Le categorie di cittadini di Paesi terzi non membri dell`UE

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Le categorie di cittadini di Paesi terzi non membri dell`UE
Le categorie di cittadini di Paesi terzi non membri dell’UE protetti dal
principio di parità di trattamento di cui al diritto dell’Unione europea
(familiari di cittadini UE, lungo soggiornanti, accordi di associazione
euro-mediterranei).
Spunti e problematiche di attualità rispetto al diritto interno italiano e
prospettive verso un nuovo concetto di “cittadinanza europea”.
dott. Walter Citti*
*Consulente legale dell’ASGI, Servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni.
Il presente lavoro costituisce l’aggiornamento al novembre 2012 della tesina di Master in
diritto del lavoro e della previdenza sociale, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di
Giurisprudenza, anno accademico 2010/2011.
1
1. Introduzione
Solo cinque anni fa, due autorevoli studiosi di diritto comunitario del lavoro, Giubboni e
Orlandini, scrivevano che il diritto comunitario offre un grado di tutela zero al cittadino di un Paese
terzo non membro dell’UE o, meglio, il cittadino extracomunitario ha accesso alle tutele fondate sul
diritto alla libera circolazione dei cittadini UE solo per via indiretta, nel caso in cui esista un
rapporto familiare con un cittadino comunitario migrante, così come può beneficare dei diritti
riconosciuti dall’ordinamento comunitario al lavoratore distaccato nell’ambito di una prestazione di
servizi ai sensi della direttiva 96/71/CE. Gli stessi autori, tuttavia, avvertivano che tale situazione
non era destinata a perdurare a lungo in virtù del processo di progressiva “comunitarizzazione”
della materia dell’immigrazione e dell’asilo ovvero dell’ambizioso progetto avviato dall’Unione
europea di una politica comune in materia .1
Fin dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, infatti, gli attori della politica d’integrazione
europea avevano dato prova di una presa di coscienza etica, politica e giuridica della necessità di
creare condizioni più favorevoli per l’ integrazione dei cittadini di Paesi terzi regolarmente residenti
nell’Unione europea. Il Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999 aveva affermato la
necessità di offrire ai cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti nei Paesi membri “diritti ed
obblighi comparabili a quelli dei cittadini dell’Unione europea”, al fine di “favorire la nondiscriminazione nella vita sociale, economica e culturale”, mediante anche il ravvicinamento dello
status giuridico dei cittadini di Paesi terzi a quello dei cittadini dell’Unione europea.
Grazie a questa presa di coscienza, già nel vigore del Trattato di Amsterdam, con l’adozione del
metodo della “cooperazione decentrata”, sono stati introdotti strumenti di diritto comunitario che
hanno contemplato norme sulla parità di trattamento con i cittadini nazionali a favore di determinate
categorie di cittadini di Paesi terzi (rifugiati e titolari della protezione sussidiaria –direttiva n.
2004/83/CE; cittadini di Paesi terzi lungo soggiornanti – direttiva n. 109/2003/CE) in determinati
ambiti di intervento. Ugualmente, agli inizi del primo decennio del nuovo secolo,
con il
regolamento n. 859/2003/CE, il legislatore europeo ha esteso anche ai cittadini di Paesi terzi le
disposizioni comunitarie riferite al coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale.
Tale politica comune europea dovrebbe trovare una nuova accelerazione dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona. All’art. 79 del TFUE si indicano tra gli obiettivi che la politica comune europea
1
Giubboni Orlandini, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Il Mulino, 2007, pp. 34-35.
2
sull’immigrazione dovrebbe assicurare anche quello dell’equo trattamento dei cittadini terzi
regolarmente soggiornanti negli Stati membri. Tale concetto di equità nel trattamento dei cittadini di
Paesi terzi (certamente di forza minore rispetto ad un pieno riconoscimento del diritto alla parità di
trattamento) trova riscontro anche nella Carta europea dei diritti fondamentali, pienamente
vincolante dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ed avente lo stesso valore giuridico dei
trattati, vincolando anche gli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione europea. Così,
all’art. 15 c. 3 della Carta si afferma ad esempio che i cittadini di Paesi terzi che sono autorizzati a
lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di
cui godono i cittadini dell’Unione. Ugualmente, l’art. 34 paragrafo 2 della Carta enuncia che “ogni
persona che risieda o si sposta legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di
sicurezza sociale e ai vantaggi sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e
prassi nazionali”. Il fatto che tale norma abbia fatto uso dell’espressione “ogni persona” piuttosto
che quella di “ogni cittadino dell’Unione”, comunemente utilizzata nel Titolo V dedicato alla
Cittadinanza dell’Unione,
fa ritenere che essa faccia riferimento non solamente ai cittadini
dell’Unione, ma all’insieme delle persone regolarmente soggiornanti nel territorio degli Stati
membri.
Gli operatori giuridici che si occupano del contrasto alle discriminazioni verso i migranti di
Paesi terzi hanno lungamente atteso la direttiva sul procedimento unico per il rilascio di un
permesso di soggiorno di lavoro da parte dei cittadini di Paesi terzi che risiedono e lavorano nel
territorio di uno Stato membro, che definisce anche un paniere comune di diritti per i cittadini di
Paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro. L’iter di tale strumento è stato travagliato,
visto che la proposta di direttiva e’ stata presentata dalla Commissione europea già nell’ottobre
2007, ma solo nel dicembre del 2011 tale direttiva è stata finalmente adottata dopo una lunga
negoziazione all’interno del Consiglio e del Parlamento europeo.
La direttiva 2011/98/UE 2 prevede la parità di trattamento con i cittadini nazionali, tra l’altro,
nelle seguenti aree (art. 12):
a) istruzione e formazione professionale;
b) riconoscimento dei diplomi;
2
Direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 relativa a una procedura unica di
domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel
territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano
regolarmente in uno Stato membro (Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 343/1 dd. 23.12.2011).
3
c) sicurezza sociale, estendendo la parità di trattamento già prevista dal Regolamento (UE) n.
1231/2010 (già regolamento CE n. 859/2003) a favore dei cittadini di Paesi terzi che si
sono mossi da un Paese UE all’altro, anche a quelli che arrivano direttamente da un Paese
terzo;
d) accesso ai beni e servizi offerti al pubblico, incluso l’accesso all’abitazione.
Il testo della direttiva contiene, peraltro, alcune possibilità per gli Stati membri di derogare o
restringere la portata del principio di parità di trattamento: ad es. riguardo al principio di parità di
trattamento nell’accesso ai beni e servizi a disposizione del pubblico viene prevista la facoltà per
gli Stati membri di limitarne l’applicazione solo ai lavoratori di Paesi terzi che svolgono attività
lavorativa e, in particolare per quanto concerne l’assistenza abitativa ovvero alle procedure per
l’ottenimento di un alloggio, viene prevista addirittura la facoltà per gli Stati di prevedere in
assoluto delle limitazioni (art. 12 c. 2 lett. d) punto ii). A tale riguardo, è significativo osservare
come nel corso dei lavori preparatori e delle negoziazioni tra Consiglio e Parlamento europeo, la
portata derogatoria al principio di parità di trattamento ha trovato un’estensione ulteriore rispetto
alla stessa proposta iniziale, che la prevedeva esclusivamente nei confronti di
coloro che non
avessero ancora maturato un’anzianità di residenza almeno triennale nel Paese membro.3
3
Il
testo
della
proposta
di
direttiva
può
essere
scaricato
dal
sito
web:
http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/free_movement_of_persons_asylum_immigration/l14
574_it.htm . Nella seduta del 5 novembre 2008, la Commissione per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari Interni del
Parlamento europeo aveva approvato il testo della proposta di direttiva sotto riserva di alcuni emendamenti suggeriti,
taluni dei quali aventi come oggetto proprio la portata del principio di parità di trattamento. Significativo il fatto che
uno degli emendamenti proposti dal relatore, il deputato Patrick Gaubert, e accolti dalla Commissione del PE, ha
inteso ulteriormente circoscrivere la portata del principio di parità di trattamento con riferimento alla materia
dell’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica, ritenendosi che i cittadini dei paesi terzi debbano poter accedere alle
procedure per l'assegnazione di un alloggio nel quadro dell'assistenza abitativa soltanto qualora ottengano uno status più
permanente nell'UE, quale, ad esempio, lo status di soggiornanti di lungo periodo, ex direttiva n. 109/2003/CE, cfr.
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A6-20080431+0+DOC+XML+V0//IT Nella successiva seduta di riesame del 5 ottobre 2010, la commissione del PE per le
Libertà civili, la Giustizia e gli Affari Interni del PE ha approvato, su proposta della relatrice Mathieu, un nuovo
emendamento al testo originariamente proposto dalla Commissione, a favore di una clausola derogatoria consentita agli
Stati membri nei confronti degli stranieri di Paesi terzi legalmente soggiornanti nel Paese membro da meno di tre anni
(si veda il resoconto al link: http://www.statewatch.org/semdoc/assets/files/parliament/A7-0265-10.pdf ). Tuttavia, la
seduta plenaria del Parlamento europeo, svoltasi il 24 marzo 2011, ha approvato una risoluzione sul testo di proposta di
direttiva dai contenuti di fatto ancora più restrittivi rispetto a quelli proposti tanto dalla Commissione europea quanto
dalla commissione del PE nella prima lettura del novembre 2008, estendendo l’opzione derogatoria consentita agli Stati
membri nei confronti dei cittadini di Paesi terzi regolarmente residenti in uno Stato membro riguardo all’intera materia
del diritto sociale all’abitazione e non solo all’assegnazione di alloggi pubblici. Per la documentazione sulla seduta e la
risoluzione
del
Parlamento
europeo
del
24
marzo
2011
si
veda
al
link:
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P7-TA-2011-0115&language=EN&ring=A72010-0265#BKMD-16
Per la conferma del raggiungimento di un accordo tra Parlamento e Consiglio europeo sul testo definitivo della direttiva
si vedano i verbali e il comunicato stampa del Consiglio europeo per la Giustizia e gli Affari Interni svoltosi il 27-28
ottobre 2011 :
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/jha/125749.pdf
4
Un’altra significativa deroga al principio di parità di trattamento viene consentita agli Stati membri
in sede di recepimento della direttiva nell’ambito della sicurezza sociale, e dunque dei benefici
sociali ricadenti entro le definizioni del Regolamento (CE) n. 883/2004, nei confronti dei lavoratori
di Paesi terzi che non abbiano svolto un attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e non
siano registrati come disoccupati (art. 12 c. 2 lett. b).4
2. La parità’ di trattamento nell’accesso al lavoro e nelle condizioni di lavoro.
Una delle questioni maggiormente affrontate
in questi anni in Italia anche nelle sedi
giurisdizionali ove sono state promosse azioni giudiziarie anti-discriminazione, e’ stata quella
dell’accesso degli stranieri cittadini di Paesi terzi ai rapporti di pubblico impiego. Una tematica
rispetto alla quale l’amministrazione pubblica italiana ha mostrato un costante e rigido
orientamento negativo, a partire dal noto parere del Dipartimento Funzione pubblica della
Presidenza del Consiglio dei Ministri dd. 28.09.2004.
5
In linea generale, possiamo dire che la
normativa sui pubblici concorsi non è stata aggiornata alla luce degli sviluppi intervenuti in
materia di parità di trattamento tanto nel diritto dell’Unione europea quanto del diritto
dell’immigrazione di fonte interna, che a sua volta, peraltro, richiama fondi di diritto
internazionale pattizio (il riferimento alla convenzione OIL n. 143/75 di cui all’art. 2 c. 3 d.lgs.
n. 286/98).
Nel mio intervento mi limiterò ad analizzare i riferimenti al diritto dell’Unione europea, che,
peraltro, viene a tutelare solo una cerchia ristretta di lavoratori di Paesi terzi.
Sebbene già l’art. 39 c. 4 del TCE aveva individuato una deroga di natura specifica che
consentiva limitazioni
all’accesso dei cittadini comunitari al lavoro nelle Pubbliche
Amministrazioni, la Corte di Giustizia ha da tempo stabilito che agli Stati membri non e’
rimesso il potersi di definire quali attività rientrino nella nozione di impiego pubblico, essendo
questa “comunitarizzata”, identificandosi con il “complesso di posti che implicano la
partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno
oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche” .6
4
Il termine per il recepimento della direttiva nell’ordinamento interno degli Stati membri è il 25 dicembre 2013 (art.
16).
5
Il testo del parere è reperibile al link: http://www.innovazionepa.gov.it/media/277040/cittadinanza.pdf
6
Corte di Giustizia, causa C-149/79, Commissione c. Belgio. Anche il concetto di partecipazione diretta o indiretta
all’esercizio di pubblici poteri ha conosciuto un’interpretazione sempre più restrittiva da parte dei giudici di
5
a) Familiari di cittadini di Stati membri dell’Unione europea
L’art. 23 della direttiva n. 2004/38/CE sulla libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini di
Paesi membri dell’Unione europea e dei loro familiari
prevede: “I
familiari del cittadino
dell’Unione, qualunque sia la loro cittadinanza, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di
soggiorno permanente in uno Stato membro, hanno diritto di esercitare un’attività economica
come lavoratori subordinati o autonomi”. L’art. 24 sancisce il principio di parità di trattamento a
favore dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari: “Fatte salve le disposizioni specifiche
espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione che risiede, in
base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento
rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si
estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di
soggiorno o del diritto di soggiorno permanente” (sottolineatura nostra n.d.r.).
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha già da tempo chiarito con la sentenza
Emir Güel contro Germania dd. 7 maggio 1986 (Causa n. 131/85) che il coniuge del lavoratore
comunitario che abbia esercitato il diritto alla libera circolazione gode del principio di non
discriminazione nell’accesso al lavoro, previsto per i lavoratori comunitari, qualunque sia la sua
cittadinanza e nei suoi confronti si applicano le stesse disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative che si applicano ai cittadini nazionali (il caso in questione riguardava il divieto di
accesso alla professione di medico in una struttura pubblica in Germania di un cittadino cipriota
coniugato con una cittadina britannica residente in Germania). Con la sentenza 30 marzo 2006,
causa C-10/2005 (Mattern e Cikotić), la Corte di Giustizia ha limitato la portata di tale principio
chiarendo che il diritto comunitario non conferisce al cittadino extracomunitario il diritto di
accesso al lavoro in uno Stato diverso da quello in cui il coniuge svolge o ha svolto attività
lavorativa.
Tali principi di diritto comunitario di parità di trattamento nell’accesso all’esercizio di
attività lavorativa a favore dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari sono stati pienamente
recepiti nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 30/2007. All’art. 19 si afferma: “ 1. I cittadini
dell’Unione e i loro familiari hanno diritto di esercitare qualsiasi attività economica autonoma o
subordinata, escluse le attività che la legge, conformemente ai Trattati dell’Unione europea ed
Lussemburgo fino ad escludere la legittimità della riserva di nazionalità per l’esercizio della stessa professione di
notaio, nell’ambito della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE; cfr. CGUE sentenza 24 maggio 2011, causa C47/08, Commissione c. Belgio.
6
alla normativa comunitaria in vigore, riserva ai cittadini italiani. 2. Fatte salve le disposizioni
specifiche espressamente previste dal Trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione
che risiede, in base al presente decreto, nel territorio nazionale, gode di pari trattamento rispetto
ai cittadini nazionali nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai
familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno
o del diritto di soggiorno permanente” (sottolineatura nostra n.d.r.).
Sulla base del primato del diritto comunitario su quello interno, e dell’immediata
applicabilità
delle
sentenze
interpretative
della
CGE,
nonché
dei
principi
generali
dell’interpretazione e della successione delle leggi nel tempo di cui all’art. 15 delle disposizioni
preliminari al c.c., si ritiene che le disposizioni di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 30/2007 integrino e
modifichino a tutti gli effetti quanto previsto dalle norme sul pubblico impiego e dall’art. 38 del
d.lgs. n. 165/2001 e dall’art. 2 del D.P.R. 174/94, quand’anche tali norme interne dovessero essere
interpretate – a nostro avviso erroneamente- nella direzione di impedire ai cittadini extracomunitari
l’accesso ai rapporti di pubblico impiego. Di conseguenza, si conclude che ai familiari di cittadini
degli Stati membri dell’Unione europea regolarmente residenti in Italia, qualunque sia la loro
cittadinanza, se in possesso della carta di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, previsti
dal d.lgs. n. 30/2007, debba essere certamente consentito l’accesso agli impieghi pubblici alle
stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per i cittadini dell’Unione europea (comma 3:
godimento dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza, conoscenza adeguata della lingua
italiana).
A conferma della bontà di tali argomentazioni, si cita anche il parere espresso dalla
Commissione europea, organo cui sono attribuite anche le funzioni di vigilanza della corretta
applicazione del diritto dell'Unione europea da parte degli Stati membri . In risposta ad
un'interrogazione presentata al Parlamento europeo dalla parlamentare italiana Debora
Serracchiani, la Commissaria europea Malmström in data 26 marzo 2010 7 ha così affermato: "As
regards non-EU national family members of EU citizens in Italy, the Commission is of the view
that Directive 2004/38/EC on the right of citizens of the Union and their family members to move
and reside freely within the territory of the Member States grants non-EU national family members
of EU citizens who have the right to reside in another Member State equal treatment with
7
Il testo della risposta scritta della Commissaria europea Malmström e’ reperibile sul sito web:
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=911&l=it ) ed è consultabile anche sul sito internet del Parlamento europeo (doc.
n. E-6422/09EN). Per una presa di posizione ufficiale della Commissione europea si veda anche: Commissione europea,
Free movement of workers in the public sector, doc. SEC(2010)1609, pag. 12.
7
nationals as regards access to employment in the public sector, with the exception of posts which
involve the exercise of public authority and the responsibility for safeguarding the general interest
of the state" (trad. It: "Con riferimento ai cittadini di paesi terzi non membri dell'UE familiari di
cittadini dell'Unione europea residenti in Italia, la Commissione è dell'avviso che la Direttiva
2004/38/CE sul diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare
liberamente entro il territorio degli Stati membri garantisce ai cittadini di Paesi terzi familiari di
cittadini UE che hanno il diritto di risiedere in un altro Paese membro parità di trattamento con i
nazionali riguardo all'accesso all'impiego nel settore pubblico, con l'eccezione degli impieghi che
implichino l'esercizio di pubblici poteri o di responsabilità in relazione agli interessi generali dello
Stato").
b) Familiari di cittadini italiani.
L’art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 prevede l’estensione delle norme previste dal decreto
attuativo della direttiva europea in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari e loro
familiari anche ai familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana: “Le disposizioni
del presente decreto legislativo, se più favorevoli, si applicano ai familiari di cittadini italiani non
aventi la cittadinanza italiana”.
Dal significato
letterale della norma
ne deriva un’interpretazione della equiparazione della
condizione dei familiari dei cittadini italiani a quella dei familiari di cittadini comunitari estensibile
a tutte le disposizioni contenute nel decreto e non solo a quelle in materia di soggiorno. Pertanto,
anche i familiari (ad es. il coniuge) dei cittadini italiani godono del principio di parità di
trattamento nell’accesso alle attività lavorative, salvo quelle attività escluse ai cittadini dell’Unione
europea conformemente alla normativa comunitaria. Ne consegue l’estensione anche ai familiari
extracomunitari di cittadini italiani dell’accesso al pubblico impiego fatte salve le limitazioni di cui
all’art. 38 del d.lgs. n. 165/2001 e al D.P.C.M. n. 174/1994 (attività lavorative che implichino
l’esercizio di pubblici poteri o la tutela degli interessi generali dello Stato). Del resto, la norma di
cui all’art. 23 del d.lgs. n. 30/2007 deve intendersi quale espressione del divieto di
“discriminazioni a rovescio”.8
8
Con due importanti sentenze, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che, in caso di deteriore trattamento della
situazione puramente interna riferita al cittadino italiano rispetto a quella applicabile all’omologa situazione disciplinata
dal diritto comunitario, alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, la posizione soggettiva garantita dal diritto
comunitario sarà l’elemento su cui misurare anche la disciplina riservata alla situazione nazionale (Corte Costituzionale,
sent. 16.06.1995, n. 249; Corte Cost., sent. 30.12.1997, n. 443). In altri termini il principio di eguaglianza di cui all’art.
8
Al riguardo, quale significativo pronunciamento giurisprudenziale, deve segnalarsi la pronuncia
del Tribunale di Venezia, ordinanza 8 ottobre 2010, favorevole all’ammissione di una cittadina
albanese coniugata con un cittadino italiano ad un concorso pubblico per operatore di strada
indetto dal Comune di Venezia 9.
c) I cittadini di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti.
La direttiva 2003/109/CE relativa ai soggiornanti di lungo periodo, all’art. 11, comma 1,
prevede che
“Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini
nazionali per quanto riguarda: a) l’esercizio di un’attività lavorativa subordinata o autonoma,
purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici
poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di
retribuzione…”. Sebbene il successivo art. 11 c. 2 lett. a) della direttiva conferisca agli Stati
membri una facoltà derogatoria al principio di parità di trattamento nei casi in cui la legislazione
nazionale in vigore riservi determinate attività lavorative ai cittadini nazionali o dell’Unione
europea,
sembra evidente
che, proprio perché ha affrontato la questione dell’esercizio dei
pubblici poteri, la direttiva ha inteso disciplinare direttamente la questione dell’accesso al pubblico
impiego (non vi sarebbe infatti alcun motivo di parlare di “pubblici poteri” al di fuori di tale
3 della Costituzione vieta le “discriminazioni a rovescio”, quelle cioè che si verificherebbero in danno del cittadino
italiano quando, per effetto di una norma comunitaria, una persona o un soggetto comunitario godrebbe in Italia di un
trattamento più favorevole di quello previsto in una situazione analoga per il cittadino o soggetto nazionale in virtù della
norma di diritto interno. Il divieto di discriminazioni a rovescio è stato di recente riaffermato con l’art. 14 bis della
legge 7.7.2009, n. 88 (Legge comunitaria 2008): “1. Le norme italiane di recepimento e di attuazione di norme e
principi della Comunità europea e dell’Unione europea assicurano la parità di trattamento dei cittadini italiani
rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’UE residenti o stabiliti nel territorio nazionale e non possono in ogni
caso comportare un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani.
2. Nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi
interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento dei cittadini comunitari residenti o
stabiliti nel territorio nazionale”.
Sull’argomento delle discriminazioni alla rovescia nel diritto dell’Unione europea e nel diritto interno, si veda il volume
di Fabio Spitaleri, Le discriminazioni alla rovescia nel diritto dell’Unione europea, Aracne editrice, 2010. Una recente
applicazione giurisprudenziale del divieto di discriminazione alla rovescia è l’ordinanza del Tribunale di Udine, n.
615/2010 dd. 17.11.2010, pag. 31.
Sul presupposto che il diritto all’ingresso e al soggiorno per ricongiungimento familiare del cittadino extracomunitario
con il cittadino italiano sia regolato esclusivamente dalla disciplina di derivazione comunitaria sulla libera circolazione
di cui il d.lgs. n. 30/2007, si veda anche Cass. ord. n. 25661/2010 e sentenze n. 4868/2010 e 17346 /2010.
9
Il
testo
integrale
dell’ordinanza
del
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1220&l=it.
Tribunale
di
Venezia
e’
reperibile
al
link:
9
ambito) prevedendo che, laddove tale esercizio non sia richiesto, il soggiornante di lungo periodo
ha diritto all’accesso. 10
d) I rifugiati politici
L’art. 25 del d.lgs. n. 251/2007, attuativo della Direttiva europea n. 2004/83/CE (“Norme
minime sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di
persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto
della protezione riconosciuta”), ha espressamente esteso l’accesso al pubblico impiego ai cittadini
stranieri titolari dello status di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 ("2.
E’ consentito al titolare dello status di rifugiato l’accesso al pubblico impiego, con le modalità e le
limitazioni previste per i cittadini dell’Unione Europea”). Sebbene l’art. 26 c. 3 della Direttiva
europea n. 2004/83/CE preveda una pari autorizzazione all’esercizio di attività dipendente nel
rispetto della normativa generalmente applicabile agli impieghi nella pubblica amministrazione
anche a favore del titolare della protezione sussidiaria, tale diritto non è stato recepito nella
normativa italiana di riferimento. Tale questione pone, dunque,
un problema di insufficiente
adeguamento della normativa interna agli obblighi scaturenti dalla normativa comunitaria.
Esaurita la materia dell’accesso ai rapporti di pubblico impiego, passiamo ad esaminare le
potenziali implicazioni sul diritto dell’immigrazione interno delle clausole di parità di trattamento in
materia di condizioni di lavoro contenute in specifici strumenti del diritto comunitario a favore di
talune categorie di cittadini di Paesi terzi.
10
Tale interpretazione e’ stata accolta dalla recente giurisprudenza: cfr. Ordinanza del Tribunale di Lodi, dd.
18.02.2011 (n. 317/11; n. R.G. 921/2010), scaricabile dal sito web:
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/tribunale_lodi_921_2010_18022011.pdf ; l’ordinanza del Tribunale di
Milano, dd. 04.04.2011 (nr. 3769/11 RG e 4423/11 RG), scaricabile dal sito web:
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/trib_milano_04042011.pdf ;
Tribunale di Trieste, Ordinanza dd. 01.07.2011 (RG 408/11), est. Multari, confermata in sede di reclamo da Tribunale
di
Trieste,
ordinanza
dd.
22.07.2011,
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1831&l=it
Pres.
De
Pauli,
scaricabili
entrambe
al
link:
10
e) Accordi di associazione UE-Paesi terzi: clausole sulla parità di trattamento in materia di
condizioni di lavoro.
Il primo accordo che andiamo a considerare è quello più risalente nel tempo, ovvero l’Accordo
che crea un’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia, firmato ad Ankara il 12
settembre 1963 dalla Repubblica di Turchia, da un lato, e dagli Stati membri della CEE e dalla
Comunità, dall’altro, e concluso, approvato e confermato a nome di quest’ultima con decisione del
Consiglio 23 dicembre 1963, 64/732/CEE (GU 1964, n. 217, pag. 3685). Il 19 settembre 1980 il
consiglio di associazione, istituito dall'accordo di associazione e composto, da un lato, da membri
dei governi degli Stati membri, del Consiglio nonché della Commissione delle Comunità europee e,
dall'altro, da membri del governo turco, emanava la decisione n. 1/80.
L'art. 6 di tale decisione è contenuto nel capitolo II della medesima, intitolato «Disposizioni
sociali», sezione 1, riguardante i «Problemi relativi all'occupazione e alla libera circolazione dei
lavoratori». Il n. 1 di tale articolo così recita: «Fatte salve le disposizioni dell'articolo 7, relativo al
libero accesso dei familiari all'occupazione, il lavoratore turco inserito nel regolare mercato del
lavoro di uno Stato membro ha i seguenti diritti:
- rinnovo, in tale Stato membro, dopo un anno di regolare impiego, del permesso di lavoro
presso lo stesso datore di lavoro, se dispone di un impiego;
- candidatura, in tale Stato membro, ad un altro posto di lavoro, la cui regolare offerta sia
registrata presso gli uffici di collocamento dello Stato membro, nella stessa professione,
presso un datore di lavoro di suo gradimento, dopo tre anni di regolare impiego, fatta salva
la precedenza da accordare ai lavoratori degli Stati membri della Comunità;
- libero accesso, in tale Stato membro, a qualsiasi attività salariata di suo gradimento, dopo
quattro anni di regolare impiego».
L’art. 7 della decisione n. 1/80 così dispone:
«I familiari che sono stati autorizzati a raggiungere un lavoratore turco inserito nel regolare mercato
del lavoro di uno Stato membro:
–
hanno il diritto di rispondere, fatta salva la precedenza ai lavoratori degli Stati membri della
Comunità, a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono regolarmente da almeno tre anni;
11
–
beneficiano del libero accesso a qualsiasi attività dipendente di loro scelta se vi risiedono
regolarmente da almeno cinque anni. 11
I figli dei lavoratori turchi che hanno conseguito una formazione professionale nel paese ospitante
potranno, indipendentemente dal periodo di residenza in tale Stato membro e purché uno dei
genitori abbia legalmente esercitato un’attività nello Stato membro interessato da almeno tre anni,
rispondere a qualsiasi offerta d’impiego in tale Stato membro».12
Il successivo art. 10, contenuto nella stessa sezione 1 del capitolo II della decisione medesima,
dispone, al n. 1, quanto segue:
«Gli Stati membri della Comunità concedono ai lavoratori turchi appartenenti al loro regolare
mercato del lavoro un regime caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi discriminazione di
nazionalità rispetto ai lavoratori comunitari, con riferimento alla retribuzione e alle altre condizioni
di lavoro».
L’art. 13 della citata decisione dispone quanto segue:
11
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha rigettato un’interpretazione restrittiva della nozione di
“familiari” ai sensi dell’art. 7, primo comma della decisione n. 1/80, avanzata dai governi italiano, tedesco ed austriaco,
secondo la quale dovrebbero essere inclusi solo i membri della famiglia di un lavoratore turco che abbiano anch’essi la
cittadinanza turca. La Corte di Giustizia ha sostenuto che una tale interpretazione sarebbe incompatibile con gli
obiettivi sociali di integrazione perseguiti dalle norme della decisione, così come con il diritto fondamentale al rispetto
della vita privata e familiare, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (si veda CGUE,
sentenza dd. 19 luglio 2012, causa C-451/11, Dülger c. Germania). La Corte di Giustizia europea ha da tempo chiarito
che, anche al fine di garantire un’applicazione omogenea in tutti gli Stati membri della nozione di “familiari”, ai sensi
dell’art. 7, primo comma, della decisione n. 1/80, essa deve formare oggetto di un’interpretazione uniforme a livello del
diritto dell’Unione (CGE, sentenza dd. 30.09.2004, causa C-275/02, Ayaz c. Land Baden- Wüttemberg). Poiché
l’obiettivo dell’Accordo di Associazione CEE-Turchia e delle relative decisioni è quello di realizzare progressivamente
la libera circolazione dei lavoratori ispirandosi a quanto previsto dal Trattato europeo, i principi sanciti nell’ambito dei
Trattati europei devono essere trasposti, nel limite del possibile, ai cittadini turchi che fruiscono dei diritti previsti dalla
decisione n. 1/80. Ne consegue che , per la determinazione della portata della nozione di “familiare” ai sensi dell’art. 7,
primo comma, della decisione n. 1/80, occorre fare riferimento all’interpretazione cui si è proceduto in materia di libera
circolazione dei lavoratori cittadini degli Stati membri della Comunità prima ed ora dell’Unione europea e, in
particolare, alla portata riconosciuta all’art. 10 n. 1 del regolamento n. 1612/68, ora abrogato dagli artt. 6 e 7 par. 2 della
direttive n. 2004/38 (cfr. CGUE, sentenza dd. 19 luglio 2012, causa C-451/11 cit., parr. 49-52 e CGE, sentenza dd.
30.09.2004, causa C-275/02, cit. , parr. 41-45). La giurisprudenza della CGE ha quindi chiarito che la nozione di
“familiari” non è limitata, per quanto riguarda il lavoratore, alla sua famiglia iure sanguinis e dunque trova applicazione
anche con riferimento al figliastro di un lavoratore turco, indipendentemente dalla sua cittadinanza (CGE, sentenza
Ayaz, causa C-275/92 cit.). La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha recentemente chiarito anche che l’acquisizione
da parte del lavoratore turco della cittadinanza dello Stato membro UE ospitante non impedisce ai suoi familiari di
invocare le disposizioni di cui alla decisione n. 1/80 dell’Accordo di Associazione (CGUE, sentenza 29 marzo 2012,
cause C-7/10 e 9/10 riunite, Kahveci e Inan c. Paesi Bassi).
12
Sull’applicazione ed interpretazione di tale norma da parte della Corte di Giustizia europea, si vedano le sentenze dd.
19 novembre 1998, causa Akman c. Germania, C-210/97 e del 21 gennaio 2010, causa Bekleyen c. Germania, C462/08, per cui non impedisce il godimento del diritto assoluto di soggiorno per motivi di lavoro nel Paese membro
derivante dall’art. 7 secondo comma della decisione n. 1/80 il fatto che il genitore che ha svolto un’attività’ di lavoro
subordinato per almeno tre anni nello stesso Stato membro, abbia già fatto ritorno in Turchia quando il figlio ha
concluso l’attività’ formativa e anche quando detto ritorno sia avvenuto prima che il figlio iniziasse l’attività’ formativa
medesima e dunque non sia giunto nel Paese membro a seguito di riunificazione familiare.
12
«Gli Stati membri della Comunità e la Turchia non possono introdurre nuove restrizioni sulle
condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori e dei loro familiari che si trovino sui loro
rispettivi territori in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione». (clausola di
standstill).
L’art. 14 fa salve le limitazioni all’applicazione di tali norme se giustificate da motivi di ordine
pubblico, di sicurezza e di sanità pubbliche.
Al riguardo, e’ importante sottolineare come la giurisprudenza della Corte di Giustizia
europea abbia ripetutamente affermato che le norme degli artt. 6 e 7 della decisione n. 1/80
producono un effetto precettivo, quindi diretto ed immediato negli ordinamenti interni degli Stati
membri, per cui la maturazione dei periodi di residenza enunciati in tali disposizione richedono il
riconoscimento di un correlato diritto di soggiorno, a prescindere dalle condizioni poste al riguardo
sul soggiorno e trattamento dei cittadini stranieri dal diritto interno (CGUE, sentenza 29.03.2012,
cause riunite C-7/10 e 9/10, CGUE, sentenza 29.09.2011, causa C-187/10, par. 30-31; sentenza
22.12.2010, causa C-303/08, par. 31 e 36; sentenza 25.09.2008, causa C-453/07, par. 25-26;
sentenza 18.12.2008, causa C-337/07, parr. 20-21; sentenza 18.7.2007, causa C-325/05, par. 56). Le
possibili implicazioni nel diritto interno italiano possono essere diverse : ad es. l’inapplicabilità’ nei
confronti dei lavoratori turchi regolarmente soggiornanti in Italia, una volta maturato il requisito di
anzianità di impiego o di residenza previsto dalle norme della decisione n. 1/80, della norma di cui
all’art. 22 c. 11 del d.lgs. n. 286/98 (T.U. immigrazione),13 relativa al c.d. “periodo di tolleranza”
nella condizione di disoccupazione, non inferiore ad un anno ovvero della durata della prestazione
di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero, qualora superiore, trascorso il quale le
questure possono procedere al diniego ad un ulteriore rinnovo del permesso di soggiorno.
Ugualmente, va disapplicata nei confronti dei lavoratori turchi o loro familiari che dispongano dei
citati periodi di anzianità lavorativa o di residenza la disposizione che prevede l’automatismo del
diniego al rinnovo del permesso di soggiorno in caso di condanna, anche non definitiva, per taluni
reati , in virtù del combinato disposto di cui all’art. 4 c. 3 e art. 5 c. 5 d.lgs. n. 286/98 (sul divieto di
ogni automatismo nel diniego al soggiorno in caso di condanna penale del beneficiario delle
disposizioni della decisione n. 1/80, si veda la sentenza della CGE 18 luglio 2007, causa C-325/05,
causa Derin).
13
La norma è stata oggetto di recente modifica con l’entrata in vigore il 18 luglio 2012 della legge di riforma del
mercato del lavoro ( legge 28 giugno 2012 n. 92 in Suppl. ordinario n. 136 alla G.U. n. 153 dd. 03.07.2012). In
proposito, cfr. http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2303&l=it .
13
In altri termini, il diniego o la revoca del soggiorno nei confronti del cittadino turco già impiegato
per il periodo di quattro anni, ovvero del familiare residente regolarmente da almeno cinque anni,
potrà avvenire solo per motivi di ordine pubblico, sicurezza nazionale o sanità pubblica, ovvero
quando l’interessato abbia lasciato lo Stato membro ospitante per un periodo significativo e senza
motivi legittimi. Dal diritto assoluto all’impiego consegue anche un diritto a continuare a
soggiornare nel Paese membro UE (diritto alla continuità del soggiorno).14
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha avuto un ruolo decisivo
nell’interpretazione della nozione di lavoratore beneficiario della decisione n. 1/80, ove la Corte ha
precisato che trattandosi
di uno strumento di diritto comunitario, la nozione deve avere un
autonomo significato, senza che abbia rilevanza la natura giuridica sui generis del rapporto di
lavoro rispetto al diritto nazionale degli Stati membri.
l’interpretazione della
nozione
La Corte dunque ha mutuato
di lavoratore già adottata con riferimento
al lavoratore
comunitario, come colui che esercita un’attività’ economica reale ed effettiva, per la quale riceve
una remunerazione abituale, senza riguardo anche della eventuale modesta entità della medesima,
purché
sia svolta nel pieno rispetto del quadro giuridico. Dunque, sono stati attratti nella
condizione di lavoratore ai sensi della Decisione n. 1/80 anche gli studenti, qualora esercitino
attività di lavoro a tempo parziale nel corso dei loro studi come consentito dalla legge nazionale, i
giovani “alla pari”, gli apprendisti e i tirocinanti, i quali, maturando l’anzianità’ lavorativa prevista
dalla Decisione, sono dunque titolari del diritto alla continuità di soggiorno e alla conversione del
titolo di soggiorno anche in deroga alla normativa nazionale sull’immigrazione (si vedano i casi di
giurisprudenza della CGE, sentenza 24 gennaio 2008, Payir Akyuz Ozturk c. Regno Unito, causa C294/06; sentenza 19 nov. 2002, Kurz c. Germania, causa C-188/00).
14
Un’altra ipotesi astratta potrebbe essere quella del richiedente asilo turco, che sia stato autorizzato a svolgere attività
lavorativa in ragione del perdurare della procedura di riconoscimento dello status per più di sei mesi (art. 11 d.lgs. n.
140/2005 di recepimento della direttiva n. 2003/9/CE) e ove al termine di un anno di impiego, il medesimo datore di
lavoro intenda rinnovare il rapporto di impiego. In tal caso, anche in caso di successivo diniego al riconoscimento della
protezione internazionale ed esaurimento dei mezzi di ricorso, il cittadino turco non potrà essere allontanato ed avrà
diritto alla conversione del permesso di soggiorno in quello per motivi di lavoro, nonostante l’espresso divieto frapposto
dal citato art. 11 del d.lgs. n. 140/2005, in quanto tale norma dovrà essere disapplicata in relazione a quella di valore
superiore di cui alla decisione n. 1/80 dell’Accordo di Associazione. Qualora, tuttavia, il diniego al riconoscimento
della protezione internazionale intervenga prima del decorrere dell’anno di impiego presso il datore di lavoro e
l’interessato completi tale periodo di impiego solo in ragione del rinnovo del permesso di soggiorno consentito a seguito
dell’espletamento delle misure di ricorso giurisdizionale, la giurisprudenza della CGE sembrerebbe propendere per la
non applicabilità delle disposizioni di cui alla decisione n. 1/80. Si vedano in proposito i paragrafi da 11 a 18 e i
paragrafi 21 e 22 della sentenza nel caso Kus c. Germania, causa C-237/91, dd. 16.12.1992. Al riguardo, si può citare
anche la sentenza della CGE, 20.09.2007, causa Tum Dari c. Regno Unito, C-16/05, ove l’applicazione delle norme
riferite all’Accordo di Associazione CEE-Turchia (in questo caso però la clausola di standstill riferita alla libertà di
stabilimento di cui all’art. 41 del Protocollo addizionale) hanno impedito il trasferimento dei due richiedenti asilo verso
la Francia, paese competente ad esaminare la richiesta di asilo in applicazione del Regolamento Dublino.
14
La correlazione tra diritto assoluto d’impiego e diritto di soggiorno si riflette, nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, in un’analoga interpretazione estensiva del
principio di non-discriminazione in materia di condizioni di lavoro (art. 10 Decisione) alle
condizioni amministrative volte al rinnovo dell’autorizzazione al soggiorno, con l’ulteriore
importante precisazione che l’art. 13 della decisione (clausola di standstill) vieta l’applicazione nei
confronti dei lavoratori turchi e dei loro familiari di nuove restrizioni in materia rispetto alla
situazione in vigore al momento dell’entrata in vigore della decisione medesima. 15
Tale interpretazione è stata fatta propria dalla Corte di Giustizia europea nelle recenti
sentenze 17 settembre 2009, causa C-242/06 e 29 aprile 2010, causa C-92/07, nelle quali la Corte ha
concluso per l’illegittimità dell’applicazione nei confronti dei lavoratori turchi e loro familiari della
normativa olandese sull’immigrazione che impone una tassa amministrativa di importo pari a 169
euro per il rinnovo del permesso di soggiorno dei cittadini extracomunitari, essendo tale importo
sproporzionato rispetto ai diritti di natura amministrativa richiesti per la registrazione del soggiorno
dei cittadini dell’Unione europea. L’analogia con la situazione italiana è evidente, nel momento in
cui anche nel nostro Paese il rinnovo del soggiorno del cittadino extracomunitario è assoggettato al
pagamento di tasse e diritti amministrativi ben più elevati rispetto a quelli richiesti per l’iscrizione
anagrafica ed il rilascio del relativo attestato dei cittadini dell’UE che esercitano il diritto alla libera
circolazione e soggiorno.
15
Così, nella sentenza Tum Dari c. Regno Unito, dd. 20.09.2007, causa C-16/05, la CGE conclude che le autorità del
Regno Unito dovevano esaminare un’istanza di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo
presentata da parte di due richiedenti asilo turchi provenienti dalla Francia ove pertanto le autorità inglesi volevano
respingerli in ossequio al “Regolamento Dublino”, e tale esame doveva essere compiuto sulla base delle norme
sull’immigrazione in vigore nel Regno Unito al 1 gennaio 1973, data di entrata in vigore del Protocollo addizionale
all’Accordo di Associazione che contiene la clausola di standstill riferita alla libertà di stabilimento, anziché a quelle
più restrittive in vigore al momento della presentazione dell’istanza. Questo con la conseguenza che gli interessati
avrebbero avuto diritto al rilascio del permesso di soggiorno, consentendo le norme in vigore allora nel Regno Unito la
possibilità di un rilascio in loco dell’autorizzazione al soggiorno per motivi di lavoro autonomo, senza previa richiesta
di un apposito visto d’ingresso per specifici motivi di lavoro. In sostanza, la clausola di standstill non opera come
norma sostanziale, cioè non fonda un diritto al soggiorno, ma come norma procedurale, che stabilisce, ratione temporis,
quali sono le disposizioni della normativa di uno Stato membro alla luce delle quali occorre valutare la situazione di un
cittadino turco che intende avvalersi della proroga del soggiorno per motivi di lavoro subordinato ovvero autonomo in
uno Stato membro. Ugualmente, con la sentenza del 21 luglio 2011, nella causa Ogüz contro Regno Unito (causa C186/10), la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha concluso che l’art. 41, n. 1 del Protocollo addizionale
all’Accordo di Associazione CEE-Turchia, che prevede la clausola di standstill, può essere invocata anche dal cittadino
turco che abbia intrapreso nello Stato membro dell’Unione europea un’attività di lavoro autonomo, nonostante il suo
soggiorno in detto Paese sia stato autorizzato con l’espressa condizione che egli non avvii attività di natura commerciale
o professionale. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, non ha rilievo quale sia la
condizione di soggiorno del cittadino turco nel Paese membro, alla data in cui presenta la domanda di stabilimento, in
quanto la condizione di standstill non gli conferisce un diritto sostanziale al soggiorno per motivi di lavoro non
subordinato nel Paese membro, ma solo un diritto procedimentale, cioè la garanzia che nell’esaminare la sua istanza lo
Stato membro dovrà fare riferimento alla normativa sull’immigrazione in vigore all’entrata in vigore del Regolamento
CEE 19.12.1972, n. 2760 (GU CE L 293), con il quale il Protocollo addizionale e’ stato approvato e ratificato a nome
della Comunità europea, senza tenere conto delle eventuali restrizioni operate successivamente dalla legislazione
sull’immigrazione dello Stato membro. Al riguardo si veda anche la più recente sentenza dd. 15.11.2011 della Corte di
Giustizia europea nella causa Dereci e altri c. Austria, C-256/11.
15
In altri termini, la citata giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, secondo cui il
principio di parità di trattamento previsto dall’art. 10 della Decisione n. 1/80 prescrive un obbligo
di risultato, richiede dunque un’interpretazione estesa anche alle condizioni e requisiti relativi al
rinnovo delle autorizzazioni al soggiorno, che costituiscono il presupposto per l’esercizio
dell’attività’ lavorativa. Ne consegue, a maggior ragione, l’inapplicabilità’ ai lavoratori turchi e loro
familiari delle norme di cui al T.U. immigrazione e al regolamento di applicazione concernenti il
“contratto di soggiorno”, ovvero l’art. 13 comma 2 bis del d.P.R. n. 394/99: «Il rinnovo del
permesso di soggiorno per motivi di lavoro e’ subordinato alla sussistenza di un contratto di
soggiorno per lavoro, nonché alla consegna di autocertificazione del datore di lavoro attestante la
sussistenza di un alloggio del lavoratore, fornito dei parametri di idoneità alloggiativa di cui
all’art. 5 bis c. 1 lett. A) del Testo unico». Ugualmente, il lavoratore turco cui venga eventualmente
revocato il permesso di soggiorno per il mancato soddisfacimento dei requisiti previsti dal c.d.
“Accordo di integrazione” o “permesso di soggiorno a punti”, di cui all’art. 4 bis del d.lgs. n.
286/98 (T.U. immigrazione),
16
potrebbe eventualmente invocare la tutela offertagli dalla clausola
di stansdstill della decisione dell’Accordo di associazione CE-Turchia, costituendo le norme
sull’accordo di integrazione una restrizione in materia di soggiorno dello straniero successiva
all’entrata in vigore della decisione n. 1/80.
Gli studiosi del diritto comunitario tendono a sottolineare la specificità delle norme di cui
alle decisioni del Consiglio d’Associazione CE-Turchia. Ne consegue che tende ad essere esclusa
una trasposizione automatica dell’interpretazione estensiva ivi adottata con riferimento al principio
di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro in relazione pure alle condizioni di
soggiorno, alle clausole analoghe contenute negli altri accordi di associazione della CE con Stati
terzi. Questo tanto più che negli altri accordi di associazione sottoscritti nell’ambito dell’«Unione
17
così come in quelli sottoscritti
nell’ambito del processo di allargamento dell’Unione europea,
è solitamente contenuta una
mediterranea» (EUROMED), già “processo di Barcellona”,
clausola di salvaguardia della legislazione interna dello Stato membro in materia di immigrazione e
condizioni per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero. A titolo di esempio
si può citare la dichiarazione comune relativa all’art. 64 par. 1 dell’Accordo euromediterraneo di
associazione CE-Tunisia: “Non si potrà invocare l’art. 61 par. 1 per quanto riguarda l’assenza di
16
Introdotto dal c.d. “pacchetto sicurezza” di cui alla legge 15 luglio 2009, n. 94, all’art. 1 comma 25 e reso esecutivo
con il D.P.R. 14 settembre 2011, n. 179 recante il Regolamento concernente la disciplina dell'accordo di integrazione
tra lo straniero e lo Stato a norma dell'articolo 4-bis, comma 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(pubblicato sulla G.U. dell' 11 novembre 2011, n. 263) .
17
Per informazioni sulla Partnership euro-mediterranea si veda al link ufficiale della Commissione europea:
http://www.eeas.europa.eu/enp/index_en.htm
16
discriminazioni in materia di licenziamenti, per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. Il
rilascio, il rinnovo o il rifiuto del permesso di soggiorno è disciplinato unicamente dalla
legislazione di ciascuno Stato membro, nonché dagli accordi e dalle convenzioni bilaterali”).18
Ugualmente, l’art. 45 dell’Accordo di Associazione tra CE e Croazia prevede il principio di parità
di trattamento e di non discriminazione in materia di condizioni di lavoro, retribuzione e
licenziamento per i cittadini croati regolarmente impiegati in uno Stato membro, ma questo va letto
e reso compatibile con la disposizione di cui al successivo art. 63 che fa salva la possibilità per le
Parti di applicare le rispettive leggi e disposizioni in materia di ingresso e soggiorno, lavoro,
condizioni di lavoro e stabilimento delle persone fisiche, nonché di prestazione dei servizi. 19
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha fornito alcuni criteri interpretativi essenziali
riguardo alla conciliazione tra clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro e
clausola di salvaguardia delle normative interne sull’immigrazione.
Con riguardo alle norme contenute negli accordi di associazione con Bulgaria, Slovacchia e
Polonia, preliminari all’ingresso di tali Paesi nell’UE, la Corte di Giustizia ha concluso che le
restrizioni applicate al diritto di stabilimento dalle norme delle Stato membro in materia di
immigrazione devono essere idonee a realizzare l’obiettivo previsto e non costituire, rispetto al
medesimo, un intervento che possa pregiudicare la sostanza dei diritti alla parità di trattamento
riconosciuti ai cittadini bulgari, slovacchi e polacchi (sentenza 16.11.2004, Panayotova e altri c.
Paesi Bassi, causa C-327/02). Nel caso specifico, la Corte concluse che il principio di parità di
trattamento in materia di stabilimento (esercizio dell’attività’ di lavoro autonomo) prevista dagli
accordi di associazione non ostava all’applicazione delle normativa sull’immigrazione dei Paesi
Bassi che prevedeva il rilascio preventivo di un visto o permesso temporaneo da parte delle
rappresentanze consolari olandesi all’estero, purché la procedura sia di facile accesso e tale da
garantire che la domanda venga trattata in tempi ragionevolmente rapidi ed in modo oggettivo ed
imparziale, consentendo un sistema di controlli preventivi volto a verificare che l’interessato abbia
un’effettiva intenzione di avviare un’attività di lavoro autonomo, senza svolgere altra attività di
lavoro dipendente, ne’ ricorrere a sussidi pubblici, disponendo di mezzi economici sufficienti e
ragionevoli probabilità di successo.
18
Il testo dell’Accordo è reperibile al link: http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:21998A0330%2801%29:IT:HTML
19
Accordo di stabilizzazione e di associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la
Repubblica di Croazia, dall'altra , in G.U.C.E. L 026 dd. 28 gennaio 2005.
17
Riassumendo i termini della questione, la politica immigratoria viene esclusa dal campo
materiale di questi accordi di associazione o cooperazione, rimanendo entro la competenza dei soli
Stati membri. Tuttavia, le condizioni di ammissione al soggiorno fissate dagli Stati membri non
devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’accesso dei cittadini dei
Paesi terzi
interessati dagli accordi di Associazione o cooperazione, in maniera da privarli dei diritti previsti da
tali accordi.20
Ancor più significativa, la sentenza Gattoussi c. Germania dd. 14.12.2005 (causa C-97/05),
ove i giudici di Lussemburgo hanno concluso che la norma sulla parità di trattamento in materia di
condizioni di lavoro e di licenziamento di cui all’Accordo euromediterraneo CE-Tunisia doveva
essere interpretata nel senso che essa è idonea a produrre effetti sul diritto di soggiorno di un
cittadino tunisino nello Stato membro, qualora il detto cittadino sia stato autorizzato da tale Stato ad
esercitare un’attività lavorativa per un periodo eccedente alla durata della sua autorizzazione al
soggiorno. Nel caso in specie, dunque, la norma comunitaria dell’Accordo di associazione sulla
parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro e di licenziamento, di diretta ed immediata
applicabilità nell’ordinamento interno degli Stati membri, deve prevalere e dunque disapplicare la
normativa interna sull’immigrazione tedesca che prevede la possibilità di revoca del permesso di
soggiorno al venire meno dei presupposti per il suo rilascio (nel caso in specie si trattava di un
cittadino tunisino autorizzato a svolgere un’attività di lavoro con contratto a tempo indeterminato, e
al quale era venuto meno la comunione di vita coniugale con la cittadina tedesca prima del
maturare del termine di due anni stabilito dalla legge tedesca per acquisire un diritto autonomo al
soggiorno).
Di particolare interesse, inoltre, la giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo concernente
l’applicazione della clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro, di
retribuzione e di licenziamento di taluni accordi di Associazione o di partenariato rispetto alle
norme di diritto sportivo contenenti limitazioni alla partecipazione di sportivi professionisti di
Paesi terzi alle competizioni nazionali. Nel caso Kolpak c. la Federazione tedesca di pallamano, la
Corte di Giustizia ha giudicato incompatibili con la clausola di parità di trattamento in materia di
condizioni di lavoro, contenuta nell’Accordo di Associazione CE-Slovacchia,
21
le norme della
federazione tedesca di pallamano (DHB) che impedivano l’impiego negli incontri di campionato e
di coppa di più di due giocatori di Paesi terzi non membri dell’UE.
20
CGE, sentenza 27.09.2001, Kondova, causa C-235/99; CGE, sentenza 27.09.2001, Barkoci e Malik, causa C-257/99;
CGE, sentenza 27.09.2001, Gloszczuk, causa C-63/99 (riguardanti gli accordi di associazione CE-Bulgaria, CEPolonia, CE-Slovacchia).
21
Art. 38 , n. 1 dell’Accordo europeo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da
una parte, e la Repubblica Slovacca, dall’altra (G.U. L 359, pag. 1).
18
Facendo riferimento al precedente caso Pokrzeptowicz-Meyer (causa C-162/00), la Corte ha ritenuto
che non vi era ragione per interpretare la portata della clausola di parità di trattamento in materia di
condizioni di lavoro contenuta nell’Accordo di associazione CE-Slovacchia secondo modalità
diverse dalla parità di trattamento prevista per i cittadini dell’Unione europea e i loro familiari e
fondata sul diritto alla libera circolazione di cui al TCE. Poiché con la precedente sentenza Bosman
(dd. 15 dicembre 1995, causa C-415/93), la Corte di Giustizia aveva affermato l’incompatibilità con
il divieto di discriminazioni tra lavoratori di Paesi membri delle norme emanate da associazioni
sportive aventi portata restrittiva sulle condizioni di impiego degli sportivi professionisti non
nazionali appartenenti ad altri Stati membri, non vi era dunque ragione per non trasporre il
medesimo ragionamento e la medesima portata applicativa all’analoga clausola di parità di
trattamento prevista dall’Accordo di Associazione con riferimento agli sportivi di nazionalità
slovacca impiegati in uno Stato membro. Così come nella causa Bosman, la Corte di Giustizia
ritenne irragionevoli ed obiettivamente infondate le analoghe considerazioni esclusivamente
sportive avanzate dalla federazione sportiva tedesca.
Ad analoghe conclusioni sono giunti i giudici di Lussemburgo con riferimento alla clausola di parità
di trattamento contenuta nell’Accordo di partenariato Comunità europea - Russia.22 Ci si riferisce
alla sentenza dd. 12 aprile 2005, nella causa C-265/03 (Simutenkov c. Ministero educazione e
cultura del Regno di Spagna e Federazione spagnola gioco calcio). In questo caso, avente per
oggetto l’impossibilità per un calciatore professionista di nazionalità russa, il sig. Simutenkov,
tesserato con un club professionistico spagnolo, di conseguire la licenza federale identica a quella di
cui dispongono i calciatori comunitari, la Corte ha accentuato maggiormente un criterio
interpretativo
di
tipo
letterale
rispetto
a
quello
teleologico-sistematico
prefigurato
nell’interpretazione della clausola contenuta negli accordi di associazione con Paesi candidati
all’allargamento dell’UE. In sostanza, la Corte non ha dato importanza al fatto che, contrariamente
all’accordo di associazione Comunità - Slovacchia, l’accordo di partenariato Comunità – Russia
non ha l’obiettivo di creare un’associazione al fine della progressiva integrazione dello Stato terzo
in questione nella Comunità europee con conseguente affermazione del diritto alla libera
circolazione, ma solo quello più modesto della realizzazione della «progressiva integrazione tra la
Russia e una più vasta zona di cooperazione in Europa». Infatti, «la lettera dell’art. 23 n. 1
dell’Accordo esprime, in termini chiari, precisi ed incondizionati, il divieto di discriminazione
fondato sulla nazionalità (sottolineatura nostra)», così dunque da legittimare un’interpretazione
analoga a quella adottata nella sentenza Deutscher Handballbund.
22
Art. 23 n. 1 dell’Accordo di partenariato Comunità-Russia, entrato in vigore il 1 dicembre 1997 (G.U. L 327 pag. 1).
19
E’ del tutto evidente, pertanto, che sportivi professionisti di Paesi terzi residenti ed
impiegati in Paesi membri dell’UE e titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti,
magari in ragione del fatto di far parte delle c.d. ‘seconde generazioni’, potrebbero ora fare ricorso
a questi precedenti giurisprudenziali della Corte di Lussemburgo per sostenere la tesi della
trasposizione dell’interpretazione adottata con riferimento alla clausola di parità di trattamento già
contenuta nei Trattati CE a favore dei cittadini comunitari (causa Bosman) e a quella contenuta
negli accordi di associazione (cause Deutscher Handballbund e Simutenkov) alla clausola di non
discriminazione di cui all’art. 11 c 1 lett. a della direttiva n. 109/2003/CE.23
3. Il principio di parità di trattamento e di non discriminazione nel settore della sicurezza sociale
a) I familiari dei cittadini dell’Unione europea.
Abbiamo già ricordato in precedenza come il familiare del cittadino dell’Unione che esercita
il diritto alla libera circolazione muovendosi da un Paese all’altro dell’Unione europea gode, al pari
del cittadino dell’Unione, del principio di parità di trattamento nel campo di applicazione del
trattato (art. 24 direttiva n. 2004/38/CE).
Questo livello di protezione così elevato è dipendente dal legame familiare intessuto con il cittadino
dell’Unione che ha esercitato il diritto alla libera circolazione. In altri termini, non si tratta di un
diritto autonomo, bensì derivato da quello di cui gode il cittadino dell’Unione.24 Tale carattere di
diritto o garanzia “derivata” e non “autonoma” è stato chiarito dalla Corte di Giustizia europea fin
dalla sentenza Singh del 1992 (07.07.1992, C-370/90), nella quale la Corte faceva presente che un
cittadino comunitario poteva essere dissuaso dall’esercitare il diritto alla libera circolazione qualora
non potesse farsi raggiungere o accompagnare dai membri della sua famiglia. In altri termini, ai
familiari dei cittadini comunitari sono stati accordati diritti al fine di proteggere quest’ultimi, e il
loro godimento è condizionato dall’esercizio della libertà di circolazione del cittadino europeo
ovvero dall’ esigenza di tutela della cittadinanza europea posseduta dal cittadino dell’Unione.
Con la direttiva 2004/38/CE sono stati realizzati, tuttavia, notevoli progressi nel
riconoscimento di un diritto di soggiorno “autonomo” dei cittadini di Paesi terzi familiari del
23
“Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a)
l’esercizio di un’attività’ lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale
la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di
licenziamento e di retribuzione”.
24
Tale garanzia non era prevista all’inizio del processo di unificazione europea, ma venne introdotta solo
successivamente a partire dal regolamento 38/64, seguito dal regolamento (CEE) n. 1612/68.
20
cittadino dell’Unione. Infatti, la direttiva prevede che il loro diritto al soggiorno sia mantenuto in
caso di divorzio, annullamento del matrimonio o rottura della partnership registrata o di decesso del
cittadino dell’Unione, a certe condizioni
25
, tra cui specialmente quella di possedere la qualità di
lavoratore o di disporre di risorse sufficienti e di un’assicurazione di malattia per tutti i membri
della famiglia.26
La Corte di Giustizia europea ha, tuttavia, elaborato un’ulteriore e più favorevole ipotesi di
soggiorno del familiare del cittadino dell’Unione, collegandolo non alla direttiva n. 2004/38/CE,
ma all’art. 12 del Regolamento n. 1612/68 riferito al diritto all’istruzione del figlio del cittadino
dello Stato membro 27. Con la sentenza Baumbast, i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che il
figlio di un lavoratore comunitario migrante gode di un diritto di soggiorno qualora intenda
proseguire gli studi nello Stato membro ospitante, anche se il lavoratore comunitario migrante
stesso non risiede o non lavora più in tale Stato membro. Inoltre, questo diritto si estende anche al
genitore che abbia l’effettivo affidamento del figlio, anche qualora questi non abbia conservato la
qualità di lavoratore, né disponga di risorse stabili e sufficienti. Da tale garanzia “indiretta” di
soggiorno deriva anche la garanzia di accesso alle prestazioni di assistenza sociale in condizioni di
parità di trattamento con i cittadini nazionali.28 Tale diritto di soggiorno gli deriva esclusivamente
dall’art. 12 del Regolamento n. 1612/68 in quanto genitore titolare della potestà genitoriale su un
cittadino dell’Unione che prosegue i suoi studi nello Stato membro ospitante. Il fatto dunque che il
figlio del cittadino dell’Unione frequenti un istituto scolastico consente il collegamento con l’art. 12
del Regolamento n. 1612/68, distinguendo la condizione del genitore da quella del semplice
cittadino dell’Unione o suo familiare “inattivo” di cui all’art. 7 comma 1 lett. b) della direttiva n.
2004/38/CE e non richiedendo dunque il soddisfacimento delle condizioni richieste a quest’ultimo,
ovvero le risorse economiche sufficienti e l’assicurazione sanitaria completa.
Tale orientamento giurisprudenziale è stato consolidato nelle successive
sentenze Ibrahim e
Texeira del 23.02.2010 (cause C-310/08 e 480/08). La prima sentenza ha riguardato una cittadina
somala, che aveva raggiunto nel Regno Unito il congiunto, un cittadino di uno Stato membro
dell’Unione, la Danimarca, e lavoratore migrante nel primo Stato, e dalla cui unione erano nati
quattro figli di cittadinanza danese. A seguito della separazione e del rientro nel Paese di origine del
cittadino danese, la sig.ra Ibrahim ha avuto in affido i figli, due dei quali frequentanti le scuole
25
Art. 13 c. 2 punti da a) a d) della direttiva 2004/38.
Art. 13 c. 1 punto d) l. 2 della direttiva 2004/38.
27
Art. 12 Regolamento n. 1612/68/CEE: “I figli del cittadino di uno Stato membro, che sia o sia stato occupato nel
territorio di un altro Stato membro, sono ammessi a frequentare i corsi di insegnamento generale, di apprendistato e di
formazione professionale alle stesse condizioni previste per i cittadini di tale Stato, ei i figli stessi vi risiedono”
(Disposizione ora sostituita dall’art. 10 del regolamento (UE) n. 492/2011).
28
CGE, sentenza del 17.09.2002 (causa C-413/99).
26
21
pubbliche. Non economicamente autosufficiente e dipendente interamente dall’assistenza sociale,
ha chiesto alle autorità inglesi un sussidio all’alloggio per sé e per i figli. Tale domanda veniva
respinta dalle autorità inglesi che contestavano lo stesso diritto dell’interessata e dei suoi figli a
soggiornare nel Regno Unito in forza del diritto dell’Unione europea e, specificatamente, della
direttiva n. 2004/38.
La Corte di Giustizia ha accolto il ricorso proposto dalla cittadina somala, riconoscendogli il diritto
al soggiorno, non per motivi diretti, quanto “indiretti” o “derivati”, in relazione cioè al diritto
all’istruzione dei figli, e fondato quindi esclusivamente sull’art. 12 del Regolamento n. 1612/68, che
la direttiva n. 2004/38 non ha abrogato. Da tale diritto ‘derivato’ di soggiorno, a prescindere da ogni
altra condizione di esercizio o meno di attività lavorativa o di presenza o meno di risorse
economiche e/o di copertura sanitaria,
consegue pure
la garanzia di accesso ai benefici
dell’assistenza sociale in condizioni di parità di trattamento con i cittadini nazionali.29 In altri
termini, con la sentenza Ibrahim la Corte statuisce che la concessione del diritto di soggiorno ai figli
e al genitore affidatario non è soggetta ad una condizione di autosufficienza economica ovvero alla
condizione che il genitore disponga di risorse sufficienti affinché non divenga un onere eccessivo a
carico dell’assistenza sociale nello Stato membro ospitante. Infine, in risposta ad un’altra questione
sollevata nell’altra causa vagliata congiuntamente dalla Corte, Texeira c. Regno Unito, diretta a
sapere se il diritto di soggiorno del genitore ‘inattivo’ non economicamente autosufficiente venga
meno con la maggiore età del figlio, la Corte ha ricordato che l’art. 12 del Regolamento n. 1612/68
non pone limiti di età nei diritti all’istruzione conferiti ai figli dei lavoratori comunitari per cui essi
permangono sino alla fine degli studi. Conseguentemente, permane anche il diritto ‘derivato’ e
‘incondizionato’ al soggiorno del genitore, quando, anche dopo il compimento della maggiore età
del figlio, quest’ultimo continui a necessitare della presenza e delle cure del genitore per poter
proseguire e terminare gli studi.
29
Vale la pena notare che tali situazioni previste dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea non sono state
incorporate nel diritto interno italiano. Così, le disposizioni amministrative diramate dal Ministero della Sanità in merito
alla necessità della copertura sanitaria privata richiesta ai cittadini comunitari ‘inattivi’ o che non possono più
avvalersi della qualifica di ‘lavoratori’ ovvero ai cittadini dell’Unione, già familiari di cittadini dell’Unione, che
richiedono un autonomo titolo di soggiorno in qualità di “inattivi”, nei casi previsti dalla direttiva n. 2004/38, non
prevedono l’eccezione prevista dalla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia europea a favore dei genitori
affidatari di cittadini dell’Unione che esercitano il diritto all’istruzione, e che pertanto dovrebbero essere iscritti
obbligatoriamente al SSN. Presenta tale lacuna anche il recente, e pur altamente apprezzabile, documento intitolato
“Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte
delle Regioni e Province Autonome italiane” ed elaborato congiuntamente dai tecnici delle Regioni e P.A. in
collaborazione con il Ministero della Salute, con la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni e con l’INMP con il
coordinamento dell'Osservatorio Disuguaglianze della Regione Marche (documento disponibile al link:
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1803&l=it ).
22
Avendo in considerazione il già citato principio del divieto di ‘discriminazioni alla rovescia’ che
potrebbero prodursi a danno dei cittadini italiani per effetto del sovrapporsi dell’ordinamento
comunitario su quello interno, tale principio di piena parità di trattamento in materia di prestazioni
di assistenza sociale deve ritenersi esteso anche a favore del cittadino di Paese dell’Unione o di
Paese terzo, già congiunto di un cittadino italiano, e affidatario di minori avuti in comune
frequentanti istituti scolastici, formativi o universitari.
b) I cittadini di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti
(direttiva n. 109/2003/CE).
Rientra nel campo di applicazione del diritto dell’Unione europea anche il principio di
parità di trattamento in materia di accesso alle prestazioni di assistenza sociale
tra cittadini
nazionali e cittadini stranieri di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di
lungo periodo, di cui alla direttiva n. 2003/109/CE. L’art. 11 c. 1 lettera d) di tale direttiva prevede
che "Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento del cittadino nazionale per
quanto riguarda…le prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della
legislazione sociale…Gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di
assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali".
L'Italia ha recepito tale direttiva con il D.lgs 3/2007 che ha sostituito l'art. 9 del d.lgs. 286/98 (TU
Immigrazione).
L’art. 9 TU immigrazione prevede che il titolare del permesso per lungo soggiornanti può "usufruire
delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, … salvo che sia diversamente disposto
e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale…Il
soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto
riguarda (…) d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della
legislazione nazionale”.
L’Italia, nel recepire la normativa europea, non si è avvalsa della facoltà di limitazione prevista
dalla direttiva, non avendo operato in sede di ricezione alcuna distinzione tra le varie prestazioni
riconosciute e non riconosciute ai soggiornanti di lungo periodo. Ne’ si potrebbe ritenere che la
formulazione –certamente ambigua ed imprecisa – dell’art. 9 del T.U. imm., introdotta dal d.lgs. n.
3/2007, possa consentire al legislatore una clausola derogatoria “in bianco”, suscettibile di fare
salve le clausole di cittadinanza per l’accesso a prestazioni di assistenza sociale eventualmente
23
previste anche da normative precedenti all’entrata in vigore della direttiva. Se così fosse verrebbe
intaccato il principio del primato della norma comunitaria su quella interna incompatibile, ovvero
della necessità di interpretazione della norma interna in maniera conforme al dettato di quella
comunitaria.
Al riguardo, la Corte di Giustizia europea, nella recente sentenza dd. 24 aprile 2012 (causa C571/10, Kamberaj c- Istituto per l‘Edilizia Sociale della Provincia autonoma di Bolzano/Provincia
autonoma di Bolzano/Bozen), ha ricordato che dal momento che il diritto dei cittadini dei paesi
terzi lungo soggiornanti al beneficio della parità di trattamento nelle materie elencate dalla direttiva
costituisce la regola generale ed investe un diritto fondamentale quale quello all’uguaglianza,
qualsiasi deroga al riguardo deve essere interpretata restrittivamente e può essere invocata
unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale
direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersene. La Corte di Giustizia europea
evidenzia nella sentenza come non risulti che la Repubblica italiana abbia manifestato, in sede di
recepimento della direttiva n. 109/2003 nella propria legislazione nazionale, la propria intenzione di
ricorrere alla deroga alla parità di trattamento, riservando quest’ultima alle sole prestazioni
essenziali. In altri termini, la Corte di Giustizia pare riconoscere che l’art. 9, comma 12, del d.lgs.
n. 286/98 non può essere interpretato come fondante una deroga al principio di parità di trattamento
nella materia delle prestazioni di assistenza sociale previsto a favore dei lungo soggiornanti.30
D’altra parte l’individuazione delle prestazioni non essenziali sottratte al regime di parità
non è rimessa alla discrezionalità del legislatore (nazionale o regionale che sia).
Al considerando 13 della direttiva si legge infatti che: “Con riferimento all’assistenza
sociale, la possibilità di limitare le prestazioni per soggiornanti di lungo periodo a quelle essenziali
deve intendersi nel senso che queste ultime comprendono almeno un sostegno di reddito minimo,
l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine.
30
In particolare paragrafi 86-88:
“86 Inoltre, occorre rilevare che, dal momento che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo
negli Stati membri ed il diritto di tali cittadini al beneficio della parità di trattamento nei settori elencati all’articolo 11,
paragrafo 1, della direttiva 2003/109 costituiscono la regola generale, la deroga prevista dal paragrafo 4 di tale
articolo deve essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenza del 4 marzo 2010, Chakroun, C-578/08,
Racc. pag. I-1839, punto 43).
87 Al riguardo occorre rilevare che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare
la deroga prevista all’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 unicamente qualora gli organi competenti
nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi
della deroga suddetta.
88 Dal fascicolo di causa a disposizione della Corte non risulta che la Repubblica italiana abbia manifestato la propria
intenzione di ricorrere alla deroga al principio della parità di trattamento prevista dall’articolo 11, paragrafo 4, della
direttiva 2003/109”.
24
Le modalità di concessione di queste prestazioni dovrebbero essere determinate dalla legislazione
nazionale.”
Vi sono dunque nella direttiva indicazioni rispetto alle quali lo Stato membro gode di una
discrezionalità in termini “quantitativi” (essendo certamente libero di stabilire, ad esempio, con
riferimento al primo istituto elencato nel “considerando”, quale sia il reddito minimo fino al quale
garantire il sostegno) ma vi sono vincoli imposti “per materia”: per la gravidanza, la famiglia e le
persone che necessitano di assistenza a lungo termine, se l’ordinamento interno decide di istituire
una prestazione, questa andrà considerata essenziale per il solo fatto di rivolgersi ad una di tali
speciali categorie di destinatari. In altri termini, ad esempio, non si possono distinguere forme di
assistenza alla gravidanza o alla funzione genitoriale che siano essenziali e altre che non lo sono.
Si possono citare alcuni esempi di applicazione giurisdizionale del principio di parità di
trattamento a favore dei lungo soggiornanti : Tribunale di Bolzano, ordinanza 11 giugno 2009, n.
379/09: “L’art. 11 della direttiva europea n. 109/2003, per il suo immediato contenuto precettivo,
(…), può senz’altro considerarsi norma di immediata precettività nel nostro ordinamento
giuridico”,31 in con riferimento ad una delibera della Provincia autonoma di Bolzano che riservava
unicamente ai cittadini nazionali e comunitari l’accesso a contributi per la frequenza di corsi per
l’apprendimento di lingue straniere; Tribunale di Gorizia, ordinanza n. 271/2011 dd. 30.06.2011
con riferimento ad una normativa regionale del FVG che subordinava l’accesso al fondo di sostegno
alle locazioni ad un requisito di anzianità di residenza decennale in Italia 32; Tribunale di Gorizia,
ordinanza n. 212/2011 dd. 26.05.2011 con riferimento ad una normativa regionale del FVG che
subordinava l’accesso ad un assegno di natalità ad un requisito di anzianità di residenza decennale
in Italia e quinquennale nella Regione33;
01.10.2010,
34
Tribunale di Gorizia, ordinanza n. 351/2010 dd.
con riferimento alla normativa nazionale che esclude i cittadini di Paesi terzi non
membri dell’UE dal beneficio dell’assegno INPS per i nuclei familiari numerosi, poi confermata in
sede di reclamo con ordinanza
dd. 07.12.2010 n. 506/2010 35 e successivamente in sede di primo
giudizio di merito con sentenza n. 63/2012 dd. 3 maggio 2012.
questione
36
Sempre con riferimento alla
dell’assegno INPS per i nuclei familiari numerosi, si vedano anche le più recenti
ordinanze del Tribunale di Padova dd. 5.12.2011 37, quelle del Tribunale di Milano dd. 16.07.2012
31
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=573&l=it.
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1718&l=it
33
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1643&l=it
34
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1195&l=it .
35
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1317&l=it .
36
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2233&l=it
37
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1947&l=it
32
25
38
, dei Tribunali di Genova dd. 24.09.2012, di Tortona dd. 22.09.2012 39 e di Verona dd. 17.10.2012
40
.
Permangono dunque nella nostra legislazione nazionale in materia di welfare, i seguenti esempi
di violazione del principio di parità di trattamento nei confronti dei lungo soggiornanti di cui alla
direttiva n. 109/2003:
•
L’art. 65 l. n. 448/98 (assegno INPS ai nuclei familiari numerosi con almeno tre figli minori)
(clausola di cittadinanza, italiana o di un paese membro dell’UE): discriminazione diretta;
•
L’art. 81 d.l. n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008 (c. 32) (“carta acquisti”
riservata agli anziani over 65 e bambini under 3 – clausola di cittadinanza italiana ):
discriminazione diretta;
•
L’art. 19 comma 18 legge n. 2/2009 (“carta bambini”: rimborso delle spese per pannolini e
latte artificiale - clausola di cittadinanza italiana): discriminazione diretta;
•
L’art. 11 comma 13 della legge n. 133/2008, che ha convertito, con modificazioni, il
decreto-legge n. 112/2008, modificativo dell’art. 11 della legge n. 431/98 prevede ora per i
soli cittadini stranieri (extraUE) l'accesso al Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni
in locazione vincolato al requisito del possesso del certificato storico di residenza da
almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima
regione - discriminazione diretta;
•
L’art. 20 c. 10 d.l. n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008 (requisito di anzianità di
residenza decennale in Italia ai fini dell’accesso all’assegno sociale a partire dal 1 gennaio
2009) – discriminazione indiretta o dissimulata fondata sulla residenza . 41
38
Scaricabili dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2308&l=it
Scaricabili dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2387&l=it
40
Scaricabile al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2434&l=it
41
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea nel caso Lucy Stewart contro Secretary of State for Work and
Pensions (Regno Unito) (dd. 21 luglio 2011, causa C-503/09), può fornire utili spunti a sostegno della tesi
dell’incompatibilità delle norme in materia di accesso all’assegno sociale introdotte dal legislatore italiano con la legge
n. 133/2008 e facenti riferimento al requisito di pregressa residenza decennale in Italia, con il principio di parità di
trattamento fra i cittadini dell’Unione europea e i loro familiari, nonché a favore delle altre categorie di cittadini di Stati
terzi protetti dal diritto dell’Unione europea. Il caso concerneva il diniego notificato ad una cittadina britannica dalle
autorità del suo Paese all’accesso ad una prestazione per inabilità temporanea per giovani disabili per mancanza del
requisito di soggiorno pregresso nel territorio del Regno Unito per un periodo di almeno 26 settimane nell’arco delle 52
settimane immediatamente precedenti la data di presentazione della domanda. Sebbene il contenzioso riguardava il
rapporto tra un cittadino di uno Stato membro e le autorità del suo paese, la Corte di Giustizia UE ha applicato il suo
orientamento oramai consolidato, secondo cui i principi della cittadinanza europea e le libertà e i diritti fondamentali ad
essa connessi, vengono a tutelare anche il cittadino nazionale nei suoi rapporti con lo Stato di appartenenza, quando la
39
26
situazione presenta elementi di transnazionalità, ovvero quando ci si trovi in presenza di una normativa nazionale che
svantaggia taluni propri cittadini per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno
in altro Stato membro. Questo, in quanto la finalità delle disposizioni, primarie o derivate, del diritto dell’Unione
europea in materia di libertà di circolazione e stabilimento è quella di “contribuire ad eliminare tutti gli ostacoli per
l’instaurazione di un mercato comune nel quale i cittadini degli Stati membri possano spostarsi liberamente nel
territorio degli Stati stessi al fine di svolgere le loro attività economiche” (CGE, sent. 27 ottobre 1982, cause 35 e
36/82). Quindi la situazione della sig.ra Lucy Stewart, cittadina britannica che si era vista negare la prestazione di
inabilità perché non aveva soggiornato per un periodo sufficiente nel Regno Unito prima di presentare la domanda, in
quanto soggiornava in altro Stato membro, la Spagna, non poteva ritenersi una situazione puramente interna, bensì, al
contrario, contrassegnata dagli elementi di transnazionalità richiesti per invocare il diritto dell’Unione europea e
contestare alle autorità britanniche che la normativa poneva una restrizione alla libertà riconosciute dall’art. 21, n. 1 del
TFUE ad ogni cittadino dell’Unione e dunque ivi compresi i propri cittadini nazionali . Tale restrizione doveva essere
sottoposta, con riferimento al diritto dell’Unione, al vaglio di obiettività e proporzionalità solitamente richiesto per la
valutazione delle forme di disparità di trattamento di natura indiretta, ovvero avrebbe potuto ritenersi giustificata solo
se sorretta da considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e proporzionate allo
scopo legittimamente perseguito. A tale riguardo, il Regno Unito aveva evidenziato che il requisito del pregresso
soggiorno mirava a soddisfare il legittimo interesse dello Stato a garantire, da un lato, l’esistenza di un nesso effettivo
tra Stato membro e beneficiario della prestazione, quest’ultima avendo le caratteristiche di una prestazione assistenziale
a carattere non contributivo e venendo richiesta da una persona “inattiva”, e, dall’altro l’equilibrio finanziario del
sistema nazionale di sicurezza sociale. La Corte di Giustizia ha ritenuto che entrambi gli scopi perseguiti potevano dirsi
legittimi in quanto aventi natura obiettiva e che il requisito di soggiorno pregresso poteva anche dirsi coerente rispetto
al raggiungimento dei medesimi, in quanto il nesso effettivo tra lo Stato membro ed il richiedente la prestazione ben
poteva essere verificato da un’anzianità di soggiorno pregressa. Tuttavia, il carattere esclusivo del requisito di anzianità
di soggiorno fa concludere la Corte nella direzione della mancata soddisfazione del test di proporzionalità, in quanto il
requisito risulta eccessivo rispetto a quanto strettamente necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Secondo i
giudici di Lussemburgo, infatti, il nesso effettivo e ragionevole tra il richiedente la prestazione e lo Stato membro può
essere soddisfatto anche in altro modo, sulla base ad esempio delle relazioni esistenti tra il richiedente ed il sistema di
previdenza sociale dello Stato membro ( a tal riguardo la Corte evidenziava il fatto che l’interessata già beneficiava di
una prestazione di sicurezza sociale per disabili), dal contesto familiare dell’interessata e dai legami dei suoi familiari
stretti con il Paese membro (a tale riguardo la Corte evidenziava che la richiedente era a carico dei genitori che a loro
volta avevano svolto attività lavorativa nel Regno Unito e percepivano dal medesimo pensioni di vecchiaia) e dai
precedenti periodo di soggiorno nello Stato membro (la ricorrente aveva trascorso una parte significativa della sua vita
nel Regno Unito).
Resta solo da aggiungere che, se è vero che i criteri interpretativi di cui sopra sono stati affermati dalla giurisprudenza
della CGUE con riferimento al principio della cittadinanza europea e alle correlate libertà di circolazione e soggiorno,
nonché al divieto di discriminazioni su base di nazionalità tra cittadini dell’UE, pur tuttavia essi dovrebbero essere
suscettibili di estensione anche con riferimento alle altre categorie di cittadini di Paesi terzi che, in forza di norme di
diritto dell’UE, godono di un analogo principio di parità di trattamento, come appunto è il caso dei lungo soggiornanti,
ex direttiva n. 109/2003/CE.
La giurisprudenza comunitaria ha, difatti, chiarito che l’estensione dell’interpretazione di una disposizione del Trattato
europeo, quale il divieto di discriminazioni su basi di nazionalità tra cittadini dell’Unione europea e la parità di
trattamento nelle materie coperte dal diritto comunitario, a disposizioni, redatte in termini analoghi o simili, presenti in
altre norme di diritto comunitario, e rivolte a cittadini di Paesi terzi (ad es. gli Accordi di associazione con paesi
candidati all’ingresso nell’UE) dipende in particolare dallo scopo perseguito da ciascuna di tale disposizioni nel suo
ambito specifico (ad es. sentenza B. Pokrzeptowicz-Meyer c. Germania, 29 gennaio 2002, causa C-162/00, paragrafo
33). Orbene, nel considerando n. 4 alla direttiva europea n. 109/2003, si legge che finalità della direttiva medesima è
l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo, la quale costituisce un elemento cardine per la
promozione della coesione economica e sociale e dunque un obiettivo fondamentale dell’Unione europea medesima.
Tale finalità verrebbe ovviamente vanificata se il principio della parità di trattamento in materia di accesso alle
prestazioni di welfare venisse subordinato ad una condizione di anzianità di residenza di durata addirittura superiore a
quella prevista per il conseguimento del titolo di soggiorno (cinque anni).
Un ulteriore ipotesi di incompatibilità con il diritto UE del draconiano requisito di anzianità di residenza introdotto con
l’art. 20 c. 10 del D.L. n. 112/2008 ai fini dell’accesso all’assegno sociale, viene proposta da S. Giubboni, secondo cui
“potrebbe essere sufficiente a depotenziare l’aspro requisito territoriale imposto dal legislatore italiano, una corretta
interpretazione del principio della totalizzazione dei periodi di cui all’art. 6 del Regolamento n. 883/2004“. Ne consegue
che, allorché il compimento di periodi di residenza sia necessario ai fini dell’acquisizione del diritto alla prestazione, si
dovrebbe continuare a prendere in considerazione in sede di totalizzazione tutti i periodi di residenza maturati sul
territorio degli altri Stati membri; cfr. Stefano Giubboni, Il diritto alla sicurezza sociale fra frontiere nazionali e
solidarietà europea, in Immigrazione.it. Rivista professionale on –line di scienze giuridiche e sociali, n. 175 dd. 1
settembre 2012, pp. 5-6.
27
b) La parità di trattamento per i cittadini di Paesi terzi, gli apolidi e i rifugiati alla luce del
Regolamento (UE) n. 1231/2010 (gia’ Regolamento (CE) n. 859/2003).
Già il Regolamento CE n. 859/2003 aveva esteso i Regolamenti (CEE) n. 1408/71 e (CEE)
n. 574/72, in materia di coordinamento dei regimi legali di sicurezza sociale degli Stati membri, ai
cittadini di Paesi terzi cui tali regolamenti non erano già applicabili unicamente a causa della
nazionalità. Nelle prestazioni di sicurezza sociale coperte dal principio di parità di trattamento di cui
al
Regolamento CEE n. 1408/71
sono state incluse, per effetto dell’evoluzione
della
giurisprudenza della CGE, anche quelle prestazioni ora definite dall’art. 70 del Regolamento n.
883/2004 come “miste”, perché aventi carattere assistenziale da un lato in quanto non sorrette da
meccanismi contributivi e finanziate dalla fiscalità generale, ma che dall’altro costituiscono diritti
soggettivi, in quanto criteri e condizioni per l’accesso sono regolati dalla normativa interna senza
margini di discrezionalità lasciati alle Pubbliche Amministrazioni. Per quanto concerne i cittadini di
Paesi terzi, il Regolamento n. 1408/71/CEE ne prevedeva l’applicabilità’ unicamente ai familiari di
cittadini comunitari, agli apolidi e ai rifugiati e loro familiari e superstiti.
Di recente, i Regolamenti n. 1408/71 e 574/72 sono stati sostituiti rispettivamente dal Regolamento
(CE) n. 883/2004 e n. 987/2009, così come il Regolamento (CE) n. 859/2003 è stato abrogato ad
opera del Regolamento (UE) n. 1231/2010.
La portata dell’estensione operata dal regolamento CE n. 859/2003 del 14 maggio 2003 è
stata talvolta interpretata in maniera non corretta dalle autonomie regionali e dalla giurisprudenza
italiane. Tale regolamento comunitario è stato invocato dapprima dal Tribunale di Trento, sent. 29
ottobre 2004, in seguito dalla deliberazione 27 giugno 2006 della Giunta provinciale di Bolzano, a
sostegno della tesi della totale equiparazione dei cittadini di paesi terzi legalmente soggiornanti ai
cittadini in materia di accesso alle prestazioni sociali, e dunque del superamento della barriera del
possesso della carta di soggiorno imposta dall’art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000 (prima ancora
che la Corte Costituzionale si pronunci sull’illegittimità costituzionale di tale norma).
La tesi, che occasionalmente ha trovato poi accoglimento anche presso altri giudici del
lavoro (da ultimi Tribunale di Brindisi, sentenza dd. 24.01.2012 n. 295/12;42
Tribunale di
Firenze, ordinanza n. 2940 dd. 9 agosto 2011 riferita all’assegno di maternità comunale per una
42
Scaricabile al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2108&l=it
28
donna apolide)43, non tiene conto del tradizionale principio del diritto comunitario del limite delle
situazioni puramente interne. Sebbene il titolo del regolamento possa trarre in inganno, il testo non
manca infatti di precisare che "le disposizioni del regolamento 1408/71 e regolamento n. 574/72
non si applicano ad una situazione i cui elementi si collochino tutti all'interno di un solo Stato
membro. Ciò vale in particolare quando la situazione di un cittadino di un paese terzo presenta
unicamente legami con un paese terzo ed un solo Stato membro" (paragrafo 12 dei "considerando",
ugualmente anche nel testo del nuovo regolamento UE n. 1231/2010). In particolare l'art. 1 dello
stesso Regolamento prevede che tale principio di eguaglianza di trattamento si applica ai cittadini di
paesi terzi, nonché ai loro familiari e superstiti, "purché risiedano legalmente nel territorio di uno
Stato membro e si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all'interno
di un solo Stato membro". In altre parole, un cittadino extracomunitario potrebbe ad esempio
avvalersi della parità di trattamento riconosciuta dal presente regolamento solo dopo aver trasferito
il proprio soggiorno legale da uno Stato membro ad un altro, così come reso possibile, ad esempio,
in base alla direttiva n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi
terzi soggiornanti di lungo periodo (capo III). Tali cittadini di paesi terzi, "lungo soggiornanti" ai
sensi della direttiva, ed i loro familiari, beneficiano, peraltro, della parità di trattamento in materia
di assistenza sociale, in virtù già delle disposizioni della direttiva medesima (art. 11 c. lett. d),
anche se, come abbiamo visto, questa parità di trattamento può
essere limitata alle prestazioni
definite “essenziali” ai sensi del significato attribuito a tale espressione dalla direttiva medesima.
Di conseguenza il citato regolamento CE può soccorrere esclusivamente in quelle
situazioni in cui si dimostri che il cittadino extracomunitario, attualmente residente legalmente in
Italia e richiedente la prestazione, abbia già soggiornato legalmente in altro Paese membro prima di
giungere in Italia.
Del resto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha pienamente confermato tale
interpretazione, anche con riferimenti ai rifugiati e agli apolidi, che pure erano già inseriti nel
novero dei beneficiari delle disposizioni del regolamento originario n. 1408/71. Nel caso Khalil c.
Germania del 11.10.2001 (cause riunite C-95/99, C-98/99, C-180/99), ove era in discussione la
domanda di talune prestazioni familiari formulata al competente ente tedesco da parte di alcuni
rifugiati politici e apolidi, la Corte di Giustizia riconobbe l’infondatezza del riferimento al
regolamento n. 1408/71 in ragione del fatto che i richiedenti, pur a pieno titolo inclusi nell’ambito
applicativo ratione personae del regolamento quali rifugiati o apolidi, si erano stabiliti direttamente
43
Scaricabile al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1778&l=it
29
in Germania provenendo dai rispettivi Paesi di origine, senza avere successivamente circolato
all’interno dell’Unione europea.
c) I rifugiati e i titolari di protezione sussidiaria
Rientra nel campo di applicazione del diritto dell’Unione europea anche il principio di parità di
trattamento in materia di accesso all’assistenza sociale tra cittadini nazionali e beneficiari dello
status di rifugiato o di protezione sussidiaria, di cui alla direttiva 29 aprile 2004 n. 2004/83/CE,
attuata in Italia con il d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251. L’art. 28 di detta direttiva stabilisce infatti
che “1. Gli Stati membri provvedono affinché i beneficiari dello status di rifugiato o di protezione
sussidiaria ricevano, nello Stato membro che ha concesso tali status, adeguata assistenza sociale,
alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione 2. In via d’eccezione alla regola generale
di cui al paragrafo 1, gli Stati membri possono limitare l’assistenza sociale per i beneficiari della
protezione sussidiaria alle prestazioni essenziali, che in tal caso sono offerte allo stesso livello e
alle stesse condizioni di ammissibilità previste per i cittadini dello Stato membro in questione”.
La portata di tale diritto alla parità di trattamento del rifugiato e del titolare di protezione sussidiaria
è ulteriormente chiarita dal considerando n. 33 introduttivo al testo della direttiva medesima, nel
quale si afferma: “Per scongiurare soprattutto il disagio sociale, è opportuno offrire ai beneficiari
dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, senza discriminazioni nel quadro dei servizi
sociali, assistenza sociale e mezzi di sostentamento adeguati” (sottolineature nostre).
Nel recepire la normativa comunitaria, l’Italia non si è avvalsa della facoltà di limitare alle sole
prestazioni essenziali l’accesso da parte dei titolari di protezione sussidiaria alle prestazioni di
assistenza sociale in condizioni di parità di trattamento con i cittadini italiani, prevedendo invece
espressamente che “I titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno
diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino in materia di assistenza sociale e
sanitaria” (art. 27 d.lgs. n. 251/2007).
Permangono dunque nella nostra legislazione nazionale in materia di welfare, gli esempi di
violazione del principio di parità di trattamento nei confronti dei rifugiati e dei titolari della
protezione sussidiaria di cui alla direttiva n. 2004/83 già richiamati con riferimento allo status dei
cittadini di Paesi terzi lungo soggiornanti, con l’unica eccezione dell’assegno INPS per i nuclei
familiari numerosi (almeno tre figli minori a carico), avendo tale questione trovato soluzione,
sebbene tardivamente, per via amministrativa , con la circolare INPS n. 9 dd. 22 gennaio 2010. In
30
aggiunta, appare in evidente violazione del principio di parità di trattamento l’esclusione dei
rifugiati e dei titolari della protezione sussidiaria dall’accesso alla nuova “carta acquisti”, introdotta
in via sperimentale nei Comuni con più di 250 mila abitanti dall’art. 60 della legge 4 aprile 2012 n.
35 di conversione del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 :”Disposizioni urgenti in materia di
semplificazione e di sviluppo. 44 L’inclusione dei cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea
e dei cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti tra i beneficiari della nuova prestazione sociale,
sebbene apprezzabile, non appare sufficiente a garantire la piena conformità del provvedimento agli
obblighi derivanti dal rispetto del diritto dell’Unione europea.
d) Il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale previsto dagli Accordi di
associazione euro-mediterranei.
Rientrano nel campo di applicazione del diritto comunitario anche le clausole di "non
discriminazione" in materia di sicurezza sociale contenute negli Accordi di Associazione
euromediterranei stipulati tra la Comunità Europea e i relativi Stati terzi. Si tratta, nello specifico,
degli Accordi euromediterranei che istituiscono un'Associazione tra le Comunità Europee e i loro
Stati membri, da un lato, e rispettivamente la Repubblica Tunisina, il Regno del Marocco e
l'Algeria, dall'altro, tutti ratificati con legge e vincolanti per l'Italia in quanto membro della CE (ora
UE).
Tali accordi, infatti, contengono espressamente una clausola di parità di trattamento nella
materia della "sicurezza sociale".
A titolo di esempio, l'art. 68 dell'Accordo euromediterraneo con l'Algeria firmato il 22 aprile 2002
ed entrato in vigore il 10 ottobre 2005 (e clausole del tutto analoghe sono contenute negli accordi
con Marocco firmato il 26.02.1996 ed entrato in vigore il 01.03.2000 e Tunisia firmato il
17.07.1995 ed entrato in vigore il 01.03.1998, ma non invece in quelli sottoscritti con Egitto,
Israele, Regno di Giordania, Palestina) prevede che "1....i lavoratori di cittadinanza algerina e i
loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale, di un regime caratterizzato
dall'assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati
membri nei quali essi sono occupati. 2. Il termine "sicurezza sociale" include i settori della
sicurezza sociale che concernono le prestazioni relative alla malattia e alla maternità,
all'invalidità, le prestazioni di vecchiaia e per i superstiti, i benefici relativi agli infortuni sul
44
Pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 82 del 6 aprile 2012. Suppl. ord. n. 69.
31
lavoro, alle malattie professionali, al decesso, le prestazioni relative alla disoccupazione e quelle
familiari". Il successivo art. 69 specifica quali sono i destinatari della previsione sulla parità di
trattamento ovvero "i cittadini delle parti contraenti residenti o legalmente impiegati nel territorio
dei rispettivi paesi ospiti", fissando dunque l'unico requisito della residenza o dell'attività lavorativa
legale svolta nel territorio della parte contraente. 45
E' opportuno ricordare al riguardo l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza
della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale innanzitutto tali disposizioni concernenti il
divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità nella materia della sicurezza sociale sono di
immediata e diretta applicabilità nell’ordinamento degli Stati membri e hanno il rango di norme di
diritto derivato del diritto comunitario, fonte dunque di obblighi e diritti, imponendo dunque la
disapplicazione delle norme interne eventualmente confliggenti o incompatibili (in tal senso la
causa di riferimento e’ Kziber c. Germania, sentenza CGE 31 gennaio 1991, causa C-18/90).
La seconda importante questione interpretativa risolta dalla Corte di Giustizia europea e’ stata
quella riguardante la nozione di "sicurezza sociale" contenuta nei citati Accordi euromediterranei
- ed ancor prima negli accordi di cooperazione che li hanno preceduti-, che deve essere intesa allo
stesso modo dell'identica nozione contenuta nel regolamento CEE n. 1408/71 (ora Regolamento CE
n. 883/2004). Come abbiamo già accennato in precedenza, tale regolamento, dopo le modifiche
apportate dal Regolamento del Consiglio 30/4/1992 n. 1247, include nella nozione di "sicurezza
sociale" oltre alle “prestazioni familiari” ovvero quelle “prestazioni in natura o in denaro destinate
a compensare i carichi familiari “ (ora art. 1 lett. z) Reg. CE n. 883/2004), anche le "prestazioni
speciali a carattere non contributivo", definite ora prestazioni “miste” ai sensi dell’art. 70 del
Regolamento n. 883/2004/CE, [incluse quelle] destinate alla tutela specifica delle persone con
disabilità, [...] ed elencate nell'allegato II bis (ora allegato X)".
Per quanto concerne l‘Italia,
questo allegato menziona espressamente quelle prestazioni che costituiscono diritti soggettivi in
base alla legislazione vigente in materia di assistenza sociale cioè la pensione sociale, le pensioni e
le indennità ai mutilati ed invalidi civili, ai sordomuti, ai ciechi civili, gli assegni per assistenza ai
pensionati per inabilità.
Al riguardo, si vedano a solo titolo di esempio le conclusioni tratte dalla Corte di Giustizia
Europea nella sentenza sul caso Henia Babahenini c. Belgio (dd. 15/01/1998, causa C-113/97). La
Corte era stata interpellata dal giudice nazionale belga in merito all'applicabilità della clausola di
45
Informazioni e riferimenti sulla pubblicazione dei testi degli Accordi di associazione euro-mediterranei negli organi
ufficiali dell’Unione europea possono essere reperiti al link:
http://europa.eu/legislation_summaries/external_relations/relations_with_third_countries/mediterranean_partner_countr
ies/r14104_it.htm
32
non-discriminazione in materia di "sicurezza sociale" prevista dal precedente accordo di
cooperazione tra Comunità Europee e Algeria, firmato nel 1976 e poi sostituito dall'Accordo
euromediterraneo di Associazione, in riferimento ad una prestazione sociale non contributiva per
disabilità. La Corte così si esprime:
"Per quanto riguarda,.., la nozione di previdenza sociale che figura in questa disposizione, dalla
citata sentenza Krid (punto 32) e, per analogia, dalle citate sentenze Kziber (punto 25), Yousfi
(punto 24) e Hallouzi-Choco (punto 25) risulta che essa va intesa allo stesso modo dell'identica
nozione contenuta nel regolamento n. 1408/71. Ora dopo la modifica operata dal regolamento
(Cee) del Consiglio 30/04/1992 n. 1247, il regolamento n. 1408/71 menziona esplicitamente all'art.
4, n. 2 bis, lett. b ) (vedi anche l'art. 10 bis, n. 1, e l'allegato II bis di questo regolamento), le
prestazioni destinate a garantire la tutela specifica dei minorati. Del resto, anche prima di questa
modifica del regolamento n. 1408/71, costituiva giurisprudenza costante, sin dalla sentenza
28/5/1974, causa 187/73, Callemeyn (Racc. p. 553), che gli assegni per minorati rientravano
nell'ambito di applicazione ratione materiae di questo regolamento... Di conseguenza, il
principio,..., dell'accordo, che vieta qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza nel campo
della previdenza sociale dei lavoratori migranti algerini e dei loro familiari con essi residenti
rispetto ai cittadini degli Stati membri in cui essi sono occupati comporta che le persone cui si
riferisce questa disposizione possono aver diritto agli assegni per minorati alle stesse condizioni
che devono essere soddisfatte dai cittadini degli Stati membri interessati" .
Con riferimento alla normativa belga sul reddito minimo garantito per le persone anziane,
l'equivalente dell'assegno sociale italiano, e che escludeva da tale provvidenza i cittadini stranieri a
meno che non beneficino già di una pensione di invalidità o di reversibilità, la Corte di Giustizia
Europea, ord. 17 aprile 2007 (caso Mamate El Youssfi c. Office National des Pensions) ha concluso
che "l'art. 65, n. 1, primo comma, dell'Accordo euromediterraneo che istituisce un'associazione tra
le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco, dall'altra, firmato
a Bruxelles il 26 febbraio 1996 e approvato a nome delle dette Comunità con la decisione del
Consiglio e della Commissione 24 gennaio 2000, 2000/204/CE, CECA, deve essere interpretato nel
senso che esso osta a che lo Stato membro ospitante rifiuti di accordare il reddito minimo garantito
per le persone anziane ad una cittadina marocchina che abbia raggiunto i 65 anni di età e risieda
legalmente nel territorio del detto Stato, qualora costei rientri nell'ambito di applicazione della
succitata disposizione per avere essa stessa esercitato un'attività di lavoro dipendente nello Stato
membro di cui trattasi oppure a motivo della sua qualità di familiare di un lavoratore di
cittadinanza marocchina che è od è stato occupato in questo medesimo Stato".
33
Riguardo alla giurisprudenza italiana, c’è da segnalare la recente sentenza della Corte di
Cassazione italiana, n. 17966/2011, depositata il 1 settembre 2011,
legittimità ha compiuto
un revirement rispetto ad un
46
con la quale il giudice di
suo precedente orientamento
giurisprudenziale (ci si riferisce a Cass., sentenza n. 24278 dd. 29.09.2008). Nella recente sentenza,
la Suprema Corte prende finalmente atto della corretta portata applicativa della clausola di parità di
trattamento in materia di sicurezza sociale contenuta negli Accordi euromediterranei. La Cassazione
rigetta il ricorso dell’INPS contro la sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva
riconosciuto ad un cittadino marocchino regolarmente soggiornante in Italia ma privo della carta di
soggiorno o permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, il diritto alla pensione di inabilità
negatagli sulla base dell’art.. 80 c. 19 l. n. 388/2000. I giudici di legittimità sottolineano che la
Corte di Appello di Torino aveva correttamente applicato il principio del primato della norma
comunitaria contenuta negli Accordi di associazione CE-Marocco su quella interna confliggente,
nonostante la pensione di inabilità costituisca una prestazione assistenziale e non previdenziale.
Questo in quanto
“non vi è sovrapposizione tra il concetto comunitario di sicurezza sociale e
quello nazionale di previdenza sociale”. Infatti, prosegue la Corte di Cassazione “il concetto
comunitario di sicurezza sociale deve essere valutato alla luce della normativa e della
giurisprudenza comunitaria per cui deve essere considerata previdenziale una prestazione
attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale o discrezionale delle loro
esigenze personali, in base ad una situazione legalmente definita e riferita ad uno dei rischi
elencati nell’art. 4 c. 1 del Regolamento n. 1408/71, dove sono incluse le prestazioni di invalidità”.
La Corte di Cassazione, dunque, conclude che “la Corte di Appello di Torino aveva fatto una
corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale il giudice nazionale deve disapplicare
la norma dell’ordinamento interno, per incompatibilità con il diritto comunitario, sia nel caso in
cui il conflitto insorga con una disciplina prodotta dagli organi comunitari mediante Regolamento,
sia nel caso in cui il contrasto sia determinato da regole generali dell’ordinamento comunitario,
ricavate in sede di interpretazione dell’ordinamento stesso da parte della Corte di Giustizia
europea” (Cass. sentenza n. 26897/2009).
Già prima della sentenza di Cassazione dd. 1 settembre 2011, diversi tribunali di merito si erano
espressi a favore dell’applicabilità diretta nell’ordinamento italiano della clausola di parità di
trattamento e non discriminazione in materia di sicurezza sociale contenuta negli accordi di
associazione euro-mediterranei. Si possono citare al riguardo almeno le tre seguenti decisioni
giurisdizionali: Tribunale di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS (relativo
46
Scaricabile dal sito ASGI al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1789&l=it
34
all’assegno di invalidità);47 Tribunale di Verona, ordinanza 14 gennaio 2010, n. 745/09 (relativo
all’indennità speciale per i ciechi);
48
Corte di Appello di Torino, sentenza n. 1273/2007 dd.
14.11.2007 (relativa all’indennità di accompagnamento).
Successivamente alla sentenza della
Cassazione, nuove decisioni favorevoli dei Tribunali di merito sono seguite. Si possono citare al
riguardo: Tribunale di Tivoli, ordinanza dd. 15.11.2011, in merito all’accesso di una coniuge di
lavoratore marocchino all’assegno di maternità comunale;
49
Tribunale di Perugia, sentenza n.
825/2011, in merito all’accesso di un cittadino marocchino all’assegno di invalidità.50
E’ evidente, dunque, la fondatezza del ricorso alla clausola di parità di trattamento in materia
di sicurezza sociale contenuta in tali accordi di associazione euromediterranei per sostenere la tesi
dell’illegittimità e della conseguente disapplicazione della clausola di cittadinanza o del requisito
del permesso di soggiorno per lungosoggioranti ai fini dell’accesso a prestazioni “familiari” di
welfare previste dalla nostra legislazione nazionale quali l’assegno INPS per i nuclei familiari
numerosi, la “carta acquisti” per minori di anni 3, la nuova carta acquisti di cui al decreto
“Semplifica-Italia” e l’assegno di maternità comunale di cui all’art. 74 del d.lgs. n. 151/2001 .51
d) Il principio di non discriminazione nell’Accordo di associazione Turchia – Comunità economica
europea.
L'art. 3, n. 1 della decisione n. 3/80 del Consiglio di Associazione Turchia - Comunità
europea, intitolato «Parità di trattamento», che ricalca il tenore dell'art. 3, n. 1, del regolamento n.
1408/71, così dispone:
«1.
Le persone che risiedono nel territorio di uno degli Stati membri ed alle quali sono
applicabili le disposizioni della presente decisione, sono soggette agli obblighi e sono
ammesse al beneficio della legislazione di ciascuno Stato membro alle stesse condizioni dei
cittadini di tale Stato, fatte salve le disposizioni particolari della presente decisione».
47
Reperibile al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=documenti&id=849&l=it ;
Scaricabile dal link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=981&l=it
49
Scaricabile al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1901&l=it
50
Scaricabile al link: http://www.asgi.it/public/parser_download/save/trib_perugia_sent_825_2011.pdf
51
Del resto, in virtù del principio del primato del diritto comunitario sulle norme interne ad esso incompatibili e del
conseguente dovere di disapplicazione di queste ultime, l’INPS stesso avrebbe già dovuto estendere per via
amministrativa tali prestazioni ai beneficiari della clausola di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale di cui
agli accordi euro-mediterranei, così come effettuato a favore delle donne extracomunitarie familiari di cittadini italiani o
di Paesi membri dell’UE con riferimento all’assegno di maternità comunale, sebbene anche tale estensione sia avvenuta
con un ingiustificabile ritardo di tre anni rispetto al decreto di recepimento della direttiva europea n. 2004/38 (circolare
INPS n. 35 dd. 09/03/2010).
48
35
In base all’art. 2 della suddetta decisione n. 3/80 l’applicazione ratione personae riguarda i
lavoratori di cittadinanza turca assoggettati o che lo sono stati in passato alla legislazione di uno o
più Stati membri, i loro familiari residenti in uno Stato membro e i loro superstiti .
L'art. 4 della decisione n. 3/80, intitolato «Campo d'applicazione ratione materiae», prevede
l’applicazione del principio di non discriminazione a tutti i settori della sicurezza sociale
riconosciuti come tali dal Regolamento comunitario n. 1408/71 (ora Regolamento n. 883/2004).
Analogamente a quanto avvenuto per le clausole di parità di trattamento contenute negli
accordi di associazione euromediterranei di cui abbiamo già trattato, la giurisprudenza della Corte
di Giustizia europea ha riconosciuto anche a detta clausola contenuta nella decisione n. 3/80 il
carattere di un’obbligazione chiara, precisa ed incondizionata, giustificante dunque un effetto
diretto ed immediato negli ordinamenti degli Stati membri.
Riguardo alla nozione di “lavoratore”, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha
pure indicato che debba essere interpretata con riferimento all’art. 1 lett. a ) del Regolamento n.
1408/71, e quindi debba intendersi come «lavoratore» la persona assicurata, sia pure per un solo
rischio, in forza di un’assicurazione obbligatoria o facoltativa presso un regime previdenziale
generale o speciale e indipendentemente dall’esistenza attuale di un rapporto di lavoro (così CGE,
Sürül c. Germania, 4 maggio 1999).
Di conseguenza, la Corte di Giustizia europea ha riconosciuto il diritto di una lavoratrice
turca residente e legalmente soggiornante in Germania, ma con un permesso di soggiorno solo
provvisorio e non convertibile, di ricevere gli assegni familiare per il proprio figlio convivente alle
stesse condizioni previste per i cittadini tedeschi, disapplicando dunque la normativa tedesca
sull’immigrazione che condizionava l’accesso a tale beneficio per i cittadini stranieri di Paesi terzi
ad un’autorizzazione o permesso di soggiorno convertibile (Sentenza Sürül). In altri termini, la
clausola di parità di trattamento prescinde dalla natura del titolo di soggiorno
e dal diverso
consolidamento del soggiorno del lavoratore turco o del suo familiare nel Paese membro e non sono
ammesse distinzioni tra lavoratori regolarmente residenti con titoli di soggiorno temporanei e
lavoratori con titoli di soggiorno di lunga durata o permanenti.52 La prima applicazione
giurisprudenziale in Italia della decisione n. 3/80 dell’Accordo di Associazione CEE-Turchia si è
registrata di recente con l’ordinanza ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia dd. 16.07.2012
52
Anche in questo caso, pertanto, appare palese l’incompatibilità con la Decisione n. 3/80 del requisito del permesso di
soggiorno CE per lungo soggiornanti ai fini dell’accesso delle donne di nazionalità turca regolarmente soggiornanti in
Italia all’assegno di maternità comunale ex art. 74 d.lgs. n. 151/2001, nonché la loro esclusione dalla ‘social card’ e
dall’assegno INPS per i nuclei familiari numerosi.
36
(O.N. c. INPS, Comune di Fabbrico e Unione dei Comuni della Pianura Reggina). Con tale
ordinanza, il giudice del lavoro ha riconosciuto ad una cittadina turca regolarmente soggiornante in
Italia, con ordinario permesso di soggiorno e coniugata con un cittadino turco, pure lui regolarmente
soggiornante, il diritto all’erogazione dell’assegno di maternità comunale previsto dall’art. 74 del
d.lgs. n. 151/2001, pur in assenza del requisito del permesso di soggiorno per lungosoggiornanti di
cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286/98. Tale requisito, pur richiesto dalla normativa nazionale citata, si
pone evidentemente in contrasto con il principio di parità di trattamento di cui alla decisione n.
3/80 dell’Accordo di Associazione CEE/Turchia ed è quindi suscettibile di disapplicazione. 53
La Corte di Giustizia europea ha inoltre riconosciuto che la nozione di parità di trattamento di cui
alla decisione n. 3/80 vieta non solo le discriminazioni dirette fondate sulla nazionalità, ma anche
quelle indirette o dissimulate che, mediante l’applicazione di altri criteri distintivi, si risolvano di
fatto nello stesso risultato. Così, nella sentenza Őztürk c. Austria, la CGE ha ritenuto contraria al
principio di parità di trattamento la legislazione austriaca che condizionava l’accesso ad una
pensione di anzianità anticipata in caso di disoccupazione di lunga durata alla fruizione di
prestazioni di disoccupazione per un certo periodo nello Stato membro in questione, senza che
potessero essere tenute in considerazione prestazioni di disoccupazione fruite in altro Stato
membro. La Corte di Giustizia ritenne che tale requisito veniva a fondare una discriminazione
indiretta in quanto idoneo ad essere soddisfatto in misura proporzionalmente maggiore dai cittadini
nazionali (causa C-373/02, sentenza 28 aprile 2004, par. 56-58).54
4. Il diritto sociale all’abitazione
La parita’ di trattamento in materia di accesso all’abitazione a favore dei cittadini di Paesi terzi
soggiornanti di lungo periodo (direttiva n. 109/2003).
La direttiva n. 109/2003/CE sui lungo soggiornanti pone, sebbene in termini non privi di
ambiguità, un principio di parità di trattamento con i cittadini nazionali in materia di accesso al
diritto sociale all’abitazione. L’art. 11 comma 1 lett. f) della direttiva così prevede: “Il soggiornante
di lungo periodo
gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda
l’accesso ai beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, nonché alle
53
L’ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia è scaricabile al sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2310&l=it
In questo senso, dunque appare evidente l’inconciliabilità’ con la decisione n. 3/80 del requisito dell’anzianità’
decennale di residenza in Italia ai fini dell’accesso all’assegno sociale per gli ultra 65enni, introdotto dall’art. 20 c. 10
d.l. n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008, chiaro esempio di discriminazione indiretta o “dissimulata”.
54
37
procedure
per l’accesso all’abitazione” (“procedura per l’ottenimento di un alloggio” nella
traduzione italiana)”.
Il riferimento della norma alle procedure per l’ottenimento di un alloggio non deve trarre in
inganno. La disposizione europea non fonda soltanto un diritto procedurale a favore dei lungo
soggiornanti, cioè quello di concorrere alle selezioni per l’assegnazione di alloggi o per agevolare
l’accesso all’abitazione in generale, ma pure un diritto sostanziale, cioè quello di concorrere
all’assegnazione di alloggi o agli interventi volti ad agevolare l’accesso all’abitazione dei ceti
sociali sfavoriti o meno abbienti, in condizioni di piena parità di trattamento con i cittadini
nazionali.
La Commissione europea chiarisce la corretta portata della norma della direttiva nella lettera
del 7 aprile 2011 di costituzione in mora dell’Italia ex art. 258 TFUE, in relazione a due delibere
del Comune di Verona, risalenti al 2007, per la formazione della graduatoria per l'assegnazione
degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, con le quale sono state introdotte due apposite
maggiorazioni di punteggio: la prima a favore dei soli cittadini italiani residenti nel Comune di
Verona o che vi svolgono attività lavorativa principale da almeno 8, 10, 15 o 20 anni
(discriminazione diretta); la seconda a favore dei nuclei familiari composti esclusivamente da
persone di età superiore o uguale ad anni sessanta e con almeno un componente con età superiore
od uguale ad anni sessantacinque, purché residenti nel comune di Verona da almeno dieci anni
(discriminazione indiretta fondata sull’anzianità’ di residenza). In tale lettera, la Commissione
specifica che la nozione di "parità di trattamento" «per quanto riguarda l'accesso alla procedura
per l'ottenimento di un alloggio va interpretata conformemente all'obiettivo della direttiva e in
modo da ricomprendere il diritto sostanziale» . In altri termini, «l'accesso alla procedura non è un
fine in sé, ma solo il mezzo per concedere un diritto e, conformemente al considerando 12, la
direttiva 2000/109/CE costituisce un autentico strumento di integrazione sociale », per cui «tale
nozione deve pertanto comprendere anche il diritto sostanziale di accesso all'alloggio e va intesa
nel senso che garantisce lo stesso trattamento in relazione tanto alla procedura che all'accesso».55
A tale riguardo non si può evitare di sottolineare come si pongono in violazione del
suddetto principio di parità di trattamento a favore dei lungo soggiornanti una
parte delle
legislazioni regionali italiane in materia di edilizia residenziale pubblica, materia che la riforma
costituzionale dell’art. 117 della Cost. del 2001 ha assegnato alla competenza residuale esclusiva
delle Regioni. Ad esempio, la normativa regionale del Veneto non appare conforme al principio di
55
Il
testo
della
lettera
di
messa
in
mora
può
essere
scaricato
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/lettera_comm_eu_messa_mora_06042011.pdf
dal
sito
web:
38
parità di trattamento a favore dei lungo soggiornanti, nel momento in cui sottopone il diritto del
cittadino extracomunitario a concorrere all’assegnazione di alloggi ERP alla condizione di
reciprocità o, in alternativa, al requisito dello svolgimento di attività lavorativa alla data di scadenza
del bando ovvero nell’anno precedente, condizione questa non richiesta al cittadino italiano (l.r.
Veneto n. 10/1996). Per tale ragione, la Commissione europea ha aperto un procedimento
d’infrazione nei confronti della Repubblica Italiana, come evidenziato dalla lettera della Presidenza
del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Politiche europee dd. 3 maggio 2012. 56
Solo a seguito dell’apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea, con
la già citata lettera di messa in mora del marzo 2011, il legislatore regionale del Friuli-Venezia
Giulia ha provveduto a modificare la propria legislazione regionale che prevedeva un requisito di
anzianità di residenza decennale in Italia e quinquennale nella Regione. 57 Nella lettera di messa in
mora, la
Commissione europea sottolineava che «tali disposizioni regionali in forza delle quali
l'accesso agli alloggi di edilizia pubblica e a diverse misure di politica familiare sono subordinati
ad un determinato numero di anni di presenza sul territorio nazionale e/o regionale costituiscono
una discriminazione nei confronti dei soggiornanti di lungo periodo che risiedono abitualmente nel
territorio italiano, in violazione dell'articolo 11 paragrafo 1, lettere d) e f)». Infatti, secondo la
Commissione, «tale requisito è più facile da soddisfare per i cittadini italiani, tanto più che è stata
prevista una deroga specifica per i corregionali all'estero e i loro discendenti che abbiano
ristabilito la loro residenza in regione» per cui «tale norma equivale ad imporre ai soggiornanti di
lungo periodo un ulteriore requisito correlato alla durata del soggiorno in Italia per beneficiare
dei diritti di cui all'art. 11 della direttiva, nonostante tali diritti derivino direttamente dal permesso
di soggiorno di lungo periodo e vadano direttamente concessi al titolare del permesso di
soggiorno». 58 La nuova legislazione regionale del FVG, introdotta con la l.r. 16/2011, sostituisce i
diversi requisiti di anzianità di residenza ai fini dell’accesso all’edilizia residenziale sovvenzionata
e a talune prestazioni sociali familiari con un unico requisito di anzianità di residenza biennale nel
territorio regionale, valido tanto per i cittadini nazionali, quanto per i cittadini di altri Paesi membri
dell’UE così come per i cittadini di Paesi terzi titolari del permesso di soggiorno per lungo
soggiornanti di cui alla direttiva europea n. 109/2003 e i rifugiati, mentre per gli altri cittadini di
Paesi terzi non membri dell’UE viene previsto un requisito aggiuntivo di anzianità di residenza
quinquennale in Italia. Sebbene la Commissione europea abbia inteso chiudere il contenzioso con
la Regione FVG nell’ambito del procedimento n. 2001/2009 riferito ai soli profili di contrasto con
56
Scaricabile dal sito web: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2220&l=it
Art. 38 L.r. FVG n. 16/2008.
58
Cfr. nota 55 sopra.
57
39
la direttiva n. 109/2003, come si evince dalla citata lettera della Presidenza del Consiglio dei
Ministri dd. 3 maggio 2012, permarrebbero tuttora eventuali profili di incompatibilità della
legislazione regionale con le disposizioni dell’Unione europea in materia di libertà di circolazione e
soggiorno dei cittadini di Paesi membri e di eguaglianza di trattamento con i cittadini nazionali, già
sottolineati dalla Commissione europea nell’ambito della procedura EU Pilot 1770/11/JUST .59 Il
nuovo requisito di anzianità di residenza biennale sul territorio regionale, sebbene applicabile tanto
ai cittadini comunitari quanto a quelli nazionali, potrebbe infatti implicare profili di discriminazione
indiretta nei confronti dei primi, in quanto viene a colpire in misura proporzionalmente maggiore i
cittadini provenienti da altri Stati membri dell'UE che esercitano il diritto alla libera circolazione,
introducendo nei loro confronti una limitazione nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale
ben oltre il limite temporale di tre mesi consentito dalla direttiva n. 2004/38/CE (art. 24 c. 2).
Viola sicuramente la direttiva n. 109/2003, la normativa nazionale in materia di fondo per il
sostegno alle locazioni di cui alla legge n. 431/98. Come é noto, il comma 13 dell'art. 11 della
legge n. 133/2008, che ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge n. 112/2008 (misure
economico-finanziarie di stabilizzazione, il c.d. decreto “Tremonti”) ha introdotto una
discriminazione "diretta" nei confronti degli immigrati stranieri, disponendo che ai fini dell'accesso
ai finanziamenti del citato Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione venga
previsto per i soli stranieri extracomunitari il requisito del possesso del certificato storico di
residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella
medesima regione.
A sostegno di questa tesi,
appare la già ricordata recente sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea dd. 24 aprile 2012 (causa C-571/10, Kamberaj c- Istituto per l‘Edilizia Sociale
della Provincia autonoma di Bolzano/Provincia autonoma di Bolzano/Bozen). Con tale sentenza, la
Corte di Giustizia dell’Unione europea ha concluso che viola il diritto dell’Unione una normativa
nazionale o regionale, la quale – nell’ambito della distribuzione dei fondi destinati al sussidio per
l’alloggio – riservi ai cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti un trattamento diverso rispetto a
quello riservato ai cittadini dello Stato membro ove essi risiedono, a condizione che il sussidio per
l’alloggio rientri nelle materie assoggettate al principio della parità di trattamento previsto dalla
direttiva relativa ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo in base alla direttiva n.
109/2003 e costituisca una prestazione essenziale ai sensi di tale direttiva, circostanze queste il cui
accertamento è riservato al giudice nazionale.
59
Si veda in proposito lettera della Commissione europea, Direzione Generale Giustizia dd. 25 febbraio 2011,
scaricabile al link: http://www.asgi.it/public/parser_download/save/comm_europea_nota25022011.pdf
40
Il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia nasce da un’azione pregiudiziale avviata dal
Tribunale di Bolzano/Bozen con l’ordinanza n. 666 dd. 24 novembre 2010 in merito ai requisiti di
accesso al ‘sussidio casa’, l’equivalente nella Provincia autonoma di Bolzano dei contributi per il
sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione finanziati per il tramite dei Comuni ai sensi della
legge n. 431/1998 (“Fondo locazioni”).
Per mezzo di tale ordinanza, il giudice di Bolzano aveva chiesto ai giudici di Lussemburgo
se potesse ritenersi compatibile con il principio di parità di trattamento di cui alla direttiva n.
109/2003 il trattamento differenziato riservato ai lungo soggiornanti nell'accesso al “sussidio casa”,
tanto con riferimento ai criteri di ripartizione delle risorse, suddivise tra cittadini italiani e
comunitari da un lato e cittadini di Paesi terzi dall’altro in modo da sfavorire proporzionalmente i
secondi rispetto ai primi a parità di fabbisogno abitativo, quanto all'ulteriore requisito richiesto ai
soli cittadini extracomunitari di svolgimento dell'attività lavorativa per almeno tre anni.60
La Corte di Giustizia europea si è innanzitutto soffermata sull’ambito di applicazione della direttiva
n. 109/2003 per quanto riguarda la parità di trattamento dei soggiornanti di paesi terzi di lungo
periodo rispetto ai cittadini dello Stato membro di residenza in materia di previdenza sociale,
assistenza sociale o protezione sociale, così come previsto dall’art. 11 par. 1 della direttiva n.
109/2003. Dal momento che il legislatore dell’Unione ha inteso rispettare le peculiarità degli Stati
membri, tali nozioni sono definite dalla legislazione nazionale, nel rispetto, tuttavia, del diritto
dell’Unione. Ne consegue che spetta al giudice nazionale valutare se un sussidio per l’alloggio
rientri nella materia dell’assistenza e protezione sociale contemplate dalla direttiva, tenendo conto
sia dell’obiettivo di integrazione perseguito dalla direttiva stessa sia delle disposizioni della Carta
dei diritti fondamentali. Al riguardo, infatti, la Corte di Giustizia ricorda che nella sua valutazione il
giudice dovrà tenere conto che la direttiva europea sui lungo soggiornanti deve essere interpretata
alla luce dei suoi obiettivi di integrazione sociale richiamati nel considerando n. 4 del preambolo
ove si legge: “L’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati
membri costituisce un elemento cardine per la promozione della coesione sociale, obiettivo
fondamentale della Comunità enunciato nel trattato”. Ugualmente, la Corte ricorda come gli Stati
membri debbano ritenersi vincolati nella materia dall’art. 34 paragrafo 3 della Carta europea dei
diritti fondamentali, in quanto essa trova diretta ed immediata efficacia ed applicazione nei
confronti degli Stati membri quando essi attuano, così come in questo caso, il diritto dell’Unione .
Tale norma della Carta, infatti, “riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza
60
Il testo dell’ordinanza del Tribunale
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1321&l=it
di
Bolzano/Bozen
può
essere
scaricato
dal
sito
web:
41
abitativa volte a garantire un ‘esistenza dignitosa e tutti coloro che non dispongano di risorse
sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazione e prassi nazionali”.
Tenendo in considerazione tali riferimenti, appare dunque difficile che il “sussidio casa” ovvero i
contributi tratti dal “fondo locazioni”, non possano essere considerati quali prestazioni di
assistenza sociale secondo il diritto nazionale, avendo in considerazione la funzione che tali istituti
hanno di garantire l’accesso al diritto sociale all’abitazione, riconosciuto quale diritto fondamentale
della persona umana, «connotato della forma costituzionale di uno Stato sociale voluto dalla
Costituzione», secondo quanto sancito dalla nostra giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 209
del 2009 e n. 404 del 1988; ordinanza n. 76 del 2010 e da ultimo sentenza n. 61/2011).
La Corte di Giustizia europea ricorda che, ai sensi della direttiva n. 109/2003 -art. 11 paragrafo 4nei settori dell’assistenza sociale e della protezione sociale, gli Stati membri possono limitare
l’applicazione della parità di trattamento alle prestazioni essenziali. Tali prestazioni – tra le quali
figurano il sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia o di gravidanza, l’assistenza
parentale e l’assistenza a lungo termine per effetto del considerando n. 13 del Preambolo alla
direttiva medesima– devono essere concesse in modo identico ai cittadini dello Stato membro
interessato e ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo secondo modalità di
attribuzione determinate dalla legislazione nazionale di detto Stato membro che possono dunque
incidere solo sulle condizioni soggettive di accesso al di fuori della cittadinanza, sul livello delle
prestazioni nonché sulle relative procedure (paragrafo 89).
Poiché la direttiva non detta un elenco esaustivo delle prestazioni essenziali, non può essere escluso
– secondo la Corte di Giustizia europea - che i sussidi per l’alloggio rientrino in tale nozione, alla
quale il principio della parità di trattamento deve necessariamente essere applicato, proprio alla luce
delle richiamate finalità di integrazione sociale della direttiva n. 109/2003 e del diritto sociale
all’abitazione per i non abbienti richiamato dalla Carta europea dei diritti fondamentali. In altri
termini, per prestazioni essenziali dovrebbero intendersi tutte quelle prestazioni che contribuiscono
a permettere all’individuo di soddisfare le sue necessità elementari, come il vitto, l’alloggio e la
salute. Infatti, come già sopra ricordato,
61
secondo i giudici di Lussemburgo, dal momento che il
diritto dei cittadini dei paesi terzi al beneficio della parità di trattamento nelle materie elencate dalla
direttiva costituisce la regola generale, qualsiasi deroga al riguardo deve essere interpretata
restrittivamente e può essere invocata unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro
interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di
61
Vedi sopra al Cap. 3 par. b).
42
avvalersene e questo non sembra essere avvenuto con riferimento alla normativa italiana di
recepimento. 62
Infine, con riferimento alla tematica del diritto all’abitazione, vale la pena ricordare come a partire
dal 20 maggio 2013, data di scadenza per il recepimento della direttiva n. 2011/51/UE
sull’estensione dell’ambito di applicazione della direttiva 2009/103/CE anche ai beneficiari della
protezione internazionale, questi ultimi, acquisendo lo status di lungo soggiornanti, verranno a
godere di uno status più favorevole rispetto a quello attualmente previsto dalla direttiva n.
2004/83/CE, passando dal trattamento previsto per i cittadini di Paesi terzi in soggiorno regolare
nello Stato membro (art. 31 direttiva n. 2004/83/CE) al trattamento previsto per i cittadini nazionali,
cioè alla piena parità di trattamento (art. 11 c. 1 lett. f) direttiva n. 109/2003/CE). Qualora dunque la
legislazione interna nazionale o regionale in materia di accesso agli alloggi pubblici o di incentivi
all’accesso al mercato delle locazioni o alla prima casa continuerà a contemplare clausole
discriminatorie a danno dei rifugiati o dei titolari della protezione sussidiaria, questi potranno
dunque invocare la protezione offerta dal diritto dell’Unione europea con conseguente richiesta al
giudice di diretta ed immediata disapplicazione della norma interna incompatibile.
5. Conclusioni
L’evoluzione del diritto comunitario (ora
diritto dell’Unione europea) riguardo alla
posizione giuridica dei cittadini di Paesi terzi si è contraddistinta per la creazione di una pluralità di
statuti giuridici differenziati, che è stata definita anche come “pluralità statutaria disorganizzata”.63
Alle situazioni di cui abbiamo dato sommariamente conto nei limiti del presente lavoro,
possono infatti aggiungersi le norme del diritto dell’Unione europea volte a favorire l’ingresso dei
ricercatori di Paesi terzi (direttiva n. 2005/71/CE),64 quelle relative ai lavoratori
altamente
qualificati, per i quali la direttiva n. 2009/50/CE ha istituito una “carta blu” quale titolo di soggiorno
62
Per il testo integrale della sentenza della CGUE ed un suo commento con riferimento alla legislazione nazionale
italiana sul “fondo affitti” si rimanda al link: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2160&l=it
63
Ana Beduschi-Ortiz, Les droits sociaux fondamentaux des resortissants de pays tiers. Analyse du droit de l’Union
européenne, Editions Universitaires Européennes, 2010, pag. 480.
64
Direttiva n. 2005/71/CE del 12 ottobre 2005 relativa ad una procedura di ammissione specifica dei cittadini di Paesi
terzi ai fini di ricerca scientifica (G.U.C.E. L 289 dd. 3.11.2005), attuata in Italia con il d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 17
(Gazzetta Ufficiale N. 31 del 6 Febbraio 2008)
43
uniforme utilizzabile dagli Stati membri in tali situazioni65, quelle relative ai lavoratori “distaccati”
nell’ambito della libera prestazione dei servizi, di cui alla direttiva n. 96/71, soggette quest’ultime
ad una ricca e controversa interpretazione giurisprudenziale da parte della Corte di Giustizia. 66
65
Direttiva n. 2009/50 del Consiglio dd. 25 maggio 2009 che stabilisce le condizioni di entrata e di soggiorno dei
cittadini di Paesi terzi ai fini di impiego altamente qualificato, in G.U.U.E. L 155 del 19 giugno 2009.
Tale direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 28 giugno 2012 n. 108 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale dd. 25 luglio 2012). Il provvedimento inserisce le disposizioni attuative della Direttiva 2009/50/CE
nell'impianto normativo vigente in materia di immigrazione – decreto legislativo n. 286/1998 e successive
modificazioni, introducendovi due nuovi articoli, l’articolo 27 quater e l’articolo 9 ter.
In particolare, l’articolo 27 quater prevede i lavoratori altamente qualificati come nuova categoria di lavoratori che
possono fare ingresso in Italia al di fuori del regime delle “quote d’ingresso” (vale a dire in ogni periodo dell’anno e
senza che vi siano limiti numerici fissati con i “decreti flussi”). Vengono considerati lavoratori altamente qualificati gli
stranieri che sono in possesso di un titolo di studio rilasciato da istituti di istruzione superiore che attesti il
completamento di un percorso formativo post-istruzione secondaria di durata almeno triennale con conseguimento di
relativa qualifica professionale. La qualifica professionale attestata dal Paese di provenienza deve essere compresa tra
quelle previste nei livelli 1, 2 e 3 della classificazione Istat delle professioni CP 2011 (quindi livello 1: legislatori,
imprenditori e alta dirigenza; livello 2: professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione; livello 3:
professioni
tecniche
(si
veda
l’elenco
completo
all’indirizzo
web:
http://cp2011.istat.it)
.
Il requisito del riconoscimento è richiesto solo per la qualifica professionale e non anche per il titolo di studio, tranne –
sembra di comprendere – in caso di esercizio di professioni regolamentate, per le quali debbono essere soddisfatti i
requisiti previsti dal decreto legislativo n. 206/2007. La procedura individua nel datore di lavoro il soggetto richiedente:
una volta individuato il cittadino extracomunitario che intende assumere, il datore deve presentare una domanda di
nullaosta allo Sportello unico per l'immigrazione territorialmente competente. La domanda deve essere corredata da una
proposta di contratto di lavoro o offerta vincolante della durata di almeno un anno, insieme con la certificazione
rilasciata dal Paese di provenienza che attesti il titolo di istruzione e la relativa qualifica professionale. Il decreto
legislativo prevede ai fini del rilascio del nullaosta che il contratto di lavoro o l’offerta vincolante, della durata almeno
annuale, prevedano un requisito retributivo minimo lordo annuale del lavoratore non inferiore al triplo del livello
minimo previsto per l'esenzione della partecipazione alla spesa sanitaria (quindi pari a 24.789 euro, essendo il livello
minimo pari a 8.263 euro, aumentato a 11.362 euro in caso di presenza del coniuge e ulteriormente aumentato di 516
euro per ciascun familiare a carico, come previsto dall’articolo 8, comma 16, della legge n. 537/1993 e successive
modifiche). Il decreto introduce un nuovo permesso di soggiorno denominato “Carta blu UE”, rilasciato dal questore al
lavoratore straniero altamente qualificato autorizzato allo svolgimento di attività lavorative ed a seguito della stipula del
contratto di soggiorno per lavoro. Tale permesso ha una durata biennale, nel caso di contratto di lavoro a tempo
indeterminato, ovvero, negli altri casi, la stessa durata del rapporto di lavoro. Possono accedere a tale permesso di
soggiorno, previo rilascio dell’apposito nullaosta, anche gli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia ad altro
titolo, se in possesso dei requisiti richiesti. Per effetto della direttiva europea n. 2009/50 (art. 14), il titolare del
permesso di soggiorno “Carta blu UE” potrà godere del principio di parità di trattamento in materia di condizioni di
lavoro, istruzione e formazione professionale, sicurezza ed assistenza sociale con riferimento alle prestazioni coperte
dal Regolamento CEE n. 1408/71, ora sostituito dal Regolamento (CE) n. 883/2004, all’accesso ai beni e servizi offerti
al pubblico, incluso l’alloggio. Sebbene la normativa italiana di attuazione risulti al riguardo piuttosto vaga (art. 1 c. 15:
“I titolari di carta blu UE beneficiano di un trattamento uguale a quello riservato ai cittadini, conformemente alla
normativa vigente (…)”), le norme della direttiva appaiono sufficientemente chiare, precise e incondizionate da
assicurare una loro diretta applicazione. In conformità a quanto previsto dalla direttiva, l’accesso all’occupazione
subisce limitazioni per i primi due anni di occupazione legale sul territorio nazionale, sia rispetto all’esercizio di attività
lavorative diverse da quelle “altamente qualificate”, per le quali è previsto un divieto assoluto, rispetto ai cambiamenti
di datore di lavoro, i quali dovranno essere autorizzati in via preliminare dalle competenti Direzioni Territoriali del
Lavoro con una procedura di silenzio-assenso (art. 1 c. 13).
66
Direttiva n. 96/71 del Parlamento europeo e del Consiglio dd. 16 dicembre 1996 concernente il distacco dei
lavoratori effettuato nell’ambito di una prestazione di servizi, in G.U.C.E. L 18 del 21.01.1997. Riguardo alla
giurisprudenza della CGE, si fa riferimento rispettivamente alle sentenze Laval (C-341/05 dd. 18.12.2007), Rüffert (C346/06 dd. 03.04.2008) e Commissione c. Granducato di Lussemburgo (C-319/06 dd. 19 giugno 2008). Per
un’introduzione critica di questa giurisprudenza, con riferimento ai limiti entro i quali gli obblighi legali e contrattuali
in materia di condizioni e tutele del lavoro vigenti nel Paese ospitante possono essere estesi alle imprese straniere di
44
Tale situazione di frammentarietà e pluralità di situazioni giuridiche non è peraltro destinata
a mutare nemmeno dopo l’approvazione della direttiva n. 2011/98/UE sul procedimento unico
per il rilascio di un permesso di soggiorno di lavoro per i cittadini di Paesi terzi che risiedono e
lavorano nel territorio di uno Stato membro e per un paniere comune di diritti per i lavoratori di
Paesi terzi regolarmente residenti in un Paese membro. Conformemente a quanto stabilito nel
Piano sulle Politiche Migratorie dell’Unione europea del dicembre 2005, infatti, alla direttiva sui
lavoratori di Paesi terzi, che intende porre le basi giuridiche per un approccio equo e orientato vero
la loro tutela, si affiancheranno altre quattro direttive destinate ciascuna a trattare le condizioni di
ingresso e di soggiorno di casi particolari di lavoratori (i lavoratori altamente qualificati, la cui
direttiva -come abbiamo visto- è stata già approvata,
i lavoratori stagionali67 ,
qualificati di Paesi terzi nell’ambito di trasferimenti
i lavoratori
temporanei all’interno di società
68
multinazionali , i lavoratori che svolgono stage formativi (remunerated trainees). Ugualmente, la
direttiva sul procedimento unico e il paniere comune di diritti a favore dei lavoratori di Paesi terzi
regolarmente soggiornanti in uno Stato membro fa salve le disposizioni europee specifiche già in
vigore per i lavoratori “distaccati” nell’ambito della prestazione dei servizi, così come quelle
relative ai lavoratori di Paesi terzi lungo soggiornanti, che continueranno a godere di uno status più
favorevole. Ulteriormente, le disposizioni finali della direttiva lasciano impregiudicate le norme
più favorevoli previste dagli accordi che sono stati conclusi dalla Commissione europea con Paesi
terzi come ad esempio quelli con i Paesi dell’Area Economica Europea (EEA) e con la Svizzera, gli
accordi di Associazione con la Turchia e quelli sottoscritti nell’ambito della cooperazione euromediterranea, ovvero in accordi di partenariato e cooperazione, ovvero nel processo di Associazione
finalizzato all’allargamento dell’Unione (art. 13).69
Le categorie di cittadini di Paesi terzi che abbiamo esaminato nel presente lavoro (familiari
di cittadini UE, lungo soggiornanti, rifugiati e titolari della protezione sussidiaria, cittadini di Paesi
terzi che hanno sottoscritto taluni accordi di associazione,…) godono quindi di norme di diritto
europeo che li pongono, a diverso titolo, con modalità ed ampiezze diverse, in una condizione
Paesi membri UE facenti uso di lavoratori “distaccati”, si veda U. Carabelli, Il contrasto tra le libertà economiche
fondamentali e i diritti di sciopero e di contrattazione collettiva nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia: il
sostrato ideologico e le implicazioni giuridiche del principio di equivalenza gerarchica , paper. Si veda anche S.
Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, Il Mulino, 2012, in
particolare cap. II.
67
Proposta di direttiva del Consiglio e del Parlamento europeo sulle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di
Paesi terzi per motivi di lavoro stagionale, dd. 13.7.2010 COM (2010) 379 Final.
68
Proposta di direttiva del Consiglio e del Parlamento europea sulle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di
Paesi terzi nell’ambito di un trasferimento all’interno di una società multinazionale, dd. 13.07.2010 COM (2010) 378
Final
69
Tali accordi sono stati appositamente elencati nell’Allegato 4 del Working paper della Commissione che
accompagnava la proposta di direttiva sul procedimento unico ed il paniere unico di diritti dei lavoratori di Paesi terzi.
45
privilegiata rispetto agli altri cittadini di Paesi terzi non membri UE regolarmente soggiornanti in
uno Stato membro.
Come indicato nel presente lavoro, alcune clausole di parità di trattamento contenute in
questi “statuti giuridici” riferiti a tali particolari categorie di cittadini di Paesi terzi riecheggiano,
anche sotto il profilo letterale, le pari statuizioni previste dal diritto primario o derivato a favore dei
cittadini dell’Unione europea, e anche in senso sostanziale, sono state così interpretate dalla Corte
di Giustizia europea. 70
Forse ancora più significativo è il fatto che taluni di questi “statuti giuridici” particolari
rendono possibili anche opportunità di circolazione per motivi di lavoro all’interno della spazio
dell’Unione europea, prerogativa che tradizionalmente è stata riservata esclusivamente ai cittadini
dell’Unione, costituendo quella libertà fondamentale attorno alla quale si è costruita l’idea stessa del
processo di costruzione europea e della cittadinanza europea. Certamente, si tratta di possibilità di
circolazione ancora ristrette, condizionate ovvero sottoposte a facoltà e opzioni derogatorie da parte
degli Stati membri molto più ampie rispetto a quelle previste per i cittadini UE e loro familiari.
Così, l’art. 14 par. 1 e 2 della direttiva n. 109/2003 attribuisce al lungo soggiornante la possibilità
di circolare e soggiornare in un Paese membro diverso da quello che gli ha rilasciato l’originario
titolo di soggiorno, per un periodo superiore a tre mesi, per motivi di lavoro dipendente o
autonomo, per motivi di studio o formazione professionale o anche per altri scopi. Tuttavia, tale
libertà di circolazione è sottoposta dai successivi par. 3 e 4 a possibilità di deroga e limitazioni da
parte degli Stati membri al momento della ricezione della direttiva negli ordinamenti interni
mediante l’applicazione di criteri preferenziali a favore dei cittadini nazionali, dell’Unione e di
Paesi terzi già regolarmente soggiornanti ed in condizioni di disoccupazione nel secondo Paese
membro ovvero di meccanismi di quote di ingressi che possono portare anche allo svuotamento
sostanziale del principio medesimo.71 Ugualmente, la possibilità di soggiornare per motivi di
lavoro in altri Paesi membri diversi da quello che ha rilasciato l’originario titolo di soggiorno è
prevista espressamente a favore dei titolari della “carta blu UE” (lavoratori altamente qualificati)
70
Si veda sopra alla nota n. 39.
Si pensi ad es. a quanto previsto dallo stesso legislatore italiano con il d.lgs. n. 3/2007 di recepimento della direttiva
n. 109/2003/CE, il quale, rimandando in maniera sibillina al procedimento di rilascio del nulla osta d’ingresso per
motivi di lavoro di cui all’art. 22 del d.lgs. n. 286/98, a sua volta sottoposto ai limiti numerici di cui al decreto flussi
annuale previsto dall’art. 3 c. 4 e dall’art. 21 del medesimo d.lgs., ha sostanzialmente introdotto nell’ordinamento
interno tutte le opzioni derogatorie e restrittive consentite dalla direttiva medesima. Così il decreto flussi dd. 30.12.2010
(pubblicato sulla G.U. 31.12.2010) ha previsto per la prima volta la conversione in permessi di lavoro subordinato di
1.000 permessi di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo rilasciati ai cittadini di Paesi terzi da altro Stato
membro dell'Unione europea e in permessi di lavoro autonomo di altri 500 permessi di soggiorno CE per soggiornanti
di lungo periodo rilasciati ai cittadini di Paesi terzi da altro Stato membro dell'Unione europea.
71
46
dopo diciotto mesi di soggiorno legale nel primo Stato membro (art. 18 direttiva n. 2009/50/CE dd.
25 maggio 2009), fatta salva in questo caso la possibilità per gli Stati membri di continuare ad
applicare quote di ammissione annuali (comma 7).
Questi sviluppi hanno spinto taluni studiosi ad intravedere –forse in maniera eccessivamente
ottimista- nell’estensione anche a talune categorie di cittadini di Paesi terzi di prerogative finora
riservate ai soli cittadini dell’Unione, un trend verso un progressivo superamento del concetto
tradizionale di cittadinanza europea, inaugurato dal Trattato di Maastricht nel 1992 e fondato sul
possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri dell’UE,72 a favore invece di un demos
europeo esteso a tutte le persone che vi hanno una stabile residenza: un passaggio insomma dalla
cittadinanza dell’Unione europea su base di nazionalità ad una “cittadinanza europea fondata sulla
residenza”.73 Per la verità, più che al criterio di residenza, si farebbe riferimento a quello di
anzianità di residenza, in quanto tale nuovo concetto di cittadinanza europea esteso ai cittadini di
Paesi terzi avrebbe come modello di riferimento la direttiva n. 109/2003 sui lungo soggiornanti,
verso la quale sembrano infatti convergere anche altri status riservati a cittadini di Paesi terzi
regolarmente soggiornanti in un Paese membro. 74
Al riguardo, tra i maggiori ostacoli che potrebbero insorgere nella realizzazione concreta di
tale prospettiva, potremmo citare quello relativo all’estensione anche ai cittadini di Paesi terzi
stabilmente e legalmente (lungo) soggiornanti in un Paese membro dei diritti politici strictu sensu
(elettorato passivo ed attivo alle elezioni del Parlamento europeo) e di rappresentanza diplomatica e
consolare, che attualmente sono diritti esclusivi dei cittadini dell’Unione europea. La materia dei
diritti politici, peraltro, si colloca al cuore del tradizionale principio di sovranità ed anche l’invito
rivolto dalla Commissione europea nella Comunicazione del 1 settembre 2005 a “rinforzare la
partecipazione civica, culturale e politica “ dei cittadini dei Paesi terzi nello Stato di accoglienza,
in special modo “riducendo gli ostacoli all’esercizio dei diritti di voto” a livello locale,
75
non
sembra aver sortito grandi risultati, visto che solo cinque dei 27 Paesi membri dell’Unione europea
72
Art. 20 del TFUE (già art. 17 TCE): “E’ cittadino dell’Unione ogni persona avente la cittadinanza di uno Stato
membro”.
73
P. Dollat, La citoyenneté européenne. Théorie et status, Bruylant, Bruxelles, 2008.
74 Si veda l’Art. 16 della direttiva n. 2009/50/CE relativa allo status di soggiornante di lungo periodo CE per i titolari
di carta blu UE; la direttiva n. 2011/51/UE che estende anche ai beneficiari di protezione internazionale la direttiva n.
2003/109/CE. La tesi è recentemente sostenuta nel libro di Diego Acosta Arcarazo, The Long-Term Residence Status
as a Subsidiary Form of EU Citizenship, Brill Publications, Leiden, The Netherlands, 2011.
75
Commissione europea, Programma comune per l’integrazione. Quadro relativo all’integrazione dei cittadini di Paesi
terzi nell’Unione europea, COM (2005) 389 finale.
47
attualmente consentono il diritto di voto ai cittadini di Paesi terzi regolarmente residenti alle
elezioni amministrative locali.76
La questione forse ancora più rilevante, è il rischio che l’affermazione di un principio di
‘cittadinanza europea’ esteso ai soli cittadini di Paesi terzi che siano ‘lungo residenti’ in uno o più
Stati membri dell’UE con conseguente attribuzione solo ad essi di uno statuto di piena parità di
trattamento rispetto ai cittadini nazionali nella fruizione dei diritti sociali, possa divenire motivo di
un’ ulteriore compressione e riduzione
dei diritti sociali garantiti ai cittadini di Paesi terzi
regolarmente residenti negli Stati membri, ma non titolari dello status di lungo soggiornanti, non
avendo ancora maturato i requisiti di anzianità di residenza, soggettivi, economici e culturali,
richiesti ai fini dell’accesso a tale status. In un contesto di crisi economica e sociale e di crescente
pressione su risorse di welfare percepite come sempre più scarse e sulle quali aumenta invece la
pressione della
domanda sociale, la distinzione all’interno della popolazione immigrata
regolarmente soggiornante tra
“lungo soggiornanti” e non,
più che a realizzare lo
scopo
dell’integrazione sociale e della coesione sociale dei migranti, diverrebbe funzionale alla
giustificazione di meccanismi gerarchici ed in ultima analisi discriminatori di selezione dei
beneficiari delle prestazioni di welfare volti ad escludere coloro che vengono spesso percepiti nel
linguaggio comune come i c.d. “ultimi arrivati.”77 Questo in sostanza porrebbe non solo gli
ordinamenti interni dei Paesi membri, ma anche forse lo stesso diritto dell’Unione in una situazione
di potenziale tensione con la giurisprudenza sinora maturata in senso alla Corte europea dei diritti
dell’Uomo. Sebbene la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani non contenga
disposizioni specifiche in materia di diritto alla sicurezza sociale, la tutela dei diritti "patrimoniali",
introdotta per mezzo dell'art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione medesima, è stata interpretata
dalla Corte di Strasburgo come estensibile anche alle "prestazioni sociali", comprese quelle di tipo
"non contributivo", applicando per conseguenza anche a tali benefici il principio di non
76
Si veda la Convenzione europea del Consiglio d’Europa del 1992 sulla partecipazione degli stranieri alla vita
pubblica a livello locale, che prevede il diritto di voto alle elezioni locali per gli stranieri regolarmente e stabilmente
residenti nello Stato parte da almeno cinque anni (capitolo C, art. 6). Tale convenzione è stata tuttavia ratificata solo da
8 dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa e due Stati che l’hanno ratificata, l’Albania e l’Italia, hanno dichiarato di
non aderire alla disposizione del capitolo C, art. 6, avvalendosi della facoltà prevista dal paragrafo 2 di suddetta
disposizione.
77
Emblematica in questo senso la vicenda della negoziazione tra Consiglio europeo e Parlamento europeo del testo
definitivo della Direttiva sul procedimento unico per il rilascio di un permesso di soggiorno di lavoro da parte dei
cittadini di Paesi terzi che risiedono e lavorano nel territorio di uno Stato membro, e sul paniere comune di diritti per i
cittadini di Paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro. Tale negoziazione sembra avere portato in sostanza ad
una clausola derogatoria pressoché generalizzata concessa agli Stati membri rispetto al principio di parità di trattamento
tra cittadini nazionali e cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro per quanto concerne
l’intera materia del diritto sociale all’abitazione, come abbiamo evidenziato sopra alla nota n. 3.
48
discriminazione su base di nazionalità, e dunque tra cittadini nazionali e stranieri regolarmente
residenti, sancito dall'art. 14 della stessa Convenzione 78, e questo a prescindere dal diverso grado
di consolidamento del soggiorno regolare dello straniero sul territorio dello Stato parte . 79
In altri termini, estendere le possibilità derogatorie concesse agli Stati membri rispetto al
principio di parità di trattamento nella fruizione di diritti sociali fondamentali da parte dei cittadini
di Paesi terzi regolarmente soggiornanti, rinviando una tendenziale piena attuazione del principio
medesimo solo al momento in cui i migranti
riescano a conseguire lo status di “lungo
soggiornanti”, porterebbe con sé il rischio di rimettere in discussione argomenti e punti di vista che
sembravano ormai consolidati nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Si pensi alle
motivazioni della sentenza nel caso Koua Poirrez c. Francia, ove la Corte
argomentazioni del governo francese che
ha respinto le
giustificava la limitazione su basi di cittadinanza
nell’accesso ad una prestazione per disabili alla necessità di equilibrare le spese di welfare con le
risorse finanziarie disponibili, ovvero a quelle nel caso Gaygusuz c. Austria, ove la Corte ha
respinto le argomentazioni proposte dal governo austriaco, con le quali si giustificavano le
restrizioni imposte in ragione di un’asserita “speciale responsabilità” che lo Stato avrebbe nel
tutelare con priorità i bisogni dei propri cittadini rispetto a quelli di coloro che tali non sono (Corte
europea dei diritti dell’Uomo, sentenza Koua Poirrez c. Francia, 30 settembre 2003 in particolare
paragrafo 43; sentenza Gaygusuz c. Austria, 16 settembre 1996, in particolare paragrafo 45).
Saranno dunque gli anni a venire, intrisi di incognite e di ansietà per la sempre più
inquietante crisi economica e l’ampliarsi della forbice delle
disuguaglianze sociali tanto agli
interno degli Stati membri dell’Unione quanto a livello internazionale con conseguenti spinte
migratorie, a chiarire se questi fondamentali principi e valori di uguaglianza e parità di trattamento
cui le istituzioni europee hanno fatto voto solenne di rispetto con l’adozione tra l’altro della Carta
europea dei diritti fondamentali, troveranno coerente attuazione nel diritto dell’Unione europea e
altrettanto strenua difesa nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
78 Si vedano le sentenze CEDU, Gaygusuz c. Austria, sent. 16 settembre 1996 relativa ad un assegno di urgenza
versato ai disoccupati che hanno cessato l'indennizzo ordinario, e finanziato dai fondi pubblici; Petrovic c. Austria, sent.
27 marzo 1998, relativa all'assegno per congedo parentale di cui alla normativa austriaca anteriore al 1989; WesselsBergevoet c. Olanda, sent. 4 giugno 2002 relativa al diritto ad una pensione di vecchiaia in favore delle donne
coniugate; Willis c. Regno Unito, sent. 11 giugno 2002 relativa ad una prestazione forfetaria per vedove e un assegno
alle madri vedove versato per il periodo di custodia dei figli; Azinas c. Cipro, sent. 20 giugno 2002 relativa agli effetti
di una misura sanzionatoria comportante la decadenza dal diritto alle pensione di vecchiaia e/o altre prestazioni
previdenziali; Koua Poirrez c. Francia, sent. 30 settembre 2003 relativa all'assegno per i minorati adulti.
79
In proposito le sentenze : Okpisz c. Germany dd. 25.10.2005; e Niedzwiecki c. Germany dd. 25.10.2005
49
Bibliografia
Acosta Arcarazo D., The Long-Term Residence Status as a Subsidiary Form of EU Citizenship,
Leiden, Brill Publications, 2011
Beduschi-Ortiz A., Les droits sociaux fondamentaux des resortissants de pays tiers. Analyse du
droit de l’Union européenne, Saarbrücken, Editions Universitaires Européennes, 2010.
Dollat P., La citoyenneté européenne. Théorie et status, Bruxelles, Bruylant, 2008.
Favilli C., La non discriminazione nell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 2008.
Giubboni S., Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico
europeo, Bologna, Il Mulino, 2012.
Giubboni S. Orlandini G., La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Bologna, Il
Mulino, 2007.
Spitaleri F., Le discriminazioni alla rovescia nel diritto dell’Unione europea, Roma, Aracne, 2010.
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