SOS salute - CESV Messina

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SOS salute - CESV Messina
Anno III n. 1 gennaio - febbraio 2006 Autorizzazione tribunale di Messina 06/2004 Spedizione in A.P. art. 2 comma 20/c legge 662/96 On line: www.cesvmessina.it
Periodico bimestrale a cura del Centro Servizi per il Volontariato di Messina
SOS salute
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Gennaio - Febbraio 2006
“La morte di mio figlio e il silenzio
delle istituzioni”. Parla Rosaria
Campo, madre di Davide
8-9
Tra gli internati di Barcellona: uno
sguardo dentro l’Ospedale psichiatrico
giudiziario
12
La voce delle associazioni: “La nostra
lotta contro il degrado della sanità”
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L’indagine Cesv sui Piani di zona.
Come valorizzare il volontariato
2
Editoriale
Speciale
3
Il volontariato è chiamato a cambiare la società
Quelli che… vivono in ospedale
Associazioni e volontari devono riscoprire la loro dimensione
politica, se vogliono combattere le ingiustizie e la sospensione
dei diritti. Servono reti sociali per lavorare insieme, senza
rassegnarsi all’emarginazione dei più deboli.
La storia di tre persone costrette a rimanere ricoverate per mesi. Unica
alternativa la strada, nell’assenza di collaborazione fra Asl e Istituzione per i
Servizi Sociali di Messina.
N
egli incontri e nelle
Assemblee
territoriali
con le organizzazioni di volontariato della provincia emerge,
in modo sempre
più evidente, la
necessità che le
stesse giungano
a rapporti di collaborazione, a forme di coordinamento,
se non alla creazione di reti sociali, nelle quali, senza che ciascuna smarrisca la
propria autonomia e specificità, si impari a
lavorare insieme per migliorare la qualità
del nostro impegno. Ci sembra, questa,
la strada che può permettere di ritrovare
e riconoscere il “ruolo politico” del volontariato, che non è assimilabile a quello
esercitato da altri “gruppi di pressione” o
da quelli espressivi di interessi diffusi. Il
volontariato organizzato, infatti, esercita
la sua funzione politica se concorre con
le idee, la prassi, i metodi e nello stile di
vita a cambiare la nostra società, orientando la propria azione verso la rimozione
delle cause che determinano il disagio, le
disparità sociali, di genere, di reddito (art.
3, secondo comma Costituzione), avvertendo la solidarietà e la giustizia sociale
non solo come un diritto ma anche come
Comunità Solidali
Bimestrale del Ce.S.V.
Centro Servizi
per il Volontariato di Messina
Reg. Trib. di Messina n. 6/2004
Direttore Editoriale
Antonino Mantineo
Direttore Responsabile
Marco Olivieri
Comitato di Redazione
Antonino Anastasi, Rosario Ceraolo,
Carmen Cordaro, Annamaria Passaseo,
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Progetto grafico
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edizioni
CESV - MESSINA
un dovere (art. 2 Costituzione). Questa
dimensione politica del volontariato ci appare smarrita, dietro lo svolgimento di servizi e attività di routine; o, ancora, smarrita
perché sopraffatta dalla preoccupazione
di stabilire rapporti rassicuranti con la
pubblica amministrazione, per ricavarne
le risorse utili alla sopravvivenza delle
nostre organizzazioni. Attraverso questi
atteggiamenti ci rassegniamo all’idea che
i poveri ci saranno sempre – è quasi naturale -; ci abituiamo all’idea che il malessere sociale colpisce i più deboli e fragili
– che, purtroppo esisteranno sempre; e
che isolare i disagiati talvolta è necessario – in fondo, i carcerati, i ladri, i drogati
se la sono cercata… Questo paradosso è
inconsapevolmente accettato anche dai
volontari. E, se non riusciamo a capovolgere questa mentalità e a impegnarci ad
una prossimità accogliente, fiduciosa, il
cambiamento sarà sempre più lontano.
Trasformando invece le nostre organizzazioni da «stampella delle istituzioni» a luogo che anticipa e sperimenta una società
più umana, fondata sulla relazione e la tenerezza, possiamo cambiare l’esistente. Il
nostro ruolo è svolto coerentemente, solo
se siamo in grado di assumere le nostre
responsabilità anche nelle scelte politiche
che siamo chiamati a compiere, non tanto
e non solo negli appuntamenti elettorali.
Abbiamo, soprattutto, da rivendicare la capacità di indignarci di fronte all’ingiustizia,
alla sospensione dei diritti, alla morte, mai
giustificata dall’improvvisazione, e all’inadeguatezza delle strutture sanitarie, o alla
reclusione e l’oblio che accompagnano chi
è qualificato “malato di mente”. Di questo
e altro dovremo imparare a indignarci e a
sentirci responsabili.
Antonino Mantineo
Presidente del Cesv Messina
Sanità:
l’eterna emergenza
Morire di cattiva sanità: ci si sta
abituando. Sempre di più. Morire
in Sicilia, poi, è ancora più frequente, come denunciano quotidianamente i giornali. Tra i condizionamenti pesanti della cattiva politica
(con il trionfo del clientelismo) e
gli eterni disservizi delle strutture
sanitarie, si vive in perenne emergenza. Liste di attesa estenuanti,
frequenti danni subiti durante il
ricovero, precaria organizzazione dei servizi, edifici inadeguati,
apparecchiature obsolete. E poi,
come aggravante, emergono l’incapacità di ascolto e la scarsa
attenzione al paziente da parte di
parecchi medici e infermieri. L’intelligenza emotiva, quella che ti
fa vedere nel malato una persona che soffre e che ha bisogno di
una relazione autentica, rimane
un’utopia. Si tratta di un problema
culturale spesso ignorato a livello
nazionale. Al contrario, andrebbe
inserito tra le priorità, nell’elenco
infinito dei disagi e delle carenze.
Per citare solo il territorio messinese, si vada all’ospedale Papardo, al Piemonte o al Policlinico, in
tanti portano sulle spalle il triste
bagaglio di esperienze mortificanti e dolorose. Dai pazienti sollevati
a fatica dai parenti, nelle corsie,
agli ascensori eternamente guasti, giorno dopo giorno, il diritto
alla salute mostra le sue crepe
profonde.
M.O.
S
ono quelli che la casa
la trovano in ospedale. Dopo anni trascorsi sulla strada. Sono quelli
che, quando finiscono in
ospedale, vi rimangono per
mesi. Anche quando non ne
hanno più bisogno. Sono
quelli che innescano il gioco dello scaricabarile tra Asl
e Istituzione per i Servizi
Sociali.
V. B. è uno di questi. Un giorno di venti mesi fa accusa
un malore e viene ricoverato
al Policlinico universitario di
Messina. Oggi è ancora là.
E se gli dici che i medici lo
considerano guarito, reagisce come le persone cui
viene intimato lo sfratto.“Chi
lo dice? Io sto ancora male.
E poi, dove devo andare?”.
Per il primario dell’Unità
operativa che lo accoglie,
V. può essere dimesso. “Da
almeno 14 mesi non ha più
ragione di essere trattenuto
in corsia. Non fa alcuna terapia. Al massimo, avrebbe
bisogno di un po’ di riabilitazione motoria“, sottolinea. I
sanitari più volte gli hanno
comunicato che il giorno
seguente sarebbe stato dimesso. Invano, a quanto
pare. ”Non possiamo certo
prenderlo con la forza e buttarlo in mezzo alla strada”, si
giustifica il primario. V. non
ha alcun reddito, non ha una
casa, e i familiari non ne vogliono sapere. Ma se è ancora in ospedale, è perché
di lui neanche le istituzioni
si sono occupate. Il Policlinico è sguarnito di assistenti
sociali e sono state investite del caso sia l’Asl, per un
eventuale ricovero in Rsa
(Residenza sanitaria assistenziale), sia l’Istituzione
per i Servizi Sociali. Nessun
risultato. “Il caso in questione
è sia sanitario, sia sociale.
Sarebbe opportuno che Asl
e Servizi Sociali collaborassero”, affermano alcuni dirigenti dello staff della direzione sanitaria. Invece sembra
che Asl e Servizi Sociali non
riescano a collaborare, a sei
anni dall’emanazione della
legge 328. Per l’Uvm
(Unità di valutazione
multidimensionale) dell’Asl, V. ha 7 anni in
meno dei 65 necessari
per entrare in Rsa. Per
l’Istituzione per i Servizi
Sociali, invece, V. è solo
un caso sanitario. Così
V. è ancora in ospedale.
Alla sanità, intanto, un
giorno di degenza costa
380 euro; 11.400 euro
al mese. Ma il caso non
è certo isolato. Sempre al Policlinico, F.G.
è ricoverato dall’ottobre
scorso.
Ha subito un delicato
intervento alla gola. Da
oltre tre mesi e mezzo,
però, F. è solo parcheggiato in ospedale. Attende
che si trovi una sistemazione
che gli garantisca un tetto e
il vitto. F. è in una situazione
analoga a quella di V. Senza
casa, né reddito, e con i familiari che non ne vogliono
sapere. “Non so più dove
sbattere la testa. Per l’Asl,
non ci sono i presupposti
per sistemarlo in Rsa. Non
ha bisogno di riabilitazione
e non ha 65 anni”, dice un
assistente sociale. E l’Istituzione per i Servizi Sociali?
“Lasciamo perdere. Dopo
mesi di estenuanti telefonate, sono stata costretta a
chiedere udienza all’asses-
sore alle Politiche sociali.
Per fortuna, i sanitari del
reparto che lo accoglie si
stanno dimostrando molto
sensibili”, sottolinea l’operatrice del Sert. Se F. e V.
sono ancora in attesa, a J.
F., invece, è andata un po’
meglio.
Dopo un mese e mezzo in
ospedale, è stato trasferito
un caso sanitario e sociale,
il Comune potrebbe mettere
a disposizione un alloggio
e l’Asl farsi carico dell’assistenza domiciliare”, spiega
un medico dell’ospedale
di Patti, non sapendo che,
nella città dello Stretto, Asl
e Servizi Sociali si ignorano. Intanto J. si è stancato
di stare lontano dai pochi le-
alla lungodegenza di Patti.
Ma solo perché un’associazione di volontariato ha tenuto duro e si è opposta alla
soluzione che l’assistente
sociale del nosocomio, previo coinvolgimento dei Servizi Sociali e dell’Asl, aveva
prospettato. J. avrebbe trovato rifugio in una Casa di
accoglienza. Ma solo per la
notte. Il giorno avrebbe dovuto trascorrerlo, in pieno
inverno, nella sua vecchia
“casa”: la strada. J. è un paziente affetto da gravi patologie epatiche e ha bisogno
dell’insulina quattro volte al
giorno. “Dato che si tratta di
gami affettivi, che si era costruito a Messina, e soprattutto desidera riprendere il
suo lavoro di orologiaio. Per
Salvatore Gulletta, responsabile di una Casa di accoglienza notturna, questo
tipo di problemi non viene
affrontato adeguatamente:
“Spesso veniamo contattati
dagli assistenti sociali, che
ci chiedono di accogliere
delle persone dimesse dagli ospedali. Sono uomini e
donne che non hanno niente
e nessuno. Dormono qualche giorno da noi e poi, all’improvviso, scompaiono”.
Michele Schinella
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La storia
La storia
“La morte di mio figlio e il silenzio delle istituzioni”
Rosaria Campo, madre di Davide, il dodicenne deceduto in seguito a un
intervento al Policlinico di Messina, racconta la solitudine e il dolore della
sua famiglia. “E’ davvero difficile credere che giustizia sarà fatta”.
“Basta un attimo, un niente, e la
vita perde ogni senso. Dal momento in cui un dottore, uscendo dalla sala operatoria, mi ha
poggiato la mano sulla spalla, la
mia vita si è arrestata. Con mio
figlio, sono morta anch’io“. E’ il
19 settembre del 2005. Un banale intervento di appendicectomia
si trasforma in tragedia. Davide
Campo, di soli 12 anni, entra in
una sala operatoria del Policlinico Universitario di Messina e ne
esce morto. “Le mie giornate si
consumano tra il cimitero, la poltrona o il letto”, confida la madre
di Davide, stretta in uno scialle
nero. “Da cinque mesi non riesco
a fare altro“. Accasciata su una
poltrona di casa sua, nella periferia messinese, la signora Rosaria accetta di raccontare come è
cambiata la sua vita e quella del
padre e dei fratelli di Davide. E
come la già difficile vita familiare
sia diventata un inferno. Una figlia
fin da piccola gravemente malata.
Un marito che ha perso il lavoro
e che non ha trovato la forza di
ricominciare. E Davide, l’ultimo
di quattro figli, “quello a cui ero
più legata“, che non c’è più. Che
se ne è andato così. All’improvviso. Inaspettatamente. “Davide
era un bambino sano e pieno di
vita - sottolinea la madre con le
lacrime agli occhi - e mi è stato
portato via da gravi e ingiustificabili errori da parte di chi avrebbe
dovuto curarlo“. Quando ripensa
a quello che è accaduto in sala
operatoria, quel maledetto 19
settembre, il dolore della signora
Rosaria si trasforma in rabbia. Le
perizie disposte dalla magistratura avrebbero dato risultati chiari.
Valutando che Davide sia morto
per gravi imperizie dell’anestesista, lo scorso 14 dicembre, il
pubblico ministero ne ha chiesto
il rinvio a giudizio. Omicidio col-
poso il capo d’imputazione. “I
medici sono uomini e possono
sbagliare, l’errore è sempre dietro l’angolo, ma l’anestesia è stata eseguita in maniera maldestra.
Dopo il collasso di Davide, il medico è entrato nel pallone e non
ha fatto la cosa più elementare.
Quella che gli avrebbe salvato
la vita. Poi, come se nulla fosse,
dopo un solo mese di sospensione, l’anestesista ha ripreso il
suo lavoro. Questo non lo posso
accettare“, protesta indignata la
signora. Da qui il desiderio di ottenere giustizia. Di sentire che la
morte di Davide non è stata vana.
Che si sia compresa l’enormità di
quello che è accaduto. Solo questo può aiutare la famiglia Campo a riprendere confidenza con la
vita. I segnali però non sono incoraggianti. I casi di mala sanità
che si ripetono e che, ogni volta,
“è come se mi smuovessero le
viscere“. La sensazione che non
vi sia “ la volontà e la capacità di
far sì che quello che è accaduto a noi non accada ad altri”. La
convinzione che ”chi sarà riconosciuto colpevole della morte di
Davide non subirà alcuna conseguenza”. Subito dopo la tragedia,
l’azienda Policlinico, “per avere
certezze assolute“, come dichiarò il direttore sanitario, ha disposto un’inchiesta interna. Di quelle
che vengono sempre annunciate
e che poi, spesso, evaporano nel
nulla. Il legale della famiglia Campo ne ha chiesto più volte l’esito,
ricevendo soltanto silenzio. La
stessa silenziosa lontananza che
“le persone che rappresentano le
istituzioni politico- sanitarie della
città ci hanno fatto sempre sentire. Nessuno ci ha mai contattato,
anche solo per esprimere il cordoglio, o chiederci come stavamo“,
dice con amarezza la signora.
Quando i familiari hanno orga-
nizzato, il 19 gennaio, una manifestazione in ricordo di Davide,
percependo che (dopo l’iniziale
clamore) sulla vicenda “stava calando il silenzio“, il modo con cui
l’iniziativa è stata accolta “ci ha
fatto quasi sentire dei disturbatori. Come se la nostra esigenza di
ottenere giustizia costituisse un
problema”. La vera solidarietà, la
famiglia Campo l’ha ricevuta dalla comunità di Santa Lucia sopra
Contesse. In particolare, dai vicini di casa, che, a dispetto della
nomea, “si sono prodigati in ogni
modo per farci sentire meno soli“
e dagli operatori del Centro di aggregazione giovanile (Cag) che
Davide frequentava con entusiasmo. Operatori che “ci hanno
fornito anche aiuto economico“.
Mentre parla, la signora ha appena saputo che il Centro, un vero e
proprio baluardo di speranza nel
deserto di delinquenza e droga di
S. Lucia, chiuderà. “E’ come se
Davide morisse una seconda volta“, commenta. Davide divorava
il tempo tra la scuola e il Cag, e
aveva una grande passione per
il calcio. “Era uno spettacolo vederlo palleggiare dalla finestra di
casa”. Forse si può immaginare
che padroneggiasse il cuoio con
la stessa ”dolcezza e gentilezza“ che ricorda una sua amica,
in una commovente lettera adagiata sulla sua lapide. “Più volte
mi aveva chiesto di iscriverlo alla
scuola calcio, ma costava troppo
e noi non ce lo potevamo permettere”, ricorda la signora Rosaria,
quasi a giustificarsi. Ma, proprio
nel mese di settembre, si aprì
una possibilità e la madre decise
di coglierla. Davide però voleva
esserne sicuro e, “prima di entrare in sala operatoria, se l’era fatto
promettere”.
Michele Schinella
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Caratozzolo e Materia:
“Ci rimettiamo alla verità della magistratura”
Le dichiarazioni di Rosaria Campo chiamano in causa l’azienda Policlinico e le persone
che la rappresentano: il direttore generale, Carmelo Caratozzolo, e il direttore sanitario,
Giovanni Materia.
Caratozzolo:
“Credo che il nostro silenzio non
sia stato dovuto
all’indifferenza,
ma allo sbigottimento”.
“Ho
incontrato
molte resistenze da
parte di chi non ha
compreso che, se
si vuole migliorare
la qualità della sanità, è necessario
accendere i riflettori sui problemi”.
Dopo la morte di Davide, è stata disposta un’inchiesta interna. Quali i risultati?
Materia: “La nostra inchiesta ha esaminato tutto quanto è stato fatto tra il momento
in cui Davide è stato ricoverato e un attimo prima che si verificasse la tragedia. Sotto
questo profilo, non è stata rilevata alcuna irregolarità, né anomalia. Le apparecchiature erano perfettamente funzionanti. Le cause della morte di Davide e le eventuali
responsabilità sono oggetto di un’inchiesta della magistratura. Un evento di questo
tipo può avere un’unica verità. Noi ci rimettiamo alla verità della magistratura. D’altro canto, non potrebbe essere altrimenti, visto che da subito la salma di Davide è
stata posta sotto sequestro e noi non abbiamo potuto effettuare alcun accertamento
autoptico”.
Che cosa intende fare l’azienda Policlinico?
Caratozzolo: “Il Policlinico, se e quando verrà disposto il rinvio a giudizio dell’anestesista, sulla base delle risultanze processuali, valuterà l’opportunità della costituzione
come parte civile e dopo, se ne verrà accertata la responsabilità, adotterà ogni provvedimento amministrativo consentito dalla legge”.
Materia: “Abbiamo subito disposto la sospensione in via cautelativa, per un mese,
dell’anestesista. Ora svolge il suo lavoro di prima, è vero, ma con compiti che escludono una sua attività autonoma e diretta in sala operatoria. Io penso che, anche per
lei, quanto accaduto sia stata una tragedia e che non sarebbe civile sottoporla a un
processo sommario”.
L’anestesista proveniva da un’altra struttura e forse era al suo primo intervento al
Policlinico. Non è stato imprudente lasciarla, da subito, agire da sola?
Materia: “L’anestesista si era specializzata nella nostra struttura e quindi godeva
della piena fiducia dei responsabili di divisione”.
Caratozzolo: “Penso di sì. Da questa vicenda debbono trarsi tutti i possibili insegnamenti per il futuro”.
Di fronte al dramma della famiglia, i rappresentanti delle istituzioni non dovrebbero
mostrare maggiore vicinanza?
Materia: “Il momento era difficile anche per noi. Io, fin da subito, ho mostrato grande
rispetto per il dolore della famiglia. Ho fatto lo stesso in occasione del corteo del 19
gennaio, pur essendo preoccupato che la manifestazione potesse creare dei problemi di viabilità alle ambulanze”.
Caratozzolo: “Credo che il nostro silenzio non sia stato dovuto all’indifferenza, ma
allo sbigottimento. Di fronte a quanto accaduto, da un lato, abbiamo attivato meccanismi interni che riducano al minimo il rischio operatorio e, dall’altro, abbiamo evitato
qualsiasi arroccamento o difesa a oltranza. Questa mia apertura alla discussione mi
è costata molto, visti gli attacchi personali che ne sono scaturiti. Ho incontrato molte
resistenze da parte di chi non ha compreso che, se si vuole migliorare la qualità
della sanità, è necessario accendere i riflettori sui problemi e non nascondersi dietro
un dito”.
A che cosa si riferisce?
Caratozzolo:“Osservo una certa disattenzione della città su queste problematiche.
Non solo da parte della gente comune, ma soprattutto da parte di chi impersona le
istituzioni democratiche. Non sono siciliano, vengo dall’Umbria, e il mio mandato
scade tra 10 mesi. Di certo, penso che il nuovo sindaco di Messina, da progressista,
non potrà non porre in primo piano il diritto alla salute, come punto fondamentale
della sua azione di governo”.
M.S.
6
Proposte
Le interviste
“Nei reparti i migranti sono lasciati soli”
Fuori dalla logica dei manicomi e degli ospedali giudiziari
La psichiatra Anna Schepis e l’impegno con il Circolo Arci “Thomas Sankara” di Messina.
“Ci sono ancora troppe resistenze all’ingresso dei mediatori culturali negli ospedali”.
Per Biagio Gennaro, direttore del Dipartimento di Salute
mentale, indietro non si torna.
“Oggi l’ingresso negli ospedali della figura dei mediatori culturali è indispensabile. Come può un migrante, soprattutto
se appena arrivato in Italia, orientarsi in un mondo completamente differente rispetto al suo? All’interno delle strutture
sanitarie, questa distanza dovrebbe essere colmata proprio
dai mediatori. Persone che hanno avviato un percorso in
campo pedagogico e culturale, dopo avere abbandonato
anni fa i loro Paesi”, afferma con convinzione la psichiatra
Anna Schepis, che collabora costantemente con il Circolo
Arci “Thomas Sankara” di Messina. “Eppure, ci sono ancora
forti resistenze, da parte soprattutto di medici e dirigenti, a
introdurre nei reparti questi operatori. Sono considerati un
inciampo e non una risorsa. Tuttavia, se non si creano ponti
culturali e forme di comunicazione, il rischio è che prevalgano equivoci e disagi. Si pensi al campo della psichiatria.
Se una persona arriva al pronto soccorso e non si conosce
la cultura del suo Paese, ad esempio, esiste il pericolo che
alcune caratteristiche del suo mondo vengano considerate
delle patologie. Inoltre, da una cultura a un’altra, cambiano
i significati e i simboli, con conseguenze inevitabili anche
in campo medico”, spiega con passione la dottoressa. “Si
tratta di incomprensioni che provocano poi, nel settore psichiatrico, esplosioni maggiori di distruttività. Ma pensiamo
anche quanto possa essere imbarazzante, per una donna,
farsi visitare da un ginecologo”. Da qui l’avvio di un progetto
di “Etnopsichiatria”, promosso dal Circolo Arci “T. Sankara”
assieme al Dipartimento di Messina Sud, con una serie di
incontri settimanali nel 2005 presso l’ospedale Piemonte.
Incontri riservati a psichiatri e infermieri. “Devo dire che, al
contrario di quanto si possa pensare, ho riscontrato un maggiore desiderio di comprendere le differenze da parte degli
infermieri e, invece, una minore attenzione da parte dei medici. Non è un caso che questo progetto si sia arenato. Ci
sono ancora – tiene a sottolineare la dottoressa Schepis,
che in precedenza ha lavorato a Torino e a Genova – molte resistenze a introdurre i mediatori culturali negli ospedali
e a favorire il dialogo tra realtà differenti. Eppure, proprio i
medici otterrebbero notevoli vantaggi da una comprensione
migliore dei loro pazienti”. Per la psichiatra, “oggi è tutto affidato al volontariato e alle associazioni. Quando mi segnalano dei casi, io cerco di dirottarli su un medico amico, che
possa essere comprensivo. Ma queste esigenze dovrebbero essere affrontate dal servizio sanitario. Così i volontari
diventano un alibi affinché il settore pubblico continui a non
funzionare”.
Marco Olivieri
“Per le aziende sanitarie siamo solo numeri”
“Il diritto alla salute non esiste. Se conosci qualcuno sarai
curato. Altrimenti devi aspettare. Persino morire”, afferma
con tristezza Zaira. Il suo Paese è la Tunisia. Zaira vive da
molti anni in Italia ed è mediatrice culturale per il Circolo
“Thomas Sankara” dell’Arci di Messina. “All’interno degli
ospedali dovrebbe essere introdotta la figura del mediatore culturale, che faciliti la comunicazione tra l’immigrato
e l’azienda ospedaliera. Alcuni migranti non conoscono la
lingua e così non riescono a orientarsi. Ad esempio, se in
Italia uno dice che sente male al cuore, significa che ha
disturbi cardiologici, mentre in altre culture significa che
si è stanchi, stressati, e non che si ha bisogno di cure”,
afferma la mediatrice culturale dell’Arci. “Da volontaria,
ho assistito per un mese e mezzo un ragazzo tunisino.
Era malato terminale a causa di un tumore ai polmoni.
Al Papardo di Messina lo hanno tenuto in isolamento,
ma in realtà non aveva una malattia contagiosa”, sottolinea, mentre nei suoi occhi è possibile leggere il dolore.
“Puzzava, aveva le unghie lunghe e la barba lunghissima.
Nessuno si prendeva cura di lui. Io ho portato biancheria, bagnoschiuma, tutto il necessario per l’igiene. Ma se
non c’ero io?”, si chiede con rabbia. “Un giorno ho avuto
una sorpresa: i medici mi dicevano che non poteva più
rimanere là. Eppure, il ragazzo stava per morire e aveva
bisogno di un’assistenza speciale. Abbiamo trovato delle alternative all’ospedale, ma come avrebbe sostenuto il
dolore senza morfina? La verità è che, quando qualcuno
entra in un’azienda sanitaria, diventa un numero. Nei nostri ospedali non c’è differenza tra immigrato e cittadino
italiano. C’è solo cattiva sanità. Ho visto una ragazza italiana – continua Zaira - che doveva partorire. Aveva una
dilatazione a sei centimetri, ma senza dolori. La dottoressa gli diceva di fingere le doglie, altrimenti non l’avrebbero
fatta partorire. Se il parto non è programmato, non viene
fatto. Ho rivisto la ragazza dopo 15 giorni. Sembrava una
vecchietta. Le avevano “dimenticato” una garza durante
l’intervento, che era stato fatto d’urgenza”, racconta, ricordando il viso sciupato e sofferente della donna. “Ecco,
il problema della cattiva sanità investe l’assenza di strutture, l’assenza di umanità da parte degli operatori sanitari
e anche l’assenza di mediatori culturali. In particolare, per
i migranti, la strada dei diritti è ancora molto lunga”.
D. R.
Ha grinta, passione e schiettezza. Biagio
Gennaro, direttore del Dipartimento di Salute
mentale dell’Ausl 5 di Messina, va subito al
sodo: “Ormai gran parte degli operatori della
salute mentale sono convinti che gli Ospedali
psichiatrici giudiziari vadano abbattuti. Sono
ambienti in cui la patologia mentale non può
trovare una soluzione. A Messina si sono approntate delle politiche d’intesa tra il Dipartimento di salute mentale, l’Opg di Barcellona
e alcune realtà del volontariato per favorire
l’uscita di alcuni soggetti dall’Ospedale psichiatrico giudiziario”, spiega il direttore. “Prima
c’erano i dimenticati dell’Opg, ossia gente che
per molti anni restava in misura di sicurezza
provvisoria, senza un processo né una sentenza. Anche per un reato di poco conto alcuni
entravano in Opg e non ne uscivano più. E’ un
obbrobrio che va superato”, sbotta indignato.
“Così, come Dipartimento, abbiamo consentito ad alcuni soggetti che stavano all’interno
della struttura di Barcellona, sulla scorta di un
progetto riabilitativo, di uscire. Ma, per un superamento completo, è necessaria una modifica del Codice di procedura penale. Qualunque paziente psichiatrico – afferma Gennaro
- è una persona che ha il diritto a essere curato, ed è attraverso la tutela di questo diritto
che passa la salvaguardia della società. Ma
dentro l’Opg non può essere curato, perché
la logica è quella di emarginare, e non di riabilitare”. Il direttore del Dipartimento di Salute
mentale ritorna indietro di qualche anno. Ripensa all’ospedale psichiatrico Mandalari e
alla sua chiusura. “Abbiamo deciso di dare
una spallata a quel sistema. C’era un coacervo di interessi che si opponeva alla chiusura e
metteva insieme operatori, familiari, interessi
politici ed economici”, ricorda. “Abbiamo aperto una serie di strutture
alternative al Mandalari. Finalmente
la persona veniva considerata nella propria interezza e cominciava a
contare. I pazienti imparavano cose
elementari, come mangiare o andare al bagno. Dopo un primo periodo,
però, ci accorgemmo che i pazienti
tendevano a regredire e si reintroducevano logiche neo-manicomiali.
L’operatore iniziava a riprendere il
sopravvento. Pensammo che era
necessario aumentare gli spazi di
vita, di dignità e di libertà. Si doveva
rafforzare la relazione e la presa di
coscienza delle proprie potenzialità”.
Da qui la nascita, nella provincia di
Messina, delle Star (Strutture abitative riabilitative). “Si è realizzato un
mix tra pubblico e privato, dando vita
alla migliore risposta per la riabilitazione. La responsabilità e la gestione
del progetto sono affidate al servizio
pubblico. E’ stata alleggerita la presenza sanitaria all’interno delle ville
e, durante il giorno, i pazienti sono
accompagnati dai ragazzi delle cooperative. Si ricrea per la prima volta il
clima familiare. L’uso dei farmaci viene ridotto grazie a queste strutture
aperte. Non esistono stanze chiuse
e, in molte ville, le persone sono ben
inserite nella città”, afferma con passione il direttore del Dipartimento.
“Di certo, i vecchi metodi sono stati
archiviati”.
Donatella Raccuia
7
La legge Basaglia
“L’unica vera legge di riforma del nostro Paese“. Così Norberto Bobbio definì la legge 180 del
1978. La cosiddetta legge Basaglia, dal nome
dello psichiatra che ispirò la decisione di chiudere i manicomi. Principio cardine è che il malato mentale è un paziente “normale”, da curare
allo stesso modo di qualunque altro, in modo da
favorirne il recupero e il reinserimento sociale,
evitando l’uso della coercizione. Il Trattamento
sanitario obbligatorio (Tso), infatti, viene reso
possibile “solo se esistono alterazioni psichiche
tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”.
L’attuazione della legge, però, è avvenuta molto lentamente, alla fine degli anni Novanta. Nel
2001, l’Organizzazione mondiale della sanità
(Oms) riconobbe all’Italia il merito di essere stato “l’unico Paese al mondo ad aver operato, con
la 180, contro lo stigma e l’esclusione dei malati
mentali”. La critica più forte mossa alla legge è,
invece, quella di aver lasciato le famiglie sole.
Nel documento conclusivo della Commissione
di indagine sulla salute mentale, approvato dal
Senato il 14 febbraio, si evidenzia che ”gli obiettivi della 180 sono rimasti inattuati a causa della
debole azione di indirizzo e delle criticità riscontrate soprattutto nel settore dell’organizzazione
dei servizi” e che “le attuali carenze derivano da
problemi strutturali, funzionali, finanziari, organizzativi e informativi”. Lo scorso 17 gennaio si
è insediata, presso il ministero della Sanità, la
Commissione nazionale per la Salute mentale,
con il compito di evidenziare i punti di criticità
della 180, in una prospettiva di rivisitazione.
M.S.
La psicanalista Lisciotto:
“Mancano le strutture per affrontare il disagio dei più giovani”
Quindici anni nel settore pubblico, dalle tossicodipendenze alla psichiatria. È iniziata così la
carriera della psicanalista messinese Donatella
Lisciotto. Un’esperienza che definisce, senza
esitazione, entusiasmante, nonostante le difficoltà dei primi anni, legate agli approcci con
i tossicodipendenti. “Una categoria di pazienti
molto complessa”. Il Cim, Centro di igiene mentale, il suo primo posto di lavoro alle dipendenze
dell’Asl 42. Poi una straordinaria occasione di
crescita, tanto umana, quanto professionale: il
lavoro nella prima Casa famiglia sorta a Messina e, infine, il passaggio dal settore pubblico
al privato. “Il cambiamento avvenne per mia
decisione. Il lavoro nell’Asl puntava più sulla
quantità che sulla qualità. Bisognava produrre
per l’azienda. Un giorno decisi di lavorare per
me stessa e per la mia crescita professionale.
Cominciai a dedicarmi al mio studio di analista,
vi dedicai più tempo”. Nacque in questo periodo
l’idea dei Laboratori. Il professore Perrotti, autorevole psicanalista, sulla scia dell’esperienza
romana, promosse l’idea della costituzione di
una struttura del genere anche a Messina. “Così
abbiamo creato, quattro anni fa, il Laboratorio
psicoanalitico ”Vicolo Cicala”, per dare l’opportunità ai degenti, che non abbiano sufficienti disponibilità economiche, di poter usufruire di una
terapia, con tutte le caratteristiche di una struttura privata: la riservatezza, l’accoglienza, la
puntualità e un’atmosfera tranquilla”, spiega la
dottoressa Lisciotto. Nel suo studio di psicanalista di scuola freudiana, non manca ovviamente
il celebre lettino, culla e rifugio di tanti pazienti.
Dottoressa, quali sono le emergenze nel nostro territorio in merito alla salute mentale?
“Il malessere è grande. Esistono buone iniziative, come le Case famiglia e alcuni Centri, ma
mancano il coordinamento tra le varie realtà e
un’efficace comunicazione a livello di Azienda
sanitaria locale. I problemi maggiori, a Messina e in provincia, riguardano l’assenza di
strutture”.
Quali sono le carenze più preoccupanti?
“Se un ragazzo comincia a manifestare problemi in campo psichiatrico, manca una struttura
adeguata che lo possa accogliere. Non si può
mettere un giovane, che presenta un primo
momento di scompenso psicotico, assieme a
persone che hanno trent’anni di manicomio alle
spalle. Con un ambiente adeguato e cure efficaci, la persona può essere recuperata, evitando
addirittura il ricovero. Sarebbe bene quindi creare delle strutture che curino l’esordio psichiatrico, rivolte per lo più ai ragazzi dai 18 ai 30 anni.
Non parliamo poi dei più piccoli. Se un bambino
è malato di mente, qui a Messina, non esiste
una struttura che se ne possa occupare”.
Appare prioritario il lavoro di prevenzione…
“Sì, soprattutto nelle scuole. Con il supporto degli
psicologi, dovrebbe nascere una nuova cultura,
più attenta alla sensibilità dei più giovani. Proprio perché le emergenze sono molte, sarebbe
bene che un’équipe di specialisti affrontasse in
maniera organica i problemi del nostro territorio.
Qui, ancora, troppo spesso tutto è affidato alla
buona volontà dei singoli”.
Fiorella Pardo – Rita Re
8
L’inchiesta
L’inchiesta
Chi viene rinchiuso in Opg
Tra gli internati di Barcellona
La testimonianza:
una mattina dentro l’Ospedale psichiatrico giudiziario, in provincia di Messina.
Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. “V. Madia” si
legge sopra l’imponente portone in ferro. Suoniamo. Ci aprono. Sono le 9. Ci
troviamo davanti gli agenti della polizia
penitenziaria. E’ una fredda domenica
di febbraio. La domenica di Carnevale.
Chi ci introduce nel mondo della malattia mentale, sfociata in reato, varca questo portone da vent’anni. Ogni giorno.
Più volte al giorno. E’ don Pippo Insana.
Cappellano dell’Opg e soprattutto battagliero difensore della dignità dei 185 internati che lo popolano. Oggi è il giorno
della Santa Messa. “In Opg non troverete né criminali, né mostri. Solo delle persone malate che hanno commesso dei
reati. In alcuni casi orrendi. In molti altri
lievi. Lo hanno fatto, però, senza nemmeno rendersene conto. Persone malate che avevano bisogno di cura allora e
ancora di più ora“. Le parole di Francesco ci risuonano nella mente non appena intravediamo alcune persone lungo il
viale che porta ai reparti. Francesco lo
avevamo incontrato alla Casa di accoglienza e solidarietà che padre Pippo ha
fondato. Lì si trova da oltre un anno in libertà vigilata, dopo aver trascorso 8 dei
suoi 33 anni in Opg. Pochi secondi e un
nugolo di internati si stringe con affetto a noi. Sono quelli che stanno meglio.
Che trovano la forza di alzarsi dal letto.
“Molti, troppi, rimangono tutto il giorno a
letto. In stato di abbandono. E si arrugginiscono“, dice padre Pippo. Alcuni lavoranti sono impegnati a rimuovere i segni
della festa della sera precedente. “Ieri
sera i volontari hanno organizzato una
festa di Carnevale, con la partecipazione di parecchi internati“, spiega padre
Pippo. Poi percorriamo in corteo il corridoio del reparto dove vengono ristretti
quelli che stanno peggio. L’ambiente è
squallido. Non incontriamo né medici né
infermieri. Solo agenti. Giungiamo nella
cappella. Padre Pippo inizia a celebrare
messa. Tra gli internati c’è una solidarietà che non t’aspetti. Lo si percepisce
dai reciproci gesti d’affetto. Se ne ha la
conferma al momento dello scambio
del segno di pace. Poi padre Pippo si
sofferma su quello che è accaduto tre
giorni prima. ”Antonio non ce l’ha fatta”,
comunica. Gli occhi di alcuni si fanno
umidi. Pensiamo a un internato deceduto in seguito a malattia. Sbagliamo.
Antonio non ce l’ha fatta a sopportare il
peso della sua malattia mentale, curata
con la reclusione. E si è suicidato. “Era
una persona di una certa intelligenza.
Sembrava stesse bene, però mi diceva
sempre che aveva paura, io non capivo il perché“, sussurra Claudio, seduto
dietro di noi. D’improvviso Guido prende
la parola. “Guardate che suicidarsi è un
peccato mortale e non è giusto, perché
i compagni poi stanno male“, ammonisce. La messa finisce. Alcuni internati
si avvicinano a noi. ”Padre, che dice,
mi faranno uscire di qui in libertà vigilata“?, domanda Fabrizio. Il cappellano
di questo posto non può essere solo un
cappellano. Deve imparare a farsi anche consulente giuridico e psicologo.
Poi ripercorriamo lo stesso corridoio di
prima. In senso inverso. Chiediamo ad
alcuni internati come stiano. ”Male”, ci
rispondono tutti. Entriamo nelle stanze,
o meglio, nelle celle. L’impressione di
squallore si accentua. Pareti scrostate.
Acqua per terra. Umidità ai soffitti. 4 letti
di lenzuola e coperte consunte sopra un
materasso di spugna. Nessun suppellettile. Una tazza del water in un angolo
dello stesso ambiente dove si dorme e
si mangia. I riscaldamenti sono spenti.
Chiediamo se funzionano. “Alcune volte
sì, altre no. Ieri
sera non li hanno
accesi”, rispondono.
Diversi
sono gli internati che troviamo
a letto. Coperti
dai piedi alla testa. In una cella
solo
vediamo
la branda. E il
materasso? “Lo
tolgono perché
perch
chi ci dorme lo
bagna sempre.
Si fa continuamente la pip
pipì ad-
Visita del ministro Castelli all’Opg Foto M.Schinella
dosso“, rispondono alcuni internati. Poi
ce lo indicano. E’ un omone obeso. Ha
i pantaloni bagnati di urina e se ne sta
immobile a osservarci. “Capita spesso
che un internato si prenda cura di un
suo compagno
di cella, provvedendo a lavar- Web image
lo e a pulirlo”.
L’omone della
pipì ci ricorda
un’altra
delle
cose che Francesco ci aveva
raccontato. Con
circospezione,
Mario si avvicina
e ci invita a seguirlo nella sua
cella. Si accosta
al suo letto, solleva la coperta
e spuntano una
gatta e i suoi cuccioli. ”Avevano molto
freddo e ho pensato di portarli dentro”, si
giustifica. “Beppe, questo è un tuo paesano”, dice poi padre Pippo a un internato, indicando uno di noi. “Salutalo”, gli
ordina. Beppe si desta lentamente dal
torpore e allunga la mano. Non fa altro.
”Cerca di trovare la forza di alzarti, non
te ne puoi stare tutto il giorno a letto, lo
capisci“, lo sprona padre Pippo, che rivolgendosi a noi spiega: ”Quest’uomo è
di una bontà e dolcezza uniche. Qualche anno fa era andato in comunità. Lì
ha litigato, come capita a ognuno di noi,
ed è stato riportato qua. Ora è ridotto
una larva. E peggiora giorno dopo giorno”. L’agente comincia un po’ a spazientirsi. Ci congediamo e usciamo. La porta
del reparto si chiude alle nostre spalle.
Del personale sanitario neanche l’ombra. Entriamo nel reparto nuovo. Quello
che il 17 febbraio il ministro Castelli è
venuto a inaugurare. 60 nuovi posti su
due piani. Hai come l’impressione di
passare da una bettola di terz’ordine a
una suite. “Padre, qui è bello, ma cinque
letti in una stanza sono troppi. Non c’è
neanche lo spazio di muoverti“, dice un
internato, intento a vedere la tv. Rapidamente visitiamo tutte le stanze. Troviamo molta gente a letto. Salutiamo un
signore, che appena ci vede sgrana gli
occhi. “Come sta?“, domandiamo. “Mi
sento molto giù. Non ho voglia di alzarmi”, risponde. Del personale sanitario
nessuna traccia ancora. Guadagniamo
la via d’uscita. Sono le 11.
Michele Schinella
La misura di sicurezza del ricovero in Opg è disposta nei confronti dell’autore di un fatto di reato affetto
da infermità di mente e, in quanto tale, non imputabile ma riconosciuto come socialmente pericoloso.
La durata massima della misura è indeterminata e
dipende dalla persistenza della pericolosità sociale.
Quando viene meno, il giudice ne dispone la revoca.
Di recente, la Corte Costituzionale, con due sentenze (del 2003 e 2004) relative, rispettivamente, alla
misura definitiva e alla provvisoria, ha scardinato il
rigido automatismo del codice Rocco (1930), che
impediva al giudice di applicare una misura alternativa al ricovero in Opg. Oggi si può quindi assicurare adeguate cure all’infermo di mente, attraverso
la libertà vigilata, con affidamento ai Dipartimenti
di Salute mentale. In Opg, inoltre, sono ricoverati
anche i destinatari della misura di sicurezza della
Casa di custodia e cura. Quest’ultima si applica (in
aggiunta al carcere) ai condannati
cui è riconosciuta la seminfermità
mentale e, quindi, una riduzione
di pena. Oltre che a titolo di misura di sicurezza, il ricovero in Opg
lo si può disporre pure nel caso di
infermità psichica sopravvenuta,
sia per accertarne, mediante osservazione, la reale sussistenza,
sia quando il giudice la ritenga
tale da impedire l’esecuzione in
carcere della pena. Nei sei Opg
(Barcellona P.G., Napoli, Aversa,
Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere,
Reggio Emilia) sono internate circa 1300 persone.
M.S.
9
Web image
Una Casa nel segno dell’accoglienza
L’altra faccia dell’Opg di Barcellona è la
Casa di solidarietà e di accoglienza fondata
da padre Pippo Insana. E’ la faccia bella.
Il ponte tra il dentro e il fuori. Il rifugio per
chi fuori non ha più nessuno. Di ritorno
dall’Ospedale
psichiatrico
giudiziario
ritroviamo Francesco. Il suo nome, così
come quello dei suoi compagni, è fittizio,
in modo da garantirne la riservatezza.
Francesco è ai fornelli. E’ lui che si occupa
di preparare il pranzo. “Ho preso il diploma
di cuoco e ho lavorato in diversi ristoranti“,
dice con una punta di vanità. Adesso che
può pensare al suo futuro, è preda dei
rimorsi e dei rimpianti. “Prima di fare quello
che ho fatto, sono stato male per sei mesi.
Se in quel periodo fossi stato in qualche
modo aiutato, non avrei provocato tutto quel
dolore. E non avrei perso dieci anni della
mia vita così“. Si attende un ospite a pranzo.
Arriva. E’ un uomo di sessantacinque anni
con i baffi. “Ciao Sergio, come stai?” gli
domanda Francesco. Sergio, di anni in Opg,
ne ha trascorsi dieci. Dopo, si è stabilito a
Barcellona. Ha preso in affitto una casa e
l’ha arredata con i mobili che si è costruito
con le proprie mani. Non se l’è sentita di
tornare al suo paese. “Dopo quello che è
successo, dopo tutti questi anni, preferisco
rimanere qua“. Sergio conduceva una
vita che si direbbe ordinaria. ”Avevo un
buon lavoro, una moglie e dei figli”. Un
giorno, però, perde la testa e, con essa,
tutta la famiglia. “E’ stato un attimo. Non ci
ho visto più. Dal quel giorno ho imparato
che non ci si può stupire di niente“. Se gli
domandi come si sta dentro l’Opg, risponde
con una battuta in dialetto: ”Amaru cu ci
capita“. E non aggiunge altro, anche se
lascia intendere che i suoi occhi hanno
visto l’inimmaginabile. Mentre Francesco
è pronto a versare i maccheroni nella
pentola, gli altri ospiti si danno da fare. Una
volontaria dà una mano. “Quanto vi hanno
aiutato i volontari quando stavate dentro?”,
domandiamo. Francesco è il più lesto a
rispondere: “Sono l’unico collegamento
tra il dentro e il fuori. Sono quelli che ci
permettono di sperare che fuori ci sia
ancora qualcuno che crede in noi”. Mario si
occupa di apparecchiare. E’ un uomo alto,
con il viso scavato. “E’ l’amico che mi vuole
più bene, anche se non me lo dimostra
mai”, scherza padre Insana. “Padre Pippo,
certe cose si sentono dentro, non c’è
bisogno di dirle”, tuona Mario. Non aprirà
più bocca. Mario è uscito dall’Ospedale
di Barcellona da dieci anni. Altri dieci li
aveva trascorsi dentro. I familiari non lo
hanno più voluto e lui è rimasto con il suo
amico prediletto. “Sono in molti a essere
abbandonati dalle famiglie - conferma
padre Pippo - e così in tanti, quando ne
cessa la pericolosità sociale, continuano
a rimanere in Opg. Ci sono degli internati
che potrebbero uscire anche subito, ma
non escono perché il Dipartimento di
salute mentale di appartenenza non ha
predisposto il progetto riabilitativo, come
previsto dalla legge“. Cesare non si trova
in questa situazione. Lui, in Opg, è finito
per la denuncia della madre. “Mia madre
Il direttore:
“La maggioranza potrebbe essere curata fuori”
Nunziante Rosania, direttore dell’Opg di Barcellona Pozzo di
Gotto, tiene a sottolineare che “sono molte le carenze, specie
di personale medico, che colpiscono l’Ospedale psichiatrico
giudiziario. Capita purtroppo di non poter somministrare i farmaci
agli internati, perché ne rimaniamo senza. L’Opg non ha medici
di ruolo, se non il direttore e il vicedirettore, impegnati soprattutto
in compiti amministrativi. In questo momento fruiamo dell’opera
di otto psichiatri, per trenta ore ciascuno mensili, a fronte di 190
malati”, denuncia Rosania. “Le responsabilità? Devo dire che in
Sicilia l’amministrazione penitenziaria è stata lasciata sola”. Dalle
eterne emergenze ai metodi adoperati, è vero che nell’Opg si
usa il cosiddetto letto di contenzione? “Sfatiamo una leggenda
mi telefona sempre. Si mette a piangere. Si
è pentita di avermi denunciato. Mi vuole a
casa”, ci racconta con foga. ”E’ vero, padre
Pippo, che mia madre mi vuole a casa?”
insiste. La donna, che in precedenza
l’aveva denunciato, adesso paga l’avvocato
per farlo uscire. Cesare sta usufruendo di
qualche giorno di licenza. “Se non ci fosse
l’abitazione di padre Insana, la licenza non
la potrei ottenere”, dice. Pino, invece, non lo
aspetta nessuno. Non ha ancora terminato
i dieci anni di internamento, ma gli è stata
concessa la libertà vigilata, con obbligo di
risiedere nella Casa. In Opg, Pino è arrivato
perché si è ribellato al padre padrone,
capace di grandi brutalità. “Quando ho visto
che, ancora una volta, stava picchiando mia
madre, il sangue mi è arrivato alla testa”,
dice sottovoce. E continua: ”Mia madre è
morta subito dopo”. Poi cerca l’attenzione
di Mario e, alzando il tono di voce, dice:
“Quando sarò libero, affitterò una casa
con Mario e così continueremo a vivere
insieme”. Mario risponde con un sorriso.
I maccheroni sono pronti e Francesco
è impaziente di farci assaporare le sue
abilità culinarie. Ci sediamo. E’ inevitabile
il confronto con l’Opg. Chiediamo come si
mangia dentro. “Come volete che si mangi,
con 2 euro e mezzo al giorno”, risponde
con rabbia Francesco. 2 euro e mezzo.
Tanto mette a disposizione lo Stato, per
la colazione, il pranzo e la cena di questi
esseri umani, definiti quasi sempre internati
o, più semplicemente, detenuti.
M.S.
metropolitana. Il letto di contenzione viene usato in qualunque
reparto di psichiatria. Un tempo veniva usato sistematicamente,
con finalità punitive, e noi avevamo un’infinità di letti di contenzione.
Oggi abbiamo due soli letti di questo tipo, che usiamo per soggetti
particolarmente agitati, con finalità terapeutiche, quando non
disponiamo di altri strumenti efficaci. E’ dunque un atto medico che
non va demonizzato, che viene effettuato sotto il controllo medico
e solo per alcune ore”, precisa il direttore. Il ministro Castelli,
nella sua recente visita a Barcellona, ha dichiarato che l’Opg è
un’istituzione necessaria. Ma sono tante le persone pericolose,
all’interno dell’Ospedale? “Non molte. Mi creda, la stragrande
maggioranza è composta da persone che potrebbero essere
opportunamente curate senza ricorso all’internamento, mediante
il semplice affidamento ai Dipartimenti di Salute mentale”.
M.S.
10
I progetti
Il confronto
Un Circolo Arci dentro l’Opg: la scommessa di “Città Futura”
Viaggio in un mondo chiamato Star
Dagli anni Novanta, a Barcellona Pozzo di Gotto, gli stessi internati e detenuti dell’Ospedale
psichiatrico giudiziario hanno creato un punto di riferimento contro l’emarginazione.
Cinque Strutture abitative riabilitative, in provincia,
per i disabili mentali.
Il progetto s’intitola “Papillon”. Sì, come il celebre film interpretato da Steve McQueen. Una storia di evasioni e di libertà, di farfalle tatuate sul petto e di repressioni giudiziarie,
che ha ispirato negli anni Novanta i volontari Arci del Circolo
“Città futura” di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di
Messina. “Sulla scia di un convegno del ’91 su Basaglia
e sui diritti dei cosiddetti folli, è nata l’idea di realizzare un
vero e proprio Circolo Arci all’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario, animato dagli stessi detenuti e internati,
nel segno della loro responsabilizzazione”, affermano Lucia
Isgrò e Claudia Lo Presti. Sono due giovani volontarie che
s’impegnano a portare avanti le iniziative dentro l’Opg. Dalle rassegne cinematografiche alla musica, dalle occasioni
per socializzare alle attività lavorative e ai corsi di pittura,
dagli spettacoli alle gite con le persone che usufruiscono
dei permessi. E, nel corso di una visita al Circolo Arci “Thomas Sankara” di Messina, è accaduto che il disegno di un
migrante, fino ad allora granitico nella sua assenza di comunicazione, permettesse di comprendere il suo Paese di
provenienza. Un piccolo miracolo, insomma. “Intendiamo
sostenere chi vive dentro l’Ospedale e, nello stesso tempo,
favorire lo smantellamento di queste strutture. Quando, di
recente, il ministro Castelli ha aperto una nuova sezione,
abbiamo manifestato per ribadire il nostro “no” a un’iniziativa in contraddizione con la prospettiva di chiudere l’Opg. Un
luogo ambiguo, un ibrido tra una galera e un ospedale che
Oasi di pace e tranquillità, piccoli mondi
creati per ridare la speranza a chi sembrava averla persa per sempre. Circondate da un silenzio quasi irreale, per chi
vive nel caos delle città, le Star (Strutture abitative riabilitative) della cooperativa sociale Genesi sembrano davvero
brillare di luce propria. La stessa luce di
un tiepido e inatteso sole di primavera,
venuto a scaldare gli immensi campi verdi che cullano Villa Iris di S. Filippo del
Mela. «Sono circa 1500 mq. di terreno a
nostra disposizione, che utilizziamo anche per produrre un olio d’oliva davvero
eccezionale». Parola di Nunzio Cannistraci, tutor delle cinque strutture situate
nella provincia di Messina. Le Star sono
delle piccole case – famiglia, nate per
volontà di Biagio Gennaro, direttore del
Dipartimento di Salute mentale dell’Ausl
5 di Messina, per il recupero e il reinserimento in società dei disabili mentali
del territorio. In ogni struttura vivono sei
ospiti, la maggior parte dei quali proveniente dagli ormai chiusi Ospedale psichiatrico Mandalari di Messina e Cta di
Giammoro. Qui sono aiutati e curati dall’équipe medica dell’Ausl e da operatori
socio–assistenziali messi a disposizione dalla stessa cooperativa. «Il concetto fondamentale è quello di famiglia. Gli
ospiti si sentono come a casa propria,
grazie all’aiuto degli operatori, che sono
riusciti a instaurare dei rapporti basati
sulla fiducia, sul rispetto delle cose e
delle persone», afferma Nunzio Cannistraci. Proprio per questo, qualche
mese fa, nella Villa Blu di Pace del Mela
si è festeggiato un compleanno speciale, con più di 100 invitati. «Il campanello
non smetteva mai di suonare», dice il
direttore Gianluca Busacca. “Arrivavano il tabaccaio, il barista, l’assessore,
tantissimi abitanti della zona, ormai
affezionati a questi vicini così speciali.
In generale, è completamente cambiata la filosofia su come gestire il disabile. Prima esisteva un rapporto ospite
– operatore incolmabile, a causa soprattutto dell’elevato numero di pazienti. Venivano rinchiusi e isolati, mentre
adesso si tende a favorire sempre più
i rapporti con l’esterno». Le Star sono
considerate un passaggio intermedio,
di preparazione alla vita “normale”. «La
scommessa più azzardata – continua
Busacca – è quella di riuscire a reintegrarli nella società. Purtroppo non sempre tutto funziona come si vorrebbe. Ci
possono essere dei periodi di depressione e delle ricadute». Eppure l’inizio
non era stato dei più incoraggianti. Molti
dei nuovi ospiti si spogliavano, abituati
com’erano a camminare nudi nei corridoi dell’ospedale, mangiavano con
le mani e non sopportavano il contatto
non cura e che non riabilita”, ribadiscono con passione Lucia e Claudia. Mentre parlano, nei locali dell’Arci di Barcellona, il caos gioioso di parecchi bambini interrompe a tratti il
racconto delle esperienze recenti. “In questi anni, assieme
alle attività culturali, i componenti del Circolo, detenuti essi
stessi, si sono occupati delle persone più fragili e hanno
cercato di creare un luogo di ascolto e di umanità all’interno
della struttura. Si riuniscono sempre in un chiosco di legno,
tra il secondo e il terzo reparto”, spiegano. Poi, quando precisano che molti internati potrebbero subito lasciare l’Ospedale, basterebbe che i Dipartimenti di Salute mentale delle
loro città di provenienza fossero pronti ad accoglierli, affiora
tutta la rabbia per una struttura “disumanizzante”. “Noi lavoriamo – precisano le volontarie dell’Arci – per creare spazi di
libertà e non per colmare le lacune delle istituzioni. Nell’Opg
si usano ancora gli antichi letti di contenimento e, inoltre,
gli infermieri e gli agenti penitenziari più sensibili vengono
isolati”. Sono storie di dolore e di emarginazione, quelle che
emergono dal racconto di Lucia e Claudia. Banditi dalle loro
famiglie, molti rimangono anche vent’anni lì dentro, seppure
solo colpevoli (è il caso di un internato) di offesa a pubblico
ufficiale. Oppure, scontano otto anni di detenzione, per aver
tirato il freno d’emergenza del treno. “Nessuno li accoglie e
loro rimangono lì, vittime di un’idea autoritaria e repressiva
della malattia mentale”.
Marco Olivieri
Vivere e lavorare nonostante il disagio mentale
“Mi sento rinata grazie a questa esperienza”
«Il lavoro alla bottega del commercio equo e solidale mi ha
cambiato la vita». Per Marianna, la chiameremo così, 46
anni, di Barcellona Pozzo di Gotto, è questo il significato della sua esperienza lavorativa. Un’esperienza che svolge alla
bottega “Il Pane e le Rose”, aperta nel 2001 dal circolo Arci
“Città Futura”, in base a un progetto del Dipartimento di Salute mentale. Un’esperienza che per lei, afflitta da problemi
psichici, assume una valenza nuova rispetto al solito. «Svolgere un’attività lavorativa – racconta – rappresenta un’occasione per uscire di casa e incontrare degli amici. Insomma,
per sentirsi vivi». Sorride Marianna, mentre parla del suo impegno alla bottega, un impegno che l’Arci (tra mille difficoltà)
ha deciso di continuare anche dopo la fine dei finanziamenti.
Dal 2001, sono cinque le persone con problemi mentali, e
che continuano a curarsi, inserite in campo lavorativo grazie
a una cooperativa dell’Arci: tre nel negozio e due impegnate
al Centro della pace, con il compito di occuparsi della manutenzione. Il sorriso di Marianna è dolce, carico d’emozione.
Il suo lavoro la rende felice. «Vorrei addirittura lavorare di
più», dice. «Io, infatti, lavoro per tre mezze giornate. Il resto
del tempo lo trascorro a casa, ma non mi piace. Non amo
stare in casa». E qui s’incupisce un po’. «Ho vissuto dei momenti brutti quando non avevo alcun impegno. Rimanevo a
letto senza far nulla e non avevo voglia di fare niente. Ecco
perché non voglio rimanere a lungo in casa. Perché mi sento
inutile e sopraggiunge la depressione, sebbene ci sia anche
la mia nipotina, della quale mi occupo nel pomeriggio. Accade, così, che mi passi anche la voglia di uscire e socializzare. Il lavoro, invece, ti dà stimoli e senza di esso non c’è
niente, non c’è vita». I suoi occhi sono tristi, anche quando
le labbra sorridono, e lasciano trasparire in modo chiaro la
sofferenza. Adesso, però, la sua attività lavorativa le ha dato
motivazioni nuove. «L’impegno alla bottega è un’occasione
per curare un po’ di più anche il proprio aspetto fisico, vestirsi, truccarsi e mantenersi in forma». Ma non c’è solo questo.
Per Marianna, il lavoro è anche e soprattutto un’occasione
per socializzare. «È bello lavorare con le mie colleghe, con
le quali mi trovo benissimo, e assistere i clienti, dando loro
informazioni sui prodotti e consigliandoli nell’acquisto. Certo, all’inizio di questa esperienza, non essendo abituata a
gestire un negozio, provavo una forte confusione e vedevo
tutto girarmi attorno. Poi, però, un po’ alla volta, ho preso
confidenza e adesso non ho più alcuna difficoltà. E noto con
piacere che anche i clienti sono soddisfatti del mio lavoro».
La bottega, per lei, è un qualcosa in più di una seconda
casa. «Io e i miei compagni, anche loro con disagi mentali,
abbiamo partecipato in prima persona alla ristrutturazione
dei locali che ospitano il negozio. Abbiamo ripulito e pitturato
le pareti, ne abbiamo organizzato l’arredamento. Insomma,
l’abbiamo vista nascere e crescere, giorno dopo giorno, e
la sentiamo nostra. È anche per questo che nei periodi di
lavoro più impegnativi, come l’estate o il Natale, né io né le
mie colleghe ci tiriamo indietro. Sappiamo benissimo, infatti,
che tutto ciò che facciamo lo realizziamo per la cooperativa
e, quindi, per noi che ne facciamo parte». «Questo lavoro
– spiega – è anche un’occasione per essere po’ più indipendenti dal punto di vista economico. Con la sola pensione
di invalidità (250 euro al mese) è praticamente impossibile
andare avanti». E l’obiettivo, a questo punto, è uno solo:
«Recuperare il tempo perduto. So di non essere più una
ragazzina ma ho, comunque, tanta voglia di rinascere. Ho
voglia di riprendermi quello che, negli anni, ho lasciato per
strada».
Stefano Sinicropi
con altre persone. Dopo qualche tempo
e tanta pazienza, molti di questi ostacoli
sono ormai un ricordo. La situazione più
complicata è quella di Villa Iris. Gli ospiti
sono i pazienti più anziani del Mandalari, tutti con gravi insufficienze mentali,
alcuni dei quali sulla sedia a rotelle, altri senza famiglia. «Con loro il miracolo non si potrà mai avere, lo sappiamo
– spiega Cannistraci - ma la fiducia e la
tranquillità che hanno raggiunto, i piccoli progressi, sono per noi grande motivo
di gratificazione e soddisfazione». Al di
là del caso particolare di Villa Iris, per gli
altri ospiti, una volta fuori dalle Star, non
sarà semplice tornare a vivere. Hanno
quasi tutti tra i 35 e i 40 anni e ricominciare a sostenersi economicamente e
affettivamente sarà difficile. La famiglia
dovrà essere il loro punto di riferimento,
famiglia che viene coinvolta durante tutto il cammino, grazie soprattutto agli assistenti sociali dell’Ausl. «Il dottor Gennaro è l’ideatore del progetto – interviene Busacca – e si è dovuto scontrare
non solo con la burocrazia, ma anche
con la diffidenza del personale medico
e del mondo intero. C’erano pregiudizi
e paure che sembravano insormontabili. Adesso, però, la gente ha capito».
Il direttore del Dipartimento di Salute
mentale non ha voluto che gli operatori
e gli infermieri portassero il camice. Si
rischiava di creare troppo distacco, differenziando pesantemente ammalati ed
équipe sanitaria. «Messina è la prima
provincia in Sicilia ad aver intrapreso
con successo questo nuovo percorso.
Sono arrivati qui medici da Genova e
dalla Sardegna per “dare un’occhiata”,
per vedere come funzionano le strutture», spiegano gli operatori. In ogni villa
della cooperativa Genesi, le abitazioni
sono circondate da grandi spazi verdi,
dove gli ospiti possono lavorare la terra,
piantare gli ortaggi e raccogliere i frutti.
Sono state realizzate vicino al mare e
ai paesi, per permettere ai pazienti di
muoversi più facilmente. D’estate vengono organizzate spesso delle uscite.
Si va al mare, con i mezzi attrezzati per
il trasporto delle sedie a rotelle e, durante l’anno, si svolgono iniziative per il
Carnevale e nel periodo di Natale. Le
pareti delle stanze sono dipinte di azzurro, verde, giallo e arancio. I colori
della vita e dell’arcobaleno, il calore di
una carezza o di un abbraccio. «Queste persone meritano il massimo – dice
Nunzio Cannistraci – anche se è impossibile poterli ricompensare di tutte le
sofferenze patite».
Maria Cristina Scullino
Pasquale Zumbo
11
Bucalo (Penelope):
“Ma non si favorisce l’autonomia degli individui”
“Se a parlare di Star sono quelli che le gestiscono, è normale che ne parlino bene. Io posso valutare in relazione a quello che ho visto a Taormina.
Prima di tutto, è la logica di queste cosiddette
Strutture abitative riabilitative che risulta profondamente sbagliata. Non si lavora per potenziare
il senso di autonomia delle persone con problemi mentali. Queste ville sembrano piuttosto dei
parcheggi, senza alternative né lavorative, né
di emancipazione, per i soggetti che vivono un
grande disagio”, polemizza Giuseppe Bucalo,
presidente dell’associazione Penelope, che agisce nel distretto socio-sanitario di Taormina. “I
progetti per stimolare l’individuo, e renderlo autonomo e indipendente, non hanno alcun riscontro
concreto. La logica è solo quella del contenimento, l’assunzione di medicine è analoga a quella
in uso nei reparti psichiatrici e, soprattutto, non
esiste la libertà di scelta per gli ospiti. I costi, per
ogni persona, appaiono troppi elevati e le logiche
complessive mi sfuggono del tutto”, spiega Bucalo. “Una volta abbiamo proposto a queste strutture l’istituzione di una borsa lavoro e ci è stato
risposto che non rientrava nel piano individuale.
La verità è che, ancora oggi, l’unica vera funzione
delle strutture psichiatriche è quella di isolare le
persone dal contesto sociale, così come del resto
richiedono le comunità sociali e le famiglie, purché ciò avvenga in luoghi attraenti, che tengano
lontani i sensi di colpa”. A sua volta, in alternativa, Bucalo propone il lavoro sul campo dell’associazione Penelope, che ha al suo attivo la Casa
famiglia “L’eccezione”, destinata ad accogliere
chi esce dagli ospedali giudiziari e dalle cliniche
psichiatriche. “La nostra gestione punta a rispettare la libertà di questi individui, anzi a restituire
un senso alla parola libertà. Non viene imposto
nulla - continua Bucalo – e non si pongono limiti
alla libertà di movimento. Gli ospiti hanno le chiavi
di casa e gestiscono liberamente il loro rapporto
con medicine e medici. Questo rispetto dell’individualità fa paura a chi ritiene più rassicurante il
controllo. Ma ha permesso la presa in carico di
situazioni considerate ingestibili e ha dato occasioni di vita reale a persone alle quali solitamente
non è dato credito, a causa dello stigma di malato
di mente con cui li hanno marchiati”.
Donatella Raccuia
La Star Villa Iris di S. Filippo del Mela
12
Le associazioni
L’analisi
La parola ai volontari
Sono associazioni che lavorano sul campo, per la salute dei cittadini. Dal 1980, il Tribunale dei diritti del malato raccoglie denunce
e sollecita cambiamenti. Di recente, Antonino Mantineo, in qualità
di presidente del Tribunale, ha evidenziato la situazione insostenibile dell’ospedale Piemonte di Messina. «Dai tempi di attesa
troppo lunghi alla situazione pessima dal punto di vista igienico
del pronto soccorso, con i gatti che si aggirano indisturbati durante la notte. Serve un ripensamento complessivo dell’azienda»,
polemizza Mantineo, docente universitario e presidente del Cesv.
A sua volta, Felicia Casamento, responsabile per la provincia di
Messina dell’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro), non
modera le frasi: «Le istituzioni pubbliche sono totalmente assenti.
La sanità è allo sfascio e il malato oncologico è solo un numero.
I medicinali sono costosissimi e noi, con le nostre attività, contribuiamo al finanziamento della ricerca per circa il 40% del totale.
Le nostre manifestazioni, con distribuzione di agende, cioccolatini
e uova di Pasqua, si basano soprattutto sul sostegno della gente.
Ma non si può andare avanti così». Sulla stessa linea è l’associazione Alzheimer di Milazzo, che auspica «la creazione sul territorio di un Centro diurno per l’assistenza al malato». Altro settore
scottante è quello dei disabili mentali. «Sono molte le difficoltà che
affrontano le famiglie di chi ha problemi mentali», afferma Adriana
Minniti, presidente di “Io Persona”. «La nostra associazione cerca
di sostenerle al meglio, mettendole in contatto con gli psichiatri
del territorio. Qui c’è carenza soprattutto di personale paramedico, a causa degli scarsi finanziamenti regionali. Per fortuna, le
istituzioni, con la creazione delle Star, hanno fornito una prima
risposta ai bisogni del settore». Sullo stesso argomento si esprime Simona Romano, delegato zonale dell’Avulss per la Sicilia e
componente del Consiglio direttivo Cesv in rappresentanza dei
Comitati di gestione. «L’emarginazione è il problema più grande
che ci troviamo ad affrontare. La gente non conosce bene il problema della salute mentale e così, a causa dei luoghi comuni, ne
sta alla larga. Dei passi avanti sono stati fatti con i Centri di igiene
mentale e le Case famiglia. Al Mandalari, i malati non riuscivano a
tenere neppure la forchetta in mano. Tuttavia, bisogna potenziare
le strutture, perché le utenze sono tante e difficili da seguire».
Nuccia Formica, presidente dell’Avulss di Milazzo, invece, lamenta la scarsa collaborazione di enti sanitari e istituzioni. «Le leggi
vengono spesso disattese, ma il punto focale non è la mancanza
di fondi. Piuttosto, è l’arretratezza culturale. C’è poca umanità».
A sua volta, l’associazione Cepas di Messina interviene in aiuto dei giovani in difficoltà. «Ci occupiamo soprattutto di prevenzione
– afferma la docente universitaria e volontaria Enza
Sofo – rivolgendo la nostra attenzione al mondo della scuola e alla formazione dei genitori, affinché imparino a capire i messaggi
non verbali dei ragazzi». Affronta diverse
problematiche pure la Confraternita della
Misericordia di Spadafora. «Ci occupiamo – afferma il governatore Giuseppe
Nastase – del trasporto di persone
ammalate, della protezione civile,
in caso di calamità, e del sostegno alimentare per le famiglie
bisognose. Tutto questo grazie alle donazioni». I nuovi
locali della Confraternita
sono stati ricavati dalla
ristrutturazione della
vecchia stazione ferroviaria. «Abbiamo
fatto da noi, ma le
spese sono incredibili. Abbiamo cambiato sede da sette
mesi e ancora la
Telecom non ci ha
trasferito la linea».
Daniela Cannistraci, presidente di Vip
Per Nastase, il vero
13
Piani di zona: dov’è la voce del volontariato?
problema è l’atteggiamento poco disponibile di gran parte di medici
e infermieri. «Se solo per un istante provassero la sofferenza e la
disperazione patite dai pazienti – conclude il governatore - le cose
andrebbero meglio». Per fortuna, esistono anche medici disposti
a mettersi in gioco. È il caso dell’associazione Chirone, formata
da un gruppo di oculisti volontari che, dal 1992, una o due volte
l’anno, partono per missioni umanitarie in Paesi in via di sviluppo.
«La nostra associazione è stata in Nicaragua, Ghana, Kenya e, ultimamente in Costa d’Avorio», rivela il presidente Antonio Rizzotti.
«Vorremmo fare di più, ma i costi dei biglietti sono elevatissimi.
Andiamo avanti grazie alle donazioni delle case farmaceutiche,
per la strumentazione, e della Fondazione Bonino-Pulejo, che annualmente destina circa 4500 euro per l’acquisto dei biglietti». Dal
punto di vista dell’Avis (Associazione volontari italiani sangue), invece, l’emergenza riguarda più l’aspetto culturale che finanziario.
A fronte di un fabbisogno di 25.000 donatori, Messina ne assicura
appena il 10%. «In altre città, anche siciliane, sono stati raggiunti
dei buoni risultati», afferma Franco Previte, presidente dell’Avis
Messina e componente del Consiglio direttivo Cesv. «Qui, invece,
nonostante il nostro impegno educativo, le risposte non ci sono.
Bisognerebbe ricordare che donare il sangue è un dovere e riceverlo un diritto». Infine, i clown di corsia dell’associazione di volontariato Vip di Messina (Viviamo In Positivo). «Facciamo parte
di una federazione, la Vip Italia Onlus - dice Daniela Cannistraci,
presidente - costituita da moltissime associazioni sparse su tutto il territorio nazionale. Associazioni che promuovono la clown
therapy in Italia e all’estero, dove i nostri volontari si recano in
missione (Brasile, Romania, Bolivia, India). A Messina siamo presenti attualmente al Papardo, nei reparti di chirurgia plastica e
pediatria». Nonostante i sorrisi da clown, l’associazione Vip ha il
suo da fare a reperire fondi. «Sono sporadiche donazioni a finanziarci, assieme alle raccolte in piazza e alle quote associative. Le
costosissime micromagie e l’abbigliamento sono acquistati dagli
stessi volontari», conclude Daniela Cannistraci.
Daniela Fotia - Pasquale Zumbo
Il Cedav: “Le strutture pubbliche non
aiutano le donne”
“Le donne in difficoltà non trovano risposte nel sistema sanitario.
In caso di violenze e maltrattamenti, le strutture pubbliche non
sono preparate alle emergenze”, denuncia l’avvocato Carmen
Currò, presidente del Cedav di Messina, Centro Donne Antiviolenza. “A causa di una cattiva organizzazione, i servizi pubblici
non funzionano e così una realtà come il Cedav presenta un carico troppo alto di utenze”, sottolinea l’avvocato Currò. “Bisogna
eliminare le lunghe liste di attesa ed è necessario che le strutture pubbliche facciano il proprio dovere. Oggi il sistema sanitario
è troppo complicato, dominato da procedure burocratiche, e la
qualità del servizio viene così danneggiata. Fino a quando non
si creeranno dei presidi pubblici capaci di dialogare con le persone, ovvero animati da operatori che sappiano rivolgersi a chi sta
male con umanità, capiterà che si preferisca indebitarsi, pur di
rivolgersi ai privati”, osserva il presidente del Cedav, impegnato
nel progetto “Dal silenzio alla parola”. Da parte sua, la psichiatra
Barbara Cavallari, coordinatrice dei progetti Cedav, rileva che
“nei pronti soccorsi non esistono figure idonee a dialogare con
donne in difficoltà, che possano avere subito violenze. Spesso si
preferisce non approfondire. Quanto ai consultori, la situazione
complessiva è molto precaria, anche se con alcune realtà riusciamo a dialogare, grazie alla sensibilità degli operatori”. Nel
frattempo, l’assessorato alle Pari opportunità del Comune di
Messina ha appena promosso un Osservatorio sulla salute delle
donne. Si tratta di un’iniziativa dell’assessore Antonella Cocchiara, in accordo con Usl, aziende ospedaliere, sindacati e associazioni come Cedav e Tribunale dei diritti del malato.
D.R.
Le organizzazioni hanno ancora un peso marginale nella realizzazione delle politiche sociali. E’ quanto emerge dallo studio di un gruppo di lavoro costituito dal Cesv, che individua gli
strumenti per rendere più efficace l’azione volontaria e potenziare il lavoro di rete.
Il Cesv ha creato un gruppo di lavoro sui Piani di zona.
Attraverso un’azione di studio e di valutazione, l’obiettivo è il monitoraggio dei Piani nei distretti socio-sanitari
della provincia di Messina, nell’ottica di comprendere
ruolo e specificità dell’azione volontaria. Si tratta di un
compito che le stesse associazioni hanno affidato al
Centro Servizi, a seguito del lavoro dei gruppi tematici
attivati dal Cesv nel 2004. Mentre ci si appresta alla programmazione del prossimo triennio, l’équipe – composta dal direttore del Cesv Rosario Ceraolo (nel ruolo di
coordinatore) e da Giovanni Calabrò, Sabrina Munaò e
Antonia Ragusi - sta valutando il lavoro nei territori, con
l’obiettivo di fare una vera e propria mappa dei servizi.
Questo tipo di monitoraggio coincide con il proposito
del Centro Servizi di avviare, in ciascun distretto sociosanitario della provincia di Messina, un percorso che
promuova il pieno coinvolgimento del volontariato nella
programmazione e nella gestione del Piano di zona.
In particolare, si sta valutando qual è stato il ruolo dei
volontari e il loro grado di partecipazione in relazione
all’analisi dei bisogni. Si sta analizzando, distretto per
distretto, qual è stato anche il contributo del volontariato alla progettazione. Seppure si tratti di un work in
progress, da una prima valutazione si può affermare
che emerge una scarsa conoscenza del mondo del volontariato. In particolare, nell’analisi dei bisogni, non si
evince alcun approfondimento, né alcuna mappatura
del mondo dei volontari. Appare marginale, insomma,
la presenza del volontariato. Da questo studio emerge
la scarsa conoscenza di questo mondo sia dal punto
di vista quantitativo, sia qualitativo (cioè dal punto di
vista del ruolo e delle funzioni). Inoltre, nell’ambito della partecipazione, le occasioni di incontro fra volontari
risultano vissute come momenti episodici e atti formali,
e non come spazi e luoghi in cui incidere nella progettazione delle politiche sociali del territorio. Mancano il
coordinamento e un’idea efficace di sintesi, in modo da
progettare percorsi comuni attraverso una solida rete
territoriale. Da parte sua, il Cesv si sta impegnando
per modificare questa realtà. Nell’ottica di una migliore
comunicazione dell’azione volontaria, il Centro Servizi
s’impegna a realizzare una banca dati e a monitorare il
fenomeno volontaristico e associativo. Nel quadro della formazione, invece, il Centro Servizi continua a lavorare per dotare i volontari di metodologie per la progettazione e di competenze specialistiche. Emerge l’idea
di mettere i volontari in rete, per potenziare l’aspetto
informativo e della comunicazione, individuare prassi
comuni su politiche e azioni concrete, e organizzare
la rappresentanza, nel segno dell’autonomia del volontariato e della sua crescita progettuale. Si tratta di
un lavoro in linea con un maggiore radicamento nel
territorio da parte del Centro Servizi, dagli Sportelli alle
recenti assemblee nella provincia. Di tutto questo, il
gruppo di studio sui Piani di zona costituisce solo un
primo tassello, per potenziare le qualità del volontariato e invertire le tendenze.
Rosario Ceraolo – Marco Olivieri
Uno strumento di programmazione
Il Piano di zona è lo strumento di programmazione del sistema
locale dei servizi socio-sanitari di un determinato ambito territoriale. Esso costituisce un’occasione offerta alle comunità per
leggere, valutare e programmare il proprio sviluppo. Introdotto
dalla legge 328 del 2000, che ha ridefinito l’assetto dello Stato
sociale in Italia, il Piano è lo strumento principale delle politiche
sociali, per costruire un sistema integrato di interventi e servizi.
Nel segno della fine dell’assistenzialismo, la predisposizione
di questo strumento avviene attraverso la concertazione, condivisa e partecipata, tra soggetti istituzionali, comunità locali,
Terzo Settore, sindacati, scuola e ricerca.
I distretti socio-sanitari
D25
Lipari
D26
Messina
D27
Milazzo
D28
Barcellona
P. G.
D29
Mistretta
D30
Patti
D31
S. Agata
di Militello
D32
Taormina
Leni, Malfa, S. Maria Salina
Scaletta Zanclea, Itala, Villafranca Tirrena,
Saponara, Rometta, Roccalumera-Mandanici,
Furci Siculo, Nizza di Sicilia,
Fiumedinisi, Alì Terme, Alì
Pace del Mela, Gualtieri Sicaminò, S. Lu-cia
del Mela, S. Filippo del Mela, Spadafora,
Valdina, Venetico, Roccavaldina,
Torregrotta, Monforte S. Giorgio, Condrò,
S. Pier Niceto
Merì, Montalbano Elicona, Basicò, Tripi, Terme Vagliatore, Castroreale, Rodì Mili-ci,
Furnari, Falcone, Novara di Sicilia,
Mazzarrà S. Andrea, Fondachelli Fantina
Castel di Lucio, Reitano, S. Stefano Camastra,
Motta d’Affermo, Pettineo, Tusa;
Oliveri, Montagnareale, Librizzi, S. Piero
Patti, Raccuja, Floresta, Brolo, Ficarra,
Sinagra, Gioiosa Marea, Piraino, S. Angelo
di Brolo
S. Marco d’Alunzio, Militello Rosmarino,
Alcara Li Fusi, Acquedolci, S. Fratello, Ca-ronia,
Capo d’Orlando, Caprileone, Frazzanò,
Mirto, Longi, Castell’Umberto, Na-so,
S. Salvatore di Fitalia, Tortorici, Torrenova,
Galati Mamertino, Ucria.
Castelmola, Gallodoro, Mongiuffi Melia,
Letojanni, Motta Camastra, Francavilla di
Sicilia, Moio Alcantara, Malvagna, Roccella
Valdemone, Cesarò, S. Teodoro,
Giardini Naxos, Graniti, Gaggi, S. Teresa
Riva, S. Alessio Siculo, Forza d’Agrò, Savoca,
Casalvecchio Siculo, Antillo, Limina,
Roccafiorita, Pagliata, Santa Domenica di Vittoria.
14
La comunità del Cesv
Le iniziative
Dalle assemblee “voglia di confronto”
Sei incontri Cesv nel Messinese per rilevare i bisogni delle organizzazioni di volontariato e programmare insieme le attività.
Sei assemblee nella provincia di Messina promosse dal
Centro Servizi per il Volontariato. Sei incontri a Milazzo (lo
scorso 25 gennaio), Alì Terme (1 febbraio), Patti (15 febbraio), Capo d’Orlando (20 febbraio), Barcellona Pozzo di
Gotto (27 febbraio) e Messina (3 marzo). Sei momenti per
avviare una riflessione sui temi di interesse dei volontari e
dell’associazionismo. Attraverso le assemblee, il Cesv ha
puntato a rilevare i fabbisogni delle organizzazioni e ad animare e promuovere le reti territoriali. Per Antonino Mantineo, docente universitario e presidente del Centro Servizi,
“queste assemblee hanno costituito un luogo di incontro in
cui sperimentare prassi concertate di programmazione tra
le organizzazioni di volontariato. Si è trattato di un’opportunità per conoscersi e scambiare esperienze. Ma anche di
un momento di verifica e confronto – aggiunge Mantineo
– che può aiutare a comprendere al meglio ruolo e funzioni
del Cesv”. “Dalle assemblee nella provincia di Messina – af-
ferma a sua volta Anna Maria Passaseo, referente dell’area
formazione del Centro Servizi – sono emersi il bisogno di
partecipazione delle organizzazioni di volontariato messinesi e la necessità di creare un coordinamento tra le associazioni del territorio, al fine di conoscersi e incontrarsi.
Dal confronto con i volontari rileviamo anche l’importanza
di un lavoro di rete, che crei nuovi ponti fra le diverse realtà, per studiare strategie comuni e momenti di elaborazione in campo sociale e culturale. Basti pensare – osserva
la dottoressa Passaseo – alle difficoltà nel coinvolgimento
dei volontari per il lavoro sui Piani di zona, incaricati di programmare il futuro delle politiche sociali dei nostri territori.
Emerge pure la necessità di creare una mappatura delle associazioni, data l’eterogeneità del territorio, e di fare crescere il ruolo politico del volontariato a favore del cambiamento
e del riscatto della provincia”.
Marco Olivieri
Politiche sociali:
Messina si attende una svolta
Il presidente Cesv A. Mantineo e il direttore R. Ceraolo
Un servizio su misura di volontario
Il Cesv ha attivato un nuovo servizio: la Bacheca del
Volontariato. Si tratta di uno spazio in cui si incontrano le richieste di volontari, da parte delle associazioni,
e le offerte di disponibilità a svolgere un’esperienza di
volontariato da parte di cittadini giovani, adulti, anziani
e famiglie. Mediante il sito Internet (www.cesvmessina.
it), e attraverso gli Sportelli territoriali, si favorisce l’incontro. “La Bacheca del Volontariato rappresenta un’ulteriore possibilità – afferma Antonino Mantineo, presidente del Cesv - che il Centro Servizi offre per diffondere e promuovere le iniziative svolte dalle organizzazioni
di volontariato, azioni al servizio delle persone e della
comunità. Un’opportunità in più per promuovere il volontariato nei nostri territori e tra i cittadini, in particolare
tra i giovani, e per consentire loro di sperimentare autentiche esperienze di gratuità, di socializzazione e di
servizio nelle nostre organizzazioni”. Per informazioni,
Cesv di Messina, e-mail [email protected].
M.O.
L’assemblea programmatica Cesv a Capo d’Orlando
“Il Cesv si attende dalla nuova
amministrazione comunale di
Messina segnali forti e credibili.
Nell’ambito delle politiche sociali, in piena autonomia rispetto
alla politica e alle sue logiche di
schieramento, valuteremo gli atti
concreti. Qui le emergenze sono
enormi. A Messina manca un
serio monitoraggio dei bisogni e
dei soggetti che a diverso titolo
potrebbero offrire una risposta a
questi bisogni. Dai giovani agli anziani, dai diversamente abili alle
donne e ai migranti, tutti soffrono
delle carenze in termini di spazi sociali e opportunità culturali,
mentre il diritto al lavoro e all’abitazione sono sempre più messi
in pericolo”, denunciano Antonino Mantineo e Rosario Ceraolo,
rispettivamente presidente e direttore del Centro Servizi. In occasione dell’affollata assemblea
cittadina di Messina, lo scorso 3
marzo, nel Salone delle Bandiere
del Comune, Mantineo ha anche
ribadito che “il volontariato non
deve mai essere subalterno alla
politica, ma esercitare una funzione di stimolo e di proposta. Al
Cesv – ha continuato il docente
universitario - appare prioritario
definire il Piano di zona, valido
per il prossimo triennio. Se a
Messina non è stato approvato,
non è certo colpa dei marziani. E
anche i volontari devono recitare il mea culpa. Grazie a questo
strumento, il volontariato, l’associazionismo, la cooperazione
sociale, i cittadini e le imprese
potranno finalmente lavorare insieme per definire le future politiche sociali”. Per il presidente
del Cesv, occorre anche “dare
attuazione alla Carta per l’affido,
nata da un protocollo d’intesa
tra il Centro Servizi, l’Istituzione
dei Servizi sociali e l’associazione di volontariato “Una famiglia
per amico”. Una Carta, ancora
da attivare, che fissa obiettivi e
metodi per diffondere la cultura
dell’affido nell’ambito delle famiglie messinesi. Nel confronto
con i candidati a sindaco, prima
delle elezioni, abbiamo anche insistito sulla necessità di istituire
un tavolo permanente, chiamato la Consulta del volontariato,
che diventi un luogo aperto di
confronto e di attuazione delle
politiche sociali nel nostro territorio”, ha concluso Mantineo. Da
parte sua, intervenuto alla fine
del dibattito, l’assessore comunale alle Politiche sociali, Pippo
Rao, si è detto pronto ad attivare
la Consulta del volontariato, “nel
segno del dialogo e dello scambio. Su questo punto, avvieremo
subito un confronto con il Cesv”.
M.O.
Accademia Internazionale Amici della Sapienza onlus
A.GI.M. Associazione Giovani Montalbanesi
Alzheimer Milazzo
ARCI MESSINA LIBERA
A.R.S. Associazione Regionale Sordomuti
via S. Cecilia 124 tel/fax 090.2928229
via Milano 7, Montalbano Elicona
via Madonna del boschetto, 52
Via Caio Domenico Gallo 2 is. 454
via L. Nicotra 22, Messina [email protected] 3488265625
As.T.E.R.
via Masotto, 4 Castanea delle furie - Messina
Arci c/o Circolo “Thomas Sankara”
ASSOCIAZIONE 7000 DI VOLONTARIATO
Associazione di Cultura e Solidarietà Raggio di Sole
Associazione MA.SA.TA. “I SAPORI DEL MIO SUD”
Associazione Siciliana Leucemia Onlus
A.D.M. Associazione per l’aiuto al Diabetico della
provincia di Messina
A.N.P.A.S. Associazione Nazionale Pubbliche
Assistenze
ASSOCIAZIONE SECURITY
Auser
Avis comunale Messina
Avis - Castell’Umberto
Avulss d.z. Sicilia
AVIS S. TERESA DI RIVA
Banca del tempo “Insieme è meglio”
C.R.I.C.
Casa di Solidarietà e Accoglienza
Ce.d.av. Centro donne antiviolenza
via Campo delle Vettovaglie, Messina, tel. 090/6413730
via M.Grano 2, Messina tel: 0906512211
via Cristoforo Colombo n.10, 98061 Brolo tel: 0941.561394
C/da S. Lucia, La Sorgiva A/3 Giampilieri Superiore, ME
via Tripoli, 98/a Capo d’Orlando, tel. 0941/912869
c/o Azienda Ospedaliera Papardo, U.O. di Edocrinologia e Diabetologia, C/da Papardo,
Sperone.
Circolo AUser Alì Terme
Chirone
Coordinamento Disabili
Centro Donatori Sangue FRATRES
Ce.P.A.S. Centro di prima accoglienza Savio
Ecosmed
Federazione dei Maestri del lavoro d’Italia
Fraternità di Misericordia di Messina
Fraternità di Misericordia - Spadafora
Filo d’Arianna
Guardia Costiera Ausiliaria Onlus
Io Persona
Nuovi Orizzonti
Oari
Pegaso
Rangers International Sezione 552 Messina
Senza Barriere
Spazio Libero Messina
Telefono Amico
Terra e Cielo
Tribunale dei diritti del malato
Tutela Salute dei Cittadini
Umanesimo e Solidarietà
Una famiglia per amico
Uisp - Comitato provinciale Messina
Volontari contro la fibrosi cistica
VIP Viviamo In Positivo Messina
Utopia
Mani Unite Onlus
Centro di Solidarietà P.O.R.T.O.
Associazione di Solidarietà Familiare Il Pellicano
Penelope
Fraternita di Misericordia San Piero Patti
Confraternita di Misericordia
Amici del Fortino
A.G.D. Messina Onlus
Confratermita di Misericordia Cesarò
Il dado magico
Fiori di Roccia
Coop Scirin Onlus
Comitato Regionale Sicilia via Castellana 318, Palermo
via Consolare Antica 573 Capo D’Orlando
via XXI Ottobre, 288 Torregrotta, tel. 090/9910634
via Ghibellina, 150/i Messina, tel. 090/674521 fax 090/6411569
via Nazario Sauro, 23-25 Castell’Umberto, tel. 0941/438609
01 via del Mare, 3 Valdina, tel. 090/9920331
Piazza Portosalvo, S. Teresa di Riva
via Marina Alì Terme, tel. 0942/715242
via Monzolini, 12 Reggio Calabria, tel. 0965/812345
via Garibaldi, 704 Barcellona P.G., tel. 090/9761183
via Cesareo 24, 98123 messina tel.090.6783035
via Francesco Crispi 289, Alì Terme
via S. Elia, 30 Messina
via Kennedy, 201 Barcellona, tel. 090/9761207
S. Piero Patti via I Maggio 4, S. Piero Patti tel 0941660211
via Lenzi 24, Messina tel 090771495
via Chiesa dei Marinai, 12 Messina, tel. 09053167
c/o Santuario Madonna di Lourdes, viale R. Margherita, 39, Messina, tel. 090/44329
via Taormina Pal IACP, Messina tel. 090.2931797 emergenza:090695099
via Riolo, 2 Spadafora, tel. 090/9928603
c/o Parrocchia San Clemente, via Centonze, 244 Messina, tel. 090/695458
via C. Pompea, 244 Messina
via S. Agostino, 16 Messina, tel. 090/675057
via Setaioli, 15 Messina
via Mons. D’Arrigo, 13 Messina, tel. 090/43011
c/o Centro Aperto Leali, via S. Giovanni Bosco, 22 Messina, tel. 090/672973
via P. Bernardino 107, Ucria tel/fax 0941664110
via S. Filippo Bianchi, 20 Messina, tel. 090/662552
via IV Novembre, 93 Ficarra, tel. 0941/583038 - via La Farina, 7 Messina, tel. 090/6413340
casella postale 259, 98122 ME, tel: 0905731767, 0905731839
viale Giostra, coop. La Rondine f/7, Messina, tel. 090/343298
via S. Elia, 30 Messina, tel. 090/774863
piazza S. Maria della Visitazione, Pace del Mela, tel. 090/933407
via Dogali, 50 Messina
via La Farina, 7 Messina, tel. 090/771956
via Risorgimento, 210/b Messina, tel. 090/2934942
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