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ANDREA BRIZZI
CENNO STORICO
DELL’ISOLA DEL GIGLIO
CIRCOLO CULTURALE GIGLIESE
1985
INDICE
Introduzione ................................................................... pag.
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CAP I.
- I primi abitatori del Giglio - Gli Etruschi ......
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9
CAP II.
- I Romani .....................................................
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13
CAP III.
- Giglio durante le invasioni barbariche .........
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18
CAP IV.
- Gli Abati Cistercensi ...................................
»
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CAP V.
- Gli Aldobrandeschi - I Conti Orsini ............
CAP VI.
- I Pisani - I Fiorentini ...................................
CAP VII.
- Pace di Pescia - Pisa in potere di Firenze - La
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28
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32
mini d’Aragona - I Medici....................
»
37
CAP IX.
- II Giglio nel secolo XVI ................................
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CAP X.
- I Gigliesi nel secolo XVI ...............................
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CAP XI.
- I Barbareschi ..............................................
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CAP XII.
- Amministrazione degli interessi locali .........
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Repubblica di Siena ...........................
CAP VIII. - Alfonso d’Aragona Re di Napoli - I Piccolo-
CAP XIII. - I Lorenesi ....................................................
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67
CAP XIV. - II Giglio e i gigliesi nel secolo XVIII ............... »
75
CAP XV.
- I Francesi - I Lorenesi - Regno d’Italia .......... »
79
CAP XVI. - I Gigliesi nel secolo attuale ........................... »
85
Bibliografia ...................................................................... »
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INTRODUZIONE
Grazie a questo «Cenno storico dell’Isola del Giglio» Andrea Brizzi,
vissuto nella seconda metà del secolo scorso, può essere senz’altro
annoverato, assieme a Daniele Manzini, al conte Vincenzo Mellini Leon
de Poncé, a Stefano Sommier, all’Arciduca Luigi Salvatore d’Austria, al
colonnello Nello Paolicchi ed a suor Angela Teresa Sala, fra i massimi
cultori di studi sulla storia dell’Isola del Giglio.
Nato al Giglio, Andrea Brizzi studiò a Pisa dove si formò una vasta
e profonda preparazione in varie discipline. Tornato nella sua isola
ricoprì, fra l’altro, la carica di notaio e di segretario comunale. Fu grazie a
quest’ultima occupazione che ebbe modo, nell’allora integro archivio
storico del Comune, di attingere tutte quelle preziose ed interessanti
notizie contenute nel presente lavoro.
Anche per i lontani periodi protostorici per i quali non esisteva
documentazione alcuna, la sua intelligenza e la sua preparazione gli
consentirono una ricostruzione storica per induzione che fanno del suo
lavoro un’opera estremamente attuale: infatti le sue conclusioni sono
state regolarmente confermate da tutte le successive scoperte
archeologiche.
L’eccezionalità della fatica del Brizzi consiste però nell’aver salvato
alla storia i contenuti degli antichi statuti gigliesi.
Come è noto, nel medio evo ogni piccola comunità disponeva di
un proprio statuto, ossia di una raccolta di norme legislative locali
(ordinamenti giuridici particolari cui si contrapponeva la «lex»,
manifestazione
normativa
tipica
dell’autorità
suprema,
cioè
dell’«imperator»).
Il Brizzi ebbe la fortuna di consultare appunto il «Libro degli
Statuti del Giglio», un volume di carta pergamenacea rilegato in
marocchino rosso. Era stato scritto il 25 Ottobre del 1558 dal giudice e
notaro Giovanni del fu Anseno Billo, basandosi sugli statuti più antichi,
alcuni scritti in latino.
Il «Cenno storico dell’Isola del Giglio» fu pubblicato, fra il 1898 ed
il 1900, a puntate sul giornale grossetano «L’Ombrone». Purtroppo le
raccolte complete del suddetto giornale conservate alla Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze ed alla Biblioteca Chielliana di Grosseto
andarono in parte distrutte dall’alluvione del 1966.
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Ma nel 1977 in una modesta casa di Pisa, un pensionato, Osvaldo
Brizzi, figlio di Andrea, grazie ad alcune vecchie copie de «L’Ombrone» e
agli appunti del padre, ricostruì l’intera opera di cui, prima di morire,
volle depositario il Circolo Culturale Gigliese.
Le notizie contenute nel presente volume, sopravvissute alla furia
devastatrice dei pirati che tante volte depredarono l’isola, all’usura del
tempo, all’incuria degli uomini, alle alluvioni, vengono ora restituite alla
conoscenza di tutti: fare questo era non solo un obbligo morale nei
confronti di Andrea Brizzi ma anche un dovere storico.
IL CIRCOLO CULTURALE GIGLIESE
ISOLA DEL GIGLIO, GENNAIO
1985
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CAPITOLO I
I PRIMI ABITATORI DEL GIGLIO - GLI ETRUSCHI
Quali furono i primi abitanti del Giglio?
Naturalmente non si può ammettere la teoria favolosa degli
aborigeni o autoctoni; quindi è che, per rispondere a simile domanda
occorre dare uno sguardo ai primi abitatori di quella regione, che poi fu
la VII di Augusto l’Etruria, che equivale, press’a poco, alla Toscana
attuale.
Stando ai fatti paleontologici ed archeologici, appare indubbio che
nell’epoca preistorica, e precisamente quella che i naturalisti chiamano
età della pietra, i Liguri si erano spinti, dal dorso dell’Appennino
settentrionale, fino nel cuore della media Italia, nel Lazio.
Ed infatti Siculi e Liguri si sarebbero trovati insieme là dove sorse
Roma (Verrio Flacco in Festo, e Dionigi di Alicarnasso).
Ma i Liguri non si estesero soltanto fino al luogo ove sorge l’alma
città di Roma: si spinsero anche nelle isole; e così li troviamo nell’Elba
che fu denominata, da loro, Ilva, nome comune d’un altro popolo ligure
(gli Ilvetes), e nella Corsica, cui imposero il nome d’un altro popolo ligure
(i Corsi), Kyrnos.
Un popolo che si spinge sì arditamente per mare fino a
raggiungere la Corsica; che si è impadronito dell’isola più importante
dell’arcipelago toscano, non poteva mancare di occupare le altre isole ad
essa vicine, specialmente quelle più prossime al continente, come isole a
cui era più facile l’approdo.
E tale considerazione non poteva mancare anche per un altro
riguardo.
Sforniti delle cognizioni occorrenti per navigare sicuramente; privi
di mezzi e di navi che resistessero vittoriosamente alle furie del mare,
bisogna di necessità ammettere che essi procedessero, dirò così, a passo
a passo; e quindi, partendo dal continente, dovevano soffermarsi nelle
prime terre che trovavano, per impiantarvi una stazione, e quindi
slanciarsi ancora, in cerca di altri lidi ignoti, e poi di altri ancora, e via
dicendo.
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L’elbano Raffaello Foresi raccolse e inviò, nel 1867, alla
Esposizione Mondiale di Parigi, diversi oggetti preistorici, rinvenuti nelle
varie isole dell’arcipelago toscano; e, tra questi, tre punte di frecce
scheggiate, con peduncolo e alette, trovate nell’isola del Giglio.
Di queste tre punte di freccia — che ora trovansi nel Museo
Archeologico di Firenze — due sono di diaspro ed una di silice.
Anche il geografo e naturalista marchese Giacomo Doria, il quale
soggiornò a lungo — specialmente dal 1895 al 1900 — al Giglio, ebbe
una punta di freccia, di silice, ritrovata in quell’isola.
Non è improbabile che altri di simili oggetti potrebbero trovarsi, e
che anche oggi qualche famiglia ne sia in possesso, ma non li rivela, più
che per ignoranza, per mera superstizione, ritenendoli quali misteriosi
amuleti.
Il diaspro ed il silice figurano tra i minerali gigliesi; e ciò è confermato da Giuseppe Giuli e dal Prof. Antonio D’Achiardi, già mio illustre
maestro di mineralogia nella R. Università di Pisa.
Ebbene, è ardito il supporre che le punte di freccia rammentate
siano state lavorate in loco, con minerali appunto che erano a libera
disposizione di quei remoti abitanti?
Ad ogni modo, quegli oggetti rimarrebbero sempre prova
manifesta di gente che li usava, e che li avrebbe importati; ossia
dell’andata dei liguri in quell’isola.
La mia è un’induzione, una semplice induzione; ma ritengo per
fermo che tutto l’arcipelago toscano, prima, la Corsica, poi, furono abitati
dai Liguri. Quindi anche il Giglio, di cui, probabilmente, queste genti
furono i primi abitatori.
Ligures montani duri et agrestes, li dice Cicerone; pernix Ligus,
Silva Italicus; Ligus asper, Avieno; ed è un fatto che i Liguri erano non
solo terribili in terra, quali si conveniva alla loro natura semi-selvaggia,
ma si gettavano sul mare, dove cercavano di compensarsi dell’asperità
del suolo occupato, facilmente spinti dalla bramosia d’avventure, per cui
il buon Virgilio chiamò quelo popolo «assuetus malo Ligur».
Ma dal 1200 al 1000 a.C. all’incirca, compariscono popoli nuovi,
che ricacciano i Liguri nelle sedi che conservarono poscia nelle epoche
istoriche e a cui, da essi, rimase il nome: la Liguria, come già
precedentemente, fra il 2000 e il 1500 a.C., gli Itali li avevano cacciati
dalla regione nordica italiana.
Questa la leggenda. Però è un fatto che, o si ammetta la teoria
lidica di cui uno dei più validi sostenitori è il Deeke, e che novera tra i
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suoi seguaci il Brizio e il Duhn — o che, con il Corsen e il Nissen,
l’Helbig, il Lattes, si ammetta la calata in grande massa degli Etruschi,
questi rimasero padroni di quella regione che Tuscia, Etruria fu detta,
indi Toscana.
Gli Etruschi — o Tirreni da Tirseno o da Thyrra, città della Lidia
da cui vennero, o Rasenne, dal nome d’un popolo italico (liguri) che essi
avrebbero ridotto in servitù — fecero sentire la loro potenza non solo in
terra, ma anche in mare: occuparono l’Elba, che offriva loro le ricche
miniere di ferro; li troviamo collegati con i Cartaginesi; conquistano la
Corsica (Diodoro), la Sardegna (Diodoro, Strabone), e tutte le isole tra
questa e il continente sono nelle loro mani. Non è, quindi, davvero
azzardoso il dire e sostenere che, cacciati i Liguri, a questi essi si
sostituirono, e che anche il Giglio fu abitato da questo popolo colto e
potente, la cui civiltà servì grandemente a ingentilire le barbarie dei
popoli che li precedettero. Diodoro Siculo, Erodoto ecc. affermano che i
Tirreni, o Etruschi, potenti per forze navali, tennero l’impero del mare; e
Dionisio li chiama «padroni del mare».
Gli Etruschi, nel periodo preistorico, rappresentano l’età del ferro.
E tale fu la potenza etrusca sul mare, che ben poche navi dei popoli
limitrofi si avventurarono sul mare Tirreno.
Veramente l’Inghirami dice che quei popoli limitrofi erano greci;
ma probabilmente erano i Siculi gli audaci che osavano venire nelle
acque etrusche, o tirrene, erano i siculi, popolo, con molta probabilità,
italico (Osci). Preludio delle lotte etrusche coi popoli italici, che, dopo
varie vicende, ebbero il loro riepilogo al Vadimone!
Che cosa fecero gli Etruschi al Giglio?
Difficile è la risposta; tutt’al più si può arguire che, maestri di
civiltà, profondi nelle arti belle, si siano dedicati al lavoro del granito per
le proprie fabbriche, per i propri monumenti, come più tardi fecero i
Romani.
Ma intanto, fondata Roma, questa cresceva rapidamente in
potenza; i popoli vicini venivano vinti e assoggettati.
E l’ora fatale si avvicinava per gli Etruschi: caduta Veio, vinte ed
espugnate Faleria, Capena; ridotto all’obbedienza Nepete e Sutrio, anche
la loro signoria sull’Adriatico e sul Mediterraneo era scomparsa, e i Galli
già avevano occupate le pianure del Po, che — sparita la civiltà etrusca —
caddero nella barbarie e nella solitudine.
Finalmente, dopo altre guerre, si combattè la grande battaglia
decisiva, in cui la stella dell’Etruria si eclissò totalmente. Al Vadimone
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(441 di R. e 311 a.C.), si scontrarono gli eserciti nemici. Terribile fu la
mischia, tanto bene descritta al cap. 39 del libro IX dell’Istorie di Tito
Livio. I più prodi caddero tutti da forti sul campo, né — dopo quella fatale
giornata — l’Etruria poté rialzarsi, e questa e le sue isole, Giglio
compreso, vennero in potere di Roma.
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CAPITOLO II
I ROMANI
Appena fondata, si inizia il rapido progredire della città di Roma.
Già sotto Servio Tullio i suoi confini si estendevano per sette miglia, e
alla cacciata di Tarquinio, fatto il censimento, si annoverano in essa
130.000 persone, senza le vedove e gli orfani.
Nel 457 di R., rinnovato il censimento, si ritrovarono 262.322
cittadini liberi.
Grandi ricchezze i Romani accumularono con le spoglie dei popoli
vinti, ed i patrizi erano opulenti, fastosi e forti.
Tra le famiglie patrizie importanti di Roma, notissima era quella
senatoria dei Domizi che — secondo Svetonio — si disse degli Enobarbi,
dalla barba rossa; e già nel 661 di R., Domizio Enobarbo fu console.
Furono gli Enobarbi che acquistarono grandi possessi nel
territorio Cosano, e Cosa loro appartenne, insieme con l’Isola del Giglio.
Ed infatti, accesasi la guerra di rivalità tra Cesare e Pompeo (49
avanti E.V.), Roma — e con essa l’Italia e tutto il mondo romano — si
divisero in due partiti, l’uno a Cesare favorevole, l’altro a Pompeo.
Domizio Enobarbo, signore di Cosa e dell’Isola del Giglio,
dipendente da quel Domizio che fu già console, patteggiò per Pompeo,
raccolse sette navi leggiere, le armò con genti gigliesi e cosane, e con
questa piccola flotta si recò a Marsiglia, attaccata dal vincitore delle
Gallie.
Leggiamo, infatti, nel libro 1°, capitolo 34 Commentari — De Bello
Civili —:
«Quo cum venisset cognoscit... profectum item Domitium ad occupandam
Marsiliam navibus actuariis VII, quas Igili et in Cosano a privatis coactas, servis libertis
colonis suis compleverat». (Essendo ivi giunto — nella Gallia ulteriore — apprende che
Domizio era partito per occupare Marsiglia, con sette navi leggere che, raccolte da privati in
Giglio e nel territorio Cosano, aveva armate con i suoi servi, liberati e coloni).
Non accennerò alle peripezie e alle vicende di questa guerra civile
che insanguinò il mondo; solo riporterò un episodio d’un attacco in cui
presero parte le sette navi sopra ricordate.
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I marsigliesi, cedendo al consiglio di L. Domizio, con 17 navi attaccarono
la flotta di Cesare comandata da D. Bruto.
Ed ecco quello che ne scrive Cesare:
«Certas sibi deposcit naves Domitius, atque has colonis pastoribusque quos
securo adduxerat, complet».
Ma l’esito dell’assalto fu infelice, poiché quantunque «pastoresque
indomiti, spe libertatis excitati, sub oculis domini, suam probare operam
studebant, (cap. 57 libro 1° opera citata), i partitanti di Cesare «magno
numero Albicorum et pastorum partim navium deprimunt nonnullas
cum hominibus capiunt, reliquas in portum compellunt».
E così, poi, di volo dirò che Cesare riuscì non solo a prendere la
pompeiana Marsiglia, ma a vincere, più tardi, nelle pianure di Farsalo
(Tessaglia) lo stesso Pompeo, che, fuggito in Egitto, fu ucciso.
Dalle parole di Cesare sopra riportate si rileva:
1° che il Giglio, circa mezzo secolo avanti Cristo, era non solo
abitato, ma che vi eran famiglie in possesso di tali bastimenti da poter
essere adibiti ad uso di guerra;
2° che il numero degli abitanti doveva essere per lo meno
discreto, se si potevano trovare tanti individui per armare ed
equipaggiare le navi stesse;
3° che essendovi delle famiglie di una certa importanza, doveva
esservi del movimento non solo agricolo e marinaro, ma anche civile;
4° che il Giglio, al pari di Cosa, era alla dipendenza della
famiglia dei Domizi;
5° che il Giglio aveva una certa importanza ben nota.
Si pensi al tempo in cui Cesare scriveva i suoi Commentari,
tempo, cioè, di guerre e di lotte sanguinose.
E se in simili momenti, lungi dall’Italia, citando il fatto delle navi
da Domizio raccolte al Giglio ed a Cosa, rammenta queste due località,
vuoi dire che queste o erano importanti di per sé, o per la senatoria
famiglia che su quelle imperava.
Si noti, inoltre, che le navi di D. Bruto furono attaccate da L.
Domizio, ad insulam quae est contra Marsiliam, stationes abtinebant; ed
ivi avvenne la battaglia ricordata. Ma quantunque si trattasse d’una
località dove le sue armi riuscirono vittoriose, Cesare non cita il nome di
quest’isola, che denomina con la perifrase «quae est contra Marsiliam».
Ma vi sono due fatti che provano come il Giglio, in quei tempi,
possedesse splendidi palazzi, ricovero di nobili persone.
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II così detto «Bagno del Saraceno»; numerosi avanzi di antichi fabbricati, ove forse tuttora si vedono ricchi pavimenti a mosaico commessi
di verde antico, diaspri gialli e simili pietre di diversi colori, ci dimostrano
che il Giglio fu non solo stanza dei Domizi, ma che probabilmente fu
scelta per tranquillo ritiro anche da opulenti cittadini romani, vaghi di
vivere lontani dalle civili contese, e di godere una tranquillità che mal
potevan trovare fra i rumori della capitale.
Ho detto che «forse anche oggi» si possono vedere certi pavimenti,
e ciò dico perché fino a poco tempo addietro io stesso, come già altri, ne
ho constatata la presenza ed esistenza, mentre ora la superficie un
tempo coperta da superbe magioni, è percossa e lavorata dal piccone e
dalla zappa dell’agricoltore.
Ed altra prova che in quell’epoca al Giglio vi era vita ed attività,
l’abbiamo nel fatto che anche allora vi si lavorava il granito, il quale
veniva scavato per farne colonne a ornamento dei palazzi e delle ville dei
nobili romani.
Anche a Giannutri si trovano cinque colonne di granito del Giglio
in una costruzione romana che, dai ruderi rimasti, rivela la sua prisca
grandezza e suntuosità. In tale costruzione, — situata a Cala Maestra —
si conservano ancora cinque stanze con intatti i superbi ed ammirevoli
pavimenti a mosaico.
L’essere, poi, il Porto, provveduto d’un molo — imponente opera di quella
meravigliosa nazione (Lessi G., Atti della R. Accademia dei Georg., tomo
V) — già lungo 179 braccia, dà indizio che il porto era così frequentato,
da sentirsi il bisogno di farvi quel grande lavoro, per rendervi sicura la
stazione dei navigli, impiegati, forse, nel trasporto del granito lavorato,
giacché non si può pensare che in un’isola così piccola tale dispendiosa
opera servisse ad altra intrapresa.
Ma il molo, molto probabilmente, fu costruito anche per rendere
sicuro l’approdo di quelle navi che trasportavano i signori di quei palazzi,
di cui tuttodì ammiransi le vestigia, e che possedevano navi ed uomini da
inviarli a guerre — almeno per allora — discretamente lontane.
Dunque noi troviamo che il Giglio, in quel tempo, era abitato non
solo da nobili signori, ma anche da lavoratori di granito. Naturale è il
supporre che vi sarà stata che una parte della popolazione dedicata alla
pesca, giacché conosciamo la passione dei patrizi romani per i pesci, che
venivano da loro conservati in certi depositi o cetarie.
Ed anzi, a proposito di questi depositi, debbo notare come io inclini a
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ritenere che il così detto Bagno del Saraceno, non sia stato che una
cetaria, annessa al superbo palazzo, le cui rovine più sopra ho ricordate.
Osservando le cetarie del Monte Argentario e confrontandole col
Bagno del Saraceno, chiunque può facilmente convincersi che l’antico
palazzo del Castellare aveva annessa una piccola cetaria.
Riepilogando: il fatto che diverse navi furono, da Domizio
Enobarbo, raccolte al Giglio, e furono armate, in parte, ed equipaggiate
con marinari gigliesi; le lavorazioni di granito che nel Giglio si
eseguivano; il molo, il quale dimostra essere stato, il porto, frequentato;
gli avanzi di sontuosi palazzi; il così detto Bagno del Saraceno, ci
inducono a credere che, qualche anno avanti l’era volgare, il Giglio era
ben abitato e che vi era attivo commercio, certo maggiore a quello di oggi.
E poiché abitanti vi erano, dove essi stavano raccolti ? Qual parte
dell’isola essi abitavano?
Ripensando agli avanzi della così detta Villa Romana al
Castellare; al molo sopra ricordato, ad altri ruderi che si trovano
all’attuale Porto; ai numerosi recipienti di terra cotta, con entro resti
umani, trovati nei piani del porto stesso insieme con numerose monete
della Roma antica; ripensando ancora che il Mediterraneo, il mare
nostrum, era una proprietà esclusiva dai Romani, che liberamente vi
scorrevano, e quindi non v’erano pericoli — come più tardi — ad abitarne
le spiagge, è facile concludere che il centro della vita e del commercio
fosse, allora, all’attuale Porto o nelle sue immediate vicinanze. Peraltro, io
sono di opinione che, mentre il Porto era il vero centro abitato, altre
abitazioni o ville si trovassero sparse per l’isola. Tra le punte del Morto e
del Fenaio ne sporge un’altra, dove rinvengonsi avanzi di costruzione, e
dove si sono trovati dei coppi con scheletri umani. Trovai un pezzo
granitico di tomba su cui leggesi DOMTI.
Ucciso Giulio Cesare, distrutta la Repubblica Romana nel
Convegno di Antonio, Lepido ed Ottavio sopra un isolotto del piccolo
Reno; battuto Lucio — fratello di Antonio — da Ottavio, Antonio, a cui si
unirono Domizio Enobarbo e Sesto Pompeo con le flotte loro, deliberò di
portare soccorso al proprio fratello. Ma fu evitato nuovo spargimento di
sangue. A Brindisi fu fatta la pace, e ad Antonio fu data in moglie Ottavia
sorella di Ottavio.
Morto Lepido oscuramente a Circeo; battuto Antonio ad Azio, e
quindi uccisosi in Egitto, rimase solo seguace Ottavio, che si chiamò
Cesare Augusto, e con lui ha principio l’impero romano che tanta
grandezza acquistò, ed il cui apogeo raggiunse sotto Traiano, chiamato il
Dacico(97-117 E.V.).
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Trasportata la sede dell’Impero a Bisanzio (330 E.V.), diviso l’impero stesso in due, la fatale rovina di Roma si avvicinava.
Ma durante l’impero che ne fu del Giglio?
Nulla se ne sa. Forse vi si sarà ancora scavato il granito per le
fabbriche romane, e forse ancora avrà continuato ad essere un luogo di
rifugio e di riposo per qualche cittadino dovizioso della grandissima città.
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CAPITOLO III
GIGLIO DURANTE LE INVASIONI BARBARICHE
Siamo al 400 dell’E.V., l’Impero Romano accenna ad imminente
rovina. Già sin dal 330 era stato diviso da Costantino — col trasferimento
della sede dell’impero a Bisanzio — in due, e cioè impero orientale con
capitale Bisanzio — che poi si disse Costantinopoli — e l’occidentale che
da Roma dipendeva.
Imperava, in quest’ultima, Onorio, figlio di Teodosio; ed Alarico,
con i suoi Goti, dopo aver devastato l’oriente, venne in Italia. Ma
Stilicene, generale di Onorio, costrinse l’invasore a ritirarsi (404).
L’anno seguente Radagaiso volle, con un’altra invasione,
vendicare la sconfitta di Alarico; ma fu vinto egli pure, e ucciso da
Stilicone.
Intanto Alarico si avvicinava di nuovo in Italia, e la novella
invasione fu impedita con un enorme regalo a cui Onorio fu costretto
assoggettarsi.
Ma scopertasi, e punitasi con la morte, l’ambizione di Stilicone, il
quale voleva la rovina di Onorio per porre il proprio figlio sul trono
imperiale, Alarico, vedendo privo l’impero di un tanto valido difensore,
irruppe nuovamente in Italia, assediò Roma, mentre Onorio stava
oziando in Ravenna, e il barbaro si ritirò solo dopo avere avuti ingenti
doni, molti giovani romani in ostaggio, e fatti liberi tutti gli schiavi di sua
nazione che erano in Roma.
L’anno appresso (409) ritornò ed assediò Roma. Vi entrò
ingiungendo ai cittadini di innalzare alla dignità imperiale Attalo loro
prefetto.
Roma riuscì a chiudere le porte in faccia di Alarico; ma nella notte
del 24 agosto 410, Alarico la forzò la prese, e, per la prima volta, l’illustre
metropoli fu abbandonata al saccheggio ed al fuoco dei barbari, e cioè
dopo 1103 anni dalla sua fondazione!
E la grande città, che già sotto Augusto aveva noverato 4.137.000
cittadini e ben 6.944.000 sotto Claudio imperatore, la grande città,
ripeto, fu un ammasso di rovine, ed i suoi abitanti fugati!
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Molti romani, spaventali dalla ferocia dei barbari aggressori,
fuggirono dall’eterna città, e in tale occasione Giglio diede sicuro asilo e
ricovero ai degeneri figli di Roma che, già signora del mondo, trovavasi
ora in balia di gente straniera e crudele.
Rutilio Numaziano, gallo di nazione, prefetto allora di Roma,
ritornando ad Arles, preferì seguire la via di mare perché i Goti avevano
devastato e distrutto, come egli stesso narra nel suo «De Itinere», la via
Aurelia e i ponti sui fiumi tra cui quelli dell’Albegna, Osa, ed Ombrone.
E passando tra l’Argentario ed il Giglio, scorgendo di quest’ultimo
le selvose vette, esce nelle parole:
«Eminus Igilii silvosa cacumina miror
«Quam fraudare nefas laudis honore suae
«Haec proprios nuper tutata est Insula saltus
«Sine loci ingenio seu Domini genio.
«Gurgite cum modico obstitit victricibus armis
«Tamquam longinquo dissociata mari
«Haec multos lacera suscepit ab urbe fugatos
«Haec fessis posito certa timore salus».
(Da lungi osservo le selvose vette del Giglio. Sarebbe un delitto
privarla dell’onore di una lode che giustamente si merita. Quest’isola, di
recente, difese i propri boschi o per la posizione del luogo, o per
l’avvedutezza del suo signore. — Separata dal continente per breve tratto
di mare, non fu tocca dai barbari vincitori, quasi che si fosse trovata in
mezzo a mare lontano. Quest’isola ricoverò molti cittadini fuggiti da
Roma depredata, e qui deposto ogni timore vi trovarono asilo sicuro).
E così Numaziano, unico contemporaneo, conferma il triste fato di
Roma, la fuga dei suoi cittadini, che numerosi si rifugiarono al Giglio.
Da ciò, dunque, che dice Numaziano, vediamo che il Giglio, nel
410 doveva avere un discreto numero di abitanti, poiché ai vecchi
abitatori si aggiunsero i molti romani che fuggivano dinanzi a quei
barbari dei quali i loro antenati eran soliti vedere le spalle.
Ci dimostrano, altresì, come questi abitatori nulla avessero a
temere dalle orde barbariche che infestavano il continente; ci rivelano
l’antica ospitalità gigliese, e come il Giglio avesse un signore o padrone.
Ignorasi qual fosse questo signore cantato da Numaziano; con
probabilità egli era un discendente dei Domizi Enobarbi, ma certamente
un romano, poiché con tanta sicurezza i cittadini di Roma vi
accorrevano.
E il ricordarsi, i romani, in tanti perigli, di quest’isola e
l’accorrervi, non dimostra che il Giglio era da loro ben conosciuto? non
dimostra che il signore di quest’isola fosse uno dei più noti patrizi
romani?
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Altre irruzioni dei Goti tennero dietro a quelle degli Unni, capitanati da
Attila, che fu detto «flagello di Dio», e dei Vandali guidati da Genserico,
loro re. Il quale, partito dall’Africa e sbarcato con trecentomila uomini in
Italia, si volse alla volta di Roma, e disprezzando le lacrime e le preghiere
del Pontefice S. Leone, si impadronì di quella città, che fu già capitale del
mondo conosciuto. Per quattordici giorni crudelmente la saccheggiava
(455) e indi se ne ripartiva carico di preda e di schiavi, tra cui Mamiliano
e Sensia, preti, Covuldo, Istochio e Infante, monaci.
Questi ultimi vennero deportati in Africa; ma, eludendo la
vigilanza dei barbari, riuscirono a fuggire, imbarcarsi ed approdare
all’Isola di Monte Cristo, l’antica Oglasa, ed anche Mons Iovis, dove
quegli sfortunati vivevano nascosti.
E qui, in Monte Cristo, morì Mamiliano, che poi fu santificato. Sensia ed i
suoi compagni trasportarono il cadavere di S. Mamiliano all’Isola del
Giglio e quivi lo seppellirono; ed essi rimasero presso la tomba del loro
compagno. Ed appunto in Giglio morirono Covuldo, Istochio e Infante; e
Sensia, rimasto solo, se ne partì, sbarcò a Colonia, per ritornare a Bleda,
o Bieda, nella Tuscia, sua patria, ove morì e fu sepolto.
Così narra il chiarissimo archeologo prof. De Rossi (Bollett. di
archeologia crist., pag. 99), ed io, stante la indiscussa autorità di sì
illustre scrittore, ritengo che la sua versione — per ciò che riguarda la
prigionia, la fuga e la morte e sepoltura di S. Mamiliano — sia la vera.
Perché, relativamente a questo santo, vi sono parecchie
controversie.
Alcuni, per esempio, dicono che S. Mamiliano, essendo Vescovo di
Palermo, perseguitato e cacciato dalla sua città dai Vandali, si rifugiò a
Monte Cristo, dove i Vandali, raggiuntolo, lo uccisero insieme con i suoi
compagni. (Lombardi Sebastiano, Memorie sul Montargentario. —
Ristretto storico suII’Etruria e suo littorale antico e del medio evo — cap,
4°). Anzi di tal santo se ne farebbe un martire.
Altri asseriscono che, alla venuta dei Vandali, il Vescovo di
Palermo, Mamiliano, fuggisse, ricoverandosi a Monte Cristo. Ad ogni
modo tutti convengono che il santo Vescovo sia morto nell’isola ora
rammentata.
Stando alle memorie pisane, parrebbe che S. Mamiliano, invece di
essere seppellito al Giglio, venisse sepolto nella stessa Isola dove morì,
donde poi fu trasportato, insieme con i cadaveri dei suoi compagni,
nell’anno 848, ai tempi di S. Leone IV, all’Isola del Giglio.
La versione del prof. De Rossi, che ritengo la vera, e le cronache
pisane, quantunque discordi nelle epoche, convengono che il cadavere di
S. Mamiliano venisse depositato in Giglio.
20
Come e quando fu trasportato? dove? Forse i Pontefici non
volendo permettere che i resti di un santo potessero venire nelle mani di
pirati o di altri barbari, ne ordinarono il trasporto in altra località, nello
stesso modo che dal Giglio il Papa S. Leone IV fece togliere i cadaveri dei
santi Lustro e Vindemmio. È un fatto che nel 1780 Monsignor Santi
procedé alla recognizione dei resti di S. Mamiliano esistenti in Sovana;
che qui trovò la quarta parte dello scheletro del Santo! (1). Ed è un fatto
ancora che l’unica reliquia posseduta dai gigliesi, del loro protettore,
venne regalata dal Mons. Fulvio Salvi, Vescovo di Sovana, il 7 giugno
1722 a Cosìmo III Granduca di Toscana, il quale, a sua volta, la regalò
alla chiesa arcipretale del Giglio.
Aggiungerò che anche prima del 455, si erano rifugiate in Monte
Cristo parecchie persone, che vi menavano vita eremitica, e che nel 727 il
Monastero di S. Mamiliano fu distrutto dai pirati. I monaci vi
ritornarono, ma ne furono scacciati nel 1100.
I pisani, nel 1200, si impadronirono di Monte Cristo, e i monaci di
nuovo vi ritornarono; ma temendo le continue scorrerie dei barbari,
furono costretti ad abbandonare definitivamente quell’isola, ritirandosi in
Pisa, e precisamente nel monastero di S. Michele.
II monastero di Monte Cristo era provvisto di diverse rendite:
possedeva in Sardegna, Corsica, Elba e Pianosa, secondo resulta da una
bolla di Papa Gelasio II, in data 1° ottobre 1119 diretta ad Enrico, abate
di S. Mamiliano.
Intanto Odoacre, condottiero degli Eruli e Turingi, sceso in Italia,
guidato da Ravenna Romolo Momillo, più noto col nome di Augustolo,
imperatore del romano impero occidentale, raggiuntolo a Roma lo prese e
dispogliatolo delle insegne imperiali lo relegò nel castello di Lucullo, oggi
dell’Ovo in Napoli.
E così l’impero romano aveva termine (476), e Odoacre facevasi
fastosamente chiamare Re d’Italia, fissando la sua sede in Ravenna, ove
gli Imperatori d’occidente avevano veduto finalmente spengersi la loro
autorità e la possanza di quell’impero che si estendeva su quasi tutto il
mondo allora conosciuto.
E così — come argutamente osserva il Rambelli nella sua «Storia d’Italia
in compendio» — mentre la potenza romana incominciò con un Romolo,
(1) Al tempo del Vescovo di Sovana Apollonio Massaini, il corpo di San Mamiliano
Arcivescovo di Palermo, dall’Isola del Giglio il 1460 fu trasferito a Sovana nella Cattedrale,
ove fu reperito dopo due secoli, e vi si legge questa iscrizione:
Hic iacet corpus S. Mamiliani - Archiepiscopi Panormitani.
21
sotto un altro Romolo veniva ridotta al niente; e l’impero romano da
Augusto fondato, sotto Augustolo aveva fine.
22
CAPITOLO IV
GLI ABATI CISTERCENSI
Le memorie dell’antico convento dei SS. Vincenzo e Anastasio ad
Aquas Salvias — ora delle Tre Fontane, in Roma — ci parlano di una
donazione fatta da Carlo Magno sul principiare del secolo IX a’ monaci
del ricordato convento, del territorio di Cosa, dell’Isola del Giglio e di
Giannutri e 100 miglia di mare.
Tale donazione viene rammentata dalla tavola di rame della Badia
delle Tre Fontane, tavola trovata nel 1359, ossia 554 anni dopo l’805, alla
quale epoca, appunto, ci richiama la iscrizione della tavola stessa,
iscrizione che, per brevità, si omette di riportare.
II documento citato non porta l’indicazione del luogo, del giorno e
del mese in cui il privilegio fu pubblicato; ma si può rimediare a tale
difetto consultando Eginardo, segretario, cortigiano e biografo di Carlo
Magno, asserisce, egli, infatti, che il suo Sovrano venne, per l’ultima
volta, in Italia nell’800, quando fu incoronato Imperatore.
D’altra parte sappiamo dagli annali Bertiniani che il Pontefice
Leone III negli ultimi mesi dell’804 si recò da Roma in Francia, e quindi
con Carlo Magno passò nella città di Aquisgrana, dove celebrò il santo
Natale. Con questo stesso giorno chiudevasi il IX anno di pontificato di
Leone III, e lo stesso giorno era il principio dell’anno V dell’impero di
Carlo Magno.
Ripensando poi, che, poco tempo dopo il Natale dell’804, il
Pontefice Leone, con i suoi cardinali abbandonò Aquisgrana per
ritornare, traversando la Baviera, a Roma, dobbiamo concludere che la
donazione al monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias,
avvenne nei giorni successivi al Natale dell’anno 804.
Parrebbe, poi, che il luogo ove tale donazione fu fatta, fosse la
stessa città di Aquisgrana, e ciò verrebbe desunto dal leggersi nel
surriferito documento i nomi di un Vescovo di Francia, e di un Duca di
Leone (Hugo dux Lugo).
23
Per la tavola metallica, in cui fu scritto e riportato il privilegio
pontificio – imperiale, risulterebbe nella indizione, la quale, al principio
dell’anno 895, era la XIII invece della X.
Mi è sembrato che alcuni impugnino il documento ora citato, ma
esista, o no, sia autentico od apocrifo, è un fatto che i luoghi rammentati
(Cosa, Giglio, Giannutri ecc.) appartennero ai monaci dei SS. Vincenzo e
Anastasio.
Ed infatti il privilegio di cui sopra fu rinnovato a favore dei monaci
cistercensi da Eugenio III (Paganelli, di Montemagno, 1145); da Anastasio
IV (1153); da Adriano IV (Breakspeare, di Langley, 1154); da Alessandro
III (Bandinelli, di Siena, 1159), e da Lucio III (1181), il quale ultimo, con
una bolla, spedita da Velletri l’anno 2° del suo pontificato, all’Abate
Guidone, e sottoscritta dal medesimo Pontefice e 17 cardinali, dichiara di
assumersi la protezione di tutti i beni appartenenti all’Abbadia, ora delle
Tre Fontane, tra cui Ansidonia, Orbetello, Tricosto, Giglio, Giannutri,
Porto Fenilia, ecc.
In tutte le bolle, poi, di questi Pontefici testè citati, viene ricordato
il dono fatto da Carlo Magno dei castelli, stagni, porti ed isole suddette, a
cui si vedono aggiunte altre località e pertinenze, non rammentate nella
tavola di cui sopra.
Il 12 gennaio 1255, con una sua bolla concistoriale, il Pontefice
Alessandro IV, ad esempio dei Papi suoi predecessori, già ricordati,
confermò ai monaci dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias, tutte
le possessioni loro spettanti, tanto quelle situate nello Stato romano,
quanto le altre della Toscana, che furono donate da Carlo Magno.
Non riporterò qui, certamente, la bolla di Alessandro IV, e ciò per
il motivo più sopra accennato: mi piace, peraltro, riportare la descrizione
dei confini entro cui erano compresi i beni del monastero dei SS.
Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias:
«Quae continentur infra terminos supradicto Domino Leone P.P. III, et Carlo
Magno imperatore designatos (videlicet) ab uno latere mare magnum infra miliara centum,
Intra quod mare est mons qui vocatur Gilium, et insula vacatur Iannutri, juris praelinati
monasterii nostri; secundo latere est fluvius qui vocatur Albinia; a tertio latere decurrit
aqua quae vocatur Serpenna; a quarto autem latere vertit per Sarpennam et vadit per
montem Aristini, e decurrit in Buerim (Burano?) et sic revestitur in praedictum mare
magnum et sicuit in literis, cartis, et privilegis continentur».
Dai cennati documenti papali, risulta in modo non dubbio che
effettivamente Carlo Magno cede l’Isola del Giglio, ed altri paesi e località,
ai Cistercensi, i quali, poi, nel 1269, come vedremo, li cederono in feudo
ai conti Aldobrandeschi di Sovana.
Ma durante questo tempo i monaci vi esercitarono un vero
imperio? Probabilmente, per non dire certamente, il governo dei monaci
24
si ridusse a contentarsi di noverare, tra le loro proprietà, l’Isola del
Giglio, e a spiegarvi la loro giurisdizione ecclesiastica. Ed anche tuttodì il
Giglio, ecclesiasticamente, dipende dall’abate delle Tre Fontane.
Questo mio asserto meglio si spiegherà in seguito, parlando degli
Aldobrandeschi, degli Orsini, della Repubblica di Siena ecc.
Intanto solo accennerò che con Carlo Magno, salutato (nel Natale
dell’801) «piissimo, augustissimo, coronato dalla mano di Dio grande e
pacifico imperatore», risorse l’impero occidentale, e dove il Papa soleva
essere raffermato dagli Imperatori, cominciarono questi ad aver bisogno
della confermazione del Pontefice.
Così principiò ancora a spiegarsi quella grande autorità dei Papi,
il cui regno temporale già aveva cominciato ad esistere fin dal 752,
quando Pipino, padre di Carlo Magno, cede al Pontefice Stefano II
Ravenna con l’esarcato, e la così detta Pentapoli; autorità che poscia si
estese su tutta l’Europa, e fu delle maggiori potenze del mondo.
Si arriva, il 1240, all’epoca delle titaniche lotte tra Gregorio IX e
l’Imperatore Federigo II. Il Pontefice, assalito da Federigo, che aveva
assoldati 20.000 saracini, i quali non temevano, certo, gli anatemi papali,
spedì una circolare ai prelati con l’intimazione di un consiglio generale da
farsi nel seguente anno.
Federigo, presentendo che vi si confermerebbero le censure contro
di sé, stabilì di impedire che il concilio avesse luogo. A questo fine
radunò più navi che poté in Sicilia, e montatele alla ghibellina Pisa, sotto
il comando del suo figlio Enzo Re di Sardegna, le unì alle galere pisane.
Tali navi aspettavano nelle acque del Giglio la flotta genovese che
doveva portare a Roma i prelati francesi. Finalmente la flotta aspettata
comparve, ed era composta di 67 legni, di cui 27 galere, guidate
dall’ammiraglio lacopo Marocello; i pisani avevano 40 galere, comandate
da Ugolino Buzaccherini, alle quali se ne aggiunsero 27 soggette ad Enzo.
Il Marocello, sebbene enorme fosse la disparità delle forze, volle
attaccare la pugna, che — avvenuta tra Giglio, Montecristo e l’Elba — fu
vinta dai pisani, i quali condussero in Pisa, prigionieri, tutti i prelati.
Tale battaglia navale fu combattuta il 3 maggio 1241. Di che è
fama perisse di dolore Gregorio IX; mentre il suo antagonista, Federigo II,
morì in Firenzuola di Puglia, il 13 dicembre 1250.
25
CAPITOLO V
GLI ALDOBRANDESCHI - I CONTI ORSINI
Nei tempi a cui siamo giunti era potente nella Maremma la famiglia degli Aldobrandeschi, divisa nei due rami di Soana e di S. Fiora.
A questa nobile famiglia fu, dai monaci Cistercensi, ceduta l’Isola
del Giglio, insieme con altri paesi del continente; ma la signoria dei nuovi
padroni — almeno per il Giglio — fu soltanto nominale, perché, prima
che tale cessione avvenisse, il Giglio — come in seguito vedremo — era
già in possesso dei pisani.
Nel 1269 don Elia, monaco cistercense dei SS. Vincenzo e
Anastasio, procuratore dell’Abbazia e dei monaci delle Tre Fontane,
investì, con il titolo di feudo, il conte Aldobrandino di Soana detto il
Rosso, di tutti i castelli, porti ed isole rammentati nelle bolle pontificie
che nel capitolo precedente vennero citate. Veniva poi accordata ad
Aldobrandino la facoltà di passare tali castelli, porti ed isole nei figli ed
eredi suoi per l’annuo tributo di pochi fiorini d’oro, e il Monastero ed
Abbazia delle Tre Fonarne riserbavasi il diritto di laudemio ogni 25 anni e
la giurisdizione ecclesiastica, che — come dissi — dopo tanti anni anche
ora conserva.
L’11 dicembre 1272 fu rogato un contratto di divisione fra i due
rami Aldobrandeschi di Soana e di S. Fiora. Toccò di parte, al ramo di S.
Fiora, la terra stessa di Santa Fiora, che diede il titolo della contea, oltre i
castelli di Arcidosso, Triana, Samprugnano, Selvena, Magliano,
Montemerano, Manciano, Capalbio, Serpenna, Stribugliano, Scansano,
Ischia, Roselle, Roccastrada, Sassoforte, e tanti altri luoghi circonvicini,
lasciando a comune con l’altro ramo di Soana, Sorano, Pitigliano,
Saturnia, Orbetello, Monte Argentario, Isola del Giglio, Roccalbegna,
Grosseto, il massetano, le cave delle miniere di argento vivo di Silvena, e
le regioni che gli Aldobrandeschi potevano avere sopra vari paesi del
contado di Castro e sulla città omonima.
La linea maschile degli Aldobrandeschi di Soana si spense ben
presto, mentre quella di S. Fiora continuò, fino al secolo XV, a dominare
molti paesi della Maremma e del Monte Amiata.
Venuto a morte il conte Aldobrandino, detto il Rosso, lasciò erede
26
dei suoi beni l’unica figlia, Margherita, sposata al conte Guido di
Monfort.
L’investitura del feudo paterno fu rinnovata in Orbetello a favore
della citata erede, e — onde imprimere una più solenne validità a cotesta
investitura, concorse ancora il beneplacito del Pontefice Bonifazio VIII
(Benedetto Gaetani) mercé suo breve, spedito dal palazzo Lateranense il
10 marzo 1303. Tale breve fu rogato alla presenza di Marco, Vescovo di
Soana e di Gualcherino, Proposto di Grosseto, i quali fecero da testimoni.
Ma pare che gli Aldobrandeschi di S. Fiora non andassero punto
d’accordo con quelli di Soana, poiché il 6 agosto 1286, Donna
Margherita, contessa palatina di Toscana, figlia, come abbiamo detto, di
Aldobrandino, costituì il proprio marito, Guido di Monfort, in suo
procuratore per fare la pace con gli Aldobrandeschi di Santa Fiora.
Morta la contessa Margherita, il feudo di Orbetello, Giglio ecc. fu
ereditato dalla contessa Anastasia, figlia di Margherita e di Guido di
Monfort.
Anastasia, mercé il suo matrimonio contratto nel 1293 con Guido
di Bertoldo, dei Conti Orsini, portò le contee di Soana ed il feudo di
Orbetello, Giglio ecc., nella casa Orsini di Roma.
Eredi di Guido Orsini e di Anastasia Monfort, furono i figli loro
Aldobrandino, Niccola e Gentile.
A favore di questi fu rinnovata l’investitura con un atto pubblico,
rogato in Roma, il 10 marzo 1358.
Con tale atto si rinnovò a favore dei citati fratelli Orsini,
l’infeudazione del castello di Orbetello, dello Stagno, con la pesca e
Saline; della città dell’Ansedonia, col porto della Fenigia, Portercole,
Monte Argentario, l’Isola del Giglio e quella di Giannutri ecc. mediante un
annuo canone.
Il 15 giugno 1401 fu rinnovata, in Pitigliano, una nuova
investitura; ed il monaco frate Bernardino, nella sua qualità di Sindaco
dell’Abate del Monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias,
infeudò Giglio, Giannutri, Orbetello, Portercole, Monte Argentario,
Capalbio, Marsiliana, Montaguto, al conte Bertoldo Orsini, padre e ad
Orso, Aldobrandino e Niccola, di lui figli, per essi e loro successori in
linea maschile; ed in mancanza di maschi, da succedere, nello stesso
feudo, a femmine nate dalla stessa branca, con l’obbligo, ai feudatari, di
mandare, a titolo di annuo censo, nel giorno festivo di S. Anastasio, al
suo Monastero, un cavallo bianco, o leardo, bardato.
Inoltre, tra gli obblighi, vi era quello di rinnovare il contratto
medesimo di generazione, mediante laudemio.
27
CAPITOLO VI
I PISANI - I FIORENTINI
I Pisani - Abbiam detto che il Giglio apparteneva, fino dall’805, ai
Monaci Cistercensi, e che questi lo cederono — mediante un annuo
tributo — ai conti Aldobrandeschi di Soana, ed ai conti Orsini di Roma.
Però è fatto che, mentre i Monaci Cistercensi si chiamavano
signori del Giglio, e, come tali, cedevano quest’Isola ad altri, — che pure
vantavano un’ancor più nominale signoria — i veri padroni e gli effettivi
signori ne erano i pisani.
Correvano, allora, i tempi in cui il diritto era costituito dalla forza,
e il debole veniva calpestato dal prepotente. Ed oggi possiamo, con
sicurezza, affermare che altrettanto non succeda?
Non ho potuto determinare, con precisione, in quale epoca i
pisani si impadronirono del Giglio; ma, certamente, ciò avvenne molto
presto.
Questi, mentre con le loro navi solcavano i mari, e mantenevano
costante e florido commercio con l’Oriente, profittando della loro potenza
navale, non avranno certamente mancato di impadronirsi subito di
un’isola, come quella del Giglio, tanto a Pisa vicina, e di riconoscerla
come propria.
E che così dovesse essere, anzi fu, ce lo fa supporre il fatto che,
mentre i Monaci Cistercensi, nel 1269, ritenendo come a loro
appartenente l’Isola del Giglio, la cedevano agli Aldobrandeschi di Soana,
i pisani, cinque anni avanti, avevano stipulato un trattato con il Re di
Tunisi, nel quale trattato il Giglio veniva considerato come proprietà e
dipendenza pisana.
Ed infatti, tra i paragrafi delle condizioni di pace conclusi nel
1264 fra Pisa e il Re di Tunisi, Elmiro Mommini Buabidelle, vi è il
capitolo che sotto riportiamo, con cui vien dimostrato che, fino da quel
tempo, Giglio era alle dipendenze della Repubblica pisana.
Il capitolo in parola è il seguente:
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«De le Isule de li pisani (2) - Lo quale dominus Parente (nome dell’ambasciatore
pisano, incaricata di contrattare questa pace) disse, e ricordò lo confine de le terre loro, le
quali messe sono su questa pace, et le quali sono in terra ferma et grande, ciò este de lo
Corbo (3) in fine a Civita Vecchia, et l’isule le quali ano in mare, ciò est tucta l’isula di
Sardegna, et castello di Castro, et l’isula di Corsicha, et l’isula di Pianosa, et l’isula d’Elba,
et l’isula di Giglio, et l’isula di Monte-Cristo».
Abbiamo detto che nel 1303, nel 1358 ed anche in altre epoche
successive, i Monaci di S. Anastasio avevano ripetuto gli atti, con i quali
l’Isola del Giglio veniva da essi ceduta agli Aldobrandeschi, prima, e poi
ai conti Orsini.
Però i fatti che verremo esponendo, dimostreranno sempre più
come la signoria dei Cistercensi e dei loro feudatari Aldobrandeschi ed
Orsini, fosse puramente nominale, mentre, in realtà, e di fatto, nell’Isola
del Giglio governavano e comandavano i pisani.
Questi, nel tempo che gli Abati delle Tre Fontane infeudavano
Giglio a questo ed a quello, vi tenevano invece un distaccamento militare
ed un proprio cittadino con la carica di Governatore (V. Tronci - Annali
pisani).
Quello che mi ha prodotto una certa meraviglia è il non aver
trovato alcun cenno di protesta da parte del Monastero dei SS. Vincenzo
e Anastasio ad Aquas Salvias, o delle Tre Fontane, per l’occupazione, da
parte dei pisani, di un’isola che gli apparteneva; e come gli
Aldobrandeschi e gli Orsini accettassero in feudo l’Isola del Giglio, e, per
ciò pagassero un annuo canone, mentre sapevano di non poter esercitare
la loro signoria sopra tale isola, perché posseduta e governata da Pisa.
È vero, bensì, che Pisa, a quei tempi, era una delle più grandi
Repubbliche italiane, la cui bandiera sventolava riverita e temuta sui
mari, e le cui navi avevano il monopolio dei commerci dei porti d’Oriente.
Che forse, i buoni Monaci, non volevano noie con sì poderosa
Repubblica?
Eppure — come si dirà — quante liti essi mossero, più tardi, a
Siena, causate soltanto dalla misura del censo da questa a loro dovuto
per il Giglio, ed altre terre, liti, del resto, che, mediante l’intervento dei
Pontefici, si risolvevano in concordati più favorevoli ai loro avversari. E
Siena non dominava — siccome vi dominavano i pisani — sul Giglio, ma,
al pari degli Aldobrandeschi e degli Orsini, si contentava di segnare fra le
proprie terre l’Isola del Giglio.
(2) Tronci – Annali pisani.
(3) Il Corbo, o Corvo, è un punto del Golfo della Spezia.
29
I Fiorentini - Nel 1362 era primo Gonfaloniere di Firenze Francesco
Cursi, il quale, ritenendo che il sopportare pazientemente le vecchie e
continue ingiurie dei pisani, ad altro non servisse che a provocarne delle
nuove, col consiglio ed autorizzazione dei Priori e del Senato, comandò a
Giovanni Di Sasso — famoso condottiero — che togliesse ai pisani il
castello di Pietrabuona, avendo prima simulato di bandire dalla città lo
stesso Di Sasso.
La vera causa di questa guerra, che generò tanti danni ai due
popoli, ebbe origine dal Porto di Talamone, dipendente, allora, da Siena.
Infatti i pisani, vedendo che in questo porto, piuttostoché nelle
loro città, si trasferivano la mercanzie di Firenze (4), e vedendo quanto
danno la città propria risentisse da tale stato di cose, cercavano ogni
giorno l’occasione di rompere la pace, incoraggiati a far questo dalla
lunga pazienza dei loro nemici.
I fiorentini, benché offesi, mostravano di non intendere gli animi
dei pisani, e attesero sempre a difendere le cose loro, fino a che il Cursi,
come abbiamo detto, non ordinò a Giovanni Di Sasso, di assalire il
castello di Pietrabuona.
I pisani, vedutisi assaliti, mandarono essi pure delle milizie per
togliere ai fiorentini Sommacolonna; ma non riuscendo il loro disegno,
attesero a ricuperare, con maggiori sforzi, la terra perduta.
Accesisi maggiormente gli odi, Firenze mise in piedi un
formidabile esercito ed una flotta poderosa; assalì Pierino Grimaldi,
genovese, con quattro galere ed a queste ne aggiunse altre due che aveva
avute in soccorso da Niccola Acciaiuoli, gran siniscalco del Re di Napoli.
Queste navi recarono gravi danni ai pisani, ardendo ed
affondando i legni e saccheggiando tutte le coste.
Ma il Grimaldi, volendo distinguersi, e fare cosa di qualche
importanza prima che il cambiare della stagione gli vietasse o impedisse
il navigare, il 1° giorno di ottobre 1362 si volse al Giglio, e, sbarcato
nell’isola, dette una grande battaglia, ed assaltò il castello.
I terrazzani, senza che facessero segno alcuno di arrendersi, si
difesero gagliardamente, e mostrarono gran ardimento, che, però, venne
meno la mattina seguente, quando si accorsero che il Grimaldi, niente
affatto sbigottito per il contrasto trovato il giorno innanzi, tornava più
feroce ad assalirli.
(4) Matteo Villani. Cronaca, lib, VI cap, 11 - Sismondi, Storia delle Repubbliche Italiana,
cap, 46 - Malevoli, Storia di Siena, lib, VI.
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affatto sbigottito per il contrasto trovato il giorno innanzi, tornava più
feroce ad assalirli.
Veduto l’accanimento del Grimaldi, gli si arresero, salvo l’avere e
le persone; ed anzi lo aiutarono ad espugnare la rocca, nella quale era
castellano Iacopo di Vanni da Pisa.
Questi, scoraggiato per la perdita della terra, vedendo che i
terrazzani stessi si erano uniti ai fiorentini nell’assalirlo, dopo breve
resistenza si arrese egli pure.
Tali cose scritte a Firenze nel momento appunto che vi si erano
celebrate le esequie di Luigi re di Napoli, riempirono di grande allegrezza
gli animi dei senatori, i quali mandarono un cittadino fiorentino per
castellano della rocca, facendo gli abitanti dell’isola franchi per cinque
anni, con obbligo di dare il cero per S. Giovanni Battista.
E queste disposizioni furono prese perché i fiorentini stimavano
non essere cosa di poca importanza l’avere allora, per la prima volta,
fermate le loro insegne sul mare Tirreno, impadronendosi di una fortezza
ritenuta inespugnabile.
Il Tronci stesso, nei suoi Annali Pisani, si meraviglia della celerità
e prestezza con cui il Grimaldi si impadronì di quel castello, che né
genovesi, né catalani, né napoletani avevano mai potuto sottomettere (V.
Tronci citato).
Intanto il Grimaldi, non avendo potuto approdare all’Elba, venne
al Porto Pisano, e, impadronitosene, ne mandò a Firenze, in pezzi, le
catene, che furono appese alle due colonne di porfido, già dai pisani
regalate ai fiorentini nel 1117, e da questi collocate all’esterno del
Battistero di San Giovanni.
L’asprezza della stagione pose breve sosta a questa guerra, che
durò, con alterne vicende, fino al 1364.
31
CAPITOLO VII
PACE DI PESCIA - PISA IN POTERE DI FIRENZE
LA REPUBBLICA DI SIENA
Pace di Pescia - In quest’anno (1364) fu conclusa la pace tra Pisa e
Firenze, essendo la prima rappresentata dagli ambasciatori Giovanni
Della Rocca, cavaliere, Piero De Vico, e Lupo di Conte, dottori, e Guido
Aiutamicristo, e da uno di Lucca, che fu Simone da Barga, dottore, alla
presenza di Patronio, Arcivescovo di Ravenna, e di Fra Marco, generale
dei frati minori, ambasciatori di Sua Santità Urbano V, di Leonardo
Draghi, dottore di legge, e di Andalo Pinelli, ambasciatori del Doge di di
Genova.
Questa pace venne pubblicata in Firenze il 1° settembre dello
stesso anno (1364), quando appunto fu nominato Gonfaloniere di
Giustizia Simone Peruzzi, cittadino molto grato al popolo, per avere,
l’anno innanzi, difeso la pubblica libertà contro le importune domande di
Pandolfo Malatesta.
La pace, senza alcun dubbio, fu fatta con vantaggio grande, e
grande riputazione dei fiorentini, perché fu trattata e conchiusa in
Pescia, terra sottoposta al dominio della Repubblica, mentre Galeotto
Malatesta, suo capitano, con l’esercito armato si trovava sempre sul
territorio dei pisani.
I patti furono: i pisani fossero obbligati a restituire ai fiorentini il
castello di Pietrabuona, Altopascio ecc.; che dovessero pagare ai
fiorentini centomila fiorini nello spazio di dieci anni. I fiorentini poi
dovessero rendere al Doge e Comune di Pisa il castello di Ghezzano,
Peccioli, l’isola, castello e rocca del Giglio, venti giorni dopo pubblicata la
pace.
E così il Giglio, dopo un brevissimo periodo (2 ottobre 1362 - 20
settembre 1364) di denominazione fiorentina, ritornò in potere dei pisani,
sotto i quali rimase fino al 1406, per ricadere, in quell’epoca,
nuovamente nelle mani dei fiorentini.
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Intanto accennerò come nel 1369 i fiorentini, a causa della via
lunga, incomoda e malsicura che dovevano percorrere per trasportare le
merci dal Porto di Talamone in Firenze, pensarono bene di far approdare
le loro mercanzie nuovamente nel Porto pisano (Pignotti, t. III).
Giacomo Appiano, ucciso Pietro Gambacorti, si impadronì di Pisa
(luglio 1392).
Venuto a morte, la lasciò in eredità a suo figlio Gherardo, il quale
vedendosi incapace di mantenersi in signoria, la vendè a Gian Galeazzo
duca di Milano.
II figlio di questo, Gabriele Maria, rese al sommo grado
malcontenti i suoi sudditi con la sua tirannia, e fu allora che i fiorentini
(1404) tentarono di impadronirsi di Pisa, cacciandone I Visconti.
L’impresa non riuscì perché, sebbene già si fossero impadroniti
della cittadella, ne furono cacciati dai pisani, però si impadronirono di
Ripafratta, dove lasciarono Guglielmo Altoviti con cento fanti, e di S.
Maria guardata per conto dei fiorentini, dalla compagnia Della Rosa, la
quale, licenziata da Gabriele Visconti, venne al soldo di Firenze.
I pisani mandarono ambasciatori ai fiorentini, dicendo che
restituissero le fortezze di Ripafratta e di S. Maria; si contentassero dei
loro confini; e, se nei pochi giorni che avevan tenuto quelle fortezze, ci
avevano fatto delle spese per restaurarle, la loro Repubblica avrebbe
saputo rimborsarli.
I fiorentini rigettarono le offerte dei pisani, intimarono loro la
guerra, ordinando a Iacopo Salviati di cominciare le ostilità.
Allora i pisani si preparano alla difesa; chiamarono i Gambacorti,
già da loro esiliati; fecero provvisioni di genti e di vettovaglie, ed
assoldarono Agnello Della Pergola con 600, e, secondo altri, 1000 cavalli,
e Gaspare dei Pazzi. I fiorentini, poi, avevano al loro soldo Muzio
Attendolo Sforza.
Per una anno attesero a fare scorrerie pel contado di Pisa, e fu sul
principio dell’anno seguente (1406) che si diressero verso la città. I
pisani, tormentati dalla fatica e dalla miseria, estenuati dalla fame, dopo
avere invano tentato di cacciare dalla città le bocche inutili, inalberarono
la bandiera del duca di Borgogna.
Però i fiorentini non si lasciarono intimorire; anzi continuarono
l’assedio, ed essendo in pensiero per l’avvicinarsi della cattiva stagione
(era il mese di ottobre) Gino Capponi cercò di intendersi segretamente
con Giovanni Gambacorti.
L’intermediario fra questi due era Bindo delle Brache, il quale
sulla mezzanotte si partiva di Pisa per recarsi alla tenda del Capponi.
I Gambacorti - Dopo molte segrete trattative si capitolò, e le
condizioni più vantaggiose furono per i Gambacorti. A questi fu riservato
33
il dominio di molte terre e castelli nel territorio pisano, dell’Isola del
Giglio e di Capraia, insieme con una somma di 50.000 fiorini d’oro. Ma
Pisa doveva essere suddita di Firenze, e il Gambacorti doveva dare
l’ingresso della città di fiorentini, e i segni di tutte le rocche che aveva in
mano.
Questo trattato, fatto occultamente, fu ratificato da Firenze, e, per
garanzia reciproca, furono dati ostaggi dell’uno e dell’altro lato.
Giunto il giorno della resa, il Capponi adunò i suoi, ed in tal modo
parlò loro:
«Fanti e cavalli, passeremo tutti dalla parte fiorentina; il primo dei nostri che si
muoverà a preda, o commetterà un’estorsione, sarà impiccato sul momento; i capitani ne
risponderanno per i soldati; e se il popolo farà movimento, io sarò con voi, e dirò che cosa
debba esser fatto».
La mattina del 9 ottobre (1406), prima del far del giorno, l’esercito
fiorentino si presentò alla porta di S. Marco, o porta fiorentina. Questa
era aperta, e il Gambacorti sul limitare di essa, tenendo in pugno il suo
giavellotto di ferro, e presentandolo al Capponi, «Io vi do — disse —
questo ferro in segno del dominio di questa città, una volta nostra, ora
non più perché noi, suoi cittadini, abbiamo troppo guardato alle cose
nostre di noi, e non a quelle della Repubblica».
Conquistata Pisa, tutti i paesi del suo dominio si assoggettarono a
Firenze; e nel numero dei nuovi sudditi furono ancora i gigliesi, i quali,
quantunque dipendenti, nominalmente, dei Gambacorti, in virtù di certi
capitoli, ottennero limitati privilegi che ogni cinque anni venivano
prorogati col recare a Firenze, come tutti gli altri popoli conquistati,
l’anno tributo del palio nel giorno di S. Giovanni.
A dimostrare che effimera e brevissima fu la signora dei
Gambacorti, accennerò alla deliberazione presa dal popolo gigliese,
adunato solennemente il 25 maggio 1408, nella chiesa parrocchiale di
San Pietro apostolo, per cui si nomineranno due Sindaci, i quali si
presentassero a Firenze a portare il loro omaggio alla Signoria, ed un
pallio del valore di otto fiorini a S. Giovanni Battista (Arch. Diplom.
Fiorent. Carte delle Riformagioni).
Siena - Da quanto sopra è stato detto sappiamo che il Giglio, fin
dal 1293 venne in potere degli Orsini di Roma, i quali se ne dicevano i
padroni, mentre i pisani e i fiorentini, come abbiamo visto, se lo
toglievano e cedevano scambievolmente.
La Repubblica di Siena, nemica da gran tempo, ed in lotta con gli
Orsini, tolse a questi, nel 1414, Orbetello, e nell’anno successivo gli altri
luoghi ad Orbetello circostanti, e che, prima dell’infeudazione orsina,
appartenevano ai Monaci Cistercensi di S. Anastasio.
34
Tali luoghi furono: Porto Fenilia, o il Portuso, Portercole, Monte
Giglio, l’Isola di Giannutri, Monte Argentario, Marsigliana, Alticosto
(Tricosto), Capalbio, Monte Aguto, Serpenna, Stacchilagio, Abbazia della
Selva (le Selve), il territorio del Colignolo (Cutignolo), il monte di
Cerasciole, e il lago di Burano. - (Bianchi L., - Port. Sen. nell’Archivio
stor. ital.).
I Monaci dell’Abbazia delle Tre Fontane e dei SS. Vincenzo ed
Anastasio ad Aquas Salvias, intentarono una lite a Siena, sostenendo
che, morto Aldobrandino, ultimo discendente della linea Orsini, a cui i
Monaci stessi avevan ceduto in enfiteusi Giglio, Orbetello ecc., tale luogo
dovevano ritornare al Monastero delle Tre Fontane, e non poteva, quindi,
la Repubblica senese ritenerseli.
Aspra e lunga fu la lite; e finalmente, mercé la potente mediazione
del Pontefice Niccolò V, fu posto termine alle inimicizie tra Siena e la
Badia, col concorso altresì del Vescovo di Sovana, Monsignor Apollonio
Massaini, e di Niccolò Severini ambasciatore di Siena presso Niccolò V.
Angiolo, abate del rammentato Monastero, pretendeva che Siena dovesse
corrispondere alcuni censi enfiteutici arretrati, e non soddisfatti dagli
Orsini. La Repubblica osservava che i luoghi furono acquistati con la
guerra, e per diritto di guerra se li potevano tenere, e che non
intendevano pagare i canoni enfiteutici dovuti dagli Orsini. Discussasi la
causa dinanzi al predetto Pontefice, si venne ad un concordato (12 agosto
1452), per cui i Monaci acconsentirono che Siena tenesse occupati i
luoghi di pertinenza dell’Abbazia delle Tre Fontane, a condizione di
pagare, nel giorno di Pasqua, agli abati di questa, un annuo tributo di
lire quindici d’oro senese; che spirati 15 giorni dalla scadenza del tributo,
il canone dovuto dai senesi dovesse raddoppiarsi; e che se il canone
stesso non venisse pagato entro tre anni, i senesi si dovessero pagare lire
60 d’oro.
I Monaci, poi, avevano il diritto di esportare, dalle località
accennate, merci e generi qualsiasi, senza pagamento di dazi. Siena
doveva ancora pagare 100 fiorini d’oro per i censi arretrati dovuti dagli
Orsini.
Tali condizioni furono accettate dalla Repubblica e furono
approvate dai Monaci Cistercensi riuniti in Capitolo.
Aggiungerò ancora che il tributo dovuto da Siena fu, più tardi,
ridotto a 5 ducati d’argento.
Sembravano le cose definitivamente sistemate, quando — sette
anni dopo — l’Abate delle Tre Fontane mosse una nuova lite contro
Siena, e sempre per lo stesso motivo. Ma il Pontefice Pio II, con sua Bolla
21 maggio 1459 data in Siena, diretta alla Signoria di questa città,
avvertiva che Angiolo Abate dei Cistercensi, aveva desistito dalla lite; e,
35
con altra Bolla spedita all’Abate stesso, confermava e ratificava l’operato
di Niccolò V, ponendo così nuovamente termine alle divergenze tra senesi
e Monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio ad Aquas Salvias.
Morto Pio II le liti nuovamente si riaccesero; la Repubblica senese
fu dichiarata decaduta dall’enfiteusi; Siena si appellò contro tale
sentenza, e si venne di nuovo ad un amichevole componimento (14 luglio
1466), per il quale Siena rientrava nei suoi diritti, col patto di pagare —
quale tributo — un calice d’argento di una libbra, ogni tre anni, al
Monastero dei Cistercensi, e di rinnovare il contratto enfiteutico ogni 24
anni.
E spesso si ebbero altre lotte ed altre pacificazioni tra Siena e Monaci ricordati, poiché troviamo atti di aggiustamento reciproco in data del
1467, 1468, 1475.
Però se Siena venne a possedere, o meglio ad annoverare fra le località soggette al suo dominio, l’Isola del Giglio; se tante lotte sostenne
coi Cistercensi, è un fatto che anche la Signoria senese fu, pel Giglio,
nominale, e ciò si arguisce dai seguenti fatti:
1° Siena patteggiò con gli Orsini che le cedessero il Giglio, e noi
sappiamo già che gli Orsini mai vi avevano esercitato il loro dominio.
2° Gli storici pisani — il Tronci specialmente — che registrarono
le più piccole perdite e conquiste fatte da Pisa, mai parlano che il Giglio,
dal 1264, anno della stipulazione del trattato fra Pisa e il Re di Tunisi,
fino al 1447, epoca in cui Giglio cadde nelle mani dei napoletani, sia
stato preso da altri fuor che dai pisani e dai fiorentini. Come non parlare
della perdita di un castello importantissimo, se perdita vi fosse stata,
mentre la prima volta che si accenna alla sua perdita si usano parole di
meraviglia, si decanta la sua inespugnabilità, e si confessa che, invero, fu
assalito da tanti e diversi nemici?
3° Nel 1452, 1459, 1466 ecc., si stabiliva — come più sopra
accennammo — che Giglio doveva essere di Siena, ed il Giglio, fin dal
1447, era nelle mani di Alfonso d’Aragona, come più sotto vedremo.
Bisogna dunque concludere che, tanto i Cistercensi, quanto gli
Aldobrandeschi, gli Orsini e Siena furono, di nome, signori del Giglio, ma
i veri padroni e dominatori erano altri.
36
CAPITOLO VIII
ALFONSO D’ARAGONA RE DI NAPOLI
I PICCOLOMINI D’ARAGONA
I MEDICI
Alfonso d’Aragona - Per poco tempo stettero i gigliesi sotto
l’effettivo potere dei fiorentini, perché vennero presto sotto il dominio di
Alfonso d’Aragona Re di Napoli. Ed infatti nel 1447 i soldati delle flotte di
Alfonso sbarcarono al Giglio, se ne impadronirono e per di lui conto vi
stette un presidio fino al 1460.
E mentre che gli aragonesi occupavano il Giglio, si ratificava
(1452 e 1459) la cessione fatta di questa isola dagli Orsini a Siena!
Come, dunque, non poter dire che Giglio soltanto nominalmente
apparteneva ai senesi?
Nel 1460 il Pontefice Pio II, quello che, come dicemmo, aggiustò le
vertenze fra l’Abate commendatario delle Tre Fontane e la Repubblica
senese, riuscì a persuadere e indurre Alfonso a cedere al proprio nipote
Antonio Piccolomini di Aragona, ed ai suoi successori la Signoria
dell’Isola del Giglio, con il castello e distretto di Castiglione della Pescaia
e le Rocchette di Pian d’Alma.
Tale Signoria fu ceduta poco dopo dallo stesso Piccolomini al
proprio fratello Andrea, Duca di Amalfi, con diritto di successione a
favore dei di lui figli ed eredi.
Ai discendenti di Andrea Piccolomini i gigliesi ubbidirono per circa
un secolo, e precisamente fino a che donna Silvia Piccolomini ed il suo
marito don Indico da Capestrano, previo l’assenso di Filippo II Re di
Spagna, con atto pubblico degli 11 gennaio 1558 (stile fiorentino)
venderono l’Isola del Giglio, Castiglione della Pescaia e le Rocchette di
Pian d’Alma, a donna Eleonora di Toledo, moglie di Cosìmo I, allora Duca
di Firenze, per il prezzo di 32,162 ducati napoletani. Tale somma dovette
essere pagata quando don Indico da Capestrano avesse trovato da
rivestirla in tanti castelli nel regno di Napoli, a favore della propria moglie
donna Silvia.
37
Alla morte di donna Eleonora, l’Isola del Giglio, Castiglione della
Pescaia, con le rispettive giurisdizioni, furono incorporate al dominio
Granducale della Toscana.
I Medici - Se fino a qui abbiam veduto le vicende cui fu soggetta
l’Isola del Giglio; se abbiam conosciuto i padroni ai quali fu costretta
ubbidire, ora siam giunti ad un periodo che ci permette di aggiungere
alcuni particolari, i quali ci serviranno per la conoscenza del modi di
vivere dei gigliesi.
Innanzi tutto, poche parole generali su quella famiglia dei Medici,
che tanto tempo comandò su quest’Isola, e che tanto bene fece agli
isolani.
Quietate le continue discordie dei guelfi e ghibellini, dei nobili e,
plebei; cacciato il Duca d’Atene, che si era fatto tiranno di Firenze (13
agosto 1343), cominciò a farsi conoscere la famiglia Medici.
Nel 1378 Salvestro de Medici e Benedetto Alberti sollevarono
contro la parte dei veri repubblicani, le arti minori, e sopra tutto quella
della lana dei Ciompi.
Michele Lando (1379) venne nominato Gonfaloniere e Signore. Fu
stabilito che dei Signori cinque fossero delle arti minori, e quattro delle
arti maggiori. Da questa sollevazione è fuori di dubbio che presero tanto
favore i Medici, Ma la vera origine della futura grandezza della Casa
medicea fu Cosìmo, figlio di Giovanni, che, venuti al potere i nobili, poté
sedere tra i Priori.
Fu liberale, protettore delle arti e delle lettere, e veniva riguardato
come l’unico sostegno della libertà. Di che astiosi gli Albizi, Cosìmo fu
mandato in esilio a Venezia (1433); ma dopo un anno (1434) venne
richiamato a Firenze, e riprese a timoneggiare la repubblica, come fece
per trenta anni, mostrando la sua magnificenza nella copia di edifici e di
palazzi, nella collezione di pitture, sculture, statue, codici, medaglie ecc.
Morto (1464), sulla sua tomba in S. Lorenzo, fu denominato «Padre della patria».
«Fu — dice il Machiavelli — il più riputato e nominato cittadino d’uomo disarmato
che avesse non solamente Firenze, ma alcun’altre città, di che si abbia memoria, perché
non solamente superò ogni altro dei tempi suoi d’autorità e di ricchezza, ma ancora di
liberalità e di prudenza, perché fra tutte le altre qualità che lo facciano principe della sua
patria, fu l’essere sovra gli uomini liberale e magnifico».
Piero, suo figlio, malsano di corpo, debole di mente, ne ereditò i
beni, non le virtù; si circondò di armi e di soldati; furono esiliati gli
avversari che a Castrocaro vennero, in battaglia, disfatti. Morì (1469)
lasciando due figli, Lorenzo e Giuliano.
38
Avviene la congiura dei Pazzi, per la quale Giuliano è ucciso nella
chiesa di S. Reparata (26 aprile 1478), e Lorenzo ne esce con lievi ferite: i
congiurati, Pazzi e Salviati, vennero impiccati.
Lorenzo governò con molta lode; protesse gli eccellenti nelle arti,
nelle lettere; fu cortese e largo, ed ebbe il titolo di magnifico.
Venuto a morte (1492), gli successe Piero, suo figlio, intelligente,
ma ambizioso, pertinace, punto atto a reggere il peso dello Stato.
Cedé molte rocche e città a Carlo VIII di Francia, sceso in Italia; i
fiorentini, indignati di tanta debolezza e della vile cessione, lo cacciarono
di città, insieme con i fratelli Cardinale Giovanni e Giuliano (1494).
Condannato ed impiccato fra Girolamo Savonarola, capo dei
Piagnoni, arrabbiati o compagnoni (23 maggio 1498), Giuliano e il
Cardinale Giovanni dei Medici furono ricevuti in Firenze, di cui presero la
Signoria (1512).
Morto Giulio II (25 febbraio 1513), fu nominato Pontefice il
Cardinale dei Medici, che prese il nome di Leone X (11 marzo 1513).
Fu, questo Pontefice, tanto grande, che lasciò il suo nome al suo
secolo, altamente famoso nei più bei fasti delle lettere e delle arti italiane.
Morto Giuliano senza aver avuto figli da Filiberta di Savoia (1515)
lasciò la Signoria della patria al nepote Lorenzo. Morto questo (28 aprile
1519) rimase a governare il Cardinale Giulio dei Medici.
Leone X mori nel dicembre 1521; e, in via incidentale, accennerò
che, sotto il suo pontificato, si verificò l’eresia del frate agostiniano
sassone, Martin Lutero.
Morto il Papa Adriano IV (9 gennaio 1522 - 14 settembre 1523) gli
successe il Card. Giulio dei Medici, che si chiamò Clemente VII.
In Firenze signoreggiavano Alessandro e Ippolito dei Medici, figli
di Lorenzo; ma, avvenuto il sacco di Roma (5 maggio 1527), i fiorentini li
cacciarono di città, e si riordinarono a repubblica; Gesù Cristo fu
proclamato Re dei fiorentini.
Ma accordatosi Clemente VII con Carlo V, rimase convenuto e
trattato «che Cesare, per la quiete d’Italia, e pace universale di tutta la
cristianità, dovesse rimettere in Firenze, nella medesima grandezza di
prima, l’illustrissima casa dei Medici, a spese comuni, secondoché tra lui
e il Papa si deliberasse». (Varchi - Storia, Kb. VIII, pag. 216).
Dopo assedio di dieci mesi eroicamente sostenuto (24 ottobre
1529 – 8 agosto 1530) cadde per non più risorgere la repubblica
fiorentina.
39
Alessandro dei Medici venne a Firenze, Principe della Repubblica
(5 luglio 1531), si fece Duca (1° maggio 1532), fu buono da prima,
pessimo dopo.
Il 25 settembre 1534 moriva Clemente VII, sotto il cui pontificato
Arrigo VIII d’Inghilterra, abbracciando la riforma religiosa di Lutero,
formò quella che si dice «Chiesa anglicana», di cui si dichiarò capo
supremo.
Il 7 gennaio 1537 Lorenzino dei Medici assassinava Alessandro,
rimanendo alla sua volta assassinato in Venezia il 23 febbraio 1548.
Cosìmo dei Medici, giovinetto di 18 anni, nato da Giovanni delle
Bande nere, fu nominato capo dello Stato fiorentino.
Cosìmo I - Certamente in questo tempo il Giglio non doveva essere
quello che vedemmo essere stato ai tempi romani. Era, anzi, in grande
deperimento, e Cosìmo I, tanto per attivarne il commercio e favorirne
l’agricoltura e le industrie, vi mandò una colonna di greci con l’occorrente
per coltivare delle vigne ed esercitare la pesca e l’agricoltura. (Repetti,
Dizion. geogr. stor. della Toscana; Galluzzi, Storia del Granducato di
Toscana, libro III, cap. X).
Ritirandosi Cosìmo I dal potere, gli successe il di lui figlio
Francesco I (11 giugno 1564).
Lo scrittore della storia toscana sotto il governo dei Medici, ci
assicura che questo Granduca intraprese la scavazione di una miniera di
ferro nell’Isola del Giglio, e che il metallo fu trovato, dopo molte prove,
più atto d’ogni altro a ridursi in acciaio (Galluzzi, op. cit., libro IV, cap.
II).
Questo tentativo, però, del quale l’autorità dello storico non ci
permette di dubitare, dovè seguitarsi per poco tempo, e non vedendolo
neppure accennato dall’illustre naturalista Targioni in quello scritto che,
sopra questo soggetto, presentò al conte di Ruchecourt l’anno 1743, ci
porta a credere quel sommo ricercatore di ogni produzione del suolo
toscano, non ne ritrovasse traccia alcuna nella immensa cultura di cui
era fornito. E, forse, quel progetto venne abbandonato del tutto alla
morte di quel principe, per le stesse ragioni che fecero sospendere
l’escavazione intrapresa nel territorio senese, sotto la direzione del
celebre Vannuccio Biringucci, per essere, cioè, quella vena, meno ricca e
più difficile a fondersi, che non quella di Rio dell’Elba.
Gli scavi fatti alla vena, dimostrano che quella miniera fu
abbandonata poco dopo la sua apertura, anche perché il filone di ferro
non si internava nelle montagne (Repetti, Diz. geogr. stor. della Toscana).
Il Meneghini, nel Saggio sulla costituzione geologica della
Provincia di Grosseto (pag. 33-34), paragona la miniera di ferro della Cala
dell’Allume,
ai
giacimenti
esistenti
all’Elba,
avvertendo
che
40
industrialmente potrebbe divenire di grande importanza, e la chiama,
altresì, sommamente istruttiva per le sue condizioni geologiche.
Ferdinando I - Morto Francesco I nell’età di 47 anni, ebbe a suo
successore il fratello Ferdinando I (1587).
Il 24 ottobre 1595 si incendiò il Duomo di Pisa. Ferdinando I donò
12.000 scudi del proprio; concesse un’imposizione di altri 40.000 scudi e
queste somme, aggiunte alle rendite di quel tempo, servirono per
restaurarlo e ridonarlo al primiero splendore. Le 24 colossali colonne di
granito che tuttora si ammirano, e si vedono fiancheggiare le gran navate
del magnifico Duomo Pisano, e che misurano metri 9,953 di altezza,
compresa la base e il capitello, furono levate e lavorate parte al Giglio e
parte all’Elba.
Alessandro Da Morrona (Pisa illustrata nelle arti del disegno, Pisa,
Francesco Pieraccini (1787-93), nel vol. 1° a pag. 56), riferisce come,
basandosi sull’antico codice, lettera 1, dell’archivio capitolare, vennero,
nel 1597, cambiate alcune colonne nell’interno del Duomo stesso, tra le
quali quattro grossissime furono condotte dall’isola del Giglio per la
navata di mezzo.
Aggiunge inoltre che da altro codice (92 col. 37) della
Magliabecchiana rilevò che una colonna di granito rimase nell’Isola del
Giglio sulla spiaggia del mare.
Ferdinando I ordinò, con suo testamento, che del Giglio si facesse,
insieme con altri beni, una primogenitura a favore del figlio principe
ereditario Cosìmo, da passare nei suoi discendenti e successori al trono
di Toscana. In conseguenza di tale atto, questa Isola aveva l’onore di dare
il titolo di Signoria speciale ai figli primogeniti dei sovrani della Toscana.
Sotto questi signori, e sotto i loro successore: Cosìmo II (1608 1621), Ferdinando II (1621-1670), Cosìmo III (1670 – 1723) e Gian
Castone (1723 - 1737), i Gigliesi sembra godessero di ampia libertà e di
relativo benessere.
E per dare un’idea di come funzionavano, nel secolo XVI, le cose
pubbliche ed i pubblici poteri, e come erano retti, e come si reggevano gli
isolani, riporterò quanto ho potuto ricavare dallo studio dei documenti
manoscritti che si conservano nell’Archivio comunale dell’Isola del Giglio.
41
CAPITOLO IX
IL GIGLIO NEL SECOLO XVI
Potestà - II Governo teneva nell’Isola un Podestà ed un Notaro.
Quali erano le attribuzioni del Podestà? Si vedono nel giuramento
che egli era tenuto a prestare. Infatti leggesi nel capitolo 1° degli statuti
dell’Isola del Giglio, intitolalo «Dal sacramento del Podestà e del Notaro».
«In primo statuimo et ordinamo del iuramento del Podestà o vero del Notaro in
principio del suo cominciamento del suo offitio de iurare in publico parlamento ale sante
seo Vangelo toccando lo presente statuto di tenere ed osservare nelo castelo di Giglio li detti
ordini et mantener e’ difendere le zaxioni delle jexie (chiese) et di fare ragioni ad orphani, a
le vedove, pupilli et ad ogni altra singolare persona. Et debia giurare a bona fede senza
frodo rimosso odi amore timore premio o prezzo et ogni altra humana grazia. Et che lo detto
Podestà debbia giurare di mandare ad executione e ciaschedune riformationi et
deliberationi di consiglio che a suo tempo si facesse».
Aveva, dunque, il supremo comando, amministrava la giustizia,
ed era soggetto a multa chi gli disubbidisse, specialmente in tempi di
mischie e di rumori.
Da prima il Podestà rimaneva al Giglio un solo anno «itera
statuimo et ordenamo che lo Podestà el quale verrà in Giglio debia stare
nel officio un anno. Et da uno anno in la si debba mandare lo scambio»
(cap. 38 statuti citati); ma più tardi, come vedremo, stava nell’Isola a
beneplacito del sovrano, e non poteva allontanarsene senza
l’assentimento di questo.
E se il Podestà amministrava la giustizia, aveva diritto, per ogni
causa portata dinanzi a lui, ad un compenso, giacché negli statuti
cennati leggesi (cap. 2°):
«Item statuimo et ordenamo che 1 Podestà debia tollere d’ogni richiamo che si ponesse
dinanti a lui dinari sei per lira. Et per publicatione soldi dui, et per ogni copia di testimoni
soldi dui. Et si qualuq. persona pigliasse pegno o vero cosa stabile habbia lo Podestà soldi
quattro. Et li ponitori soldi dui per uno... Et chel Podestà o vero lo Notaio non possano
tollere alcuno danaio d’alcunio piato per insino a tante che sarà diffinito o sententia data.
42
Et quello che perde lo piato sia gravato a pagare le spese. Item che lo Podestà e suo offitiale
no debbiano ricevere alcuno danaio per alcuna scrittura che facessimo per ritrovare alcuno
malifitio comesso o messo avanti al offitiale per un ricercamento».
Per quanto fosse l’autorità del Podestà, pure, in casi normali, non
poteva, di suo arbitrio, mettere in rocca nessuna persona, salvo il caso di
flagrante delitto o tradimento.
Era obbligo suo di tenere, quale magistrato, due soli libri separati,
l’uno per gli affari penali, l’altro per gli affari civili. Invidiabile semplicità
tutt’opposta ai sistemi burocratici attuali!
Era proibito, poi, tanto al Podestà quanto al Notaio di fare il
compare infino che «sono all’offitio di Giglio» e la ragione di tale
provvedimento è troppo chiara per doverla dilucidare.
Bella era la disposizione per cui il Podestà ed il Notaio, decaduti
di carica, dovevano rendere conto del loro operato ai nuovi officiali, ed a
tre persone del Giglio, retribuite, per ciascheduno, con otto soldi
giornalieri. Ed ancora più bella era l’altra disposizione per cui il Podestà e
il Notaio dovevano trattenersi tre giorni dopo scaduti d’ufficio, e ciò per
dare tempo e comodo agli abitanti di far valere le loro ragioni e di
chiedere quello che loro spettava, a persone che, per avere deposta la
veste ufficiale, erano da considerarsi come privati cittadini.
In quanto, poi, al Notaro, questi aveva su per giù, le attribuzioni
degli odierni cancellieri e notari.
Mentre la legge assicurava gli isolani dalle possibili prepotenze
degli impiegati del Governo, vediamo come le cose del Comune del Giglio
erano regolate.
Chiamatori – Tutti i cittadini dai 25 anni in su erano elettori; però
i votanti erano pochissimi. Infatti venivano imborsati i nomi di tutti i
cittadini aventi 25 anni o più, ed ogni sei mesi — e precisamente ai primi
di maggio e novembre di ciascun anno — si estraevano a sorte cinque
chiamatori (elettori), i quali dovevano eleggere due sindaci, un
camarlingo o cassiere comunale, e sei consiglieri facenti parte del
Consiglio minore.
I chiamatori non dovevano essere in terzo grado di parentela con
coloro che venivano proposti per le cariche di sindaci, camarlingo e
consiglieri. Due fratelli carnali non potevano essere contemporaneamente
chiamatori.
Oltre i due sindaci, il camarlingo ed il Consiglio minore, vi era
ancora il Consiglio maggiore, composto di 11 membri, ed inoltre vi erano
due ministrali, tre stimatori del Comune, operai della chiesa, tre viari,
due operai di porto, quattro guardie palesi e due segrete, ed infine due
capitani di guerra.
43
Tanto il Consiglio maggiore, quanto gli altri pubblici ufficiali
rammentati, erano nominati dai sindaci, dal Consiglio minore e dal
Podestà; come pure dagli stessi venivano nominati gli spartitori di
mischie e i testimoni di fama.
La gerarchia amministrativa di quei tempi, si chiudeva con un
camparo, ed un messo.
Sindaci – Questi, in numero di due, dovevano ogni sei mesi,
insieme col Podestà e con il Consiglio minore, farsi rendere ragione dal
camarlingo e dal gabellotto della entrata e della uscita del Comune.
Radunavano il Consiglio dietro la richiesta di chiunque, e
potevano radunarlo anche se il Podestà si fosse opposto.
Bella era la disposizione per cui un sindaco doveva stare in
adunanza fino a che questa non era sciolta; tutti e due i sindaci, poi,
oppure uno di essi, dovevano esser sempre presenti alle disamine dei
testimoni, o di chiunque altro fosse esaminato. Ed anzi, era nulla quella
disamina che fosse stata fatta senza la presenza dei sindaci.
A maggior garanzia, poi, era inibito al Podestà di citare testimoni
in luogo che non fosse la casa comunale, dove soltanto rendevasi
ragione.
E gli eletti del popolo, i sindaci, avevano un grande potere, ed anzi
maggiore di quello di coloro che erano mandati dai Governo a reggere
l’Isola.
Mentre il Podestà non poteva arrestare alcuno, e nessuno
interrogare se non alla presenza dei sindaci, questi, al contrario, avevano
il potere perfino di togliere chi loro paresse dalle carcere, (cap. 25 statuti
dell’Isola del Giglio), purché non fosse imputato di ferimento o di «cosa
dubbiosa di morte», e purché il carcerato «volesse... dare raccolta di
pagare la sua condannagione».
Qualunque cittadino avesse ricevuto ingiuria dal Podestà, dal
Notaio o da qualche altro ufficiale o funzionario pubblico, doveva
ricorrere ai sindaci, ed era punito chi ai sindaci non avesse ricorso.
Per non raggruppare nelle mani di una sola persona più cariche,
era vietato ai sindaci, a quelli del Consiglio minore ed al camarlingo, di
avere altre cariche durante il loro ufficio.
Era obbligo dei sindaci fare, ogni anno, nel mese di maggio,
l’inventario dei beni del Comune, e consegnare tale inventario ai loro
successori. Venivano retribuiti con venti soldi al mese per ciascuno, ed
erano dispensati, per il tempo del loro ufficio, dal servizio di guardia.
44
Erano i sindaci che nominavano gli ufficiali che loro
abbisognavano nei sei mesi del giudicato, e cioè: i ministrali, stimatori ed
altri sopra ricordati.
Consiglio Minore – Componevasi di sei persone nominate dai
cinque chiamatori. I sei consiglieri stavano, essi pure, in carica per sei
mesi. Coadiuvavano i sindaci, e dovevano rivedere le entrate e le uscite
del Comune. Venivano compensati con mezza libbra di pepe per
ciascheduno!
Camarlingo – Amministrava le finanze comunali, rendendone
conto — come vedemmo — al Podestà, al Notaio, ai Sindaci e al Consiglio
minore, e veniva pagato con due lire al mese.
Gli ufficiali che sopra, e cioè i sindaci, i Componenti il Consiglio
minore ed il camarlingo, eletti dai cinque chiamatori, non potevano
essere rieletti che dopo due anni da che erano scaduti di carica.
Diciamo ora qualche cosa delle altre cariche.
Consiglio Maggiore – Er composto di undici membri, nominati dai
sindaci e dal Consiglio minore. I consiglieri dovevano intervenire al
Consiglio, ed erano puniti con multa quelli che, senza un giusto motivo,
mancavano alle adunanze.
In quanto, poi, al mantenimento dell’ordine nelle adunanze sia del
Consiglio maggiore che del Consiglio minore, vi era un articolo negli
statuti dell’Isola del Giglio (libro 3°, cap. 73) che disponeva:
«Statuimo et ordinemo che qualche consigliere, quando fusse in Consiglio,
sedendo gridasse o favellasse quando favellasse un altro se non saglie ne la ringhiera e non
si levasse ritto paghi di pena soldi cinque».
Ministrali – Dovevano verificare, ogni tre mesi, i pesi e le misure;
ed ogni tre mesi, dovevano mandare un bando per avvertire che non si
potevano più adoperare le stesse misure e gli stessi pesi senza una nuova
verifica.
Passavano a chiedere che si macellasse tre volte la settimana, e
cioè il martedì, il giovedì e il sabato.
Chiunque voleva esportare grascie dal Giglio, doveva rendere
avvertiti i ministrali: a chi non lo faceva veniva confiscata la mercanzia,
di cui un quarto andava ai ministrali, ed il resto al Comune.
Stimatori – Stimavano i danni dati nei beni comunali e in quelli
privati, e dovevano portare il mazzapicchio per crociare, ossia per
segnare I confini delle possessioni.
Viari – Erano incaricati di sorvegliare le vie e le fonti; tenerle nette,
e sgombre, ripararle, non permettere qualsiasi occupazione di suolo
pubblico.
45
Nel mese di luglio dovevano mandare un bando che ciascun
abitante andasse ad accomodare le vie fino a S. Maria di agosto (15
agosto, giorno della Assunzione), e quando taluno, fabbricando, occupava
pubblico suolo, o non stava nei termini assegnati dai viari, era obbligo di
questo di procurare che «torni lo defitio in dareto!».
Anche i viari, come gli stimatori, dovevano portare, per lo stesso
motivo, il mazzapicchio.
Operai di porto – Era loro la spettanza di accusare chi gettava
zavorra dal molo in dentro, ossia nel porto; e guardare che, se la zavorra
veniva gettata a terra, doveva essere portata ad una certa distanza dal
mare, e proprio sull’erba viva.
Guardie palesi e segrete - L’incarico loro era di accusare chi non
rispettava le leggi, o recava danni negli altrui termini.
Il curioso si è che limitata era la fede in queste guardie; difatti si
credeva a loro se il danno procurato dalla persona accusata ascendeva
da uno a venti soldi; se ascendeva a somma maggiore occorreva anche la
deposizione di un testimone di buona fama.
Altra cosa che fa meraviglia è che, invece di accusare subito un
individuo, il quale aveva mancato, le guardie erano in tempo a farlo entro
sei giorni dalla scoperta del reato.
La distinzione, poi, tra guardie palesi e guardie segrete, ci viene
fornita dal loro stesso, nome, essendo le prime note a tutti per agenti
pubblici, mentre le seconde erano dei veri e propri agenti segreti.
Capitani di guerra – Questi, in numero di due, dovevano
chiamare, ogni sei mesi, gli uomini del castello del Giglio, e tutte le sere
eran tenuti a fornire le guardie, la cui forza poteva essere aumentata o
diminuita secondo che piaceva al Podestà.
La guardia che non obbediva ai capitani, doveva pagare soldi
venti, ed eguale somma pagavano quei capitani che tralasciavano di
fornire le guardie.
Chi, di guardia, trascurava il proprio dovere, era multato, e
pagava due soldi; chi arrivava a prestare servizio ad ora incompetente,
doveva pagare un soldo; e chi non montava la guardia era punito con la
multa di cinque soldi.
La sentinella che non rispondeva alla guardia della rocca, era
punita col dover pagare due soldi alla sentinella che dava l’allarme.
Durante il loro ufficio i capitani di guerra erano esenti dal servizio
di guardia.
46
Testimoni di fama – Erano certamente una specie di guardie; ed
abbiamo veduto che dovevano raffermare la deposizione delle guardie,
quando queste accusavano taluno di danni che superavano il valore di
venti soldi.
Spartitori di mischie – Non saprei propriamente quale incarico
avessero questi «spartitori»; ma, se dobbiamo stare alla loro
denominazione, non era certo invidiabile il loro compito.
Camparo – Equivaleva all’attuale guardia campestre.
Messo del Comune – Non poteva esso allontanarsi dal castello al di
là delle croci, e doveva servire chiunque lo richiedesse dell’opera sua.
Era corrisposto con otto danari, se gli affari si facevano dalle croci in
dentro, con sedici danari se fuori dalle croci: con due soldi se dovevasi, il
messo, recare al porto.
Il Comune, poi, poteva mandare ambasciatori, retribuiti con venti
soldi giornalieri.
Ogni cinque anni si faceva la lira, una specie di catasto, che ogni
anno andava corretta.
Da quanto sopra ho esposto si vede chiaramente che i gigliesi, nel
secolo XVI, potevano dirsi liberi e governati da leggi semplici ma chiare,
ed erano garantiti da qualunque sopruso, essendo obbligati a ricorrere ai
sindaci nel caso avessero avuto da lagnarsi dei funzionari del governo.
Tutti elettori, sebbene in numero ristrettissimo i votanti, e questi
pochi estratti a sorte; tutti eleggibili alle prime cariche dell’Isola, ora
avevano il supremo comando, e poco dopo, deposto il potere, ritornavano
umili cittadini, a compiere quei doveri che i nuovi comandanti e reggitori
della casa pubblica, mentre essi erano a capo dell’amministrazione
dell’Isola, compirono.
5Cosa poi degna di nota è che, mentre grande era il numero di coloro che
avevano una pubblica carica o di sindaco, consigliere, ministriale, viario,
stimatore, guardia, capitano di guerra ecc., piccola, anzi piccolissima era
la popolazione gigliese. Ed infatti nel 1594 questa ascendeva a 187
persone (5). Possiamo, dunque, asserire che allora, se vero è il
censimento riportato dal Salvagnoli, tolti i fanciulli e le donne, tutti gli
altri abitanti rivestivano una certa carica pubblica.
(5)
Salvagnoli – Soc. Geogr. Vol. 22, pag. 76.
47
CAPITOLO X
I GIGLIESI DEL SECOLO XVI
Col cambiare dei tempi cambiano i bisogni ed i costumi, e
cambiano pure le leggi che si debbono adattare all’ambiente nuovo, ed al
nuovo genere di vita.
Allora correvano tempi tristi, e non vi era quella sicurezza di cui
godiamo attualmente: i mari erano infestati da predoni, e tutti — ma
specialmente gli abitanti delle piccole isole — dovevano vivere in continua
apprensione. È per ciò che, mentre ora occorre una licenza speciale per
portare arma qualunque, allora tutti gli abitanti, uscendo dal castello,
potevano andare armati; solo il sindaco e il camarlingo erano autorizzati
a portare armi anche nel recinto delle mura del paese, e tale permesso
veniva a tutti indistintamente accordato quando approdava nell’Isola un
bastimento armato, e fino a che questo vi si tratteneva.
Per provvedere, poi, alla sicurezza e salvezza di tutti, e per poter
far fronte a qualunque attacco, ogni persona di Giglio od abitante in
Giglio, doveva restituirsi al castello appena la campana, suonando a
stormo, dava l’allarme ed avvertiva che qualche pericolo sovrastava.
Chiunque poteva accusare la persona che avesse trasgredito a tale
disposizione ricevendo la quarta parte della multa pagata dall’accusato.
Era poi severamente proibito uscire od entrare in paese
scavalcando le mura, forse perché temevasi che in tal modo si venisse ad
indicare il punto più debole del castello.
Qualunque cittadino avesse voluto assentarsi dal Giglio bisognava
che prima ne facesse avvertito il Potestà; il padrone di barca poteva
domandare tale permesso tanto per sé, quanto per i suoi. Parimente
nessuno poteva, senza licenza, avvicinarsi o salire sui bastimenti da
guerra o mercantili, neppure per contrattare i propri affari.
Altra restrizione alla libertà individuale si era quella per cui gli
isolani non potevano, dopo il terzo suono, cioè dopo il de profundis,
andare girando per il paese. Solo era lecito, dopo quell’ora, di stare
presso la propria abitazione, fino a quattro canne di distanza.
Era permesso andare e venire con fuoco, di chiamare preti,
medico e balia. Non faccia maraviglia la disposizione per la quale era
48
lecito di notte andare e venire con fuoco, perché volendo confezionare il
pane e non avendo fuoco per riscaldare l’acqua in quei tempi, in cui non
era facile cosa accendere la legna, il vicino ricorreva al vicino per
procurarsene, il parente al parente. Ciò si verifica anche oggi, sebbene
con la massima facilità ed economia possiamo aver fuoco; e spesso, di
notte, si vedono vagare quali ombre e spaventosi fantasmi per le deserte
ed oscure vie del paese uomini, e per lo più donne con carboni e tizzi
accesi, trovati nelle case dei vicini e dei parenti, rievocando così nella
mente di chi vede le leggende che tante volte sentimmo ripetute nella
nostra infanzia.
Punito severamente era chi si dava a corseggiare sui mari, il che
era permesso solo nel caso di danneggiare i nemici del sovrano.
Era poi vietato acquistare e vendere cosa alcuna ai corsari; l’unica
cosa concessa era di poter comprare da essi delle armi.
Dai 14 ai 70 anni tutti i cittadini erano obbligati al servizio
militare; montavano la guardia; dovevano compiere tutti i doveri imposti
dai regolamenti, e fare tutti i lavori ordinari delle leggi.
Qualora un vecchio di oltre 70 anni avesse lavorato per sé, allora
non era dispensato dal pubblico servizio, ed era sottoposto a tutti gli
obblighi degli altri cittadini.
Curiosa era la disposizione per cui una donna, citata come
testimone, aveva diritto di essere accompagnata, durante il suo esame,
da un uomo.
Era lecito a ciascuna persona sigillare una propria lettera col
suggello del Comune, purché, ottenuto il permesso dal Consiglio minore,
avesse pagata una tassa determinata.
Per provvedere, poi, ai bisogni del Giglio, esisteva un fondo nella
cassa, col quale era ordinato che «lo Potestà el Notaro, sindichi e
Consiglio che saranno debbiano procurare d’havere del grano da calende
di maggio per infino ad ognissanto, a la pena di soldi quaranta per ogni
Sindico».
Relazioni fra gigliesi e forestieri – Forestiero era chi non fosse
isolano, ed il forestiero che stava al Giglio era esente da qualsiasi servizio
tanto militare che di Comune, questo, forse perché si considerava come
individuo sospetto.
Le trasgressioni commesse da un forestiero erano punite con
maggiore severità, e certi privilegi, goduti dagli isolani, erano invece a
questo negati.
Mentre tutti gli abitanti potevano portare armi fuori della porta
del castello, ciò non era lecito ai forestieri, per i quali occorreva uno
speciale permesso dei Sindaci e del Potestà.
49
Abbiamo veduto che ai gigliesi era lecito comprare armi dai
corsari; questa cosa ancora era vietata ai forestieri, i quali nulla potevano
acquistare dalla detta gente.
Il gigliese che, in luogo di passare, usciva o entrava nel castello
scavalcando le mura, era punito con una multa determinata; invece il
forestiero, per lo stesso motivo, era punito, usando le stesse parole della
legge, con pena «chel Potestà et li Sindichi li peneranno, et li piacerà,
così in havere come in persona secondo che a loro piacerà». (Statuti
citati, cap. 52).
Ma un forestiero che, dopo un anno di domicilio al Giglio, vi
avesse preso moglie, doveva prestare qualunque servizio come se fosse
gigliese, ed era ammesso a godere gli stessi privilegi e diritti degli altri
isolani, con i quali aveva a comune i doveri.
Ed ora riporterò un capitolo degli statuti dell’Isola del Giglio,
capitolo che, mentre ci rivela il modo tenuto dagli isolani verso i forestieri
loro debitori, rispecchia altresì i tempi in cui fu scritto, ed in cui era in
vigore.
«Da forastieri a gigliesi – Statuimo che se alcuno forestiero facesse alcun
debito con alcuno gigliese et non lo pagasse, et caso advenisse che in
Giglio capitasse sua barca o sua mercantia, che quello che havesse ad
havere lo possa fare sostenere. Et lo Potestà sia lecito di non lassarla
partire ne la barca, ne la mercantia infino che lo ditto gigliese sia pagato,
mostrando legittime prove che havesse ad havere. A presso non
capitandoci qui lo detto debitore ne sua barca o mercantia. Et
capitandoci nomini di quella terra di quello che ha fatto lo debito con lo
gigliese, lo possa far costringere e sostenere a pagare la quantità che
dovesse havere»!!
Questo articolo — bisogna convenirne — mentre difendeva ed
assicurava gli interessi gigliesi, violava apertamente la giustizia, stabiliva
addirittura un principio di prepotenza.
Per pagare ad uno il debito di un altro, rovinare, vendendogli la
mercanzia, e, occorrendo, il bastimento, un innocente per colpa di uno
che, astuto, seppe ingannare la buona fede di un isolano, non era
davvero cosa giusta.
Piuttosto encomiabile era l’altro capitolo per il quale tanto il
castellano, quanto i suoi uomini, non potevano contrarre debiti con gli
isolani. Anzi, se un sottoposto contraeva debiti, il castellano doveva
pagare per quello; ed inoltre, se uno dei suoi uomini dovevasi allontanare
dal Giglio, il castellano era in obbligo di mandare un bando per rendere
nota la prossima partenza di quell’individuo, affinché qualunque persona
potesse reclamare in tempo i propri diritti.
50
Se tale bando non veniva mandato, tanto il castellano, quanto i
suoi uomini non potevano partire dall’Isola.
Gli obblighi e i diritti degli isolani eran riassunti in pochi capitoli,
che costituivano — lo ripeto — gli statuti dell’Isola del Giglio, e tutti ne
erano a cognizione, perché il Podestà doveva, ogni sei mesi, far leggere in
pubblico Consiglio gli statuti rammentati.
E questi statuti tuttora si conservano nell’Archivio Comunale
gigliese, e furono scritti e sottoscritti dal notaro – giudice senese
Giovanni del fu Anseno Billo, il 25 ottobre 1558.
Essi furono, per lungo tempo, l’unico codice del Giglio, fino a che
il Governo Granducale, accortosi che «molti di essi (statuti) erano in
contraddizione con le leggi e bandi di S.A.R. il Sovrano, molti ineseguibili
per la mutazione delle circostanze e variazioni di tempi, credè opportuno
di far compilare da persone elette del pubblico Consiglio, un nuovo
Statuto e leggi conformi alle leggi del Granducato, ed alle circostanze,
costumi e bisogni del tempo presente» (Lettera della segreteria di guerra
esistente nel civile a libro segnato di E a 109 nell’Archivio).
51
CAPITOLO XI
I BARBARESCHI
Mano a mano che le gloriose Repubbliche di Genova e di Pisa
andavano deperendo, e perdevano di quella potenza che le rese per tanto
tempo temute e rispettate, i Mussulmani — i quali già si erano estesi
lungo le coste settentrionali dell’Africa, ed avevano conquistato la Spagna
— prendevano ogni giorno più baldanza, e spesso capitavano con le loro
navi lungo le spiagge tirrene, per depredare e mettere a ferro ed a fuoco
le terre nostre.
Conosciuti col nome di Barbareschi molti di essi spinti da odio
religioso, molti altri da cupidigia e da speranza di ricchi bottini, venivano,
assaltavano, rubavano e fuggivano, mettendo lo scompiglio e lo spavento
nelle nostre contrade.
Non sappiamo quante volte l’Isola del Giglio sia stata soggetta agli
assalti di questa gente.
Lo sbarco più antico che siasi operato in quest’Isola dai Mori o
Barbareschi, e che sia a nostra cognizione, è quello del 19 giugno 1452.
Leggiamo, infatti, nel capitolo 80 degli statuti dell’Isola del Giglio,
intitolato «Di guardare le feste di sottoscripte»: «Anco costituimo et
ordinamo che ogni persona di Giglio sia tenuta di guardare et custodire
tutte le sottoscritte feste a la pena di soldi vinti... La festa di Santo
Gervasio e Prothasio quale viene adì 19 di giugno p. la vittoria havemo de
li mori che erano ritrati dentro la terra. Et in tal di li cavamo fora et
riputamo che fusse p. la vittoria di li ditti Santi. Et questa fu nel anno
mille quattrocento cinquantadue adì XIX di giugno».
Kair o Keir – Eddin, figlio di corsaro, nacque a Metelino.
Conosciuto anche col nome di Ariadeno Barbarossa, pirata audacissimo,
divenne capitano di Solimano II e imperò su Tunisi. (P. Giovio, Stor. lib.
27).
Nel 1534 il Barbarossa, con cento navi, venne in Toscana;
saccheggiò l’Elba ed il Giglio e altre isole; e tanti danni recò lungo le
coste toscane, romane e napoletane che Carlo V, Imperatore, si decise a
punire il pirata.
52
Allestita una flotta potente, assaltò la città di Tunisi, dove
trovavasi Barbarossa; la prese facendovi prigionieri molti saraceni, ma
Barbarossa riuscì a fuggire.
Accesasi la guerra tra Carlo V e Francesco I, questi, non avendo
una flotta poderosa da contrapporre a quella del suo nemico, chiese
aiuto a Solimano II, il quale gli mandò Barbarossa con 130 galere.
Il 1° luglio 1544 la flotta turca, accompagnata da cinque galere
francesi, destinate da Francesco I a ringraziare Solimano per i servizi
prestati dalle sue forze marittime, si partì da Tolone per restituirsi ai
propri forti.
Passando dall’Elba, Barbarossa la assaltò, mettendola a ferro e a
fuoco, per indurre l’Appiani, signore di Piombino, a rilasciare libero un
turco da lui ritenuto prigioniero di nome Sinam, figlio d’un altro capitano
di Solimano.
Liberatolo, gli diè comando di sette navi; e quindi, avanzatosi
nella Maremma, sbarcava uomini, saccheggiava Montiano, Talamone e
Portercole difeso dallo spagnolo Caransa; tentava prendere Orbetello,
che, ben presidiato dai senesi e dalle genti di Cosìmo I, resistè. Allora il
Barbarossa, voltosi improvvisamente al Giglio, ne faceva schiavi quasi
tutti gli abitanti!
Sebastiano Lombardi, nelle sue Memorie dell’Isola dell’Elba, dice
che i gigliesi fatti schiavi, ascesero a ben 700.
Il cav. Sebastiano Lombardi, nepote dell’autore testé citato,
esclama a questo punto, e dopo aver ricordato la cifra che sopra:
«Sembra, il fatto, esagerato, scarsa essendone la popolazione. Quando
ciò sia, l’esagerazione stessa mostra però che l’infortunio fu grande».
(Andamento storico delle memorie sul Monte Argentario, e di alcune altre
sui paesi prossimi, pag. 38).
Io opino che, purtroppo, la cifra degli schiavi dal Barbarossa sia
relativamente esatta, e ciò per i motivi seguenti:
1° Cosìmo I — come abbiamo visto — dové mandare al Giglio una
colonia di greci per infondere un po’ di vita in quest’Isola;
2° Che, trascorso mezzo secolo da tale fatto, la popolazione saliva
soltanto a 187 individui. Segno certo che il Giglio aveva dovuto
sopportare un grande disastro, quale quello di vedere fatti prigionieri
quasi tutti gli abitanti;
3° II nome di Barbarossa è rimasto impresso nella mente dei
gigliesi, ed il nome di Barbarossa rimane ad una località in vicinanza del
castello, località, secondo le menti fanciullesche dei semplicioni, abitata
da spiriti e folletti, sotto forma di cani, difensori d’un tesoro ideale.
Partito Barbarossa, la Balia di Siena, a compensare Orbetello e
Portercole dei danni subiti, concesse ad Orbetello (1544) la pesca per
53
dieci anni nel lago e stagno omonimo ed altri privilegi; e a Portercole il
condono dei debiti ed altri vantaggi.
Dipendendo, allora il Giglio, da Napoli, bisognerebbe consultare
quegli archivi per vedere se quest’Isola ottenne qualche indennizzo.
Ma lo stato miserando in cui la trovò Cosìmo I, dimostra, con
molta probabilità, che o nulla, o ebbe pochissimo.
Nel 1553 sessanta galere e venticinque galeotte turche si unirono
nuovamente alla flotta francese, contro il Re di Spagna, ed essendo morto
Barbarossa, erano capitanate da un altro duce non meno terribile, di
nome Bragut.
Gettatosi, questi, sulla Sicilia, venne in Toscana, danneggiò le
Isole, e, senza alcun frutto, assaltò l’Elba.
Contemporaneamente Carà Mustafa, o Mustafa Bassa,
dipendente di Bragut, s’impadronì della Pianosa, facendone prigionieri
tutti gli abitanti che, carichi di catene, furono imbarcati sui bastimenti
turchi. A questa sorte poté sfuggire una sola famiglia che fu in tempo a
nascondersi in certe grotte dell’Isola.
Nel 1555 Bragut ritornò nella nostre acque; operò uno sbarco a
Populonia e Piombino, e quindi si ritirò in Corsica.
Nel 1558 i turchi ritornarono; il Re di Spagna, Filippo II,
consigliato dal Duca d’Alba, allora Viceré di Napoli (Pecci, p. IV 315, Gall.
t. II), incaricò Cosìmo I di fortificare Portercole dove, sotto la direzione di
Chiappino Vitelli, ed architetto Giovanni Camerini, furono costruiti i forti
Monte Filippo, S. Caterina e Stella, e la batteria di S. Berbera.
Nel tempo stesso, a S. Stefano veniva costruita la fortezza, e,
forse, le due torri del Calvello e di Lividonia (Seb. Lombardi citato).
Mi pare che questa volta la Toscana e le sue Isole non sieno state
molestate.
Nell’anno successivo i turchi fecero ritorno; operarono uno sbarco
nell’Isola del Giglio (23 giugno 1559), ed inoltratisi fino al castello dettero
l’assalto. Si difesero i gigliesi con valore; ma i turchi prevalsero e
riuscirono a salire sulle mura.
Terribile momento fu quello, tanto più recente era la memoria di
recentissimo flagello subito. Perduta ogni speranza, i gigliesi valsero il
pensiero a S. Giovanni, di cui quel giorno era la vigilia, e fecero voto —
fossero stati vincitori — di solennizzare quel giorno.
Fidenti nell’aiuto divino, andarono nuovamente contro i turchi, i
quali, non potendo resistere al nuovo, inaspettato e disperato attacco,
fuggirono.
Allora i gigliesi, memori del voto fatto, stabilirono di santificare il
23 giugno di ogni anno per ricordanza di tal fatto, comminando la solita
pena pecuniaria di soldi venti per i trasgressori.
54
Cosìmo I, impensierito per queste continue scorrerie che
danneggiavano il suo Stato ed il commercio del popolo suo, pensò, nel
1561, di istituire l’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, col duplice scopo di
combattere i turchi e di togliere le famiglie più potenti della Toscana
dall’esercizio della mercatura, ed impedire loro, in tal modo, di acquistare
maggiori ricchezze e maggiore potenza.
Pio IV (Giovanni Angelo dei Medici), con breve 1° ottobre 1561
dichiarò che l’Ordine dovesse istituirsi sotto le regole di S. Benedetto; che
il Duca Cosìmo (allora non aveva per anco il titolo di Granduca), ne fosse
il primo Gran Maestro, e che tale dignità passasse ai suoi successori.
Inoltre stabilì che i cavalieri fossero insigniti della croce e
dell’abito militare, e che l’Ordine dovesse appellarsi da S. Stefano, Papa e
martire.
Fu costituito un pingue patrimonio; e nel novembre del detto anno, ne fu
pubblicata, finalmente, la costituzione.
La residenza era in Pisa, città prossima al mare. Qui fu eretta una
chiesa conventuale (chiesa dei Cavalieri), con clero numeroso, a cui
presiedeva, con titolo di Priore, un sacerdote cavaliere che aveva diritto di
pontificare. (Inghirami, Storia della Toscana).
Nel 1562 tornarono i corsari, che scesero a Campiglia, e
saccheggiarono l’Elba e le altre isole dell’arcipelago toscano.
Fatta la pace tra Spagna e Francia, quella si diè a battere i turchi
che ne danneggiavano le coste dei propri domini in Italia.
I Barbareschi furono dispersi e sbandati, presentandosi allora alla
spicciolata; ed anzi Bragut, con poche navi, fece una comparsa nel
nostro mare nello stesso anno (1563).
Intanto Cosìmo I, per meglio combattere i pirati, stipulò un
contratto con Filippo II, Re di Spagna, obbligandosi ad unire le sue alle
galere spagnole. Queste navi, unite, dovevan dare la caccia ai
Barbareschi.
Pio V, vedendo i cristiani perseguitati dai musulmani;
impressionato dai continui progressi di questi, pensò di riunire le flotte
cristiane per combattere i turchi.
E difatti le navi spagnole, veneziane, pontificie e del Duca di
Savoia, si misero insieme in numero di 208 galere ed altri legni da
trasporto, con 24.000 combattenti, sotto il comando di Don Giovanni
D’Austria.
II 7 ottobre 1571, nel golfo di Lepanto, si incontrarono con la
flotta turca, forte di 238 galere.
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Memorabile fu quella battaglia che rintuzzò la potenza
mussulmana: 200 legni turchi furono presi, rotti o inghiottiti dalle onde;
ventimila saraceni furono uccisi; cinquemila furono fatti prigionieri. Dei
collegati si perdereno sette galere, e vi furono tremila feriti; ma
quindicimila cristiani vennero liberati dalla schiavitù.
Da allora in poi le coste italiane, e specialmente quelle toscane,
furono discretamente libere, tanto più che i cavalieri di S. Stefano davano
una caccia spietata alle rare navi saracene che ardivano comparire ai lidi
nostri.
Anzi, bramosi di incontrarsi con i turchi, i cavalieri non si
contentavano più di incrociare lungo le coste del proprio paese, ma
osarono andare a trovare i loro nemici nelle proprie città e nei propri
ricoveri.
Nel 1607, Inghirami, ammiraglio delle galere di S. Stefano, si recò
sulle coste d’Africa; assaltò e prese Bona, facendovi schiavi 1.500
saraceni.
Inorgogliti da questa vittoria, organizzarono un’altra spedizione
sotto il comando del marchese Guadagni, e andati in levante, si
scontrarono nell’arcipelago, coi turchi, riportando segnalata vittoria.
Nove vascelli turchi furono presi, a bordo dei quali furono trovate tante
gioie e ricchezze pel valore di due milioni di scudi, e 700 prigionieri.
Né qui si fermano le gesta dei bravi cavalieri di S. Stefano, perché
nel 1612 l’Inghirami prese il forte di Acliman in Caramania, situato
dirimpetto a Cipro, e nel 1616 sorprese presso Negroponte la capitana di
Metelin ed un’altra galera che portava i tributi a Costantinopoli, sulla
quale trovaronsi più di un milione di scudi, si fecero 362 schiavi, e 420
cristiani furono liberati.
Non potendo, l’Inghirami, a causa della grave età, più
avventurarsi sui mari, cedé il comando a Giulio Montauto, che, nel 1620,
prese un bertone turchesco denominato «il Bravo d’Algeri» armato con
21 cannoni, e difeso da centrotrentasette turchi.
Incoraggiato da questo successo, il valoroso duce voleva assalire i
forte di Mietta; ma incontrata una galera saracena con duecento turchi e
duecentoventi cristiani a remo, se ne impadronì, e per non perdere
queste prede rinunziò all’altra impresa, ritornandosene in Toscana coi
numerosi prigionieri e coi cristiani liberati.
I turchi erano perciò terrorizzati, e più non ardivano venire nelle
acque nostre, temendo di incontrarsi con quei terribili nemici che,
audaci, si recavano ad attaccarli nelle loro stesse fortezze.
Ma, ogni tanto, qualche nave isolata faceva la sua comparsa tra
noi. E così, nel 1740, dopo tanto tempo, un pirata si mise a scorrazzare
nel canale del Giglio; ma fu costretto a partirsene.
56
Nel 1753 quattro galeotte turche incrociavano nelle acque gigliesi.
Una di esse, rimasta momentaneamente isolata, fu attaccata e presa da
nave genovese; ed allora le altre tre, piombate sul Giglio, sorpresero la
torre del Campese e se ne impadronirono; ma i gigliesi riuscirono a
cacciare di nuovo i punto graditi ospiti (Seb. Lombardi citato, pag. 119).
Il 20 agosto 1757 la Sublime Porta, dietro reclami mossi
specialmente da Napoli, riprovava gli atti dei corsari, ed imponeva a
questi l’uso di bandiera e di colore a forma determinata.
E si arriva, così, all’arino 1799, in cui, per l’ultima volta, i corsari fecero
la loro comparsa nell’Isola del Giglio.
All’alba del 18 novembre 1799 furono veduti presso l’Isola, sette
bastimenti da guerra dalla parte del Lazzeretto, che vennero ben presto
riconosciuti per barbareschi. Questi andarono terra terra verso il Fenaio,
ed arrivati a scoprire la torre del Campese, spedirono nove lance, e poi
altre ancora per sbarcar gente.
Intanto i tunisini (che erano tali), discesi, si dettero a rubare da
per tutto e a bruciare quello che non potevan trasportare. Assalirono la
torre del Campese, ma i difensori, avendo spezzato le scale con le quali i
tunisini tentavano di penetrare dentro, tralasciarono di più assalirla.
Si sa che una cannonata tirata dalla torre, sopra un gruppo di
pirati, ne uccise cinque, fra i quali uno di comando. I cadaveri vennero
portati via dai compagni.
Riuscito vano l’assalto alla torre del Campese, tutto il corpo della
gente sbarcata fino dalla mattina alle «Secche» in numero di circa
duemila, si mosse verso il castello, che era comandato dal Bondoni
Anselmo, da Grosseto.
I tunisini fecero capo a Scopeto, portando spiegate cinque
bandiere, di cui quattro rosse ed una metà verde e metà rosso – cupo;
quindi, continuando la marcia per il Vernaccio, si appressarono
rapidamente al paese.
Allora fu dato nella campana a martello, e le strida delle donne e
dei ragazzi furono grandissime perché non avevano uomini seco, essendo
questi in campagna intenti alle loro faccende.
Ma in breve l’allarme si sparse per tutta l’Isola, e la massima parte degli uomini ritornarono in paese, e, prese le armi, si posero in stato di
difesa.
Quando i tunisini furono sopra a Santa Croce, fu principiato,
dagli isolani, un fuoco così vivo, che gli assalitori furono costretti a
lasciare la strada, e spiegando altre dieci bandiere, divisisi in due partite,
giunsero a circondare il castello. E, forti di numero, per meglio riuscire
nel loro intento, idearono di attaccare simultaneamente il paese da più
parti. Infatti piantarono cinque bandiere al termine del terreno di
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«Rovina» sotto la Casamatta; cinque sotto «l’Orto del Capitano»; due al
«Camposanto», e tre sul «Poggio» che fronteggia il paese.
Quantunque non tutti gli isolani avessero potuto essere in tempo
di porgere soccorso, nondimeno quelli che riuscirono a ricoverarsi nel
castello, i preti compresi, presero le armi, e, distribuiti per le mura,
aumentavano il loro fuoco e il loro coraggio all’appressarsi dei tunisini.
Il combattimento durò a lungo. Finalmente, verso le ore 4
pomeridiane del giorno suddetto, vedendo, i nemici, inutile qualsiasi
sforzo, si ritirarono a bordo dei loro bastimenti; e sul cominciar della
notte, ad un segnale della nave ammiraglia, tutti si mossero, e disparvero
in breve.
Lasciarono, i tunisini, otto morti sul terreno, e portarono seco
molti feriti, il numero dei quali dové essere assai grande, perché da molto
sangue era bagnata tutta la strada di Scopeto, come molto sangue era
per le vie della Fontuccia e del Groceto.
Secondo il Lombardi (opera citata, pag. 303 in nota), i tunisini
feriti sarebbero stati più di cento, molti dei quali sarebbero periti per
mare, durante la loro ritirata.
Dei gigliesi rimase ucciso il solo Giovanni Battista Pellegrini, e vi
furono quattro feriti.
Fu fatto prigioniero un turco, il quale asserì che la spedizione fu
fatta dal Bey di Tunisi per prendere l’Isola del Giglio.
Furono tolti ai tunisini sei fucili, quattro cangiari, delle monete
d’oro e due anelli, oggetti tutti donati e offerti a S. Mamiliano protettore
dell’Isola, il quale fu subito esposto, appena i barbereschi misero piede
sulla terra.
Fu pure trovato un sacco con entro delle scale di corda, dei grossi
perni, ed altre cose occorrenti per una scalata.
Le donne, dopo aver messo in sicuro le piccole creature nella
fortezza, si distinsero esse pure col portare sassi per scagliarli dalle mura
contro i nemici.
Questa fu l’ultima visita fatta al Giglio dai barbereschi, e di essa
si conserva ancora memoria vivissima.
Fino ad ieri ne venivano narrati i particolari dai buoni vecchioni
che, sebbene fanciulli all’epoca della venuta dei pirati, pure ne ebbero
tale impressione, che mai si cancellò dalle menti loro.
A proposito di questo ultimo sbarco operato nell’Isola dai
berbereschi, alcuni dicono che la flotta era composta di dodici legni
algerini, e che il combattimento durò due giorni.
Ciò non è, perché nelle memorie esistenti nell’Archivio comunale
del Giglio, si accenna al fatto nel modo come ho descritto.
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È, poi, inesatto che i gigliesi, usciti dal castello, incalzassero gli
assalitori, respingendoli fino al mare. Basti il notare che la popolazione
era di circa mille abitanti, compresi i vecchi, le donne e i bambini; e che
non tutti gli uomini fecero in tempo a ritirarsi nel castello.
Non starò a ripetere i numerosi episodi, narrati in modo vario;
citerò soltanto quello di una donna, chiamata volgarmente «la Rossina»,
la quale, essendo sorda, e guardando le pecore, a quelli che dal castello
la esortavano a fuggire ed a ritirarsi in paese perché venivano i turchi,
rispondeva, che le sue bestie non facessero danni, né entravano nei
terreni a guastarli. Credeva, la poveretta, che la rimproverassero di poca
sorveglianza al suo gregge!
I nemici alcun male fecero a quella donna; gli altri, che non
furono in tempo a rientrare in castello, fuggirono ai tunisini
nascondendosi per l’Isola.
È inutile aggiungere che il 18 novembre viene considerato come
festivo; e siccome si ritiene che S. Mamiliano fu quello che liberò l’Isola
dai turchi, così in quel giorno si festeggia tale Santo sotto il nome di «S.
Mamiliano dei Turchi»; ed in tale occasione si espongono, in chiesa, due
cangiari ed un pistolone che soli conservansi degli oggetti tolti ai tunisini
aggressori.
Ed apro qui una parentesi, per esprimere un voto, che mi auguro
non debba rimanere allo stato di pio e platonico desiderio, e cioè:
II 18 novembre dell’anno in corso fanno cento anni da che i nostri
padri, pochi di numero, sparsi sulla grande distesa di queste mura
castellane, respinsero ben 2000 uomini, addestrati nell’arte della guerra,
maestri negli assalti e nei saccheggi.
Sarebbe doveroso, io dico, che in tal giorno, noi che viviamo ora
sicuri da qualsiasi aggressione, rammentassimo, in modo particolare, il
valore dei padri nostri che, ravvivati dalla fede, seppero respingere un
improvviso e formidabile assalto, cooperando, così, alla difesa della civiltà
e della religione, che ebbero un ultimo attacco, in Italia, dalle orde
mussulmane.
E son certo che, signoreggiando, ora, regina la concordia in
quest’Isola, tutti si uniranno in mirabile accordo per rendere tributo di
onore e venerazione all’atto eroico compiuto dai nostri cento anni or
sono, atto che dà loro il diritto d’essere chiamati «difensori della fede e
della civiltà».
E la parentesi è chiusa.
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CAPITOLO XII
AMMINISTRAZIONE DEGLI INTERESSI LOCALI
In questo secolo abbiamo ancora il potestà, che disimpegna lo
stesso ufficio come nel secolo passato. Però, per gli affari militari, quale
comandante del presidio, vi è un governatore militare.
Gli interessi locali sono sempre amministrati dal Comune: non vi
è più il Consiglio minore ed il Consiglio maggiore; abbiamo Sindaci, che
presto si convertono in Priori.
Il Consiglio era composto di quaranta membri, eletti non dal
popolo, ma dal Granduca, e duravano in carica a vita, ma potevano
essere revocati dal Sovrano. Ogni sei mesi il Consiglio nominava due
Sindaci e gli altri offiziali.
Verso gli ultimi del 1672 fu ordinato che ogni anno, — il primo di
novembre — si dovessero sorteggiare venti Consiglieri, i quali dovevano
servire pel «Consiglio di estate», e gli altri venti pel «Consiglio di
inverno».
Inoltre, fu pure stabilito che i Consiglieri non dovessero durare in
carica a vita, ma sibbene per tre anni.
I motivi di tali provvedimenti si leggono nel rapporto fatto da
Virginio Magi al Granduca Cosìmo III, il quale ordinò la piena esecuzione
delle proposte avanzate dallo stesso Magi.
Ed ecco, ora, il citato rapporto:
«Serenissimo Gran Duca,
La terra del Giglio, pel suo buon governo, forma un Consiglio che è stato solito
essere di 40 persone, le quali vengono elette da V.A.S., perdurano in tal carica a vita, e da
questi ne estraggono ogni sei mesi due Sindaci ed altri uffiziali. In oggi il numero di questi
Consiglieri è di 27 persone, per la morte di molti, e per essere altri stati abilitati. Stimerei
bene il riempire il numero di 40, ma col primo di novembre di questi rimborsati se ne
estraessero venti che servissero pel Consiglio del verno, e gli altri venti pel Consiglio della
state, incominciando col maggio conforme all’altre loro tratte di offiziali, e che ogni anno di
novembre si dovesse fare la nuova imborsazione, e prima tratta. Di quelli che di presente
risiedono in Consiglio ne levarei alcuni, parte per la loro natura inquieta, parte per non
essere abili, e parte per non potere, essendo soli alle faccende di casa loro, e stando fuori
dell’Isola il più tempo.
Vi suole essere di molta confusione nei loro Consigli, e per la rozzezza delle
persone, e per volere ogn’uno mostrarsi il più saccente; inconveniente antico, onde il loro
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statuto, lib. 3, cap. 73, vi provvede con una pena di cinque soldi, non lieve a quelli tempi
come è ora, che perciò parrebbe bene venissero sino ad una lira».
Séguita, quindi, proponendo quali Consiglieri debbano rimanere
in carica, e quali siano quelli da aggiungersi.
Meriterebbe il conto di riportare integralmente la relazione Magi,
anche per dimostrare quali e quante famiglie da allora ad oggi siensi
spente affatto, come i Pretiani, i Cipriani, i Maringo, i Franceschetti, i
Tonini, i Conforti ecc.; ma non è qui il caso. Solo dirò che il Magi
prosegue:
«I quali nominati devono servire in tale carica per tre anni, quali spirati, deve la
Comunità supplicare di nuovo per potere allora riformare gli inabili e gli scandalosi, che è
quanto in questo proposito mi occorre significare alla A.V.S.
10 agosto 1672
Virginio Masi.
Approvasi ecc., Ferd. Bardi».
Di quanto sopra fu data lettura in Consiglio il 4 novembre 1672.
Pochissime le pubbliche entrate, anche pochissime erano le
pubbliche spese.
Provenivano, le prime, dalle multe che dovevano pagare i
contravventori alle leggi; ma a nulla si riducevano, perché i condannati
alle pene pecuniarie ricorrevano alla grazia sovrana, che veniva sempre
accordata.
Ed anzi i gigliesi fecero, per mezzo dei loro rappresentanti
(Consiglio), un’istanza al Granduca, che principia con le parole:
«L’humeni rapp.ti la Comunità del Isola del Giglio, severi e sudditi
deutissimi di V.A.S. brevemente espongono...», con la quale istanza
domandavano che non si accordasse più la grazia a chi la domandava; ed
il Governatore del Giglio, opportunamente interpellato da Firenze,
rispondeva:
«Ser.mo Gran Duca
Per la comandata informat. debbo rappresentare a V.A.S. come questa Comunità
non ha altre entrate che le partecipazioni di accuse e pene dei danni dati e malefitii, ec., i
danni dati a capo l’anno importerebbero qualche somma, et in particolare, perché chi ha il
bestiame, che non sono più di dieci o dodici famiglie, non ne tengono conto nessuno, e
fanno di molti danni, e ricorrono per la pena alla grazia di V.A.S., quale benignamente li
concede, e ne segue pel mantenimento della Comunità l’impositione universale del dazio,
con danno delle povere vedove e pupilli. Per tanto per ovviare alli inconvenienti, che si
causano da q.sti isolani, che hanno il sudd. bestiame con non guardarlo, potrebbe V.A.
restar servita dichiarare nei suoi benigni detti, che non intende pregiudicare alla Comunità,
p. la sua partecipazione, che in tal modo li sudd. guarderanno li loro bestiami, e li
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miserabili non saranno aggravati conf. sono che è quanto devo rappresentare a V.A.S. alla
quale ardisco baciarli humilmente la veste.
Giglio 26 agosto 1676
Di V.A.S. humil.mo dev.mo abb.mo serv.re e suddito
C. Vincenzo Guadaguoli Gov. re»
Concedesi come dimandano non ostante.
7 settembre 1676
Ferd. Bardi
Gli impiegati, il medico ed il chirurgo compresi, erano pagati dallo
Stato, ed i popolani, senza ideali, credendo il mondo limitato alla loro
Isola, vivevano senza curarsi di dare sviluppo all’agricoltura ed al
commercio.
Soldati, e come tali dai Sovrani pagati, menavano vita frugale e
sufficientemente meschina, col soldo che riscuotevano; ed affidandosi al
certo, sebbene piccolo stipendio, non cercavano di procurarsi agi e
comodità.
Tutti piccoli possidenti, tali sempre rimangono; ed anche oggi può
dirsi che l’Isola sia divisa press’a poco in parti uguali tra la popolazione.
Ciò dimostra apatia assoluta, ed assoluta indolenza da parte degli
abitanti; poiché, se dall’individuale attività deriva il bene economico, è
fatale che uno debba sopravanzare finanziariamente l’altro, essendo
impossibile, in una popolazione, una perfetta uguaglianza nell’attività
individuale.
I commerci vengono fatti dai forestieri; e sono i napoletani ed i
genovesi che, nel Giglio, accumulano qualche cosa e si procurano delle
agiatezze, mentre gli indigeni rimangono tutti allo stesso livello
economico.
E la noncuranza dei gigliesi a procacciarsi agi e comodità, e
talvolta anche a pensare di procacciarsi il vitto necessario, dipendeva dal
fatto che il Governo veniva in loro soccorso quasi tutti gli anni,
somministrando grano e denari.
E se consultiamo le deliberazioni prese nel secolo XVII, e si vede
che annualmente si stabiliva in Consiglio di «ricorrere a S.A. per avere
grano come pel solito» (Vedi deliberazione 4 gennaio 1631).
Ed il 20 giugno 1629 il Consiglio si radunò per dispensare il
grano venuto da Grosseto; mentre il 14 luglio 1630 vi fu un’adunanza
62
per ricorrere a S.A. perché, a causa del cattivo raccolto, condoni certe
spese.
E terminerò le citazioni, col riportare, anzi con l’accennare alla
deliberazione del 22 dicembre 1630, con la quale si stabilì di «provvedere
grano, avvertendo i nostri padroni del gran bisogno di questa isola» e si
decise di mandare «uno a Siena al signor Principe a perorare la causa
gigliese».
Per dare un cenno delle entrate comunali, tolgo queste parole dal
volume delle deliberazioni del secolo XVII: «1° novembre 1630. – Si vende
la gabella al solito in quattro terziarie ogni tre mesi. Levante rimase come
più offerente Antonio di Santi, e Giammatteo Miliani per scudi 36, e una
lira per pagare a terziarie come sopra».
Mentre nel secolo passato i grasciari o ministrali, gli stimatori ed i
viari erano nominati dai Sindaci, dal Consiglio minore e dal Podestà, ora,
invece, sono eletti dai Priori, i quali, insieme con il Camarlingo, sono
scelti da cinque chiamatori.
Riporterò testualmente il processo verbale dell’adunanza tenuta il
1° maggio 1630 per mostrare che le cose succedevano appunto come ho
detto:
«Al nome di Dio, si aduna il Consiglio maggiore per cavare li nove offitiali secondo
il solito delli statuti e consueto. Si cavano le cinque polize delli chiamatori, Antonio di Santi,
Iacomo Antonio Lubrano, Antonio Rossi, Iacomo Modesti, Giovanni di Pasqualino li quali
chiamatori elessero per capo priore di questa Comunità Antonio Rossi, ed altro priore
compagno Stefano di Giovanni, e col giurarne e accettorno; elessero per camarlingo Andrea
di Dom. quale accettò e giurò fare lofitio suo, elessero ancora tre consiglieri Iacomo di
Ben.tto, Migliano Arienti, e Iacomo Lubrani, e così giurorno accettorno, così ancora il
camarlingo.
Li priori fecero tre grascieri, Dom. Arienti, Nardo di Lazaro, Niccolaio di Caio.
Ancora fecero tre stimatori, Bastiano di Batista, Cierbone di A., Carlo del Fabbro. Ancora
due viari, M. Andrea Maglioli e Pavolo di Giov., così giurarono tutti tanto li grascieri,
stimatori viari».
Tali elezioni avevano luogo di sei mesi in sei mesi, come vedesi
anche dal libro delle deliberazioni di quei tempi.
Da ciò si vede che sui primi del secolo XVII il numero dei
consiglieri era ristretto e che venivano eletti da cinque chiamatori; si vede
ancora che fu soltanto verso la metà del secolo stesso che il Consiglio
constava di 40 membri, nominati dal Granduca, come risulta dal
rapporto del Magi, sopra riportato.
Se consideriamo, poi, gli abitanti di quel tempo dal lato morale
pare che, riguardo ai costumi, lasciassero molto ma molto a desiderare.
63
Popolo primitivo, ignorante piuttosto che no, superstizioso più che
religioso, appassionato per i balli e per tutto ciò che poteva scuotere i
muscoli ed eccitare disordinati appetiti, sentiva violentemente le
passioni, ed a quelle cedeva.
E per porre un riparo a tanto male, il 15 gennaio 1629 fu
pubblicato, per mezzo di Michele di Lazaro Testi, balio della corte
dell’Isola del Giglio, un bando che venne letto ad alta voce quando,
terminata la Messa cantata, maggiore era la frequenza di popolo. Il rigore
e le pene severissime comminate da tale bando mostrano che il male a
cui volevasi rimediare era grande, e che occorrevano rimedi pronti ed
energici.
Ecco il tenore di detto bando, che per intero trascrivo, giacché da
esso possiamo avere degli schiarimenti sul genere di vita che menavasi al
Giglio, e su alcuni costumi quale il «far la mattinella» ecc.:
«Avendo l’A.S. sentito i gravissimi disordini che con offesa di Dio, e detrimento
della pudicizia succedono bene spesso nell’Isola del Giglio, non solo dalla gran libertà dei
balli, e delle maschere che in ogni luogo e tempo quella gioventù si fa lecito, ma ancora del
commercio che prima di sposarsi in faccia della chiesa hanno tra loro i futuri sposi, col
presente pubblico bando proibisco a qualsivoglia persona dell’uno e dell’altro sesso, che
non ardischino gli sposi dopoché per verba de futuro si saranno promesse in matrimonio, e
prima che in chiesa si sieno attualmente sposati, di entrare e praticare insieme di giorno o
di notte, non solo nelle case dello sposo e sposa rispettivamente, ma ancora di stare e
trovarsi insieme in qualsivoglia altra casa, ancorché con pretesto di parentela, sotto pena
allo sposo dell’esilio dall’Isola per un anno et alla sposa di tre mesi di carcere, e nella
medesima incorono li padri, madri e fratelli che dessero comodità nelle loro case di simili
pratiche.
Et scoprendosi alcuna di dette spose gravide, o sapendo che fosse tra loro seguita
la copula carnale prima dell’effettivo matrimonio, incorra l’uomo in pena della galera per
cinque anni, e la donna in pena della berlina, e di tre anni d’esilio dall’Isola, non ostante
che poi fosse tra loro seguito il matrimonio.
Che nessuna persona dell’uno e dell’altro sesso ardisca di mascherarsi, o
travestirsi né di giorno, né di notte, fuori del carnevale che principia il giorno di S. Antonio
Abate, sotto pena dell’esilio dall’Isola per sei mesi all’uomo, e di due mesi di carcere alla
donna, dichiarando che si intenderà travestito chi porterà panni non convenienti al suo
sesso, et alla sua condizione.
Che nessuna donna sia ardita star di notte tempo, dopo sonata la seconda ritirata,
su le porte delle case, o in strada a far l’amore, o discorrere con i loro innamorati, sotto
pena, agli uomini dell’esilio dall’Isola per tre mesi, et alle donne d’un mese di carcere.
Che non sia lecito andar di notte tempo uomini e donne insieme cantando e fare,
come dicono, «la mattinella» sotto pena a ciaschuno d’un mese di carcere.
Che nessuna persona dell’uno e dell’altro sesso ardisca ballare e far ballare
pubblicamente in alcun luogo della suddetta isola nei seguenti giorni cioè nel giorno della
nascita del Signore, et altri giorni susseguenti, sino al giorno della Circoncisione
inclusivamente, nel giorno dell’Epifania, ne’ tre giorni di Pasqua di risurrezione, nel giorno
dell’Ascensione, ne’ tre giorni della Pentecoste, e festa della SS. Trinità, e del Corpus
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Domini, nel giorno di tutti i Santi, et in tutte le feste della beatissima Vergine ancorché non
siano di precetto, cioè della Concezione, Nascita, Presentazione, Annunziazione, Visitazione,
Purificazione et Assunzione, sotto pena agli huomini di sei mesi d’esilio dalla isola, et alle
donne di tre mesi di carcere, et ai sonatori e padroni delle case dove si faranno tali feste e
balli, oltre l’esilio di sei mesi, di scudi 10 d’oro per ciascheduno da apllicarsi al maestro
della squola che per la buona educazione dei figlioli intende l’A.S. mettere nell’isola».
Da quanto sopra vedesi come la pubblica scuola fu impiantata in
quest’Isola nel 1629.
Ma poco frutto, sembra, abbia portato tale bando, o, se lo portò,
fu un frutto passeggiero.
E difatti troviamo che il 10 agosto 1672 il Governatore Virginio
Masi, in un rapporto al Gran Duca Cosìmo III, scriveva, tra le altre,
queste parole: «Sono quasi di nessuna stima le pene composte dalli
statuti dell’isola contro chi userà violenza a femmina, chi ferisse, chi
gioca; onde per reprimere la loro oziosità, e la loro audacia mi parrebbe
bene farvi pubblicare la legge del 2 settembre 1579 contro chi ferisse con
mazza or archibusi; e quella del 2 decembre 1558 contro quelli che
usassero violenza a femmine o maschi e la legge pubblicativa di giocare a
carte».
Il 22 gennaio 1604 fu fatto attaccare un bando, al luogo solito in
piazza, con cui Ferdinando I Granduca di Toscana, ordinava obbedienza
maggiore che si convenga al Governatore. Prescriveva inoltre che se un
gigliese o forestiero che si trovasse in Giglio, si ricusasse di arrestare una
persona dietro ordine del Governatore, e di condurlo in rocca, doveva
pagare di pena scudi 50. Di tal somma metà andava al fisco, un quarto al
giudice, e l’altro quarto all’accusatore. Qualora l’arrestato avesse opposto
resistenza, si doveva portare in carcere o vivo o morto. Nello stesso bando
si minacciava, al primo caso di disobbedienza al bando stesso, di mettere
nell’isola un caporale con alcuni birri, a spese della Comunità.
Si aggiungeva che chi avesse offeso il Governatore era punito con
le forche e con la confisca dei beni; alla stessa pena andava incontro chi
«dava comodo, consigliava o altro per salvare il malfattore».
Ordini severi vi erano anche per i padroni di barca che avessero
facilitata la fuga del reo.
Tale bando, pubblicato, come dicemmo, il 22 gennaio 1604, fu
pubblicato nuovamente il 4 maggio 1673, il 4 maggio 1721 ed il 14
agosto 1727.
Anche per questo secolo bisogna fare l’osservazione che facemmo
pel secolo passato, relativamente alla sproporzione fra il numero degli
abitanti e quello delle pubbliche cariche che vi erano.
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Infatti, nel 1606 gli abitanti gigliesi erano 267, numero che, sessanta
anni dopo, troviamo triplicato, poiché nel 1666 ascendevano a ben 800
individui (Salvagnoli, Soc. Georg, vol. 22, pag. 76).
66
CAPITOLO XIII
I LORENESI
Estinta la famiglia Medici con la morte di Gian Castone (1737), fu
nominato Gran Duca di Toscana Francesco Stefano III Duca di Lorena e
di Bar, sposatosi (13 febbraio 1736) a Maria Teresa, figlia di Carlo VI
Imperatore d’Austria.
Tale passaggio della Toscana alla Casa di Lorena fu stabilito e
decretato nella pace di Vienna (15 novembre 1735), con la quale finirono
le contese per la successione al trono della Polonia. In detta pace, a
prevenire nuove lotte e nuove guerre per la successione della Toscana, fu
stabilito di far succedere, dopo avvenuta la morte di Gian Gastone,
Francesco di Lorena.
Morto Carlo VI (1740), dopo una lunga guerra per la successione
d’Austria, terminata con la pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748), si
riconobbe Maria Teresa, già Regina di Ungheria, Imperatrice d’Austria col
titolo di Imperatore al suo marito.
Francesco, allora, si recò in Austria, e resse il Governo di Toscana
per mezzo di Ministri da lui incaricati, fin al 13 agosto 1765, nella quale
epoca morì.
In Toscana gli successe il secondogenito, Pietro Leopoldo I; sul
trono Imperiale invece si assise il suo primogenito Giuseppe II, il quale vi
stette fino al 20 febbraio 1790, anno in cui, venuto a morte, gli successe,
come vedremo, suo fratello Pietro Leopoldo I.
Ma prima di parlare di questo Principe, diremo qualche cosa
intorno a cose di secondaria importanza, ma che tuttavia meritano di
essere rilevate perché riguardano l’Isola del Giglio.
Nel 1723 fu ingrandita la chiesa; e il 2 giugno dello stesso anno
vennero al Giglio, a tale scopo, due maestri muratori, pagati dal Governo.
Un anno dopo (1724), infierì nell’isola il vaiolo; ma non esistono
documenti per rilevare se tale malattia, come è supponibile, facesse
molta strage.
E fu nel 1728, con lettera al Governatore dell’isola in data 8
marzo, che si concesse ai napoletani di pescare il corallo nelle acque
gigliesi. Però, i pescatori dovevano presentarsi alla Cancelleria del Giglio
67
a dare mallevadoria, e dovevano portare tutto il corallo in Livorno, per
levarne la decima parte di quello che era stato pescato, il quale decimo
andava alla R. Cassa.
Anche il Governatore aveva diritto ad una porzione della pesca.
Però nel 1729 (17 gennaio), forse per risparmiare la seccatura di
recarsi in Livorno, prima di andare a Napoli, fu ordinato che i pescatori
di corallo portassero il prodotto della loro pesca nella dogana del Giglio,
per depositarvi il decimo spettante al Governo.
Nel 1731 i pescatori di corallo fecero alcuni guasti nell’isola del
Giglio. Il Governo toscano ricorse a quello di Napoli, e il Governatore di
Torre del Greco condannò tutti i pescatori a pagare in solido ottanta
ducati per risarcimento dei danni prodotti.
Nel 22 aprile 1732 Giov. Battista Cecconi, agente del Granduca di
Napoli, scrisse domandando istruzioni a chi doveva rimettere i danari
riscossi e da riscuotere, ed aggiungeva che due padroni di feluche di
Resina, condannati dal Governatore, avevan presentato alla Gran Corte
della Vicaria, due attestati del Sig. Baldassarre Puccini, castellano del
Giglio, per provare che essi non erano nell’isola quando furono commessi
i detti danni. Perciò la Corte aveva ordinato di far loro restituire la quota
che già avevano pagata.
Venuti i danari, ed incaricato il Giudice del Giglio di dispensarli a
quelli che dai padroni e marinari delle feluche coralline erano stati
danneggiati, sembra che il Giudice la prima parte l’avesse fatta per sé.
Ed infatti il 25 aprile 1733 furono chieste al Governatore dell’isola
informazioni per sapere se il Giudice avesse preso un soldo per lira
dell’importare dei danni fatti dalle feluche napoletane; se avesse preso
due talleri e sette barili di vino dai duecento scudi del Granduca mandati
ai gigliesi; ed infine se fosse vero che il Giudice non faceva il suo servizio.
Ma non tutti i Governatori del Giglio si contentavano di quello
che, per consuetudine (giacché non vi erano disposizioni speciali) loro
toccava del corallo pescato dai napoletani.
Il 4 giugno 1765 si chiedono spiegazioni al Governatore Berti, su
certi danari da lui fatti pagare ingiustamente alle feluche di Napoli. Il
Governatore risponde evasivamente, ed allora gli si dettagliano le accuse
delle quali deve discolparsi, gli si domanda se è vero che egli, il
Governatore, aggravi i napoletani con esazioni arbitrarie, e come mai,
mentre prima ogni feluca pagava al Governatore pro tempore un solo
zecchino per stagione, lo stesso Governatore pretende ora zecchini due e
mezzo per ogni feluca in quattro settimane.
Ma certamente la pesca del corallo doveva farsi anche sugli ultimi
del secolo XVII, perché verso il 1700 fu costruita la torre del Campese,
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non solo per definire l’isola, ma anche per tenere a dovere le
numerosissime feluche coralline che ogni anno venivano ad approdare
nel golfo del Campese.
Tutti i Governatori dell’isola erano soliti, per non dire obbligati, ad
intervenire in chiesa nei di solenni, alle funzioni religiose, in forma
ufficiale. Ma forse a tale uso si cominciò a venir meno, poiché il 25 aprile
1733 si avvertiva, dal Governo, il Governatore di prendere parte alle
funzioni nei giorni prescritti «per buono esempio ed edificazione del
pubblico»; si avvertiva inoltre di cominciare a recarsi in chiesa dal giorno
della prossima Pentecoste.
Quando i bastimenti gigliesi si recavano nei porti soggetti al Re di
Napoli, erano obbligati a pagare certi diritti di ancoraggio, dai quali
furono dispensati nel gennaio 1756.
Nel castello del Giglio essendovi la chiesa parrocchiale di S. Pietro
Apostolo, mai si era pensato di costruirvi una cappella militare. Ma nel
1761 (28 marzo) venne notificata al Governatore una deliberazione del
Consiglio di reggenza, il quale faceva le veci di Francesco, Imperatore
d’Austria e Granduca di Toscana, assente, con la quale deliberazione si
stabiliva di costruire una cappella nella fortezza del Giglio, e si incaricava
per la costruzione della stessa il tenente colonnello De Baillon, direttore
delle fortezze.
Con altra lettera del 1° settembre dello stesso anno, il
Governatore fu comandato di mettersi d’accordo con l’arciprete per la
benedizione della cappella in parola; la quale ultimata, fu benedetta
dall’arciprete Stefano Stefani, e venne consacrata a Santa Barbara. Tale
funzione fu compiuta nel 1762.
Venuto, dunque, al potere Pietro Leopoldo I, tutti i toscani — ma
in modo speciale i gigliesi — risentirono i benefici arrecati da quest’uomo
grande, benefico e sapiente.
Scelto tale Principe modello, si concepirono modificazioni
nell’ordinamento pubblico gigliese, modificazioni che verremo esponendo
più sotto, e precisamente nel capitolo seguente.
Desideroso di giovare all’isola, e volendo darle leggi e disposizioni
che fossero in relazione ed armonia con l’ambiente per cui erano fatte,
emise dei decreti, abrogandone, poi, taluno appena si accorgeva non
sortire, esso, l’effetto che con quello egli si era proposto.
Istituì una scuola pei fanciulli, giacché quella impiantata nel
1629 non funzionava regolarmente; e volendo poi provvedere alla
tranquillità dei cittadini, per garantire la quiete ed il buon governo
dell’isola, il 7 marzo 1771 assegnò una squadra di birri, composta di un
69
caporale e di due famigli, i quali dovevano prestare il loro servizio
nell’isola, coadiuvati nell’opera loro dal messo e dalla guardia comunale.
Ed in questo tempo vi fu un lieve conflitto tra l’arciprete e il corpo
della Comunità.
Nelle feste principali, insieme con il Governatore, i componenti il
Consiglio comunale si recavano alle funzioni che si facevano in chiesa.
L’arciprete — non si sa il perché — si rifiutava di rendere gli onori
dovuti al Consiglio; questo ricorse al Granduca, che fece chiedere notizie
su tale soggetto al Governatore Brusdieri (25 aprile 1771). Avutele,
ordinò allo stesso Brusdieri di chiamare l’arciprete e di fargli leggere la
lettera diretta a lui, Governatore, in cui si diceva che nei giorni nei quali
interveniva il Corpo della Comunità in chiesa, un prete in piviale e cotta,
doveva presentare l’acqua santa.
Il celebrante, nel venire o partire dall’altare, e gli altri ministri,
dovevano fare riverenza ai rappresentanti del Comune, ed a questi si
doveva dare l’incenso e la pace, o per mezzo dei ministri assistenti, o per
mezzo di altro sacerdote (13 giugno 1771).
E forse per il motivo che sopra, il 18 agosto dell’anno stesso fu
concesso ai priori del Giglio di indossare le zimarre o lucchi, quale onorifico distintivo nelle pubbliche funzioni.
Nell’anno appresso (1772) ebbe luogo la visita dell’abate
commendatario delle Tre Fontane.
Abbamo veduto che gli abati cistercensi esercitavano nell’isola un
governo più religioso che civile, e sebbene la loro giurisdizione
ecclesiastica, anche in seguito, quando, cioè, il Giglio era nelle mani di
altri, si estendesse su quest’isola, tuttavia sembra che poco se ne
curassero.
Infatti le sacre visite non si compievano, da loro, con quella
frequenza di ora, ed anzi pare che non sieno mai state fatte,
personalmente dagli abati, fino al 1772.
Nel volume delle deliberazioni 1759 – 1785, che trovasi
nell’Archivio comunale del Giglio, a pag. 149 si legge:
«Si fa noto come nella mattina del di 19maggio 1772 giunse in quest’isola del
Giglio, circa le ore 7, l’ecc.mo cardinale Pietro Colonna Pamfili, perpetuo commendatario
dell’Abbazia delle Tre Fontane, ordinario ecclesiastico di quest’isola suddetta, per l’effetto di
eseguire il ministero apostolico della visita pastorale, proveniente dal Porto Santo Stefano,
scortato da sei filughe napoletane, con una compagnia di granatieri delle truppe dei Regi
Presidi, con il loro capitano, tenente, alfieri, bandiera tamburo e flautino, oltre
l’accompagnamento di 11 fanti di questa medesima isola passati nel porto suddetto di S.
Stefano per accompagnare di là a questa parte il porporato visitatore, il quale colla sua
corte, e comitiva si trattenne nell’isola e sua terra fino a tutto il di 20 maggio suddetto.
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Questa è la prima visita fatta personalmente dal cardinale commendatario
ordinario suddetto, per quanto si rileva dalle memorie dell’Archivio che principiano dal
secolo XVI in qua dell’era volgare cristiana, mentre tutte le altre si trovano fatte da uno dei
vescovi vicini, a tale effetto delegati dal medesimo ordinario, mai più per l’addietro venuto in
questo luogo.
Per ordine di S.A.R. comunicato dalla regia giurisdizione di Firenze fu
complimentato dal giudice a nome del Sovrano, ed esibitagli l’assistenza del braccio, per
tale occasione secondo le istruzioni di che in detta lettera – per ciò del di 21 aprile 1772,
riposta nella filza ecc».
Come si vede, grande fu la pompa con cui fu ricevuto l’abate; e se
oggi tali visite più non si fanno con tanto fasto, e se hanno luogo senza
corteggio veramente regale, pure si fanno sempre tra le festose
accoglienze degli isolani che vanno incontro all’abate, e lo accolgono con
grida di gioia.
A proposito delle visite sacre fatte all’isola dai Vescovi a ciò
delegati, rammenterò che il Rinuccini, ministro di Gian Castone dei
Medici, scrisse al capitano Paolo De Santamont, Governatore del Giglio,
avvertendolo di avere ricevuto una lettera di ringraziamento per le
accoglienze e attenzioni usate dalle autorità dell’isola al Vescovo di
Acquapendente, che era venuto al Giglio per amministrare la cresima (16
novembre 1731).
Mentre Pietro Leopoldo I studiavasi di migliorare le condizioni dei
gigliesi, veniva in soccorso di questi fornendoli persine di grano.
Nel 1780, infatti, essendo grande la miseria nell’isola, l’ottimo
Principe mandò prima cinquanta moggia di grano, e quindi altre 1400
staia per aiutare gli affamati isolani. E forse per non sembrare di dare
un’elemosina, mandò il grano a titolo di prestito; ma si può dire che non
aveva ancora terminata la spedizione, che si affrettò a condonare il debito
che i gigliesi avevan contratto con lui. Nel citato volume delle
deliberazioni troviamo, infatti:
«Si fa memoria che sotto il dì 28 gennaio 1781 per il canale della posta pervenne il
seguente benignissimo motuproprio:
S.A.R. volendo usare un atto di clemenza verso le diverse famiglie dell’isola del
Giglio, alle quali nell’anno scorso fece somministrare un imprestito dallo scrittore delle reali
possessioni, una volta moggia 50 di grano, e di poi altre staia 1400 similmente di grano, è
venuta nella determinazione di condonare, conforme col presente motuproprio condona a
tutte le famiglie suddette, il respettivo debito che tengono col precitato scrittoio per la
pendenza sopra espressa».
Mancando, i gigliesi, d’un molino per macinare le granaglie per il
loro consumo, Giuseppe Modesti domandò al Governo Granducale un
sussidio per costruire uno o due mulini ad acqua.
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L’ufficio dei Fossi di Grosseto domandò al Governatore del Giglio
se vi era qua un luogo atto alla costruzione, acqua sufficiente ed a
quanto poteva ascendere la spesa relativa. E forse le informazioni giuste
dell’isola furono contrarie ai progetti del Modesti, perché il Granduca
ordinò che, a proprie spese, si costruisse un mulino a vento in luogo
detto «il Poggio», dirimpetto al castello.
Il (5 aprile 1783 l’ing. Giov. Batta Boldrini ne diè la consegna, a
nome del Sovrano, ai rappresentanti la Comunità del Giglio, e nello
stesso mulino fu redatto il seguente verbale:
«Nel Nome SS. di Dio e così sia.
L’anno della comune redenzione del nostro Signor Gesù Cristo 1783, et il di 15 del
mese di aprile. Narrasi come essendo stato indotto all’ultima perfezione il nuovo mulino a
vento costruito d’ordine di S.A.R., nostro Signore, per comodo e vantaggio del popolo
dell’Isola del Giglio, dallo ill.mo sig. Provveditore Sopraintendente all’Ufficio dei Fossi di
Grosseto in supplemento del sig. Intendente ing. Giovanni Boldrini è stato spedito in detta
isola il sig. Giovanni Battista Boldrini all’effetto di visitare il detto edifizio, e trovandolo
perfezionato e macinante, darne la consegna alli SS. Soprintendenti e Priori rappresentanti
la Comunità dell’Isola medesima; come resulta dalla lettera del sig. Provveditore in data 10
aprile andante alla quale ecc.
Dicesi inoltre che il signor Domenico Aldi Soprintendente, Giovanni Aldi e Giov. M.
Andreini Priori residenti, e anche in nome dei loro colleghi Antonio Brizzi e Giovanni Rossi
assenti, essendosi personalmente portati in compagnia dell’ill.mo sig. Intendente Colon. de
Guillerinin, Governatore civile e militare per S.A.R. dell’Isola del Giglio, e del signor
Boldrini, e di me Cancelliere e Notaro infrascritto, alla visita del nominato mulino a vento,
hanno verificato essere esso perfezionato e macinante, e volendo perciò godere della
sovrana munificenza, si sono risoluti di ricevere in consegna, e bramando che di tutto ne
costi a perpetua memoria del fatto per il presente pubblico istrumento.
Il mulino a vento stato consegnato come sopra è l’infrascritto cioè:
Una fabbrica di muro moderna composta di tre piani, coperta con cupolo di legno
incatramalo, situata in detta Isola, luogo detto il Poggio, alla quale confinano da tutte le
parti beni di Comunità con due porte nel primo piano che una a ponente con serratura,
pestio e chiave, l’altra a levante con pestio e anelli di fero.
Il secondo piano la finestra con telari, sportelli e imposte, nel terzo piano un
edifizio atto a macinare grano, con due macine di pietra di b. 2 di diametro, con cascina e
coperchio di legno, la tramoggia e sua cassettina di legno.
Il rotone e rocchetto simili cerchiati di ferro, il palo del rocchetto tutto di ferro; il
fusto di legno con colonna, e due colli di ferro; un argano di legno per girare la cupola con
b. 7 di cavo di canapo, con suo occhio di ferro, altro scorcio di cavo simile per alzare la
macina di b. 9 1/2; tre pezzi di catena di 6 (sei) maglie l’ima con suoi occhi di ferro; il palo
di ferro a piè di porco, una cassetta fissa di legno, ove è la tromba che conduce la farina
dalle macine a pian terreno del mulino. Una scaletta a sei pioli di legno, tre finestre con
suoi sportelli, telai a imposte; due antenne, e 4 lapazze di legno, num. 8 vele di canapetta,
num. 4 madelline, un pinzo, e uno scarpello di ferro, e una mezzetta simile.
Fatto nell’isola del Giglio nella fabbrica di detto mulino situata in contrada detta il
Poggio, popolo di S. Pietro Apostolo, presenti e alla presenza di Agostino del fu Gio.
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Francesco Folem di Portoferraio, e di Vincenzo del già Gio. Domenico Natali di detta Isola
testimoni cogniti e pregati». (V vol. delib. 1759-1783, pag. 279).
Ma presto questo mulino fu a torto abbandonato dai gigliesi, e,
finalmente, nel 1816, nel timore che potesse servire di punto di attacco
contro il paese, nel caso di qualche sbarco ostile, venne distrutto. Ed ora
se ne vedono distintamente i ruderi alla superficie del suolo su cui venne
costruito.
Essendosi chiusa la scuola, per mancanza di assegnamenti nella
cassa comunale, il sac. Giovanni Brizzi domandò che detta scuola
venisse riaperta, e stesse a carico dello Stato.
Ed infatti, con biglietto del 25 agosto 1781, si ordinava la
riapertura della scuola, dando l’incarico di maestro al citato sac. Brizzi,
retribuito con 24 scudi all’anno, da prelevarsi dalla cassa dell’Ufficio dei
Fossi di Grosseto.
Attese le particolari circostanze dell’Isola, il Granduca accordò
ancora scudi 4 al Gonfaloniere ed ai Priori per ciascuno; e due scudi a
ciascun Consigliere, e ciò per cinque anni (8 giugno 1784).
E per soccorrere sempre più i gigliesi, nel febbraio 1785 il
Granduca fece consegnare 500 scudi all’arciprete Mai. Con parte di tal
somma dovevasi pagare il grano acquistato e distribuito tra le famiglie
dell’Isola, nella quantità di moggia otto, staia venti; il rimanente doveva
dividersi tra le famiglie bisognose.
Interessandosi dei più piccoli bisogni dei gigliesi, nel mese di
gennaio 1787 ordinò perfino che si aprisse nell’Isola un macello per
provvedere di carne gli isolani. E perché il macellaro non risentisse danni
dalla concorrenza di altri individui, e fosse così costretto a chiudere il
proprio negozio, fu imposto che nessuno, ad eccezione di certo Pellegrini,
potesse tenere macello.
Ma i soccorsi granducali non si limitavano a mandare grano e
danari, perché, volendo incoraggiare e favorire l’agricoltura, restituiva il
quarto delle spese che un proprietario incontrava nel migliorare il proprio
terreno; ed anzi questo quarto parte lo inviava anticipato!
Ordinò poi che, ad eccezione delle macchie del Franco, le quali
dovevano rimanere a benefizio del Comune, i terreni comunali fossero
distribuiti fra quegli abitanti che si fossero obbligati a coltivarli, facendovi
delle piantagioni di castagni, gelsi e viti nel termine di anni cinque dalla
concessione (lettera 14 agosto 1787).
Per impedire, poi, le cattive esalazioni che emanavano i cimiteri, o
sepolture delle chiese, ordinò la costruzione dell’attuale Camposanto,
situato fuori il paese, da farsi a spese del Governo (21 agosto 1787).
73
E non solo l’agricoltura fu protetta da Pietro Leopoldo I, ma cercò
che i gigliesi si provvedessero di bastimenti, perché essi potessero
dedicarsi anche alla pesca ed al commercio.
Si legge, infatti, in un rescritto del 15 novembre 1786:
«Volendo S.A.R, rivolgere gli effetti della R. Sua munificenza in sollievo della
popolazione dell’Isola del Giglio con incoraggiarla ad applicarsi alla pesca, principale ramo
d’industria, di cui è suscettibile, è venuta nella determinazione di ordinare che dalla Cassa
della Depositeria per il corso d’anni cinque la somma di scudi mille l’anno, per distribuirsi
in primi a favore di quegli abitanti che porranno in mare bastimenti atti all’uso della pesca,
purché fabbricati nei porti del Granducato… Possono le famiglie unirsi insieme per
costruire o acquistare uno o più bastimenti, per fruire dei vantaggi, purché il numero dei
bastimenti non sia maggiore di quello delle famiglie unite in società... I premi saranno otto
all’anno da darsi ai primi che avranno messo i bastimenti in mare. Se i concorrenti
eccedessero il numero di otto, gli eccedenti saranno prescelti l’anno appresso… A prevenire
l’abuso, e che si vendano i bastimenti, incorre nella multa uguale al doppio della
gratificazione avuta, chi vende entro tre anni il bastimento.
Pietro Leopoldo».
Qui non si fermano i benefizi dal Granduca Pietro Leopoldo ai
gigliesi; e, senza parlare dei numerosi sussidi accordati agli isolani, dirò
che, temendo che i gigliesi fossero aggravati dal prezzo troppo elevato del
sale, assegnò lire mille sull’azienda del sale, da dividersi in dieci doti a
dieci fanciulle gigliesi (15 ottobre 1788).
74
CAPITOLO XIV
IL GIGLIO E I GIGLIESI NEL SECOLO XVIII
Abbiamo veduto che nel secolo scorso il governo comunale
consisteva in un Consiglio e nel primo e secondo priore, i quali
nominavano altri ufficiali addetti al pubblico servizio.
Nel secolo del quale dobbiamo parlare, abbiamo sempre il
Consiglio, ma i priori da due sono divenuti quattro; ed inoltre abbiamo
un sopraintendente che sulla fine del secolo, prenderà il nome di
gonfaloniere.
E che quattro priori vi fossero, ed un sopraintendente, si rileva da
un ricorso fatto a S.A.R. il Granduca, dai quattro priori, nel 1771, contro
l’arciprete, perché questi non rendeva i dovuti onori al Consiglio
intervenuto alle funzioni religiose nei di solenni, e dall’atto di presa di
possesso del mulino costruito sul «Poggio» (15 aprile 1783), dal quale
atto risulta che erano presenti a tale cerimonia i) sopraintendente e due
priori, i quali rappresentavano anche i due priori assenti.
Ma nei marzo 1783 (13 marzo) per il regolamento delle Comunità
della Provincia inferiore dello Stato di Siena, e per il regolamento
particolare per il Giglio, furono introdotte delle modificazioni. Vi dovevano
essere, per tale regolamento, il Consiglio generale comunitativo,
composto di nove mebri, un gonfaloniere, cioè, due priori e sei consiglieri,
che duravano in carica per un anno.
Ed ecco il modo che si teneva per la nomina di questo Consiglio
generale comunitativo.
Si prendevano due borse; in una vi erano i nomi di quelli che
potevano essere nominati gonfalonieri e priori; l’altra conteneva i nomi di
quelli aventi i requisiti per essere consiglieri.
Dalla prima borsa si estraevano tre nomi; il primo era quello del
gonfaloniere, e gli altri due, del primo e secondo priore. Dalla seconda
borsa, poi, si estraevano sei nomi, ed i sorteggiati erano consiglieri.
Dunque, non erano più i chiamatori che, estratti a sorte,
eleggevano gli amministratori; era, invece, la sorte che decideva chi
doveva esser gonfaloniere, priore e consigliere.
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Nell’estrazione a sorte del 18 novembre 1792 nella borsa di coloro
che avevano diritto ad essere priori o gonfalonieri, eranvi i nomi di 108
possidenti.
Vi è sempre il potestà che amministra la giustizia; e questo fino al
20 febbraio 1769, in cui tale carica, al Giglio, fu abolita coL seguente
rescritto:
«Volendo S.A.R. che al Governatore militare dell’Isola del Giglio resti in avvenire riunita la
giurisdizione attribuita al Potestà, per gli editti del di 18 marzo e 10 dicembre 1766, con
tutti gli obblighi e partecipazioni prescritte ne i predetti editti agli altri Potestà della
Provincia Inferiore, e che per servizio di quel Tribunale il Governatore abbia un giudice che
faccia le funzioni di assessore, e dia le sentenze in nome del Governatore medesimo, e abbia
simil. un notaro per servizio degl’affari di giustizia.
E frattanto vuole la R.A.S. che il dott. Lodovico Pippi prosegua a far le funzioni di
giudice e goda gli assegnamenti che ha goduto fino al presente, incaricando a fare una
proposizione al Commissario dell’Uffizio de Fossi di Grosseto sul modo di assicurare in
quell’Isola un onesto mantenimento, tanto per l’uffizio di giudice, che per quello di notaro.
Dato in Pisa li 20 febbraio 1769
C. Pietro Leopoldo, T. Rosenberg, F. Simonetti».
Ma poco tempo deve esser durato tale stato di cose, perché
troviamo che nel 1778 vi era, ad amministrare la giustizia, non più il
Potestà né il Governatore militare, ma il Vicario. E fu, anzi, con rescritto
del 2 ottobre dello stesso anno, che venne incaricato di nuovo il
Governatore dell’isola dell’amministrazione della giustizia.
E piacermi riportare per intero il rescritto, giacché in esso
figurano anche i motivi che determinarono il Sovrano a prendere la
risoluzione di abolire la carica di Vicario:
«S.R.A., volendo dare al Tribunale dell’Isola del Giglio una forma più adatta alle
circostanze del luogo, e che produca una più sollecita, e meno dispendiosa risoluzione degli
affari, sopprime l’attuale posto di Vicario, ed in luogo del medesimo comanda che il
Governatore militare presieda ancora il Governo civile e criminale, con tutte quelle autorità
e facoltà, obblighi e pesi che fino ad ora sono stati annessi al posto di Vicario. Il Cancelliere
civile e criminale, che m avvenire sarà nominato fra quelli ammessi nelle note degli
approvati perdetti impieghi, assisterà al Tribunale in qualità di attuario al Governatore
predetto, in nome del quale compilerà gli atti, formerà i disegni delle sentenze ecc.
Et il detto Cancelliere negli affari economici farà ancora da Cancelliere
comunicativo».
Al posto di Cancelliere era annesso l’annuo stipendio di L. 800,
senza verun incerto.
Ma forse il Sovrano non ottenne quei buoni frutti che si aspettava
dall’avere abolito il posto di Vicario in Giglio, perché il 19 giugno 1784
emise quest’altro decreto:
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«S.A.R. volendo provvedere ad una più regolare spedizione degli affari civili del
Tribunale dell’Isola del Giglio, ordina che il Governatore militare sia sgravato della
cognizione di tuttociò che riguarda il regolamento civile, salva l’assistenza del braccio
militare, che dovrà prestare quando gli sia richiesta.
La giurisdizione criminale e civile dell’Isola predetta sarà esercitata da un solo
soggetto col titolo di Vicario e coll’annua provvigione di L. 2100, da ritenersi dalla Cassa
dell’Uffizio dei Fossi di Grosseto».
E mi sia lecito accennare al fatto che il 24 luglio 1764 fu ordinato
dal Governo che non si facessero processi per le ingiurie verbali, ed offese
leggiere non medicate.
Perché questo? Forse per mettere un freno al gran numero di
querele che l’un contro l’altro i gigliesi al Giudice presentavano?
Le entrate comunali, secondo il solito, erano limitatissime, e
poche erano le spese.
A tutto, o quasi, pensava il Sovrano, che, come vedremo, pagava il
maestro, il medico, e perfino retribuiva le cariche di Gonfaloniere, Priore
e Consigliere!
Il 25 febbraio 1769 fu approvato il rilascio della gabella dei Giglio,
per l’anno stesso, al prezzo di piastre 250.
Le condizioni economiche dei singoli abitanti dovevano essere ben
meschine, tanto è vero che il Granduca doveva venire continuamente in
soccorso degli isolani, i quali, contando sull’aiuto del Governo, non si
curavano di migliorare le loro sorte, e tralasciavano l’agricoltura, la pesca
ed ogni altra industria, sebbene venissero rimunerati con premi in
danaro quei tali che, se pur qualche lavoro eseguivano, lo facevano in pro
di se stessi.
Troviamo, dunque, la stessa apatia, la stessa indifferenza e
noncuranza che nei tempi addietro.
In quanto ai costumi non pare che i gigliesi di questo secolo
differiscano molto di gigliesi dei secoli scorsi.
Pare impossibile che il sentimento religioso, che essi dicevano
avere sviluppato, ed il rigore delle leggi, a nulla giovassero.
Abbiamo visto quanti bandi furono mandati nel secolo passato
per porre un argine al mal costume; ed ora ripeterò che il bando del 22
gennaio 1604, riguardante il rispetto dovuto al Governatore, fu
nuovamente pubblicato non solo nel 1673, ma anche per due altre volte,
nel secolo del quale parliamo, e cioè il 4 maggio 1721, e il 14 agosto
1727.
Nel 1731 il dott. Patrizio Ferri, Giudice dell’Isola del Giglio,
domandò a Firenze che si pubblicassero di nuovo i bandi proibenti gli
amoreggiamenti.
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Il Ministro Rinuccini, forse prevedendo la inutilità di ciò, rispose
(4 agosto dello stesso anno) al Ferri, che si penserà sul da farsi, e che,
intanto, se avvenisse qualche scandalo in tale maniera, si provveda nella
forma più propria e conveniente.
Ma i provvedimenti presi a nulla valsero, per cui il 5 agosto 1784
fu pubblicato un nuovo bando, come si legge nel volume delle
deliberazione 1759-1785.
Ivi si dice:
«Si fa memoria come in vista degli scandali e inconvenienti che seguano mediante i
suoni e balli che si vanno facendo alla Casamatta, in questo suddetto giorno è stato
ordinato pubblicarsi bando proibente in avvenire simili trattamenti notturni ed illeciti, tanto
più in tempo dei giorni festivi, non solo alla Casamatta, ma anche in qualunque altro luogo
di questa terra, alla pena contro i disubbidienti alla carcere ad arbitrio».
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CAPITOLO XV
I FRANCESI – I LORENESI – REGNO D’ITALIA
Nominato Imperatore d’Austria Pietro Leopoldo I (1790), gli
successe, nel trono di Toscana, il figlio Ferdinando III, tutto clemenza,
tutto dolcezza, e non senza sagacità.
Acquistatosi l’odio dell’Inghilterra per avere riconosciuto per
primo la Repubblica francese, (1° gennaio 1793), vide il porto di Livorno
occupato dagli inglesi, guidati da lord Hervey. Questi giunse anzi ad
intimare al Granduca l’allontanamento del Ministro francese La – Flotte e
l’interruzione di qualsiasi commercio con la Francia: Ferdinando III fu
costretto a cedere alla forza.
Nel 1795 il Granduca mandò al Giglio l’abile ingegnere Alessandro
Nini, il quale presiedé alla restaurazione del molo del porto, eseguita con
molta spesa nel 1796. I gigliesi, grati al loro benefattore, Ferdinando III,
con pubblica deliberazione offrirono al medesimo non meno di dodici
colonne di granito, rimaste in quelle cave sino dal tempo dei romani.
Nel 1799 i francesi occuparono la Toscana, cacciandone il
Granduca Ferdinando III, che si ritirò a Vienna. Il generale austriaco
D’Aspre poco tempo dopo costrinse i francesi a ritirarsi dalla Toscana;
ma questi vi ritornarono nell’anno appresso.
Col trattato di Luneville (1801) la Toscana venne assegnata all’Infante di
Parma, che ne fu fatto re col nome di Lodovico I, e, morto esso, gli
successe l’Infante di Spagna, Carlo Lodovico, e, per lui, sua madre Maria
Luisa di Borbone.
Nel 1807, pel trattato di Fontainebleau la Toscana venne annessa
all’impero francese, ed in Firenze pose la sua sede la sorella di Napoleone
I, Elisa, col titolo di Granduchessa, rimanendovi fino al 1814.
Intanto venne pubblicato in Toscana il codice napoleonico che la
divideva in tre dipartimenti, dell’Arno, dell’Ombrone e del Mediterraneo.
In Firenze, Siena e Livorno, capoluoghi degli accennati
dipartimenti, eranvi Prefetti; Sottoprefetti erano nelle altre città; e nei
paesi, a seconda della loro importanza si trovavano maires e sotto maires.
Il Giglio dipendeva dalla Sotto Prefettura di Grosseto, Prefettura di Siena,
dipartimento dell’Ombrone.
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Per provvedere al buon ordine, alla sicurezza pubblica ed
all’osservanza delle leggi, fu istituita al Giglio una brigata, composta d’un
caporale e cinque individui da lui dipendenti (31 maggio 1809).
Il 10 giugno 1809 il Maire del Giglio ricevé una lettera del Sotto
Prefetto di Grosseto, con la quale si avvertiva che gli inglesi erano
sbarcati a Giannutri, e furono respinti a Santo Stefano. Raccomandavasi
la vigilanza e coraggio ai gigliesi. «Dite ai gigliesi — soggiungeva — che io
ho assicurato il governo della loro bravura; che ho rammentato lo sbarco
fatto dai barbareschi, per mostrare che certamente gli inglesi saranno in
ugual modo ricevuti. Dite che non cesso di parlare e scrivere per rendere
sempre migliore la loro sorte».
Il governo francese ordinò che nel Giglio fosse stanziata una
compagnia di 120 sedentari perché nell’isola non circolasse il danaro; e
rimunerava ed aiutava chi piantasse viti, gelsi ed olivi.
Ma l’indolenza isotana non ne fu scossa; e l’agricoltura ed ogni
altra industria furono trascurate.
E sebbene i gigliesi fossero chiamati a far parte della compagnia
stabilita al Giglio, e percepissero, così, una paga fissa, come militari,
pure non si curavano di arruolarsi. E non è a dire che il servizio fosse
gravoso; non dovevano essere mandati lungi dall’Isola, e, pochi essendo
quelli destinati giornalmente alle guardie del castello e delle torri dei
Campese, del Porto e dei Lazzaretto, e delle vedette del Fenaio, della
Vena, del Caporosso, della Pieve, del Castellare, delle Porte, tutti gli altri
potevano, anzi dovevano, indossare abito borghese, vivevano nelle proprie
case con le proprie famiglie, e lavoravano le possessioni loro.
E voglio riportare un brano di una lettera scritta dal sottoprefetto
al maire del Giglio, per mostrare che per far godere certi vantaggi agli
isolani bisognava quasi costringerveli con la forza.
Ecco la lettera:
«Al Sig. Maire della Comune
dell’Isola del Giglio.
La Compagnia guardacoste di cotesta isola manca di ventisette individui.
Essa deve essere completata. In un paese come cotesto, nel quale ognuno si lagna
di non avere mezzi di risorsa, io mi meraviglio come i nostri amministrati ricusino una paga
fissa nella propria patria. Io debbo completare la compagnia, vorrei farlo col mezzo della
volontà di cedesti abitanti, e vorrei risparmiare ogni mezzo di violenza. Vi accludo un
proclama per invitarli, voi fate dal canto vostro quanto è possibile per ottenere l’intento.
Accetterete soggetti che non abbiamo meno di 25 anni, né di più di 45.
Ho rimesso al sig. Arciprete uno dei proclami affinché nei dì festivi lo faccia
presente ai popolani. Sono sicuro che alla voce dell’autorità costituita e del ministro del
culto non sapranno disdire».
80
Caduto, nel 1814, Napoleone, ritornò Ferdinando III a cui
successe Leopoldo II (1824) ultimo dei Granduchi, il quale gareggiò nel
beneficare l’Isola con i governi antichi.
Mentre oggi i boschi preferiti per la caccia dei colombi sono quelli
del Franco, allora erano invece i Quadrati e il Docce, che venivano
accordati per un lungo periodo di tempo.
Il 3 giugno 1784 detti boschi furono concessi per dieci anni ad un
paolo all’anno per ciascun bosco.
Relativamente poi al servizio sanitario, questo era disimpegnato
oltre che dal medico, anche dal chirurgo, il quale era retribuito con
settanta scudi annui.
Non vi era farmacista; il medico teneva pochi medicamenti, ed il 9
settembre 1769 il dott. Felice Grisetti avverte il Consiglio Comunale che
provveda le medicine, perché senza queste il medico è inutile.
In quanto alla popolazione dell’isola in questo secolo, troviamo
che nel 1745 essa ascendeva a 859 individui. Erano, questi, così divisi:
impuberi: maschi 114, femmine 119. Adulti: maschi 204, femmine 244.
Vi erano altresì 16 sacerdoti, pari a un ecclesiastico per ogni 53, circa,
abitanti.
I coniugati erano 262, e le famiglie ascendevano alla cifra di 217.
Una cosa che merita di essere segnalata è questa, che mentre
nello spazio di sessanta anni, dal 1606, cioè, al 1666, la popolazione
aveva avuto tale un rapido aumento che si triplicò, invece dal 1666 al
1745, cioè in settantanove anni, la popolazione aumentò di appena 59
individui.
Il dì 11 novembre 1770 i capi famiglia erano 240.
Dopo il censimento del 1745 e quello incompleto del 1770, non ho
trovato che quello del 1814, e quest’ultimo assegna all’Isola del Giglio
una popolazione di 1052 individui. Da ciò si arguisce che verso la fine del
secolo XVIII Giglio aveva raggiunto già il migliaio di abitanti.
A qual grado di cultura erano questi abitanti? Questo solo fatto
10 dimostra: visitata l’isola dall’abate Fortis per studiarla, fu cacciato a
colpi di sassi, come colui che fu preso per negromante.
***
81
Questo Sovrano non solo teneva guarnigione nell’isola allo scopo
di favorire i Gigliesi, ma i suoi aiuti giunsero fino al punto di fornire
gratuitamente del pane alla popolazione, donando, nel 1847, circa 400
ettolitri di grano (6), mentre lo stesso principe aveva posto a carico dello
Stato la scuola, il medico, le strade, il fonte, la chiesa ed il culto. E
volendo assicurarsi personalmente delle condizioni dei Gigliesi, si recò a
visitare l’isola loro.
Distrutto il molino a vento fatto costruire da Pietro Leopoldo I
sopra il Poggio, gli isolani macinavano il loro grano servendosi dell’altro
molino idraulico del Docce, costruito diversi anni prima da un frate
passionista, capitato al Giglio per la predicazione o per la cerca o
questua.
Questo molino, piuttosto vasto, provvisto di un bel serbatoio per
l’acqua che serviva a mettere in movimento il meccanismo macinante,
ora è in rovina, ma nel 1819 fu restaurato, come si rileva dalla seguente
iscrizione incisa sopra lastra di marmo incassata nel muro sulla porta
del molino stesso: Rochus Aldi Rest.ut A.D. 1819. Ma l’acqua,
specialmente d’estate, non scendeva perennemente dal monte, e quindi il
molino non poteva lavorare.
Allora il Granduca Leopoldo II fece costruire un molino a vento
vicino al paese, sopra un poggiuolo, a 347 metri sul mare, in località
denominata Il Pianello. Il vento non facendo difetto nell’isola in qualsiasi
stagione dell’anno gli abitanti potevano sempre macinarsi il grano.
Ma anche tale molino venne abbandonato poco dopo la metà del
secolo che corre, perché i Gigliesi preferiscono, per ragioni economiche,
macinare il grano da se stessi, servendosi di due macinelle, una fissa,
l’altra mobile sopra la prima, e che è mossa a mano dalle donne.
Avanzi di un alto molino ad acqua si hanno nella valle Ostena, ma
da quanto si scorge, era meno importante di quelli rammentati.
Probabilmente questo fu costruito sul finire del secolo passato e mi
spinge a crederlo il fatto che l’Uffizio dei Fossi di Grosseto, con lettera 24
febbraio 1781, chiedeva informazioni al Governatore dell’isola, avendo
avuto una domanda di certo Giuseppe Modesti, che chiedeva sussidi per
costruire uno o due molini ad acqua.
Questo fatto, unito all’altro che Pietro Leopoldo I costruì un
molino per i Gigliesi, che ne erano privi, dimostra che verso il 1780 non
esistevano molini di sorta nell’Isola del Giglio.
(6)
Granduca.
Venne spedita dalle tenute dell’Alberese e della Badiela, proprietà privata del
82
Ed ora, sorvolando sui fatti gloriosi che menarono alla annessione
della Toscana alla monarchia di Casa Savoia, andiamo al 1860.
Partito Leopoldo II, lanciata da Parma una protesta per le violenze
subite (1° maggio 1859), avvenuto il suffragio universale (11 e 12 maggio
1860) per cui la Toscana fu annessa al Regno d’Italia, il Giglio, parte
della Toscana, rimase compreso nell’unità politica d’Italia.
Pare che, allora, al Giglio non vi fossero elettori in numero
sufficiente per costituire una sezione elettorale perché il 22 marzo 1860
fu emesso il seguente decreto:
«Regnando S.M. Vittorio Emanuele
II Real Governo della Toscana
Vista la deliberazione del Comune dell’Isola del Giglio, dalla quale emerge che il
numero degli elettori non giunge ai 40.
Considerando che nelle condizioni eccezionali di quegli abitanti non sarebbe
compatibile l’aggregazione del Comuni occorre uno speciale provvedimento che renda agli
abitanti stessi possibile l’esercizio del diritto elettorale.
Decreta
Art. 1° - II Comune dell’Isola del Giglio si costituirà in sezione separata e distinta
qualunque sia il numero degli iscritti nelle liste per compiere le operazioni elettorali, e
trasmetterà lo scrutinio al capo del Collegio di Grosseto.
Art. 2° - II Ministro dell’Interno è incaricato della esecuzione del presente Decreto.
Dato li 20 marzo 1860.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, e Ministro dell’Interno F. Ricasoli.
Il Ministro della Pubblica Istruzione F. Ridolfi».
Istituita la guardia nazionale, anche il Giglio ebbe i suoi militi.
Erano da cinquanta a sessanta individui, comandati da un capitano,
luogotenente, sottotenente, bassi ufficiali e caporali.
E citerò, tra le altre, l’adunanza tenuta il 22 marzo 1868 nella
sala comunale dalle guardie nazionali, sotto la presidenza del
Gonfaloniere, per procedere alla nomina dei propri ufficiali e graduati.
Vi era, poi, una riserva della guardia nazionale comprendente
circa 220 individui (marzo 1871).
Venne sciolta la Compagnia cannonieri guardacoste, composta già
dagli isolani; quelli che vi avevano servito per diversi anni furono
pensionati, gli altri, che avevano minore servizio, furono accettati
nell’esercito regolare, o divennero tranquilli cittadini.
Il castello del Giglio e le torri, furono disarmati: le artiglierie e le
altre armi, insieme con le munizioni e provvisioni d’ogni genere, si
portarono via dall’Isola.
83
Intanto, da Torino, la capitale d’Italia è trasferita a Firenze (1864).
Avuta la Venezia (1866) con l’occupazione di Roma (1870) si
compì l’unificazione d’Italia, che, sotto lo scettro di Vittorio Emanuele,
poté assidersi tra le principali nazioni europee.
Il Governo italiano non impose subito tributi, e la Provincia di
Grosseto dona un sussidio di cinque o seimila franchi all’anno, perché il
Comune facesse fronte alle spese.
Nel 1865 lo Stato cominciò ad imporre le tasse, ed in seguito il
Giglio fu sottoposto allo stesso trattamento che gli altri paesi italiani.
Il Comune fu obbligato a pensare alla pubblica istruzione, al
servizio sanitario, ed a pagare tutti gli altri pubblici uffici e servizi, prima
retribuiti dallo Stato.
Ma, sebbene costretta, l’Isola, a pagare tasse a cui non era
avvezza, e sebbene sia stato tolto l’annuo sussidio della Provincia, pure il
Comune del Giglio vive di vita propria.
Ma delle attuali condizioni del Giglio tratterò separatamente,
limitandomi nel seguente capitolo, ad accennare brevemente alcuni punti
principali della vita gigliese in questo secolo.
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CAPITOLO XVI
I GIGLIESI DEL SECOLO ATTUALE
Al principiare di questo secolo troviamo che il primo magistrato
del Giglio non porta più il nome di Gonfaloniere, ma è convertito dai
francesi, invasori della Toscana, in un maire, dipendente dalla
Sottoprefettura di Grosseto, Provincia di Siena, Dipartimento
dell’Ombrone. Ma con la partenza dei francesi (1814) il maire si converte
nuovamente in gonfaloniere, che dura fino a qualche anno dopo
l’annessione della Toscana all’Italia, epoca nella quale il gonfaloniere
prende il nome di sindaco, nome che tuttora rimane a capo
dell’amministrazione comunale.
Si ha sempre il Consiglio costituito probabilmente dello stesso
numero di membri come negli ultimi tempi del secolo passato. Infatti,
anche nel 1854 furono nominati quattro membri effettivi e due supplenti,
estratti a sorte per formare il nuovo Consiglio generale pel biennio 1854 –
55. Lo stesso successe nel 1857.
La giustizia, che era amministrata dal Vicario, fu, poi, all’epoca
dell’annessione della Toscana all’Italia, amministrata dal Pretore.
In quanto ai costumi, pare che sieno alquanto migliorati; ma non
è però senza un sentimento di dolore che riporto la seguente
osservazione, che tolgo dalla corografia dello Zuccagni Orlandini al
volume 12.
Dice questo scrittore, parlando dei gigliesi: «la mancanza quasi
totale di istruzione gli rende assai superstiziosi, e ben poco amici delle
virtù sociali e domestiche…».
Nella primavera del 1818 il Giglio fu visitato dal naturalista
Brocchi, il quale poté fare le sue escursioni per l’isola, senza venir in
alcun modo molestato dagli isolani. Segno, questo, di un progresso da
parte dei gigliesi, i quali più non scorgevano un essere malefico in un
innocuo scienziato.
Il Brocchi aveva notato che il buon ordine regnava tra gli isolani, e
che rari erano i furti ed altri delitti. La stessa osservazione fece il Giuli, il
quale ammise che i furti non si verificavano al Giglio perché tutti
85
possidenti; e suppose che i delitti non vi si commettevano perché nelle
isole di poca estensione, maggiore è la difficoltà di sfuggire alla giustizia.
Il Brocchi, invece, che ciò dipendeva dal fatto che, ove il contadino
è esso medesimo il proprietario di un fondo, ivi — a preferenza degli altri
luoghi — si mantiene il buon ordine, e più osservate sono le leggi e
rispettate.
Il Giuli notò la vita laboriosissima delle donne del Giglio, essendo
loro incombenza — come egli dice — preparare il cibo per la famiglia, e
portarlo al campo o altrove; macinare nel corso della notte il grano per
panizzarlo, macerare, filare e tessere il lino e la canapa, imbiancare il
tessuto e cucirlo, aiutare gli uomini nello zappare le vigne, innaffiare il
piccolo orticello nell’estate, mietere e trebbiare il grano ecc., in guisa che
esse possono essere assomigliate alla donna forte della Scrittura. (Vedi
Giuli, Stor. naturale delle acque minerali della Toscana).
Veramente bello e lusingherò è l’elogio che il Giuli fa delle donne
gigliesi; ma il dovere di storico fedele, veritiero e imparziale, mi obbliga a
dire che, se quelle faticano molto ed eseguiscono pressoché tutti i lavori
dal Giuli accennati, però per nulla è vero che esse pensavano e pensano
a macerare e tessere il lino e la canapa, industrie affatto sconosciute, e
ora e nel passato, nell’Isola del Giglio.
È vero, sì, ciò che disse il Brocchi del Gonfaloniere dei suoi tempi;
il quale magistrato lavorava la terra come qualunque altro isolano; ed
oggi ancora, che abbiamo il Sindaco, vediamo che questi, al pari degli
altri gigliesi, accudisce alle proprie faccende agricole.
E ciò mi sembra tornare a loro onore, perché la fatica e il lavoro
nobilitano l’uomo forse meglio di quanto non facciano le ricchezze
acquistate da altri, e godute da figli che nulla sudarono per
procacciarsele.
Eppoi, non si leggono forse tra le più belle pagine delle storie di
illustri città e di grandi nazioni, i nomi gloriosi di chi, lavorando all’aratro
e spingendo avanti a sé i buoi, alternava le sue occupazioni col
maneggiare la spada e col reggere, tra la generale ammirazione, con
somma prudenza e saviezza, il bastone del comando?
Pochissimo sviluppato è in quell’Isola il commercio; e in questo
ramo i gigliesi sono ancora molto indietro. Mancano le iniziative di
industriosi cittadini, non si sa, o si teme, avventurare una somma, sia
pur piccolissima, che potrebbe procurare tanti guadagni.
Il vino, ecco l’unico prodotto che si ricava dall’Isola; le acciughe,
ecco il principale prodotto del mare.
Ma il vino, per quanto di ottima qualità, non ha trovato ancora
chi lo introduca nelle piazze commerciali; e le acciughe, sebbene
86
eccellenti, non danno quel frutto che potrebbe recare, se di queste si
facesse
Ed a proposito della pesca, accennerò che questa dividesi in
diversi periodi. Il principale è quello che, dai primi di maggio, dura fino al
10 dell’agosto successivo e dicesi della «pesca delle acciughe» o «pesca
grande».
È in tale periodo che si pescano le ottime acciughe e le buone
sardine, che, salate, vengono smerciate o negli ultimi di agosto, o sui
primi di settembre al più tardi.
Dopo il primo, comincia il secondo periodo detto «la pescarella»,
in cui si prendono acciughe e sardine, ma in piccola quantità.
Si va anche alla «paranza», prendendosi pesci di molte e svariate
specie, che abitano i più profondi strati del mare: dura, questo secondo
periodo, fino al 1° di novembre, e dicesi anche «la castagnara», dalle
castagne, forse, che incominciano a vedersi, e anche «ficare», dai fichi
che vi sono all’inizio del periodo stesso.
Il terzo periodo comincia subito dopo pochi giorni dalla cessazione
del secondo, servendo, quel breve intervallo tra l’uno e l’altro periodo, per
fare i conti, e dura fino a Natale. Dai primi di gennaio al carnevale si
svolge il quarto periodo, mentre il quinto ed ultimo, va dal carnevale alla
Pasqua, e dicesi, perciò, «Pasquante». Veramente questo periodo si
prolunga fino agli ultimi di aprile, in cui cominciano li apparecchi per la
pesca grande.
Fuorché nel primo, ed in parte del secondo, — in cui pescansi
acciughe — negli altri periodi si pesca «alla paranza».
La pesca ha luogo, giornalmente, intorno all’Isola e lungo le coste
del continente, in quel tratto che corre tra Piombino e il Promontorio
Argentario. Ma questi arditi marinari non si peritano di recarsi, in buon
numero, nelle acque della Sardegna, e, per la pesca delle acciughe, fino
ai lontani lidi settentrionali dell’Africa.
Di solito le bilancelle, della portata dalle sette alle diciotto
tonnellate, sono montate da cinque a sei uomini, il mozzo compreso.
Grandi potrebbero essere i vantaggi e i proventi della pesca; ma il
vero commercio del pesce non fanno i gigliesi, i quali cedono la loro
mercanzia ad altri, che sono quelli che veramente ne ritraggono i tanti
guadagni.
Mentre sui primi del secolo che sta per morire, i proprietari delle
barche erano in gran parte i gigliesi abitanti del castello, oggi, invece,
tutte le barche appartengono esclusivamente agli abitanti del porto: gli
uni costituiscono una popolazione prettamente marinara, gli altri si de87
dicano solo all’agricoltura. Fatto, questo, che rivela come tutto obbedisca
a quella legge dell’adattamento all’ambiente.
87
Il numero delle barche è fortemente aumentato, e mentre prima,
per equipaggiarle, i portolani avevan bisogno di recarsi al castello ad
ingaggiare molti giovani, ora, con l’aumento della popolazione del porto,
sentono meno tale bisogno, e, fra non molto, potranno mettere in mare le
loro barche senza più ricorrere all’opera degli abitanti del paese e castello
del Giglio.
E poiché siamo nel campo della marina, aggiungerò che,
attualmente, i galleggianti di questo porto ascendono al numero di 71, e
si dividono in barche da traffico, da pesca, e da traffico e pesca, e in
barchette, le quali si suddividono in barchette da pesca e in barchette pel
servizio dello sbarco ed imbarco dei passeggeri sul piroscafo, o per uso di
privati: vi sono, poi, di queste barchette, che servono e da pesca e per il
servizio dei passeggeri.
Il grano che nell’Isola si produce è tanto poco, che viene
consumato in tre o quattro mesi. Pochi pure sono i legumi che si
raccolgono, ed i frutti non vengono preparati e conservati per farne un
ramo di industria e di commercio.
La caccia è abbondante, specialmente nel mese di ottobre quella
dei colombi, tordi e di altri uccelli di passo; e nel novembre quella delle
beccacce. Peraltro, stante la guerra che a tali volatili vien mossa in tutti i
paesi da essi sorvolati, il loro numero si rende ogni anno più esiguo.
A proposito di uccelli, ricordo di aver letto nel Bollettino della
Società Astronomica di Francia, una notizia del Vesy sull’osservazione
della emigrazione notturna degli uccelli stessi. Il mezzo impiegato
consiste nell’osservare la luna con un telescopio o un equatoriale, e gli
uccelli migranti, che passano fra la terra e il suo satellite, si proiettano
come delle macchie oscure e mobili sul disco luminoso. Sarebbe stata
misurata la loro velocità, che risulterebbe da 150 a 200 chilometri l’ora.
Ma è risaputo che gli uccelli viaggiano anche nelle notti più brevi,
quando, cioè, neppure le stelle brillano nel firmamento. Ed
un’osservazione che certamente sarà stata fatta chi sa da quanti altri, e
che io cito perché fatta in quest’Isola, è la seguente:
Nelle loro marce notturne gli uccelli si regolano come i naviganti:
prendono di mira i fari.
Ciò può costatarsi dal fatto che, forse acciecati, in mezzo alle
tenebre, da quei raggi luminosi — non sapendo che la fiaccola rimane al
di dietro di cristalli grossissimi — sbattono, con quella po’ di velocità che
essi hanno, contro i cristalli stessi e nei fili di ferro che sorreggono la
cupola del faro, raccogliendosene in certe notti una quantità non
indifferente.
88
Il granito, bianco, bellissimo si estraeva, anni or sono, in gran
copia; ma ora tale estrazione, come pure quella del quarzo, si eseguisce
su scala limitatissima.
Ma dovendo ritornare su tale argomento, per parlare più
diffusamente negli «Appunti sull’Isola del Giglio», dirò solo che il
commercio dell’Isola si limita alla importazione ed esportazione delle
seguenti materie:
Importazione. - Prodotti vegetali. - Legname da costruzione,
mobili, doghe, carbone, grano, olio, castagne, farina di grano e di
castagne, riso, droghe, paste alimentari, caffè, zucchero ecc.
Prodotti animali. - Pecore, capre, maiali, qualche somaro, qualche
rarissima bestia bovina, polli, cuoiame, formaggio ecc.
Prodotti minerali. - Ferro lavorato ed in verghe, vetri, specchi e
marmo lavorato, ma in piccolissima quantità.
Esportazione. - Prodotti vegetali. - Vino, uva, fichi, zibibo, qualche
po’ di lenticchie e limoni.
Prodotti minerali. - Granito, quarzo.
Prodotti animali. - Colombi, tordi, beccacce ecc.
Dal principio del secolo, fino a che non fu sciolta la compagnia
cannonieri guardacoste, quasi tutti gli adulti maschi dell’Isola può dirsi
che erano stipendiati, perché ben 120 di essi appartenevano alla milizia,
ossia vi era un militare per 1,81 famiglia! Ma il vantaggio non era
soltanto nello stipendio fisso che molti isolani percepivano, che anzi
questo poteva dirsi poca cosa rispetto altri benefici che essi godevano.
I gigliesi, infatti, sebbene nella massima parte militari, accudivano
tutti alle proprie faccende. I soldati indossavano quasi sempre abiti
borghesi; potevano lavorare le proprie terre, ed anzi erano ricompensati
se introducevano delle migliorie nelle loro campagne. Abitava ognuno
nella casa propria, con la propria famiglia, ed era fornito dal Governo di
letto, biancheria, medicinali e perfino di zucchero, cose che,
naturalmente, si adoperavano anche pel resto della famiglia.
Erano inoltre dispensati dal pagamento delle imposte, versando
soltanto 600 lire per la tassa di famiglia o fuocatico.
Cessati tutti questi vantaggi, il Governo italiano, forse per attivare
un po’ il commercio del Giglio, e per soccorrerne gli abitanti, vi mandò
una numerosa colonia di domiciliate coatte, le quali, allontanate dalla
Sicilia, e dal napoletano, erano le mogli, madri, sorelle e spose dei
briganti che esse fornivano di viveri, armi, munizioni e di notizie. Le
coatte, venute nel 1863, lasciarono l’Isola nel 1869.
89
Il Governo italiano, inoltre, per favorire la navigazione, fece
costruire nell’Isola un bellissimo faro di secondo ordine, in località detta
le Vaccherecce, che, incominciato nel 1863, veniva acceso nel 1865.
Peraltro, essendo posto sopra un Poggio alto 288 metri dal livello del
mare, spesso le nebbie lo avvolgevano, e ne era, così, impedita la vista ai
naviganti. Ed allora furono costruiti due altri fari (1878), uno di secondo
ordine al Capel Rosso, all’altezza di 72 metri dal mare, l’altro di quarto
ordine al Fenaio a 36 metri dal mare. Quello delle Vaccherecce fu
abbandonato e gli altri due vennero accesi (1883).
A semplice titolo di curiosità dirò, poi, che il faro del Capel Rosso
viene chiamato anche, nel linguaggio ufficiale, faro sud, e quello del
Fenaio, faro Nord.
Rimandate le coatte alle case loro, il Governo impiantò al Giglio
una colonia di domiciliati coatti (1873), che però allontanati nel 1890 per
i numerosi reclami del Municipio e delle frequenti dimostrazioni popolari
ostili alla colonia.
Un notevole miglioramento introdusse il Governo italiano nel
servizio postale, che, fatto prima, settimanalmente tra Giglio e S. Stefano
(Monte Argentario) mediante una barca a vela, si fece, poi, tre volte a
settimana, e più tardi fu reso giornaliero, con esclusione della domenica.
Dipoi, alla scomoda barca – corriera fu sostituito un elegante
piroscafo della Società di navigazione generale italiana.
Altra cosa di somma utilità per il paese è il cavo telegrafico
sottomarino che unisce l’Isola al continente.
Aperto al pubblico nel 1887, il telegrafo torna comodo in tutte le
contingenze della vita; ed ora, anche se i temporali e le burrasche
trattengono per diversi giorni di seguito i piroscafi e gli altri bastimenti
dall’approdare o partire dall’Isola, per il telegrafo sono permesse le
comunicazioni con il continente e nessuno è costretto a interrompere i
propri affari.
Nel 1891 fu aperto un secondo ufficio telegrafico nel borgo del
Porto, mentre il primo era stato posto nel castello del Giglio.
Nel 1898 II Governo conveniva l’antica fortezza in una stazione
semaforica, che nel 1899 assorbiva l’ufficio telegrafico di Giglio Castello,
il quale rimase in tal modo soppresso.
Né qui si fermano i progressi introdotti nell’Isola per opera degli
stessi gigliesi.
Il paese mancava di acqua, e nell’estate specialmente, arduo era
il problema per trovare acqua potabile. Vi era una fonte in vicinanza del
Castello, ma quasi sempre disseccata, e non bastava ai bisogni della
popolazione. Vi era anche un’altra fonte «Acqua selvaggia», ma distava
circa un chilometro e mezzo dal paese.
90
Nel 1889 – 1890, allacciate le acque della sorgente «Acqua dei
Mori», posta a 392 m. 52 sul livello del mare, con quelle dell’«Acqua
selvaggia», a 374 m, 23 sul mare, furono portate, mediante un condotto
lungo 1817 metri, quasi ai piedi delle mura del Castello, che rimase, così
provveduto di ottima acqua e abbondante. (Progetto di condotta d’acqua
per il Comune del Giglio, fatto dalla Società Italiana per condotte
d’acque).
Per far fronte a tale spesa il Comune contrasse un mutuo di l.
20.000 con la Cassa depositi e prestiti, concesso con R. Decreto 29
gennaio 1888, mutuo da estinguersi in trenta annualità, e all’interesse
del 4 1/2 per cento, di cui il Ministero dell’Interno si assunse la quota
annua di interesse dell’1 1/2 per cento, venendo così il Comune a pagare
soltanto il 3%.
I lavori iniziati nel 1889 vennero collaudati il 13 settembre 1890;
l’importo degli stessi ascese a L. 18.933,59 e vennero eseguiti dalla
Società Italiana per le condotte d’acqua, avente sede in Roma, con la
quale fu stabilito regolare contratto a trattativa privata, come da
autorizzazione Prefettizia in data 19 maggio 1889 n. 4487.
Ma anche prima che all’acqua, il Comune aveva pensato a
costruire locali scolastici vasti, comodi, dove l’aria e la luce entrano
liberamente, per i fanciulli d’ambo i sessi del Castello e del Porto.
E fu nel 1889 che, per opera di un Comitato di scelti cittadini,
presieduto dal Sindaco, e con il concorso del Municipio, fu posto sul
campanile della Chiesa parrocchiale del Castello un pubblico orologio.
Ma rimane ancora molto da fare per il bene del Giglio, e poiché
non è mio compito — almeno il questo lavoro, destinato alla parte storica
— di enumerare i bisogni dell’Isola, così terminerò col far voti che
l’istruzione e l’educazione, non soltanto dell’intelletto, ma anche del
cuore, pongano i gigliesi in condizioni tali da far cessare quell’ingiusto,
ingiustificabile ed incivile disprezzo che purtroppo rinviensi spesso in chi
— non conoscendo né il Giglio né i gigliesi — parla dell’uno e degli altri
con preconcetti che ridondano, poi, a carico di colui che, invece di
esprimere i giudizi con cognizione di causa, o parla a passione, o tratta
cosa che non conosce.
La popolazione di questo secolo ha subito e subisce un continuo e
progressivo aumento.
91
Il Giglio, che nel 1814 aveva 1052 abitanti, nel 1821 ne aveva
1153, che salirono a 1283 nel 1825 e 1542 nel 1828.
Nel 1833 gli abitanti salirono a 1502, così divisi: impuberi maschi
241, femmine 230; adulti maschi 159, femmine 162; coniugati 692;
ecclesiastici 18; famiglie 356.
Come si vede, la casta ecclesiastica era numerosissima, poiché
aveva un prete ogni 16,16 famiglie!
Tralasciando di riportare qui i dati relativi alla popolazione del
Giglio in varie epoche, dirò che nel 1881 vi erano 2127 abitanti, di cui
1139 maschi, 988 femmine, e che al 31 dicembre 1899 la popolazione
isolana ascendeva a 2565 e cioè 1277 maschi e 1288 femmine. S’intende
che in queste cifre non figurano i numerosi individui che il duro bisogno
costringe ad emigrare.
Ma, anche per ciò che si riferisce alla demografia, al prossimo
lavoro.
92
BIBLIOGRAFIA
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Becherini-Firenze, 1824–27.
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ed Arti, Vol. XI – pag. 336–370 – Milano 1818.
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CIONI B. – Analisi delle Miniere di ferro dell’Isola del Giglio (Nuovo
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Finito di stampare nel
mese di Febbraio 1985
presso le Officine Grafiche
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