Intervento di Emanuele Scotti “La vita buona del Vangelo in una

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Intervento di Emanuele Scotti “La vita buona del Vangelo in una
“I carismi della vita religiosa femminile a servizio della coppia e della famiglia
fra profezia e annuncio”
Intervento di Emanuele Scotti
Rappresentante persone separate presso la Consulta Nazionale Pastorale Familiare
“La vita buona del Vangelo in una famiglia ferita”
INDICE
1. Prologo.................................................................................................................. 2
2. La scoperta di una fede diversa................................................................................. 3
3. La scelta di restare fedele ........................................................................................ 4
4. La Grazia del perdono.............................................................................................. 5
5. Una vicinanza materna ............................................................................................ 6
6. Tutti insieme: ricchezza o confusione? ....................................................................... 7
7. La misericordia di Gesù e la misericordia dei discepoli .................................................. 8
8. Riconoscere la sofferenza dei figli .............................................................................. 9
9. Una generazione narra all’altra le tue opere .............................................................. 10
10. Essere nel mondo senza essere del mondo.............................................................. 11
11. Segni di contraddizione ........................................................................................ 12
12. La spina nella carne............................................................................................. 12
13. Fedele a chi, a che cosa?...................................................................................... 13
14. Quali frutti? ........................................................................................................ 14
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1. Prologo
Prima della nostra crisi matrimoniale non erano mancati momenti difficili, anche se
abbastanza comuni nelle giovani coppie della mia generazione. Avevamo vissuto periodi di
preoccupazioni economiche, ed io avevo poi anche perso il lavoro. Avevamo “tirato la cinghia”
per mesi col solo impiego di insegnante precaria di mia moglie. Erano tutti, però, o almeno
così mi sembravano, problemi esterni a noi e al nostro legame, che sentivo come solido e
sicuro, e mai più pensavo potesse essere anche solo sfiorato dagli eventi che, invece, di lì a
poco ci travolsero.
Di ritorno da un viaggio all’estero, felice per un nuovo incarico lavorativo, vedo mia
moglie che mi viene incontro in stazione col nostro bimbo in braccio, che allora aveva due
anni, e trovo conferma nei suoi occhi di una strana impressione che avevo avuto in alcune
precedenti telefonate. La sento stranamente fredda e distaccata. Quella sera stessa, mi dice:
“Dobbiamo separarci”. Resto allibito, sconvolto, mi sembra un incubo. Non riesco a crederle.
Da quel momento inizieranno giorni, settimane, mesi di discussioni estenuanti, che non
avrebbero portato a nulla. Noi due sempre più distanti, incomprensibili e irriconoscibili l’una
all’altro.
La convinco ad incontrare un amico sacerdote a cui avevo esposto la mia situazione, per
un estremo tentativo di riconciliazione. Parlano a lungo, per un tempo che mi sembra
interminabile. Li vedo poi, come fosse ora, scendere dalle scale. Io col cuore pieno di
speranza (forse anche di illusione), trattengo il respiro. L’amico prete mi lancia un’occhiata,
che lì per lì non riesco ad interpretare. Poi, mi prende un po’ in disparte e, a bruciapelo, mi
dice: “Guarda, Emanuele, che non c’è più niente da fare!”.
In tanta sofferenza, in tutto quel dolore, in tutte le reciproche asprezze che seguirono,
una delle espressioni che mi fece più male fu quando mia moglie rispose ad una delle mie
richieste di spiegazione, via via divenute più assillanti: “Senti, alla fine, io ho la mia vita!..”. A
un certo punto mi fu chiaro che non c’era più la “nostra” vita, ma da quel momento in poi ci
sarebbe stata di nuovo una “sua” e una “mia” vita. Il mistero grande del matrimonio
sembrava divenuto piuttosto un enigma inestricabile di umanità ferite. Ancora oggi, a
distanza di oltre dieci anni, le cause profonde che hanno portato alla separazione della nostra
famiglia mi restano in parte ignote. Trovo questa sintesi letteraria più illuminante di tante
analisi: “La gente si lascia trascinare dall’amore come se fosse un assoluto, anche se
mancano le misure dell’assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare di
innestare questo amore nell’Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di
questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla
mancanza di umiltà. È una mancanza di umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella
sua essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario – il pericolo
è incombente; l’amore cede sotto il peso della realtà quotidiana” (La bottega dell’orefice,
Karol Wojityła, 1979].
Dopo alcuni mesi, scoprii che mia moglie aveva un’altra persona. La separazione,
ormai inevitabile, avvenne poco dopo. La convivenza di mia moglie col suo compagno ebbe
inizio poco tempo dopo la separazione. Era per me un pensiero assillante, che occupava di
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continuo la mia mente. Soprattutto, l’idea di mio figlio con “l’altro” era un vero tormento.
Temevo di perderlo, di essere sostituito come figura paterna. Il solo pensiero che il nostro
bambino fosse costretto a vivere questa situazione mi faceva impazzire. Davanti agli occhi
della mia mente, scorreva come un film, un brutto film, sempre lo stesso, ripetitivo,
ossessivo, martellante...
2. La scoperta di una fede diversa
Se c’è un’esperienza di “deserto”, se c’è una “notte oscura” che può conoscere l’animo
umano, per me sono stati quei momenti. Momenti di buio e di solitudine, dove niente può
dare sollievo, dove ci si sente incompresi e che nessuno può in effetti capire fino in fondo, e il
dolore lascia senza fiato. Sentirsi rifiutati, “buttati via”. Ritrovarsi senza un’identità, in una
situazione di profonda destabilizzazione psico-fisica e di estraniamento dal mondo. Non
riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola. Con tutto ciò, quando
qualcuno, credendo di farmi cosa gradita, mi parlava male di lei o mi diceva “poveretto!..”,
non sapeva quanto mi faceva male.
Ma è allora che in quel profondo silenzio mi sono sentito come liberato da tante cose,
da tanti pesi inutili, da tanti rumori dentro e fuori di me, e ho sentito quella “voce di silenzio
sottile”1, quella presenza del Signore accanto a me, che, quando tutto andava bene, non
potevo, non volevo sentire. E l’interrogativo della fede, fino ad allora mai del tutto risolto, mi
è parso come il bivio fondamentale: da una parte solo un dolore insensato, un male ricevuto e
procurato, la fine di tutto; dall’altra, attraverso il dolore, una promessa di vita, di salvezza e,
sì, perfino di gioia! Ero stato fino allora un cristiano molto “tiepido”, la mia fede si era nel
tempo sempre più affievolita. Ero un cristiano “fai-da-te”, come si dice: tenevo qualcosa che
mi andava e lasciavo il resto. Ciò che mi andava, lo tenevo; ciò che mi sembrava eccessivo,
repressivo, non al passo coi tempi, lo mettevo da parte. Iniziavo ora a capire che non si può
essere cristiani a pezzi (lo è la mia testa, ma non lo sono le mie mani, i miei piedi...), ma
iniziavo a voler prendere tutto intero il messaggio di Gesù che la Chiesa ci tramanda. E
iniziavo a scoprire una fede semplice.
Ricordo che ci fu un periodo in cui la mattina prima di andare al lavoro, passavo in
Chiesa e mi fermavo ai piedi del Crocifisso. Quello stare lì, il più delle volte senza riuscire a
dire e perfino a pensare nulla, ha cambiato il mio cuore. In quel buio, in quei miei “inferi”, ho
sentito per la prima volta la presenza concreta e reale del Signore. Questo ha cambiato poco
a poco la prospettiva interiore della mia vita. La mia situazione continuava a restare tal quale,
tutti i problemi restavano, nulla cambiava fuori di me, la mia sofferenza restava; ma nella
stesso tempo nulla era e sarebbe stato più come prima. «Anche se il Signore ti darà il pane
dell'afflizione e l'acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i
tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te:
"Questa è la strada, percorretela"» (Is, 30, 20-21).
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“Gli disse: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento
impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu una folgore, ma il Signore
non era nella folgore. Dopo la folgore, ci fu una voce di silenzio sottile. Come la udì, Elia si coprì il volto col
mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”. (Primo Libro dei Re, 11-13)
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Questa esperienza di fede mi ha sostenuto anche nella scoperta di una nuova
paternità, più profonda, più consapevole, più responsabile; che, a sua volta, è stata una
spinta positiva fortissima. Ricordo quando una volta – erano i primi tempi dopo la separazione
– io avevo già dovuto trovare una sistemazione per conto mio, e mio figlio, che allora avrà
avuto cinque anni, era con me. Io ero preso da miei pensieri, mi sentivo piuttosto depresso, e
stavo preparando qualcosa da mangiare per noi due, non rendendomi conto di essere
osservato. A un certo punto, mi chiese: “Papi, perché hai quella faccia triste?”. In quel
momento, fu un pugno allo stomaco. Ebbi improvvisamente coscienza di come la visione del
mondo che mio figlio si stava costruendo era inevitabilmente filtrata dai miei occhi, dalla mia
visione del mondo e della realtà. Lui si rifletteva in me. E io, inconsapevolmente, stavo
rischiando di fare la cosa peggiore che potessi fargli: togliergli la fiducia che la vita è una cosa
buona. E da allora ho sentito molto forte la responsabilità di dovermi risollevare per lui. Con i
bambini è impossibile fingere. Non si trattava, quindi, di mostrarsi sereno, ma di esserlo; non
di sembrare rappacificato, ma di vivere realmente in pace; non di mostrarmi fiducioso, ma di
esserlo pienamente.
3. La scelta di restare fedele
E ho iniziato a comprendere davvero allora il significato di quelle parole che avevo
pronunciato il giorno del nostro matrimonio: “Io accolgo te, come mia sposa. Con la grazia di
Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Esserti fedele sempre... nella gioia e nel
dolore. Quei giorni, che non avrei mai pensato potessero arrivare, erano il momento del
dolore – il massimo dolore che si possa provare in amore, quello delle spalle girate, del “non
ti amo più” - eppure... ti amerò e ti onorerò tutti i giorni della mia vita.
Sentivo di non poter sopravvivere senza amore. Ma poco a poco iniziavo a realizzare
che non dovevo andarlo a cercare altrove: ciò che in apparenza mi era stato strappato,
l’amore di mia moglie, continuava a vivere nel nostro matrimonio, che proprio là dove
sembrava finire forse stava invece trovando una sua profonda nuova dimensione. Si
ricomponevano i frammenti dell’amore umano in un’unità più alta, un’unità da “nozze eterne”,
proiettate nel cuore stesso di Dio.
La fedeltà e il perdono non mi sono più sembrate allora mète irraggiungibili, troppo
superiori alle mie forze. Ma la conseguenza e l’effetto del sentirmi amato prima da Dio,
perdonato da Dio, che restava fedele e presente nel nostro matrimonio, dando senso e gioia
alle mie giornate. Iniziavo a comprendere le parole del salmo “Il Suo Amore è per sempre”
(Sal 135).
Tutto ciò, però, non toglieva ancora tutte le mie paure umane. Non sarei impazzito, mi
chiedevo? Si può, può un uomo vivere così? Mai prima avevo preso in considerazione
un’eventualità anche lontanamente simile. Mi sentivo fatto per la vita coniugale, di coppia, e
non certo per restare solo. Ho detto allora al Signore: “Pensaci tu!”. E anche la stessa castità
mi è parsa, a quel punto, come ciò che poteva salvarmi dallo scivolare verso il basso,
dall’abbruttirmi. Prima l’ho subita, poi l’ho scelta. Non più una regola morale dura e
incomprensibile, quasi disumana, ma un mezzo per guardare in alto; sì, per darmi fiducia che
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lo spirito può e deve guidare il corpo, e non viceversa; per potere guardare mio figlio con
quello sguardo sereno di cui lui aveva e ha bisogno. Ho chiesto al Signore di darmi la Grazia
della fedeltà, giorno per giorno. Giorno per giorno...
4. La Grazia del perdono
La mia scelta di fedeltà è stata a lungo legata alla speranza di un ricongiungimento.
Fino a quando mia moglie non mi ha detto che aspettava un bambino. Non pensavo che avrei
potuto ripiombare nel dolore acuto dei primi momenti della separazione. Non sopportavo la
vista del pancione di mia moglie. Sì, mia moglie. Nella mia scelta di restarle fedele, non avevo
mai messo in dubbio che l’avrei sempre chiamata così, nonostante tutto. Ma ora? Mi sentivo
umiliato, di nuovo profondamente ferito.
Vidi G. che avrà potuto avere una decina di giorni. Ci incontrammo in un afoso
pomeriggio di estate ai giardinetti, tra le aiole secche e le panchine in mezzo all’asfalto. Mia
moglie la teneva stretta a sé in un marsupio porta neonato. Mi sembrava volesse come
proteggerla da me, guardandomi con un po’ di sospetto, studiando le mie reazioni. Non dissi
nulla, ma mi venne un sorriso, allungai il braccio e toccai appena il piedino di G. Vidi il viso di
mia moglie illuminarsi. L’avevo liberata da un peso: il pensiero che non avrei mai potuto
accettare la nuova situazione, o che avrei potuto provare rancore verso la bambina, o che il
rapporto con nostro figlio potesse cambiare. In un istante, il piedino di G. aveva sciolto tutto il
gelo di quel lungo inverno dell’anima.
Da quel momento, non mi sono più sentito autorizzato a
ricongiungimento. Ora una nuova vita aveva diritto ad avere una famiglia
punto di non-ritorno. Ho realizzato che la mia scelta era chiamata a
aspettativa umana, e a trasformarsi davvero in “sì per sempre”, senza
cambio, in un “sì fino alla fine”.
sperare il nostro
unita. Quello era il
purificarsi da ogni
aspettarsi nulla in
Da allora, una lenta progressiva guarigione, fatta di piccoli gesti portati quasi con
timidezza, o perfino inizialmente con un certo timore. Una ricostruzione a partire dal
frammento di bene che, tra tutte le macerie che ci eravamo lasciati dietro, era rimasto; come
sempre, inevitabilmente, anche nel matrimonio più ferito resta qualcosa da portare in salvo
(tra queste, senz’altro i figli). Ricordo la prima volta che mia moglie mi disse: “Sei un bravo
papà!”. Quanto mi colpì questa frase, così naturale e forse scontata in una famiglia unita, che
non potei non associare ai giudizi ingiusti e crudeli che ci lanciavamo addosso i primi tempi
dopo la separazione, misurando la distanza da quelli, che mi parve immensa, e mi lasciò
colmo di stupore e di gratitudine. Ricordo quando nostro figlio scese dalla casa della mamma
con una pentola di minestrone, dicendo: “La mamma dice che ne ha fatto di più...”. Un tempo
non lo avrei mai accettato, mi sarebbe sembrato umiliante; e poi avevo imparato subito ad
arrangiarmi, a far tutto da me; non ne avevo bisogno. Invece, mi parve bello accettarlo e
gliene fui grato. Fu il miglior minestrone da molti anni a quella parte.
Ricordo quando a mia volta riuscii a dirle: “Sei proprio una brava mamma!”. Non erano
parole di circostanza, ma davvero riuscivo dopo tanto tempo a riconoscere che, sì, era ed è
davvero una brava mamma. Prima, vi avrei probabilmente aggiunto, tra me e me:
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“...nonostante tutto”. Da quel momento non più: nessuna ombra mi oscurava più la vista e il
cuore. Finalmente, riuscivo a riconoscere il bene che proveniva dall’altra parte. Avevo tenuto
chiuso per molto tempo il mio cuore in un cupo risentimento, che mi faceva giudicare
sbagliato e negativo qualsiasi cosa giungesse da lei, quasi per principio, come “per
definizione”. Finalmente, mi sentivo libero di giudicare i fatti e gli atteggiamenti per quelli che
erano e per i loro effetti, non per la loro provenienza.
A distanza di anni dalla nostra separazione, anche grazie al cammino comune con
fratelli e sorelle che hanno fatto la stessa scelta di fedeltà al matrimonio-sacramento, ho
sentito a mia volta di dover chiedere perdono a mia moglie. Perdono, io che credevo di non
avere avuto responsabilità in ciò che era accaduto, perdono per le colpe che non avevo mai
riconosciuto. Lì, al solito bar, “campo neutro” dove eravamo soliti incontrarci per le usuali
“comunicazioni di servizio”, tipiche dei genitori separati. Non se lo aspettava, non erano i
soliti discorsi sulla programmazione dei weekend alternati o l’andamento scolastico, che in
quegli ultimi tempi occupava quasi completamente i nostri dialoghi. Mi ascoltava in silenzio,
gli occhi un po’ lucidi.
Il giorno dopo, mi ha inviato tre lunghi sms consecutivi. Parole che mi porterò sempre
nel cuore, che fanno parte della nostra storia d’amore, che superano gli ostacoli del tempo e
di una situazione che non può più essere cambiata. E che non sono solo scritte nella memoria
di silicio del mio cellulare, ma – ne sono certo - sono già scritte in Cielo.
5. Una vicinanza materna
In questi anni, dopo la mia separazione, ho sperimentato la vicinanza materna e la
forte dolcezza di alcune religiose. E ho capito quanto i vostri carismi vi possono rendere
capaci di una singolare vicinanza a tante situazioni di sofferenza, e in particolare di quella
familiare.
Quando mi sono separato non avevo già più mio papà, e mia mamma – come ho
accennato all’inizio – sarebbe mancata poco dopo. Ma avevo ritrovato una mamma, quando
lavoravo e vivevo a Parma, in una suora orsolina di un istituto che accoglieva minori in
difficoltà e presso cui facevo attività di volontariato: suor Assunta Dalla Grana, un’anziana ex
madre superiora, “teoricamente” a riposo in quell’istituto, ma in realtà in piena attività come
pittrice, e soprattutto come donna che pregava, accoglieva, consigliava. E metteva assieme le
persone, galvanizzandole. Era stata lei a convincermi a mettere in piedi a Parma, mettendomi
in contatto con il parroco della vicina chiesa, e raccogliendo un primo nucleo di persone
separate, un analogo gruppo di preghiera come quello dell’associazione di separati cristiani
che avevo conosciuto e che periodicamente frequentavo a Milano. Io avevo remore e dubbi,
pensavo di non essere in grado, di avere soprattutto ancora io per primo tanto bisogno di
aiuto; e fu invece lei a dirmi: “Ma dai, Manu (così mi chiamava, e così, specie da allora, mi
piace farmi chiamare), dobbiamo farlo anche qui!”. Era lei che mi accoglieva nel suo studio
pieno di colori e odore di vernice, e che, alla mia domanda: “Come sta, Suor Assunta?”, mi
rispondeva sempre: “Benissimo! Ma ora che ti vedo, meglio!”. Quanto mi incoraggiò e mi
sostenne nella mia scelta di fedeltà matrimoniale e nell’amore verso mia moglie. Quanta
teologia passava in modo semplice nei suoi discorsi. Ricordo ancora quanto mi colpì questa
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semplice constatazione di fede, ma alla quale non avevo mai pensato con quella chiarezza ed
evidenza: “Pensa, Manu, che bello: che quando nasciamo, non moriamo più!”. E so, quindi,
che ora mi guarda e ci guarda; perché prima che lasciassi quella città per tornare a Genova,
mancò dopo breve malattia, e ciò mi lenisce il rimpianto per non essere riuscito a salutarla.
Ma ricordo anche la madre superiora dell’istituto, che – dopo la mia separazione legale,
quando andai a dirle che mi sentivo in difficoltà e in un certo imbarazzo, e che rimettevo a lei
il giudizio di opportunità sulla prosecuzione del mio servizio di volontariato coi minori – non
ebbe un istante di esitazione, e mi disse: “Ora capirai anche meglio i nostri bambini...”.
E ricordo anche quando, assieme ad un piccolo gruppo di amici e amiche separati, ebbi
un incontro con alcune suore passioniste di clausura. Tutti scambiammo con loro alcune brevi
battute, confidammo qualche peso del momento, affidammo intenzioni di preghiera. Tutto
nell’arco di pochi minuti. Dopo circa un anno, ritornammo a trovarle, e fui letteralmente
allibito non solo nel sentirmi chiamare per nome (io che ho grande difficoltà nel ricordare i
nomi), ma anche nel sentirmi chiedere notizia, col suo nome, della persona che avevo affidato
alle loro preghiere. “Queste fanno sul serio!” – Pensai tra me e me.
6. Tutti insieme: ricchezza o confusione?
Si può qui accennare ad una questione che oggi ricorre abbastanza spesso nella
riflessione pastorale: se sia opportuno realizzare itinerari comuni per separati divorziati
risposati o in nuova unione, o comunque orientati in tal senso, e separati che hanno fatto una
scelta di fedeltà, ovvero occorra tenere nettamente divise le iniziative e i percorsi. La
questione è aperta, e possono riconoscersi pro e contro in entrambe le posizioni. La critica più
comune rispetto ad un percorso indifferenziato è quella che vede un rischio di
disorientamento tra i partecipanti circa la dottrina della Chiesa sul matrimonio, o di suscitare
tensioni e contrapposizioni tra le diverse sensibilità. Viceversa, secondo altri, la distinzione dei
percorsi esporrebbe al rischio che ciò possa apparire come un giudizio soggettivo sulle
persone, e, addirittura, una distinzione tra “buoni” e “cattivi”.
Credo sia difficile, oggi, poter dare una risposta definitiva. Nella chiarezza
indispensabile dei princìpi, saranno soprattutto la sapienza pastorale, la sensibilità umana e
un’opportuna dose di buon senso a suggerire le vie migliori e concretamente percorribili. Dalla
mia esperienza personale, ritengo, tuttavia, che un’iniziativa pastorale di “primo impatto”,
almeno nella fase iniziale, dovrebbe soprattutto privilegiare l'aspetto dell'accoglienza
incondizionata, senza operare distinzioni tra le varie situazioni. Solo in un secondo momento,
si potrà, ed anzi si dovrà suggerire con discrezione la possibilità di un cammino di
approfondimento per i separati fedeli con un percorso dedicato. Questo diventa in modo
particolare necessario nei momenti di formazione. Va detto, comunque, che la presenza nei
gruppi misti di persone che hanno fatto una scelta di fedeltà è sempre significativa per le
persone che hanno iniziato una nuova unione, e particolarmente utile per coloro che sono alla
ricerca di una scelta di vita. Questo è stato peraltro il percorso storico delle due associazioni
in cui opero, Famiglie Separate Cristiane e Separati Fedeli; l’una che accoglie le persone
separate qualunque sia la loro situazione dopo la separazione, nata nel 1998, e l’altra, sorta
nel 2000, rivolta specificamente ai separati che hanno fatto una scelta di fedeltà.
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Nel naufragio della separazione, in un primo momento si è tutti sbalzati fra le onde, e
su tutti si abbattono le stesse furie distruttrici. È lì che gruppi, associazioni e movimenti
possono essere le scialuppe di salvataggio calate dalle murate della nave e lanciate al largo.
Spesso solo loro sono in grado di afferrare il braccio di chi sta per scomparire tra i flutti.
Insieme, si salveranno ritornando alla nave della Chiesa. C’è però una fase successiva, dove
la stessa carità impone di discernere a soprattutto aiutare a fare discernimento sulla propria
situazione, e la necessità di specifici cammini di accompagnamento si impone.
Vi vorrei far notare che c’è un’opinione diffusa che si potrebbe sintetizzare così: “Oggi
il problema sono i divorziati risposati, quelli che non possono fare la comunione... Ma loro, i
separati fedeli, che stanno a posto, che non contestano, che problemi hanno? In fondo, cosa
cercano, cosa vogliono?”. E così che, anche all’interno della stessa comunità ecclesiale, il
separato fedele può talora constatare di essere isolato, e cogliere un senso di incredulità e di
sfiducia in chi gli sta attorno, e perfino una difficoltà a riconoscere un qualche senso e valore
alla sua scelta.
Per me, la risposta sta in un preciso episodio vissuto, quando una signora separata da
molti anni, all’inizio della frequentazione di un nostro gruppo, ci disse: “Sono restata sola
tutta la vita per i miei figli, perché non mi sentivo di rifarmi una vita. Ma, tornassi indietro...
non lo rifarei”. Nella rispettosa comprensione del suo intimo sentire, devo dire che trovai
quelle sue parole tristissime; mi davano il senso ineluttabile di una scelta subìta, anche se
sostenuta da nobili ragioni, non assunta e in definitiva non assunta fino in fondo. Ma proprio
queste stesse parole mi sono state rivelatrici, e mi hanno confermato definitivamente la
necessità di un accompagnamento specifico per me e per tutti quelli che sentono nel cuore di
poter fare questa scelta di vita. Perché davvero dìa frutto, perché davvero sia una scelta
“nuziale”, e non solamente un “restar soli”.
Neppure questa condizione è infatti, di per sé, priva di rischi: il rischio che sia o che
diventi solo una condizione umana di ripiego o di chiusura, un espediente di accomodamento,
oppure “sterilità affettiva”, rigido formalismo, sterile presunzione, eroismo fine a se stesso,
orgoglio spirituale; o ancora, uno stato di mera “sopravvivenza”, di rassegnazione nella
solitudine. Credo che la tutta la comunità dovrebbe sentire la responsabilità di “custodire” le
persone che hanno fatto o sentono di poter fare, con la Grazia di Dio, questa scelta. Non
tanto per loro, ma per quello che testimoniano, loro malgrado: un amore più grande, che va
oltre la reciprocità, oltre l’unione dei corpi, oltre ogni separazione, tradimento e rifiuto, che
può far vivere tale condizione, di per sé umanamente inaccettabile, come una tensione verso
quell’unione totale con Dio che è la realtà più profonda e il compimento del sacramento del
matrimonio.
7. La misericordia di Gesù e la misericordia dei discepoli
Ho letto recentemente una catechesi del card. Christoph Schönborn, Arcivescovo di
Vienna, tenuta alla Comunità Cenacolo di Madre Elvira, dal titolo “Misericordia e Verità si
incontreranno”.
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Mi ha colpito la messa in luce del contrasto tra misericordia di Gesù e misericordia dei
discepoli, sullo sfondo del racconto evangelico della moltiplicazione dei pani. La misericordia
dei discepoli è una misericordia umana, se vogliamo, pratica, immediata; ma anche, talvolta,
frettolosa. In molti episodi, chiedono a Gesù, ad esempio, di mandar via la gente (con buone
intenzioni: hanno fame e si fa sera...); oppure gli chiedono di intervenire perché qualcuno li
sta assillando. La misericordia di Gesù è altra cosa. Alcune volte, può perfino sembrare brusca
dapprincipio. Ma sempre induce a un cammino di conversione. Non lascia mai la persona
come prima. Guarisce fino in fondo, sazia fino in fondo.
Vi trovo un’analogia con la situazione di chi oggi, tra i fedeli, ma anche tra i sacerdoti,
pensa che “il” problema dei separati risposati sia quello di non poter accedere all’Eucarestia, e
di conseguenza ritengono che il problema dell’allontanamento di molti separati dalla Chiesa e
le critiche di rigidità e anacronismo fatte alla Chiesa a una certa opinione comune,
semplicemente possa essere superato concedendo l’Eucarestia ai divorziati risposati. Si
potrebbero approfondire e distinguere varie posizioni e sfumature, ma ciò che vorrei mettere
in luce è che tali posizioni spesso manifestano sensibilità, attenzione, amore anche verso i
separati che soffrono tale condizione. Ma non è la misericordia di Gesù. È la misericordia dei
discepoli, non quella di Gesù. Solo la misericordia di Gesù, che talvolta sembra dura e persino
incomprensibile, fa crescere nella fede. Solo la misericordia di Gesù è vera misericordia.
8. Riconoscere la sofferenza dei figli
Da tempo è in atto una vasta e profonda azione di persuasione collettiva tendente a
rendere la separazione accettabile sotto ogni punto di vista. Molteplici fattori, che ormai
costituiscono ampio oggetto di letteratura in ambito sociologico, psicologico, giuridico e
morale, anche se con letture molto diverse dello stesso fenomeno, contribuiscono a dare della
separazione un’immagine di “normalità”, lontana dalla realtà che conosce chi l’ha vissuta nella
propria carne. (Sono all’opera potenti forze di persuasione che agiscono sulla collettività e sui
singoli con un’azione di radicale rimozione e deresponsabilizzazione).
C’è invece un primo dato che si impone all’esperienza, tanto evidente quanto negato e
rimosso: non solo i coniugi, ma anche i figli soffrono. A qualunque età, anche se in modo
diverso. Eppure, lo si nega in tanti modi. Spesso sono proprio i genitori a respingere l’idea di
essere stati la prima causa delle sofferenze dei figli, che però spesso riemerge a distanza di
tempo sotto forma di profondi sensi di colpa. In molti casi sono gli altri soggetti educativi, ai
quali mancano gli strumenti culturali e, talora, le risorse umane e i mezzi materiali per gestire
tali situazioni, che tendono a sottovalutare e perfino banalizzare il problema. Capita, ad
esempio, che insegnanti ed educatori risolvano in modo tranciante tentativi di introdurre
azioni e attenzioni specifiche, con frasi del tipo: “Ma oggi ormai, più della metà dei bambini
hanno i genitori separati”. Come se ciò potesse lenire la sofferenza che il bambino ha dentro
di sé e sente soggettivamente, al di là di ogni statistica. A ciò si aggiunge il timore della
ghettizzazione e un malinteso senso della privacy, per cui la giusta preoccupazione di non
bollare e discriminare diventa spesso l’alibi per non riconoscere la situazione di questi nostri
bambini.
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Non ho mai tenuto un diario personale, ma dal momento della separazione ho tenuto
memoria e annotato tante frasi pronunciate, eventi ed episodi vissuti da nostro figlio, dai
primissimi tempi della separazione, quando aveva appena tre anni, sino ad oggi che è
adolescente. Considero questa una “storia sacra”. Talora la rileggo e vi ritrovo un’infinita
gamma di sentimenti. Le sue rivolte, nei momenti in cui avevamo perso ai suoi occhi di
bambino ogni autorevolezza, la sua rabbia e frustrazione nel non poter decidere con chi stare
secondo la sua volontà, il conflitto di lealtà ora verso l’uno ora verso l’altra, l’irritazione per le
nostre incomprensioni delle sue difficoltà quotidiane. Ma anche la gioia, talvolta espressa dalla
mia stessa grafìa del momento, per le sue tenerezze e generosità; l’allegria per la simpatia
delle sue battute, che ha sempre amato tanto fare sin da piccolo.
E tante domande. A molte ho risposto. A tante altre non ho saputo rispondere. Non solo
e non tanto perché spesso prevenivano eventi e situazioni, e sopravanzavano la mie capacità
di risposta, ma spesso perché la risposta non c’era. Non potevo che abbracciarlo e stringerlo a
me.
9. Una generazione narra all’altra le tue opere
Quale dono più grande, quale maggiore eredità possiamo lasciare ai nostri figli se non
quella visione positiva e buona della vita e della realtà, che li possa predisporre ad aprirsi al
dono della Fede? Molto spesso, purtroppo, le ferite dei figli sei separati si riflettono anche nel
loro rapporto con la spiritualità e la fede. Questo perché punti di vista che erano prima della
separazione così naturalmente convergenti tra i coniugi, in modo particolare quanto alla vita e
all’educazione dei figli, diventano improvvisamente divergenti. È così che spesso anche la
trasmissione della fede, anziché quel “raccontare di Dio” attraverso la vita quotidiana della
famiglia, può diventare un altro oggetto di contesa e controversia tra i genitori, col risultato
che tutto ciò diviene un ulteriore motivi di disagio psicologico per i figli. I figli si trovano di
fronte all'insolubile dilemma di voler bene ad un padre e ad una madre che non si amano più
o che si odiano profondamente, in una situazione in cui spesso la dimostrazione di affetto
verso un genitore è considerato un tradimento dall'altro; essi sono perseguitati da un conflitto
di lealtà che gli impedisce di vivere il proprio ruolo di figli (Emery2 1982). Molto
frequentemente, anche se non sempre per fortuna, ne consegue che le modalità ordinarie,
tradizionali, della trasmissione della fede non possono essere applicate per i figli dei separati.
Ma come fa, infatti, un bambino a credere alle parole di un genitore, il quale certo le
esprime in buona fede e con tutte le migliori intenzioni, quando ciò che in modo del tutto
naturale e istintivo credeva in modo assoluto, e cioè che mamma e papà si vorranno sempre
bene, è stato radicalmente negato? Quanto è grande la loro ferita! E allora, l’unica cosa che
rimane è pregare in ginocchio ai piedi di Maria e dirle “È tuo figlio, pensaci tu!..”. La nostra
speranza è che la nostra fedeltà a Dio, il nostro silenzioso patire, le nostre lacrime nascoste
arrivino anche a loro, e compiano ciò che è umanamente impossibile. Credo che sarà
soprattutto la testimonianza sofferta e silenziosa a portare, quando sarà il momento, i frutti
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Professore di Psicologia e direttore del "Center for Children, Families and the Law" presso la University of Virginia.
È autore di diversi volumi e di numerosi articoli apparsi su Time, The Washington Post Magazine, Child e The New
York Times.
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che al momento sembrano impossibili, anche ricercando strade diverse, facendosi ispirare
dallo Spirito Santo la “fantasia del bene”.
Crediamo che sia urgentemente necessario individuare percorsi di condivisione per i figli,
sensibilizzare la comunità ecclesiale, le parrocchie, le scuole, gli istituti. Fare arrivare in più
ambienti la loro problematica e il loro bisogno d’ascolto. Speriamo che anche la pastorale
catechistica sappia interrogarsi con umiltà, e trovare linguaggi, atteggiamenti e sensibilità
adeguate per affrontare queste nuove realtà.
10. Essere nel mondo senza essere del mondo
Siamo nel mondo, inevitabilmente. A volte, il separato fedele potrebbe pensare o
desiderare una vita monastica, o una qualche speciale consacrazione. Diversi aspetti, infatti,
avvicinano indubbiamente la vita del separato fedele a quella del consacrato, e tra le due vi è
certamente una qualche analogia. Così come se ne potrebbero lì per lì trovare anche tra la
persona separata e la persona vedova. Ma non spingerei troppo oltre le analogie, fino a quasi
equiparare queste diverse condizioni.
Ritengo poi che sia qui la nostra vita, nel mondo. Lo richiedono i nostri doveri e
obblighi di genitori, lo richiede il nostro lavoro, lo esige la nostra particolare “indole secolare”,
che ci porta a “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”
(cfr. Christifideles Laici). Qui sta il nostro specifico. Testimoniare ovunque, in ogni ambiente e
circostanza, con la vita più che con le parole, e con l’umiltà che deve venire dalla forza nella
debolezza (cfr. 2Cor 12,9), la grandezza del matrimonio cristiano. Con la gioia, pur nella
fatica. E il cartellino dell’ufficio e la sirena della fabbrica sono per noi la campanella che
“chiama la sposa di Dio alla preghiera” (cfr. C. Lubich).
In qualche momento di stanchezza, dopo giornate in cui avverti il peso della gestione
di tutte le piccole, banali ma, sommate, estenuanti incombenze quotidiane (fare la coda alla
posta già prima di entrare in ufficio, poi correre a fare la spesa; al rientro, riassettare la casa,
attaccare un bottone, compito, quest’ultimo, già gravosissimo per noi maschietti...), mi è
capitato di condividere con qualche amico sacerdote un pensiero – lo confesso - forse
ingeneroso nei loro confronti: “Vi rendete conto di quanto la vostra vita sia meno complicata?
Avete una comunità, o comunque qualcuno pensa alle vostre esigenze quotidiane... Noi,
invece, abbiamo tutto sulle nostre spalle!”. E avverti che ti manca il tempo per la riflessione e
per la preghiera personale.
Cresce, quindi, la consapevolezza di quanto ci sia necessario nutrirci di ogni occasione
di incontro nella fede, di ascolto della Parola, e sempre più immergerci nel mistero insondabile
di Gesù Eucarestia. È nell’Eucarestia, infatti, che ritroviamo il nostro coniuge, la nostra
famiglia unita. È lì che viviamo una particolare unità con i fratelli separati che non vi si
possono accostare, e che trovano, anche proprio in questa loro sofferta rinuncia, la loro
particolare vicinanza alla Croce.
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11. Segni di contraddizione
C’è un limite oggettivo alla comprensione di una scelta di fedeltà nella separazione
nella mentalità comune. Ed è il concetto stesso di amore, come oggi viene raccontato,
teorizzato, vissuto. Se non sento più nulla, se questa unione non mi dà più gioia ed emozione,
non è forse giusto avere il coraggio di spezzare questo legame? Se può esserci ancora
qualche dubbio, questi sono generalmente superati quando uno dei due decide di rompere il
patto. A questo punto, fine dei giochi, e ognuno per la sua strada.
Non è raro che chi invece sceglie di restare fedele a quel “sì” sia sospettato di
fanatismo o esaltazione religiosa, (da chi vede in questa condizione di vita più una latente
psicopatologia che una pur sofferta scelta, e può arrivare in piena buona fede a consigliare di
rifarsi una vita, con l’idea inespressa, e talora pure espressa, che sarà pur meglio un nuovo
sano rapporto di coppia, piuttosto che soffocare la propria umanità, immolandola sull’altare di
un dio spietato). Il Signore non vuole forse la nostra felicità? E poi, dietro una scelta del
genere, non è più probabile si nascondano piuttosto blocchi o rinunce, paure e remore?
Insomma, l’anticamera di mali ben peggiori? In fondo, nessuno che non abbia fatto una scelta
di vita consacrata può vivere così!
Questi sono grossomodo gli atteggiamenti mentali più comuni alla base del pregiudizio
che talora perfino cattolici praticanti esprimono verso chi è orientato ad un scelta di fedeltà al
matrimonio-sacramento. (Ancora più doloroso, e particolarmente disorientante per la persona
separata, è quando giudizi e consigli di tal genere sono espressi da sacerdoti o religiosi.)
Io non ho risposte convincenti in grado di fugare tutti questi dubbi e queste ombre.
Sono qua, con tutti i miei limiti, con la mia umanità ferita, talvolta con i miei scoraggiamenti,
che qualche volta mi hanno portato a dire: “Cosa sto facendo?.. È tutto inutile”. Ma vorrei
poter dire come Paolo: “Non conosco che Cristo e Cristo Crocifisso”! (1 Cor 2, 2).
12. La spina nella carne
Tempo fa, alla festa per il battesimo di una nipotina, mia sorella mi ha fatto leggere
alcune pagine di un diario di mia madre, mancata da molti anni, di cui non ero a conoscenza.
Era allora vedova da qualche tempo, e poco prima che la stessa malattia di mio padre
portasse via anche lei. Erano parole che esprimevano sentimenti di profondo e tenero amore,
che da figlio non avevo mai riconosciuto. La bellezza di una famiglia “normale”, che spesso la
quotidianità rivestiva di un apparente grigiore, riemergeva da quelle parole in tutta la sua
forza.
In quel momento, mi è passato per la mente un pensiero: io non avrò tutto questo.
Non avrò qualcuno che mi terrà la mano in quei momenti. Dopo aver combattuto tante
battaglie, superato tanti ostacoli, resta il desiderio di un affetto esclusivo, di qualcosa “solo
per me”...
Tutto questo fa parte delle mie fatiche quotidiane. Credo che sia necessario che io
affronti ogni giorno la mia umanità, con le sue domande ed i suoi dubbi. C’è anche in me
un’aspirazione alla felicità umana, che alle volte cerca una risposta che sembra sfuggire, ma
che ho scoperto di non poter eludere.
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Dopo una giornata lavorativa un po’ pesante, la fatidica domanda, “Perché io no?”, la
domanda che racchiude tutte le speranze dell’amore umano, di un’unione felice, che credevo
per me definitivamente superata, mi riecheggiava. Perché anch’io non posso avere una nuova
unione felice, come sembra accadere per tante coppie risposate. E mi sono sentito debole e
pieno di dubbi. Quella sera, prima di rientrare a casa all’uscita dell’ufficio, sono andato a
passeggiare al porto antico di Genova, la mia città, e guardavo il mare scuro della sera
invernale sentendomi profondamente triste. A un certo punto, ho avuto la netta sensazione di
una risposta precisa, chiara: se non continui a crescere nell’amore, questa condizione di vita
non è pensabile, semplicemente non è possibile. Se la ferita non diventa “feritoia d’amore”,
resta solo una ferita, che poco a poco inevitabilmente dissangua. Devo convertirmi ancora,
camminare, non posso fermarmi.
Forse per me, il cammino da Gerusalemme ad Emmaus sarà più lungo di quegli 11
chilometri del racconto evangelico, ma so di non essere solo.
13. Fedele a chi, a che cosa?
Forse non mi sono mai fatto questa domanda. O forse è un interrogativo così presente
e costante nella mia vita che non l’ho mai percepito veramente come tale. Ma dovendo
ripercorrere il cammino fatto finora, e tentare una risposta, sento di poter dire che mi sono
sempre sentito semplicemente sposato con mia moglie. Certo, tutto è cambiato. Eppure, nulla
è cambiato. E poco a poco, scopro che ciò che è inesorabilmente perso, e che pensavo
contenesse tutta la gioia e la bellezza del matrimonio, è sempre meno importante rispetto a
quel che è restato e che scopro giorno per giorno.
Una fedeltà a un’immagine sbiadita, a un fiore pietrificato, a una proiezione deformata
di una realtà che non c’è più? Ai propri ricordi? Una fedeltà a Dio, che esclude dal proprio
orizzonte interiore il coniuge? Come se ci si potesse presentare davanti al Padre e, alla sua
domanda: “Dov’è tua moglie?”, si potesse rispondere: “Non lo so; sono io forse il custode di
mia moglie?” (cfr. Gn 4,9).
Io credo che la nostra fedeltà di separati sia semplicemente la fedeltà che ci siamo
promessi davanti al Signore il giorno del nostro matrimonio, e di cui Lui resta garante per
sempre, nonostante le nostre debolezze umane.
La riflessione della Chiesa sul matrimonio, che ho iniziato a scoprire essere una fonte
non solo di conoscenza, ma potrei dire di gioia anche per noi separati, indica nel matrimonio
una realtà in movimento verso le nozze definitive e compiute con Cristo. Anche la stessa
fedeltà degli sposi è immagine, segno, ma anche esercizio – si potrebbe dire - per una
fedeltà più grande. In questo senso, la condizione del separato fedele inevitabilmente
accresce la tensione escatologica. Che lo si voglia o no, siamo spinti ad essere già oltre, già di
là. Il nostro cammino viene accelerato, la Grazia del sacramento ci sostiene.
Tanti amici separati fedeli, fratelli e sorelle “compagni di viaggio” come li ho chiamati,
oggi ringraziano idealmente il coniuge e rendono realmente lode al Signore per quanto è
accaduto nella loro vita e nel loro matrimonio. (Non credo di essere già a questo punto, ma
loro) mi sono costantemente di esempio e di sostegno.
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Un’amica, una signora di una certa età, da anni separata fedele, che aveva perso da
pochi mesi il coniuge, separato da molti anni, mi diceva “Sto soffrendo tutto il dolore della
vedova!”. Lei che fino all’ultimo era stata umiliata; lei che non aveva mai ricevuto un
sostegno economico dall’ex marito, anche se questi era molto abbiente, vivendo invece nelle
ristrettezze; che non aveva mai ricevuto un augurio di Natale o di compleanno, che le aveva
pure allontanato i figli... Lei si struggeva per non essere potuta essere lì, vicino a lui, nel
momento del trapasso, e soffriva enormemente perché il marito era morto solo in un letto
d’ospedale (la compagna non c’era). Lei mi diceva: “Quante cose avremmo ancora avuto da
dirci... E ora, soffro tutto il dolore della vedova”.
14. Quali frutti?
Nell’angoscia ho gridato al Signore, mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo
(Samo 117). Oggi mi sento un “salvato”. Tutti noi – è vero – siamo già stati salvati dal
Signore, ma è anche vero che tutta la vita è una riscoperta di questa verità di fede (che tante
volte ci sfugge). Io ho toccato con mano la salvezza del Signore, quando, affidandomi a lui,
mi ha liberato dall’odio, dalla sete di vendetta, dal tanto male che avrei potuto fare (in certi
momenti, può passare di tutto per la testa...), e mi ha fatto sentire, forse per la prima volta
nella mia vita, veramente libero (umanamente, resto uno sconfitto; ma in Lui, nel suo Amore,
siamo vincitori).
In ogni caso, per paradossale che possa sembrare, oggi mi sento più uomo di prima; e
credo perfino di essere un padre migliore per mio figlio, di quello che avrei potuto essere
attraverso scelte diverse.
La separazione per me non è stato un “incidente di percorso”. Un qualcosa di doloroso che
può accadere, come si dice, “di questi tempi”. È qualcosa che mi ha toccato indelebilmente
nel profondo, e che mi ha fatto conoscere un Dio diverso. Questa sofferenza ha fatto virare
completamente la mia vita in un’altra direzione.
Sento che la scelta di fedeltà non può rimanere fine a sé stessa, ma ci chiama a qualcosa
di molto più grande, che non comprendo fino in fondo, e che percorro a volte nel buio della
sofferenza e della prova. Sento in maniera molto netta di essere in cammino, e ogni giorno
affronto i miei limiti...
Non so quanto cammino ho fatto dai primi tempi: noto solo che prima non riuscivo a
guardare una coppia abbracciata o in atteggiamento di tenerezza, senza provare un’acuta
sofferenza. Ora, invece, spesso mi trovo a guardare e a pregare per loro; e dico: Signore fa’
che siano una bella famiglia, fa’ che si amino sempre, fa’ che non si lascino mai!
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