SOS salute - CESV Messina
Transcript
SOS salute - CESV Messina
Anno III n. 1 gennaio - febbraio 2006 Autorizzazione tribunale di Messina 06/2004 Spedizione in A.P. art. 2 comma 20/c legge 662/96 On line: www.cesvmessina.it Periodico bimestrale a cura del Centro Servizi per il Volontariato di Messina SOS salute 4 Gennaio - Febbraio 2006 “La morte di mio figlio e il silenzio delle istituzioni”. Parla Rosaria Campo, madre di Davide 8-9 Tra gli internati di Barcellona: uno sguardo dentro l’Ospedale psichiatrico giudiziario 12 La voce delle associazioni: “La nostra lotta contro il degrado della sanità” 13 L’indagine Cesv sui Piani di zona. Come valorizzare il volontariato 2 Editoriale Speciale 3 Il volontariato è chiamato a cambiare la società Quelli che… vivono in ospedale Associazioni e volontari devono riscoprire la loro dimensione politica, se vogliono combattere le ingiustizie e la sospensione dei diritti. Servono reti sociali per lavorare insieme, senza rassegnarsi all’emarginazione dei più deboli. La storia di tre persone costrette a rimanere ricoverate per mesi. Unica alternativa la strada, nell’assenza di collaborazione fra Asl e Istituzione per i Servizi Sociali di Messina. N egli incontri e nelle Assemblee territoriali con le organizzazioni di volontariato della provincia emerge, in modo sempre più evidente, la necessità che le stesse giungano a rapporti di collaborazione, a forme di coordinamento, se non alla creazione di reti sociali, nelle quali, senza che ciascuna smarrisca la propria autonomia e specificità, si impari a lavorare insieme per migliorare la qualità del nostro impegno. Ci sembra, questa, la strada che può permettere di ritrovare e riconoscere il “ruolo politico” del volontariato, che non è assimilabile a quello esercitato da altri “gruppi di pressione” o da quelli espressivi di interessi diffusi. Il volontariato organizzato, infatti, esercita la sua funzione politica se concorre con le idee, la prassi, i metodi e nello stile di vita a cambiare la nostra società, orientando la propria azione verso la rimozione delle cause che determinano il disagio, le disparità sociali, di genere, di reddito (art. 3, secondo comma Costituzione), avvertendo la solidarietà e la giustizia sociale non solo come un diritto ma anche come Comunità Solidali Bimestrale del Ce.S.V. Centro Servizi per il Volontariato di Messina Reg. Trib. di Messina n. 6/2004 Direttore Editoriale Antonino Mantineo Direttore Responsabile Marco Olivieri Comitato di Redazione Antonino Anastasi, Rosario Ceraolo, Carmen Cordaro, Annamaria Passaseo, Donatella Raccuia, Salvatore Rizzo, Michele Schinella, Guido Signorino, Stefano Sinicropi, Pasquale Zumbo Redazione Via S. Elia, 30 98122 MESSINA Tel. e fax 090 774 863 www.cesvmessina.it [email protected] Progetto grafico Marco Bonaccorso Stampa Grafo Editor Srl edizioni CESV - MESSINA un dovere (art. 2 Costituzione). Questa dimensione politica del volontariato ci appare smarrita, dietro lo svolgimento di servizi e attività di routine; o, ancora, smarrita perché sopraffatta dalla preoccupazione di stabilire rapporti rassicuranti con la pubblica amministrazione, per ricavarne le risorse utili alla sopravvivenza delle nostre organizzazioni. Attraverso questi atteggiamenti ci rassegniamo all’idea che i poveri ci saranno sempre – è quasi naturale -; ci abituiamo all’idea che il malessere sociale colpisce i più deboli e fragili – che, purtroppo esisteranno sempre; e che isolare i disagiati talvolta è necessario – in fondo, i carcerati, i ladri, i drogati se la sono cercata… Questo paradosso è inconsapevolmente accettato anche dai volontari. E, se non riusciamo a capovolgere questa mentalità e a impegnarci ad una prossimità accogliente, fiduciosa, il cambiamento sarà sempre più lontano. Trasformando invece le nostre organizzazioni da «stampella delle istituzioni» a luogo che anticipa e sperimenta una società più umana, fondata sulla relazione e la tenerezza, possiamo cambiare l’esistente. Il nostro ruolo è svolto coerentemente, solo se siamo in grado di assumere le nostre responsabilità anche nelle scelte politiche che siamo chiamati a compiere, non tanto e non solo negli appuntamenti elettorali. Abbiamo, soprattutto, da rivendicare la capacità di indignarci di fronte all’ingiustizia, alla sospensione dei diritti, alla morte, mai giustificata dall’improvvisazione, e all’inadeguatezza delle strutture sanitarie, o alla reclusione e l’oblio che accompagnano chi è qualificato “malato di mente”. Di questo e altro dovremo imparare a indignarci e a sentirci responsabili. Antonino Mantineo Presidente del Cesv Messina Sanità: l’eterna emergenza Morire di cattiva sanità: ci si sta abituando. Sempre di più. Morire in Sicilia, poi, è ancora più frequente, come denunciano quotidianamente i giornali. Tra i condizionamenti pesanti della cattiva politica (con il trionfo del clientelismo) e gli eterni disservizi delle strutture sanitarie, si vive in perenne emergenza. Liste di attesa estenuanti, frequenti danni subiti durante il ricovero, precaria organizzazione dei servizi, edifici inadeguati, apparecchiature obsolete. E poi, come aggravante, emergono l’incapacità di ascolto e la scarsa attenzione al paziente da parte di parecchi medici e infermieri. L’intelligenza emotiva, quella che ti fa vedere nel malato una persona che soffre e che ha bisogno di una relazione autentica, rimane un’utopia. Si tratta di un problema culturale spesso ignorato a livello nazionale. Al contrario, andrebbe inserito tra le priorità, nell’elenco infinito dei disagi e delle carenze. Per citare solo il territorio messinese, si vada all’ospedale Papardo, al Piemonte o al Policlinico, in tanti portano sulle spalle il triste bagaglio di esperienze mortificanti e dolorose. Dai pazienti sollevati a fatica dai parenti, nelle corsie, agli ascensori eternamente guasti, giorno dopo giorno, il diritto alla salute mostra le sue crepe profonde. M.O. S ono quelli che la casa la trovano in ospedale. Dopo anni trascorsi sulla strada. Sono quelli che, quando finiscono in ospedale, vi rimangono per mesi. Anche quando non ne hanno più bisogno. Sono quelli che innescano il gioco dello scaricabarile tra Asl e Istituzione per i Servizi Sociali. V. B. è uno di questi. Un giorno di venti mesi fa accusa un malore e viene ricoverato al Policlinico universitario di Messina. Oggi è ancora là. E se gli dici che i medici lo considerano guarito, reagisce come le persone cui viene intimato lo sfratto.“Chi lo dice? Io sto ancora male. E poi, dove devo andare?”. Per il primario dell’Unità operativa che lo accoglie, V. può essere dimesso. “Da almeno 14 mesi non ha più ragione di essere trattenuto in corsia. Non fa alcuna terapia. Al massimo, avrebbe bisogno di un po’ di riabilitazione motoria“, sottolinea. I sanitari più volte gli hanno comunicato che il giorno seguente sarebbe stato dimesso. Invano, a quanto pare. ”Non possiamo certo prenderlo con la forza e buttarlo in mezzo alla strada”, si giustifica il primario. V. non ha alcun reddito, non ha una casa, e i familiari non ne vogliono sapere. Ma se è ancora in ospedale, è perché di lui neanche le istituzioni si sono occupate. Il Policlinico è sguarnito di assistenti sociali e sono state investite del caso sia l’Asl, per un eventuale ricovero in Rsa (Residenza sanitaria assistenziale), sia l’Istituzione per i Servizi Sociali. Nessun risultato. “Il caso in questione è sia sanitario, sia sociale. Sarebbe opportuno che Asl e Servizi Sociali collaborassero”, affermano alcuni dirigenti dello staff della direzione sanitaria. Invece sembra che Asl e Servizi Sociali non riescano a collaborare, a sei anni dall’emanazione della legge 328. Per l’Uvm (Unità di valutazione multidimensionale) dell’Asl, V. ha 7 anni in meno dei 65 necessari per entrare in Rsa. Per l’Istituzione per i Servizi Sociali, invece, V. è solo un caso sanitario. Così V. è ancora in ospedale. Alla sanità, intanto, un giorno di degenza costa 380 euro; 11.400 euro al mese. Ma il caso non è certo isolato. Sempre al Policlinico, F.G. è ricoverato dall’ottobre scorso. Ha subito un delicato intervento alla gola. Da oltre tre mesi e mezzo, però, F. è solo parcheggiato in ospedale. Attende che si trovi una sistemazione che gli garantisca un tetto e il vitto. F. è in una situazione analoga a quella di V. Senza casa, né reddito, e con i familiari che non ne vogliono sapere. “Non so più dove sbattere la testa. Per l’Asl, non ci sono i presupposti per sistemarlo in Rsa. Non ha bisogno di riabilitazione e non ha 65 anni”, dice un assistente sociale. E l’Istituzione per i Servizi Sociali? “Lasciamo perdere. Dopo mesi di estenuanti telefonate, sono stata costretta a chiedere udienza all’asses- sore alle Politiche sociali. Per fortuna, i sanitari del reparto che lo accoglie si stanno dimostrando molto sensibili”, sottolinea l’operatrice del Sert. Se F. e V. sono ancora in attesa, a J. F., invece, è andata un po’ meglio. Dopo un mese e mezzo in ospedale, è stato trasferito un caso sanitario e sociale, il Comune potrebbe mettere a disposizione un alloggio e l’Asl farsi carico dell’assistenza domiciliare”, spiega un medico dell’ospedale di Patti, non sapendo che, nella città dello Stretto, Asl e Servizi Sociali si ignorano. Intanto J. si è stancato di stare lontano dai pochi le- alla lungodegenza di Patti. Ma solo perché un’associazione di volontariato ha tenuto duro e si è opposta alla soluzione che l’assistente sociale del nosocomio, previo coinvolgimento dei Servizi Sociali e dell’Asl, aveva prospettato. J. avrebbe trovato rifugio in una Casa di accoglienza. Ma solo per la notte. Il giorno avrebbe dovuto trascorrerlo, in pieno inverno, nella sua vecchia “casa”: la strada. J. è un paziente affetto da gravi patologie epatiche e ha bisogno dell’insulina quattro volte al giorno. “Dato che si tratta di gami affettivi, che si era costruito a Messina, e soprattutto desidera riprendere il suo lavoro di orologiaio. Per Salvatore Gulletta, responsabile di una Casa di accoglienza notturna, questo tipo di problemi non viene affrontato adeguatamente: “Spesso veniamo contattati dagli assistenti sociali, che ci chiedono di accogliere delle persone dimesse dagli ospedali. Sono uomini e donne che non hanno niente e nessuno. Dormono qualche giorno da noi e poi, all’improvviso, scompaiono”. Michele Schinella 4 La storia La storia “La morte di mio figlio e il silenzio delle istituzioni” Rosaria Campo, madre di Davide, il dodicenne deceduto in seguito a un intervento al Policlinico di Messina, racconta la solitudine e il dolore della sua famiglia. “E’ davvero difficile credere che giustizia sarà fatta”. “Basta un attimo, un niente, e la vita perde ogni senso. Dal momento in cui un dottore, uscendo dalla sala operatoria, mi ha poggiato la mano sulla spalla, la mia vita si è arrestata. Con mio figlio, sono morta anch’io“. E’ il 19 settembre del 2005. Un banale intervento di appendicectomia si trasforma in tragedia. Davide Campo, di soli 12 anni, entra in una sala operatoria del Policlinico Universitario di Messina e ne esce morto. “Le mie giornate si consumano tra il cimitero, la poltrona o il letto”, confida la madre di Davide, stretta in uno scialle nero. “Da cinque mesi non riesco a fare altro“. Accasciata su una poltrona di casa sua, nella periferia messinese, la signora Rosaria accetta di raccontare come è cambiata la sua vita e quella del padre e dei fratelli di Davide. E come la già difficile vita familiare sia diventata un inferno. Una figlia fin da piccola gravemente malata. Un marito che ha perso il lavoro e che non ha trovato la forza di ricominciare. E Davide, l’ultimo di quattro figli, “quello a cui ero più legata“, che non c’è più. Che se ne è andato così. All’improvviso. Inaspettatamente. “Davide era un bambino sano e pieno di vita - sottolinea la madre con le lacrime agli occhi - e mi è stato portato via da gravi e ingiustificabili errori da parte di chi avrebbe dovuto curarlo“. Quando ripensa a quello che è accaduto in sala operatoria, quel maledetto 19 settembre, il dolore della signora Rosaria si trasforma in rabbia. Le perizie disposte dalla magistratura avrebbero dato risultati chiari. Valutando che Davide sia morto per gravi imperizie dell’anestesista, lo scorso 14 dicembre, il pubblico ministero ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Omicidio col- poso il capo d’imputazione. “I medici sono uomini e possono sbagliare, l’errore è sempre dietro l’angolo, ma l’anestesia è stata eseguita in maniera maldestra. Dopo il collasso di Davide, il medico è entrato nel pallone e non ha fatto la cosa più elementare. Quella che gli avrebbe salvato la vita. Poi, come se nulla fosse, dopo un solo mese di sospensione, l’anestesista ha ripreso il suo lavoro. Questo non lo posso accettare“, protesta indignata la signora. Da qui il desiderio di ottenere giustizia. Di sentire che la morte di Davide non è stata vana. Che si sia compresa l’enormità di quello che è accaduto. Solo questo può aiutare la famiglia Campo a riprendere confidenza con la vita. I segnali però non sono incoraggianti. I casi di mala sanità che si ripetono e che, ogni volta, “è come se mi smuovessero le viscere“. La sensazione che non vi sia “ la volontà e la capacità di far sì che quello che è accaduto a noi non accada ad altri”. La convinzione che ”chi sarà riconosciuto colpevole della morte di Davide non subirà alcuna conseguenza”. Subito dopo la tragedia, l’azienda Policlinico, “per avere certezze assolute“, come dichiarò il direttore sanitario, ha disposto un’inchiesta interna. Di quelle che vengono sempre annunciate e che poi, spesso, evaporano nel nulla. Il legale della famiglia Campo ne ha chiesto più volte l’esito, ricevendo soltanto silenzio. La stessa silenziosa lontananza che “le persone che rappresentano le istituzioni politico- sanitarie della città ci hanno fatto sempre sentire. Nessuno ci ha mai contattato, anche solo per esprimere il cordoglio, o chiederci come stavamo“, dice con amarezza la signora. Quando i familiari hanno orga- nizzato, il 19 gennaio, una manifestazione in ricordo di Davide, percependo che (dopo l’iniziale clamore) sulla vicenda “stava calando il silenzio“, il modo con cui l’iniziativa è stata accolta “ci ha fatto quasi sentire dei disturbatori. Come se la nostra esigenza di ottenere giustizia costituisse un problema”. La vera solidarietà, la famiglia Campo l’ha ricevuta dalla comunità di Santa Lucia sopra Contesse. In particolare, dai vicini di casa, che, a dispetto della nomea, “si sono prodigati in ogni modo per farci sentire meno soli“ e dagli operatori del Centro di aggregazione giovanile (Cag) che Davide frequentava con entusiasmo. Operatori che “ci hanno fornito anche aiuto economico“. Mentre parla, la signora ha appena saputo che il Centro, un vero e proprio baluardo di speranza nel deserto di delinquenza e droga di S. Lucia, chiuderà. “E’ come se Davide morisse una seconda volta“, commenta. Davide divorava il tempo tra la scuola e il Cag, e aveva una grande passione per il calcio. “Era uno spettacolo vederlo palleggiare dalla finestra di casa”. Forse si può immaginare che padroneggiasse il cuoio con la stessa ”dolcezza e gentilezza“ che ricorda una sua amica, in una commovente lettera adagiata sulla sua lapide. “Più volte mi aveva chiesto di iscriverlo alla scuola calcio, ma costava troppo e noi non ce lo potevamo permettere”, ricorda la signora Rosaria, quasi a giustificarsi. Ma, proprio nel mese di settembre, si aprì una possibilità e la madre decise di coglierla. Davide però voleva esserne sicuro e, “prima di entrare in sala operatoria, se l’era fatto promettere”. Michele Schinella 5 Caratozzolo e Materia: “Ci rimettiamo alla verità della magistratura” Le dichiarazioni di Rosaria Campo chiamano in causa l’azienda Policlinico e le persone che la rappresentano: il direttore generale, Carmelo Caratozzolo, e il direttore sanitario, Giovanni Materia. Caratozzolo: “Credo che il nostro silenzio non sia stato dovuto all’indifferenza, ma allo sbigottimento”. “Ho incontrato molte resistenze da parte di chi non ha compreso che, se si vuole migliorare la qualità della sanità, è necessario accendere i riflettori sui problemi”. Dopo la morte di Davide, è stata disposta un’inchiesta interna. Quali i risultati? Materia: “La nostra inchiesta ha esaminato tutto quanto è stato fatto tra il momento in cui Davide è stato ricoverato e un attimo prima che si verificasse la tragedia. Sotto questo profilo, non è stata rilevata alcuna irregolarità, né anomalia. Le apparecchiature erano perfettamente funzionanti. Le cause della morte di Davide e le eventuali responsabilità sono oggetto di un’inchiesta della magistratura. Un evento di questo tipo può avere un’unica verità. Noi ci rimettiamo alla verità della magistratura. D’altro canto, non potrebbe essere altrimenti, visto che da subito la salma di Davide è stata posta sotto sequestro e noi non abbiamo potuto effettuare alcun accertamento autoptico”. Che cosa intende fare l’azienda Policlinico? Caratozzolo: “Il Policlinico, se e quando verrà disposto il rinvio a giudizio dell’anestesista, sulla base delle risultanze processuali, valuterà l’opportunità della costituzione come parte civile e dopo, se ne verrà accertata la responsabilità, adotterà ogni provvedimento amministrativo consentito dalla legge”. Materia: “Abbiamo subito disposto la sospensione in via cautelativa, per un mese, dell’anestesista. Ora svolge il suo lavoro di prima, è vero, ma con compiti che escludono una sua attività autonoma e diretta in sala operatoria. Io penso che, anche per lei, quanto accaduto sia stata una tragedia e che non sarebbe civile sottoporla a un processo sommario”. L’anestesista proveniva da un’altra struttura e forse era al suo primo intervento al Policlinico. Non è stato imprudente lasciarla, da subito, agire da sola? Materia: “L’anestesista si era specializzata nella nostra struttura e quindi godeva della piena fiducia dei responsabili di divisione”. Caratozzolo: “Penso di sì. Da questa vicenda debbono trarsi tutti i possibili insegnamenti per il futuro”. Di fronte al dramma della famiglia, i rappresentanti delle istituzioni non dovrebbero mostrare maggiore vicinanza? Materia: “Il momento era difficile anche per noi. Io, fin da subito, ho mostrato grande rispetto per il dolore della famiglia. Ho fatto lo stesso in occasione del corteo del 19 gennaio, pur essendo preoccupato che la manifestazione potesse creare dei problemi di viabilità alle ambulanze”. Caratozzolo: “Credo che il nostro silenzio non sia stato dovuto all’indifferenza, ma allo sbigottimento. Di fronte a quanto accaduto, da un lato, abbiamo attivato meccanismi interni che riducano al minimo il rischio operatorio e, dall’altro, abbiamo evitato qualsiasi arroccamento o difesa a oltranza. Questa mia apertura alla discussione mi è costata molto, visti gli attacchi personali che ne sono scaturiti. Ho incontrato molte resistenze da parte di chi non ha compreso che, se si vuole migliorare la qualità della sanità, è necessario accendere i riflettori sui problemi e non nascondersi dietro un dito”. A che cosa si riferisce? Caratozzolo:“Osservo una certa disattenzione della città su queste problematiche. Non solo da parte della gente comune, ma soprattutto da parte di chi impersona le istituzioni democratiche. Non sono siciliano, vengo dall’Umbria, e il mio mandato scade tra 10 mesi. Di certo, penso che il nuovo sindaco di Messina, da progressista, non potrà non porre in primo piano il diritto alla salute, come punto fondamentale della sua azione di governo”. M.S. 6 Proposte Le interviste “Nei reparti i migranti sono lasciati soli” Fuori dalla logica dei manicomi e degli ospedali giudiziari La psichiatra Anna Schepis e l’impegno con il Circolo Arci “Thomas Sankara” di Messina. “Ci sono ancora troppe resistenze all’ingresso dei mediatori culturali negli ospedali”. Per Biagio Gennaro, direttore del Dipartimento di Salute mentale, indietro non si torna. “Oggi l’ingresso negli ospedali della figura dei mediatori culturali è indispensabile. Come può un migrante, soprattutto se appena arrivato in Italia, orientarsi in un mondo completamente differente rispetto al suo? All’interno delle strutture sanitarie, questa distanza dovrebbe essere colmata proprio dai mediatori. Persone che hanno avviato un percorso in campo pedagogico e culturale, dopo avere abbandonato anni fa i loro Paesi”, afferma con convinzione la psichiatra Anna Schepis, che collabora costantemente con il Circolo Arci “Thomas Sankara” di Messina. “Eppure, ci sono ancora forti resistenze, da parte soprattutto di medici e dirigenti, a introdurre nei reparti questi operatori. Sono considerati un inciampo e non una risorsa. Tuttavia, se non si creano ponti culturali e forme di comunicazione, il rischio è che prevalgano equivoci e disagi. Si pensi al campo della psichiatria. Se una persona arriva al pronto soccorso e non si conosce la cultura del suo Paese, ad esempio, esiste il pericolo che alcune caratteristiche del suo mondo vengano considerate delle patologie. Inoltre, da una cultura a un’altra, cambiano i significati e i simboli, con conseguenze inevitabili anche in campo medico”, spiega con passione la dottoressa. “Si tratta di incomprensioni che provocano poi, nel settore psichiatrico, esplosioni maggiori di distruttività. Ma pensiamo anche quanto possa essere imbarazzante, per una donna, farsi visitare da un ginecologo”. Da qui l’avvio di un progetto di “Etnopsichiatria”, promosso dal Circolo Arci “T. Sankara” assieme al Dipartimento di Messina Sud, con una serie di incontri settimanali nel 2005 presso l’ospedale Piemonte. Incontri riservati a psichiatri e infermieri. “Devo dire che, al contrario di quanto si possa pensare, ho riscontrato un maggiore desiderio di comprendere le differenze da parte degli infermieri e, invece, una minore attenzione da parte dei medici. Non è un caso che questo progetto si sia arenato. Ci sono ancora – tiene a sottolineare la dottoressa Schepis, che in precedenza ha lavorato a Torino e a Genova – molte resistenze a introdurre i mediatori culturali negli ospedali e a favorire il dialogo tra realtà differenti. Eppure, proprio i medici otterrebbero notevoli vantaggi da una comprensione migliore dei loro pazienti”. Per la psichiatra, “oggi è tutto affidato al volontariato e alle associazioni. Quando mi segnalano dei casi, io cerco di dirottarli su un medico amico, che possa essere comprensivo. Ma queste esigenze dovrebbero essere affrontate dal servizio sanitario. Così i volontari diventano un alibi affinché il settore pubblico continui a non funzionare”. Marco Olivieri “Per le aziende sanitarie siamo solo numeri” “Il diritto alla salute non esiste. Se conosci qualcuno sarai curato. Altrimenti devi aspettare. Persino morire”, afferma con tristezza Zaira. Il suo Paese è la Tunisia. Zaira vive da molti anni in Italia ed è mediatrice culturale per il Circolo “Thomas Sankara” dell’Arci di Messina. “All’interno degli ospedali dovrebbe essere introdotta la figura del mediatore culturale, che faciliti la comunicazione tra l’immigrato e l’azienda ospedaliera. Alcuni migranti non conoscono la lingua e così non riescono a orientarsi. Ad esempio, se in Italia uno dice che sente male al cuore, significa che ha disturbi cardiologici, mentre in altre culture significa che si è stanchi, stressati, e non che si ha bisogno di cure”, afferma la mediatrice culturale dell’Arci. “Da volontaria, ho assistito per un mese e mezzo un ragazzo tunisino. Era malato terminale a causa di un tumore ai polmoni. Al Papardo di Messina lo hanno tenuto in isolamento, ma in realtà non aveva una malattia contagiosa”, sottolinea, mentre nei suoi occhi è possibile leggere il dolore. “Puzzava, aveva le unghie lunghe e la barba lunghissima. Nessuno si prendeva cura di lui. Io ho portato biancheria, bagnoschiuma, tutto il necessario per l’igiene. Ma se non c’ero io?”, si chiede con rabbia. “Un giorno ho avuto una sorpresa: i medici mi dicevano che non poteva più rimanere là. Eppure, il ragazzo stava per morire e aveva bisogno di un’assistenza speciale. Abbiamo trovato delle alternative all’ospedale, ma come avrebbe sostenuto il dolore senza morfina? La verità è che, quando qualcuno entra in un’azienda sanitaria, diventa un numero. Nei nostri ospedali non c’è differenza tra immigrato e cittadino italiano. C’è solo cattiva sanità. Ho visto una ragazza italiana – continua Zaira - che doveva partorire. Aveva una dilatazione a sei centimetri, ma senza dolori. La dottoressa gli diceva di fingere le doglie, altrimenti non l’avrebbero fatta partorire. Se il parto non è programmato, non viene fatto. Ho rivisto la ragazza dopo 15 giorni. Sembrava una vecchietta. Le avevano “dimenticato” una garza durante l’intervento, che era stato fatto d’urgenza”, racconta, ricordando il viso sciupato e sofferente della donna. “Ecco, il problema della cattiva sanità investe l’assenza di strutture, l’assenza di umanità da parte degli operatori sanitari e anche l’assenza di mediatori culturali. In particolare, per i migranti, la strada dei diritti è ancora molto lunga”. D. R. Ha grinta, passione e schiettezza. Biagio Gennaro, direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Ausl 5 di Messina, va subito al sodo: “Ormai gran parte degli operatori della salute mentale sono convinti che gli Ospedali psichiatrici giudiziari vadano abbattuti. Sono ambienti in cui la patologia mentale non può trovare una soluzione. A Messina si sono approntate delle politiche d’intesa tra il Dipartimento di salute mentale, l’Opg di Barcellona e alcune realtà del volontariato per favorire l’uscita di alcuni soggetti dall’Ospedale psichiatrico giudiziario”, spiega il direttore. “Prima c’erano i dimenticati dell’Opg, ossia gente che per molti anni restava in misura di sicurezza provvisoria, senza un processo né una sentenza. Anche per un reato di poco conto alcuni entravano in Opg e non ne uscivano più. E’ un obbrobrio che va superato”, sbotta indignato. “Così, come Dipartimento, abbiamo consentito ad alcuni soggetti che stavano all’interno della struttura di Barcellona, sulla scorta di un progetto riabilitativo, di uscire. Ma, per un superamento completo, è necessaria una modifica del Codice di procedura penale. Qualunque paziente psichiatrico – afferma Gennaro - è una persona che ha il diritto a essere curato, ed è attraverso la tutela di questo diritto che passa la salvaguardia della società. Ma dentro l’Opg non può essere curato, perché la logica è quella di emarginare, e non di riabilitare”. Il direttore del Dipartimento di Salute mentale ritorna indietro di qualche anno. Ripensa all’ospedale psichiatrico Mandalari e alla sua chiusura. “Abbiamo deciso di dare una spallata a quel sistema. C’era un coacervo di interessi che si opponeva alla chiusura e metteva insieme operatori, familiari, interessi politici ed economici”, ricorda. “Abbiamo aperto una serie di strutture alternative al Mandalari. Finalmente la persona veniva considerata nella propria interezza e cominciava a contare. I pazienti imparavano cose elementari, come mangiare o andare al bagno. Dopo un primo periodo, però, ci accorgemmo che i pazienti tendevano a regredire e si reintroducevano logiche neo-manicomiali. L’operatore iniziava a riprendere il sopravvento. Pensammo che era necessario aumentare gli spazi di vita, di dignità e di libertà. Si doveva rafforzare la relazione e la presa di coscienza delle proprie potenzialità”. Da qui la nascita, nella provincia di Messina, delle Star (Strutture abitative riabilitative). “Si è realizzato un mix tra pubblico e privato, dando vita alla migliore risposta per la riabilitazione. La responsabilità e la gestione del progetto sono affidate al servizio pubblico. E’ stata alleggerita la presenza sanitaria all’interno delle ville e, durante il giorno, i pazienti sono accompagnati dai ragazzi delle cooperative. Si ricrea per la prima volta il clima familiare. L’uso dei farmaci viene ridotto grazie a queste strutture aperte. Non esistono stanze chiuse e, in molte ville, le persone sono ben inserite nella città”, afferma con passione il direttore del Dipartimento. “Di certo, i vecchi metodi sono stati archiviati”. Donatella Raccuia 7 La legge Basaglia “L’unica vera legge di riforma del nostro Paese“. Così Norberto Bobbio definì la legge 180 del 1978. La cosiddetta legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che ispirò la decisione di chiudere i manicomi. Principio cardine è che il malato mentale è un paziente “normale”, da curare allo stesso modo di qualunque altro, in modo da favorirne il recupero e il reinserimento sociale, evitando l’uso della coercizione. Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), infatti, viene reso possibile “solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”. L’attuazione della legge, però, è avvenuta molto lentamente, alla fine degli anni Novanta. Nel 2001, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riconobbe all’Italia il merito di essere stato “l’unico Paese al mondo ad aver operato, con la 180, contro lo stigma e l’esclusione dei malati mentali”. La critica più forte mossa alla legge è, invece, quella di aver lasciato le famiglie sole. Nel documento conclusivo della Commissione di indagine sulla salute mentale, approvato dal Senato il 14 febbraio, si evidenzia che ”gli obiettivi della 180 sono rimasti inattuati a causa della debole azione di indirizzo e delle criticità riscontrate soprattutto nel settore dell’organizzazione dei servizi” e che “le attuali carenze derivano da problemi strutturali, funzionali, finanziari, organizzativi e informativi”. Lo scorso 17 gennaio si è insediata, presso il ministero della Sanità, la Commissione nazionale per la Salute mentale, con il compito di evidenziare i punti di criticità della 180, in una prospettiva di rivisitazione. M.S. La psicanalista Lisciotto: “Mancano le strutture per affrontare il disagio dei più giovani” Quindici anni nel settore pubblico, dalle tossicodipendenze alla psichiatria. È iniziata così la carriera della psicanalista messinese Donatella Lisciotto. Un’esperienza che definisce, senza esitazione, entusiasmante, nonostante le difficoltà dei primi anni, legate agli approcci con i tossicodipendenti. “Una categoria di pazienti molto complessa”. Il Cim, Centro di igiene mentale, il suo primo posto di lavoro alle dipendenze dell’Asl 42. Poi una straordinaria occasione di crescita, tanto umana, quanto professionale: il lavoro nella prima Casa famiglia sorta a Messina e, infine, il passaggio dal settore pubblico al privato. “Il cambiamento avvenne per mia decisione. Il lavoro nell’Asl puntava più sulla quantità che sulla qualità. Bisognava produrre per l’azienda. Un giorno decisi di lavorare per me stessa e per la mia crescita professionale. Cominciai a dedicarmi al mio studio di analista, vi dedicai più tempo”. Nacque in questo periodo l’idea dei Laboratori. Il professore Perrotti, autorevole psicanalista, sulla scia dell’esperienza romana, promosse l’idea della costituzione di una struttura del genere anche a Messina. “Così abbiamo creato, quattro anni fa, il Laboratorio psicoanalitico ”Vicolo Cicala”, per dare l’opportunità ai degenti, che non abbiano sufficienti disponibilità economiche, di poter usufruire di una terapia, con tutte le caratteristiche di una struttura privata: la riservatezza, l’accoglienza, la puntualità e un’atmosfera tranquilla”, spiega la dottoressa Lisciotto. Nel suo studio di psicanalista di scuola freudiana, non manca ovviamente il celebre lettino, culla e rifugio di tanti pazienti. Dottoressa, quali sono le emergenze nel nostro territorio in merito alla salute mentale? “Il malessere è grande. Esistono buone iniziative, come le Case famiglia e alcuni Centri, ma mancano il coordinamento tra le varie realtà e un’efficace comunicazione a livello di Azienda sanitaria locale. I problemi maggiori, a Messina e in provincia, riguardano l’assenza di strutture”. Quali sono le carenze più preoccupanti? “Se un ragazzo comincia a manifestare problemi in campo psichiatrico, manca una struttura adeguata che lo possa accogliere. Non si può mettere un giovane, che presenta un primo momento di scompenso psicotico, assieme a persone che hanno trent’anni di manicomio alle spalle. Con un ambiente adeguato e cure efficaci, la persona può essere recuperata, evitando addirittura il ricovero. Sarebbe bene quindi creare delle strutture che curino l’esordio psichiatrico, rivolte per lo più ai ragazzi dai 18 ai 30 anni. Non parliamo poi dei più piccoli. Se un bambino è malato di mente, qui a Messina, non esiste una struttura che se ne possa occupare”. Appare prioritario il lavoro di prevenzione… “Sì, soprattutto nelle scuole. Con il supporto degli psicologi, dovrebbe nascere una nuova cultura, più attenta alla sensibilità dei più giovani. Proprio perché le emergenze sono molte, sarebbe bene che un’équipe di specialisti affrontasse in maniera organica i problemi del nostro territorio. Qui, ancora, troppo spesso tutto è affidato alla buona volontà dei singoli”. Fiorella Pardo – Rita Re 8 L’inchiesta L’inchiesta Chi viene rinchiuso in Opg Tra gli internati di Barcellona La testimonianza: una mattina dentro l’Ospedale psichiatrico giudiziario, in provincia di Messina. Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. “V. Madia” si legge sopra l’imponente portone in ferro. Suoniamo. Ci aprono. Sono le 9. Ci troviamo davanti gli agenti della polizia penitenziaria. E’ una fredda domenica di febbraio. La domenica di Carnevale. Chi ci introduce nel mondo della malattia mentale, sfociata in reato, varca questo portone da vent’anni. Ogni giorno. Più volte al giorno. E’ don Pippo Insana. Cappellano dell’Opg e soprattutto battagliero difensore della dignità dei 185 internati che lo popolano. Oggi è il giorno della Santa Messa. “In Opg non troverete né criminali, né mostri. Solo delle persone malate che hanno commesso dei reati. In alcuni casi orrendi. In molti altri lievi. Lo hanno fatto, però, senza nemmeno rendersene conto. Persone malate che avevano bisogno di cura allora e ancora di più ora“. Le parole di Francesco ci risuonano nella mente non appena intravediamo alcune persone lungo il viale che porta ai reparti. Francesco lo avevamo incontrato alla Casa di accoglienza e solidarietà che padre Pippo ha fondato. Lì si trova da oltre un anno in libertà vigilata, dopo aver trascorso 8 dei suoi 33 anni in Opg. Pochi secondi e un nugolo di internati si stringe con affetto a noi. Sono quelli che stanno meglio. Che trovano la forza di alzarsi dal letto. “Molti, troppi, rimangono tutto il giorno a letto. In stato di abbandono. E si arrugginiscono“, dice padre Pippo. Alcuni lavoranti sono impegnati a rimuovere i segni della festa della sera precedente. “Ieri sera i volontari hanno organizzato una festa di Carnevale, con la partecipazione di parecchi internati“, spiega padre Pippo. Poi percorriamo in corteo il corridoio del reparto dove vengono ristretti quelli che stanno peggio. L’ambiente è squallido. Non incontriamo né medici né infermieri. Solo agenti. Giungiamo nella cappella. Padre Pippo inizia a celebrare messa. Tra gli internati c’è una solidarietà che non t’aspetti. Lo si percepisce dai reciproci gesti d’affetto. Se ne ha la conferma al momento dello scambio del segno di pace. Poi padre Pippo si sofferma su quello che è accaduto tre giorni prima. ”Antonio non ce l’ha fatta”, comunica. Gli occhi di alcuni si fanno umidi. Pensiamo a un internato deceduto in seguito a malattia. Sbagliamo. Antonio non ce l’ha fatta a sopportare il peso della sua malattia mentale, curata con la reclusione. E si è suicidato. “Era una persona di una certa intelligenza. Sembrava stesse bene, però mi diceva sempre che aveva paura, io non capivo il perché“, sussurra Claudio, seduto dietro di noi. D’improvviso Guido prende la parola. “Guardate che suicidarsi è un peccato mortale e non è giusto, perché i compagni poi stanno male“, ammonisce. La messa finisce. Alcuni internati si avvicinano a noi. ”Padre, che dice, mi faranno uscire di qui in libertà vigilata“?, domanda Fabrizio. Il cappellano di questo posto non può essere solo un cappellano. Deve imparare a farsi anche consulente giuridico e psicologo. Poi ripercorriamo lo stesso corridoio di prima. In senso inverso. Chiediamo ad alcuni internati come stiano. ”Male”, ci rispondono tutti. Entriamo nelle stanze, o meglio, nelle celle. L’impressione di squallore si accentua. Pareti scrostate. Acqua per terra. Umidità ai soffitti. 4 letti di lenzuola e coperte consunte sopra un materasso di spugna. Nessun suppellettile. Una tazza del water in un angolo dello stesso ambiente dove si dorme e si mangia. I riscaldamenti sono spenti. Chiediamo se funzionano. “Alcune volte sì, altre no. Ieri sera non li hanno accesi”, rispondono. Diversi sono gli internati che troviamo a letto. Coperti dai piedi alla testa. In una cella solo vediamo la branda. E il materasso? “Lo tolgono perché perch chi ci dorme lo bagna sempre. Si fa continuamente la pip pipì ad- Visita del ministro Castelli all’Opg Foto M.Schinella dosso“, rispondono alcuni internati. Poi ce lo indicano. E’ un omone obeso. Ha i pantaloni bagnati di urina e se ne sta immobile a osservarci. “Capita spesso che un internato si prenda cura di un suo compagno di cella, provvedendo a lavar- Web image lo e a pulirlo”. L’omone della pipì ci ricorda un’altra delle cose che Francesco ci aveva raccontato. Con circospezione, Mario si avvicina e ci invita a seguirlo nella sua cella. Si accosta al suo letto, solleva la coperta e spuntano una gatta e i suoi cuccioli. ”Avevano molto freddo e ho pensato di portarli dentro”, si giustifica. “Beppe, questo è un tuo paesano”, dice poi padre Pippo a un internato, indicando uno di noi. “Salutalo”, gli ordina. Beppe si desta lentamente dal torpore e allunga la mano. Non fa altro. ”Cerca di trovare la forza di alzarti, non te ne puoi stare tutto il giorno a letto, lo capisci“, lo sprona padre Pippo, che rivolgendosi a noi spiega: ”Quest’uomo è di una bontà e dolcezza uniche. Qualche anno fa era andato in comunità. Lì ha litigato, come capita a ognuno di noi, ed è stato riportato qua. Ora è ridotto una larva. E peggiora giorno dopo giorno”. L’agente comincia un po’ a spazientirsi. Ci congediamo e usciamo. La porta del reparto si chiude alle nostre spalle. Del personale sanitario neanche l’ombra. Entriamo nel reparto nuovo. Quello che il 17 febbraio il ministro Castelli è venuto a inaugurare. 60 nuovi posti su due piani. Hai come l’impressione di passare da una bettola di terz’ordine a una suite. “Padre, qui è bello, ma cinque letti in una stanza sono troppi. Non c’è neanche lo spazio di muoverti“, dice un internato, intento a vedere la tv. Rapidamente visitiamo tutte le stanze. Troviamo molta gente a letto. Salutiamo un signore, che appena ci vede sgrana gli occhi. “Come sta?“, domandiamo. “Mi sento molto giù. Non ho voglia di alzarmi”, risponde. Del personale sanitario nessuna traccia ancora. Guadagniamo la via d’uscita. Sono le 11. Michele Schinella La misura di sicurezza del ricovero in Opg è disposta nei confronti dell’autore di un fatto di reato affetto da infermità di mente e, in quanto tale, non imputabile ma riconosciuto come socialmente pericoloso. La durata massima della misura è indeterminata e dipende dalla persistenza della pericolosità sociale. Quando viene meno, il giudice ne dispone la revoca. Di recente, la Corte Costituzionale, con due sentenze (del 2003 e 2004) relative, rispettivamente, alla misura definitiva e alla provvisoria, ha scardinato il rigido automatismo del codice Rocco (1930), che impediva al giudice di applicare una misura alternativa al ricovero in Opg. Oggi si può quindi assicurare adeguate cure all’infermo di mente, attraverso la libertà vigilata, con affidamento ai Dipartimenti di Salute mentale. In Opg, inoltre, sono ricoverati anche i destinatari della misura di sicurezza della Casa di custodia e cura. Quest’ultima si applica (in aggiunta al carcere) ai condannati cui è riconosciuta la seminfermità mentale e, quindi, una riduzione di pena. Oltre che a titolo di misura di sicurezza, il ricovero in Opg lo si può disporre pure nel caso di infermità psichica sopravvenuta, sia per accertarne, mediante osservazione, la reale sussistenza, sia quando il giudice la ritenga tale da impedire l’esecuzione in carcere della pena. Nei sei Opg (Barcellona P.G., Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia) sono internate circa 1300 persone. M.S. 9 Web image Una Casa nel segno dell’accoglienza L’altra faccia dell’Opg di Barcellona è la Casa di solidarietà e di accoglienza fondata da padre Pippo Insana. E’ la faccia bella. Il ponte tra il dentro e il fuori. Il rifugio per chi fuori non ha più nessuno. Di ritorno dall’Ospedale psichiatrico giudiziario ritroviamo Francesco. Il suo nome, così come quello dei suoi compagni, è fittizio, in modo da garantirne la riservatezza. Francesco è ai fornelli. E’ lui che si occupa di preparare il pranzo. “Ho preso il diploma di cuoco e ho lavorato in diversi ristoranti“, dice con una punta di vanità. Adesso che può pensare al suo futuro, è preda dei rimorsi e dei rimpianti. “Prima di fare quello che ho fatto, sono stato male per sei mesi. Se in quel periodo fossi stato in qualche modo aiutato, non avrei provocato tutto quel dolore. E non avrei perso dieci anni della mia vita così“. Si attende un ospite a pranzo. Arriva. E’ un uomo di sessantacinque anni con i baffi. “Ciao Sergio, come stai?” gli domanda Francesco. Sergio, di anni in Opg, ne ha trascorsi dieci. Dopo, si è stabilito a Barcellona. Ha preso in affitto una casa e l’ha arredata con i mobili che si è costruito con le proprie mani. Non se l’è sentita di tornare al suo paese. “Dopo quello che è successo, dopo tutti questi anni, preferisco rimanere qua“. Sergio conduceva una vita che si direbbe ordinaria. ”Avevo un buon lavoro, una moglie e dei figli”. Un giorno, però, perde la testa e, con essa, tutta la famiglia. “E’ stato un attimo. Non ci ho visto più. Dal quel giorno ho imparato che non ci si può stupire di niente“. Se gli domandi come si sta dentro l’Opg, risponde con una battuta in dialetto: ”Amaru cu ci capita“. E non aggiunge altro, anche se lascia intendere che i suoi occhi hanno visto l’inimmaginabile. Mentre Francesco è pronto a versare i maccheroni nella pentola, gli altri ospiti si danno da fare. Una volontaria dà una mano. “Quanto vi hanno aiutato i volontari quando stavate dentro?”, domandiamo. Francesco è il più lesto a rispondere: “Sono l’unico collegamento tra il dentro e il fuori. Sono quelli che ci permettono di sperare che fuori ci sia ancora qualcuno che crede in noi”. Mario si occupa di apparecchiare. E’ un uomo alto, con il viso scavato. “E’ l’amico che mi vuole più bene, anche se non me lo dimostra mai”, scherza padre Insana. “Padre Pippo, certe cose si sentono dentro, non c’è bisogno di dirle”, tuona Mario. Non aprirà più bocca. Mario è uscito dall’Ospedale di Barcellona da dieci anni. Altri dieci li aveva trascorsi dentro. I familiari non lo hanno più voluto e lui è rimasto con il suo amico prediletto. “Sono in molti a essere abbandonati dalle famiglie - conferma padre Pippo - e così in tanti, quando ne cessa la pericolosità sociale, continuano a rimanere in Opg. Ci sono degli internati che potrebbero uscire anche subito, ma non escono perché il Dipartimento di salute mentale di appartenenza non ha predisposto il progetto riabilitativo, come previsto dalla legge“. Cesare non si trova in questa situazione. Lui, in Opg, è finito per la denuncia della madre. “Mia madre Il direttore: “La maggioranza potrebbe essere curata fuori” Nunziante Rosania, direttore dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, tiene a sottolineare che “sono molte le carenze, specie di personale medico, che colpiscono l’Ospedale psichiatrico giudiziario. Capita purtroppo di non poter somministrare i farmaci agli internati, perché ne rimaniamo senza. L’Opg non ha medici di ruolo, se non il direttore e il vicedirettore, impegnati soprattutto in compiti amministrativi. In questo momento fruiamo dell’opera di otto psichiatri, per trenta ore ciascuno mensili, a fronte di 190 malati”, denuncia Rosania. “Le responsabilità? Devo dire che in Sicilia l’amministrazione penitenziaria è stata lasciata sola”. Dalle eterne emergenze ai metodi adoperati, è vero che nell’Opg si usa il cosiddetto letto di contenzione? “Sfatiamo una leggenda mi telefona sempre. Si mette a piangere. Si è pentita di avermi denunciato. Mi vuole a casa”, ci racconta con foga. ”E’ vero, padre Pippo, che mia madre mi vuole a casa?” insiste. La donna, che in precedenza l’aveva denunciato, adesso paga l’avvocato per farlo uscire. Cesare sta usufruendo di qualche giorno di licenza. “Se non ci fosse l’abitazione di padre Insana, la licenza non la potrei ottenere”, dice. Pino, invece, non lo aspetta nessuno. Non ha ancora terminato i dieci anni di internamento, ma gli è stata concessa la libertà vigilata, con obbligo di risiedere nella Casa. In Opg, Pino è arrivato perché si è ribellato al padre padrone, capace di grandi brutalità. “Quando ho visto che, ancora una volta, stava picchiando mia madre, il sangue mi è arrivato alla testa”, dice sottovoce. E continua: ”Mia madre è morta subito dopo”. Poi cerca l’attenzione di Mario e, alzando il tono di voce, dice: “Quando sarò libero, affitterò una casa con Mario e così continueremo a vivere insieme”. Mario risponde con un sorriso. I maccheroni sono pronti e Francesco è impaziente di farci assaporare le sue abilità culinarie. Ci sediamo. E’ inevitabile il confronto con l’Opg. Chiediamo come si mangia dentro. “Come volete che si mangi, con 2 euro e mezzo al giorno”, risponde con rabbia Francesco. 2 euro e mezzo. Tanto mette a disposizione lo Stato, per la colazione, il pranzo e la cena di questi esseri umani, definiti quasi sempre internati o, più semplicemente, detenuti. M.S. metropolitana. Il letto di contenzione viene usato in qualunque reparto di psichiatria. Un tempo veniva usato sistematicamente, con finalità punitive, e noi avevamo un’infinità di letti di contenzione. Oggi abbiamo due soli letti di questo tipo, che usiamo per soggetti particolarmente agitati, con finalità terapeutiche, quando non disponiamo di altri strumenti efficaci. E’ dunque un atto medico che non va demonizzato, che viene effettuato sotto il controllo medico e solo per alcune ore”, precisa il direttore. Il ministro Castelli, nella sua recente visita a Barcellona, ha dichiarato che l’Opg è un’istituzione necessaria. Ma sono tante le persone pericolose, all’interno dell’Ospedale? “Non molte. Mi creda, la stragrande maggioranza è composta da persone che potrebbero essere opportunamente curate senza ricorso all’internamento, mediante il semplice affidamento ai Dipartimenti di Salute mentale”. M.S. 10 I progetti Il confronto Un Circolo Arci dentro l’Opg: la scommessa di “Città Futura” Viaggio in un mondo chiamato Star Dagli anni Novanta, a Barcellona Pozzo di Gotto, gli stessi internati e detenuti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario hanno creato un punto di riferimento contro l’emarginazione. Cinque Strutture abitative riabilitative, in provincia, per i disabili mentali. Il progetto s’intitola “Papillon”. Sì, come il celebre film interpretato da Steve McQueen. Una storia di evasioni e di libertà, di farfalle tatuate sul petto e di repressioni giudiziarie, che ha ispirato negli anni Novanta i volontari Arci del Circolo “Città futura” di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. “Sulla scia di un convegno del ’91 su Basaglia e sui diritti dei cosiddetti folli, è nata l’idea di realizzare un vero e proprio Circolo Arci all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario, animato dagli stessi detenuti e internati, nel segno della loro responsabilizzazione”, affermano Lucia Isgrò e Claudia Lo Presti. Sono due giovani volontarie che s’impegnano a portare avanti le iniziative dentro l’Opg. Dalle rassegne cinematografiche alla musica, dalle occasioni per socializzare alle attività lavorative e ai corsi di pittura, dagli spettacoli alle gite con le persone che usufruiscono dei permessi. E, nel corso di una visita al Circolo Arci “Thomas Sankara” di Messina, è accaduto che il disegno di un migrante, fino ad allora granitico nella sua assenza di comunicazione, permettesse di comprendere il suo Paese di provenienza. Un piccolo miracolo, insomma. “Intendiamo sostenere chi vive dentro l’Ospedale e, nello stesso tempo, favorire lo smantellamento di queste strutture. Quando, di recente, il ministro Castelli ha aperto una nuova sezione, abbiamo manifestato per ribadire il nostro “no” a un’iniziativa in contraddizione con la prospettiva di chiudere l’Opg. Un luogo ambiguo, un ibrido tra una galera e un ospedale che Oasi di pace e tranquillità, piccoli mondi creati per ridare la speranza a chi sembrava averla persa per sempre. Circondate da un silenzio quasi irreale, per chi vive nel caos delle città, le Star (Strutture abitative riabilitative) della cooperativa sociale Genesi sembrano davvero brillare di luce propria. La stessa luce di un tiepido e inatteso sole di primavera, venuto a scaldare gli immensi campi verdi che cullano Villa Iris di S. Filippo del Mela. «Sono circa 1500 mq. di terreno a nostra disposizione, che utilizziamo anche per produrre un olio d’oliva davvero eccezionale». Parola di Nunzio Cannistraci, tutor delle cinque strutture situate nella provincia di Messina. Le Star sono delle piccole case – famiglia, nate per volontà di Biagio Gennaro, direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Ausl 5 di Messina, per il recupero e il reinserimento in società dei disabili mentali del territorio. In ogni struttura vivono sei ospiti, la maggior parte dei quali proveniente dagli ormai chiusi Ospedale psichiatrico Mandalari di Messina e Cta di Giammoro. Qui sono aiutati e curati dall’équipe medica dell’Ausl e da operatori socio–assistenziali messi a disposizione dalla stessa cooperativa. «Il concetto fondamentale è quello di famiglia. Gli ospiti si sentono come a casa propria, grazie all’aiuto degli operatori, che sono riusciti a instaurare dei rapporti basati sulla fiducia, sul rispetto delle cose e delle persone», afferma Nunzio Cannistraci. Proprio per questo, qualche mese fa, nella Villa Blu di Pace del Mela si è festeggiato un compleanno speciale, con più di 100 invitati. «Il campanello non smetteva mai di suonare», dice il direttore Gianluca Busacca. “Arrivavano il tabaccaio, il barista, l’assessore, tantissimi abitanti della zona, ormai affezionati a questi vicini così speciali. In generale, è completamente cambiata la filosofia su come gestire il disabile. Prima esisteva un rapporto ospite – operatore incolmabile, a causa soprattutto dell’elevato numero di pazienti. Venivano rinchiusi e isolati, mentre adesso si tende a favorire sempre più i rapporti con l’esterno». Le Star sono considerate un passaggio intermedio, di preparazione alla vita “normale”. «La scommessa più azzardata – continua Busacca – è quella di riuscire a reintegrarli nella società. Purtroppo non sempre tutto funziona come si vorrebbe. Ci possono essere dei periodi di depressione e delle ricadute». Eppure l’inizio non era stato dei più incoraggianti. Molti dei nuovi ospiti si spogliavano, abituati com’erano a camminare nudi nei corridoi dell’ospedale, mangiavano con le mani e non sopportavano il contatto non cura e che non riabilita”, ribadiscono con passione Lucia e Claudia. Mentre parlano, nei locali dell’Arci di Barcellona, il caos gioioso di parecchi bambini interrompe a tratti il racconto delle esperienze recenti. “In questi anni, assieme alle attività culturali, i componenti del Circolo, detenuti essi stessi, si sono occupati delle persone più fragili e hanno cercato di creare un luogo di ascolto e di umanità all’interno della struttura. Si riuniscono sempre in un chiosco di legno, tra il secondo e il terzo reparto”, spiegano. Poi, quando precisano che molti internati potrebbero subito lasciare l’Ospedale, basterebbe che i Dipartimenti di Salute mentale delle loro città di provenienza fossero pronti ad accoglierli, affiora tutta la rabbia per una struttura “disumanizzante”. “Noi lavoriamo – precisano le volontarie dell’Arci – per creare spazi di libertà e non per colmare le lacune delle istituzioni. Nell’Opg si usano ancora gli antichi letti di contenimento e, inoltre, gli infermieri e gli agenti penitenziari più sensibili vengono isolati”. Sono storie di dolore e di emarginazione, quelle che emergono dal racconto di Lucia e Claudia. Banditi dalle loro famiglie, molti rimangono anche vent’anni lì dentro, seppure solo colpevoli (è il caso di un internato) di offesa a pubblico ufficiale. Oppure, scontano otto anni di detenzione, per aver tirato il freno d’emergenza del treno. “Nessuno li accoglie e loro rimangono lì, vittime di un’idea autoritaria e repressiva della malattia mentale”. Marco Olivieri Vivere e lavorare nonostante il disagio mentale “Mi sento rinata grazie a questa esperienza” «Il lavoro alla bottega del commercio equo e solidale mi ha cambiato la vita». Per Marianna, la chiameremo così, 46 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto, è questo il significato della sua esperienza lavorativa. Un’esperienza che svolge alla bottega “Il Pane e le Rose”, aperta nel 2001 dal circolo Arci “Città Futura”, in base a un progetto del Dipartimento di Salute mentale. Un’esperienza che per lei, afflitta da problemi psichici, assume una valenza nuova rispetto al solito. «Svolgere un’attività lavorativa – racconta – rappresenta un’occasione per uscire di casa e incontrare degli amici. Insomma, per sentirsi vivi». Sorride Marianna, mentre parla del suo impegno alla bottega, un impegno che l’Arci (tra mille difficoltà) ha deciso di continuare anche dopo la fine dei finanziamenti. Dal 2001, sono cinque le persone con problemi mentali, e che continuano a curarsi, inserite in campo lavorativo grazie a una cooperativa dell’Arci: tre nel negozio e due impegnate al Centro della pace, con il compito di occuparsi della manutenzione. Il sorriso di Marianna è dolce, carico d’emozione. Il suo lavoro la rende felice. «Vorrei addirittura lavorare di più», dice. «Io, infatti, lavoro per tre mezze giornate. Il resto del tempo lo trascorro a casa, ma non mi piace. Non amo stare in casa». E qui s’incupisce un po’. «Ho vissuto dei momenti brutti quando non avevo alcun impegno. Rimanevo a letto senza far nulla e non avevo voglia di fare niente. Ecco perché non voglio rimanere a lungo in casa. Perché mi sento inutile e sopraggiunge la depressione, sebbene ci sia anche la mia nipotina, della quale mi occupo nel pomeriggio. Accade, così, che mi passi anche la voglia di uscire e socializzare. Il lavoro, invece, ti dà stimoli e senza di esso non c’è niente, non c’è vita». I suoi occhi sono tristi, anche quando le labbra sorridono, e lasciano trasparire in modo chiaro la sofferenza. Adesso, però, la sua attività lavorativa le ha dato motivazioni nuove. «L’impegno alla bottega è un’occasione per curare un po’ di più anche il proprio aspetto fisico, vestirsi, truccarsi e mantenersi in forma». Ma non c’è solo questo. Per Marianna, il lavoro è anche e soprattutto un’occasione per socializzare. «È bello lavorare con le mie colleghe, con le quali mi trovo benissimo, e assistere i clienti, dando loro informazioni sui prodotti e consigliandoli nell’acquisto. Certo, all’inizio di questa esperienza, non essendo abituata a gestire un negozio, provavo una forte confusione e vedevo tutto girarmi attorno. Poi, però, un po’ alla volta, ho preso confidenza e adesso non ho più alcuna difficoltà. E noto con piacere che anche i clienti sono soddisfatti del mio lavoro». La bottega, per lei, è un qualcosa in più di una seconda casa. «Io e i miei compagni, anche loro con disagi mentali, abbiamo partecipato in prima persona alla ristrutturazione dei locali che ospitano il negozio. Abbiamo ripulito e pitturato le pareti, ne abbiamo organizzato l’arredamento. Insomma, l’abbiamo vista nascere e crescere, giorno dopo giorno, e la sentiamo nostra. È anche per questo che nei periodi di lavoro più impegnativi, come l’estate o il Natale, né io né le mie colleghe ci tiriamo indietro. Sappiamo benissimo, infatti, che tutto ciò che facciamo lo realizziamo per la cooperativa e, quindi, per noi che ne facciamo parte». «Questo lavoro – spiega – è anche un’occasione per essere po’ più indipendenti dal punto di vista economico. Con la sola pensione di invalidità (250 euro al mese) è praticamente impossibile andare avanti». E l’obiettivo, a questo punto, è uno solo: «Recuperare il tempo perduto. So di non essere più una ragazzina ma ho, comunque, tanta voglia di rinascere. Ho voglia di riprendermi quello che, negli anni, ho lasciato per strada». Stefano Sinicropi con altre persone. Dopo qualche tempo e tanta pazienza, molti di questi ostacoli sono ormai un ricordo. La situazione più complicata è quella di Villa Iris. Gli ospiti sono i pazienti più anziani del Mandalari, tutti con gravi insufficienze mentali, alcuni dei quali sulla sedia a rotelle, altri senza famiglia. «Con loro il miracolo non si potrà mai avere, lo sappiamo – spiega Cannistraci - ma la fiducia e la tranquillità che hanno raggiunto, i piccoli progressi, sono per noi grande motivo di gratificazione e soddisfazione». Al di là del caso particolare di Villa Iris, per gli altri ospiti, una volta fuori dalle Star, non sarà semplice tornare a vivere. Hanno quasi tutti tra i 35 e i 40 anni e ricominciare a sostenersi economicamente e affettivamente sarà difficile. La famiglia dovrà essere il loro punto di riferimento, famiglia che viene coinvolta durante tutto il cammino, grazie soprattutto agli assistenti sociali dell’Ausl. «Il dottor Gennaro è l’ideatore del progetto – interviene Busacca – e si è dovuto scontrare non solo con la burocrazia, ma anche con la diffidenza del personale medico e del mondo intero. C’erano pregiudizi e paure che sembravano insormontabili. Adesso, però, la gente ha capito». Il direttore del Dipartimento di Salute mentale non ha voluto che gli operatori e gli infermieri portassero il camice. Si rischiava di creare troppo distacco, differenziando pesantemente ammalati ed équipe sanitaria. «Messina è la prima provincia in Sicilia ad aver intrapreso con successo questo nuovo percorso. Sono arrivati qui medici da Genova e dalla Sardegna per “dare un’occhiata”, per vedere come funzionano le strutture», spiegano gli operatori. In ogni villa della cooperativa Genesi, le abitazioni sono circondate da grandi spazi verdi, dove gli ospiti possono lavorare la terra, piantare gli ortaggi e raccogliere i frutti. Sono state realizzate vicino al mare e ai paesi, per permettere ai pazienti di muoversi più facilmente. D’estate vengono organizzate spesso delle uscite. Si va al mare, con i mezzi attrezzati per il trasporto delle sedie a rotelle e, durante l’anno, si svolgono iniziative per il Carnevale e nel periodo di Natale. Le pareti delle stanze sono dipinte di azzurro, verde, giallo e arancio. I colori della vita e dell’arcobaleno, il calore di una carezza o di un abbraccio. «Queste persone meritano il massimo – dice Nunzio Cannistraci – anche se è impossibile poterli ricompensare di tutte le sofferenze patite». Maria Cristina Scullino Pasquale Zumbo 11 Bucalo (Penelope): “Ma non si favorisce l’autonomia degli individui” “Se a parlare di Star sono quelli che le gestiscono, è normale che ne parlino bene. Io posso valutare in relazione a quello che ho visto a Taormina. Prima di tutto, è la logica di queste cosiddette Strutture abitative riabilitative che risulta profondamente sbagliata. Non si lavora per potenziare il senso di autonomia delle persone con problemi mentali. Queste ville sembrano piuttosto dei parcheggi, senza alternative né lavorative, né di emancipazione, per i soggetti che vivono un grande disagio”, polemizza Giuseppe Bucalo, presidente dell’associazione Penelope, che agisce nel distretto socio-sanitario di Taormina. “I progetti per stimolare l’individuo, e renderlo autonomo e indipendente, non hanno alcun riscontro concreto. La logica è solo quella del contenimento, l’assunzione di medicine è analoga a quella in uso nei reparti psichiatrici e, soprattutto, non esiste la libertà di scelta per gli ospiti. I costi, per ogni persona, appaiono troppi elevati e le logiche complessive mi sfuggono del tutto”, spiega Bucalo. “Una volta abbiamo proposto a queste strutture l’istituzione di una borsa lavoro e ci è stato risposto che non rientrava nel piano individuale. La verità è che, ancora oggi, l’unica vera funzione delle strutture psichiatriche è quella di isolare le persone dal contesto sociale, così come del resto richiedono le comunità sociali e le famiglie, purché ciò avvenga in luoghi attraenti, che tengano lontani i sensi di colpa”. A sua volta, in alternativa, Bucalo propone il lavoro sul campo dell’associazione Penelope, che ha al suo attivo la Casa famiglia “L’eccezione”, destinata ad accogliere chi esce dagli ospedali giudiziari e dalle cliniche psichiatriche. “La nostra gestione punta a rispettare la libertà di questi individui, anzi a restituire un senso alla parola libertà. Non viene imposto nulla - continua Bucalo – e non si pongono limiti alla libertà di movimento. Gli ospiti hanno le chiavi di casa e gestiscono liberamente il loro rapporto con medicine e medici. Questo rispetto dell’individualità fa paura a chi ritiene più rassicurante il controllo. Ma ha permesso la presa in carico di situazioni considerate ingestibili e ha dato occasioni di vita reale a persone alle quali solitamente non è dato credito, a causa dello stigma di malato di mente con cui li hanno marchiati”. Donatella Raccuia La Star Villa Iris di S. Filippo del Mela 12 Le associazioni L’analisi La parola ai volontari Sono associazioni che lavorano sul campo, per la salute dei cittadini. Dal 1980, il Tribunale dei diritti del malato raccoglie denunce e sollecita cambiamenti. Di recente, Antonino Mantineo, in qualità di presidente del Tribunale, ha evidenziato la situazione insostenibile dell’ospedale Piemonte di Messina. «Dai tempi di attesa troppo lunghi alla situazione pessima dal punto di vista igienico del pronto soccorso, con i gatti che si aggirano indisturbati durante la notte. Serve un ripensamento complessivo dell’azienda», polemizza Mantineo, docente universitario e presidente del Cesv. A sua volta, Felicia Casamento, responsabile per la provincia di Messina dell’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro), non modera le frasi: «Le istituzioni pubbliche sono totalmente assenti. La sanità è allo sfascio e il malato oncologico è solo un numero. I medicinali sono costosissimi e noi, con le nostre attività, contribuiamo al finanziamento della ricerca per circa il 40% del totale. Le nostre manifestazioni, con distribuzione di agende, cioccolatini e uova di Pasqua, si basano soprattutto sul sostegno della gente. Ma non si può andare avanti così». Sulla stessa linea è l’associazione Alzheimer di Milazzo, che auspica «la creazione sul territorio di un Centro diurno per l’assistenza al malato». Altro settore scottante è quello dei disabili mentali. «Sono molte le difficoltà che affrontano le famiglie di chi ha problemi mentali», afferma Adriana Minniti, presidente di “Io Persona”. «La nostra associazione cerca di sostenerle al meglio, mettendole in contatto con gli psichiatri del territorio. Qui c’è carenza soprattutto di personale paramedico, a causa degli scarsi finanziamenti regionali. Per fortuna, le istituzioni, con la creazione delle Star, hanno fornito una prima risposta ai bisogni del settore». Sullo stesso argomento si esprime Simona Romano, delegato zonale dell’Avulss per la Sicilia e componente del Consiglio direttivo Cesv in rappresentanza dei Comitati di gestione. «L’emarginazione è il problema più grande che ci troviamo ad affrontare. La gente non conosce bene il problema della salute mentale e così, a causa dei luoghi comuni, ne sta alla larga. Dei passi avanti sono stati fatti con i Centri di igiene mentale e le Case famiglia. Al Mandalari, i malati non riuscivano a tenere neppure la forchetta in mano. Tuttavia, bisogna potenziare le strutture, perché le utenze sono tante e difficili da seguire». Nuccia Formica, presidente dell’Avulss di Milazzo, invece, lamenta la scarsa collaborazione di enti sanitari e istituzioni. «Le leggi vengono spesso disattese, ma il punto focale non è la mancanza di fondi. Piuttosto, è l’arretratezza culturale. C’è poca umanità». A sua volta, l’associazione Cepas di Messina interviene in aiuto dei giovani in difficoltà. «Ci occupiamo soprattutto di prevenzione – afferma la docente universitaria e volontaria Enza Sofo – rivolgendo la nostra attenzione al mondo della scuola e alla formazione dei genitori, affinché imparino a capire i messaggi non verbali dei ragazzi». Affronta diverse problematiche pure la Confraternita della Misericordia di Spadafora. «Ci occupiamo – afferma il governatore Giuseppe Nastase – del trasporto di persone ammalate, della protezione civile, in caso di calamità, e del sostegno alimentare per le famiglie bisognose. Tutto questo grazie alle donazioni». I nuovi locali della Confraternita sono stati ricavati dalla ristrutturazione della vecchia stazione ferroviaria. «Abbiamo fatto da noi, ma le spese sono incredibili. Abbiamo cambiato sede da sette mesi e ancora la Telecom non ci ha trasferito la linea». Daniela Cannistraci, presidente di Vip Per Nastase, il vero 13 Piani di zona: dov’è la voce del volontariato? problema è l’atteggiamento poco disponibile di gran parte di medici e infermieri. «Se solo per un istante provassero la sofferenza e la disperazione patite dai pazienti – conclude il governatore - le cose andrebbero meglio». Per fortuna, esistono anche medici disposti a mettersi in gioco. È il caso dell’associazione Chirone, formata da un gruppo di oculisti volontari che, dal 1992, una o due volte l’anno, partono per missioni umanitarie in Paesi in via di sviluppo. «La nostra associazione è stata in Nicaragua, Ghana, Kenya e, ultimamente in Costa d’Avorio», rivela il presidente Antonio Rizzotti. «Vorremmo fare di più, ma i costi dei biglietti sono elevatissimi. Andiamo avanti grazie alle donazioni delle case farmaceutiche, per la strumentazione, e della Fondazione Bonino-Pulejo, che annualmente destina circa 4500 euro per l’acquisto dei biglietti». Dal punto di vista dell’Avis (Associazione volontari italiani sangue), invece, l’emergenza riguarda più l’aspetto culturale che finanziario. A fronte di un fabbisogno di 25.000 donatori, Messina ne assicura appena il 10%. «In altre città, anche siciliane, sono stati raggiunti dei buoni risultati», afferma Franco Previte, presidente dell’Avis Messina e componente del Consiglio direttivo Cesv. «Qui, invece, nonostante il nostro impegno educativo, le risposte non ci sono. Bisognerebbe ricordare che donare il sangue è un dovere e riceverlo un diritto». Infine, i clown di corsia dell’associazione di volontariato Vip di Messina (Viviamo In Positivo). «Facciamo parte di una federazione, la Vip Italia Onlus - dice Daniela Cannistraci, presidente - costituita da moltissime associazioni sparse su tutto il territorio nazionale. Associazioni che promuovono la clown therapy in Italia e all’estero, dove i nostri volontari si recano in missione (Brasile, Romania, Bolivia, India). A Messina siamo presenti attualmente al Papardo, nei reparti di chirurgia plastica e pediatria». Nonostante i sorrisi da clown, l’associazione Vip ha il suo da fare a reperire fondi. «Sono sporadiche donazioni a finanziarci, assieme alle raccolte in piazza e alle quote associative. Le costosissime micromagie e l’abbigliamento sono acquistati dagli stessi volontari», conclude Daniela Cannistraci. Daniela Fotia - Pasquale Zumbo Il Cedav: “Le strutture pubbliche non aiutano le donne” “Le donne in difficoltà non trovano risposte nel sistema sanitario. In caso di violenze e maltrattamenti, le strutture pubbliche non sono preparate alle emergenze”, denuncia l’avvocato Carmen Currò, presidente del Cedav di Messina, Centro Donne Antiviolenza. “A causa di una cattiva organizzazione, i servizi pubblici non funzionano e così una realtà come il Cedav presenta un carico troppo alto di utenze”, sottolinea l’avvocato Currò. “Bisogna eliminare le lunghe liste di attesa ed è necessario che le strutture pubbliche facciano il proprio dovere. Oggi il sistema sanitario è troppo complicato, dominato da procedure burocratiche, e la qualità del servizio viene così danneggiata. Fino a quando non si creeranno dei presidi pubblici capaci di dialogare con le persone, ovvero animati da operatori che sappiano rivolgersi a chi sta male con umanità, capiterà che si preferisca indebitarsi, pur di rivolgersi ai privati”, osserva il presidente del Cedav, impegnato nel progetto “Dal silenzio alla parola”. Da parte sua, la psichiatra Barbara Cavallari, coordinatrice dei progetti Cedav, rileva che “nei pronti soccorsi non esistono figure idonee a dialogare con donne in difficoltà, che possano avere subito violenze. Spesso si preferisce non approfondire. Quanto ai consultori, la situazione complessiva è molto precaria, anche se con alcune realtà riusciamo a dialogare, grazie alla sensibilità degli operatori”. Nel frattempo, l’assessorato alle Pari opportunità del Comune di Messina ha appena promosso un Osservatorio sulla salute delle donne. Si tratta di un’iniziativa dell’assessore Antonella Cocchiara, in accordo con Usl, aziende ospedaliere, sindacati e associazioni come Cedav e Tribunale dei diritti del malato. D.R. Le organizzazioni hanno ancora un peso marginale nella realizzazione delle politiche sociali. E’ quanto emerge dallo studio di un gruppo di lavoro costituito dal Cesv, che individua gli strumenti per rendere più efficace l’azione volontaria e potenziare il lavoro di rete. Il Cesv ha creato un gruppo di lavoro sui Piani di zona. Attraverso un’azione di studio e di valutazione, l’obiettivo è il monitoraggio dei Piani nei distretti socio-sanitari della provincia di Messina, nell’ottica di comprendere ruolo e specificità dell’azione volontaria. Si tratta di un compito che le stesse associazioni hanno affidato al Centro Servizi, a seguito del lavoro dei gruppi tematici attivati dal Cesv nel 2004. Mentre ci si appresta alla programmazione del prossimo triennio, l’équipe – composta dal direttore del Cesv Rosario Ceraolo (nel ruolo di coordinatore) e da Giovanni Calabrò, Sabrina Munaò e Antonia Ragusi - sta valutando il lavoro nei territori, con l’obiettivo di fare una vera e propria mappa dei servizi. Questo tipo di monitoraggio coincide con il proposito del Centro Servizi di avviare, in ciascun distretto sociosanitario della provincia di Messina, un percorso che promuova il pieno coinvolgimento del volontariato nella programmazione e nella gestione del Piano di zona. In particolare, si sta valutando qual è stato il ruolo dei volontari e il loro grado di partecipazione in relazione all’analisi dei bisogni. Si sta analizzando, distretto per distretto, qual è stato anche il contributo del volontariato alla progettazione. Seppure si tratti di un work in progress, da una prima valutazione si può affermare che emerge una scarsa conoscenza del mondo del volontariato. In particolare, nell’analisi dei bisogni, non si evince alcun approfondimento, né alcuna mappatura del mondo dei volontari. Appare marginale, insomma, la presenza del volontariato. Da questo studio emerge la scarsa conoscenza di questo mondo sia dal punto di vista quantitativo, sia qualitativo (cioè dal punto di vista del ruolo e delle funzioni). Inoltre, nell’ambito della partecipazione, le occasioni di incontro fra volontari risultano vissute come momenti episodici e atti formali, e non come spazi e luoghi in cui incidere nella progettazione delle politiche sociali del territorio. Mancano il coordinamento e un’idea efficace di sintesi, in modo da progettare percorsi comuni attraverso una solida rete territoriale. Da parte sua, il Cesv si sta impegnando per modificare questa realtà. Nell’ottica di una migliore comunicazione dell’azione volontaria, il Centro Servizi s’impegna a realizzare una banca dati e a monitorare il fenomeno volontaristico e associativo. Nel quadro della formazione, invece, il Centro Servizi continua a lavorare per dotare i volontari di metodologie per la progettazione e di competenze specialistiche. Emerge l’idea di mettere i volontari in rete, per potenziare l’aspetto informativo e della comunicazione, individuare prassi comuni su politiche e azioni concrete, e organizzare la rappresentanza, nel segno dell’autonomia del volontariato e della sua crescita progettuale. Si tratta di un lavoro in linea con un maggiore radicamento nel territorio da parte del Centro Servizi, dagli Sportelli alle recenti assemblee nella provincia. Di tutto questo, il gruppo di studio sui Piani di zona costituisce solo un primo tassello, per potenziare le qualità del volontariato e invertire le tendenze. Rosario Ceraolo – Marco Olivieri Uno strumento di programmazione Il Piano di zona è lo strumento di programmazione del sistema locale dei servizi socio-sanitari di un determinato ambito territoriale. Esso costituisce un’occasione offerta alle comunità per leggere, valutare e programmare il proprio sviluppo. Introdotto dalla legge 328 del 2000, che ha ridefinito l’assetto dello Stato sociale in Italia, il Piano è lo strumento principale delle politiche sociali, per costruire un sistema integrato di interventi e servizi. Nel segno della fine dell’assistenzialismo, la predisposizione di questo strumento avviene attraverso la concertazione, condivisa e partecipata, tra soggetti istituzionali, comunità locali, Terzo Settore, sindacati, scuola e ricerca. I distretti socio-sanitari D25 Lipari D26 Messina D27 Milazzo D28 Barcellona P. G. D29 Mistretta D30 Patti D31 S. Agata di Militello D32 Taormina Leni, Malfa, S. Maria Salina Scaletta Zanclea, Itala, Villafranca Tirrena, Saponara, Rometta, Roccalumera-Mandanici, Furci Siculo, Nizza di Sicilia, Fiumedinisi, Alì Terme, Alì Pace del Mela, Gualtieri Sicaminò, S. Lu-cia del Mela, S. Filippo del Mela, Spadafora, Valdina, Venetico, Roccavaldina, Torregrotta, Monforte S. Giorgio, Condrò, S. Pier Niceto Merì, Montalbano Elicona, Basicò, Tripi, Terme Vagliatore, Castroreale, Rodì Mili-ci, Furnari, Falcone, Novara di Sicilia, Mazzarrà S. Andrea, Fondachelli Fantina Castel di Lucio, Reitano, S. Stefano Camastra, Motta d’Affermo, Pettineo, Tusa; Oliveri, Montagnareale, Librizzi, S. Piero Patti, Raccuja, Floresta, Brolo, Ficarra, Sinagra, Gioiosa Marea, Piraino, S. Angelo di Brolo S. Marco d’Alunzio, Militello Rosmarino, Alcara Li Fusi, Acquedolci, S. Fratello, Ca-ronia, Capo d’Orlando, Caprileone, Frazzanò, Mirto, Longi, Castell’Umberto, Na-so, S. Salvatore di Fitalia, Tortorici, Torrenova, Galati Mamertino, Ucria. Castelmola, Gallodoro, Mongiuffi Melia, Letojanni, Motta Camastra, Francavilla di Sicilia, Moio Alcantara, Malvagna, Roccella Valdemone, Cesarò, S. Teodoro, Giardini Naxos, Graniti, Gaggi, S. Teresa Riva, S. Alessio Siculo, Forza d’Agrò, Savoca, Casalvecchio Siculo, Antillo, Limina, Roccafiorita, Pagliata, Santa Domenica di Vittoria. 14 La comunità del Cesv Le iniziative Dalle assemblee “voglia di confronto” Sei incontri Cesv nel Messinese per rilevare i bisogni delle organizzazioni di volontariato e programmare insieme le attività. Sei assemblee nella provincia di Messina promosse dal Centro Servizi per il Volontariato. Sei incontri a Milazzo (lo scorso 25 gennaio), Alì Terme (1 febbraio), Patti (15 febbraio), Capo d’Orlando (20 febbraio), Barcellona Pozzo di Gotto (27 febbraio) e Messina (3 marzo). Sei momenti per avviare una riflessione sui temi di interesse dei volontari e dell’associazionismo. Attraverso le assemblee, il Cesv ha puntato a rilevare i fabbisogni delle organizzazioni e ad animare e promuovere le reti territoriali. Per Antonino Mantineo, docente universitario e presidente del Centro Servizi, “queste assemblee hanno costituito un luogo di incontro in cui sperimentare prassi concertate di programmazione tra le organizzazioni di volontariato. Si è trattato di un’opportunità per conoscersi e scambiare esperienze. Ma anche di un momento di verifica e confronto – aggiunge Mantineo – che può aiutare a comprendere al meglio ruolo e funzioni del Cesv”. “Dalle assemblee nella provincia di Messina – af- ferma a sua volta Anna Maria Passaseo, referente dell’area formazione del Centro Servizi – sono emersi il bisogno di partecipazione delle organizzazioni di volontariato messinesi e la necessità di creare un coordinamento tra le associazioni del territorio, al fine di conoscersi e incontrarsi. Dal confronto con i volontari rileviamo anche l’importanza di un lavoro di rete, che crei nuovi ponti fra le diverse realtà, per studiare strategie comuni e momenti di elaborazione in campo sociale e culturale. Basti pensare – osserva la dottoressa Passaseo – alle difficoltà nel coinvolgimento dei volontari per il lavoro sui Piani di zona, incaricati di programmare il futuro delle politiche sociali dei nostri territori. Emerge pure la necessità di creare una mappatura delle associazioni, data l’eterogeneità del territorio, e di fare crescere il ruolo politico del volontariato a favore del cambiamento e del riscatto della provincia”. Marco Olivieri Politiche sociali: Messina si attende una svolta Il presidente Cesv A. Mantineo e il direttore R. Ceraolo Un servizio su misura di volontario Il Cesv ha attivato un nuovo servizio: la Bacheca del Volontariato. Si tratta di uno spazio in cui si incontrano le richieste di volontari, da parte delle associazioni, e le offerte di disponibilità a svolgere un’esperienza di volontariato da parte di cittadini giovani, adulti, anziani e famiglie. Mediante il sito Internet (www.cesvmessina. it), e attraverso gli Sportelli territoriali, si favorisce l’incontro. “La Bacheca del Volontariato rappresenta un’ulteriore possibilità – afferma Antonino Mantineo, presidente del Cesv - che il Centro Servizi offre per diffondere e promuovere le iniziative svolte dalle organizzazioni di volontariato, azioni al servizio delle persone e della comunità. Un’opportunità in più per promuovere il volontariato nei nostri territori e tra i cittadini, in particolare tra i giovani, e per consentire loro di sperimentare autentiche esperienze di gratuità, di socializzazione e di servizio nelle nostre organizzazioni”. Per informazioni, Cesv di Messina, e-mail [email protected]. M.O. L’assemblea programmatica Cesv a Capo d’Orlando “Il Cesv si attende dalla nuova amministrazione comunale di Messina segnali forti e credibili. Nell’ambito delle politiche sociali, in piena autonomia rispetto alla politica e alle sue logiche di schieramento, valuteremo gli atti concreti. Qui le emergenze sono enormi. A Messina manca un serio monitoraggio dei bisogni e dei soggetti che a diverso titolo potrebbero offrire una risposta a questi bisogni. Dai giovani agli anziani, dai diversamente abili alle donne e ai migranti, tutti soffrono delle carenze in termini di spazi sociali e opportunità culturali, mentre il diritto al lavoro e all’abitazione sono sempre più messi in pericolo”, denunciano Antonino Mantineo e Rosario Ceraolo, rispettivamente presidente e direttore del Centro Servizi. In occasione dell’affollata assemblea cittadina di Messina, lo scorso 3 marzo, nel Salone delle Bandiere del Comune, Mantineo ha anche ribadito che “il volontariato non deve mai essere subalterno alla politica, ma esercitare una funzione di stimolo e di proposta. Al Cesv – ha continuato il docente universitario - appare prioritario definire il Piano di zona, valido per il prossimo triennio. Se a Messina non è stato approvato, non è certo colpa dei marziani. E anche i volontari devono recitare il mea culpa. Grazie a questo strumento, il volontariato, l’associazionismo, la cooperazione sociale, i cittadini e le imprese potranno finalmente lavorare insieme per definire le future politiche sociali”. Per il presidente del Cesv, occorre anche “dare attuazione alla Carta per l’affido, nata da un protocollo d’intesa tra il Centro Servizi, l’Istituzione dei Servizi sociali e l’associazione di volontariato “Una famiglia per amico”. Una Carta, ancora da attivare, che fissa obiettivi e metodi per diffondere la cultura dell’affido nell’ambito delle famiglie messinesi. Nel confronto con i candidati a sindaco, prima delle elezioni, abbiamo anche insistito sulla necessità di istituire un tavolo permanente, chiamato la Consulta del volontariato, che diventi un luogo aperto di confronto e di attuazione delle politiche sociali nel nostro territorio”, ha concluso Mantineo. Da parte sua, intervenuto alla fine del dibattito, l’assessore comunale alle Politiche sociali, Pippo Rao, si è detto pronto ad attivare la Consulta del volontariato, “nel segno del dialogo e dello scambio. Su questo punto, avvieremo subito un confronto con il Cesv”. M.O. Accademia Internazionale Amici della Sapienza onlus A.GI.M. Associazione Giovani Montalbanesi Alzheimer Milazzo ARCI MESSINA LIBERA A.R.S. Associazione Regionale Sordomuti via S. Cecilia 124 tel/fax 090.2928229 via Milano 7, Montalbano Elicona via Madonna del boschetto, 52 Via Caio Domenico Gallo 2 is. 454 via L. Nicotra 22, Messina [email protected] 3488265625 As.T.E.R. via Masotto, 4 Castanea delle furie - Messina Arci c/o Circolo “Thomas Sankara” ASSOCIAZIONE 7000 DI VOLONTARIATO Associazione di Cultura e Solidarietà Raggio di Sole Associazione MA.SA.TA. “I SAPORI DEL MIO SUD” Associazione Siciliana Leucemia Onlus A.D.M. Associazione per l’aiuto al Diabetico della provincia di Messina A.N.P.A.S. Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze ASSOCIAZIONE SECURITY Auser Avis comunale Messina Avis - Castell’Umberto Avulss d.z. Sicilia AVIS S. TERESA DI RIVA Banca del tempo “Insieme è meglio” C.R.I.C. Casa di Solidarietà e Accoglienza Ce.d.av. Centro donne antiviolenza via Campo delle Vettovaglie, Messina, tel. 090/6413730 via M.Grano 2, Messina tel: 0906512211 via Cristoforo Colombo n.10, 98061 Brolo tel: 0941.561394 C/da S. Lucia, La Sorgiva A/3 Giampilieri Superiore, ME via Tripoli, 98/a Capo d’Orlando, tel. 0941/912869 c/o Azienda Ospedaliera Papardo, U.O. di Edocrinologia e Diabetologia, C/da Papardo, Sperone. Circolo AUser Alì Terme Chirone Coordinamento Disabili Centro Donatori Sangue FRATRES Ce.P.A.S. Centro di prima accoglienza Savio Ecosmed Federazione dei Maestri del lavoro d’Italia Fraternità di Misericordia di Messina Fraternità di Misericordia - Spadafora Filo d’Arianna Guardia Costiera Ausiliaria Onlus Io Persona Nuovi Orizzonti Oari Pegaso Rangers International Sezione 552 Messina Senza Barriere Spazio Libero Messina Telefono Amico Terra e Cielo Tribunale dei diritti del malato Tutela Salute dei Cittadini Umanesimo e Solidarietà Una famiglia per amico Uisp - Comitato provinciale Messina Volontari contro la fibrosi cistica VIP Viviamo In Positivo Messina Utopia Mani Unite Onlus Centro di Solidarietà P.O.R.T.O. Associazione di Solidarietà Familiare Il Pellicano Penelope Fraternita di Misericordia San Piero Patti Confraternita di Misericordia Amici del Fortino A.G.D. Messina Onlus Confratermita di Misericordia Cesarò Il dado magico Fiori di Roccia Coop Scirin Onlus Comitato Regionale Sicilia via Castellana 318, Palermo via Consolare Antica 573 Capo D’Orlando via XXI Ottobre, 288 Torregrotta, tel. 090/9910634 via Ghibellina, 150/i Messina, tel. 090/674521 fax 090/6411569 via Nazario Sauro, 23-25 Castell’Umberto, tel. 0941/438609 01 via del Mare, 3 Valdina, tel. 090/9920331 Piazza Portosalvo, S. Teresa di Riva via Marina Alì Terme, tel. 0942/715242 via Monzolini, 12 Reggio Calabria, tel. 0965/812345 via Garibaldi, 704 Barcellona P.G., tel. 090/9761183 via Cesareo 24, 98123 messina tel.090.6783035 via Francesco Crispi 289, Alì Terme via S. Elia, 30 Messina via Kennedy, 201 Barcellona, tel. 090/9761207 S. Piero Patti via I Maggio 4, S. Piero Patti tel 0941660211 via Lenzi 24, Messina tel 090771495 via Chiesa dei Marinai, 12 Messina, tel. 09053167 c/o Santuario Madonna di Lourdes, viale R. Margherita, 39, Messina, tel. 090/44329 via Taormina Pal IACP, Messina tel. 090.2931797 emergenza:090695099 via Riolo, 2 Spadafora, tel. 090/9928603 c/o Parrocchia San Clemente, via Centonze, 244 Messina, tel. 090/695458 via C. Pompea, 244 Messina via S. Agostino, 16 Messina, tel. 090/675057 via Setaioli, 15 Messina via Mons. D’Arrigo, 13 Messina, tel. 090/43011 c/o Centro Aperto Leali, via S. Giovanni Bosco, 22 Messina, tel. 090/672973 via P. Bernardino 107, Ucria tel/fax 0941664110 via S. Filippo Bianchi, 20 Messina, tel. 090/662552 via IV Novembre, 93 Ficarra, tel. 0941/583038 - via La Farina, 7 Messina, tel. 090/6413340 casella postale 259, 98122 ME, tel: 0905731767, 0905731839 viale Giostra, coop. La Rondine f/7, Messina, tel. 090/343298 via S. Elia, 30 Messina, tel. 090/774863 piazza S. Maria della Visitazione, Pace del Mela, tel. 090/933407 via Dogali, 50 Messina via La Farina, 7 Messina, tel. 090/771956 via Risorgimento, 210/b Messina, tel. 090/2934942 via S. Elia, 30 Messina, tel. 090/774863 clown Doris 3471065349 [email protected] via Cap. Massimo Scala, 5 Milazzo, tel. 090/9224944 via Pietragoliti 7 , Giardini Naxos tel 0942.23457 via Pietragoliti 7 , Giardini N. tel 0942.52562 via Pietragoliti 7 , Giardini N. tel 0942.52562 via Philip Cluverio 24, Taormina tel 0942.55058, fax 0942.571269 via I Maggio 2, S. Piero Patti tel/fax 0941-660211 San Licandro via L. Sciascia 2 c/o parrocchia S. Francesco d’Assisi tel/fax 090.344572 via F. Crispi 19, Messina via C. Valeria c/o Azienda Policlinico Universitario G. Martino, II Pediatria Pad. NI via Monte di Pietà, 21, Cesarò, tel. 0957732257 via S. Nicolò, 5, Tortorici via Manzoni, 3, S. Teresa di Riva tel. 3475526806 via Placida, 85, Messina