentico e
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drammatico di quanto possa esserlo, invece, se racchiuso nella scorza di una
coerenza maggiore.
Tornando di nuovo agli italici anni ’80, il decennio si chiude con La
grande sera (1989) di Giuseppe Pontiggia (1934-2003), altra, presunta, parodia
borghese. Ma questo libro conferma due tendenze poco lusinghiere: la scarsità
di scrittori italiani contemporanei di valore, come accennato sopra, e la, a
volte, poca “lungimiranza” nell’assegnare il premio Strega, del quale il libro è
stato omaggiato. La narrazione ruota attorno alla scomparsa (o sarebbe
meglio dire, fuga) di un agiato borghese dalla sua famiglia, dalle sue amanti e
dal suo lavoro, insomma, dalla sua gabbia etica e sociale. Che sia fuggito con
il conto in banca alle Maldive, a Santo Domingo o, come ipotizzato, in
Sudafrica, qui poco importa. La tentazione può essere invece quella di fuggire
da questo romanzo irritante, sia per la pedanteria e ripetitività stilistiche che
per le sue presunte critiche socio-esistenziali. Se opportunista è lo scomparso,
disillusi a diverso livello, ora cinici, ora rassegnati, ora morti-viventi, sono
tutti quelli che rimangono. Il problema è che il grigiore di fondo, che vuole,
evidentemente, metaforizzare l’ipocrisia di un’intera società, non conosce
gradazioni e si perde in una melassa anodina, invece di risultare corrosivo, per
esempio, attraverso un sottile gioco di contrasti drammatici: cogito ergo
“sono disilluso” è il leit-motiv stanco e dichiarato dei protagonisti (per alcuni
è la premessa, per altri la conclusione). Ed a proposito dei personaggi, tutto il
loro mondo interiore viene descritto pedissequamente, con un artificio
opinabile, in schede illustrative all’inizio di ogni capitolo, senza che questo
stesso universo possa affiorare con la dovuta arguzia dalla crisalide del
linguaggio letterario. Lo stesso Pontiggia, nell’edizione rivista de La grande
sera, ha individuato e cercato di limare altri difetti (il che, a volte, significa
arrovellarsi inutilmente attorno ad un testo e peggiorarlo); eppure, il romanzo
è rimasto troppo pregno di sentenziosità aforistiche e moraleggianti, di
similitudini, paradossi ed antitesi: insomma, pare di affrontare una scrittura
parafrasi di se stessa.
Un descrittivismo pedissequo, o in altri termini, una ingiustificata
pignoleria nel “visualizzare” fotograficamente ogni elemento ambientale,
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contraddistingue anche Cortesie per gli ospiti (The comfort of strangers,
1981) di Ian McEwan (1948), scrittore inglese, che, tra l’altro, si è
dichiaratamente ispirato al Signore delle mosche in un suo romanzo
precedente. Ebbene, viene il dubbio che l’“insostenibile pesantezza” di
Cortesie per gli ospiti sopperisca a una carenza di movimento interno, a una
ideologia della storia che non riesce proprio ad emergere. Leggasi ad
esempio: “Qualche stella aveva già squarciato un cielo di lividi colori pastello,
eppure non era difficile vedere il mare […]. Sotto il terrazzo, quindici metri
più in basso, c’era un cortile deserto” (Mc EWAN, 2005, p. non disponibile).
Insomma, non si vede la necessità di indicare una misurazione tanto precisa
dell’altezza del balcone, dopo aver già così scolasticamente “disegnato” il
cielo.
Lo sviluppo dei personaggi, dunque, non gode di una psicologia
“evocata” dall’effettiva profondità di scrittura, ma poggia su un cronachismo,
su uno “sguardo dal di fuori” (ma l’école du regard è un treno già passato)
che rendono superficiale l’impatto emotivo col testo. Con una metafora,
questo romanzo è un invertebrato, nel senso che è fatto solo di stucchevoli
parole, mentre non ha un vero scheletro, cioè un senso intrinseco che
giustifichi e valorizzi la storia. Dispiace vedere tanto vuoto artificio in uno
scrittore altre volte rivelatosi un’apprezzabile narratore.
E parlando di invertebrati, è possibile, al contrario, rintracciare una
spina dorsale solida e robusta che sostiene da almeno tre generazioni un
filone narrativo parodistico, disincantato e spesso anti-sociale, nell’America
degli ultimi 60-70 anni.
Se John Fante (1911-1983), figlio di un immigrato abruzzese negli States,
non può forse arrivare ad essere annoverato tra i primissimi scrittori
americani del Novecento, ciò lo si deve alla tranquilla agiatezza raggiunta
lavorando per l’industria hollywoodiana come sceneggiatore di alcune
produzioni di secondo piano. Nel senso che al talento naturale è mancato quel
“monachesimo” professionale necessario a produrre la grande opera, in
termini di prospettive tematiche e virtualità psicologiche. Comunque sia,
Chiedi alla polvere (Ask the dust, 1939), nell’affrontare le vicende di Arturo
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Bandini, in buona parte autobiografiche, sprigiona una freschezza narrativa
arguta ed ironica. Tutto è mirabilmente abbozzato, dalla verve autoparodistica al disincanto esistenziale, da una vena lirica e malinconica ad
un’affermazione egotistica che si nutre di riferimenti nietzscheani. Tutto è
abbozzato, tutto ha il respiro corto di un racconto lungo, appunto. Piacevole,
brioso, riflessivo, comico, mordace; la narrazione in Fante non si sofferma,
alterna registri rapidamente, a folate: questi sono i pregi della sua scrittura e,
allo stesso tempo, i suoi limiti.
Quasi coetaneo di Fante, William Saroyan (1908-1981), col titolo La
commedia umana (The human comedy, 1942), sembra strizzare l’occhio a
Dante; tuttavia, si vede subito che il nome dei protagonisti, Homer e Ulysses,
l’ambientazione nella cittadina di Ithaca e, in una circostanza, un ulteriore
riferimento all’Odissea si rifanno al ciclo epico più antico del mondo. In
effetti, al centro del libro di Saroyan di “epico” c’è la lotta dell’uomo contro
la perversità della sua stessa natura, rappresentata dalla presenza costante
della guerra. Ma il tono dell’opera è quello di una favola: i personaggi sono
sfumati, lirici, teneri, ideali. Ciò che Saroyan cerca di sublimare in questa
forma è una grande e dolorosa rabbia; rabbia di un immigrato armeno che
comunque si riconosce nel grande spirito americano, le cui contraddizioni e
intolleranze, che velatamente traspaiono, sembrano non sminuirne la
vocazione solidaristica. Eppure, ciò che incombe sul romanzo è un senso più
generale dell’assurdo, del grottesco, che connota la natura umana: da qui,
per l’appunto, la “commedia umana”.
E che dire della sublime commedia di Jerome David Salinger (1919),
ovvero Il giovane Holden (The catcher in the rye, 1951)? Il protagonista
Holden Caulfield nel suo disadattamento polemico non giunge mai ad odiare
fino in fondo, non riesce mai a tramutare il suo astio da atteggiamento
mentale momentaneo a pratica quotidiana vera e propria, perché in fin dei
conti Holden non è cattivo, anzi. Da questo scarto, quindi, tra le virtualità
dell’io e la loro mancata effettivazione nasce la carica comica. Il ragazzo è
sempre pronto a concedere delle attenuanti o il beneficio del dubbio ai
comportamenti altrui, compresa l’avance omosessuale del professore Antolini.
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Si pensi a quanti, nel brontolare continuo e nel criticare gli aspetti ed i
protagonisti
di
una
società
traviata,
non
fanno
altro
che
cercare
disperatamente di resistere a questa deriva e di difendersi da un
annientamento subdolo; non di odio si tratta, ma di reazioni istintive di
stizza, quasi di un amore frustrato, nel vedere quella stessa società così
malridotta e incapace di ritrovare un barlume di dignità. Queste ultime
divagazioni riportano al cuore del libro di Salinger: comicità e ironia sono le
armi della rivolta a disposizione di Holden per scardinare un mondo di
conformismi borghesi, comprese le tante ipocrisie religiose, senza però
opporvi un’altra pratica di vita, se non quella di farsi polemicamente da
parte. Il ricovero presso una clinica psichiatrica ed il ritorno a scuola sono
l’epilogo inevitabilmente amaro del tentativo di resistenza del ragazzo. Come
siano stati metabolizzati internamente questi cambiamenti nel protagonista
non è dato saperlo, almeno finché Salinger non uscirà dal suo auto-esilio
scrivendoci degli sviluppi biografici ed esistenziali dei suoi personaggi.
Una possibile evoluzione di Holden Caulfield è ipotizzabile in Herzog
(1964) di Saul Bellow (1915-2005). Del lungo romanzo è particolare la
struttura circolare: dall’inizio alla fine, passano solo due giorni nel tempo del
racconto, mentre la storia, attraverso dei flussi di coscienza che intervallano
spesso la narrazione in terza persona (seppur focalizzata internamente sul
personaggio), dà conto di mesi e anni della vicenda umana del protagonista
Moises Herzog. Citare queste tecniche narrative è interessante perché Bellow
sembra condurre il lettore in un mare aperto in tempesta con l’abilità di un
timoniere che non perde la giusta rotta per approdare a destinazione. Bellow
appartiene a quella famiglia di narratori ebreo-americani della seconda metà
del Novecento, della quale Philip Roth è divenuto l’insuperabile interprete, i
cui romanzi presentano un sottile e intelligente spaccato dell’uomo colto,
sensibile, tormentato, a volte polemicamente depravato, inserito nella
complessa e contraddittoria società statunitense. È scontato però aggiungere
che queste pulsazioni sono proprie dell’uomo in generale, non solo americano,
perlomeno dell’uomo consapevole, i cui tempi interiori sono sfasati rispetto
alle dinamiche psico-sociali dominanti (ed è in questo che gli Stati Uniti
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entrano in discussione in quanto modello più rappresentativo). Herzog, per
esempio, è un brillante studioso e saggista e, allo stesso tempo, un marito, un
padre, un amante dimezzato, che ha accumulato quasi alla rinfusa scelte, ma
spesso, non-scelte. La sua vita, i suoi pensieri sono infarciti di nozioni e ideali
mutuati dai libri del pensiero occidentale; la sua realizzazione pratica soffre,
parallelamente, di un diffuso senso di inettitudine, perché rivestita di un
abito troppo leggero per resistere alle intemperie del pragmatismo
quotidiano. Al contempo, ai personaggi della stessa stoffa di Herzog sembra
preclusa la capacità di una vita di coppia, allo stesso modo in cui due polarità
uguali non producono energia. Lo spogliarsi finale, finanche della penna per
scrivere le fantomatiche lettere, appare così un atto catartico di
sopravvivenza nella solitudine. Sta forse proprio qui l’alienazione dell’uomo,
moderno o post che sia, nel momento in cui raggiunge la consapevolezza che
nessun’altra via è percorribile (si pensi agli stessi aspetti biografici di un
Salinger, di un Thomas Pyncon o dello stesso Roth).
E, dunque, da questa galleria di personaggi archetipici erompe Il
lamento di Portnoy (Portnoy’s complaint, 1969), folgorante primo successo
del già evocato Philip Roth (1933); erompe come il tappo di uno spumante. In
questo
libro
vi
sono
già
tutte
le
future
ossessioni
rothiane:
l’educazione/castrazione ebraica, la ricerca di integrazione/prostituzione
verso la cultura americana e la sessualità parossistica e tormentata del
maschio nell’era del post-femminismo. Tutto il testo
è una seduta-fiume
psicanalitica recitata in prima persona ad una sola voce. La satira pungente e
grottesca spesso sfocia in memorabili passi di esilarante comicità, sublimata
nell’apice del racconto dalla grandiosa metafora del tentativo di violenza
sessuale, culminato nell’impotenza, proprio in territorio di Israele. Portnoy è
uno degli alter ego dell’universo letterario di Roth, protagonista di questo
solo romanzo, perché a lui è stato affidato il ruolo sacrificale di kamikaze.
Roth è uno dei più grandi scrittori viventi, capace di cogliere in senso
lato, con rara sottigliezza e perizia scrittoria, il goffo e drammatico senso del
vivere. In romanzi più solidi e meno sessuofobici di questo si coglierà
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inevitabilmente un Roth più maturo e più serioso, ma il Lamento conserverà
sempre un suo posto d’onore.
Infine, questa passeggiata letteraria fra letture dall’Italia e dal mondo
trova ne Le correzioni (The corrections, 2002) di Jonathan Franzen (1959) un
titolo che improvvidamente risveglia gli incubi di chiunque pensi e scriva.
Cioè, che tutto potrebbe essere riesaminato, che la definizione di un pensiero
sia sempre in balia della rivedibilità. Come le scelte di vita, ciò di cui appunto
si parla in questo romanzo grandioso. Magari poteva avere qualche fronzolo in
meno, vedere “essenzializzata” la coralità dei punti di vista, cosa che non ne
avrebbe intaccato ma consolidato l’equilibrio della messe di voci. Si è alla
presenza di un gioco esistenziale di contrappunto, con i personaggi della
famiglia Lambert (un’anziana coppia di coniugi della provincia americana ed i
tre figli sparsi tra Philadelphia e New York) a fare i conti con i canoni
parzialmente disattesi del conformismo sociale cui sembravano doversi o
volersi attenere. Le “correzioni” si configurano dunque come una sorta di
progressivo
e
cosciente
monitoraggio
delle
cause
del
deragliamento
(benefico?) dai binari dell’entropia – per usare una metafora che richiami
l’attività di ingegnere alle ferrovie del capofamiglia, il quale è il primo ad
“incepparsi” a causa del Parkinson. Tra i figli c’è il materialista Gary, tanto
succube di sua moglie e dei suoi figli quanto autoritario con gli altri Lambert;
il finto ribelle Chip (personaggio in cui gli echi di Philip Roth sono
evidentissimi), che esce dalle sue vicissitudini approdando alla sistemazione
più tradizionale; e infine Denise, personaggio molto intrigante che assume
man mano consapevolezza della sua omosessualità. Chi corregge chi?
Affrontare gli altri spesso appare una fuga dall’affrontare se stessi, finché ciò
non si renda improcrastinabile. Le situazioni dipinte da Franzen non
consentono, non possono consentire, soluzioni definitive. Altro pregio del
romanzo è la portata sociale ed esistenziale di una vicenda che si potrebbe
connotare universalmente anche trasferendola dalla provincia americana a
qualsiasi altra provincia del mondo occidentale, un villaggio ormai globale e
dai conformismi ramificati.
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Resta sempre valido, allora, l’interrogativo ricorrente in Fontamara di
Silone, coniato da Cernysevskij e mutuabile all’infinito, almeno finché la
letteratura non si stancherà di percorrere i sentieri angusti delle miserie
umane: che fare?
REFERÊNCIAS BIBLIOGRÁFICAS
CANETTI,
Elias.
Auto
da
fé.
Disponível
<http://lafrusta.homestead.com/rec_canetti.html>. Acesso em: 29 fev. 2008.
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GOETHE, Johann Wolfgang. Il re degli Elfi. Disponível em: <http://www.lapoesia.it/stranieri/tedeschi/goethe/goethe_indice.htm>. Acesso em: 29 fev.
2008.
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TONDELLI, Pier Vittorio. Rimini. In: ____. Opere: Romanzi, teatro, racconti.
Milano: Bompiani, 2000.
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