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Negli ultimi mesi le forze armate governative hanno ripreso l’iniziativa contro i guerriglieri tamil. Ma di questa guerra lontana si sa ben poco, salvo la propaganda dei due fronti contrapposti. Più attendibili i racconti Qui Sri Lanka, un Paese a democrazia sospesa REPORTAGE testo e foto di Emiliano Bos dei padri gesuiti che vivono sull’isola e che raccontano di un Paese in cui gli inglesi portavano stagionalmente manodopera indiana per raccogliere il caffè. Fino a che... iori rossi dentro copertoni neri impilati davanti al filo spinato. Forse è stata la mano gentile di una donna-soldato ad abbellire questo check-point. O forse non c’è molto da fare in un posto di blocco piazzato in mezzo al nulla. Gli steli color carminio svettano accanto alle garitte impolverate con i sacchi di sabbia e le mitragliatrici. Suda il militare che chiede i documenti ai pochi automobilisti in transito. Avrà vent’anni, non di più. Sulla sua divisa color kaki la placca numero 67354. Impugna il kalashnikov, ha comunque i modi gentili. L’ennesima postazione fortificata sorge ai lati della boscaglia bassa, un quasi deserto senza l’ombra dei tartari. In questa no man’s land dovrebbero spuntare i nemici. Militari e poliziotti formano una sorta di cordone ininterrotto sulla statale A11 per Batticaloa. Sono di picchetto a gruppi di due o tre ogni poche centinaia di metri. Più numerosi loro dei pali della luce. Negli ultimi trenta chilometri prima di Batticaloa superiamo una decina di accampamenti militari e quattordici checkpoint. A Valaichchennai bisogna chiedere un’autorizzazione per proseguire. Se si viaggia a bordo di un camion, il materiale trasportato viene interamente scaricato e controllato. Eppure non stiamo entrando nelle zone di guerra. Anzi, queste sono le province “liberate” F 42 dello Sri Lanka. Dove il governo ha già issato la sua bandiera anche se teme un nemico invisibile. Da oltre un anno qui nell’Est del Paese sono tornate le truppe governative. La guerra, quella vera che nessuno vede, si combatte a Nord, lassù nell’ultimo spicchio dell’isola rimasto nelle mani dei separatisti tamil. Da queste parti – almeno sulla carta – dovrebbe esserci qualcosa che assomigli alla pace. «E invece no. Qui chi parla scompare. Poi lo ritrovano cadavere lungo una strada», afferma senza mezzi termini padre D. Saminatham, professore di religioni comparate alla Eastern Sri Lanka University, poco distante dalla città. Nel mese di novembre a Batticaloa sono state uccise una cinquantina di persone. Spesso prelevate al proprio domicilio e assassinate. L’ultimo in ordine di tempo – alla vigilia del nostro arrivo – è stato A. Vigneswaran, 28 anni, un operatore umanitario del Norwegian Refugee Council. Lavorava con gli sfollati. L’hanno aspettato di sera davanti a casa sua, l’hanno portato in un ex campo-profughi e gli hanno sparato. «Pensavamo davvero che questo fosse l’ultimo omicidio, ma non è così», ci dice T. Subbash, un suo collega nell’ufficio di Batticaloa. «Oggi ci è giunta notizia dell’uccisione di un altro civile». maremoto, ma oggi nelle onde calme del suo bacino interno permane la stessa inquietudine. Dalla strada si vedono i pescatori che gettano reti. Restano impigliati anche i gustosi Batticaloa, tra profughi gamberetti, che hanno una polpa tenera e e macerie di Tsunami quasi dolciastra. Dai loro posti di guardia sul Questa città è rimasta a lungo sotto il ciglio della carreggiata, i militari di guardia controllo di una fazione dissidente delle “Tigri osservano i pescatori. Padre Saminatham tamil per la liberazione dell’Eelam” (conosciuto racconta che i militari hanno preso le con l’acronimo Ltte), lo storico gruppo ribelle impronte digitali agli sfollati. «Non solo, ma attivo nel Nord dal 1983. Karuna, il capo dei anche fotografati e schedati». Divieti, combattenti locali, ha stretto alleanza col barricate, permessi, documenti da mostrare governo. In quello che dovrebbe essere ormai ogni volta che ci si sposta. «È questa la libertà che meritano i civili dopo tanti anni di un “dopoguerra”, ci sono ancora quattro fazioni armate – tra esercito e ribelli – pronte a guerra?» si chiede il religioso. Ma perché il governo ha così paura della minoranza tamil – riprendere le armi. «Nessuno di loro è che in questa zona costituisce il 60% della sincero», secondo Swami Ajarat Manandaji, un leader religioso del Rama Khrisna Mission. popolazione – se la capitale Colombo dista oltre 320 chilometri? «Qui si vive nel terrore quotidiano», aggiunge. Archiviata l’angoscia e la Nella terra di nessuno disperazione per lo tsunami del 2004, restano una guerra senza testimoni le paure e i profughi. Alla periferia di I guerriglieri del Ltte non sono solo nel Batticaloa si vedono le baracche costruite per Nord e nell’Est. Hanno cellule ovunque, in ospitarli. Oramai sono solo sfollati di guerra. «Sono oltre 150.000 e non possono nemmeno grado di colpire in tutto il Paese. Soprattutto nella capitale. La tecnica più usata è quella attraversare la laguna, sono confinati in una sorta di prigione a cielo aperto», spiega ancora dell’attentato suicida. Prima che in Medio padre Saminatham. Cinque anni fa Batticaloa Oriente, i kamikaze hanno imparato a farsi saltare in aria su quest’isola, oltre vent’anni fa. fu squassata dalle onde violente del _Una donna tamil al lavoro in cucina. La guerra contro la minoranza tamil è un ostacolo ulteriore sulla via dello sviluppo dello Sri Lanka 43 Nel 1991 ne fece le spese anche il leader indiano Rajiv Gandhi, assassinato da un commando suicida per un accordo col governo di Colombo. Tuttora i controlli sono meticolosi ovunque, anche se i combattimenti veri e propri sono ormai limitati all’estremo lembo nord-orientale dello Sri Lanka. L’esercito sta avanzando come non era mai accaduto prima. All’inizio del mese ha catturato Killinochi, storica roccaforte delle Tigri tamil. Pochi giorni dopo i militari governativi hanno ripreso il “passo dell’Elefante”, nodo strategico verso la penisola di Jaffna, che i separatisti tenevano da due lustri. Dopo oltre 65.000 morti in venticinque anni, il conflitto più lungo d’Asia oggi è una guerra senza testimoni. «Non ci sono giornalisti indipendenti nelle zone dove si combatte», ci dice nel suo ufficio Sanath 44 Balasuriya, co-direttore del Free Media Movement di Colombo. «Negli ultimi due anni sono stati uccisi 14 reporter locali». In passato, sottolinea il coordinatore del sindacato dei giornalisti, ce n’erano oltre duecento a seguire il conflitto. «Oggi nessuno»: nessun cronista locale né internazionale. Ma nemmeno organizzazioni umanitarie. Anche l’Onu resta a guardare e a compilare statistiche dall’esterno delle zone di guerra. Gli unici accessi umanitari sono garantiti alla Caritas e alla chiesa locale. Bocche cucite però tra gli operatori, nel timore di compromettere un intervento essenziale per migliaia di civili. Secondo stime concordi, almeno 300.000 persone stanno sfuggendo da mesi alla macchina bellica governativa, con martellanti attacchi aerei. «Io ho visto un campo sfollati combatte. I civili scappano seguendo l’avanzata dell’esercito», spiega l’interlocutore. Che scongiura: «La prego. Non scriva alcun riferimento su di me, altrimenti rischio troppo». Il problema più grave, spiega, è la con donne e bambini ammassati dietro un filo mancanza di «corridoi di sicurezza per la spinato sotto il controllo dell’esercito», gente». «I civili tamil non possono e non vogliono fuggire. Dove potrebbero andare?» La racconta Valentina Ferraboschi, una giovane fonte conferma il reclutamento forzato di italiana che lavora per Secours Catholique, la ragazzi da parte delle Tigri. Prima i ribelli Caritas francese. Si è recata più volte nel distretto di Vanni e di Mannar, dove le Tigri e i chiedevano un giovane per ogni famiglia, ora almeno due. «Mancano beni di prima necessità soldati hanno combattuto in questi mesi. Difficile trovare qualche fonte locale disposta a e medicine. L’ospedale di Killinochi è stato parlare. Una delle pochissime – non legata alla trasferito altrove prima della caduta della città», aggiunge. I ribelli hanno difficoltà di Caritas né alla Chiesa – ci ha riferito di rifornimento. Armi arrivate dall’India moltissimi casi in cui i civili sono fuggiti sarebbero state distrutte in attacchi ripetutamente. «È diventato difficile avere dell’aviazione governativa. Nel 2002 venne un’abitazione fissa nelle zone dove ancora si _Secondo gli osservatori occidentali, il problema maggiore nello Sri Lanka è la mancanza di corridoi umanitari che, all’occorrenza, consentano alla popolazione di mettersi in salvo 45 firmata una tregua che riaccese le speranze di pace. Ma l’ostinazione del leader ribelle Vellupillai Prabhakaran e il cambio di governo a Colombo hanno riacceso come non mai il conflitto, arrivato forse a una svolta decisiva. La macchina della propaganda In assenza di testimonianze dirette resta la propaganda. Quella governativa passa in televisione, sulla stampa e attraverso grandi manifesti. I ribelli fanno sentire la loro voce su un sito internet curato dalla numerosa e organizzata diaspora all’estero. Ovunque il presidente nazionalista Mahinda Rajapaksa occhieggia da grandi poster formato 6x3 metri. In una delle gigantografie indossa una tuta mimetica accanto ai “suoi” soldati. “Onore ai salvatori della patria”, recita la 46 _Governo di Colombo e guerriglieri tamil fanno a gara nel fornire versioni di comodo di quello che succede nel Paese. Il risultato è che manca una vera e attendibile informazione didascalia dell’enorme foto. Stesse parole usate nel discorso televisivo dopo la conquista di Killinochi per ringraziare i soldati «eroi di tutto il Paese». Un Paese diviso tra la maggioranza cingalese di religione buddhista e la minoranza tamil induista, cui si aggiunge una percentuale minima di musulmani. È un tipo presenzialista il capo di Stato. Sulla home page del suo sito, compare in settantadue foto diverse. È ritratto accanto a leader e presidenti, dal Papa ad Ahmadinejad. Lo smagliante sorriso sotto i baffi di Rajapaksa sbuca agli incroci della capitale ma anche sulle strade di campagna. Il segretario alla Difesa Gotabaya Rajapaksa («Nessuna soluzione politica fino al successo militare», ha detto di recente al «New York Times») è un fratello del presidente e ha cittadinanza americana. Un conflitto gestito in famiglia, anche perché il ministro della Difesa è lo stesso presidente. Intanto resta imprendibile l’evanescente capo del Ltte Prabhakaran. È ricercato dall’Interpol per omicidio, crimine organizzato e terrorismo. Guida un manipolo di ormai poche migliaia di separatisti che vorrebbero uno Stato indipendente in questa parte dell’isola. Stanno perdendo la guerra. Ma continuano comunque a proclamare la loro porzione di verità sul web, celebrando “pesanti perdite” inflitte all’esercito nemico. Impossibile verificare. 47 L’altro Sri Lanka, quello “benedetto” C’è altro però in questo Paese. Basta percorrere – per esempio – lo stradone che da Dambulla scende verso la capitale ondeggiando tra le colline. Salta all’occhio il tripudio di vegetazione. È la sovrabbondante ricchezza dello Sri Lanka. Un nome che vuol dire “Terra Benedetta”. In questa zona ci sono i templi rupestri con le effigi del Buddha. Lo stesso Buddha che un centinaio di chilometri più a sud avrebbe lasciato un’impronta – Sri Pada (la sacra orma) – impressa in una montagna, Adam’s Peak, 2243 metri. Per qualcuno è invece il segno di Adamo, che mise piede sulla terra proprio qui dopo la cacciata dal paradiso. Per altri ancora è invece l’impronta di san Tommaso o del dio Shiva. Qualunque sia la divinità che l’ha 48 _Qui sopra il raccolto delle foglie di te; a destra una panoramica dello Sri Lanka. Nella foto sotto l’avvocato e sindacalista Bala Tempoe disegnata, quest’isola sembra colata direttamente dalla tavolozza verde del suo creatore. Una terra benedetta che qualcuno vuole maledetta a tutti i costi. «Fino a venticinque anni fa eravamo poveri ma felici. Ora stiamo andando verso una specie di suicidio collettivo», scandisce lento il gesuita Paul Kaspersz, ottantaquattro anni. «L’unica soluzione è l’integrazione: far accettare i tamil come cittadini di Ceylon a pieno titolo». Usa ancora il vecchio nome coloniale questo anziano religioso, discendente degli olandesi che conquistarono l’isola nel XVII secolo. Vive a Candy, la “capitale” della Hill Country, famosa per le sue pagode e le pietre preziose. Ma conosciuta anche come la patria del tè cingalese. Le piantagioni di tè… per colpa del caffè Padre Kaspersz racconta che i tamil arrivarono in queste piantagioni per “colpa” del caffè. «Gli inglesi portavano i tamil dall’India per lavori stagionali nelle piantagioni di caffè». Ma nel 1867-68 un virus distrusse i raccolti, costringendo i colonizzatori britannici a cambiare coltura. «Col tè questi tamil divennero stanziali, perché i nuovi arbusti richiedevano manodopera tutto l’anno». Da quasi quattro decenni il gesuita organizza assistenza ai lavoratori del settore del tè. All’interno delle piantagioni vivono gli 49 “altri tamil”. Non hanno impugnato le armi come i loro “confratelli” del Nord e dell’Est dello Sri Lanka, che sono invece aborigeni di quelle terre. Al posto del kalashnikov, i tamil delle piantagioni staccano con pazienza le foglie tenere del tè e le accumulano in un cesto. Ci vuole una mattinata di lavoro per raccoglierne qualche chilo, destinato all’essiccatura per diventare l’infuso preferito dagli inglesi. «Prima era un lavoro che si tramandava da padre in figlio per generazioni. Ora molti hanno studiato e cercano una vita al di fuori delle piantagioni», osserva Bala Tampoe, avvocato e fondatore del Ceylon Mercantile Union, uno dei principali sindacati dello Sri Lanka. ottantasette anni, Tampoe – capelli bianchissimi che imperlano un viso con la pelle color rame – ha grandi mani rugose, fa gesti ampi. «Dopo l’indipendenza dalla corona britannica nel 1948» – spiega – «fu varata una legge che separava i lavoratori delle piantagioni di origine indiana e pachistana dagli altri. Più di mezzo milione di loro divennero stateless, senza cittadinanza né diritti.» Il paradosso – prosegue l’anziano avvocato – fu che i lavoratori del principale comparto produttivo «garantivano la ricchezza del Paese attraverso le piantagioni di tè e gomma ma non potevano votare». Nella grande piantagione di Opata, vicino a Ratnapura (la “città delle gemme”), ci sono 610 lavoratori su una superficie di 430 ettari. La collina sembra pettinata. Le chiome verdi ondeggiano su ripidi pendii. Dall’alto, prendono forma geometrie variabili di ellissi intrecciate. La guerra sembra così lontana. Invece basta rientrare nella capitale per sentirla così vicina, quasi ossessiva. Controlli e posti di blocco ovunque. Il deputato tamil Mano Ganesh – noto attivista per i diritti umani e leader d’un partito d’opposizione – vive sotto scorta alla periferia di Colombo. «Siamo in guerra, non possiamo dimenticarcelo. Lo dimostrano le sistematiche violazioni dei diritti umani», denuncia. «Non solo nel Nordest ma anche a Colombo, il mio distretto elettorale. Si sono verificati oltre 300 incidenti negli ultimi 36 mesi, 300 tamil scomparsi o uccisi solo qui nella capitale». Un giudizio severo il suo: «In Sri Lanka non viviamo ora in una società civilizzata. Quando le persone sono vittime di sequestri, sparizioni, omicidi extragiudiziali, significa che è stato smantellato lo stato di diritto. Come bisognerebbe chiamarlo?» _Una bottega nel quartiere di Pettah a Colombo 50