Untitled - IntercoM

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Capitolo primo: Epitaffio 1
Scivola come una pioggia sporca e infetta il sapore
amaro della vergogna. Attraversa la mia entità e si ferma dritta all’epicentro del male.
Scivola come una lama che non ti fa sentire dolore
ma che alla fine ti dilania.
Sono sospeso nel vuoto.
Galleggio.
Né uomo, né macchina, né essenza… il nulla.
Galleggio nel cosmo infinito, come infinita é la mia
tristezza ora che so che anche mio padre mi ha abbandonato per sempre.
Non avrò più la possibilità di riscattare i miei sbagli.
I miei troppi sbagli.
E mentre galleggio in questo oblio, rinnego colui che
mi ha creato… anche se lo amo.
Perché darmi questa esistenza se non è nella mia
natura.
Perché farmi nascere per poi non farmi morire? Concedimi la morte… non farmi più soffrire…
Un uomo nasce, vive, e poi muore.
Ma io, nato come essenza, ora che anche la mia
luce mi ha lasciato e vorrei tanto scomparire, non riesco a morire.
Forse è solo una condanna.
Forse il Divino Padre ha creduto in me fino all’ultimo.
E io lo deluso… fino all’ultimo.
I corpi umani che ho usato come contenitori per la
mia essenza, non mi sono stati di aiuto. Anzi, forse
devo a loro, alla mia natura sbagliata e alla loro tragica simbiosi tutti i miei fallimenti.
Ho fallito. Ho fallito. Ho fallito…
Capitolo secondo: Ira dei (Yersinia Pestis)
pozzanghere e i soldati che lo seguivano a piedi si
imbrattarono fino alle ginocchia.
Rientrato nella tenda il Khan scacciò in malo modo
tutti quanti. Poi si accucciò su un morbido cuscino e
tenendosi le enormi mani sulla faccia scoppiò a piangere.
Caffa, in Crimea, era una colonia Genovese nel 1346,
e faceva molta gola al Khan Djanisberg.
Se non fosse stato per il morbo che appestava la sua
guarnigione e decimava le truppe, quella città sarebbe
caduta da un pezzo al suo volere.
La città era un via vai di abili mercanti che si arricchivano con facilità e presto divenne un covo di perdizione: un nido per animali malati. Infatti oltre ai traffici più
o meno leciti dei mercanti che giungevano da ogni parte, era diventata l’epicentro del peccato, l’autentica
cloaca del mondo.
Il male si mascherava e si profumava, ma si riconosceva sotto qualsiasi travestimento.
Il mio indice accusatorio, l’indice di un Messia, era
puntato sopra questa crosta di terra e presto mi sarei
messo all’opera.
A notte fonda, il Khan aveva la stessa espressione di
un animale che si strappa la zampa a morsi per liberarsi dalla trappola e quando chiamò il suo consigliere,
io entrai nella tenda reale, tenendo gli occhi a terra in
segno di assoluta sottomissione.
Ero penetrato nel corpo di questo vecchio saggio
con un progetto ben preciso.
Il Khan non riuscì a vedere la strana luce blu che
brillava nei cristalli dei miei occhi, ma io percepii il dramma che regnava nei suoi.
Quando mi diede il permesso di parlare, lo feci con
l’esile voce di un centenario, che venerava il suo padrone e si adoperava anima e corpo per lui, come uno
schiavo.
Finii di parlare e di fare il mio dovere di consigliere.
Lui si avvicinò incutendomi timore, e con voce commossa mi ringraziò e mi congedò.
Non avevamo più risorse. Gli uomini erano pochi e
malridotti ed escogitai un piano impensabile per una
mente umana.
Di lì a poche ore Caffa sarebbe stata invasa dai corpi
ammorbati dalla peste, catapultati dal campo dei
mongoli.
Enormi bracci di legno e corde tese si misero a scaraventare per decine di metri proiettili umani, cadaveri
putrefatti, più letali di qualsiasi altre armi.
L’ira di Dio si sarebbe scagliata con precisione. La
malattia si sarebbe diffusa velocissima, e in breve, i
pochi mercanti genovesi che riuscirono ad imbarcarsi
e sfuggire, l’avrebbero contagiata dall’Italia a tutto il
resto d’Europa, decimando i moltissimi peccatori che
imperversavano in ogni dove.
Il Khan sembrava immune da tutto quello che gli succedeva intorno. Le lame e le frecce dei nemici non
scalfivano la sua pelle e la malattia che stava decimando i suoi più valorosi guerrieri non gli aveva procurato neanche un’emicrania.
Imponente nelle sue vesti e nel portamento, cavalcava un enorme equino dal manto nero, mentre si aggirava preoccupato fra le milizie.
La situazione era drammatica, più della metà dei suoi
condottieri li aveva persi non in battaglia ma con il morbo
contratto nella steppa ad oriente: la peste.
Irriducibili e fanatici, anche se moribondi, al passaggio del Khan i soldati si sollevavano in piedi e manifestavano l’orgoglio di trovarsi lì, per lui...
Taluni, i più in forza, premevano la lama delle spade
sul petto, dimostrando di essere immuni al dolore e
pronti a morire.
Il Khan Djanisberg mantenne un’espressione solenne per tutto il tragitto del campo, anche quando si trovò a passare vicinissimo ai due carri stracolmi di cada- Jan-Baptiste non riusciva a credere ai suoi occhi, e
veri infetti, ammassati l’uno sull’altro come sacchi.
chiamò gli amici che si precipitarono fuori dalla locanL’odore era devastante e gli umori di sangue e pus da.
che scorrevano sotto le ruote dei carri, formavano delle - Guardate voi stessi... la mediocrità dell’umanità che
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fa davanti ad un problema?
Guillelme, che aveva la bocca colma di carne masticata e vino, spruzzando i compagni, rispose in tutta
fretta.
- Si cala le braghe!
Scoppiarono a ridere tutti, tranne il povero oste che
aveva un pugnale conficcato sul dorso della mano, e lo
teneva inchiodato al tavolo di legno.
Davanti a loro si propinava uno spettacolo tutt’altro
che ridicolo.
Un corteo di flagellanti, composto da una quarantina
di persone, stava attraversando il sentiero lasciando
nuvole di polvere e terra insanguinata. Avevano le vesti
e le carni lacerate dai colpi che si affliggevano volontariamente in segno di purificazione.
Un uomo si avvicinò al gruppo di amici, che per un
attimo aveva smesso di ridere. Guillelme gli si propinò
incontro con atteggiamento spavaldo.
Poteva anche essere un appestato: non gli importava. Lui e i suoi amici avevano scelto la strada contraria
a quella della redenzione. Molte persone in Europa,
impauriti da quella che sembrava una morte atroce e
inesorabile, provocata dal morbo nero della peste, aveva scelto la strada purificatoria della religione.
Ma Guillelme e i suoi amici non avevano bisogno di
fustigarsi per invocare Dio affinché li proteggesse. Loro
sarebbero andati incontro al pericolo, come lui con
quell’uomo e avrebbero accolto quella malattia come
un’amica, ma solo dopo aver vissuto come gli comandava l’istinto, compiendo qualsiasi atto contrario alla
legge divina che timorava il poco tempo che li sottraeva alla sicura e inarrestabile ‘sorella gelida’.
La lussuria in primis, l’ebbrezza, il furto e l’assassinio, erano il loro unico credo.
L’uomo del corteo dei flagellanti si accostò all’orecchio di Guillelme, trascinando quello che rimaneva delle
fasciature dei piedi. Cercò di deglutire la saliva che
non aveva e si fece forza per parlare.
- Seguiteci nel nostro cammino, la santa mannaia ha
già iniziato a mietere il grano infetto dell’inferno e si
sta avvicinando a noi.
Poi continuò a parlare in tono più supplichevole.
- Non avreste da offrirci una sorsata d’acqua, anche
di stalla?
Guillelme trattenne a stento le risate e chiamò accanto a se Brigitte che arrivò sculettando e tenendosi
le vesti tra le mani. La giovane donna formosa rimase
a pochi passi dai due uomini.
- Altro che acqua, ti darò un sorso del latte più delizioso che si possa mungere da una giovenca!
Urlò Guilllelme, facendo segno alla ragazza di avvicinarsi a lui.
Brigitte sfilò il laccio che teneva abbottonata a stento
un’esile camicetta rigonfia. L’uomo flagellato, alla vista
dei due enormi seni che gli sballonzolavano sotto il
naso, indietreggiò inciampando, tra le risa isteriche dei
compagni. Poi Guillelme si chinò verso l’uomo sofferente.
- Tieni, assaggia questo nettare.
E allungò una fiasca. Quando il malcapitato si accor-
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se che al posto dell’acqua c’era aceto, ne aveva già
ingollato un abbondante sorsata. La troppa sofferenza
non gli permise di emettere alcun suono quando cercò
di urlare. L’uomo era svenuto tenendosi la gola.
Il resto dei flagellanti aveva ripreso il cammino quando Brigitte strappò la fiasca di aceto dalle mani di
Guillelme.
- Guillelme, razza di bastardo impertinente e senza
cuore...
Inveì la ragazza contro il suo amico. Il gruppo si
ammutolì, Guilleme compreso. La ragazza si avvicinò
all’uomo sofferente e versò l’aceto sulle ferite, che presero a schiumare. Poi si girò verso amici che non avevano intuito lo scherzo e li baciò ad uno ad uno con
tanto di lingua.
In serata violentarono per sfregio l’anziana moglie
dell’oste, con tutto quello che capitò loro tra le mani.
La baldoria continuò fino a tardi, le donne del gruppo
ballavano seminude sui tavoli mentre gli uomini controllavano il bottino rubato dalla cassa del locandiere.
Quando entrai nel corpo del flagellato, che era rimasto a terra inanimato, stava quasi per morire. La mia
essenza bluastra aveva navigato parecchio per arrivare
nel sud della Francia.
Nessuno mi vide quando con una lampada ad olio
appiccai il fuoco in un punto strategico all’ingresso del
locale.
Una delle donne, di ritorno dalla stalla di rimpetto alla
locanda, dove aveva compiuto l’ultimo atto di lussuria,
non si accorse delle fiamme che si stavano sviluppando.
Rimasero tutti intrappolati. Le travi iniziarono a scricchiolare e a cedere. Guardai lo spettacolo impassibile
alle urla di disperazione che provenivano dall’interno.
L’oste era deceduto nel pomeriggio e la moglie, se
fosse rimasta viva, si sarebbe suicidata dalla vergogna.
Vedevo le carni di quei peccatori che si gonfiavano,
per poi annerirsi, sgonfiarsi e diventare simile al carbone.
Quando l’intera locanda ricadde su se stessa, in un
vortice di fiamme altissime, coprendo e seppellendo
quel gruppo di rinnegati, mi sdraiai sull’erba fresca
accogliendo con ogni pezzo della pelle tutte le piccole gocce di pioggia che il cielo iniziava a lacrimare.
La redenzione aveva fatto un passo in avanti: adesso
potevo riprendere il mio viaggio altrove.
L’odore del mare ligure arrivava oltre la collina, e
Tolomeo della Roccaviva, ne gustava l’aroma pungente socchiudendo gli occhi e alzando al cielo l’arcigno
naso.
Seduto su una roccia, all’ombra di una fitta vegetazione, accarezzava le pergamene che stringeva in petto, provando un piacere fisico. Il viaggio era stato lungo
e difficile, ed essere tornato nel proprio paese natio lo
faceva sentire come l’uomo più fortunato di tutta la piattaforma terrestre.
Morfeo bussò alle sue membra stanche e il sonno
più profondo lo colse, avvolgendolo in un abbraccio
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materno.
Dovevano essere passate parecchie ore, perché quando Tolomeo della Roccaviva riaprì gli occhi, la notte
regnava su un piccolo falò, poco distante dai suoi piedi.
Le fiamme scoppiettanti illuminavano la sagoma di
un uomo intento a leggere. Non fece in tempo a parlare che l’uomo in penombra gli rivolse un saluto in chiaro accento francese.
- Ben risvegliato mio buon amico, ho preparato una
scodella di stufato anche per voi, avvicinatevi vi prego...
Tolomeo, impaurito, si avvicinò puntandogli la spada
sotto la gola, e quando vide il volto dell’uomo, scarno e
devastato dalle cicatrici, le gambe gli tremarono.
- Come vi permettete di chiamarmi amico se neanche vi siete presentato... Potreste essere un demone,
un appestato, o un malandrino al seguito Valerio Evango
Cappanera... ed io: non sono né complice e né amico
di nessuna di queste tre categorie!
Il tono era arrogante, ma si sentiva chiaramente, nel
timbro tremolante, chi dei due avesse terrore di trovarsi di fronte all’altro.
- Ho conosciuto uomini, che in preda alla paura, avevano le braccia così nervose che sferravano colpi a
destra e a manca senza neanche volerlo... Sedetevi
accanto al fuoco, riponete la ferraglia e assaggiate ciò
che Dio ci ha regalato... sentite che sapore ha questa
lepre... Messere Tolomeo della Roccaviva scampato
alla peste di Caffa!
Il ciglio sfregiato a metà si inarcò e tutto il viso ne
risentì, increspando le altre cicatrici.
Più sbalordito che timoroso, Tolomeo si lasciò cadere a terra, mentre le fiamme del falò brillavano nei suoi
occhi sgranati.
... Ma come fate a conoscere il mio nome...
Ancor prima che riuscisse a finire la frase, lo sfregiato alzò il pugno, sventolando le pergamene.
- Non crederete mica che sia un veggente o un apostolo del diavolo... E’ stato un caso. Il mio peregrinare
a fondo valle e’ stato allietato dalla lettura di una pergamena, portata dal vento sul muso del mio ronzino...
e quando sul prato ne scorsi altre, il cammino mi ha
portato fino a voi: che addormentato come un ghiro, ve
l’eravate fatte sfuggire dalle mani.
Tolomeo si rilassò e senza dire una parola, afferrò lo
stufato e lo trangugiò avidamente. Quando ebbe la
pancia piena rivolse la sua attenzione all’uomo seduto
davanti, che lo guardava sorridendogli teneramente.
- Ho letto i vostri scritti con molta attenzione e mi
sono rivisto nello stesso inferno... lo stesso castigo!
Non crediate che dalle mie parti, in Francia, le cose
vadano meglio. L’unica differenza è che gli appestati lì
ho visti ammucchiati in fosse o carri, e non li ho visti
cadere dal cielo, come descrivete voi.
Tolomeo incupì lo sguardo abbassandolo verso i tizzoni ardenti, e le lacrime gli inumidirono le guance.
- Fu spaventoso... sapevamo che quei selvaggi erano
in pochi, ed eravamo sicuri che dopo i primi tentativi di
attacco non riusciti, ci avrebbero lasciati in pace. Inve-
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ce no - sentenziò con un tono soffocato e drammatico
- quando tutto sembrava volgere al meglio, ecco che
dal cielo iniziano piovere cadaveri putrefatti e appestati...
La gente se li vedeva arrivare da tutte le parti... e i più
timorosi pensarono che fu un castigo di Dio...
A quelle parole, l’uomo solcato da innumerevoli cicatrici, dovette sforzarsi per non far trapelare nessun risentimento nei confronti del suo interlocutore.
- Perché secondo voi non è stato il volere di Dio, o di
un suo incaricato a scatenare quel putiferio?
- Certo che no!
Continuò collerico Tolomeo.
- Cosa volete che centri la punizione di Dio con dei
cadaveri marcescenti che ti piovono in testa... E poi a
Caffa cosa volete che ci fosse che a Dio non piacesse:
non c’erano peccatori da redimere; si lavorava e basta,
e noi commercianti di Genova eravamo tutte brave persone, timorate e credenti...
Lo sfregiato, non curante di quelle parole, si rivolse
all’uomo con un tono garbato.
- Passatemi la vostra acqua... Fatemi la cortesia, la
mia è finita.
Quando Tolomeo allungò il braccio per donargli la
borraccia, le mani dei due si toccarono. Un vortice di
energia incolore avvolse i due uomini. Tolomeo sembrò
attraversato da un fulmine, e rimase senza respirare,
con la bocca distorta; lo sfregiato, invece, sembrò rigenerarsi e, mentre teneva sotto controllo il corpo del
genovese, leggeva la sua psiche, intrufolandosi nei
meandri dei ricordi più recondidi che possedeva. In un
attimo seppe tutto quello che non era scritto nelle pergamene. Il mercante scampato alla peste, era un assassino alla mercé di altri mercanti genovesi, i quali lo
avevano assoldato per eliminare tutti coloro che contrastavano i loro loschi affari. Aveva sulla coscienza
numerosi stupri, rapine e omicidi, e godeva della copertura dei più ricchi faccendieri. Scampato alla peste, si era ritirato nella sua terra natia, e preso dai
ricordi, aveva dettato ad uno scrivano quelle memorie... vere a metà.
Tolomeo si svegliò alle prime luci dell’alba, sembrava
invecchiato di anni. Aveva nelle tempie due chiodi enormi che gli comprimevano il cervello, e quando fece per
alzarsi dal suo giaciglio all’addiaccio, lo fece come un
vecchio di cent’anni. Le forze sembravano svanite. Girò
il collo a scatti per cercare quell’uomo che gli aveva
offerto la cena e lo trovò immerso fino alle ascelle in un
torrente che doveva essere ghiacciato. Rabbrividì, e
rimase curvo sulla schiena avvolto dai fremiti del freddo e da un’espressione di perplessità. Poi, consapevole di essere fuori dalla portata del suo sguardo, frugò
furtivamente nella sacca, e quando vide il contenuto,
la refurtiva della banda di Guillelme, rimase a bocca
aperta.
Il giorno dopo Tolomeo sembrava essersi rimesso e
insieme allo sfregiato s’incamminò all’interno della fitta vegetazione, apparentemente senza meta. L’odore
delle spezie che crescevano tutt’intorno svanì di colpo
per lasciare il posto ad un olezzo nauseabondo, di
muffa e carne marcia. Lo sfregiato scese dal ronzino
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con un’agilità che non apparteneva a quella figura scarna, si avvicinò ad un albero, e immediatamente fece
un balzo all’indietro, come spaventato da quello che
non si sarebbe mai sognato di vedere.
Davanti a lui si propinava quello che rimaneva di un
uomo piantato con i piedi nel terreno, che al posto
delle braccia aveva rami tortuosi. Fece il giro intorno a
questo strano tipo di vegetale voluto da Belzebù, e notò
che anche dalle orbite, come anche da altri punti del
corpo fuoriuscivano arbusti.
Tolomeo non si spaventò: Conosceva quel posto, e
invitò lo sfregiato ad aguzzare la vista.
Il terreno era pieno di obbrobri umano-vegetali. Erano
i corpi mummificati dei nemici di un famoso ladrone
della zona, che usava impalarli vivi e lasciarli in bella
mostra.
Uscirono al galoppo dal quel terreno, e quando l’aria
divenne respirabile, si fermarono a far riposare i cavalli.
- Sembravate avvezzo a quello spettacolo... Conoscete il satanasso rinnegato che possiede semi cotanto
funesti da far crescere quelle immonde creature?!
Tolomeo, che non sembrava affatto scosso, accennò
un sorriso.
- Non è opera di satana... se è questo che vi preme di
sapere, mio buon compagno di sventura. Ricordate la
sera che c’incontrammo, quando mi svegliai dal sonno
traditore? Ebbene vi menzionai tre categorie, alle quali
non mi ritenevo amico: mentivo.
Lo sfregiato s’incupì nello sguardo, e ripagò l’espressione schernitrice di Tolomeo con una di odio, puro e
incandescente.
- Non abbiatene a male - proseguì il genovese - non
sono amico ne dei demoni e tanto meno sono un
appestato... In realtà io sono al seguito di... - esitò
prima di pronunciare quel nome, si guardò intorno e
quando capì che era il momento, lo pronunziò con
solennità - Valerio Evango Cappanera!!!
Al suono di quel nome il cielo sembrò scurirsi.
In realtà erano i mantelli degli uomini di Cappanera,
che in gran corteo, uno dopo l’altro, si gettarono dagli
alti rami degli alberi, lasciandoli svolazzare come enormi
ali pipistrelli.
L’uomo dai profondi solchi sulla pelle, ricordi di una
flagellazione volontaria, sembrava tutt’altro che spaventato. Il volto trapelava curiosità. Non gli interessavano però tutti quegli scalmanati che a turno gli giravano intorno, sventolando sotto il suo naso una miriade
di lame sporche di sangue raffermo. A lui interessava il
loro capo.
Le urla si fecero più rimbombanti e agguerrite, e gli
sguardi si concentrarono in un solo punto... Cappanera,
doveva essere un soprannome. Infatti quando si parò
davanti ai suoi uomini, sia lui che il suo cavallo, erano
nascosti da coperture di cuoio nero. Tolomeo della
Roccaviva gli andò incontro, salutandolo come un re.
Una voce rauca e tombale fuoriuscì dalla larga griglia
di lamelle di cuoio che copriva la bocca di Cappanera.
- Non salutatemi neppure, vile marrano... se non avete niente da offrirmi vi farò appuntire il palo che penetrerà la vostra stessa carne.
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Tolomeo, che sicuramente aveva un conto in sospeso con lui, sembrava sicuro dell’offerta che stava
per fare al capo dei malavitosi e ostentava, spavaldo,
un tono di voce quasi arrogante.
L’uomo sfregiato si accorse dei numerosi sguardi che
il genovese riversava sulla sacca attaccata al suo ronzino, e in un attimo capì le intenzioni che aveva. Lo
sfregiato era stato legato ad un albero.
Svenne... o fece solo finta di svenire.
Era sorretto da una corda, quando da quel corpo ripiegato su se stesso ne uscì un’esile lucina scintillante. Il percorso di quella scintilla blu non fu lungo, e
quando penetrò nel corpo di Cappanera, dalla griglia
della bocca, nessuno fece caso ai sobbalzi isterici e
convulsi di quel rivestimento di cuoio nero.
Non fu facile per il Messia impadronirsi di quell’essere, ed ebbe l’impressione di non possederlo del tutto.
Tolomeo si scagliò verso la sacca rigonfia e avvicinandosi al convulso Cappanera cerco di aprirla.
- Mio signore - si rivolse solenne al brigante - quell’uomo legato all’albero possiede un enorme tesoro in
questa sacca... che io umilmente donerò a voi!!
Il viso gli divenne paonazzo quando si accorse di non
riuscire ad aprirla. Si fece prestare un pugnale e cercò
di tagliare i legacci, ma senza riuscirci. L’orrore dei
suoi occhi e l’affanno del respiro scaturirono le risa di
chi lo stava guardando. Alla fine, stremato, cadde a
terra in ginocchio, piangente.
La sacca venne raccolta da un uomo, il più grosso
del gruppo, ma non riuscì neanche a sollevarla. Un
gruppo di quattro uomini si accanì sulla borsa brandendo delle enormi spade, e nonostante la potenza
dei colpi sferrati, rimase intatta.
Cappanera scese da cavallo e un varco si aprì tra i
suoi uomini esausti: l’apocalisse stava per compiersi.
Valerio Evango detto Cappanera, in simbiosi con l’essenza del Messia, si avvicinò alla sacca, ma non la
degnò neanche di uno sguardo. Allargò le braccia al
cielo e un urlo terrificante fece aprire uno squarcio tra
le nuvole, diventate livide come le sue vesti.
Gli uomini sentirono tremare la terra, che da lì a poco
si aprì in profonde e nere voragini. Il corpo di Cappanera
si innalzò ad un metro da terra e in quell’istante un
fulmine colpì la sacca che si gonfiò a dismisura.
Quando i lembi di quel cuoio indistruttibile si lacerarono per l’energia che aveva preso vita dall’interno, ne
uscì uno sciame vibrante e assordante che attecchì
su ogni centimetro di carne dei malcapitati.
Sembravano insetti, ma non potevano esserlo: troppo voraci e troppo violenti. Gli uomini venivano raggiunti da ogni parte, e nelle grida di strazio si gonfiavano ed
esplodevano in vortici di pus e frattaglie insanguinate.
Quando nessun uomo rimase vivo, fu la volta di
Cappanera: lo sciame di giganteschi Yersinia Pestis,
il bacillo della peste nera, aveva risparmiato solo quel
corpo.
Il fremito perpetuo che invasava Cappanera, lasciava
trapelare la lotta che vi si stava scatenando all’interno:
il Messia stava faticando non poco per conquistare
completamente quell’involucro dalla forza sovrumana.
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Allora, stremato, in un gesto di sacrificio, richiamò a ano di sensazioni negative, travestite da rimorsi di cosé tutto lo sciame e si lasciò dilaniare... lentamente. scienza: i miei vizi, tutte le ‘missioni’ che ho fallito, la
vergogna che provo per aver costantemente deluso mio
Capitolo terzo: Sade e Masoc
padre: l’Onnipotente.
Trasporto tutta l’energia che mi rimane verso i muLa contessa Ramshtain riconobbe il rumore dei pas- scoli orbitali e imprimo forza, cercando di divaricare le
si dei pretoriani ancor prima che imboccarono il lun- palpebre rigonfie e bluastre. Una lama ghiacciata di
ghissimo corridoio. Il riverbero dei tacchi degli stivali luce argentea del cielo di Berlino, che penetra da una
s’infrangeva sul soffitto per ricadere sui quadri appena tenda stracciata, mi ferisce la retina e mi tronca il reilluminati dai candelabri d’argento. Era un rito che si spiro. In quel preciso momento riemergo dall’abisso e
consumava ogni ultima domenica del mese. I soldati provo a rispondere alla donna. Mi accorgo di avere il
delle SS, che si trovavano nel bel mezzo della volto completamente imbrattato di vomito. Sollevo il
copulazione, erano costretti a lasciare la villa della collo dal giaciglio putrido e zuppo di umori, e dirigo
contessa, e il più delle volte si ritrovavano nudi, con le quello che rimane del mio sguardo verso la porta.
divise in mano, scaraventati nel fastoso giardino. I corpi - Non si preoccupi fraulein Mushtang... abbiamo solo
atletici dei soldati tedeschi si confondevano con le festeggiato ...
statue che abbellivano le fontane e i dedali di cespugli. Quelle parole mi escono rauche e rimbombanti, come
Anche le puttane del bordello della contessa, venivano se provenissero da una profonda caverna. Quando senradunate in tutta fretta in una zona della villa senza to che la donna, borbottando, riscende le scale, un
finestre, e tenute all’oscuro su quello che doveva ac- conato di vomito mi piega in due. Mi sporgo dal letto e
cadere.
rimetto tutto il liquido che mi è rimasto nelle viscere
Ora che il silenzio era calato sull’antica casa di tolle- sulla tela che stavo dipingendo. L’ afferro e cerco di
ranza, come un’ ultima palata di terra su una bara, la pulirla alla meglio. E’ come se stessi rimirando un pezzo
contessa si avvicinò alla porta segreta nascosta dietro della mia coscienza dall’esterno. Riconosco quella
un finto camino. Con il suo inseparabile bastone bian- ragazza nuda legata ad una grossa statua. E’ Ghustaff,
co per cechi, picchiò su una mattonella vuota del pavi- il femmineo Ghustaff... uno degli angeli perversi della
mento. La parete si aprì lentamente; un’ombra dalla villa della contessa Ramshtain.
sagoma poco rassicurante si celava dietro di essa. Lo
scricchiolio delle giunture antiche, vibrò nell’aria così Eravamo ad una festa di un ufficiale della Gestapo, e
forte che un sottile vetro di un orologio si crepò.
io mi trovavo lì in veste di cameriere. La serata iniziò in
Per qualche attimo la contessa e l’uomo incappucciato maniera consueta: soliti balli, solita musica, solito tutrimasero in silenzio: l’uno davanti all’altra. Quando l’uo- to. L’unica cosa che mi sembrò fuori dalla norma era la
mo ebbe la certezza che nessun altro si trovava nelle presenza di Ghustaff, truccato e vestito da donna (io
vicinanze, sciolse il laccio alla gola e lasciò scivolare il non sapevo ancora che fosse un uomo) aveva una luce
lungo mantello dietro di sé. La contessa, che con i che neanche le più belle donne della festa avevano, e
suoi occhi spenti fissava un punto non definito nel vuo- ad ogni suo passo, trascinava dietro sé un’ orda di
to, stirò le rughe del suo viso in un tetro sorriso senza uomini in divisa. Da lì a poco, l’unica musica che si
allegria. E con una voce impolverata, come se uscisse sentì fu quella degli ululati dei tedeschi, trasformati
da una cripta, si rivolse all’uomo con rispetto e compli- dall’alcol e dalle droghe in animali dagl’istinti primorcità.
diali. Si rotolavano in orge innominabili. Io riuscii a pro- Gli angeli sono appesi e le candele sono gia attiz- curarmi la divisa di un ufficiale che era troppo preso in
zate.
acrobatiche posizioni per indossarne una. Dietro un
L’uomo, al suono di quelle parole si sentì fremere. Le enorme vaso la indossai, e , nascosti i miei indumenti,
vene del collo si gonfiarono sotto il colletto aderente presi a passeggiare indisturbato nei meandri del cadella divisa e un velo di sudore imperlò la sua fronte. stello che ospitava la festa. A stento riuscivo a cammiSi passò la mano sull’acconciatura dei capelli, nera nare senza calpestare quei corpi che si contorcevano
corvina che tagliava la fronte a metà, da una tempia sul pavimento, e ora una donna, ora un soldato, mi
all’angolo del sopracciglio opposto, e dopo essersi rior- invitavano a spogliarmi e partecipare alle loro effusioni.
dinato il quadratino di peli neri che portava con tanta Come in trance seguivo il mio istinto: stavo cercando
vanità sotto il naso, si avviò in direzione di quella porta quella donna: la più corteggiata; ma non riuscivo a troche occultava il suo paradiso/inferno.
varla. Salii al primo piano calpestando, senza volerlo,
la faccia di un uomo che giaceva, inerme, sull’enorme
Una mano picchia violentemente sulla porta. Una voce scalinata. Dalle porte socchiuse che si affacciavano
sgraziata, di una donna di una certa età sta urlando sul salone intravidi e sentii di tutto; ma la mia curiosità
qualcosa che non riesco a distinguere. Deve essere la fu appagata solo quando ebbi sentito la voce di quella
padrona di casa che si sta lamentando con me per il donna provenire da una porta chiusa. Mi chinai sulla
frastuono che avrò fatto ieri sera. Forse vuole solo sa- serratura e iniziai a sondare la stanza. Il respiro conpere se sono ancora vivo.
vulso dell’eccitazione mi gonfiava il petto e la pressioL’attimo che dal sonno mi riporta alla realtà è lun- ne del sangue, quasi, mi sigillò i timpani. Non riuscivo
ghissimo, infinito, e in quel frangente mi invade un oce- a credere a quello che stavo vedendo.
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Un’esile donna, seminuda, stava massacrando di frustate e legnate un uomo, il quale sembrava tutto, tranne che sofferente. Rimasi incredulo e muto per tutto il
tempo, sino a quando l’uomo fustigato non perse i sensi
e rimase immobile alle percosse della donna. Quando
cominciai di nuovo a connettere, distoltomi dallo shock,
vidi che la donna era ricurva sull’uomo e cercava inutilmente di farlo rinvenire. Prima gli versò un intero
secchiello porta ghiaccio sul viso e sul petto, poi cercò di farlo respirare premendogli i polmoni, ma tutto
questo risultò inutile.
L’aiutai a scappare dal castello, senza farci accorgere
da nessuno e quella stessa notte divenni il tenutario di
innumerevoli segreti.
La tenni a casa con me, nascosta, anche dopo aver
scoperto che in realtà si trattava di un uomo. Quello
che mi rivelò in quei giorni, mi fece ricordare chi ero e
cosa ci facessi sulla terra: un Messia in cerca di redimere il male.
Per quasi un mese rimanemmo chiusi nel mio appartamento. C’erano giornate in cui non avevamo bisogno
di parlare; lo ritraevo sui miei quadri come una silenziosa e malinconica venere, ed altre, in cui non facevamo altro che perderci nella profondità dei nostri sguardi, e parlare. Con strategia subdola e penetrante, entrai nelle grazie di questo angelo della perversione, e
tra una droga e l’altra, sigarette dal fumo denso e
azzurrognolo e vini pregiati, divenni il suo amante. Tutto faceva parte del mio piano. Mi diede tutto il suo
amore e tutta la sua fiducia; fino a raccontarmi l’ultimo dei suoi segreti... il più importante, quello che in
realtà il mio istinto di Messia stava cercando.
Sento dei lamenti che arrivano da dietro la vetrata dell’enorme porta della camera. Non riesco a mettere a
fuoco quella figura esile che si sta contorcendo, lentamente, senza forze. Non ricordo niente, non so chi
potrebbe essere... avanzo a passi lenti sul legno gelido del pavimento, ho la testa che pesa come un macigno e vedo Ghustaff, legato alla statua che avevo scolpito quasi duecento anni prima. Ha i polsi e le caviglie
tagliate dalla corda che lo tengono stretto alla scultura, e sulla schiena ha delle strisce di pelle rosse,
rigonfie e livide. Ho ancora in circolo qualche sostanza
che non vuole saperne di andarsene. Prendo il quadro, lo riassetto sul cavalletto e ricomincio a dipingere,
non curante del dolore che prova il mio modello. Verso
sera, quando Ghustaff è svenuto da qualche ora, mi
accorgo che sto dipingendo al buio; lascio i pennelli e
inizio a trafugare tra gli indumenti e i trucchi del mio
amante.
Rivivo i gesti che abitualmente compie Ghustaff, mentre si trucca davanti a me, in una gestualità ipnotica...
lo imito leggero, come una farfalla: sono entrato in lui.
Esco di casa come una gran dama, tanto che la padrona rimane stupita nel vedere che una prostituta di
alto borgo esce dal mio appartamento, e mi saluta
con reverenza e ammirazione. So che è l’ultima domenica del mese; so che devo precipitarmi alla villa della
contessa Ramshtain; conosco tutti i dettagli, con pre-
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cisione, del ‘lavoro’ che Ghustaff deve svolgere e so
che questa volta non fallirò la missione.
La stanza è quasi completamente buia. Quattro ragazzi, sollevati in aria da fasce di cuoio, reggono delle
candele. In basso, su un lettino cosparso di pezzi di
vetro piccolissimi, un uomo, anch’esso immobilizzato, e mascherato con una calotta di plastica lucida e
nera, ansima ad ogni colata di cera bollente che gli
angeli appesi lasciano cadere dalle candele. Io, giro
intorno all’uomo; il suo alito mi arriva al cervello, e in
esso, sento l’odore della morte. Il lezzo di un pazzo
omicida, che sta trucidando milioni di persone...
Le mie frustate gli aprono solchi vermigli nella carne
bianca e molle come ricotta, e i suoi gemiti vibrano,
sordi, per tutta la villa, come spari con il silenziatore. Il
folle stratega che si cela dietro quella maschera di
caucciù è ormai allo stremo delle forze, non geme
quasi più. Tre candele su quattro si sono spente e il
buio avvolge la stanza, soffocandola come due mani
strette ad un collo. Quando anche la quarta si spegne,
solo i miei occhi si orientano in questo nero magma
accecante.
Una porta cigola e si apre.
Una scalinata di marmo: troppo gelida per chi ha appena assaggiato il calore della cera bollente.
Una vetrata di una finestra spalancata. E finalmente:
aria...
Mi sorprendo anch’io nel sentire la voce di Ghustaff
che mi esce dalla gola, quando ordino all’uomo davanti a me di togliersi la maschera. L’uomo, che barcolla a
piedi nudi sulle tegole del tetto, non se lo fa ripetere. Il
suo stupore si confonde con il mio orgoglio, mentre la
maschera gli scivola dalle mani. Non riesce a spiccicare
una parola anche se muove la bocca e trema. Sarà il
freddo vento della notte berlinese... o sarà la gelida
mano della morte che lo sta accarezzando?
Accenno un sorriso, impossibile da catalogare con
un aggettivo terrestre e avanzo verso la fine del tetto,
spingendo davanti a me l’uomo che ormai è diventato
più bianco della luna. Il mio sorriso si avvicina sempre
di più a qualcosa di inumano, fino a sfociare in risate
che si condensano nell’aria fredda in sbuffi candidi.
Sotto i suoi occhi piccoli e neri, sono me stesso: il
Messia. Apro le braccia al cielo, in un gesto solenne,
come per raggruppare in una parentesi divina il male
che impersonifica quell’essere davanti a me. E mentre
lui indietreggia, io avanzo: inesorabile. Ad un passo
dal cornicione, alto più di trenta metri, non faccio più
caso a niente, neanche alle grida dei pretoriani, le guardie del corpo di Hitler, che mi intimano di fermarmi. Il
rumore degli spari che squarciano il silenzio della notte, non appartiene al mio mondo; io sono di un’altra
identità... in un’altra dimensione... e i proiettili: uno ,
due, diciassette, che spappolano la mia schiena non
arrestano il mio percorso. Sto guidando Hitler verso la
morte. Ormai sono aria... pura essenza eterea, e mentre afferro il Fuhrer in un macabro abbraccio, spicco
un leggero balzo verso il vuoto. Un tuffo... e più niente.
Ad ogni metro verso terra i suoi occhi si girano all’in-
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dietro, fino a diventare completamente bianchi.
del mondo, e in breve, divenne per le polizie internaSento ancora il suo fiato che mi arriva al cervello, ma zionali, la terrorista da eliminare.
questa volta il lezzo che si sente è quello della sua In dieci anni di attività eversiva, riuscì a sfuggire alla
morte.
Nippolice giapponese durante la grande ondata delle
farmaco-tek-multinazionali; alla Stapo tedesca e alle
Prima di lasciare quel corpo terrestre, feci in tempo a truppe scozzesi, quando si unirono per invadere il
vedere il cranio di Hitler aprirsi i più pezzi, in un tonfo mercato dell’acqua potabile; poi fu la volta della Russordo. Tra gli occhi stupiti delle guardie del Fuhrer, sia e la sua Naffa-polìzka; e così per la maggior parte
c’erano anche quelli della contessa e sembravano gli dei paesi, che in un modo o nell’altro, avevano indiviunici che riuscivano a guardarmi veramente.
duato nel fragile popolo africano, e nella loro terra, un
L’indomani, Hitler convoca i suoi sosia in una riunio- facile guadagno.
ne straordinaria. Un castello medioevale nei pressi della Con prezzi molto alti per la popolazione africana, tutforesta nera, fa da cornice a questa folle messa in sce- te queste forze ebbero la peggio, e i Tecno-Zulu, pur
na. All’appello però, ne manca uno...
rimanendo latitanti, e con tecniche terroristiche, continuarono la loro opera di opposizione.
Capitolo quarto: Mosche locomotive
- Sembra che a voi queste mosche non diano nessun
Il Trans-Africane-Express, nonostante gli anni e la fastidio.
ruggine, era ancora il mezzo più veloce per attraversa- Lei abbassò gli occhi e si vide riflessa nel liquido verre la zona maledetta della Nuova Africa.
de del suo bicchiere.
Il suo percorso era monotono e asfissiante. Un’infinita - Ci sono abituata.
linea retta di binari ossidati e insabbiati, collegava in Mormorò senza quasi muovere le labbra.
diagonale le due zone abitate. La temperatura di que- - Sono nata...
sta zona intermedia era altissima, tanto che in passa- - Aspetti, aspetti...
to si erano verificati molti casi di ‘cottura’. Gente che La interruppe lui, in modo deciso ma garbato. L’uomo
era morta, arsa viva, all’interno dei vagoni che non ave- aveva un chiaro accento nord europeo, con tutta provano retto la temperatura desertica.
babilità era olandese.
E a metà del percorso, non era strano incontrare for- - Mi lasci indovinare: lei non è una Dub-Masai, lei è
me di vita animale e umana resi mostruosi dalle una Zulu. Forse una Tecno-Zulu?!
sperimentazioni atomiche, che i dittatori occidentali - Sono proprio una Tecno-Zulu, il colore della mia pelle
abitualmente compivano.
è un marchio indelebile.
Questi esseri, nomadi in un inferno artefatto, mutati L’uomo nascose un sorriso malizioso dietro un movibiologicamente, erano gli unici a sopravvivere a queste mento del fazzoletto, con il quale detergeva l’abbontemperature.
dante sudore che gli colava da tutte le parti.
Il mastodonte ferroso era alto quattro piani e largo - In tutta sincerità, se mi concedete di essere schiettredici metri, ma nonostante la sua mole, riusciva a to - lei accennò con la testa un movimento di assenso,
toccare i settecento chilometri orari. E la potenza del- e lui riprese - non è dal colore della pelle che me ne
la velocità non era dovuta ad un’esigenza di arrivo, quan- sono accorto. I vostri capezzoli blu: quelli si che sono
to a superare quella zona dannata riportando meno un marchio che non si può nascondere... Soprattutto
conseguenze possibili.
sotto una t-shirt così trasparente.
Alle stazioni, gruppi di addetti alla manutenzione, - Se non avessi la pelle scura capirebbe che sto arscrostavano dalle pareti del treno le carcasse degli rossendo.
animali o degli uomini atomizzati che, trovandosi nelle - Oh... Mi dispiace, potete perdonare questa mia sfacvicinanze dei binari, rimanevano travolti e risucchiati ciataggine? Se vi metto in imbarazzo smetto subito di
dai vortici d’aria che si formavano al passaggio del tre- parlare...
no. E solo analizzando queste carcasse si era venuti - Non sono le vostre parole a mettermi in imbarazzo,
a conoscenza degli esperimenti atomici abusivi.
sono i vostri occhi: troppo vigili e penetranti... SopratIl governo fantoccio della Nuova Africa era manipolato tutto per la mia maglietta.
dalle grandi nazioni d’occidente, e i presidenti che si Si guardarono, restando immobili per un lunghissimo
succedevano, furono corrotti uno ad uno, lasciando l’in- istante silenzioso, poi scoppiarono a ridere, allentantero paese in un caos generale.
do il nodo di tensione che si era creato.
Solo piccoli gruppi riuscirono a comprendere che la Continuarono a bere per una buona mezz’ora. Lei inuNuova Africa si stava sgretolando in nome delle grandi midiva le sue labbra carnose in una soluzione disseindustrie e di dittatori assetati solo di potere. Tra tutti, tante color menta, continuando a sbattere le lunghisi Tecno-Zulu furono i più caparbi e i più pungenti nella sime ciglia, e guardando l’uomo dinnanzi a lei dal baslotta.
so verso l’alto.
Comandati da una donna, Lady nDacumba, figlia di Lui, nonostante il suo abbigliamento elitario, ingollava
una rivoluzionaria scomparsa molti anni prima, erano enormi sorsate di una birra liquorosa, estratta dalla
riusciti ad infliggere numerosi colpi mortali al sistema. muffa di un fungo olandese, in maniera del tutto priva
Le gesta di questa rivoluzionaria avevano fatto il giro di finezza.
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Di punto in bianco, lei, con la sua aria da antilope
nera e con un filo di voce, indirizzò la conversazione in
un parametro più confidenziale.
- E’ qui per lavoro immagino?
Sino a quel punto, nonostante l’imbarazzo del sudore, lui aveva ostentato un atteggiamento spavaldo, ma
a quella frase reagì in modo assai strano e impacciato. E lei se ne accorse.
Dopo un’ennesima sorsata di birra, l’uomo sembrò
recuperare il terreno perso. La gradazione alcolica della bevanda lo aiutò a disinibirsi davanti a quel superbo
esemplare di femmina scolpita nell’ebano, ma sicuramente contribuì anche farlo sudare ancora di più.
Cancellò dalla mente quella domanda che l’aveva
messo in difficoltà e alla quale non avrebbe mai risposto, e pensò al motivo per la quale la ragazza si era
seduta al tavolino del vagone ristoro: sesso a pagamento.
Il Trans-African-Express sfrecciava tra le dune come
un razzo, e ogni tanto alcuni esseri atomizzati, che si
trovavano sul percorso dei binari, si spiaccicavano sugli enormi finestroni, farcendoli di materia organica dai
colori fosforescenti.
- No... Sono qui in vacanza.
Rispose con uno sguardo che lasciava ravvisare il
grado alcolico contenuto nel sangue.
- Voglio solo divertirmi.
E pronunciando questa frase, si passò
inequivocabilmente l’enorme lingua giallastra sulle labbra.
Disturbato dalle mosche, tornò serio, mentre
platealmente le scacciava dal viso.
- Maledizione a questi insetti dannati.
Imprecò ad alta voce. Sicuramente se fosse stato
meno alticcio non avrebbe usato quelle maniere.
- Ma a voi non danno per niente noia?
E notò, smarrito, che le mosche volteggiavano solo
sopra la sua testa.
Lei assunse nel viso un’espressione da rebus, e con
aria enigmatica rispose all’uomo che continuava a gesticolare con le braccia.
- Non mi danno nessun fastidio, anzi mi fanno molto
divertire...
Lui dovette frenare un impulso di violenza che stava
guidando le sue mani a colpire la donna. Quella frase
lo aveva irritato. Come se non fosse abituato ad essere schernito; come se abitualmente ricopriva cariche
di prestigio, e fosse abituato a mettere lui in imbarazzo chi gli stava dinnanzi: un graduato militare forse? E
tutti questi particolari non sfuggirono alla Tecno-Zulu,
che nonostante l’abbigliamento appariscente che metteva in mostra tutte le sue doti di ammaliatrice, ad un
occhio attento, sembrava tutto tranne una prostituta.
- Questi insetti sono amici miei da molto tempo: e gli
ho chiesto di stare solo addosso a voi.
L’olandese rimase inebetito da cotanta sfacciataggine, in altri momenti, chi si fosse azzardato a parlargli
in questo tono, avrebbe fatto una brutta fine. Ma non
era il momento di lasciar trapelare nessun particolare
della sua vera identità. E sforzandosi un poco scoppiò
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a ridere fragorosamente. La ragazza lo seguì con risa
altrettanto sforzate, ma non lo diede a vedere.
Di colpo lei tornò a sterzare su un dialogo più intimo
e misterioso. Lui si ricompose immediatamente, ricco
dell’esperienza di qualche minuto prima, e capite le
regole del gioco, iniziò a prenderci gusto.
- Non dovete chiedermi niente?
Fece lei fingendo uno sguardo timido.
Lui davanti a quell’espressione, si sentì ringalluzzire
gli ormoni. Gli si avvicinò con la bocca all’orecchio e le
mormorò qualcosa, lasciando una scia di alito pestilenziale. Lei si sforzò di non respirare per una manciata di secondi, e con non chalance appoggiò l’indice
su un quadratino di cristallo, fissato sul bordo del tavolino. Dall’alto scese un braccio meccanico che sorreggeva un piccolo display, nel quale c’era segnata la cifra che l’uomo avrebbe dovuto pagare per possederla.
Gettò un’occhiata distratta, il prezzo era esorbitante.
Poi senza battere ciglio, introdusse nell’apposito solco il suo micro-credit.
Lei si girò verso una vecchia cicciona, tutta impomatata
e vestita con un tessuto che sembrava una carta da
parati. Era seduta in fondo al vagone, all’interno di una
reception. La ragazza color ebano fece un cenno con
gli occhi in direzione dell’anziana, la quale si avvicino
al suo video, per controllare se il micro-credit dell’uomo era coperto, con movenze da diva del cinema muto.
Il suo seno era talmente grosso, che avvicinandosi
allo schermo, quasi lo coprì. Diede una veloce scorsa
ai dati. Il nome sicuramente era fasullo, ma il credito
era reale: Art Van Noveau-Credito ottimale- ACCETTATO. La cicciona sorrise e alzò lo sguardo verso i due
che stavano aspettando la risposta. Poi abbassò la
testa coronata con una parrucca viola, come per invitare i due ad uscire dal vagone.
La ragazza fissò con uno sguardo introspettivo l’uomo, e languidamente gli rivolse la parola.
- Dammi il numero della tua cabina.
E scherzando, ruggì facendo finta di graffiarlo con le
enormi unghie argentate che le brillavano sulle dita.
- La mia camera è la 1064b, appena prima della locomotiva.
Pronunciate queste parole, l’uomo arruffò le rughe del
suo volto in una smorfia di collera. Si pentì di aver riferito alla ragazza il numero della sua stanza, come se
tutelasse in essa chissà quale segreto. I suoi occhi si
trasformarono in due linee rosse, mentre una goccia di
sudore, gialla e densa, gli colò dalla fronte per poi posarsi sulla punta del naso.
- Forse però, è meglio se andiamo nella tua.
La ragazza, senza battere ciglio annuì con un largo
sorriso.
- Ok.
E alzandosi dal tavolino mostro all’acquirente tutta la
merce che aveva comprato chiusa in pantaloni di plastica, di un azzurrino anch’esso trasparente.
- Ci vediamo alla 386e, quasi alla fine del treno, tra un
quarto d’ora.
Uscendo dal vagone, enfatizzò il movimento dei fianchi, consapevole che l’uomo la stava guardando. Ap-
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pena la porta scorrevole di cristallo si richiuse alle sue
spalle, la ragazza si girò in direzione dell’uomo per
salutarlo, ma lo vide di nuovo sbracciarsi alla ricerca
affannosa di quelle maledette mosche che non gli avevano dato pace.
La ragazza era superba, sembrava una notte stellata
fatta a donna, ma nei suoi enormi occhi brillava una
luce di rancore, una vendetta non ancora compiuta, la
voglia di un brindisi con un calice colmo di sangue
nemico.
Dopo pochi passi, con uno scatto improvviso, ripiegò
in un bagno del corridoio. Aveva perso tutta la calma e
l’eleganza che aveva sfoggiato poco prima con l’uomo
che era riuscita ad ammaliare.
Si sedette a gambe aperte sul lavabo e respirò a pieni polmoni come per imporsi di rilassarsi prima di darsi
la carica. Si passò le lunghe mani sul cranio rasato,
per togliere il velo di sudore che le faceva brillare la
cute e, con un gesto navigato, si staccò un unghia dal
pollice della mano sinistra. Sotto l’unghia finta, aveva
un nano-processore. Si alitò sull’indice dell’altra mano
e dalla punta usci una specie di ago che sarebbe servito a digitare sulla micro tastiera del nano-processore.
Digitò solamente il numero della stanza dell’olandese, e in un batter d’occhio, le mosche che si trovavano
nel vagone ristoro sopra la testa di Art Van Noveau,
scomparvero all’istante.
Una spia lampeggiante però, richiamò l’attenzione
della Tecno-Zulu: non tutte le mosche avevano risposto al suo comando: ne mancava una.
L’olandese si fece portare altre birre, che ingollò in
pochi istanti, continuando a ripetere un brindisi incomprensibile.
- Alle mosche, alle maledette mosche!
E innalzava una mano chiusa in segno di vittoria, come
se in quel momento avesse vinto una battaglia personale con un nemico invincibile.
Lo sciame di mosche s’intrufolò nei condotti dell’aria
condizionata e dopo trentasei Dec della scala Stallher,
uscirono dal bocchettone della cabina 1064b.
Dopo averla perlustrata da cima a fondo, tra i vestiti
di una valigia chiusa ermeticamente, le mosche
scannerizzarono l’oggetto che stavano cercando: la
memoria portatile dei documenti dell’olandese. Dopo
varie evoluzioni in aria, lo sciame si ricompose a pochi
centimetri dalla valigia. Il ronzio che emettevano lasciava capire che era in corso una mutazione collettiva. Infatti in poco tempo, grazie all’unione dei componenti degl’insetti che si stavano collegando tra di loro,
si trasformarono in un avanzatissimo Demolecolatore.
Non fu raggiunta la perfezione perché mancava un
componente. Ma la valigia in un istante svanì dalla stanza dell’uomo per riapparire nel bagno, sotto gli occhi
della donna dalla pelle nera.
Art Van Noveau si alzò a fatica dallo sgabello che
stava occupando da almeno un’ora e pensò che con
tredici birre in corpo, forse non sarebbe riuscito a portare a termine l’atto sessuale per cui aveva pagato.
Attraversò il vagone ristoro sorretto da due gambe
tremanti. Poi si fece forza e cercò di darsi un conte-
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gno, come se sapeva che attraversando tutto il treno
per raggiungere la cabina della ragazza, sarebbe passato davanti a molte persone che lo conoscevano. Infatti al suo passaggio, la maggior parte degli uomini
che affollavano i vagoni, s’intimidirono e quasi scattarono sull’attenti. Van Noveau dopo tre vagoni si riebbe
quasi del tutto dalla sbronza e fulminò con uno sguardo velenoso tutti quelli che accennavano ad alzarsi in
piedi per mettersi sull’attenti.
La Tecno-Zulu con la notte sulla pelle e le stelle negli
occhi non ebbe difficoltà a disinnescare l’esplosivo
dell’antifurto della valigetta. E una volta connessa con
la memoria portatile di Van Noveau, visionò il contenuto dei documenti.
Le sue deduzioni riguardanti la crociata di Papa
Sigfrisio in Africa, si erano rivelate esatte. Quel treno
era carico di armi e guardie olandesi al servizio del
Vaticano.
Il governo fantoccio della Nuova Africa, soggiogato da
chissà quali promesse di ricchezza, aveva spalancato
le porte segretamente al potere di Rhoma e del suo
dittatore, ma per il momento, tutto era tenuto segreto.
Il popolo africano, nonostante le tecnologie avanzate
che gli permetteva collegamenti e informazioni con tutto
il mondo, ignorava quello che stava per succedere.
Art Van Noveau, davanti alla cabina 386e, tirò un sospiro di sollievo. Aveva dovuto attraversare tutto il treno
per raggiungerla, e gli era costata parecchia fatica, ma
gia pregustava la tenera carne della pantera Zulu.
Sulla soglia della cabina, si asciugò per l’ennesima
volta il sudore e prima di aprire la porta accostò l’orecchio, incuriosito dal vociare che sentiva provenire da
dentro. Dovevano esserci parecchie donne, chissà,
forse nel prezzo era inclusa qualche prestazione straordinaria con altre ragazze. Incuriosito si decise ad
entrare.
All’interno però non trovò la Tecno-Zulu, ma un
gruppetto di ragazze intente a soddisfare le esigenze
di un uomo grasso e vistosamente ricoperto di monili
doro. L’uomo, il cui peso doveva superare i duecento
chili, d’istinto afferrò un’enorme sputa-razzi e gliela
puntò addosso. Sicuramente proveniva dalle colonie di
Nettuno, infatti, colto dallo spavento, la sua copertura
umana svanì, rivelando la sua vera identità.
Le ragazze alla vista di quei tentacoli cosparsi di una
materia filante e collosa, scapparono in direzione dell’olandese.
- Signore: riponete quella sventra-dinastie... deve esserci uno sbaglio. Questa non è la cabina che stavo
cercando, è evidente. Adesso farò tre passi indietro,
non sono armato, e uscirò dalla...
Art Van Noveau, aveva lavorato spesso con i coloniali
di Nettuno e conosceva bene il carattere irascibile di
questi esseri. Sapeva che da un momento all’altro poteva finire in strage e non poteva permettersi nessuna
variazione dal suo programma. Non riuscì a finire la
frase che il suo circuito nervoso agì, come negli insegnamenti delle accademie militari olandesi. Il suo pugno andò a colpire l’unico occhio del coloniale: il punto
debole.
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La mano penetrò all’interno della scatola cranica e il
coloniale rimase paralizzato e senza vita.
L’olandese faticò non poco ad estrarre il pugno chiuso dal pertugio che aveva creato. Si guardò la mano
lordata da umori purulenti, e si ricordò che stava ancora stringendo la mosca.
Sentì un ronzio particolare. Pian piano allargò le dita
e quando ne visionò il palmo la collera s’impossessò
delle sue membra. Non riusciva a darsi pace, e
ricontrollò l’insetto parecchie volte: era un cyborg
telecomandato.
‘’Questi insetti sono amici miei da molto tempo: e gli
ho chiesto di stare solo addosso a voi.’’
Le parole che la Tecno-Zulu aveva pronunciato gli risuonavano nella testa come campane a morte. In un
attimo tutto fu chiaro. Corse a perdifiato tra i vagoni del
treno, non badando agli sguardi dei suoi soldati, che
si guardavano smarriti. Il treno stava rallentando precipitosamente, proprio nella zona a rischio.
Quando Art arrivò nella sua cabina il treno si era fermato del tutto.
S’inginocchiò a terra per cercare la sua valigetta, ma
non trovò nulla.
Una guardia di ritorno dal bagno si precipitò da lui
mostrandogli la valigetta con le sue iniziali, che aveva
trovato un istante prima sul lavandino.
L’urlo della disperazione implose tra lo stomaco e il
petto e un rivolo di sangue sgorgò da una narice di Art
Van Noveau: Generale delle guardie olandesi, al servizio del Vaticano da parecchi lustri, sconfitto prima ancora di iniziare la battaglia.
Il circuito elettrico del treno era stato sabotato e con
esso anche l’impianto di refrigerazione.
Si trovavano bloccati e isolati nella zona dannata dell’Africa. Una lunga agonia avrebbe preceduto la morte
delle migliaia di soldati che si trovavano nel treno. E in
più, le armi, che servivano per la crociata di Papa
Sigfrisio, sarebbero andate perdute irrimediabilmente.
L’olandese non aveva mai pianto in vita sua, neanche
da neonato, ma quando vide dal finestrino che la locomotiva del treno era stata staccata dal resto dei vagoni, capì che la Tecno-Zulu da sola, aveva sconfitto un
esercito intero: il suo.
Capitolo quinto: Pillole, pillole, pillole...
Quando Ghus, il mio satellite, mi comunicò il
curriculum di Thanfo Chazesku, decisi di intervenire.
Volevo redimere questo figlio di Satana, e fare piazza
pulita; ma non tutto andò come avevo previsto... Troppe cose mi accomunavano a lui.
Camminava in bilico, con innata attitudine, sul sottilissimo filo che delimita il confine tra il peccatore e
colui che lo redime; dava la caccia alle peggiori anime
rinnegate, faceva uso di pillole, aveva alle spalle numerosi fallimenti e aveva un carattere chiuso e impenetrabile... forse, questo lato del carattere, era da attribuire al fatto che era sordomuto.
Capii che tra me e lui c’erano molte affinità e che
prima di intervenire per redimere lui dovevo usare que-
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sto corpo come un comodo autobus e lasciarmi condurre lungo tutta l’autostrada per l’inferno, in un viaggio
gratis, senza intervenire direttamente.
L’avrei lasciato libero di fare il suo dovere, e quando
fosse arrivato il suo momento, sarei intervenuto su di
lui.
Entrai nel corpo di Thanfo Chazesku e rimasi nascosto tra le fasce muscolari e la sua coscienza... mi
accomodai in un angolino e rimasi a guardare...
L’antidolorifico sta svanendo e nelle vene inizia a scorrere il dolore. Ho appena terminato l’ultimo ‘servizio’
che mi hanno affidato. Penso che per un po’ in città, di
fanatici-maniaci-fondamentalisti-terroristi non se ne
vedano più.
Sono seduto su un cumulo di ventiquattro morti, mentre mi tampono le ferite. Quasi tutti i proiettili che mi
hanno colpito, sono entrati e usciti, e ho un foro sulla
spalla, ancora fumante, che ci si può guardare attraverso. Poi controllo più in basso, dove sento uno strano ronzio; mi guardo la gamba e vedo una ferita che
rigetta schiuma di plasma, e qualcosa di gonfio che si
muove sotto pelle. Hanno usato pallottole cimici!... Una
mi sta camminando dentro. Appena troverà un organo
vitale inizierà a rosicchiarlo e a quel punto sarò finito.
Ingoio dodici pillole di polvere emostatica, tre di anestetico e mi sforzo di rilassarmi. Afferro il minilaser e
inizio a incidere la carne in direzione della pallottola
cimice. Devono essere di ultima generazione, perché
mi sembrano più intelligenti di quelle vecchie: sembra
che si sia accorta che sto cercando di prenderla e
allora inizia a rosicchiare più in fretta per scappare.
Non riesco ad acciuffarla. La seguo con il laser lacerandomi tutta la pelle della gamba. Finalmente la blocco. Gli premo il pollice sopra, incido la carne intorno e
porto di scatto la bocca sul punto che vibra.
La cimice inizia a scavare in profondità. Sento che è
quasi arrivata all’osso. Metto la bocca a ventosa e preso dalla disperazione inizio a succhiare come un forsennato.
Le vene della fronte e del collo sono colme di sangue
e adrenalina e quando alzo la testa con la pallottola fra
i denti ho una maschera agghiacciante al posto della
faccia. So che tra qualche istante attuerà il dispositivo
di auto-combustione e senza pensarci troppo la sputo
più lontano che posso. La fiammata disegna un arco
innaturale nel cielo e si dissolve nell’aria.
Non posso fare a meno di pensare cosa mi avrebbe
fatto se non fossi riuscito a toglierla.
Ho perso troppo sangue. Le mie vene si sono sgonfiate. Mastico quarantadue pillole di plasma concentrato e nel mentre, guardo il circuito venoso che si rigonfia. Non ho tempo di ricucirmi la ferita sulla gamba
e gli altri fori, e decido di utilizzare un collante per il
ferro che mi hanno dato in dotazione.
All’improvviso si muove qualcosa sotto le gambe. Mi
accorgo che un fondamentalista terrorista è ancora vivo.
Non lo degno neanche di uno sguardo, ma vedo con la
coda dell’occhio che sta sbraitando contro di me. Non
posso sentirlo, ma intuisco che non ha parole troppo
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carine nei miei confronti.
Con disinvoltura e molta calma, imprimo forza al braccio destro, il tanto che basta per sollevare i diciassette
chili di metallo che compongono il mio mini bazooka
da braccio. Il messaggio neuronico arriva puntuale al
processore che innesta lo start: boooom!!!
Vedo il flash dell’esplosione che illumina i frammenti
del cranio in aria: è violentissima. I miei timpani non
vibrano neppure, tutto il resto si.
Il mondo è fatto di eroi e quando vedo il mio nemico,
che con mezza testa e gli arti spappolati, imperterrito,
inveisce contro di me, mi alzo in piedi e applaudo.
Il bazooka è scarico; delle tre sputafuoco, una l’ho
lasciata nel bunker e le altre due mi si sono fuse tra le
mani; la rugginosa scoppiettante è scarica; le ananas al napalm: usate; non mi rimane che passare all’arma bianca: i denti.
Mi avvicino al mozzicone umano e con fare diabolico
affondo il mio avorio sul suo collo. Mi bastano tre morsi e la testa è staccata.
E’ stato un mese difficile. Ho avuto vent’otto servizi
da portare a termine. Giorno e notte al lavoro. Adesso
che anche questo è concluso, esigo una pausa: un
meritato sollazzo; l’unico che valga la pena di essere
vissuto, il più bello... Navratila la dea.
Decido che se troverò i clienti che fanno la fila, li scaccerò via a schiaffi. Navratila, questa sera, deve essere
solo mia.
Non ho bisogno di prendere a schiaffi nessuno, perché mi conoscono, e quando mi vedono arrivare se la
battono a gambe levate.
Prima di entrare nella stanza della dolce Nav, faccio
un salto alla cassa. Ulma ha centotrentasette anni e
duecento interventi di bio-plastica, e ha un figurino da
trentenne.
Quando mi vede, a momenti le scoppiano le cuciture
dietro le orecchie dalla felicità. Non posso sentire, ma
sono sicuro che tutte quelle cianfrusaglie, tra orecchini, anelli, collane e braccialetti, quando cammina o si
muove, fanno un tintinnio tremendo. Mi stacco a fatica
dalla quinta misura di Ulma e imbocco il corridoio per
gli ascensori.
Il tasto del quarto piano è il più caldo, non ho dubbi, è
anche il piano più frequentato.
Inizio a sentire la fragranza dei suoi ferormoni nell’aria: sono in estasi. Non ho neanche bisogno di inserire il ticket nella fessura sulla porta, io sono il suo
amore: non pago. Sto per varcare la soglia del celestiale
peccato.
Pillole?
Macché... in questi momenti, la mia carcassa si
autoalimenta.
Nel buio, vedo i capezzoli e le labbra: fosforescenti.
Lei non ha bisogno della luce, è cieca... i suoi occhi
color latte sembrano non voler attingere energia, per
lasciarla ad altri organi.
Quando Ulma, sentirà tremare i pavimenti dell’intero
motel, capirà che ci siamo congiunti.
Rimango stretto a lei. Non sento più dolore: le ferite?
Dimenticate. Solo il suo morbido abbraccio. Tutto il
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resto è scomparso.
Ho le palpebre chiuse, ma la luce rossa a
intermittenza del mio cicalino riesce a penetrarle, e a
violentare le sinapsi scollegate. Sento il suo corpo che
si sta raffreddando sopra il mio. Ci vuole tutta la forza
del mondo per staccarmi dalle sue braccia. Oppure
trecento pillole di qualsiasi cosa trovi a portata di mano.
Butto un’occhiata sul display.
Una manciata di secondi e ho alle spalle il paradiso
perduto. Mi sto precipitando nel luogo dove troverò le
istruzioni. Come è strana la vita: poco fa sentivo fremere Navratila, e adesso sento vibrare sotto di me la
mia Ky.
Sfreccio a duecentoventi in una strada molto affollata. La velocità mi fa vedere in prospettiva la vita. Le
ferite ricominciano a pulsare e il dolore mi obbliga a
tenere il manubrio con una mano e con l’altra svito il
contenitore e ingollo ventisette pillole di cannabis all’olio di cocco. Sto arrivando a trecento all’ora sul rettilineo dove troverò Spasky Spaskowsky. Mi consegnerà la busta con le istruzioni.
Ho la faccia deformata dall’aria. Gli occhi sono due
linee sottili. In fondo al vialone riesco ad intravedere
due punti neri che si materializzano dal nulla: se sono
uomini non vorrei essere al loro posto, li sto per investire. Aziono il congegno di freno-Paralyzed. Gli atomi
di Ky si auto-alleggeriscono e a me sembra di essere
seduto su una nuvola. I condotti di aspirazione sono
allo spasmo e rimaniamo incollati al cemento.
Mi fermo a due centimetri dal loro naso. Sembrano
rilassati artificialmente: non potrebbe essere altrimenti. Non sento le loro voci, che saranno senz’altro sgradevoli, ma capisco dal labiale le intenzioni. I due uomini hanno bisogno di una tara per farmi passare. Il problema non sono questi due imbecilli che ho davanti: è
quel branco di pitt-squarcia-bull che ringhiano e sbavano dietro.
I loro sguardi offuscati sono fissi su Ky, evidentemente mi chiederanno lei come ricompensa per passare.
Non ho tempo da perdere. Mi alzo dal sellino, mi sposto verso il marciapiede e vedo che uno dei pitt-squarcia-bull ha tra le fauci un braccio di un uomo; la mano
è ancora contratta in un pugno chiuso che tiene un
pezzo di carta.
Mi siedo sul marciapiede mentre i due loschi individui si avvicinano a Ky con la bava alla bocca.
E’ arrivato il momento di Chip. Il mio piccolo gioiello.
Un antifurto micidiale. Mi basta azionare il comando di
accensione telepatico e vedo una lucina arancione che
inizia a lampeggiare sotto il serbatoio: search & destroy.
Ho le spalle girate, non voglio vedere Ky sporca di
sangue. Appena Chip rivela con il controllo epidermico-termo-digitale che la mano appoggiata sopra il manubrio non è la mia, inizia a ballare il walzer delle candele con il diavolo che gli ha preso l’anima... anzi: il
walzer dei lumini da morto.
Una frustata di sangue e budella arriva fino ai miei
piedi. Non posso fare a meno di guardare. La situazione è apocalittica.
I tentacoli meccanici di Chip, regolati alla massima
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potenza, hanno arpionato e dilaniato i malcapitati. I
brandelli sono sparsi tutt’intorno. Chip ha finito il suo
dovere e rientra in stato di stand-by. Lo neutralizzo e
guardo Ky: sporchina.
Innesto il lavaggio automatico e mi avvio a piedi verso la cabina.
Spasky sarà su tutte le furie per il ritardo. Quando lo
vedo è lì lì per andarsene all’altro mondo. Quei bastardi che ho fatto strapazzare da Chip lo hanno conciato
per le feste.
E’ attaccatissimo al lavoro e quando riesco a leggergli il labiale, non pensa alla morte che lo sta baciando,
no, pensa alla lettera che dice di stringere in mano. Lo
lascio morire tranquillo. Non si ricorda che il braccio
glielo ha staccato un cagnaccio.
Faccio un giro tra teste staccate, pezzi di budella e
frattaglie varie, fino a che non trovo le mandibole del
pitt-squarcia-bull che stingono ancora il braccio di
Spaskowsky. Ho l’impressione che il cane stia ancora
ringhiando, nonostante sia morto. Gli slogo le mascelle per liberare il braccio. La lettera è in mano mia finalmente. Ma la parte dove ci sono le descrizioni del terrorista l’avrà ingoiata: non c’è più... svanita.
Sono proprio triste... in fondo ero affezionato a Spasky.
Ingoio tredici pillole di celluloide pura che mi proiettano un film di Buster Keaton sulla retina dell’occhio sinistro.
Il morale è un po’ meno incrinato. Taglio la città in
diagonale: tutte le infrazioni sono mie. Devo arrivare
prima dei gruppi scelti, altrimenti è il caos. Giro l’angolo, e neanche Buster riesce a tirarmi su quando li vedo.
Sono tutti schierati come comanda l’accademia:
mimetizzazione urbana, posizione della lince scarlatta, e elmetti a testuggine.
Che tristezza.
Parcheggio Ky nell’entrata secondaria della palazzina e mi avvio a piedi verso la postazione del fratello
spastico di Churchill: il comandante Plazahu. Scavalco il nastro adesivo che delimita la zona, la gente si
accalca per vedere lo spettacolo in diretta.
Con la coda dell’occhio vedo un soldatino che si avvicina gesticolando. Non sa chi sono e vorrà bloccarmi.
Sento la canna gelida del suo drago alita magma dietro la nuca. Tempo non ne ho e allora ancor prima che
mi sforzi di fargli capire la mia posizione, gli fracasso il
naso dentro il cranio con una manata di rovescio. Lo
lascio steso, senza sensi, attorniato dagli altri soldatini
che cercano di informarlo su chi sono. I riflettori delle
camionette sono puntati sull’edificio della scuola ebraico-valdese, dove un terrorista-fondamentalista sta tenendo in ostaggio dei ragazzini inermi. Scorgo il gruppo dei giornalisti assatanati, ed è l’unica cosa che mi
fa veramente paura... Io non rilascio interviste: sono
sordomuto!
Plazahu maneggia delle piante topografiche. Appena
mi avvicino, la mia allergia si mischia alla puzza del
suo sigaro, e mi s’irrigidisce la muscolatura: cemento
armato. Prima che lui mi veda, ingoio nove pillole di
aminoacidi-ramificati-superlux, tre pillole di camomilla
in polvere di peyote e dodici steroidi al luppolo.
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Inizia ad impartirmi gli ordini, richiamando, con l’indice ed il medio che battono il ritmo sul suo mento, l’attenzione sulle sue sottili labbra umide di pastura (resti
di sigaro masticato e catarro raffermo dei lati della bocca).
Appena si gira per prendere un sigaro nuovo, ingoio
una pillola di velocina-raptor, e sparisco nei meandri
della scuola. Avrei voglia di portarlo dentro con me e
fargli vedere l’inferno da vicino.
Plazahu ordina alle truppe e ai cecchini il cessate il
fuoco. Il silenzio dipinge l’aria d’innaturale; dentro di
me il silenzio è naturale... come sempre.
Ho iniziato a strisciare all’interno della palazzina. Il
buio impasta le sagome degli oggetti. Ma questi non
sono oggetti: sono cadaveri...
Ne ho contati settantasei. Tutti morti dalla stessa
mano omicida.
Cammino lungo un corridoio. Sembra strano che abbiano messo una moquettes così morbida. Ma quando i miei occhi si abituano al buio, mi accorgo che sto
camminando su un pavimento cosparso di una pellicola di sangue raggrumato di cinque centimetri. Dovrei
essere abituato a tutto questo, ma quando si tratta di
bambini è un’altra cosa.
Salgo una scala dove conto sette creature decapitate. Devo cercare di non fare rumore, ma le ossicine
fragili si frantumano sotto i miei piedi. Finalmente raggiungo il piano superiore, il mio istinto, l’unico vero
amico che ho, mi ha portato fin qui: lui saprà il perché.
Passo davanti a delle grosse vetrate infrante. La luce
dall’esterno entra a fasci per illuminare il massacro.
Supero la prima vetrata, la seconda, e alla terza, una
sventagliata di drago-alita-magma a ripetizione sfiora
la mia cute rasata.
Mi scaravento a terra. Non può avermi sparato il terrorista: arrivava dall’esterno la mitragliata.
Butto l’occhio fuori dalla vetrata e vedo un gruppo di
soldati che cerca di trattenere l’ira di quel pivello a cui
ho sfondato il naso: vuole vendicarsi.
Sicuramente il terrorista assassino si sarà insospettito e sarà corso ai ripari. Non voglio rischiare. Forse è
meglio che mi fermi qualche minuto per riflettere sulla
tattica da usare. Sposto un bambino con le gambe
crivellate e mi accomodo vicino alle sue possibilità svanite.
Appoggio la canna gelida della mia rugginosa scoppiettante sotto il mento e socchiudo un occhio. Fuori
ci saranno settantadue gradi della scala Stallher, ma
io sento freddo: ho freddo dentro.
Isolamento.
Giorni.
Mesi.
Anni.
Molti.
Troppi.
Ho imparato bene la dura lezione, però adesso basta.
Sono chiuso in un cubo piccolissimo e buio. Non
posso neanche stare dritto se mi alzo in piedi. La mia
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unica liberazione è la sentenza. Quella finale: che mi
libererà finalmente dalla mia esistenza.
Mi comunicano il momento dell’esecuzione con una
lettera, e quando vedo la data ho le vertigini. Non riesco più a ricordare da quanto tempo sono qui.
Quanti anni ho?
Entrano puntandomi un faro accecante: implode il terrore nei polmoni. Soffoco: non vedo, non sento, non
parlo... e ansimo come stessi affogando.
Più niente.
Mi risveglio in una stanza colma di sola luce bianca.
Non posso essere morto: l’inferno è buio... Un dolore
sottile mi libera dal tunnel del torpore e riesco a vedere
un uomo con un camice bianco, che mi inietta una
siringa in una tempia.
Dall’altra parte un uomo con un camice nero disegna in aria una croce immaginaria. Non ce la faccio
proprio a sentirmi vicino a Dio...
Quella puntura è meglio di tutte le pillole che mi sono
sparato in tutta la mia vita: naufrago nel vortice dell’incoscienza.
a malapena riesce a sorreggere il suo fantino. Forse io
non ho nessuno sulla sella, o se ce l’ho non lo sento
neanche. Continuo la corsa: devo vincere. Il vecchio
ronzino ansima e schiuma dappertutto. Quando sono
quasi arrivato al traguardo lo vedo gonfiarsi ai lati: è
una metamorfosi. Sta diventando una libellula. E’ enorme e il frastuono delle ali è assordante. Mi supera.
Apro la bocca istintivamente e una lingua di camaleonte esce dalla dentatura equina. Aggancio la libellula, e in una configurazione aerea ruzzoliamo: prima in
aria poi sul terreno.
Sarà l’incubo, sarà che la droga sta svanendo: riapro
gli occhi. Vedo le due barelle rovesciate e incastrate
con le mie gambe e quelle dell’altro carcerato. Siamo
aggrovigliati in un orgia di carne e metallo. I paraportantini sono agitati: un graduato sembra che li stia
richiamando all’ordine. In fretta e in furia ci ricaricano e
ci ricoprono con i lenzuoli.
E’ tornato a trovarmi il mio amico. Ma cosa stai dicendo: c’e’ qualcosa che non va?
Quando entro nella stanza: i miei occhi sono spalanSono disteso su un serf , con la faccia al cielo e cati sotto il lenzuolo. Un uomo con un’espressione insento l’oceano sotto che mi culla. Ci sono onde altis- decifrabile si avvicina e mi scopre il volto.
sime che mi sbattono su e giù, ma rimango sempre in - Quando sarai uscito di qui, sarai uno dei nostri...
equilibrio. Vedo moltissimi oggetti che si alzano in un
cielo privo di gravità... e finalmente parlo e ci sento.
E’ così che riaffiorano i ricordi di un passato da feccia
Un insetto vola a cento metri da me e sento le sue ali umana che non riesco a dimenticare, mi basta chiudeche sbattono nell’aria. Adesso divarico le labbra e can- re un occhio e...
to: canto a squarciagola... Davanti alla morte io sto
Con un gesto meccanico frugo in fondo al contenicantando.
tore di pillole e prendo un’aspirina effervescente doc:
scaduta da tredici mesi. Non ho acqua con me e devo
La barella su cui sono sdraiato sta attraversando un masticarla. Già inizio a sentire gli effetti che sta procusalone lunghissimo. Il lenzuolo candido mi copre com- rando allo stomaco. Schiumo dalla bocca come una
pletamente come fossi già cadavere. Il mio amico mi lattina agitata e finalmente arrivano i crampi.
sta venendo a trovare per l’ultima volta: il mio caro istinto Mi stringo le braccia all’addome e mi rotolo sul pavimi sta sussurrando qualcosa all’orecchio.
mento: non c’e’ cosa più efficace del dolore di stomaSe fossi meno drogato forse lo comprenderei.
co per rendermi cattivo e fulmineo: e adesso ne ho
Un’altra barella si affianca: è quel carcerato che ha proprio bisogno.
accettato di farsi fare il lavaggio del cervello per il vinLe gambe si muovono da sole e mi portano in giro
colo perpetuo dell’agente scelto, e giurare fedeltà al- per i saloni della scuola. Sono gli dèi che mi stanno
l’esercito. Io ho rifiutato: con molta dignità. Le due ba- guidando: la Dea Aspirina mi fa scattare e il Dio Istinto
relle sono identiche e identico è anche il lenzuolo che mi dice dove.
ci ricopre. La stanza della lavastoviglie per cervelli è Avverto nell’aria un onda elettrica che mi fa impietrire:
davanti a quella dove friggono le anime. Il corridoio è sono immobile. C’è la presenza di qualcuno: è vicigelido e lungo e ci metteranno dieci minuti per arrivare na... è nell’altra stanza. Sento che trema. Ho deciso
alla soglia delle due stanze.
d’intervenire: adesso... subito.
Gli agenti para-portantini sparlano e ridono. Fare que- Sento il suo cuore che pompa convulso e muove nelsto lavoro li ha resi freddi come questo corridoio, e non l’aria quelle onde che il mio amico capta impeccabilbadano a chi sta andando incontro alla morte: è un mente. E’ a due passi da me: dietro la porta.
lavoro come un altro.
Decido di contare fino a tre e scattare, ma all’uno mi
Ehi ma che sta succedendo. Stiamo prendendo velo- ritrovo faccia a faccia con l’essere dal cuore pulsante
cità: stanno facendo una gara a chi arriva prima con la e la porta frantumata alle spalle.
barella.
Lentamente abbasso i due procura inverni-freddi eterni
che gli punto alle tempie e allontano il mio naso sudaSono un cavallo. La criniera frusta l’aria. Sto andando to dal suo. L’essere che ho davanti è l’unica superstite
velocissimo ma mi vedo a rallentatore. Gli zoccoli af- dell’eccidio, e mi guarda con due fari blu terrorizzati e
fondano nel terriccio e sollevano morbide zolle che si le mani premute sulla bocca. Chissà perché quel basfaldano nell’aria. I muscoli sono elastici e protesi in stardo l’ha risparmiata.
avanti. A fianco a me un ronzino vecchio e malato, che
Seguo lo sguardo della ragazzina che s’incanta a
15
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pochi passi da me: vergine santa!!
Ci saranno settanta chili di polverosa ustionante collegati ad un timer che segna nove secondi. Otto. Sette...
Quando sento tremare l’asfalto sotto Ky, la ragazzetta
è avvinghiata a me: tocchiamo i trecentoventi in una
frazione di secondo. Dietro di noi la deflagrazione è
colossale.
Mi sento fortunato: ho salvato l’ultima superstite della scuola e mi sono salvato dai giornalisti che mi avrebbero messo in imbarazzo. Porterò la ragazzetta direttamente a casa sua e le risparmierò un po’ di trambusto burocratico.
Ky taglia l’aria sulla iper-strada, tutt’intorno le olopubblicità abbelliscono il paesaggio posizionando cascate e vegetazione tropicale dove in realtà c’è solo
ferro corroso e cemento armato.
Lei mi indica la strada e inizia a sciogliersi i capelli
che si librano nei vortici d’aria come tentacoli di piovra.
In un gesto ha perso tutto il candore che l’avvolgeva.
Mentre si slaccia la camicetta, dal display retrovisore, intravedo due seni da adulta che prima non avevo
notato.
Si sta sporgendo troppo, così ci sbilanceremo!!
Mi accorgo che non sono più le sue braccia che mi
stringono la vita, ma è una cintura con parecchi cilindri
di deflagrante rimbombosa.
Non posso crederci: sto aiutando la terrorista a scappare.
Non mancheranno molti secondi all’esplosione, e vedo
che si sta per gettare dal mio veicolo.
Caro amico: grazie ancora una volta.
Per me non c’è più scampo, ma all’inferno porterò
un ospite molto atteso. Prima che si possa gettare,
aziono Chip nella posizione L-7 (hell’s heaven).
Le gambe della terrorista vengono arpionate da due
ganci cromati alle caviglie. Non la sento ma so che sta
urlando dal dolore.
Due roto-lamine a sonda la penetrano dalla pianta
dei piedi, per risalire in direzione testa.
La reazione della ragazza non è catalogabile in nessun comportamento umano.
Mi afferra da dietro le orbite e fa penetrare le dita
dentro le pupille. Rimaniamo in questa macabra unione fino alla fine, e mentre aspetto l’attimo conclusivo
penso solo a quali pillole potrei prendere.
Capitolo sesto: Il volo
Sigrisio Pacelli era nato in una colonia Venusiana di
Rhoma. Prima ancora che nascesse si sapeva che
presto sarebbe diventato Papa. La sua famiglia era il
vivaio del Vaticano già da cinquecento anni.
Era sceso in terra, dalla colonia, molto giovane. E
aveva intrapreso gli studi nel collegio Vaticanese di
Carrozze Buie, un posto sperduto nell’entroterra
abruzzese. La scuola-collegio di Carrozze Buie era un
istituto tra i più rigidi, ma Sigfrisio aveva un trattamento diverso da tutti: lui sarebbe diventato il Papa…
Padre Taranzino, con le sue gote incandescenti an-
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che a gennaio, stava ripetendo la poesia insieme alla
classe. Ad alta voce scandiva il tempo delle parole
sbattendo quelle enormi manone da contadino, mentre ondeggiava la testa come un metronomo.
Le classi erano enormi. I soffitti erano altissimi, e le
pareti erano cosparse di cartine geografiche delle colonie e di scheletri di animali vissuti migliaia di anni
prima.
Delle bacheche contenenti schifezze e mostri della
natura, riposti accuratamente in recipienti di vetro colmi di liquido trasparente, erano in bella mostra in ogni
angolo della scuola. E con essi, simboli religiosi: i più
tetri che una religione potesse scegliere.
Tutta la costruzione aveva un’aria senile e lugubre. Il
progresso sembrava essersi fermato sulla soglia di
questa scuola.
Anche le uniformi che quei marmocchi erano costretti ad indossare, avevano lo stesso spirito ottenebrante. E i loro volti vivaci e pieni di energia spiccavano da
quel grigiore, e abbagliavano più dei raggi di sole.
Padre Taranzino si fermò di colpo. Guardò in direzione della porta e intravide dal vetro che Padre Bosisio, il
preside e tutore del collegio, stava per entrare nella
sua classe con un nuovo scolaro.
Gli era giunta voce che erano previsti dei nuovi arrivi,
e già pregustava il sapore della gioia che avrebbe provato quando, rimasto solo con il nuovo alunno, avrebbe
assunto un atteggiamento rigido e cattivo, per incutergli timore. D’altra parte queste erano le regole dettate
proprio da Padre Bosisio.
Padre Bosisio fece cigolare la porta, richiamando l’attenzione di tutti gli alunni, i quali si bloccarono all’istante
interrompendo la poesia.
Dalla porta si scorse la faccia del preside, dimessa e
servile, che mostrava un rispetto sproporzionato nei
confronti di un bambino. Poi entrarono due uomini che
ai ragazzini sembrarono altissimi giganti.
Perlustrarono i banchi di legno antico e le facce degli
scolaretti, che sembravano estasiati da questo fuori
programma.
L’unico che non sembrava colpito positivamente e anzi
sembrava contrariato, era un ragazzetto che proveniva
dalla Russia, di nome ZDimitrij. Uno sfortunato profugo, adottato da una famiglia italiana, che aveva avuto
un grave incidente. Ed era costretto a portare delle
protesi di metallo a vista sulle gambe, e delle cornee
sintetiche clonate da due rettili.
I due uomini lo notarono subito e lo puntarono. Gli si
avvicinarono.
ZDimitrij, nonostante era alto meno della metà, resse lo sguardo dei due con furore e determinazione.
Tanto che i due uomini decisero di prenderlo con la
forza e di spostarlo in un altro banco: il suo era un
banco da leader e adesso non apparteneva più a lui.
ZDimitrij si sentì defraudato e giurò vendetta contro
chi si fosse seduto lì.
Dopo qualche istante entrò in classe un ragazzetto
dall’aria arrogante e dalle proporzioni fisiche assai singolari. Gettò un’occhiata superficiale nei confronti dei
suoi nuovi compagni, e non curante dell’inchino dei
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due uomini si accomodò nel posto appena liberato,
continuando a tenere la punta del naso quasi più alta
della fronte.
ZDimitrij per un attimo interruppe il suo odio. E il suo
pensiero si soffermo in strane riflessioni. Non riusciva
a capire come un collo così fine potesse sostenere un
testone così grande. E poi quel sopracciglio. Come
faceva a tenerne uno diritto e uno alzato?
Quello strano essere, riverito da tutti, non lo aveva
degnato neanche di uno sguardo e questo fece
tracollare la sua rabbia.
Un suo compagno, gli si accostò all’orecchio con l’aria
estasiata.
Hai visto che roba? Mi ricorda il Re sole…
ZDimitrij senza scomporsi gli tirò una gomitata sul naso.
Adesso guarda anche un po’ di stelle… oltre al
sole…
Con una lentezza da bradipo il nuovo alunno si girò in
direzione di ZDimitrij e accentuò all’estremo quell’espressione da nobile di altri tempi.
In quell’istante, tutti videro per la prima volta sul volto
del ragazzino Russo, un’espressione mai vista prima.
ZDimitrij abbassò lo sguardo a terra e si sedette sulla sedia del nuovo posto, dichiarando la sua sconfitta.
Padre Taranzino rimase a bocca asciutta. Dovette
assumere anche lui un atteggiamento servile e sottomesso, quel ragazzino doveva essere un pezzo grosso.
Gli alloggi dell’istituto di Carrozze Buie non facevano
di certo eccezione, erano anch’essi nidi per strani cuccioli che sarebbero diventati insoliti animali. Ma da circa una settimana erano in corso dei lavori. Non ci badarono tanto all’inizio. I ragazzi pensarono che al posto dei quattro alloggi che erano stati abbattuti facessero una mensa, o un locale ricreativo. E nessuno
sospettava che potesse diventare un ‘super-alloggio’.
Il sole non era ancora scomparso del tutto dietro le
folte colline. Due sacerdoti dall’aria passiva e rassegnata, giravano nei lunghi corridoi, che accoglievano le
stanze dei ragazzi come alveari, dando la buona notte
e cospargendo nell’aria una specie di incenso.
I ragazzini, solo a sentire quell’odore, piombavano
nel sonno più profondo.
Qualcuno si era accorto che quel fumo procurava
sonno, e aveva escogitato delle tattiche antisoporifere.
Salutavano il signor Morfeo con una mano, e con l’altra si tenevano un lenzuolo, ripiegato in più parti e bagnato, davanti al naso e alla bocca.
Aspettavano in silenzio che quella nebbiolina troppo
rilassante si dissolveva nel nulla e poi si davano convegno nella fievole luce lunare che filtrava dai finestroni.
In quelle notti succedeva di tutto.
Fughe, furti, scherzi e tutto ciò che la fantasia da
adolescenti poteva suggerire. Ma questa volta bisognava scoprire chi si celava dietro quel mostriciattolo
riverito come un re, e cosa combinava dentro quell’enorme stanzona costruita apposta per lui.
Di solito erano in quattro a seguire ZDimitrij, ma due
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ragazzini si tolsero il lenzuolo troppo presto, e nel giro
di qualche minuto si addormentarono.
Uno quasi in piedi vicino all’armadietto, e l’altro per
terra a fianco del letto di un compagno.
Non c’era dubbio che ZDimitrij conduceva le danze e
decideva per tutti. La prova delle sigarette senza filtro
l’aveva vinta lui.
Era l’unico che era riuscito ad aspirarne una intera
senza vomitare. E come se non bastasse, oltre ad
aver vinto la gara del piscio, era andato con una prostituta, e questo lo aveva eletto ‘capo’ a vita.
Si mormorava che la ‘corpivendola’ quando vide
ZDimitrij si mise a ridere. Ma lui, lesto e beffardo come
un antifurto, si tirò giù la cerniera dei pantaloni, facendo penzolare il suo cucciolo di pitone.
I suoi accompagnatori, nascosti come spie, non avevano visto direttamente il pisellone in questione, ma
avevano notato l’espressione della donna.
Prima sorpresa e poi estasiata, e questo bastò.
ZDimitrij buttò lo sguardo in direzione della finestra, e
gli altri due lo seguirono senza battere ciglio.
Si aiutarono l’uno con l’altro ad arrampicarsi sul davanzale e ad uscire fuori sul sottile cornicione.
Il rischio che correvano era grosso. Un colpo di vento, un’imprudenza qualsiasi, e sarebbero precipitati nel
vuoto. Ma la curiosità e l’incoscienza, sormontavano
tutti gli ostacoli che si materializzavano in quella sottile lingua di marmo.
Passarono in rassegna tutte le finestre che si trovavano tra la loro e quelle dell’alloggio del nuovo arrivato.
Le finestre delle stanze dei ragazzi non presentarono niente di divertente.
Buffi ragazzetti appallottolati sotto le coperte che
ronfavano della grossa.
Preti inginocchiati per pregare che sembravano dormire, ed altri svegli, intenti a leggere sotto la luce debole di minuscole candele, libri che di giorno non avrebbero mai potuto leggere.
Dopo una cinquantina di metri di cornicione ZDimitrij
si bloccò e imprecò in russo. I suoi compagni sapevano che quando succedeva era veramente arrabbiato.
L’intimità di quella enorme stanza era tutelata da pesanti tendoni di velluto color amarena, con in mezzo
uno stemma.
I due raggiunsero ZDimitrij e le loro imprecazioni fecero eco a quelle del loro capo.
ZDimitrij si voltò e fece segno di zittirsi. All’istante
calò il silenzio. E ai due ragazzetti sembrò che anche
i grilli cessarono il loro crì crì.
C’erano degli spiragli. Alcuni tendoni lasciavano intravedere spicchi di luce. ZDimitrij andò alla ricerca del
punto più strategico e si accucciò.
Passando dalle altre finestre aveva sentito alcuni compagni che russavano, o parlavano nel sonno. Ma da
queste nessun rumore.
Dovevano essere vetri rinforzati, forse blindati. Ma
perché? Chi mai dovevano tutelare?
Se riusciva a sdraiarsi, forse poteva appoggiare la
testa sul marmo e guardare attraverso quell’angolo di
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tenda spostata.
Fece segno agli altri due di spostarsi indietro. E i
suoi compagni ubbidirono, ma senza nascondere la
loro silenziosa disapprovazione.
Quella posizione gli consentiva a malapena di respirare. La testa storta e il petto premuto lo facevano rantolare come un gatto malato. E quel rumore, nel silenzio, poteva appartenere ad un mostro, o ad un animale
malvagio.
I due compagni di ZDimitrij, tenuti in disparte e annoiati, iniziarono a sentire freddo e a guardarsi intorno,
come per constatare la presenza di qualcosa di pauroso che si stava materializzando solo nella loro mente.
Battendo i denti e a passetti piccoli, riconquistarono
i metri di cornicione verso la finestra da dove erano
usciti. Non potevano vedere niente, tanto valeva tornarsene a letto.
ZDimitrij fece finta di ignorarli. E anche se non rivolse
loro neanche lo sguardo, sapeva cosa stava succedendo.
Lo aveva scoperto da poco. Non aveva mai avuto l’occasione di accorgersi dei suoi poteri. E fu un caso
quando li scoprì.
La sua mente era in grado di imporre comandi alla
volontà altrui. E di far materializzare pensieri e sensazioni nella mente prescelta.
Non era vero che era dotato sessualmente. Fu la sua
forza, il suo potere, ad imprimere quella sensazione
nella testa della prostituta.
Da quel momento ne fu consapevole, e quando si
sentiva allo scoperto e in pericolo la utilizzava.
Il dietrofront dei due compagni fu opera sua. Aveva
letto perfettamente nella mente dei ragazzi e aveva intuito la loro insoddisfazione per non poter partecipare
alla visione dalla finestra.
Con un po’ di concentrazione e di cattiveria,
materializzò in quelle menti fresche e acerbe sensazioni di paura e quando con la coda dell’occhio li vide
allontanarsi piegò le labbra in un sorriso soddisfatto.
Ora erano soli: lui e il suo nemico.
Almeno così pensò finché non si rese conto di quello
che veramente stava succedendo lì dentro.
In quella strana posizione, con una gamba che gli
penzolava e solo metà corpo sdraiato sul marmo, notò
che quei piedi che sbucavano dal lenzuolo erano enormi.
Si era reso conto che quel ragazzo dall’aria schifata
e sgradevolmente nobile aveva il fisico sproporzionato,
ma quei piedi non li aveva natati in classe. Non potevano essere suoi.
Si sforzò di catturare l’orizzonte più vasto da quel
ritaglio di stoffa spostato.
Quel ragazzetto era qualcosa di più che un bambino
brutto, quasi un mostro.
La visione che aveva dallo spicchio di vetro libero non
gli consentì di vedere altro. Poi si rese conto che con
l’alito stava appannando il vetro.
Si concesse un attimo di pausa. Distolse lo sguardo
verso il giardino che si apriva di fronte alla finestra e
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appoggiò l’orecchio proprio dove il suo respiro aveva
lasciato un velo di condensa.
L’orecchio aderì come una ventosa. Ma i segnali che
percepiva erano troppo deboli, non distinguibili.
Staccò l’orecchio dal vetro, lasciando l’impronta, e
appoggiò la testa sul marmo.
La stanchezza iniziava a farsi sentire. Ancora qualche istante e la luce sarebbe arrivata da dietro le tegole del tetto nero, proprio sopra la sua testa.
Bastò un istante.
Un tragico istante.
Forse aveva respirato un soffio di quell’incenso soporifero, forse la rabbia che aveva provato per tutto il
giorno lo aveva debilitato.
La gamba che penzolava nel vuoto divenne pesantissima. E fu insostenibile per quel magro scheletro farcito
solo di nervi e di una pelle lattea.
Con gli occhi ancora chiusi si ritrovò a ciondolare a
trenta metri d’altezza, aggrappato al cornicione con
solo due dita.
I secondi sembrarono eterni per quelle unghie che
sanguinavano sul marmo.
Le sue funzioni vitali si fermarono e con esse anche il
mondo che circondava quel ragazzino aggrappato alla
vita.
Poi, solo il silenzio… e il buio.
Quando riaprì gli occhi, quello che vide furono ombre
che si muovevano davanti a lui.
Quando ricominciò a sentire, quello che sentì furono
dei ronzii allucinanti.
La morte?
Era sopraggiunta così, senza preavviso?
Si sforzò di articolare una parola, ma quello che ne
uscì fu solo un verso, come se la lingua fosse attaccata al palato in un unico pezzo anatomico.
Un ombra più grossa si materializzò davanti ai suoi
occhi appannati e semichiusi.
Forse una testa…
Anche in quello stato di incoscienza riconobbe quella sfera, anatomicamente sproporzionata. Era il nuovo
arrivato.
A quel punto la nebbia che offuscava i suoi pensieri si
diradò. Il volto di ZDimitrij sembrava rilassarsi. E con
esso anche il resto del corpo.
Ricordò quello che era successo.
La finestra.
Lui che tentava di spiare.
I compagni che si erano dileguati.
Poi la stanchezza.
Il sonno.
E il salto nel vuoto. Salto nel vuoto?
Ma se era rimasto attaccato!
Non era caduto…
In quell’attimo, quando era rimasto appeso, ricordò
di aver fatto uno sforzo enorme. Ma non per rimanere
attaccato al cornicione. Per arrivare nella mente di
chiunque si trovasse dentro quella maledetta stanza,
e guidarlo alla finestra per soccorrerlo.
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Qualcuno lo aveva salvato.
Il nuovo arrivato lo aveva salvato e fatto adagiare sul
suo letto regale per soccorrerlo?
Ma come poteva quel ragazzino avere la forza di tirarlo su dalla finestra? ZDimitrij pensò che non avrebbe
potuto avere tanta forza.
E fu con questi pensieri che si risvegliò nel proprio
letto.
Si controllò le braccia e le gambe.
Niente di rotto.
Si alzò lentamente, con la paura di trovare qualche
tragica sorpresa.
Poi si accorse che i suoi due compagni lo stavano
guardando con aria sospetta, come se avesse addosso qualche malattia schifosa.
Si sforzò di darsi un contegno e li salutò spavaldamente.
Quel giorno in classe continuò a fissare il nuovo arrivato, ma la sua attenzione non venne ricambiata.
Anzi, durante un momento di pausa, ZDimitrij gli si
avvicinò per togliersi quei dubbi che lo stavano stravolgendo, ma il ragazzino lo evitò in maniera plateale, e a
ZDimitrij non gli rimase altro che tornare con la coda
tra le gambe al suo posto.
Doveva riuscire a capire cosa diavolo gli era successo. Chi lo aveva salvato?
Decise di intervenire la sera stessa.
Avrebbe ripercorso lo stesso tratto di cornicione e
avrebbe attuato qualche stratagemma per carpire informazioni da quella stanza.
Non importava il rischio.
Non importava più niente.
Voleva solo scoprire l’arcano.
Si sarebbe coperto il naso e la bocca con il solito
trucchetto e…
… E i due compagni?
Loro non dovevano sapere niente. Ne andava della
sua reputazione.
Se avessero scoperto che ‘il nuovo’ gli aveva salvato
la vita avrebbe perso definitivamente il suo ruolo di
leader. Bisognava trovare uno stratagemma per tenerli
lontani dalla finestra, almeno per una notte.
Nel refettorio mangiarono tutti e tre lontani dal resto
del gruppo della classe.
ZDimitrij dovette cedere al bombardamento di domande alla quale i suoi due ‘complici del cornicione’ lo
stavano sottoponendo.
Inventò delle balle.
Grosse balle.
Incredibilmente grosse.
E i due abboccarono all’esca.
Aveva raccontato che all’interno della stanza aveva
visto il nuovo arrivato che si trasformava in un mostro a
quattro piedi. Dalla testa gli erano comparse altre testoline microscopiche che urlavano e minacciavano di
morte chiunque si fosse trovato su quel davanzale a
spiare dentro la finestra.
Sapeva che questa storia avrebbe funzionato. E quan-
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do vide sui loro volti la maschera del terrore ebbe la
certezza che poteva agire indisturbato.
Mentre faceva finta di prepararsi per andare a dormire
si accorse di un gonfiore sotto il lenzuolo.
Si guardò alle spalle. Qualche compagno gli aveva
fatto uno scherzo. E gli aveva infilato un animale morto
nel letto.
Chi si era permesso?! Nessuno mai aveva osato tanto: lui era un leader. Ma ancora per quanto?
La situazione gli stava precipitando addosso. In mensa
aveva sentito quei vocii sul nuovo arrivato. Tutti erano
estasiati dal carisma che emanava. E tutti lo
osannavano.
Lui era il nemico da battere e quella sera lo avrebbe
battuto: a tutti i costi.
Quando fu certo che nessuno lo stava osservando, si
accostò al lenzuolo.
Quell’animale morto aveva una forma troppo
spigolosa. Il lenzuolo si sollevava in maniera anomala.
Sulla schiena doveva avere due sporgenze, come
gobbe rotonde. La coda doveva essere larga e finiva
ingrossandosi.
Che razza di bestia poteva mai nascondersi lì sotto.
Si fece coraggio, e dalla parte opposta del letto incominciò a tirare il lenzuolo. E piano piano la belva morta
comparve in tutta la sua atrocità.
Macché animale o bestia…
Una maschera antigas?
Gli occhi ripresero ad essere luminosi. Nessuno si
era preso gioco di lui. Anzi…
Qualcuno lo stava aiutando.
Dietro di se sentì il rumore dei passi di altri ragazzini.
Veloce come una saetta ricoprì con il lenzuolo la maschera e si sforzò di avere un’aria naturale.
Non fece caso al bigliettino che cadde a terra. Era
appoggiato sulla maschera e svolazzando si posò tra
le due scarpe accostate vicino al comodino.
Non appena si trovò di nuovo solo s’infilò sotto le coperte e armeggiò con il regalo che un donatore misterioso gli aveva fatto.
I fantasmi del sonno vestiti da preti passarono puntuali e la nebbia d’incenso e droghe soporifere offuscò
le stanze e i corridoi.
Il fumo era denso. Avvolgente e letale.
Uno strano essere comparve da questo inferno. Aveva due occhi enormi e un naso che arrivava sul petto.
Era ZDimitrij che, con indosso la maschera antigas,
si stava avventurando nei corridoi senza aspettare che
il fumo si diradasse.
Quella strana creatura notturna si arrampicò sulla finestra e si diresse, con una disinvoltura sfacciata,
sull’esile cornicione.
Non si era tolto la maschera. Si sentiva più forte con
quell’espressione anomala sul volto.
Arrivò alle finestre dell’alloggio regale e si appollaiò.
Come se volesse riflettere su come agire.
Tolse la maschera e rivelò un volto sudato e affannato. Stava per rialzarsi quando sentì il vetro della fine-
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stra centrale che si stava sollevando. Il panico lo colse
all’improvviso.
Non aveva più scampo. Lo avrebbero preso per ladro,
per un guardone. La sua reputazione sarebbe caduta
in un profondo baratro impossibile da risalire.
Rimaneva una sola soluzione: volare.
Avrebbe spiccato il volo dalla finestra. Qualunque fosse stata la conseguenza. Preferiva morire piuttosto che
farsi trovare in quella situazione.
Sentì il cuore pulsare sangue ghiacciato. Non aveva
più vene, aveva canali di fognature colmi di animali che
rosicchiavano la sua carne viva.
Ancora per poco.
La notte divenne incolore e la vita insapore. Tutto stava per finire.
L’ultimo pensiero di ZDimitrij non fu niente di speciale. Di solito in questi tragici frangenti, ti passa davanti
la vita in un attimo. Ma chissà perché, lui pensò al
volto di quel ragazzino che aveva trasformato la sua
esistenza in una tragica tempesta.
Quel volto, così stranamente snob, avvolto da un cranio smisurato, gli si materializzò davanti agli occhi.
ZDimitrij aveva gli occhi semichiusi e quando riconobbe quella fisionomia li aprì di scatto.
Due enormi braccia lo stavano tenendo in bilico tra la
vita e la morte, tra il davanzale e il vuoto. Ma non erano
le braccia del bambino, erano quelle delle due guardie
del corpo, che a giudicare dalle loro espressioni si stavano divertendo un mondo.
Le luci che provenivano dalla stanza lo abbagliavano.
Quel bambino stava seduto su una poltrona altissima,
in una posa plastica. Era elegantemente svogliato e
annoiato quando si rivolse a ZDimitrij.
- Ti sto salvando la vita per la seconda volta. Devi fare
una scelta: con me o contro di me. Ti ho messo io la
maschera sotto il lenzuolo.
Zdimitrij era troppo frastornato per rispondere, si limitò ad accentuare l’espressione che già gli storpiava la
faccia.
Poi il bambino riprese a parlare.
- Lascia che mi presenti. Di solito non ne ho bisogno,
la nostra reputazione ci precede sempre. Ma tu hai
qualcosa che mi piace e per te farò un’eccezione.
Ascoltando queste parole, nella testa di ZDimitrij
esplose un’idea favolosa.
Che coppia sarebbero stati, insieme. Imbattibili e
inarrivabili.
Poi quasi sbadigliando il bambino continuò la frase.
- Sono Sigfrisio, Sigfrisio Pacelli. Futuro Papa nonché imperatore di Rhoma.
ZDimitrij si tirò a forza sulle braccia muscolose delle
guardie del corpo di Sigfrisio e sgusciò dentro la stanza con uno scatto felino. Stava per essere acciuffato
malamente dai due energumeni, che si bloccarono di
colpo quando videro che si inginocchiò davanti al futuro Papa per baciargli la mano.
- Sono vostro suddito. Mi avete salvato la vita e io ve
ne sarò riconoscente per il resto dei miei giorni.
Il futuro Papa accavallò le gambe lentamente e quasi
sonnecchiando guardò ZDimitrij.
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- Ok, ok… ma adesso portami dalla puttana…
Capitolo settimo: Mummie
Probabilmente se non si fosse trovato in periferia, non
avrebbe dato così all’occhio. In città, costruzioni
mastodontiche come questa, ce n’erano a migliaia.
Ma in questo angolo periferico di Mombaza12, da qualsiasi parte alzavi la testa ne scorgevi uno spicchio e
non potevi non rimanerne soffocato.
La sua linea spartana e monumentale faceva intuire
la chiara ispirazione fascista, però la croce che imperava all’ingresso, smussava quei contorni severi, donandogli nonostante tutto, un’aria caritatevole. E molto contribuivano le crocerossine e i dottori, che dall’ingresso accoglievano i malati provenienti da ogni città
della Nuova Africa.
Il caos all’entrata e per i saloni, dove i malati venivano
catalogati e convogliati nei reparti di competenza, non
lasciava affatto intuire che la notte stava lasciando il
posto al sole già pretenzioso del mattino.
Norma aveva appena finito il turno al reparto grandi
ustioni e seduta con lo sguardo rasoterra, in un angolo oscuro dello spogliatoio, mentre si toglieva il camice ascoltava le ultime notizie dalla sua radio-net da
polso che aveva appoggiato sul lavandino.
Non riusciva a crederci. Nonostante l’attentato al cinema E. S. Abuli, in pieno centro, non c’era stato nessun incremento di feriti portati in ospedale.
Erano tutti morti?
L’ennesimo attentato...
La sua collera nasceva dal fatto che lei, come la
maggior parte del popolo, non aveva individuato nessun nemico da combattere e tutte queste stragi in nome
della libertà apparivano assurde. Il sonnifero governativo funzionava a meraviglia.
Si gettò in viso un’enorme manata d’acqua gelida.
Era l’unico modo per scacciare quei pensieri che le
torcevano le budella. Poi si girò verso la porta, al rimbombo di un pugno battente.
- Chi diavolo è?...
Il suo pensiero corse più veloce della luce, tanto che
si accorse di non pensare a niente. Un uomo in camice bianco apparì sulla soglia. Il distintivo sul taschino
non lasciava dubbi, era un elettro-bio-chirurgo, ma il
volto non l’aveva riconosciuto. Possibile che in tanti
anni di servizio come infermiera non aveva mai visto
quell’uomo?
Lei conosceva tutto il personale, ma quell’uomo non
l’aveva mai visto.
Lui le parlò con un tono deciso. E mentre le ordinò di
seguirlo, lei ne studiò i movimenti. Sembrava conoscere per filo e per segno tutti i cassetti della reception;
gli armadietti delle medicine; ed infine quando digitò la
password per entrare nel programma di accettazione
dell’ospedale, decise di non farsi troppi problemi e di
non pensarci più.
Il dottore la invitò a seguirlo allo sbarco ascensori
senza darle nessuna spiegazione. Lei si mise ad un
passo dalle sue spalle, come imponeva il regolamen-
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to, e non fece neanche caso al fatto che in tutto il
reparto non c’era nessuno: né infermiere e né dottori.
Mentre aspettava non riusciva a pensare ad altro che
ai suoi bambini a casa; si sarebbero svegliati e non
avrebbero trovato la colazione. Già immaginava la reazione dei più piccoli. E mentre le sue orecchie ricordavano il pianto dei figli, le porte dell’ascensore si spalancarono per far uscire due portantini Masai, che con
l’ausilio di telecomandi guidavano un cilindro amniotico
a cuscinetti d’aria.
Rimase così colpita dalla fasciatura impermeabile che
ricopriva l’intero corpo del ferito che il pensiero di non
conoscere neanche i portantini le scivolò via come
acqua.
Il dottore le consegnò una cartella e le ordinò di precipitarsi nella sala riattivazioni e di collegare le
intubazioni alle macchie.
Norma aveva gli occhi pesanti come granito ma riuscì nonostante tutto a controllare i numerosi condotti
che uscivano dalle fasciature. Ne rimase stupita dalla
perfezione, e quando si girò per chiedere informazioni
al dottore scoprì di essere rimasta sola con la mummia. Per un attimo le si ghiacciò il sangue. Credette di
avere le allucinazioni, forse aveva respirato involontariamente qualche dose di Appiattina-Cerebralis, mentre la stava somministrando a qualche malato terminale. Poi la sua vocazione di samaritana ebbe la prevalenza su tutti i pensieri che si stavano aggrovigliando
nella sua testa. Anche un istante poteva essere importante per quel ferito. Quando si avvicinò al cilindro trasparente dove il ferito era completamente sommerso
dai liquidi rigenerativi, notò solo una piccola valvola all’altezza della bocca e una sotto il naso; erano gli unici particolari a dargli un aspetto umano.
Si sforzò di individuare a quale sesso appartenesse,
ma le fasciature a muta erano una muraglia impenetrabile. Decise di non perdere altro tempo, domani avrebbe dato un occhiata ai documenti della tabella clinica.
La radio-net di Norma si accese esattamente alle
undici di una serata afosa e claustrofobica. Era già
passato un giorno e al risveglio questo pensiero era il
primo di una lista interminabile di paranoie quotidiane.
Questa volta però, aveva dormito meno degli altri giorni. L’arrivo improvviso di quel paziente, a fine turno, le
aveva rubato ore preziose al suo sonno.
Dormire di giorno e lavorare di notte all’inizio era stato un problema, ma adesso, dopo diciannove anni di
servizio, era diventata una routine. I ragazzi erano cresciuti e con l’ausilio di un’amica riusciva a tirare avanti. Baciò tutti i pargoli sulla fronte, mentre dormivano, e
si precipitò sulla sua scassatissima nDobro-Wagon.
Per risparmiare gli aveva fatto cambiare l’impianto a
idrogeno. Si era fatta installare un serbatoio ad alcool.
E alla partenza ogni volta uscivano fiammate dai condotti di scappamento.
Una scia di denso fumo la seguiva per tutta la corsa,
lasciando una cicatrice bianchiccia nel cielo.
Sicuramente, se avesse dovuto usare quel velivolo
di giorno, le avrebbero fatto una marea di multe. Infra-
21
zioni sulla carrozzeria, sulla carburazione, sull’illuminazione…
Dopo due chilometri, l’impianto di refrigerazione iniziò a sputacchiare aria calda. Norma, innervosita, tirò
fuori dal cruscotto un pacchetto di spacca-polmoni.
All’arrivo in ospedale ne rimanevano ben poche nella
confezione, ma il nervoso era rimasto. Parcheggiò frettolosamente e si diresse in reparto. Infilò il camice
camminando e salutò distrattamente i colleghi, poi si
diresse a grandi passi nella sala riattivazioni. Quando
entrò vide i due occupanti della sala che galleggiavano
immobili. Erano fasciati tutti e due allo stesso modo,
dalla testa ai piedi. Norma diede una scorsa alla cartella del nuovo arrivato. Al posto del nome c’era un
codice a barre. Poi lesse il referto. Ustioni al 99% del
corpo, grave intossicazione polmonare e visiva. Sicuramente, se fosse sopravvissuto, avrebbe riportato conseguenze tragiche per tutta la vita. Poi si avvicinò dall’altro paziente. Era qui da più tempo, ma la situazione
era analoga. Gli impianti di riattivazione erano in funzione da un mese e mezzo, ma la sonda aveva rilevato
anomalie per la pelle e per gli occhi. Chissà ancora
per quanto tempo quell’essere sarebbe rimasto in quella
situazione?
Norma cambiò le valvole dei condotti dei due pazienti e avvertì una sensazione di vuoto attorno a se. Quando sentì la voce del dottore della sera precedente che
proveniva dalle sue spalle rimase impietrita.
Non ebbe neanche il coraggio di rivolgergli un saluto.
Il dottore impugnò la tabella e digitò con la penna elettronica i risultati delle analisi che aveva effettuato. Il
corpo di Norma era marmo puro quando vide che il
dottore era in compagnia dei due portantini Masai.
Stava per svenire, quelle presenze la mettevano in
agitazione. Poi notò che la mano dell’altro paziente si
era mossa. Si precipitò al cilindro del poveretto e guidò il writing-box in direzione delle sue dita.
Il paziente riconobbe i codici Sthaller sui tasti digitali, in uso in quasi tutto il mondo, e tentò di digitare
qualcosa. Doveva provare parecchio dolore mentre
cercava di muovere le dita. Norma lo lasciò fare senza
mettergli fretta. Già immaginava la richiesta. Ma quando lesse il display rimase a bocca aperta.
‘’ Sotterrate le armi... sotterrate le armi...’’
Con l’espressione di un pinguino nel Sahara cercò
un interlocutore nella stanza, ma del dottore e dei
portantini non c’era traccia. Si avventurò nel corridoio
ma senza trovare nessuno.
Quando finì il turno, aveva deciso di confidarsi con
l’amica. Quello che gli era successo non le sembrava
normale.
Erano visioni o realtà quel dottore che compariva e
scompariva in compagnia dei due Masai?
Se si trattava di visioni sarebbe ricorsa a qualche
cura, se era realtà avrebbe deciso di scoprire il mistero.
La notte seguente, dopo aver adempito alle cure dei
due pazienti, scivolò nei piani sotterranei e tornò al
reparto con un’enorme carrello della biancheria. Lo
posizionò in corrispondenza della sala di riattivazione
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e si allontanò.
Di infermiere e dottori, sino a quel momento, se ne
videro parecchi. Tutto sembrava normale. Tranne la
biancheria del carrello, che pareva muoversi da sola.
Norma non voleva credere alle allucinazioni, il suo
spirito combattivo le impediva di arrendersi e dichiarare la sua psiche inferma. E da qualche giorno arrivava
al reparto con un’aria del tutto nuova. Era come se le
brillasse un terzo occhio sulla fronte, quell’occhio che
le sarebbe servito per scoprire chi si celava dietro quel
mistero.
Trascorsero altri due mesi e i due pazienti, molto lentamente, sembravano essere usciti dal pericolo di vita.
E in relazione a questo fatto, né il dottore e né i due
Masai si erano fatti più vivi.
Norma si avvicinò al carrello della biancheria e furtivamente infilò una bevanda ghiacciata sotto alcuni lenzuoli. Poi con un filo di voce si rivolse in direzione del
carrello.
- Non so che dirti. Ti prego solo di credermi e di non
prendermi per pazza.
Dal carrello uscì una voce soffocata e irritata.
- Io invece saprei cosa dirti. Non ne posso più di stare qui dentro. Inizio a credere che mi hai raccontato
delle balle. Forse hai solo bisogno di un uomo che ti
renda la vita più leggera...
- Gwata... Brutta str... ma che diavolo vuoi insinuare!
- Senti Norma, io ti posso aiutare a casa con i figli,
sono o non sono la tua migliore amica?! Ma non puoi
continuare a chiedermi di nascondermi tutte le notti in
questo carrello e aspettare che compaia Belzebù...
Norma rimase in silenzio con le lacrime agli occhi.
Forse la sua amica aveva ragione. Forse era soltanto
una questione di stanchezza, un po’ di riposo le avrebbe fatto molto bene. Ma quando stava per finire questo
pensiero, sul margine dello strapiombo della rassegnazione, il suo carattere fece schioccare la frusta dell’orgoglio.
- Come preferisci... Se non te la senti andrò avanti da
sola!
- Avanti dove?
Una voce fredda come il ghiaccio le graffiò l’anima.
Non ebbe il coraggio di girarsi: sapeva a chi apparteneva.
Uno dei due Masai si avvicinò al carrello e sollevò
alcuni lenzuoli. La pelle nera del viso di Gwata,
imperlata di sudore, sembrava stingersi dalla paura. Il
dottore fece un cenno con la testa e delle due donne,
da quel giorno, non se ne seppe più nulla.
- Da quanto tempo siete qui?
- Forse tre mesi... non saprei di preciso, e voi?
- Non lo so. Come vi chiamate?
- ...Preferisco non rispondere a questa domanda, ma
se volete potete dirmi come vi chiamate voi.
- Dite la verita’: non ve lo ricordate?
- E’ vero... anche voi immagino?
- Proprio cosi’...
- Sapete dirmi dove ci troviamo?
- Non ci giurerei, ma dovremmo essere in un ospeda-
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le.
- In un ospedale?
- Si. Qualche giorno fa, quando mi sono ripreso dal
coma, una infermiera ha comunicato con me. Mi ha
detto che al mio risveglio digitavo frasi senza senso...
Poi mi ha detto che era colpa delle cure che mi stavano attuando. La perdita di memoria e’ un effetto
collaterale di queste medicine dove siamo immersi.
- Allora se io mi trovo qua sono malato come voi?
- Ecco non si spaventi...
- Continui la prego.
- Non siamo malati, stando a quello che mi ha riferito
l’infermiera. Questo reparto accoglie gli ustionati.
- Ustionati? Ma che state dicendo!
- Ebbene si... Bruciati vivi. Pensi che mi ha detto che
sono stato l’unico superstite. Gli altri li hanno ritrovati
tutti carbonizzati.
- E dove e’ successo questo?
- Mah... a dir la verita’ e’ stata un po’ confusa. Mi ha
raccontato di un treno. Un treno che si e’ fermato in
una zona nucleare. Poi non ho capito piu’ niente.
- E vi ha parlato anche di me?
- Mi ha detto che siete arrivato una notte, accompagnato da uno strano team medico. E che anche voi
non ve la passavate tanto bene. Ma a proposito: siete
un uomo o una donna?
- Un uomo o una donna? Un uomo o una donna...
Il paziente non seppe rispondere, e con questo quesito interruppe la conversazione con il writing-box.
I giorni passarono come lente e pigre maree.
- Cucù... ci siete? E’ un po’ che non ci parliamo.
- Ci sono, ci sono. Vi devo proprio ringraziare.
- E come mai?
- Per i quesiti che mi hanno trapanato l’anima!
- Mi dispiace... Non era mia intenzione.
- Non importa... Non e’ vero ma lo dico ugualmente.
L’infermiera e’ tornata a trovarvi?
- No. Non ho avuto piu’ modo di parlarle, e’ come se
fosse sparita.
Una voce robotica si infiltrò nella loro chat neuronica,
e i due pazienti si sentirono come spiati nell’intimità
più recondita.
- Oggi è un buon giorno per tutti e due.
La voce recitava un discorso preregistrato, che
sott’intendeva la fine dell’immersione nei cilindri
amniotici. La cura sarebbe proseguita in maniera più
normale. Qualche passo in avanti nella guarigione era
compiuto.
Quel giorno le loro strade si divisero. Non fecero in
tempo a conoscersi di persona. Uno in un reparto e
uno in un altro.
L’inverno a Mombaza12 aveva il sapore di una primavera e nei reparti dell’ospedale faceva molto caldo.
Il professor Grant Lee Mawaka oggi iniziava le terapie per il recupero della memoria. Tutti i pazienti che
avevano sostenuto la cura dei cilindri affollavano l’aula,
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composti e vogliosi di riprendersi quello che avevano
perso. La lezione era già iniziata da qualche minuto,
quando entrò dalla porta, senza bussare, una donna la
cui bellezza era paragonabile solo ai fiori chimici che
nascono dopo le piogge acide nei deserti nucleari.
Nonostante la sua bellezza, enfatizzata da un abbigliamento ridottissimo: un mini costume a due pezzi
di cellofan, ostentava un aria tremenda. Una perenne
rabbia la faceva apparire diversa e violenta e gli uomini,
impauriti da tanta aggressività, la evitavano.
Il professor Mawaka, sorrise alla donna come ad
un’amica, infatti era già il settimo ciclo che frequentava nel giro di due anni. I risultati erano stati deludenti.
Nessun recupero di memoria e avanzato stato
depressivo.
Il professor Mawaka si diresse verso la donna con un
espressione benevola, che lasciava intendere quanto
era poco interessato alle sue forme fisiche, e quanto
lo fosse invece al soggetto paziente.
- Che ci fai qui signorina? Il nuovo corso per te inizia
questa sera: non è questo.
- Non so dove andare...
- Ok. Puoi rimanere, ma promettimi di comportarti
bene. Promesso?
- Mh...
Dopo pochi minuti la lezione fu interrotta e degli infermieri furono costretti ad entrare e portare via di peso la
signorina.
La dose questa volta era esattamente il doppio, e il
sonnifero la tenne calma fino a qualche minuto prima
della lezione-terapia serale.
La portarono in una stanza piccola, aveva una specie
di camicia di forza e quando entrò il Professor Mawaka,
fece finta di arrabbiarsi con gli infermieri e li costrinse
a togliergliela. Questo gesto del professore era stato
studiato a tavolino e mise subito di buon umore la ragazza.
- Che aspettiamo professore, quando iniziamo la lezione?
- Ci sono delle novità, mia cara. Questa volta non
sarai sola. Ci sarà un altro paziente con te. Si trova
nelle tue stesse condizioni. E’ guarito fisicamente, la
pelle si è riformata anche meglio di prima, e l’intossicazione ai polmoni e alla vista non ha lasciato traccia.
Ma anche lui, come te, è dovuto rimanere a lungo nei
cilindri e la memoria non gli è ancora tornata. Ma non
è tutto... E’ arrivato qualcuno e ha portato un regalo
per te.
La reazione fu lenta e programmata. Ogni piccola
emozione poteva scatenare l’inferno dentro di lei, oppure aggiungere un piccolo mattoncino per ricostruire
quello che sembrava aver perso per sempre.
La conversazione fu interrotta dal cigolio della porta
che si aprì. Un uomo entro con lo sguardo basso e le
braccia conserte. L’uomo non salutò e non degnò nessuno del suo sguardo.
Fisicamente era lì, nella stanza, ma la sua mente
era distante dalla realtà. Il professore non perse tempo
e iniziò a far parlare i due pazienti.
- ... Adesso ditemi qualcosa di bello che vi ricorda-
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te. Inizi lei.
L’uomo, diligentemente, sciolse le braccia e alzò lo
sguardo.
- Avevo un amico... quando ero nel cilindro.
- E come si chiamava?
- Non se lo ricordava e non sapeva neanche se era
uomo o donna...
La ragazza si alzò lentamente e si avvicinò all’uomo.
- Uomo o donna? Uomo o donna... Donna!
I due si abbracciarono dopo essersi riconosciuti e
fiutati come due animali. Il professore si asciugò gli
occhi. Qualcosa di importante era successo. Sapeva
che sarebbe bastato poco, a tutti e due, per ingranare
la marcia e ripartire. E decise che era arrivato il momento di consegnare il regalo che due donne di colore
avevano recapitato per la ragazza.
Lei cercò di non tremare ma l’emozione che stava
provando le suggeriva di saltare in aria come una bambina, e dovette opporsi a quest’istinto con tutte le proprie forze. Abbracciò la scatola e la strinse in petto.
Dapprima osservò la fantasia della carta poi cercò di
misurarne il peso. Poi la scosse per sentire il rumore.
Alla fine anche il professore s’incuriosì ed esortò la
ragazza ad aprirla.
Sorrideva e lanciava baci con le mani a tutti e due.
Strappò il nastro e la carta, e quando ne sollevò il coperchio un uragano si scatenò nella sua mente.
Quelle piccole mosche sintetiche uscirono dalla scatola come impazzite. Un cane fedele non avrebbe fatto
tante feste al suo padrone come queste mosche alla
ragazza.
Perse l’equilibrio e la forza nelle gambe: in un attimo
tutto tornò limpido. Qualcuno aveva acceso l’interruttore della sua memoria.
Si ricordò dell’ultimo attentato fatto al cinema E. S.
Abuli, dove lei stessa rimase vittima dell’esplosione.
Ma mentre tutti gli spettatori, tutti politici del governo
fantoccio, persero la vita lei rimase intrappolata tra le
fiamme che aveva appiccato.
Quando si girò dalla parte dei due uomini trovò il professore che vinta l’emozione, stava registrando dei
commenti nel suo mini t-bozz, e l’altro con il viso totalmente cambiato. Quelle mosche avevano acceso anche il suo interruttore.
Era percorso da fremiti di rabbia, paura, collera e
quant’altro. E continuava a grattarsi la pelle della faccia e del corpo, come se sentisse quegli insetti camminargli addosso. Gli occhi brillarono di una luce satanica: il generale Art Van Noveau era tornato; e davanti
a se aveva la sua nemica numero uno.
Lady nDacumba vinse tutte le emozioni e questo gli
permise di vincere la partita. Le mosche roteavano
minacciose addosso al generale delle guardie olandesi del Vaticano, quando decise di schiacciare l’allarme. Gli infermieri entrarono rompendo la porta e trovarono il professore e il generale che lottavano per scacciare le mosche e la finestra sfondata. Di Lady
nDacumba neanche l’ombra.
L’inverno africano continuava a prendersi in giro da
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solo, lasciando al sole e allo scirocco il ruolo da protagonisti. E ben presto arrivò il momento di lasciare le
consegne alla primavera e alle sue splendide serate
stellate. Una sera sembrò che una stella fatta a donna
scese in città diritta dritta dal cielo. E infilatasi su un
taxi arrivò al grattacielo Rhino-building.
Lasciò una cospicua mancia all’autista, che sembrava già appagato dal suo specchietto retrovisore, e si
avviò all’appartamento 78834. Quando le aprirono la
porta, Lady fu avvolta dal calore della voce del fratello
che indossava un camice da elettro-bio-chirurgo.
- Norma, Gwata... venite: è arrivata mia sorella.
L’ex infermiera e la sua amica, diventate parte attiva
del movimento rivoluzionario dei Tecno-Zulu, si avvicinarono alla soglia, sbalordite da tanta bellezza, e dietro di loro due Masai mostravano tutto l’avorio dei propri denti.
Capitolo ottavo: I mille pezzi dell’iguana che sorride
Pochi mesi fa ero un’inconsistente lucina blu, persa
nel cosmo. E quando ho deciso che era arrivato il
momento di tornare in terra e riscattarsi di nuovo, l’unico problema era scegliersi un corpo e un luogo.
La mia natura di messia e redentore è stata messa
in discussione da sempre... e quando dico sempre,
non riesco neanche più a ricordare un punto spaziotempo di partenza.
Sono attratto dalla luce livida che emana questa città.
Il clima di Bucarest è freddo, ma non è un problema.
Il frastuono invece si.
Anche come essenza eterea riesco a capire quando
ci si trova in una zona erogena della terra.
Bucarest è un’enorme lastra di freddo cemento e
metallo arrugginito, che pulsa sotto una miriade di satelliti-fari, o meglio soli artificiali.
Il cielo e’ così denso che nessuna luce riesce a penetrarlo, e questo scenario apocalittico mi ricorda i miei
quadri... e Ghustaff.
In quale altro posto poteva nidificare il male?...
Guardo il mio corpo riflesso allo specchio. E’ poco
che tempo che lo possiedo e non mi sono ancora abituato.
Controllo il ventre piatto, le braccia e le gambe lunghe.
Ho la pelle crespa e rugosa: sembro un rettile. Soprattutto le rughe sul viso, e l’espressione dei lineamenti mi ricordano un’iguana che sorride.
Non chiedetemi come ho fatto a comprare questo
appartamento.
Non chiedetemi chi sono le persone che ne stanno
varcando la soglia.
Devo portare a termine il mio progetto e, posso solo
dirvi che non ho usato mezzi troppo leciti per essere
dove mi trovo. Ma il fine giustificherà sicuramente...
(almeno) … parte dei mezzi... l’altra parte non posso
proprio giustificarla.
Sono nudo e mi avvio alla porta. La ragazza non
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riesce a staccare gli occhi dal mio sesso, che nonostante la presenza di estranei, mi ostino a non coprire.
Sposto, con una manata, l’immondizia che ricopre il
divano, e stando attento alle molle che sbucano fuori,
mi accomodo: ho la situazione in pugno. Le pillole sono
buone e non ho nessun bisogno di ribattere il prezzo,
le compro tutte. I tre pusher sono seduti sul divano di
fronte al mio e quando allungo la mano per dargli i
crediti che mi chiedono, il mio mignolo tocca il palmo
dell’altro.
Un onda vibrante mi collega ai tre bastardi. Tremo, e
loro sembrano attraversati dalla stessa energia che sta
invadendo i miei circuiti non terrestri. Adesso riesco a
vederli per quello che sono, leggo le loro intenzioni: mi
vogliono strapazzare la cotenna con le loro ‘nude signore d’argento’ che ripongono, con tanto affetto, sotto gli impermeabili e tenersi soldi e pillole. Un fulmine,
una scarica elettrica, scaturito dalla mia mano, li attraversa tutti e tre, come un enorme spiedo.
L’odore della carne bruciata impregna la stanza. E
quando decido di fermare l’energia che li sta distruggendo da dentro cadono da tre d’altezza, come tre
molli involucri pieni di cenere.
Il fumo che fuoriesce dalla bocca e dal naso non mi
impressiona.
La puzza si.
Con un calcio spalanco la porta socchiusa dell’uscio
e scaravento i tre sacchi d’immondizia giù dalla tromba delle scale. Quando arrivano a terra, quasi non si
sente rumore, solo una sottile cenere grigiastra si sparge nell’aria.
Mi sento spossato, troppe energie sono andate sprecate. Mi ricarico ingerendo: tre pillole gialle, che non
so a cosa fanno bene ma mi piace il colore, e per
finire, una manciata di quelle rosse, vitanfetamine... la
notte è quasi finita e mi devo rimettere a lavoro.
Attraversando la stanza, butto lo sguardo ancora verso lo specchio, distrattamente: l’iguana sorridente ha
troppe rughe... afferro una bottiglia da terra e la scaravento sul rettile grinzoso, spaccandolo in mille pezzi.
Sono nervoso, troppo nervoso per lavorare. Ma nonostante tutto mi avvicino a Ghustaff, lo chiamo così in
memoria della mia vecchia fiamma. Gli do il comando
vocale di accensione, ma non parte.
Provo a ripeterlo ma niente da fare.
Provo a dare un’occhiata al cablaggio sotto il video e
una serie di scintille mi finiscono sui capelli.
Al terzo calcio in pieno monitor si accende, salutandomi con una data sfasata di due giorni.
- Ghustaff, ma si può sapere chi diavolo ti ha programmato?! Alle volte penso che ci sia lo zampino di
mio padre, che vuole tenermi alla larga da altri fallimenti...
- BBzzzzzzzz... la programmazione è rimasta quella standard...
- Ma perché ti ostini a parlare con quella timbrica
elettronica fasulla... lo so che puoi parlare con altre
voci più gradevoli, e smettila di fare scintille!!!
Sprofondo stancamente tra le molle del divano. Più
passa il tempo e più mi convinco che devo cambiare
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questo catorcio ammuffito. Non il divano, il cervello elettronico che mi collega al satellite.
Sto per caricare la mia nuda signora d’argento e fare
fuoco contro Ghus... ma in quel frangente arrivano
segnalazioni dall’alto, come meteoriti.
Mi stupisco di tanta efficienza e rimango con la bocca aperta a fissare la superficie luminosa davanti a
me. Rimango ancora più stupito, quando mi comunica
i dati, che il satellite gli sta sparando nei cavi ottici.
Ha la voce di Orson Welles.
Tracanno una sorsata di ‘non so quale porcheria &
soda’ e mi rilasso, mentre ascolto quel cagasotto
pentito di Ghus.
Non avevo dubbi: ha cambiato voce, è diventato più
efficiente, ma i dati che mi fornisce sono stupidaggini.
Non mi metto neanche a leggere la lista che mi sta
proiettando sulla parete. Tutti nomi di poco conto, tutti
pesci piccoli... Tra assassini, stupratori e via discorrendo potrei contarne un migliaio solo nel mio quartiere. Ma per mettere in moto il mio progetto di cleaningredemptions ho bisogno di tutt’altro materiale.
Ho il morale a terra. Allungo la mano sul tavolino e
senza guardare, con il solo movimento del pollice e
dell’indice, svito il contenitore di pillole arancioni. Me
ne cadono sei nel palmo della mano e altrettante nello
stomaco. Quando anche la sesta si scioglie nel mio
sangue, sono tre ore che dormo... abbracciato al video.
Capitolo nono: Non ci tange
A poche centinaia di metri dall’alloggio di guerra papale, era in corso una delle guerre più vergognose e
atroci che il Vaticano aveva mai intrapreso.
Bombay e Calcutta erano rase al suolo. I sopravvissuti e gli irriducibili erano nascosti in posti impensabili,
seppelliti sotto le macerie e le rovine.
Il diciottenne Papa Sigfrisio, aveva deciso di festeggiare il suo compleanno con un atto storico.
Tragicamente storico.
Il suo ingresso nella storia di Rhoma non poteva essere più violento e quella figura tenebrosa, quell’essere dalle articolazioni metalliche, che lo seguiva passo
passo, sembrava il lato oscuro della sua coscienza.
Le tattiche usate dal suo esercito di guardie olandesi
erano banali e elementari. Il popolo indiano non si aspettava una guerra e quindi non fece in tempo a rendersene conto che si ritrovò con milioni di morti e interi paesi distrutti.
L’esercito di Sigfrisio lasciò precipitare dal cielo centinaia di letali Bombe Disgreganti. Bombe che scioglievano qualsiasi cosa incontrassero.
Uomini, palazzi e veicoli, ogni cosa si scioglieva in
un’unica poltiglia.
Lo spettacolo era agghiacciante. Sembrava che Dalì
si fosse sostituito al creatore, rimodellando interi paesaggi con le sue linee distorte e visionarie.
Un ufficiale stava mostrando al Papa guerriero e al
suo braccio destro ZDimitrij delle testimonianze
olografiche di quello che si trovava a pochi passi da lì.
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Sigfrisio sembrava divertirsi come un matto. Non riusciva a stare fermo sul suo trono da campo, e ciondolava l’enorme testa freneticamente. Squittiva
ripetutamente delle risate nervose accompagnate da
una tosse convulsa che lo faceva piegare a scatti in
avanti.
- E questo cos’è.
Disse immobilizzandosi di colpo e assumendo
un’espressione seria.
Il soldato olandese osservò l’ologramma più da vicino. E il volto gli si coprì d’imbarazzo.
- Suvvia, presto… Ditemi che cos’è: ve lo ordino!
Continuò Sigfrisio incuriosito ancora di più dall’espressione del soldato.
Il soldato si schiarì la voce e quasi sull’attenti disse
con voce falsamente ferma di cosa si trattava.
- Maestà Pontificia: questo… questo è un bambino
disgregato con il suo cane vicino ad una statua
blasfema di un dio sconosciuto.
Il soldato deglutì a fatica e tornò un passo in dietro, in
posizione di attenti.
Sigfrisio rimase interdetto. Per un attimo la sua furia
malata sembrò rientrare nel contenitore.
Aveva gli occhi sgranati e la bocca aperta, e i minuscoli occhietti azzurri lampeggiavano come fari.
Ma la pazzia non ha confini. E con molta naturalezza
e ammirazione, senza spostare lo sguardo dall’immagine, si rivolse ancora al soldato.
- Ma vi rendete conto?
Il soldato abbozzò un espressione amareggiata e
colpita. Anche il suo codice di guerra gl’impediva di
commettere certe atrocità.
Sigfrisio si avvicinò con il naso a pochi centimetri
dall’ologramma e continuò a rivolgersi al soldato che
sembrava realmente affranto da quello spettacolo macabro.
- Ma vi rendete conto? Immaginate come starebbe
vicino alle altre statue sperimentali che mi sono fatto
spedire dal Belgio. La voglio! Portatemela subito… E’
bellissima, chissà che figurone mi farà fare ai ricevimenti.
La guardia olandese si sforzò di togliersi quell’espressione di compassione dal volto. E balbettando ordinò
alla sua squadra il recupero di quella fusione pietrificata.
Capitolo decimo: Rasputin
Papa Sigfrisio si mordeva le mani nervosamente. Si
era rannicchiato in un angolo del suo immenso trono
papale, vinto da un nervosismo epilettico che lo spingeva a ripetere delle velocissime frasi in latino.
Il suo seguito di truccatori e segretari speciali, biografi
e ritrattisti, conoscevano bene questo atteggiamento,
ma mai come oggi questa farsa risultava onirica.
Quando si alzava dal trono correva da un angolo all’altro dei saloni del Vaticano, mezzo ignudo, senza
parrucca e la sua crew lo seguiva sventolando pomposi batuffoli che lasciavano nuvole di borotalco, e documenti da firmare che finivano inevitabilmente in aria.
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Poi due personaggi che sembravano usciti direttamente dalle pellicole di Fellini, senza vita in viso e vestiti come due statue di cera del milleseicento, batterono per terra le pertiche di legno e avorio che tenevano in mano per mestiere.
I due uscieri annunciarono l’arrivo dell’arcivescovo
Rezelieu.
Papa Sigfrisio saltò in piedi sul trono e con una voce
in falsetto, resa rauca dall’isteria, ordinò a tutti di uscire e di lasciarlo solo con Rezelieu.
Rezelieu attese il consenso del Papa per sollevare la
testa dal pavimento, dopo aver compiuto un
pomposissimo inchino.
Papa Sigfrisio estrasse da un pomello segreto del
suo trono un telecomando. Il salone si ridusse in una
stretta e fredda cella olografica, tanto reale che i loro
aliti presero a condensarsi.
Tutto era ermeticamente protetto, nessuno mai avrebbe potuto sentire quello che l’arcivescovo Rezelieu stava per dire al Papa.
Ma prima di iniziare a parlare gli consegnò un
cofanetto contenente la lingua di ZDimitrij.
Zdimitrij aveva previsto l’imboscata, ma nonostante
tutto aveva deciso di non opporre resistenza agli uomini dell’arcivescovo Rezelieu.
Non ebbe paura di trovarsi solo contro quegli uomini
che volevano a tutti i costi ucciderlo. Si sarebbe fatto
uccidere per saldare il debito con Sigfrisio, e a quel
punto sarebbe iniziata la sua rivincita.
Il braccio destro e confidente particolare di Papa
Sigfrisio, nonché compagno di classe, era, grazie ai
suoi poteri mistici e la sua forza ammaliatrice, diventato troppo pericoloso per Sigfrisio. Il quale fu costretto
dapprima a confinarlo e poi a farlo uccidere.
I suoi seguaci diventavano sempre più numerosi e
così facendo si rinnovava il pericolo per l’egemonia del
Vaticano.
Sotto quattro metri di terra, con il corpo lacerato e
sventrato dai colpi inferti dalle lance dei soldati di
Rezelieu, il cuore di ZDimitrij aveva cessato di battere.
Ma nella mente era ancora vivo il ricordo del suo avo.
Nato proprio in questa terra: la Siberia, dove lui era
stato confinato.
Era il dieci gennaio del 1869. Due levatrici con più
vodka in corpo che sangue, uscirono dalla stanza della partoriente con un pargolo ancora sporco di sangue
e placenta.
Aveva nevicato abbondantemente e intorno alla casa
c’era una distesa di bianco accecante. Quando il padre capì che era un maschio, decise di pagare da bere
a tutta Pokròvskoe.
Il bambino fu gettato nella neve e fu lavato all’aperto,
a meno venti gradi, senza neanche versare una lacrima.
Crebbe. Peregrinò per quelle lande tristi desolate,
imbattendosi in molte sette religiose, ai confini con
l’ortodossia. E fu in uno di questi viaggi che Rasputin
scoprì di avere dei poteri soprannaturali e di guaritore.
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Questi poteri lo portarono fino alla cerchia dei Romanov.
Il suo potere si estese e in breve la sua fama s’ingrandì.
Poi venne accusato di compiere atti immorali.
Orge e satanismo erano all’ordine del giorno nelle
sue sedute, e ben presto intorno ai suoi seguaci si
affiancarono veri e propri nemici che volevano annientarlo. Fra questi anche l’Ochrana, la polizia segreta di
Nicola II.
E fu proprio in previsione di ucciderlo che fu attirato
con una scusa a palazzo Jusupov, dove in un finto ricevimento gli vennero offerti dei dolci avvelenati.
Il cianuro non sortì nessun effetto sul corpo del mistico Rasputin.
Il principe Jusupov decise di farla finita una volta per
tutte e armata la sua pistola, sparò sul petto del
guaritore più volte.
Ma sembrava immortale, infatti nonostante i fori
insanguinati si scagliò con forza inaudita sul principe
per strangolarlo. La lotta continuò nel cortile innevato
dove il principe scaricò l’intero caricatore sulla schiena di Rasputin, che finalmente cadde a terra, apparentemente senza vita.
Con l’ausilio di alcuni complici, gettarono il cadavere
nel fiume Neva. Ma qualche giorno dopo lo videro
riaffiorare dalle tenebrose acque ghiacciate.
Gli fu fatto un funerale in gran segreto e fu
definitivamente seppellito.
In piena rivoluzione, in un grigio febbraio del 1917,
venne disseppellito per essere bruciato, e qualcuno
raccontò di aver visto il corpo di Rasputin, ancora in
uno stato perfetto, divincolarsi tra le fiamme.
Papa Sigfrisio accarezzò il capo dell’arcivescovo
Rezelieu e gli sorrise come si sorride ad un figlio bravo
e diligente. E quella notte non ebbe neanche bisogno
di prendere i sonniferi per riposare tranquillo.
Capitolo undicesimo: La resurrezione del drago
pugnalato
Il taxi procede lento, sorvolando a venti centimetri la
crosta asfaltata del suolo; il traffico a quest’ora non ti
soffoca, ma considerando che sono le cinque di mattina...
Il sedile posteriore non è affatto scomodo, e avvolto
nel mio cappotto di pelliccia viola, ho gli occhi che si
chiudono.
Wlazesku, il tassista, sa tutto a memoria. Conosce
perfettamente il percorso e sa cosa deve fare al momento giusto.
Mi tengo in allenamento, per non perdere la mano
quando arriverà il grande momento... almeno lo spero.
Da tre settimane io e Wlazesku battiamo questa zona
come delle baldracche in cerca di clienti. A dir la verità, i clienti per questa sera li abbiamo già trovati; stiamo solo aspettando che chiamino il taxi.
Hanno l’aspetto di banchieri svizzeri dai lineamenti
slavo-filippini. L’affare lo hanno concluso in maniera
positiva analizzando la loro allegria e il peso delle
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valigette incatenate ai polsi. Vorranno certamente festeggiare e Wlazesku sa cosa consigliargli, quando
glielo chiederanno.
Il taxi riparte con i due venditori di morte sul sedile
posteriore che ringraziano i loro dèi e bestemmiano
quelli degli altri.
Io, senza neanche aprire la portiera, sono uscito dalla vettura e osservo la scia rossa dei fari posteriori che
si allontana verso una nebbia spruzzata di luce al neon.
Ci siamo: e’ il momento di agire...
Mi avvio dalla parte opposta della strada camminando con molta calma e lasciando volate di fumo che
piano piano mi avvolgono completamente, fino a farmi
scomparire.
Quando i due aspiranti teschi scendono dal taxi, io,
sono già all’interno del locale, sottoforma di lucina blu
che scintilla accanto ad una lampada.
Wuong-lee Stvicek, ottimo esemplare di cagna da
pecunia cino-anglo-rumena, nonché proprietaria del
locale, appena scorge i due dall’occhiello della porta,
sente l’odore della grana nell’aria e li prega di entrare
con reverenze da schiava.
In un batter d’occhio i due commercianti sono
attorniati da un nugolo di ragazze svestite che portano
ogni sorta di preparato liquido per i loro palati viziosi.
Le ragazze sanno il fatto loro e i due si lasciano trasportare dal torbido vento dell’est.
Il separé s’infuoca, e ogni atomo lì dentro va sù di
giri. Una Ragazza dalla schiena tatuata, sta cavalcando il pancione di uno dei due affaristi, strillando e dimenandosi dal piacere(?), mentre l’altro uomo le conficca su tutto il corpo, come in una seduta di agopuntura, delle piccole siringhe.
Con la bava alla bocca e la schiuma sulla pelle,
quello che dei due uomini sembra il più passivo, preme la sostanza delle siringhe dentro l’esile corpo della
ragazza che da lì a poco, con un tonfo, stramazza al
suolo.
I due sembrano veramente divertiti e continuano a
deridere la ragazza. Le altre, preoccupate per la sorte
toccata alla loro amica, chiamano la padrona. Uno di
loro, con il dorso di una scarpa, gira la ragazza, incuriosito dal tatuaggio. Quando intravede il disegno di un
drago pugnalato scoppia a ridere. Il suo destino era
scritto sulla pelle.
Stupito e divertito, si rivolge all’amico che sembra
impassibile. Non si è accorto che dietro di lui c’è la
signora Wuong-lee Stvicek con un’enorme congegno
sputa fuoco a canne mozze.
I due uomini sembrano riacquistare la freddezza che
sicuramente adoperano per i loro affari, e nell’attimo di
un battito di ciglio, hanno aggirato la matrona armata
dagli occhi a mandorla e dai capelli biondi: la stanno
soffocando con la sua stessa arma, premuta sul collo.
Una ragazza presa dall’isteria, si scaglia verso i due
aggressori, ma una lingua di fuoco, scaturita accidentalmente dall’arma della sua padrona, gli spappola il
collo.
La testa della ragazza, per un istante, anche se staccata rimane nella sua esatta posizione, per poi preci-
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pitare in grembo ad una sua collega terrorizzata e
cosparsa di frattaglie e sangue.
Nel marasma generale, nessuno fa caso ad una piccola inconsistente luce blu, che dopo aver svolazzato
in aria, si posa sulla bocca della ragazza pugnalata da
una miriade di aghi, per poi penetrargli in gola.
Mi basta pochissimo tempo e sono in piedi con il
corpo della ragazza tatuata, il drago pugnalato è risorto sotto lo sguardo allucinato di tutti.
L’infuocato separé è diventato una cella frigorifero e i
due venditori di armi due pezzi di carne morta, inermi,
appesi ai ganci cromati di un mattatoio.
Quando lascio il corpo della povera rumena, sdraiato
e inanimato sul lurido pavimento, qualcuno è già all’inferno a scontare le sue malefatte.
Altre anime al purgatorio, ma sicuramente per poco.
E altri ancora, con un piede qui e uno là, a vivere la
squallida pericolosa quotidianità...
Wlazesku ha trovato il danaro dentro il cruscotto del
taxi. Non si chiede neanche come avrò fatto a metterlo
lì quando un attimo prima non c’era... è proprio un collega ideale.
Il taxi procede lento, sorvolando a venti centimetri la
crosta asfaltata del suolo; il traffico a quest’ora non ti
soffoca, ma considerando che sono le cinque di mattina...
Il sedile posteriore non è affatto scomodo, e avvolto
nel mio cappotto di pelliccia viola, ho gli occhi che si
chiudono.
Capitolo dodicesimo: La Grande caccia
Non era strano di questi tempi trovare in uno sperduto villaggio africano, un agglomerato di capanne di fango e arbusti come nei millenni precedenti. Con la sola
differenza che chi vi abitava adesso, era un branco di
selvaggi tecnological-dependet, ammalati di informatica e di tutto ciò che era alta tecnologia.
La sete e la fame scomparivano di fronte a quei
marchingegni elettronici. E lo Stato agevolava gli acquisti in questa direzione. Si perché questo maledetto
Stato, corrotto e marcio, non aveva nessun interesse a
guarire ‘malattie’ di questa portata. Anzi le incrementava per arricchirsi.
Generazioni intere di selvaggi, uomini, donne, vecchi
e soprattutto bambini, geni informatici, tenutari di record che in occidente non immaginavano neanche,
morivano attaccati ai loro computer senza soffrire. Non
si accorgevano neanche del trapasso, tanto erano
anestetizzati dalla febbre elettronica che stava decimando la Nuova Africa.
Lo stato si arricchiva, e nello stesso tempo provvedeva a smaltire la popolazione in esubero. Non ci volevano dei geni per stilare queste strategie, servivano soltanto dei ricchi maiali industriali, infiltrati nel governo
per rimpinguarsi e inglobare tutto il paese in un immenso supermercato che svendeva vite umane.
Nanà e Tizi non andavano a scuola da più di una
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settimana. Arrivavano a Mombaza12 a bordo degli
scassatissimi e vecchissimi Aerostatic-courrier, per poi
avventurarsi nella direzione opposta alla scuola.
Yanes Takeide Tamporeira, di chiare origini nippoportoghesi, quando aprì la porta del suo appartamento, lo fece con la flebo catodica ancora attaccata alla
cornea e quando azzardò un sorriso in segno di saluto, ne uscì una smorfia incomprensibile.
I suoi due nuovi amichetti erano puntualissimi. E entrando nessuno dei due si accorse che il colore degli
occhi di Tamporeira era uguale al colore di un canale
televisivo non sintonizzato.
Nanà e Tizi non persero tempo e si precipitarono in
tutta fretta nella stanza di connessione, che Yanes
Takeide Tamporeira gli aveva messo a disposizione per
superare il record de: ‘La Grande Caccia’.
I due marmocchi s’infilarono subito i connettori delle
tute e nel giro di pochi istanti furono pronti.
Tamporeira, prima di togliersi la flebo catodica che
connetteva il suo corpo ad un decoder digitale, si puntò un telecomando sulla tempia e il led luminoso in
mezzo alla fronte, da blu si tinse di rosso. Poi con lo
stesso telecomando universale chiuse ermeticamente
la porta della stanza dove tra pochi istanti sarebbe iniziato il game.
L’espressione che scolpiva il volto di Tamporeira non
lasciava intendere niente di positivo per i due ragazzi.
Prima di collegarsi con la telecamera per l’appuntamento, si accese una sventra-pleure carica di detersivo acido. Dalla bocca sdentata uscivano lingue di fumo
denso e verde che profumavano l’ambiente di shampoo.
Quando lo schermo del suo video si colmò con una
faccia super nutrita, da occidentale flaccido e vizioso,
capì che il suo cliente era uno puntuale, nonostante
l’apparenza.
- Voi svizzeri siete tutti così precisi e puntuali?
- Buongiorno anche a lei Signor Tamporeira. Vorrei
che la mia puntualità sia proporzionale al vostro materiale: Preciso alla richiesta.
- Vi ho mai deluso?
Con un dito schiacciò il bottone che tolse momentaneamente l’audio.
- Gran pezzo di merda!
Nanà era pronto, bastava solo attendere il countdown.
- Chi hai scelto questa volta?
L’amico si limito a ruggire in maniera plateale, così
da rendere palese la sua scelta: era il grande Leone
Bianco.
Per non essere da meno, Nanà si accaparrò il ruolo
di Pantera blu. La giungla virtuale era pronta per il loro
massacro.
Il record era di milletrecentosessantadue cacciatori
bianchi sbranati e settantanove mutilati in un solo safari. Ma questa volta dovevano batterlo.
I fari delle flying-jeep, nell’oscurità della notte, potevano sembrare occhi luminosi di un mostro che si aggirava nei meandri della foresta. Un serpente cigolante
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e rombante s’incuneava tra la fitta vegetazione, dove i
versi degli animali arrivavano a coprire i tonanti motori
diesel delle vetture accodate, che proseguivano il cammino in rigoroso ordine e lentamente. Se queste vetture non avessero avuto il Turbo-AeroWind sicuramente
non avrebbero potuto superare gli esili ponti e le strettoie sui precipizi, ma lo Svizzero sapeva il fatto suo.
Da oltre sette anni organizzava questi safari per i
signorotti delle grandi città, e tutto era studiato a puntino fin ai minimi particolari.
Questi viaggi erano pianificati in gran segreto. Luogo,
data e tutto il resto venivano comunicati qualche minuto prima della partenza. Cacciare animali era vietato,
ma lo Svizzero non organizzava questi safari per cacciare animali.
Uno o due incontri di caccia all’anno bastavano per
arricchirlo e pagare tangenti per tenersi lontano le indagini annacquate di una polizia corrotta.
Il prezzo di queste escursioni era elevatissimo visto
la posta in gioco e la difficile reperibilità della ‘selvaggina’.
Solitamente queste orde di ricchi signorotti si presentavano all’appuntamento già sbronzi. La caccia
appariva più divertente e meno traumatica con qualche
litro di nitro-soda in corpo. Ma questa comitiva sembrava scolpita nel ghiaccio. Tutti composti e ben in
arnese. Solo uno, il più anziano, ma con un fisico atletico, aveva nello sguardo una fiammella di pura ira. Una
fiammella presa in prestito direttamente dal fuoco dell’inferno.
Lo Svizzero, che poi tanto svizzero non era, infatti
era nato in Italia e precisamente a Portici, guidava in
testa la carovana. Con lui c’era quest’uomo dall’aria
trucida ma riservata che non disgiungeva una parola.
In due ore di buche, fango, frustate di rami spinosi e
insetti di ogni tipo, lo Svizzero poté farsi un’idea su
chi fosse quell’uomo. Solitamente gli bastava meno
tempo per penetrare le persone, ma questo soggetto
era ermetico.
Non riusciva a non guardare, con la coda dell’occhio,
le numerose abrasioni che il suo cliente aveva su tutta
la pelle del corpo che continuava a trasformarsi istante
dopo istante sotto i suoi occhi.
Erano tutte cicatrici in movimento, che riaffioravano
con il tempo.
Vedete questo braccio?
Esordi di punto in bianco lo Svizzero, come per iniziare un lungo discorso che l’avrebbe portato dritto diritto dove iniziava la sua curiosità.
- Quello che vedete sul mio corpo è opera dei vostri
stramaledetti ospedali africani.
Intervenne diretto l’uomo.
- Se il trapianto epidermico l’avessi fatto a Rhoma,
tutto quello che voi state fissando da troppo tempo,
non l’avreste nemmeno immaginato.
Lo Svizzero si sentì spogliato davanti a quest’uomo
che
aveva intuito e risposto alla sua domanda ancor prima
di avergliela formulata. Sforzandosi di sembrare disinvolto aumentò l’aria condizionata, facendosi arrivare il
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getto proprio in faccia, nella speranza che il fresco gli
cancellasse dal volto quell’espressione d’imbarazzo.
- Siete italiano anche voi?
- No !
- Però conoscete Rhoma?
- Ci lavoro…
Lo svizzero fece una piccola addizione mentale, e
superato l’impatto emotivo, gli attaccò la sua etichetta
di
classificazione:
‘granbastardomilitareassetatodivendettaconvocazionereligiosa’.
Fu come uscire da una grotta e trovarsi a cielo aperto. Davanti a loro, usciti dalla vegetazione, si presentò
un’enorme conca contornata da basse montagne. In
mezzo spiccava un contenitore metallico grosso quanto
un rimorchio di camion.
L’espressione dell’uomo accanto allo Svizzero cambiò e la tensione che si era creata tra i due svanì, per
lasciare sui loro volti un velo tinto di smania e bramosia: da lì a poco si sarebbe aperta la caccia e tutti
avrebbero potuto dare sfogo al proprio istinto.
Sicuramente gli uomini che uscirono dalle Fyingjeep non avevano la stessa espressione dell’uomo che
sembrava essere il loro capo.
Erano estranei a tutto quello che stava succedendo,
era puro lavoro, e parevano semplici mercenari a cui
era stata richiesta una prestazione particolare, e dalla
loro flemma s’intuiva che non erano neanche stati pagati a dovere.
- Van kerkoff, ma che cazzo ci facciamo qua?
- Ma vuoi piantarla! Parla piano imbecille di un tulipano albino, vuoi farti sentire dal generale. gala
- Si! Forse si! Non m’interessa ne la misera ricompensa in moneta ne entrare al Gala degli ufficiali, se
non so contro chi devo puntare il mio straccia-vite.
- Non mi dire che inizi a cagarti sotto, sei diventato
un coniglietto impaurito, eh? Vuoi che ti rassicuri con
delle coccole?
- Fottiti Van kerkoff! Lo so che a te non interessano
quei quattro spiccioli che ci hanno promesso, a te interessa il Gala. Il signorino vuole entrare a far parte
dell’elite degli ufficiali, non è vero?
- E anche se fosse? A me sembra una giusta ricompensa per sparare quattro colpi a qualche animaletto
con artigli e zanne.
L’uomo con la pelle che cambiava aspetto come fosse attraversato da piccole onde, si accorse del battibecco dei due ragazzi, e anche se non intuì l’argomento ordinò ad un terzo uomo d’intervenire e di farli
cessare.
Bastarono pochi istanti per essere pronti, erano già
in assetto di guerra.
Lo Svizzero radunò a sé tutto il gruppo per dettare le
ultime regole. Ma finito il discorso si accorse che l’uomo che aveva condotto nella flying-jeep li radunò di
nuovo.
- Io manterrò la mia promessa. L’unica cosa che vi
chiedo è di lasciare a me l’onore. Dovrete solo accerchiare e rendermi il compito più facile. Per il migliore di
voi ci sono premi aggiuntivi. Avete capito bene?
Dal gruppo si elevò un grido di battaglia: ‘’ Nella cro-
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ce e per la croce!!”
- No no, ragazzi… questa volta non c’entra niente
la Croce! E’ una cosa mia, personale, è per questo
che nessuno di voi dovrà farne voce con alcuno. E’
tutto a posto, avete capito bene?
Dal gruppo questa volta si levarono degli assensi più
blandi e meno convinti.
Lo svizzero buttò l’occhio al timer. In un’ora dovevano
finire tutto. Controllò l’assetto dei guerrieri nella conca
e diede lo start.
Nella visiera coprente del casco, in dotazione per la
caccia, comparve a tutti simultaneamente il tracciato
luminoso del software che aiutava nelle tattiche. Tutto
era iniziato, non rimaneva che aprire il container metallico e far uscire le prede.
Nanà e Tizi non si accorsero delle ore che passarono, i bonus che Tamporeira aveva innestato nel gioco,
aveva prolungato i tempi del game. Tempi che erano
serviti a Tamporeira per raggiungere il luogo stabilito
con lo Svizzero e lasciare la merce.
Lo svizzero digitò il codice e il container si aprì. Le
pareti metalliche della stanza dove i bambini giocavano caddero a terra pesantemente, sollevando nuvole di
polvere invisibili nella notte se non fossero state illuminate dai fari delle vetture.
Il team al seguito dell’uomo dalla pelle mutevole vide
solo due ombre che schizzarono fulminee al riparo.
Ma lo Svizzero ebbe tutto il tempo d’intuire che le due
ombre, nonostante le tute e i cavi di connessione che
li ricoprivano quasi totalmente, erano due ragazzini e
non una donna di colore, come aveva richiesto il suo
cliente. Capì subito che il rischio che stava correndo
era grave. Doveva solo scappare, prima che il suo cliente si accorgesse dell’inganno che lui gli aveva tratto
suo malgrado.
Nessuno dei guerrieri intenti a cacciare si accorse
della flying-jeep che con una manovra frettolosa, aveva
lasciato la conca in tutta fretta.
Van kerkoff sembrava si fosse incarnato nel Dio della
guerra; pareva spinto da una forza sovrumana, e mentre gli altri arrancavano dietro a fatica, lui e il suo generale si mimetizzavano fra i cespugli con velocità felina.
Nanà, nella sua folle corsa, si accorse che il campo
di gioco si era trasformato. Gli alberi, le rocce, i cespugli e persino gli altri animali che facevano da contorno erano diversi. Ruggì in maniera arrogante e richiamò a sé la pantera: il suo amico Tizi.
Non si capì da dove sbucarono fuori, ma davanti a
loro comparve un nuovo gruppo di cacciatori, questa
volta più attrezzati e più incattiviti. Il pensiero per tutti
e due i ragazzini fu il medesimo. Sicuramente si trovavano ad un livello di gioco molto alto, e andando avanti
avrebbero trovato ostacoli e regole più malagevoli.
Nonostante la stanchezza, riuscirono a sfuggire e a
dividersi in due direzioni diverse: non conveniva attaccare alla ceca. Bisognava studiare il nemico.
Dal gruppo che seguiva il capo e Van kerkoff , si staccò il cacciatore meno motivato. Nel litigio avuto qualche minuto prima con il suo compagno c’era stata una
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sorta di premonizione. Qualcosa che lo teneva distante da quello che stava accadendo.
Cosa stavano cacciando?
Che pagliacciata aveva orchestrato il tanto famigerato generale Art Van Noveau?
A quale scopo?
Questi quesiti lo stavano facendo impazzire. Si sentì soffocare e si tolse il casco gettandolo con foga verso un cespuglio. Poi si rannicchiò a terra con l’intenzione di non muoversi fino a fine battuta di caccia, ma
si accorse di essere seduto sulla mano inguantata di
un bambino.
Il cuore gli scoppiò in gola quando si accorse che il
ragazzino era svenuto e con tutta probabilità lo aveva
colpito alla testa gettando il casco.
Non riusciva a crederci: stavano dando la caccia a
ragazzetti di colore.
Dall’altra parte della conca erano riusciti ad accerchiare l’altra preda. Van kerkoff si era distinto per aver
attuato una tattica vincente. L’aveva costretto a rifugiarsi in una zona semichiusa, occupando l’unica via
d’uscita.
La preda era in trappola e quando lo comunicò via
radio al suo generale già sentiva aria di promozione.
Art Van Noveau arrivò come un fulmine alle sue spalle. E senza degnarlo di uno sguardo complice in segno di ringraziamento, si accanì alla ceca sulla preda
tremante e seminascosta dal buio.
Nanà pensò di essere arrivato ad un buon punteggio
e anche se il game fosse finito adesso, avrebbero battuto sicuramente il record precedente. Allora sopraffatto dalla stanchezza, decise di non lottare con l’ultimo
cacciatore che gli stava andando incontro con intenzioni malvagie.
Il cacciatore non prese neanche la mira tanto si trovò vicino alla preda. Uno, due, tre caricatori interi furono spolpati dalla canna-sotterratrice affamata e fumante
che il generale imbracciava saldamente.
Il corpo del povero Nanà giaceva inerte sotto i piedi
del generale, il quale quando si rese conto che non si
trattava di una donna Techno-Zulu, come lui aveva richiesto, forse per avere un assaggio della vendetta che
avrebbe sicuramente portato a termine col tempo, la
sua furia non ebbe paragoni.
I suoi soldati si radunarono intorno sconcertati dell’accaduto e alla vista del loro generale, che aveva la
pelle del viso pervasa da onde che gliela storpiavano e
laceravano, capirono di essere stati imbrogliati. Corsero in direzione delle vetture in cerca dello Svizzero,
ma trovarono solo il soldato che si era estraniato dalla
caccia mentre reggeva il bambino in braccio.
Il generale gli si parò contro e non fece caso all’espressione del soldato che sembrava in preda allo shock.
Con uno strattone afferrò il ragazzo che giaceva ancora svenuto, e bruscamente lo fece cadere a terra. Poi
lo crivellò con gli ultimi colpi che gli erano rimasti in
canna.
Anche i più agguerriti, con in testa Van Kerkoff, rimasero impietriti di fronte a tanta cattiveria, ma quello
che videro quella sera rimase sigillato in una tomba. Il
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segreto fu custodito nei loro cuori, e i loro cuori furono
ricompensati.
Trascorsero alcuni giorni nel calore appiccicoso che
l’asfalto africano rilasciava con tanta generosità.
Le grandi città erano avvolte da una cupola gassosa
di smog e scarichi di ogni genere e il lezzo nauseabondo che gli animali urbani trasudavano rendeva l’aria
irrespirabile.
Van Kerkoff, avvolto nella sua divisa da gala sembrava finto. Infatti la perfezione dei particolari lo rendeva
quasi innaturale. Ma all’occhio vigile del generale non
ne sarebbe sfuggito neanche uno e tutto avrebbe influito ad accrescere la sua posizione. Il Gala degli ufficiali si sarebbe svolto nei giorni a seguire, ma il generale
Van Noveau aveva deciso di convocare il gruppo che lo
aveva seguito nel ‘safari’ per regalare loro una festa
ulteriore.
I ragazzi sembravano impazienti e nervosi. Nonostante
la temperatura tenuta molto bassa dai turbo condizionatori, alcuni di loro sudavano, soffocati nelle divise
accollate. Van Kerkoff si limitava ad alzare un sopracciglio e sorseggiando dalla sua coppa di vino pregiato;
contemplava gli altri compagni ostentando una sicurezza e un distacco che lo elevavano ad un livello più
alto.
Il suo sguardo si soffermò su Ghanfe, il suo compagno di stanza. Si era accorto che dal safari ne era
uscito male. Quello che era successo lo aveva danneggiato psicologicamente, e non aveva esitato nel riferirlo al generale. La divisa che indossava il compagno era identica alle altre, ma la barba di due giorni, il
colletto slacciato e i capelli tenuti in avanti disordinatamente gli davano l’aria di uno zerbino calpestato.
Van Kerkoff gli si avvicinò e gli offrì da fumare, ma il
ragazzo non reagì, la sua mente era persa in un oblio
oscuro e gli occhi fissi nel vuoto erano il ritratto della
sua condizione.
Van Kerkoff tornò a guardare dall’immensa vetrata del
grattacielo disgustato e deluso da quel comportamento che non riusciva a comprendere.
Quando finalmente entrò nel salone il generale Art
Van Noveau, gli altoparlanti, che fino a quel momento
avevano incessantemente trasmesso musica elettroclassica, si zittirono, e lasciarono in primo piano il rumore dei suoi tacchi.
Lo schieramento dei soldati era impeccabile e anche Ghanfe sembrava essere rientrato nei ranghi. Tutti
davanti al piccolo podio della sala convegno del
settecentoventitreesimo piano di uno dei grattacieli più
antichi di Mombaza12.
Il generale era reduce da una riunione con i vertici del
vaticano e dall’aria che il suo volto trapelava, tutto doveva essere filato per il verso giusto. Si avvicinò al leggio e guardò in faccia tutti e ventisette i militari con il
petto gonfio d’aria e di orgoglio.
Lo strano sorriso del generale aveva messo un po’ a
disagio i ragazzi. Allora, con un gesto rapido, allontanò il microfono del leggio e si slacciò il colletto della
divisa. Poi, sotto lo sguardo perplesso di Van Kerkoff,
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si accomodò sugli scalini che dividevano il podio dal
resto del salone e invitò tutti a fare lo stesso.
La tensione si sgretolò in un istante, mentre l’ultimo
a sedersi fu Van Kerkoff, preoccupato di sgualcire la
sua divisa e deluso da quest’aria confidenziale che non
gli apparteneva. Aprì le braccia e le tenne così per qualche secondo, come volesse abbracciarli paternamente prima di iniziare il discorso.
- Miei ‘invincibili Pretoriani’ - nell’introduzione s’intuì
la chiara ispirazione romana, - tra qualche istante faremo festa e baldoria, forse fino al giorno del Gala, ma
prima devo riferirvi, con onore e orgoglio, l’esito della
riunione da cui mi sono congedato poco fa.
Nei ragazzi regnava una sensazione strana, come
se dovessero prendere una medicina amara e poi lo
zucchero.
- Non starò a dirvi chi c’era alla riunione, potete
immaginarlo… Bene, vengo subito al dunque. Come
sapete, il motivo della nostra visita in questo paese
non è mai stato chiaro a nessuno. Ebbene è arrivato il
momento di riferirvi la consegna che arriva proprio da
Rhoma. Il primo contingente è stato, come sapete tutti, vittima di un feroce attentato, giusto otto mesi fa,
armi e risorse militari sono andate perdute per sempre… L’unico ad essere sopravvissuto sono io…
I soldati istintivamente applaudirono con foga e
inneggiarono cori a favore del generale.
- Grazie miei prodi, ora vi illustrerò i punti principali del
programma. Punto numero uno: noi siamo qui in gran
segreto e nessuno rivelerà la propria appartenenza alle
guardie del Vaticano; per ognuno di voi è pronto un
appartamento e un’identità falsa. Punto numero due: il
nostro compito è quello di dare la caccia a tutti i ribelli
e terroristi che si oppongono al cammino del progresso e quindi della futura crociata di Papa Sigfrisio.
Al pronunciare di questo nome tutti si fecero la croce
e chinarono il capo.
- Punto numero tre: ogni mezzo è lecito per il nostro
scopo. E chiaramente come ultimo punto, quello che
vi tocca più da vicino, oltre alla vostra ricompensa in
crediti monetari, ci sarà la qualifica di ‘Grandi Ufficiali
del Vaticano’.
I soldati tronfi e soddisfatti del discorso del generale
non fecero caso al braciere che si trovava poco distante. I tizzoni ardenti scoppiettavano intorno ad un ferro
rovente. Alla testa di questo ferro troneggiava un’aquila
stilizzata, la cui forma sarebbe stata impressa a fuoco
sulla pelle dei giovani soldati, dopo il giuramento solenne.
Tutti svennero dopo il tatuaggio e si risvegliarono ognuno nella propria abitazione.
Tutti tranne Ghanfe. Infatti il generale aveva deciso di
escluderlo dal progetto. Lo abbandonò in stato d’incoscienza in un angolo sperduto della provincia di
Mombaza12, convinto che il suo precario stato psichico
lo avrebbe reso pazzo di lì a poco.
di ghiaccio e di vento, senza risparmiare nessuno.
Nicolau e Danzek però sembravano immuni a tutto
questo. Avevano attraversato in groppa ai loro puledri
mannari gran parte della Russia per adempiere al compito.
Dovevano dissotterrare il santo Starec: Zdimitrij.
Le piccole ali da pipistrello che avevano entrambi sui
lati del collo non lasciavano dubbi: erano eletti della
setta.
Alcuni uccellacci neri e torvi incupivano il cielo già
livido: l’alba era arrivata facendo cigolare il coperchio
del baratro, dove aveva riposato per tutta la notte.
Nicolau arrestò il puledro strattonando le redini in dietro. Il suo intuito era giunto improvviso, come la pioggia che sarebbe caduta di lì a poco.
Aveva sentito che Zdimitrij si trovava in quel terreno
maledetto. Non sapevano di preciso dove gli uomini
dell’arcivescovo Rezelieu lo avevano ucciso e sotterrato, ma guidati dai sensori che il loro Starec gli aveva
insegnato a sviluppare erano sicuri di trovarlo.
Danzek si avvicinò a Nicolau, che ricurvo su una
pozzanghera, stava bevendo acqua infangata. Aveva il
viso sfregiato da innumerevoli solchi profondi, causati
da rami spinosi dei sentieri boscosi della terra dei dannati: la Siberia. Stranamente rivelavano una carne bianca e anemica, senza neanche una goccia di sangue.
Il lungo mantello lo avvolgeva fino alla punta degli stivali, accentuando la sagoma alta e sottile. Nicolau alzò
la testa in direzione del compagno. Il viso e i capelli
erano impiastricciati di terra bagnata e rendevano ancora più bianchi i tratti di pelle che rimanevano scoperti. Non ebbero bisogno di parlarsi, si compresero alla
perfezione scambiandosi solo degli sguardi intensi.
Usciti dai sentieri principali, si erano ritrovati in una
zona disabitata, solo qualche rudere abbandonato s’intravedeva a parecchie centinaia di metri. Nonostante
la pioggia, densi banchi di nebbia sembravano non
volersi diradare, dando ancora più enfasi ai tratti mistici del luogo.
All’unisono, i due prescelti, presero a roteare su loro
stessi, invocando, con una lingua mista di antico russo e latino, nomi di dèi incomprensibili.
La macabra danza rituale durò per parecchie ore. E
i passi che compivano, disegnarono sul terreno fangoso dei tetri simboli satanici.
La notte tornò con passi da gigante a dipingere tutto
di nero. I versi degli animali notturni erano graffi di unghie sulla schiena: una perfetta colonna sonora.
Le sagome dei due eletti della setta, inginocchiati
nell’epicentro dell’energia che stava smovendo con piccole onde sismiche il terreno, erano contornati da una
smunta luna, che sembrava strangolata dalle caliginose
mani rinsecchite dell’ oscurità.
La tetra pioggia che non aveva cessato un attimo di
scendere, aveva irrigato i solchi dei disegni sul terreno. E anziché cancellarli, complice una geometria satanica, li aveva resi ancora più visibili. Ora i due uomini
Capitolo tredicesimo: ZDimitrij: Starec immortale non dovevano far altro che attendere…
L’energia dei loro corpi sembrò implodere, un etereo
La notte siberiana sferrava i suoi colpi con gelide lame campanile stava facendo risuonare delle campane,
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udibili solo nella loro testa: l’ora era giunta.
Dal terreno molle e acquitrinoso sbucò una mano
tremante.
Alcune dita sembravano girate in maniera anomala,
sicuramente erano rotte. A poco più di un metro comparve l’altra mano. Dalla pelle bucata del polso, sbucava un osso.
Nicolau e Danzec ripresero il rituale.
L’acqua del terreno fu risucchiata da una fenditura
che si allargò tra le due mani che sembravano due
radici nodose.
Dalla terra uscirono delle lingue bollenti di vapore e
tra questi fumi comparve il corpo di Zdimitrij.
Era completamente avvolto da enormi vermi che sembravano uscirgli dappertutto. I lunghi capelli corvini incorniciavano un viso scheletrico. Dalle zolle di fango
attaccate sulla pelle sbucavano organi mummificati.
E nonostante apparisse senza vita, questa carcassa
inumana si stava movendo.
Questo fiore del male sbucò dal terreno come una
pianta selvatica che nasce in posti impensabili. Alcuni
fulmini caddero a poche decine di metri, illuminando a
giorno questa macabra resurrezione. I due uomini si
avvicinarono al loro Starec, che in piedi, grazie alle
protesi metalliche conficcate nelle ossa delle gambe,
superava abbondantemente i tre metri.
Nicolau e Danzec conoscevano il loro sacrificio. E
ne erano fieri.
Si avvicinarono alle mani di Zdimitrij, affondando i
loro passi nel morbido e viscido tappeto di creature
bavose e fango bollente. Poi divaricarono a dismisura
le bocche in corrispondenza delle mani del santo
Starec. Le mandibole dilatate tendevano la pelle
rinsecchita delle facce e le labbra si lacerarono lentamente.
Zdimitrij si muoveva ma ancora senza vita. Infilò le
mani nelle fauci dei suoi due discepoli, che assunsero
l’aspetto di due pesci mostruosi degli abissi. Il rumore
sordo della carne e degli organi maciullati dalle mani
di Zdimitrij si confondeva con i suoni gutturali che i due
uomini emettevano come cantilene.
Il santo Starec ZDimitrij le estrasse. I due uomini caddero a terra senza vita mentre lui stringeva i loro cuori
ancora pulsanti.
Se ne nutrì con gestualità e voracità animale. La vita
era tornata. Cadde sulle ginocchia, e mentre il suo
corpo mutava riplasmandosi da solo, alzò le braccia al
cielo ed implose un urlo nella gola.
Gli occhi si accesero tra le palpebre livide. Uno era
completamente bianco e l’altro aveva la pupilla rossa,
come un vetro in fiamme.
Il fango e la pioggia stavano facendo scomparire i
corpi inermi di Nicolau e Danzek, ricoprendoli con un
manto disgustoso, mentre ZDimitrij, stremato e
scioccato dallo sforzo per ritornare in vita, seguiva i
due puledri mannari che lo stavano guidando dalla sua
gente.
Capitolo quattordicesimo: Epitaffio 2
E se urlassi? Chi potrebbe sentirmi?
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Ma per urlare ci vuole una bocca. Io non ce l’ho più
una bocca. Quello che ho, quello che mi è rimasto…
solo pezzi di carne putrefatta attaccati a della ferraglia
e una coscienza impropria. Né macchina né essenza,
né uomo… ma galleggio nel buio con questi bagagli
che mi sono portato dalla terra.
Naufrago.
Naufrago dentro me.
Senza respiro.
E senza un perché…
Capitolo quindicesimo: Blind-Train-Suicide
Quando Wlazesku ripartì, lo vidi allontanarsi con lentezza tra le nubi nerastre che avvolgevano Bucarest,
con il suo aerotaxi incrostato di sedimenti urbani.
Gli avevo chiesto di accompagnarmi sul Vlad-empire e di non aspettarmi.
Era la prima volta che vedevo quell’espressione sul
suo volto. Mi sembrava demotivato e privo di energie.
Forse non gli bastavano più i soldi che gli davo o forse
erano i suoi circuiti a micro-pannelli-solari che erano
scarichi.
Scarico, spento, buio, ghiacciato, come tutta la città.
Le Lucertole Grigie avevano colpito ancora. Il virus si
era propagato in tutti i siti vitali. I satelliti, che solitamente illuminavano e scaldavano, erano
irrimediabilmente spenti. Tutti i velivoli che assorbivano l’energia da loro erano in letargo. Abbandonati per
le strade e sui punti di aero-stazione situati sugli edifici più altri. Altri, erano rimasti incastrati sui tetti, e
quelli più sfortunati, rimasti a secco durante il volo e
precipitati a picco, li trovavi schiantati e accartocciati
sulle pareti dei grattacieli.
In ogni angolo i mega-screen, che solitamente mandavano la pubblicità, erano spenti, e ogni tanto, dopo
una scarica agghiacciante, trasmettevano a rete unificata i messaggi delle Lucertole Grigie.
Erano una sorta di indovinelli apparentemente senza senso, a cui la gente, che nel giro di qualche mese
era fisicamente e psicologicamente devoluta in uno
stato aberrante, non faceva neanche più caso.
Era dai tempi di Caffa che non vedevo tanta disperazione sui bordi delle strade, tanta impotenza davanti
ad un cataclisma di queste proporzioni. Indubbiamente la maggior parte delle persone meritava questa punizione, ma tra loro c’era chi non lo meritava affatto.
Tirai su il bavero e strinsi le braccia per sentire il calore della pelliccia sintetica. Non riuscivo a tenere gli
occhi aperti: il vento tagliava come una ghigliottina. A
stento camminavo senza sbandare tra i gargoyles del
Vlad, sospeso a novecento e passa metri dalla crosta
del primo livello.
Mi arrampicai su un’impalcatura arrugginita che reggeva tre paraboliche enormi fuori uso. Mi aggrappai sul
bordo e mi lasciai scivolare fino al centro di quella che
sembrava la più disastrata. Frenai a fatica sulle lastre
di ghiaccio e poi mi misi a perlustrare il cielo, dove
l’infinito mantello nero avvolgeva tutto.
Il mio satellite? oscurato anch’esso.
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Rimasi con il naso all’insù per parecchio tempo, poi
decisi che l’involucro di carne che stavo occupando
doveva entrare in letargo: per sempre.
Rimasi sdraiato e immobile per trentasette ore. Il
ghiaccio iniziava a ricoprirmi come un bozzolo di cristallo e allo scadere della trentottesima ora, i miei processi umani cessarono di esistere.
Un fremito incandescente sciolse le enormi lastre di
ghiaccio che ricoprivano la parabolica. Una gigantesca lingua di vapore s’innalzò per scomparire nei meandri delle tenebre sovrastanti e un’esile lucina blu, fu
proiettata dal satellite redivivo, in una spirale digitale
trasparente.
Nel giro di una frazione di secondo, feci il giro del
mondo per ben mille volte. La sensazione di vertigine
ed euforia mi spingeva oltre le cascate e le curve dai
colori indescrivibili, per farmi ripiombare in precipizi
oscuri, e affogare in mari di dense luci fosforescenti.
La mia corsa poteva essere eterna nei circuiti della
rete, ma decisi di fermarmi tra una scintillante e soffice neve argentea ed un mare di cilindri acquosi.
Stavo per adagiarmi in questo paradiso digitale, quando sentii una forza brutale impossessarsi della mia
rotta e deviarmi in direzione di un oscuro nuvolone che
sfoggiava denti metallici, e non faceva intravedere niente
di confortevole: un virus.
E’ dura ammetterlo, ma in questo mondo virtuale,
anche un Messia può tramutarsi in un banale essere
vulnerabile.
La velocità era aumentata cento volte di più di quella
che avevo utilizzato sino a questo momento, e crebbi
di disintegrarmi da un momento all’altro. L’inferno doveva essere parente stretto di questo luogo: il niente,
solo dolore... acuto, lancinante e devastante. Perdere
qualsiasi collegamento e non esistere più era la mia
condizione...
Sino alla spinta finale, che mi disgregò dalla mia consistenza.
Mi ritrovai su una superficie nera e lucida.
Busla si strappò gli occhialoni digitali dalla faccia e
cadde a terra in uno stato comatoso. Twyc si alzò a
fatica dalla sedia, e guardando con disprezzo l’amico
sbiascicò una frase in un dialetto rumeno, la cui traduzione doveva suonare pressappoco così: - Sterco pianeta!!! detto io-tu no respirare detersivo ammonicoso
prima di-del collegamento... fare dannaggio e’corcia
esistola vitae... - Un rivolo di bava gli colava dal labbro
inferiore, che sporgeva da un muso a forma di cammello. Gli occhi erano due punti gialli inseriti in altri
cerchi rossi dai contorni violacei.
Ma quando vide il detersivo sul tavolo, capì che l’amico non ne aveva fatto uso.
La puzza che inondava la stanza, pari solo a quello
delle concerie del medioevo, non scalfiva affatto le narici corrose dei due hacker: il detersivo aveva fatto il
suo percorso abrasivo di sola andata.
Twyc inciampò tre volte in due metri di percorso, ma
non perché era fatto, no: perché gli innumerevoli cavi e
apparecchiature impedivano il passaggio.
Su pavimenti, soffitti, pareti e quant’altro, regnavano
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incontrastati computer dalle forme più svariate, e i due
amici sembravano gli unici due esseri, diciamo umani,
a non soffrire del caos che impazzava all’esterno.
Che fosse tutta opera loro? E a che scopo?
Tutto questo lo scoprirete quando il ciuff ciuff non arriverà.
Una tremenda scossa sonora destò, per un attimo,
l’attenzione delle persone che si trovavano in strada.
Un enorme lucertola grigia apparve simultaneamente
in ogni angolo della città dove era posizionato un monitor, o un mega-screen.
Quell’enorme lucertola terrorizzò i timpani di chiunque si trovasse nel raggio di parecchi chilometri, con
una stridula intonazione funambolica. Era uno dei soliti messaggi senza apparente logica, e tutte le strade
furono inquinate da quella frase.
Busla sembrava non respirare e Twyc dopo essersi
strofinato gli occhi energicamente, si precipitò a soccorrerlo. Gli sollevò la testa e lo schiaffeggiò. Una schiuma bavosa, giallastra e appiccicosa, gli imbrattava gli
angoli della bocca e delle palpebre. Era completamente in catalessi e Twyc iniziava a piangerlo morto. Lo
strinse a se come un fratello, e dondolando dolorosamente, straziò il silenzio e il ronzio dei computer con
le sue urla sconnesse.
Quando tutto sembrava volgere ad un epilogo funebre, il corpo di Busla prese a tremare convulsamente.
Le braccia di Twyc vennero spinte all’indietro e Busla
iniziò a volteggiare nel vuoto. Twyc si portò le braccia
sul viso, ma la luce che fuoriusciva dal corpo dell’amico era accecante. Dalle orbite slabbrate a dismisura,
dalle unghie, dalla bocca divaricata come avesse le
mascelle slogate, uscivano fasci di luce di potenza
atomica, come se dentro quel corpo fossero esplosi
miliardi di fulmini. Le urla di Twyc arrivarono al cielo e
stringendosi le mani sugli occhi, cercò di allontanarsi
dalla stanza. Le gambe non ressero il peso del corpo
e non vedendo nulla, andò a cozzare violentemente su
una parete, lacerandosi la pelle della fronte. Cadde per
terra in un lago di sangue, e aprì gli occhi solo quindici
ore dopo.
- Twyc, hei Twycchi! Rispondimi rospo peloso!!! - Twyc
aprì gli occhi, lentamente, e Busla costatò che le pupille dell’amico erano lacerate irrimediabilmente. Twyc
riconobbe la voce del compagno e tentò di parlare, ma
senza riuscirci. Busla prese una bottiglia splash-luppolo-splash e gli inumidì la bocca. Pareva quella di un
legionario perduto nel deserto. Le labbra gonfie, avevano grosse lacerazioni che sembravano già infette, e la
pelle, dopo aver assorbito le radiazioni di quella luce,
sembrava arrostita sul fuoco.
Busla invece, non si era mai sentito meglio. Aveva la
pelle lucida e liscia, cosa che non gli capitava da anni.
Ma aveva l’espressione di un cucciolo di giraffa appena partorito: quando cade da due metri d’altezza e deve
imparare immediatamente a correre se vuole rimanere
vivo.
Si avvicinò ad uno schermo di un monitor spento, e si
guardò, riflesso, come fosse la prima volta.
... La scelta non è stata delle più felici. Ma d’altra
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parte non avevo scampo... Correre nella rete è come
rinascere e rimanere neonati e vulnerabili... e quando
ho visto quel virus che cercava di mordere, la prima via
di fuga l’ho presa al volo.
Gli occhi dell’hacker, collegati in rete attraverso gli
occhiali 3d, erano stati un rifugio per il Messia, costretto a fuggire da un virus letale che lo inseguiva. Ma
era veramente riuscito a sfuggirgli? Cosa si celava dietro questo apparente benessere. Il Messia, nonostante la forma fisica strepitosa del suo nuovo corpo, era in
uno stato di disagio. Le energie della sua essenza luminosa sembravano essere sparite. Tanto che Busla,
a parte ‘l’ingresso luminoso’ del Messia, del quale
non si ricordava assolutamente niente, non sentiva
nessuna presenza estranea nel suo corpo e non poteva neanche immaginare quello che, suo malgrado, stava
per accadergli.
Buttò un’occhiata frettolosa all’amico disteso sulla
stuoia, e capì la grave condizione in cui si trovava. Si
avvicinò, e nonostante le gravi lesioni che aveva nell’apparato olfattivo, riuscì a sentire il lezzo di carne
incenerita. L’aveva trovato in quello stato dopo il suo
risveglio, e non riusciva a darsi pace perché non capiva come e soprattutto chi, lo avesse ridotto in quelle
condizioni. E poi questa sua amnesia? Non ricordava
assolutamente cosa fosse successo quel giorno, nonostante non avesse fatto uso di quelle sostanze che
Twyc gli aveva sconsigliato di prendere.
Ma cosa era accaduto?
Busla si abbandonò sulle ginocchia e si strinse le
mani sul viso, fino a percepire la forma del teschio, poi
la sua attenzione fu richiamata da uno scricchiolio poco
distante. Quando si girò, vide il braccio di Twyc che
cercava di alzarsi. Lo sgomento era solo pari alla sua
sorpresa. Quell’essere mummificato conteneva una
sottile linea vitale, e cercava, con sforzi inumani, di
comunicare. Busla, con le lacrime agli occhi, gli si
avvicinò e cercò di fermare quel fragile fervore che aveva attanagliato il braccio di Twyc. Lo afferrò con veemenza e lo strattonò verso il basso, ma il braccio si
spezzò e ne uscì una cenere grigia, che lasciava intendere in che condizioni si trovasse quell’essere.
Busla uscì dalla stanza con una smorfia, di dolore e
rabbia, che gli storpiò i lineamenti. Con gestualità navigata, schiacciò il pulsante che regnava sulla console
e una luce rossa contaminò tutto.
Le dita di Busla, sulle tastiere, sembravano vermi
impazziti che si dimenano in preda alle convulsioni.
Davanti a lui troneggiavano sette monitor che continuavano a far esplodere delle righe con numeri e messaggi, a velocità supersonica. Sembrava posseduto dai
demoni: Achab che fissa Moby Dick.
- Bastardi... maledetti bastardi!! - Inveiva contro quelle righe e sembrava riuscisse a leggerle tutte contemporaneamente.
- Prima che facciate a pezzi la città, vi farò impazzire
nell’inferno che vi sto creando!!!
Il Messia, che fino a quel momento, era rimasto in
uno stato di offuscamento, venne destato da queste
vibrazioni di pura cattiveria che invadevano lo spirito e
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la carne di Busla, e concentrò le poche forze che gli
rimanevano per capire cosa stava succedendo.
Busla e Twyc erano responsabili del black-out di
Bucarest e dintorni. Erano stati proprio loro a immettere il virus delle Lucertole Grigie nei centri vitali della
città.
Il Messia sembrò nutrirsi di tanta rabbia e riacquistò
le energie per fare il piano della situazione. Ma mentre
Busla stava per infierire di nuovo nella rete, immettendo
un’altra dose infernale di virus, il Messia tracollò. In un
istante, sentì svanire la sua essenza, e dare spazio al
dolore dei morsi di un’entità più forte.
Busla aveva dentro il Messia, e il Messia aveva dentro
il virus.
E se la sorte avesse giocato un brutto scherzo
all’hacker, e lo stesso virus introdotto da lui, adesso
era dentro il suo corpo?
Busla, madido di sudore, neanche sospettava lontanamente quello che stava per accadere. Continuò a
digitare come un folle sulle sue tastiere e ad inveire
contro gli uomini del governo, che per i loro interessi,
stavano mettendo in crisi tutta la popolazione; infatti,
tutto questo caos, era nato dalla notizia, trapelata furtivamente, che il governo aveva accettato di far arrivare
un blind-train-suicide, ovvero un treno carico di rifiuti
tossici. E quello che fece scattare la molla, fu che lo
smaltimento non era neanche previsto: in pratica il treno avrebbe stazionato all’aperto in una zona povera di
Bucarest. Da quel giorno i due hacker decisero di entrare in guerra. Il collasso del paese avrebbe senza
dubbio rinviato l’arrivo del treno suicida, anche se a
caro prezzo. Pagarono di tasca loro qualsiasi forma di
notizia utile per intaccare il sistema, e così tutti i satelliti, tutti i cervelli elettronici che programmavano la
vita quotidiana, dai trasporti a i mega-market, dai
theach-borg che insegnavano nelle scuole, vennero
irrimediabilmente contaminati.
Il Messia, nelle contorsioni del suo dolore, non riusciva a formulare una minima reazione... sino a quando non avvenne l’atroce epilogo.
Busla sentì dapprima la schiena lacerarsi in più punti, poi delle enormi spine verrucose uscirono fuori dagli
stessi pertugi insanguinati. Tutto il suo corpo stava
mutando in un essere mostruoso: un po’ rettile, un po’
insetto e ben poco di umano. Nel dolore e nella sofferenza, la metamorfosi del mostro si era completata, e
dalle fauci divaricate, il grido straziato di questo essere irrompeva scotendo le mura della casa. Un liquido
verde gli sgorgava dalle fauci e dalle narici, come avesse un’emorragia interna: qualcuno o qualcosa stava
lottando dall’interno la sua guerra personale. Il mostro
si accasciò e rigettò ancora i suoi fluidi sulle pareti e
sui pavimenti, fino a quando non venne colto da una
scarica convulsa. Un vortice di anguille elettriche, presero a formarsi da ogni aculeo della pelle dell’essere,
sino a formare dei cerchi sospesi nel vuoto, come a
volerlo difendere. Ma l’attacco arrivò da dentro. Il fascio di luce fu preceduto da un ronzio, che da sottile
divenne penetrante fino al limite della sopportazione. Il
mostro si inarcò in aria con il petto al soffitto e tenen-
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dosi con le zampe posteriori quelle che dovevano essere gli apparati auricolari, divaricò le fauci in un atto di
dolore estremo. Adesso era completamente sospeso
per aria e una saetta bluastra lo illuminò da dentro. Le
anguille elettriche, che vorticavano furiosamente, persero vita e caddero a terra come enormi vermi inermi e
bavosi, e il corpo del mostro prese a disgregarsi a brandelli grondanti di umori maleodoranti. L’energia implosa
dentro quell’essere, aveva avuto la meglio, e quando
ogni pezzo di carne fu dilaniato dalla luce accecante
che era rimasto il fulcro dell’azione, ne uscì il corpo di
Busla, un po’ affranto, ma sano e vittorioso.
Una leggera foschia aleggiava nell’appartamento, ridotto ad un orrido macello per esseri inumani. Il corpo
di Busla ormai era gestito completamente dal Messia,
che nonostante il virus che poteva colpire di nuovo,
sembrava in possesso di tutte le sue facoltà. Dopo
essersi seduto davanti alla consol di comando, lasciò
che il cervello e le mani di Busla ripresero il lavoro, e
con sua enorme meraviglia, si accorse di capire tutto
quello che fino ad un momento prima gli sembrava incomprensibile. Tutte quelle scritte, codici numerici e
impenetrabili geroglifici, che esplodevano in velocissime successioni davanti ai suoi occhi non furono più un
mistero. Anzi, riuscì ad accedere ai segreti più ermetici che avevano piegato la città. Tutto era chiaro, tutto
era limpido nella mente dell’hacker/Messia: ora poteva intervenire. Con pochi gesti, e con movimenti lenti
delle dita digitò delle password ed entrò, come in una
favola, in un mondo a lui sconosciuto. Di fronte gli si
aprì una ragnatela luminescente, che occupava contemporaneamente tutti i monitor. Era il programma di
attacco del virus. Si rese conto che la diramazione
era capillare; più di quello che poteva immaginare.
Dovevano essere passate parecchie ore, stando ai
dolori di schiena che accusava. Rimase piegato sulle
tastiere a digitare comandi di disattivazione per due
giorni ininterrottamente, nutrendosi solo artificialmente con il detersivo. Rimase con lo sguardo fisso e allucinato sul monitor, aspettando la risposta di un codice bloccato dal virus.
C’era una fila di coniglietti fucsia che ricopriva lo schermo. Ad uno ad uno cadevano sotto i pressanti colpi di
un martello gigante. Quando anche l’ultimo coniglio
cadde schiacciato, dall’altra parte della città, un piccolo ingranaggio di una rotaia, avvolto dalla ruggine e
dal ghiaccio si mosse: il virus, almeno qui era debellato.
Il ghiaccio si sciolse e il piccolo pezzo di metallo riuscì a compiere un giro intero su se stesso. Un faro si
accese e illuminò una densa foschia che si diradò per
lasciare scoperta la sagoma di un enorme locomotiva,
apparentemente abbandonata. L’aria vibrò e un rumore
sordo si dilatò lungo l’enorme serpente metallico destato dal suo letargo. Il Messia aveva iniziato l’operazione di bonifica, ma forse era partito dal punto sbagliato. Il Blind-Train-Suicide, dopo mesi d’immobilità,
nelle tenebre congelate di una orrorifica Budapest, riprese il suo cammino verso un immondo destino.
Il suono intermittente di un marchingegno destò Busla
dal sonno che lo aveva colto all’improvviso. C’era qual-
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cuno all’ingresso della casa-bunker-laboratorio. La
perplessità iniziale del Messia lasciò il posto alla
gestualità navigata del corpo di Busla. Le gambe e le
braccia si muovevano da sole, comandate da una corteccia celebrale superiore alla norma. Non perse tempo a chiedersi chi potesse essere alla porta; azionò lo
scanner e su uno dei quattro monitor, in fila sulla soglia di ingresso, comparve la sagoma di un uomo. Un
cerchio di luce verde, attraversò quella figura dalla testa ai piedi, e rivelò una serie di protesi illegali. Sul
secondo monitor comparve il resoconto delle armi in
dotazione. Sul terzo comparvero i dati in riferimento
alla salute e alle probabili malattie infettive: negativo; e
sul quarto comparve la foto con il riconoscimento della
macchina. All’apparizione di quella figura sul monitor,
il Messia venne colto da una violenta sorpresa che gli
mozzò il fiato. Anche se il nome ed altri dati non corrispondevano, l’uomo dietro la porta era Wlazesku. Ma
cosa c’entrava lui con gli hacker? Quale era il suo ruolo in tutta la faccenda? I dati anagrafici dicevano che
quest’uomo, deceduto nella guerra ungaro-nipponica
finita da tredici anni, per il suo valore dimostrato sul
campo, era stato ritenuto idoneo alla rigenerazione.
Poi fu utilizzato dai servizi segreti statali, ma con l’avvento della caduta del comu-socio-cubismo si trovò
senza lavoro e senza gloria. Iniziò così un’attività di
spionaggio privato.
La curiosità fu più forte del rancore. Sapeva che
Wlazesku aveva venduto, al miglior offerente, notizie
sul suo conto, e così si spiegò l’oscuramento del suo
satellite. Quello che non capiva, era il perché l’aveva
fatto? A quale scopo? Sicuramente aveva scambiato il
Messia per uno strano agente, magari arrivato da un
altro sistema, e aveva ritenuto opportuno cogliere l’occasione e farsi un gruzzoletto di crediti.
La massiccia porta d’entrata scivolò in una larga fessura all’interno del pavimento, e Wlazesku entrò e si
accomodò in una stanza spoglia di terminali. Sembrava avvezzo a quell’ambiente; doveva essere molto amico dei due hacker, o forse un collaboratore di vecchia
data. Sapeva dove trovarsi da bere e dove trovare l’angolo più comodo della poltrona. Non disse nulla fino a
che non stappò la bottiglia.
- Che diavolo ti è preso Busla, mi sembri strano..
Cosa hai da guardarmi con quella faccia?!
In effetti il Messia era rimasto impalato davanti a lui,
e lo fissava come un ebete.
- Scusami Wlaz... ehm! Pladarz - (questo era il nome
del riconoscimento), - è che non mi sento molto bene.
Wlazesku, insospettito dall’atteggiamento ambiguo
di Busla, iniziò a guardarsi intorno. Quando vide un
rivolo di liquido verde spuntare dalla soglia, si alzò e
con lo sguardo perplesso lo seguì. A passi piccoli e
lenti, si accorse di camminare sopra dei brandelli di
materia vegeto-carnosa, sparsi dappertutto. Impugnò
la sua tetra-grigia-tenebrosa a due colpi, e con scatti
secchi e veloci delle ginocchia, si voltò ad ogni angolo
della stanza. Il terrore aveva avuto il sopravvento sulla
sua lucidità mentale, e il suo passato da morto, riaffiorò
in un lampo, dipingendogli l’espressione di chi aveva
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già pregustato quel sapore e non desiderava gustarlo
di nuovo. Aveva smesso di respirare, i suoi polmoni
artificiali glielo permettevano. Ma la sua autonomia era
di sei minuti, e all’ottavo si accorse che era prossimo
allo svenimento. Da un brandello del mostro, attaccato sul soffitto, cadde una goccia verde che si andò a
posare sul suo naso. L’istinto azionò i tendini in fibra di
caucciù che a loro volta contrassero gli indici delle mani.
Due boati precedettero il frastuono della deflagrazione
sul soffitto. Una voragine si era aperta sopra di lui.
Nell’aria volteggiavano lingue di fumo, uscite dalla canna della tetra, mentre Wlazesku continuava a non respirare. Quando si voltò indietro per guardare Busla, al
suo posto ci trovò un essere mostruoso: il virus contratto dal Messia era ritornato. Dalle sue fauci aperte
ne uscì una lingua sottile come una frusta, che iniziò a
volteggiare nell’aria. Wlazesku, nonostante il tremolio
delle ginocchia, riuscì ad evitare i primi colpi, ma gli
altri andarono a segno tutti. Erano colpi micidiali, ma
non mortali: sicuramente il mostro-Messia-hacker aveva
in mente un’altra morte per questo Giuda traditore.
Wlazesku rotolava per terra, tra sangue e altro materiale organico, pur di evitare quelle maledizioni a forma
di frusta, ma le sue energie erano finite: la fine era
prossima. Il mostro gli si avvicinò, lento e pesante nei
passi. Wlazesku lo fissava come se implorasse il colpo finale che avrebbe messo fine a quella agonia atroce. L’abominevole, divaricò per l’ennesima volta le mascelle tornite di denti metallici, poi srotolò la lingua
verso l’alto, in un atto solenne, per far ricadere la punta
davanti al volto di Wlazesku. La paura dell’uomo sembrò svanire di colpo. Una forza ipnotica si impossessò
dei suoi arti, lacerati e sanguinanti, che si alzarono
per afferrare la lingua che volteggiava, macabra, davanti ai suoi occhi. Dopo averla afferrata, se la passò
intorno al collo in una sorta di cappio, e si adagiò rassegnato, sulla soglia del suo inferno. Il mostro, in un
gesto di stizza e orgoglio, con uno scatto veloce innalzò la lingua in aria, fin oltre il buco del soffitto. Quel
cielo livido che si intravedeva, era la giusta cornice per
l’impiccagione di un Giuda.
Quando il virus del Messia si dissipò, in un implosione
di luce atomica, la morte di Wlazesku era giunta lenta
e inesorabile. Il corpo di Busla sembrava in ottimo stato, e il Messia era riuscito per l’ennesima volta ad avere la meglio sul virus. Non c’era tempo da perdere:
bisognava rimettersi al lavoro.
Sette ore furono sufficienti per sciogliere l’enorme intrigo delle password e avere l’intera rete di disinnesco
a disposizione. Tutto era pronto per tornare alla normalità, bastava solo azionare i comandi. Il Messia si
sentiva quasi emozionato, gli sembrava finalmente di
aver fatto un buon lavoro e quando si avvicinò alle tastiere per iniziare la bonifica, sembrava avvolto da un’
aura celestiale.
- E... luce fu! - intonò con una timbrica di voce che
sembrava non uscire dalla bocca di Busla. L’indice
abbassò un tasto sulla tastiera e il cielo tornò ad essere illuminato da una luce artificiale. - ... E io vi ridarò
la vita.- Sulla città, stava per levarsi definitivamente il
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tenebroso sipario, quando l’attenzione del Messia fu
attratta da uno strano rumore. Uno struscio di passi
stanchi si stava avvicinando alle sue spalle. Si voltò
lentamente, senza alcuna emozione e quando vide che
Twyc si era alzato dal suo giaciglio, sorretto da chissà
quale forza, un sinistro sorriso gli storpiò le labbra.
Twyc si avvicinava sempre più minaccioso, quasi avesse capito che il suo piano stava per fallire. Il Messia, a
quel punto, socchiuse gli occhi in una sorta di concentrazione e innalzò le braccia al cielo, nel solito atto
solenne: e fu dal cielo che arrivò l’aiuto.
- Cenere sei e cenere tornerai!!!...
Dopo questa frase, pronunciata a pieni polmoni, la
finestra della stanza si spalancò all’improvviso, lasciando entrare la punta di un tornado. In un attimo, tutto
quello che si trovava all’interno, prese a roteare in un
vortice sempre più denso. Il corpo di Twyc, incenerito
quasi totalmente, si disgregò in polvere e si disperse
insieme ad altri oggetti che volteggiavano. Il Messia,
nonostante la forza devastante del tornado, sembrava
ben piantato a terra, proprio nel centro del vortice. Il
soffitto si scollò letteralmente dalla casa, e il cono,
tronfio di energia distruttiva, si ingrandì ancora di più. Il
Messia per un attimo sembrò cedere alla potenza che
gli vorticava intorno. A quel punto, lanciò delle urla al
cielo, forse preghiere, o forse solo imprecazioni. Forse, qualcuno ‘più in alto di lui’, volle punire l’atteggiamento da Creatore che aveva assunto mentre ridava
vita alla città.
Quando i suoi piedi si staccarono dal pavimento, il
tornado s’innalzò, volteggiò intorno ad alcuni grattacieli e poi scomparve dietro i satelliti.
Alcuni ragazzini, raccontarono ai loro genitori, di aver
visto un uomo cadere dal cielo, e finire in una cisterna
del treno abbandonato. E sotto i loro occhi si era trasformato in un mostro... ma nessuno li credette.
Capitolo sedicesimo: Il messaggero
Quelli che di giorno ne parlavano male e storcevano il
naso, di notte la osannavano.
Quella vecchia casa gotica, un po’ inusuale per
Rhoma, era lì dai tempi dei tempi. E quello che si faceva all’interno era risaputo da tutti.
Preti, politici, e gente comune, erano gli avventori di
sempre. Le prostitute avevano un ricambio settimanale. E quando arrivavano gli Avio-Pullman per portare il
cambio, era uno spettacolo guardare la fauna galattica
che ne scendeva.
Ce n’erano per tutti i gusti. Dalle colonie rhomane
dei pianeti più lontani scendevano femmine dalle caratteristiche più disparate.
Ma da qualche tempo, intorno a questa casa c’era
una strana aura. Le luci che di notte brillavano dalle
finestre, rimanevano spente e la gente che tentava di
entrare veniva rifiutata da strane donne che stazionavano sulla soglia. E stranamente, la casa non emanava più profumi dagli aromi zuccherini e dolciastri, come
una volta, ma un lezzo selvatico, come di suini.
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La cosa era arrivata alla polizia che aveva sguinzagliato alcuni reparti della Secretus-Mobilitante, dove
all’interno militavano doppiogiochisti e spie del Vaticano.
Antonio Messaggero, di nome e di fatto, infiltrato numero uno, era stato incaricato di raccogliere materiale
e informazioni.
Aveva preparato innumerevoli piani e tattiche per intrufolarsi nella casa, e quando si avvicinò al portone,
alla vista di quelle strane donne che presenziavano l’ingresso, come amazzoni dalla pelle livida e dall’odore
nauseabondo, nella sua testa svanirono tutti come
fumo di sigaretta. Ma la sorpresa fu che lo fecero entrare con strane reverenze: come se fosse atteso.
Mentre saliva la ripida scala a chiocciola che portava al piano superiore, aveva la netta sensazione di scendere verso il basso. E più saliva, più si sentiva all’inferno. A quel punto la sua mente si trovò alla deriva in un
oceano di smarrimento; fu come navigare in un mare
di vecchie bambole rotte che strillavano e piangevano.
Non ricordò più che cosa stava cercando. Quali erano
i suoi scopi e soprattutto chi era. Una forza superiore
si era impadronita della sua mente.
Si ritrovò in un luogo buio. Lontano vedeva due piccoli
faretti luminosi e allo stesso tempo spenti, uno bianco
e l’altro rosso, che si avvicinavano: lentamente…
Il cigolio di ferri che stridevano gli entrò nelle ossa. I
due faretti si facevano sempre più vicini, mentre il suo
corpo e la sua mente si paralizzavano.
Gli occhi di ZDimitrij adesso si trovarono a pochi centimetri da quelli di Antonio Messaggero. La spia del
vaticano fu penetrato nei meandri più nascosti della
sua psiche. L’occhio bianco lo fissava come per leggere l’anima, e quello rosso lo ipnotizzava, imprimendogli una volontà impropria. Ormai nulla poteva davanti a
quella forza superiore: era suo schiavo…
ZDimitrij si era segretamente trasferito a Rhoma.
Nessuno poteva immaginare che era ancora vivo,
resuscitato, e intendeva giocare questa carta per vendicarsi. E fu un gioco da ragazzi, per lui, iniziare alla
sua dottrina avariata l’intera casa di tolleranza. Sapeva che il Vaticano avrebbe mandato degli uomini per
indagare su quegli strani movimenti intorno alla casa
chiusa e lui non aveva fatto niente per evitarlo; anzi,
era la prima mossa della sua partita. Una tattica satanica degna di un campione di scacchi russo.
Nella sua veggenza, lo Starec aveva riconosciuto in
Antonio Messaggero un infiltrato, ancor prima che si
trovasse nelle vicinanze. Lo aveva annusato e
catalogato, e aveva deciso di usarlo per il suo scopo.
Tra gli occhi di ZDimitrij e quelli di Messaggero si era
creata un onda elettrica che illuminava la stanza di
una luce viola. In quel momento lo Starec ZDimitrij stava plasmando la mente della sua vittima come una
docile materia malleabile.
Messaggero divenne un involucro inumano, vuoto. E
fu annientato completamente. Assunse l’aspetto di un
pupazzo da ventriloquo, e da quel momento la sua voce
divenne quella di ZDimitrij.
Quando cadde a terra a quattro zampe, la sagoma di
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ZDimitrij, con le protesi metalliche nelle gambe, divenne ancora più imponente. Messaggero sembrava un
fedele cagnolino, tanto è vero che si mise a leccare le
giunture.
Lo Starec sembrò parecchio divertito da quella situazione. Le sue risate, dei suoni innaturali che uscivano
sgraziati dalla gola e dal petto, echeggiavano tra le
pareti di quel salone sotterraneo.
Un fedele aveva acceso le torce sparse abbondantemente per tutte la pareti, rivelando in totale l’ampiezza
del locale.
Lo Starec si accomodò stancamente ma soddisfatto
su di un scanno di marmo lapidare.
La luce vibrante delle torce illuminava le statue di
granito bruno che adornavano il salone, proiettando delle
strane ombre sui muri che sembravano vive.
Un singolare ruggito sfregiò l’aria stantia. Messaggero si girò di scatto rimanendo a quattro zampe e spalancando la bocca.
Due file di denti insanguinati e appuntiti gli sbucarono in pochi istanti affianco a quelli già esistenti. La sua
irruenza fu frenata da ZDimitrij, che lo bloccò dai capelli. Davanti a Messaggero, ormai diventato un fedele
dello Starec, si parava Hermann Dhobb, l’altrettanto
fedele dobermann mannaro di ZDimitrij.
Di certo non fu amore a prima vista tra i due, ma
bastò uno sguardo del loro padrone per renderli complici.
Hermann e Messaggero guaendo come se avessero
preso delle legnate, si affiancarono al trono di ZDimitrij,
ansimando e schiumando dalla bocca.
Un sibilo misto ad un rutto fuoriuscì dalle vie respiratorie di ZDimitrij, e fu come sentire un nastro mandato
al contrario. Ma per la donna che si trovava a pochi
metri fu un ordine ben preciso.
Con fare animalesco si precipitò in un angolo del salone, dove una porta di legno e borchie di ferro enormi,
nascondeva un’altra stanza.
Con sforzi sovrumani riuscì a spalancare questo portone, che agli occhi smarriti, preoccupati e inferociti,
di Messaggero e Hermann Dhobb, nascondeva l’ignoto.
In un attimo, il rumore rimbombante di una mandria
scalpitante si propagò nella casa.
A prima vista poteva sembrare un enorme animale
peloso, con mille zoccoli e denti aguzzi sparsi disordinatamente su tutto il corpo. Ma i grugniti che strillavano da quelle cavità contornate da peli scuri e spessi
non lasciarono dubbi: erano cinghiali.
Il gioco preferito dallo Starec poteva iniziare.
Bastò toccare le sue docili bestioline mannare per
scatenare l’inferno.
Hermann aveva azzannato un cinghiale ad una coscia, costringendolo a movimenti epilettici. Il povero
cinghiale sembrava aver capito che non avrebbe avuto
scampo e continuava a picchiare la testa violentemente sul pavimento: quasi volesse togliere al doberman il
piacere di ucciderlo, suicidandosi.
Messaggero aveva scoperto di avere delle unghie
molto affilate e potenti, e continuava a sferrare colpi
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alla ceca.
ZDimitrij però non sembrava soddisfatto, lo spettacolo non appagava le sue attese.
Con un verso atroce attirò l’attenzione delle due creature infernali, che si precipitarono ai suoi piedi. Bastò
concentrare un solo occhio per scatenare l’impossibile.
Messaggero e Hermann si rinvigorirono con una cattiveria inaudita.
Si avventarono sui cinghiali, che nel frattempo si erano radunati, impauriti e tremanti, in un angolo.
Messaggero si tuffò sull’intero branco e scomparve
tra loro. I cinghiali scapparono in preda al panico. Solo
uno rimase immobile: quello che Messaggero teneva
paralizzato, con le sue enormi fauci strette sotto la
gola. Gli occhi di Messaggero si gonfiarono dallo sforzo. Le vene sembravano voler uscire dalla pelle e con
uno strattone devastante staccò di netto la testa del
cinghiale.
Hermann aveva seguito la scena a pochi metri e per
non essere da meno si avventò sulle prede con la stessa
intenzione.
Non si poteva definire un sorriso ma la maschera del
viso di ZDimitrij si stropicciò sulle guance scarnite,
come un vecchio vestito. Frustate di sangue arrivavano sul suo volto tingendolo di rosso porpora e sembrava godere alla vista di questo nettare.
Quando i due fedeli inferociti si riavvicinarono allo
Starec, non era rimasta nessuna testa di cinghiale attaccata al proprio corpo. Giacevano tutte ai suoi piedi,
come macabri trofei.
E mentre accarezzava teneramente i suoi animaletti,
con la lingua gustava il liquido che riusciva a leccarsi
dai contorni della bocca e i suoi fari asimmetrici, sembravano guardare lontano, oltre quelle carcasse decapitate.
Forse era già riuscito a mettere a fuoco la sua vendetta.
Capitolo diciassettesimo: Non il vento, non il
mare…
La moglie dell’ambasciatore americano non ebbe
nessun problema a scegliere l’anello più costoso. La
commessa della gioielleria, dopo essere stata insultata per la sua incompetenza, aveva lasciato il posto al
proprietario, che da una mezz’ora, a schiena curva,
aveva assunto l’aspetto servile di un umile maggiordomo e seguiva la vecchia megera del Nevada in tutti i
suoi capricci.
Dopo aver mostrato tutto il suo campionario di diamanti e gioielli di ogni tipo, la dentiera della donna aveva snaccherato di piacere alla vista del cartellino del
prezzo di quell’anello, che era si il più brutto, ma era
anche il più costoso.
Il negozio si svuotò di guardie del corpo e della voce
stridula della donna. La fila dei velivoli blu, si sollevò a
tre metri dal cemento della strada e in un batter d’occhio rimase solo una scia biancastra davanti alle vetrine della gioielleria.
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Arcimbald Leonide Tambongo proprietario del negozio, si aggiustò il riporto che gli era calato sulla spalla.
Quando la moglie dell’ambasciatore era uscita dal negozio, si era messo a saltare come un matto dalla
gioia, e nonostante la lacca cementina che aveva spruzzato a dosi industriali, il ciuffo di capelli gli era andato
fuori posto. Poi era corso dalla commessa, neo assunta, e le aveva chiesto scusa per averla trattata male
davanti alla strega americana.
Quella ragazza era una venere in terra, e quando, un
mese prima, si era fermata davanti alla vetrina a contemplare i gioielli, Arcimbald era immediatamente uscito
dal negozio a farle la corte.
Non siete arrabbiata con me, vero?
Assolutamente no! Arcimbald, voi siete il padrone e potete fare quello che vi pare.
Sono contento che non ve la siate presa; sono
convinto che un piccolo aumento di stipendio non lascerà nessun astio tra noi.
Vedete Arcimbald, non solo non sono arrabbiata
con voi, ma, anzi, vi sono grata. Infinitamente grata…
senza di voi non avrei mai potuto raggiungere il mio
scopo. A proposito: io mi licenzio.
Il Signor Arcimbald rimase di stucco a bocca aperta, e non s’intuì se era per la notizia o per il movimento
che la sua ex dipendente aveva adoperato per ondeggiare le sue curve ed uscire dal negozio.
Il giorno dopo la gioielleria, senza la presenza di quella
perla nera, sembrava vuoto e desolato. Arcimbald aveva il riporto in disordine e l’aria di chi aveva passato la
nottata a bere per dimenticare. Non avrebbe mai più
avuto una fortuna simile, e non pensava più ai crediti
guadagnati con la moglie dell’ambasciatore americano; lui pensava alla ragazza che lo aveva stregato.
Quando entrarono i due Jungle-Urban-Gendarm lo trovarono appoggiato al banco di marmo vicino alla cassa, con gli occhi lucidi e la linea della bocca in una
triste curva.
In cosa posso esservi utile?
Cercò di darsi un contegno e si schiarì la voce più
volte.
Uno dei due gendarmi, quello dall’aspetto più trucido, scagliò un gettone-olografico davanti al gioielliere.
Senza neanche fiatare, i due uomini della legge attesero che la foto-olografica prese vita e che la ragazza
apparisse in tutto il suo splendore. Quando videro
l’espressione dell’uomo ebbero la risposta che desideravano. Gli diedero solo il tempo di chiudere il negozio e poi lo portarono in questura per interrogarlo.
Ora vi rifarò la domanda per l’ennesima volta:
conoscete la donna di cui vi abbiamo mostrato
l’ologramma?
Il commissario Mogadish sudava e la pelle nera gli
luccicava. Aveva a disposizione apparecchiature modernissime per le interrogazioni, ma lui si ostinava ad
usare esclusivamente la sua lampada da tavolo puntata come un cannone. E i risultati gli davano ragione.
Passarono parecchie ore ma il gioielliere sembrava
non cedere davanti a nessuna accusa. Gli uomini di
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Mogadish stavano per tornare da un momento all’altro,
ed il commissario non vedeva l’ora di conoscere i risultati della perquisizione del negozio e della casa.
Vedete signor Arcimbald Leonide Tambongo,
sono quasi trentasette anni che faccio questo mestiere e so distinguere uno ‘sguardo di paura colpevole’ da
uno che non lo è… nessuno vi sta accusando di niente, voglio solo sapere cosa avete a che fare voi con la
strage all’ambasciata americana.
Arcimbald divenne bianco come Michael Jackson e
cadde a terra svenuto, davanti a lui le volate di fumo
che uscivano dalla bocca carnosa del commissario
Mogadish, rimanevano ferme e dense a mezz’aria.
-
Posso parlarci adesso?
La vecchia infermiera dell’ospedale statale sbuffando
acconsentì con un cenno del capo, e mentre il commissario prese ad avviarsi, col suo solito passo
claudicante, verso il lungo corridoio che portava alla
stanza del gioielliere Arcimbald, fece finta di non sentire il suo borbottio.
Il gioielliere alla vista del commissario iniziò a dare
segni di nervosismo.
- Signor Arcimbald: rilassatevi! Nessuno vi vuole arrestare…
Arcimbald sgonfiò le vene del collo e quelle sulle tempie e sembrò riacquistare fiducia nei movimenti.
- Mi dispiace per il vostro cuore, non potevo immaginare che una persona innocente potesse avere una
reazione simile.
Arcimbald dopo tre giorni di silenzio si sforzò di parlare.
Vi chiedo scusa signor Commissario…
Mogadish; mi chiamo Ildebrand Mogadish.
Avrei voluto esservi di aiuto in questa faccenda
ma il mio cuore non ha retto.
Il commissario si mise a sorridere con aria sorniona
di chi ne sa quanto basta.
Che avete Commissario, mi state nascondendo
qualcosa?
Si e no… Scusate: sarò più preciso. Quando la
moglie dell’ambasciatore tornò a casa dopo l’acquisto
dell’anello, è proprio il caso di dirlo, esplose dalla contentezza. Di lì a poco avrebbero avuto una cena con
altri esponenti della politica e lei avrebbe sfoggiato l’acquisto pomeridiano. E’ noto a tutti che la signora, anche se non è dotata di buon gusto, ha una passione
per queste cianfrusaglie… Ehm escluso le vostre s’intende. Ebbene, esattamente dopo la prima portata di
antipasti, la bomba è esplosa. Nel raggio della villa
americana adibita ad ambasciata è andato tutto polverizzato. Ambasciatori, politici, mogli, l’ambasciata intera e tutti i documenti. Solo una cosa non è andata
distrutta: la scatola nera di un cyb-body-guard della
vecchia. Ed è stata quella che ci ha portato da lei.
Nella scatola del Cyborg abbiamo trovato le registrazioni di tutto quello che la donna ha fatto, che ha detto, i luoghi, le persone che ha frequentato etc. etc. E
quando abbiamo visto la registrazione dentro il negozio, abbiamo riconosciuto la terrorista che sta piegan-
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do tutto il paese: Lady nDacumba. Capirà che di primo
acchito abbiamo subito pensato ad una probabile complicità tra lei e la terrorista che aveva incastonato nell’anello un potentissimo micro congegno esplosivo; ma
quando abbiamo perquisito il negozio e casa sua, abbiamo trovato i dati della recente assunzione e abbiamo capito che tra lei e la ragazza non c’era nessuna
complicità.
Mogadish guardò Il gioielliere di sottecchi, facendogli
intuire di aver visto anche il suo diario dove annotava
tutti i suoi pensieri e poesie d’amore rivolti alla ragazza. Terminò quell’espressione quando intuì che stava
per avere un altro ammanco cardiaco.
Quando uscì dalla stanza, il commissario si sforzò di
ricordare alcuni versi di una delle poesie che aveva letto nel diario, ma senza riuscirci.
Stava per scendere le scale che portavano in strada
e fu di colpo illuminato. Salì gli scalini a due a due, con
la gamba semirigida e sporse la testa nel lungo corridoio.
… Non il vento, non il mare
questo amor potran spazzare,
sol la luce e la tua purezza fan volar,
il mai accarezzato tesor
come una malinconica brezza…
L’infermiera cambiò immediatamente espressione
pensando che l’ispettore stesse rivolgendo quelle parole a lei e neanche il frastuono provocato dalla caduta
dal letto del gioielliere le fece distogliere lo sguardo
mieloso che s’infrangeva fino all’orizzonte del corridoio.
Capitolo diciottesimo: Falsi Dei
Dovevo solo rimanere nascosto e aspettare. Quella
preda era troppo importante, per me come cacciatore,
e per il mio clan. L’inverno come un imperatore tiranno
regnava incontrastato sulle altre stagioni, e noi, i suoi
sudditi, potevamo solo inchinarci al suo volere. Due
giorni all’addiaccio mi avevano reso più vulnerabile e
meno agile, ma il corpo che mi ero scelto era una garanzia.
Ero entrato in un giovane Neandertal di diciannove
anni, dalla potenza muscolare incredibile, da tutti ritenuto il futuro capo clan: non mi rimaneva che dimostrare il mio valore.
Questi esseri, senza apparente conoscenza divina,
erano semplici macchine di carne e istinto, dediti solo
alla sopravvivenza. Ma qualcosa stava per cambiargli
l’esistenza, ed io ero lì per ristabilire il giusto ordine.
I miei occhi spuntavano dai cespugli spinosi. La preda annusò il mio odore nell’aria, ma non riuscì a vedermi. Quell’animale avrebbe sfamato il gruppo per parecchio tempo ed io già pregustavo il mio ruolo di capo.
Avevo lottato con i due uomini che mi seguivano sempre nella caccia: volevo rimanere solo questa volta, non
volevo che mi vedessero usare i miei poteri, anziché le
solite armi di selce e bastoni appuntiti. Non volevo rivelarmi, era ancora presto.
L’animale si guardò intorno, intimorito, poi si avvicinò
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ad una pozza d’acqua per dissetarsi. Le forze divine
si concentrarono tutte per un unico scopo e in un lampo, le mie molecole si disgregarono e scomparvero,
come se il terreno le avesse assorbite. Quando l’animale chinò il capo verso l’acqua, le molecole si
ricompattarono nel fango sottostante. La mia mano
sbucò fuori dalla pozza e con un gesto fulmineo gli
agguantai la lingua. Riemersi completamente dal fango e l’animale rimase paralizzato davanti a quest’uomo ricoperto di melma nerastra. Lo fissai negli occhi,
ma già li vidi rovesciati. Strattonai la lingua con forza e
l’animale crollo ai miei piedi.
Quando arrivai alla grotta, credettero di vedere il mio
spettro. Nessuno mi riconobbe sotto quelle croste di
terra seccata che mi ricoprivano completamente. E
nonostante la mia refurtiva, non venni accolto come mi
aspettavo. Vidi le donne in un angolo della grotta, illuminata da un esile fuoco, mentre sembravano disperarsi. Rivolsi qualche grugnito e un po’ di versi gutturali
ad un uomo del clan, e dalla sua risposta e i suoi gesti
capii cosa era successo: avevano rapito una delle giovani donne. Tra clan era spesso usata questa forma di
rapimento, le donne ‘nuove’ infatti, servivano per garantire la riproduzione.
Raccolsi un bastone con una punta di selce legata
all’estremità e mi scagliai fuori dalla grotta. Tre uomini
intuirono le mie intenzioni e si precipitarono sulla scia
dei miei passi.
Nessuno aveva visto chi fossero i rapitori e tanto meno
la direzione che presero per fuggire, ma avevamo sviluppato un olfatto che ci consentì di imboccare subito
la strada giusta. L’odore che sentivo però, era differente da quello che abitualmente un Neandertal emanava,
e le mie preoccupazioni ben presto si rivelarono fondate. Arrivammo sul bordo di un precipizio e ci nascondemmo salendo su alberi bassi e gonfi di fogliame.
Nella vallata sottostante, vedemmo un gruppo di uomini che camminavano seguiti dalla nostra donna, legata
ai polsi con delle liane. Quegli uomini ostentavano
movenze e caratteristiche diverse dalle nostre. Erano
più longilinei e di colore più scuro: erano Homo Sapiens.
Aspettammo la notte. Il vento fischiava tra gli scheletri degli animali abbandonati tutt’intorno al loro accampamento. I fuochi proiettavano ombre allungate, fino a
farli sembrare dei giganti. La grotta aveva un’ampia
apertura e potevamo intravedere alcuni Homo Sapiens
in atteggiamenti rituale. L’attenzione cadde sulla donna del nostro clan, stranamente adagiata su una roccia piatta. Lo stupore dei miei fratelli Neandertal era
pari solo alla curiosità. Non riuscivano ad intuire le intenzioni di quegli esseri, così diversi da noi, ma anche
così uguali. Io mi sbagliavo. La donna non era stata
catturata per figliare, ma per essere sacrificata.
In nome di che cosa?
Di chi?
Cosa poteva spingere questi esseri primitivi ad elevarsi in pensieri religiosi e divinatori, tanto da fargli commettere un atto così estremo.
Forse la paura.
In quell’istante immaginai di tutto, ma mai sarei arri-
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vato a pensare quello che stava per pararsi davanti ai
nostri occhi smarriti.
I tre Neandertal grugnivano e ringhiavano, e pensai
che di lì a poco mi sarebbe costato molta fatica trattenere il loro impulso animale. All’improvviso nella caverna calò il buio più pesto, poi si levò un vocio leggero,
quasi una cantilena, ripetitiva e monotona. Non c’era
nessun fuoco acceso, eppure, all’improvviso, la caverna s’illuminò di una luce bianca e fredda. La cantilena
si tramutò in ovazione. Sembrarono colti da un’improvvisa ondata di estasi e iniziarono ad aggrovigliarsi fra
di loro. Sembravano assenti con la mente, e allo stesso tempo consapevoli di quello che stava accadendo.
Mi girai verso i miei compagni ma non vidi nessuno.
Aguzzai la vista, e li avvistai nascosti dietro una roccia
sulla soglia della caverna.
A prima vista non notai le clave rinforzate con schegge di selce che impugnavano minacciosamente. Mi
sforzai di capire da dove provenisse quella luce, ma
non riuscii a vedere nessuna fonte luminosa, solo, un
lato della caverna mi sembrava più illuminato degli altri. L’orgia tra Homo Sapiens proseguì per ore, sino a
quando uno di loro si parò minaccioso davanti alla
Neandertal: tutti si zittirono e si fermarono per rivolgere lo sguardo a colei che avrebbe impersonificato il
sacrificio. L’Homo Sapiens, davanti alla donna legata,
stringeva una grossa punta ricavata dalla roccia. L’uomo entrò in una trance che lo fece rotolare da una
parte all’altra della caverna. I suoi simili venivano
strattonati e spinti da questa figura invasata e ricoperta di graffi e lividi. Il momento solenne arrivò con un
bagliore ancora più freddo della luce che già era sovrana nella caverna.
L’invasato riacquistò la stabilità sulle gambe e scagliò un colpo micidiale in pieno petto alla donna sdraiata. La punta rocciosa si conficcò tra le costole, e
uno spruzzo di sangue irrorò il carnefice in piena faccia. Alle grida gioiose dei festanti, si unirono quelle di
rabbia dei tre Neandertal, che si scagliarono contro i
nemici con una furia inumana. Rimasi nascosto, non
potevo intervenire adesso, avevo bisogno di un punto
di vista lontano, che mi permettesse di studiare attentamente la situazione. Le clave dei Neandertal volteggiavano nell’aria per ricadere sui corpi dei Sapiens.
La flagellazione fu totale. Non risparmiarono nessuno, e in breve il terreno fu cosparso di carne maciullata.
I Neandertal innalzarono le clave al cielo in segno di
vittoria, poi spinti dallo stesso desiderio animale si avventarono sui brandelli, ancora caldi e gocciolanti di
sangue, e si nutrirono come bestie feroci. Ero a pochi
passi dalla grotta e constatai l’orribile vendetta, nessun Sapiens era rimasto con gli arti o la testa al proprio posto.
L’aria divenne densa come gelatina e il tempo sembrò fermarsi. Non riuscivo a compiere nessun movimento, sembravamo insetti nell’ambra.
La luce nella caverna si addensò in un unico punto,
che pian piano acquistò una forma umanoide. Tutto
era bloccato tranne quell’essenza eterea che si stava
trasformando in donna sotto i miei occhi.
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Era una figura fragile e aggraziata, dal colore candido e luminescente. L’universo intero, in quel momento, era ai suoi piedi: lei era l’imperatrice del mondo.
Fu in quel momento che intuii lo scopo della mia missione: dovevo distruggere quell’essere. La sua
interposizione tra umani e dèi mi risultò lampante quando si avvicinò ai due Neandertal, immobilizzati in quel
non-tempo-non-luogo. Mi aspettavo una risposta violenta e vendicatrice; e invece rivolse loro un sorriso, e
quando li sfiorò con le mani, l’aria gelatinosa sembrò
sciogliersi intorno al loro corpo. I tre Neandertal si buttarono ai suoi piedi e la venerarono. Gli bastò un semplice gesto per liberarsi dei tre nuovi discepoli, i quali
corsero via gioiosi e illuminati. Volevo intervenire ma la
gelatina mi paralizzava completamente: dovevo escogitare qualcosa per porre fine a questo atto sacrilego.
Chi mai poteva sostituire Dio?!
Chi aveva osato tanto?!
La mia collera vibrò in quel corpo muscoloso, ma non
sortì alcun risultato. La vedevo muoversi leggera come
una farfalla, mentre accatastava i pezzi dei corpi degli
Homo Sapiens. Nel centro della caverna, una massa
informe di frattaglie umane, ossa e crani sfondati, si
agitava in una sfera di energia emanata dalle sue piccole manine. La sfera si ingrandiva sempre di più, e il
suo colore diventava sempre più intenso e amalgamato. Le pareti della grotta presero a tremare dalle vibrazioni che sprigionava quella sfera di pura potenza vitale. Poi, intorno ad essa, si formarono degli anelli gassosi, che pian piano invasero l’intera grotta.
I miei occhi presero a lacrimare. Portai le mani sul
viso, e mi accorsi che finalmente potevo muovermi.
Intravidi dei corpi in quella nube, e mi avvicinai senza
avere in mente un’idea precisa su cosa fare. Sgranai
gli occhi stupito quando capii che quell’essere
luminescente, grazie a chissà quale trucco satanico,
aveva riplasmato e ridato vita a tutti gli Homo Sapiens
trucidati dai Neandertal. Davanti a questo atto, che offendeva il Divino creatore, mio Padre, il mio involucro
muscoloso esplose e tutta la forza della divina redenzione si trasformò in una scarica tellurica.
Un sordo boato precedette una lacerazione del terreno.
Uno squarcio profondo fregiò la montagna in due, che
si aprì come una bocca che grida aiuto.
La grotta implose e crollò su se stessa, seppellendo
la creatura luminescente e il gruppo di Homo Sapiens.
meno tenerlo in quarantena... Passarlo al Fasercellulare e accertarci...
- Adesso basta!! Ritirati nella tua cella, e questa sera
non presentarti per le omelie: faremo volentieri a meno
di una suora della tua specie. E... stai sicura che terrò
informata chi di dovere! Suora Christa e suora Geneve,
aiutatemi a portare quest’uo... quest’inferno nella stanza asettica. E voi non state con le mani in mano: ho
bisogno della vostra collaborazione. Non vorrete mica
che lasci morire questo poveretto.
- E’ magro ma pesantissimo!
- Ma come fanno, quattro ossa, a pesare così tanto?
- Se volete seguire suora Hemel basta dirlo! Ma che
vi è preso a tutte oggi!
- Sorella Madre... non arrabbiatevi. Era molto che nel
Convento-Empire della Luce Bianca non ricevevamo
una sorpresa del genere... Anche se non ho ancora
capito a quale genere appartiene l’essere che stiamo
soccorrendo. Eravamo abituate a soccorrere bambini,
donne e uomini di ogni razza, ma questo...
- Forse avete ragione... Scusatemi Sorelle. Chiamate anche suor Hemel, ditele di raggiungerci nel salone
convegno. Decideremo cosa fare.
Passarono nove lunghissime ore, il salone era affollato di suore che sbraitavano l’una contro l’altra. Il fumo
del sigaro della Madre Superiore non lasciava intravedere il soffitto, e mentre alcune suore caddero stremate nel sonno con la testa sull’enorme tavolo, di una
lega che era simile al legno, altre sembravano decidere il destino del mondo, tanto erano coinvolte nella discussione.
- Proponiamoci un limite di tempo, entro il quale, se
non è guarito...
- ... Ci infetterà tutti, quell’essere ha ben poco di
umano: ma non l’avete visto!
- Anche un cane è degno della misericordia della Luce
Divina, come potete dimenticare queste regole che
sono la base del nostro credo?!
- Anche un cane!!!
Le suore si girarono tutte in direzione di quella voce
calda e suadente che proveniva dall’entrata del salone, poi si strinsero vicine come per proteggersi. Alcune suore svennero, altre si gettarono a terra in preghiere convulse e incomprensibili. Solo la Madre Superiore
rimase immobile davanti a quell’uomo: impietrita.
Era un miracolo, così definirono quello che accadde.
Quell’essere moribondo, cosparso di piaghe, enormi
bubboni, con sembianze da mostro, era guarito in po- Silenzio: sta aprendo gli occhi!
che ore senza nessuna cura: il miracolo della Divina
- Sembra in fin di vita, è molto grave vero?
Luce Bianca si era compiuto. Il suo aspetto era radio- Vorrei vedere se fossi caduta tu nella cisterna radio- so e sano.
attiva... Quanto pensi che saresti durata in mezzo a
quella porcheria? Questo poveraccio per lo meno re- Vi portarono al convento che eravate più morto
spira ancora...
che vivo! Erano due uomini della periferia di Bucarest.
- Si, ma guarda cosa ha sulla pelle! Se scoppia una Ci dissero che i loro figlioletti, mentre giocavano vicino
di quelle bolle ci infetterà a tutti.
al treno abbandonato, vi videro precipitare dal cielo.
- E allora allontanati e non rompere Sorella Hemel... Malauguratamente siete caduto in una delle tante ciNon è questo l’atteggiamento di chi fa della propria vita sterne aperte. Inutile dirvi che sono piene di scorie rauna missione di carità!!
dioattive, e per molto, troppo tempo, siete rimasto lì
- Io non dico che non dovevamo soccorrerlo, ma al- dentro, con conseguenze evidenti a tutte noi. Ma la
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nostra fede ci ha guidate, e... la Divina Bianca Luce ha
compiuto l’ennesimo miracolo. Ma vi prego: parlateci
di voi... chi siete?
Tutte le suore presenti si zittirono in un silenzio
tombale.
- Sorella, io non ricordo più nulla.
il Messia mentiva, ed aveva già fiutato un sentiero da
percorrere, in nome della redenzione.
- Le cose che mi state dicendo appartengono ad un’altra vita, una vita che non ho vissuto io. Ma parlatemi
del miracolo di cui io sono il protagonista. Chi lo ha
compiuto?
A queste parole, tutte le suore socchiusero gli occhi e fecero con la mano sinistra un segno tra il petto
e la fronte, in una sorta di rilettura del segno della croce. Il Messia dovette frenare l’impulso di scaraventarsi
su di loro e castigarle.
Vedete, mio buon figliolo, noi facciamo parte di
una congrega di suore, che centinaia di anni fa ha deciso di distaccarsi dalla chiesa Papale della dinastia
dei Pacelli di Rhoma. Siamo state illuminate, è proprio
il caso di dirlo, dalla fede della Luce Bianca. E da allora, con i soldi della carità, abitiamo in questo grattacielo.
Il Messia si alzò e si avvicinò all’enorme vetrata. Il
respiro affannato inumidiva il vetro della finestra.
- E cosa sarebbe questa Luce Bianca Divina, di cui
tanto parlate?
- Vi prego! Non usate quel tono quando parlate della
Divina. Abbiate rispetto per chi vi ha ridato la vita.
Il Messia si accorse di aver usato un tono arrogante
e troppo impulsivo, e si scusò con la suora. Non doveva scoprirsi. Si gettò ai suoi piedi e le strinse le mani,
per poi accostarle sulla sua fronte.
- Così va meglio, vedo che iniziate a comprendere
l’immensità della nostra fede. Più tardi ci saranno le
omelie, se vorrete unirvi a noi nella sacra cappella, e
ringraziare di persona con qualche preghiera potrete
farlo. Ma ora vi faccio accompagnare nella cella degli
ospiti. Sorella Hemel! Accompagnate il nostro ospite...
Suor Hemel si avvicinò all’uomo con passo titubante,
non aveva ancora smaltito la sua diffidenza nei confronti dell’ospite e il Messia se ne accorse.
Il Convento-Empire della Luce Bianca era una costruzione gotica e severa. Il suo aspetto esteriore, cupo e
minaccioso, non lasciava immaginare che all’interno
si osannasse una luce. Sovrastava tutti i grattacieli di
Bucarest, e la cima del convento, non era visibile a
occhio nudo, infatti si perdeva tra le dense nuvole che
sovrastavano la città.
Prima di incamminarsi nei meandri del convento, Suor
Hemel aveva digitato su un piccolo display, incastonato in una parete con fattezze medioevali, un codice.
All’istante, il buio corridoio fu illuminato da un tracciato di luci rosse. La Suora camminava a dieci metri
dall’uomo, con passi piccoli ma veloci, e non si accorse che ad un certo punto rimase sola. Quando
giunse davanti alla soglia della cella, si voltò e invitò
l’ospite ad entrare, ma non trovò nessuno dietro di lei.
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- Prego, accomodatevi... Ma dove vi siete cacciato?!
- Aprì la porta della cella e si portò le mani sulla bocca,
soffocando un grido di spavento: l’ospite era già all’interno accomodato vicino alla piccola finestra sbarrata.
Corse via terrorizzata, senza capire l’accaduto. Si
precipitò nella sala lettura. Irruppe come un cataclisma
nella silenziosa biblioteca. Una Suora sfoderò istintivamente lo spadino d’argento in dotazione, che riponevano in una tasca nascosta della manica. Suor Hemel
respirava a pieni polmoni, e prima di poter parlare passarono dei minuti.
- Che succede? Vuoi parlare per cortesia.
La suora vinse l’affanno e la paura, e singhiozzando
si rivolse alle altre suore che si avvicinarono tutte intorno incuriosite.
- Stavo accompagnando l’ospite nella sua cella...
- Se ha provato a toccarti lo ammazzo con le mie...
- No... Niente di tutto questo, fatemi finire per favore.
Come dicevo, lo stavo portando nella cella degli ospiti,
camminavo davanti a lui. Il corridoio è stretto e lungo,
e ci si può camminare solo uno dietro l’altro...
- Ebbene? Arrivate al dunque!
- Quando arrivai sulla soglia della cella, mi voltai per
invitarlo ad entrare. Ma dietro di me non c’era nessuno. Aprii la porta della cella e lo vidi già accomodato
dentro, che guardava dalla finestra, come se fosse lì
già da tempo.
In quel frangente arrivò la Madre Superiore. Le suore
le fecero largo per farla arrivare proprio davanti a Suor
Hemel. L’anziana donna sembrava incupita, e stringeva i pugni come per trattenere la rabbia che stava per
esplodere.
- Ti chiamerò Hemel, perchè non sei più degna di
essere chiamata suora. Il tuo atteggiamento ha raggiunto e superato il nostro livello di comprensione. Non
solo stai dimostrando di non avere attitudine alla nostra dottrina caritatevole, ma stai tentando di fuorviare
anche queste povere anime che ti stanno a sentire!
In quell’istante rivolse uno sguardo introspettivo alle
suore, le quali sentitesi in colpa si diradarono lasciando nella sala lettura solo la Suora Madre e Suor Hemel.
Tra le due nacque una disputa a suon di occhiate.
Suor Hemel, sentitasi alle strette, resse a fatica il confronto con la Suora Madre. Non abbassò lo sguardo e
lo tenne fisso come un’arma. Il filo che teneva unita
l’energia negativa tra le due donne, si spezzo al suono
delle campane digitali che usciva da altoparlanti nascosti. Quel tetro rintocco si diffuse per tutto il grattacielo, fino ad arrivare alle orecchie del Messia.
- E’ giunta l’ora delle omelie - pronunciò rauca la voce
dell’anziana suora - se vuoi farne parte... forse saranno le tue ultime.
Si girò e s’incamminò.
- Forse saranno le ‘nostre’ ultime.
Al suono di quelle parole la Madre Superiore bloccò il
passo, per poi riprenderlo con un’andatura più riflessiva.
La Sacra Cappella era piena di suore vestite di abiti
grigio metallizzato. Sul petto portavano un’effige che
si riproponeva in ogni angolo della cappella, e su un
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ologramma che sovrastava l’altare: un cerchio bianco
che emanava luce. La stessa luce che il Messia aveva
visto millenni prima in una grotta.
Le suore presero a pregare tutte insieme, in una
cantilena senza ritmo. Tra le loro però, mancavano le
preghiere di Suor Hemel, che sentitasi ripudiare aveva
lasciato il convento. Una suora si rivolse ad un’altra
suora che sembrava stesse dormendo, toccandola con
il gomito. Aveva la testa bassa e non si riusciva a vederne il volto.
- Ma cosa fai dormi! Non vedi che stiamo pregando!
La suora con il capo chino alzò lentamente lo sguardo.
Il suo volto non apparteneva a nessuna delle suore
del convento: era quello del Messia. La suora rimase
immobile, come ipnotizzata. Poi con lo sguardo allucinato, si rivolse all’altra che aveva di fianco, e gli contaminò la stessa apatia ipnotica. In pochi minuti, tutte le
suore furono contaminate, e rimase solo la voce della
Superiora a pronunciare l’omelia.
Forse era troppo concentrata, e ci volle parecchio
tempo per accorgersi, ma quando si girò dall’altare,
vide il macabro spettacolo.
Le suore si erano denudate e si erano incise una
croce sulla fronte con lo spadino d’argento. La Suora
Madre barcollò e si appoggiò all’altare, in preda ad una
crisi cardiaca.
Il Messia le si avvicinò minaccioso.
- Rivolgiti alla tua Luce Divina: digli di venirti ad illuminare. Sto per farti sprofondare negli abissi più bui.
Con un gesto brusco le straccio le vesti e la scaraventò a terra. La suora sembrava ancora aggrappata
alla vita con le preghiere che non aveva smesso di enunciare.
- Abbagliaci!!! O luce malsana, mostrati per quello
che sei: una squallida menzogna marcescente e nient’altro. Credevo di averti sconfitta e seppellita per sempre, ma il seme del male continua a germogliare.
Nello sguardo del Messia c’era rabbia e la voglia di
riscattarsi per quella missione che pensava di aver vinto molto tempo prima.
L’ologramma sopra l’altare prese fuoco, e in un attimo le fiamme avvolsero tutta la cappella.
La notte calava inesorabile, i timer dei satelliti liberati
dal virus, avevano ripreso a funzionare. Suor Hemel,
singhiozzando, si aggirava per le strade di Bucarest.
Non aveva mai messo piede fuori dal convento e non
immaginava come potesse essere il mondo all’esterno. Il suo sguardo, a mano a mano che si allontanava,
si perdeva nei ricordi e nelle luci delle insegne.
Due uomini si pararono davanti a lei facendola destare dal torpore della sua condizione mentale. La suora
indietreggiò fino a cadere su una pozzanghera
schiumosa.
- Cosa volete - pronunciò con un filo di voce tremante
- non ho soldi con me...
- Suora, ma cosa state dicendo: non si ricorda di
noi?
La suora cercò di mettere a fuoco gli occhi ma la
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testa gli cadde all’indietro e svenne. I due uomini, qualche giorno prima, avevano portato quell’essere in fin di
vita al convento.
La caricarono sul sedile dell’avio-camiom, e sbuffando volate di gas nero che si andavano mischiando con
le nuvole dello stesso colore, sorvolarono i tre isolati
che li dividevano dal convento in un batter d’occhio.
Parcheggiarono proprio davanti all’ingresso-levatoio del
grattacielo, e prima di far scendere la suora, suonarono al portone.
Con loro stupore, la porta si aprì immediatamente,
senza fare le dovute verifiche che solitamente il sistema di antifurto svolgeva. Dietro di esso non videro nessuno. Entrarono timorosi e quando si trovarono all’interno, sentirono il portone chiudersi alle loro spalle. Si
gettarono, impauriti e presi dal panico, sulle serrature,
ma risultarono bloccate. Cercarono, spinti dalla disperazione, di trovare un’altra via di fuga, ma ben presto,
le fiamme che si erano propagate dalla cappella raggiunsero anche i piani inferiori. Le carni dei due poveretti,
colpevoli solo di aver aiutato un moribondo, furono straziate e dilaniate dalle fiamme, in un rogo altissimo.
Suor Hemel aprì gli occhi, e quando vide l’espressione del Messia che stava guidando l’avio-camion a settecento metri d’altezza, credette di trovarsi all’inferno.
Capitolo diciannovesimo: Il rapimento
Pepe Piras chiuse la comunicazione con il suo
interfono e poi sorrise. Era un’espressione che sul suo
volto non compariva mai, e quando i suoi colleghi della
Secretus videro scoperti quei denti da cammello si girarono tutti dalla sua parte in attesa di una notizia bomba.
Indovinate!
Si guardarono perplessi e meditabondi, mentre il vocione di Romeo, seduto sulla sua poltroncina rinforzata spandeva nell’aria le note di una opera lirica inventata sul momento. E senza interrompere il suo canto
azzardò per primo.
La promozione?
Naaaa…
Poi gli altri, uno dietro l’altro in una raffica di domande.
Tua moglie è incinta?
Acqua, acqua…
Centra qualcosa con il lavoro?
Fuoco, fuoco…
Avanti parla brutto pecorone!
E va bene! Io non capisco cosa ci fate in un
reparto speciale di polizia… Siete proprio delle frane...
Indovinate chi ha chiamato?
Ancora con questi indovinelli! Vuoi parlare o no,
dai sbrigati!
I colleghi si erano fatti avanti minacciosi e se li ritrovò
tutti e cinque ad un palmo dal naso, seduti sulla sua
scrivania.
- Era Antonio, Antonio Messaggero! Finalmente si è
fatto vivo. Ha detto che ha fatto un indagine
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dettagliatissima e fra venticinque minuti entrerà dal Gate
3/f con il suo Avio-Wagon: ha arrestato due cospiratori!
Tutti e sei gli agenti della Secretus si infilarono la
giacca della divisa e si precipitarono di corsa verso il
viale della centrale, situata dentro la cerchia delle mura
del Vaticano, mentre Romeo, affannato, li raggiunse
per ultimo.
Antonio Messaggero arrivò in anticipo. L’Avio-Wagon
smorzò di colpo l’aria dei cuscinetti e frenò bruscamente nel piccolo parcheggio. Pepe e i colleghi erano
ansiosi di sentire notizie e di vedere i due arrestati.
Messaggero sembrava essere tornato alla normalità.
Il suo aspetto era quello di un uomo normale, lontano
da quel ‘Messaggero’ che si era trasformato in un animale dell’inferno.
Non perse troppo tempo con i saluti e si accinse ad
aprire la cabina ermetica che conteneva i due arrestati.
Pepe si avvicinò a Messaggero e gli diede un’energica pacca sulla spalla.
Ciao Messaggero, bentornato in famiglia.
Buongiorno Pepe, tutto bene?
Io si, ma tu che c’hai: mal di gola, che ti sei
messo la sciarpetta al collo?
Messaggero non volle dar peso alla domanda di Pepe
e lo invitò ad avvicinarsi agli sportelli dell’Avio.
Dopo aver ripreso il fiato Romeo si avvicinò ai colleghi
con la solita aria burlona e riprese a cantare l’operetta
improvvisata. Si avvicinò a Messaggero e gli sfilò di
colpo la sciarpa dal collo.
Gli occhi di Romeo divennero grandi il doppio quando
videro la reazione del collega, e quando scoprì cosa si
celava sotto quella stoffa, la sua voce da baritono si
trasformò in un grido isterico in falsetto.
Quelle piccole ali da pipistrello che sbucavano dal
collo come escrescenza malsane impietrirono il gruppo di poliziotti. Che istintivamente si raggrupparono in
un cerchio stretto.
A quel punto Messaggero non aveva motivo di tenere
celata la sua nuova identità, e sotto i loro occhi, si
ritrasformò in un mostro.
Non a caso aveva scelto quel cancello per entrare.
Sapeva che quella zona era adibita a pochissimi passaggi, e rimaneva quasi sempre deserta.
La portiera blindata dell’Avio si aprì come se non fosse mai stata chiusa. Attimi di vuoto e di terrore furono
il preludio ad un massacro.
Hermann Dhobb non posò neanche le zampe per terra, e con un balzo da dentro la cabina arrivò con le
fauci direttamente al collo di Romeo. Bastarono pochi
strattoni e quella carne flaccida si squarciò subito. Intanto Messaggero teneva il gruppo sotto tiro, come se
aspettasse un ordine. Le urla strazianti di Romeo, interrotte bruscamente a causa del collo troncato in due,
lasciarono nell’aria un silenzio inverosimile.
Dopo qualche istante sbucarono dall’Avio-Wagon due
tentacoli di metallo, come fossero le zampe di un ragno gigante. Il cigolio di quella ferraglia s’intrufolò direttamente sotto la pelle dei poliziotti della Secretus,
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e fu come se le loro vene fossero diventate di ghiaccio.
ZDimitrij uscì dall’Avio e si sgranchì la schiena davanti agli uomini col terrore dipinto negli occhi. La sua
figura scheletrica ma imponente e l’odore di selvatico
che aleggiava intorno ad essa erano senza dubbio icone del male. Pepe Piras lo riconobbe ma non fece in
tempo ad esserne cosciente. ZDimitrij esalò dal petto,
come un ventriloquo, un ultrasuono e i due animali piovuti dagli inferi fecero una strage.
Quali dèi del male furono invocati non si sa, ma con
l’aiuto di essi, arrivarono davanti a Papa Sigfrisio.
Dietro di loro una scia di sangue e di cadaveri orribilmente sfigurati.
Quando alcune guardie olandesi se ne accorsero ormai era troppo tardi: il Papa non c’era più.
Svanito nel nulla.
Capitolo ventesimo: Il quinto codice
Ildebrand Mogadish stava russando sonoramente nel
suo squallido ufficetto presso il commissariato. Aveva
le gambe appoggiate sulla scrivania piena di incartamenti e senza volerlo aveva rovesciato il portacenere
con il tacco della scarpa. Ad ogni movimento del ventilatore, nuvole di cenere si innalzavano nell’aria, andando a posarsi sulle fotografie appese al muro pieno di
crepe e pezzi d’intonaco staccati.
Il sergente scelto Enyim spalancò la porta dell’ufficio
di Mogadish senza bussare. E con voce fiera gli annunciò che aveva delle novità per il caso dell’ambasciata americana. Aveva scandagliato tutti i file della
memoria della scatola nera appartenente al Cyb-BodyGuard della moglie dell’ambasciatore, e tralasciando
tutti i personaggi in primo piano che gli occhi del robot
avevano memorizzato, aveva trovato un particolare che
poteva essere decisivo. Mettendo a fuoco gli sfondi,
aveva notato la presenza di un barbone di pelle bianca
in tutti i luoghi della città dove si era recata l’americana a fare compere. Anche se si teneva a dedita distanza la sua presenza era costante. Mogadish era contro
la tecnologia ma questa volta ne fu entusiasta.
Non bisogna perdere tempo, sicuramente si tratta
di un terrorista complice, scannerizzate tutti i luoghi
dove il barbone potrebbe nascondersi o mimetizzarsi
e portatemelo qui: io intanto riscaldo la lampada.
Il sergente Enyim stortò la bocca in un sorriso d’aquila,
e Mogadish intuì che il suo collaboratore aveva già provveduto a tutto.
Enyin, che vuoi dirmi con quel sorriso: che sei
diventato più figlio di puttana di me?
Enyim si sentì fiero, quello era il più bel complimento
che Mogadish gli aveva fatto.
E’ nella stanza 22fg. Ma aspetti non è tutto: gli
abbiamo trovato parecchio materiale addosso che ci
ha lasciati sgomenti. Una raccolta di appunti sulla terrorista nDacumba. Era come se stesse pedinandola
per una sua ricerca personale. Potrebbe essere un investigatore privato, o un agente della polizia internazionale…
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Uno scrittore o un ragazzino che fa una ricerca
per la scuola… Ma che cazzo mi stai dicendo Enyim!
Requisitegli tutto il materiale e liberatelo.
Ma ispettore…
Qui dentro non ci servirà a niente. Lasciamolo
libero di riprendere le sue ricerche e ci porterà dritto
dritto dalla nostra Lady nDacumba.
L’ispettore Mogadish e il sergente scelto Enyim decisero d’intervenire e pedinarlo personalmente. Scesero nei sotterranei del commissariato, dove avveniva
la raccolta dei rifiuti, e diedero inizio alla loro mascherata.
Non fare quella faccia sergente, non puoi essere un barbone se non ne hai l’odore.
Mogadish prese un sacco dell’immondizia lo aprì, e
incurante del contenuto, lo strofinò sugli abiti che aveva appositamente strappato e sgualcito.
E fu in uno stupidissimo pomeriggio sciapito, che nella
selva urbana di Mombaza12, quando l’aria diventa di
gomma, che la preda cacciata divenne lei stessa
cacciatrice.
Ben presto il commissario e il sergente si resero conto di inseguire fantasmi, professionisti della
mimetizzazione: entità invisibili. Si erano seduti stancamente in un tavolino del locale del cinema E. S.
Abuli, rimesso a nuovo in tempi record dopo l’attentato, neanche a dirlo, di Lady nDacumba. Proiettavano
un film d’essai: i 400 colpi di Truffaut e Mogadish aveva
deciso di non entrare e aspettare che il barbone, introdottosi insieme ad altre cinque persone, uscisse. C’era
solo un uscita, il commissario conosceva bene quel
cinema, ed era sicuro della sua mossa.
Quel film il commissario l’aveva visto innumerevoli volte: era un fanatico della Nouvelle Vague, e il suo aspetto
poteva richiamare quello di Bebel in ‘Fino all’ultimo respiro’ se non avesse avuto il cerchio di legno interposto tra il labbro inferiore ed il mento.
Avevano avuto problemi con il cameriere del locale.
Aveva preteso i soldi prima di portare le bevande che
avevano ordinato. E quando insieme ai soldi gli avevano fatto vedere i distintivi, tutto si era risolto con un
espressione d’imbarazzo dell’uomo.
Il film era finito. Non sarebbe stato difficile riprendere
l’inseguimento.
Uscì una persona, poi altre due, e quando furono usciti
tutti e sei gli spettatori, si resero conto che il barbone
li aveva raggirati. I conti tornavano ma tra i sei non
c’era lui. Entrarono di corsa dentro il cinema ordinando alla maschera di accendere più luci. La maschera
dopo un occhiata con il cameriere acconsentì, con una
faccia di chi non stava afferrando la situazione. I due
poliziotti si divisero e dopo aver constatato che in sala
non c’era nessuno e che le uscite di sicurezza non
erano state toccate, si avviarono nel bagno. Pistole
strette a due mani e schiene ricurve sulle ginocchia.
Diedero un’occhiata verso i lavandini e il nodo della
vicenda si sciolse come per incanto.
Un lavandino era pieno di capelli e ciuffi di barba appena tagliati, e per terra, un sacchetto di cellofan con-
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teneva un impermeabile maleodorante e altri stracci.
Avvalendosi delle registrazioni filmate del circuito di
sicurezza del cinema, riuscirono a capire chi dei sei
spettatori aveva compiuto la metamorfosi. Ma non solo.
Con grande stupore del Commissario Mogadish, il sergente aveva anche individuato la vera identità di quel
ragazzo che, entrato nel cinema come un barbone, ne
era uscito come una persona normale. Con le facce
sempre più allibite, i due poliziotti analizzavano quei
dati che sembravano irreali.
Commissario… Ho il sospetto che ci stiamo ficcando in una faccenda più grossa di noi. Non riesco
proprio a capire che diavolo c’entra una guardia olandese del Vaticano con la terrorista. E poi non dimentichiamoci che nel database che abbiamo violato, il soldato risulta morto in missione tre mesi fa.
Mentre il sergente parlava, il commissario impugnò
l’interfono e fece il prefisso per l’Italia. Il sergente scelto Enyim se ne accorse e incuriosito, si mise seduto
affianco al commissario ad ascoltare.
- Questura di Rhoma buongiorno.
- Sono il Commissario Mogadish da Mombaza12,
passatemi il Commissario Scognamiglio.
Il traduttore simultaneo s’inserì automaticamente, e
dopo qualche secondo il commissario Scognamiglio
rispose alla chiamata, con la bocca impastata di caffè
espresso e contornata da sottili baffetti neri.
Commissario! A che debbo l’onore?
I due si parlarono a lungo. Mogadish cercò di essere
sintetico, ma ad ogni punto cruciale del racconto infilava
un aneddoto di quando avevano frequentato l’accademia.
Il Commissario Scognamiglio si dimostrò parecchio
interessato e promise di verificare in tempi brevissimi
le informazioni che aveva ricevuto dal suo collega. Ma
quando posò l’interfono, la faccia che aveva tenuto un
sorriso gioioso per tutta la durata della conversazione
mutò. Lo sguardo s’incupì come nuvole livide nella bufera. Poi allungò il braccio per arrivare all’olo-box, quasi avesse una comunicazione urgentissima da fare. La
camicia bianca che indossava si stirò sulla spalla, lasciando intravedere, dalla stoffa sottile, lo stesso tatuaggio che avevano gli uomini del Generale Art Van
Noveau.
Il giovanotto pedinato, sentitosi al sicuro, si fermò a
prendere fiato. Continuava a passarsi la mano sul mento
appena sbarbato. Era una sensazione che non provava da mesi, da quando fu cacciato dal gruppo del generale Van Noveau. Aveva ripreso un aspetto normale,
ma ancora non si riusciva a decifrare la luce che gli
brillava negli occhi. Poi si piegò in avanti con le mani
strette sui fianchi. Il fiato grosso lasciava intendere che
la sua forma fisica non era più quella di una volta. Quando rialzò la testa, davanti a lui sbucarono come dal
nulla due altissimi Masai. Per un attimo i loro sguardi
s’incrociarono con lo stesso attrito di un fulmine sul
ferro bagnato. L’ex guardia del Vaticano riconobbe i
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due uomini. Durante i suoi pedinamenti su nDacumba
li aveva visti più volte: erano gli unici due Masai della
falange terroristica dei Tecno-Zulu. I due militanti, che
superavano di molto i due metri, fecero capire subito le
proprie intenzioni e il giovane dalla pelle chiara non
oppose resistenza.
Quando gli tolsero la benda dagli occhi il suo stupore
era pari solo alla sua gioia.
Finalmente… Sei tu. E’ da molto tempo che
desidero quest’incontro.
Lady nDacumba si sentì spiazzata. Non si aspettava
una frase del genere. Lei si era accorta da tempo che
questo individuo la stava seguendo, ma si era dimostrato abilissimo nel far perdere le proprie tracce non
appena si sentiva avvicinato.
- Riconosco che sei stato scaltro, ma non credere di
essere passato inosservato. Adesso è arrivato il momento della verità. Considerando che non sei della
polizia, altrimenti non ti saresti dannato così tanto per
sfuggire anche a Mogadish & company: devi dirci chi
sei e cosa vuoi?
Lady si sedette davanti all’interrogato girando la sedia e divaricando le lunghissime gambe nere. Poi si
accese una tozza sigaretta francese dal tabacco nero
e mentre l’uomo stava per iniziare a parlare, gli sbuffò,
sgraziatamente, una densa nuvola grigia in faccia.
- Sono una guardia… anzi: una ex guardia olandese
del Vaticano. Sono stato mandato nella Nuova Africa
per rimpiazzare il contingente che hai sterminato sul
treno…
Il fratello di Lady, Gwata e l’amica e i due Masai,
innalzarono delle urla tribali in segno di vittoria e di
orgoglio, mentre Lady nDacumba non distolse un attimo lo sguardo da quello dell’uomo che stava interrogando.
- … Come forse sai, l’unico superstite di quella strage è stato il generale Art Van Noveau. All’inizio neanche noi sapevamo cosa ci aspettava, quali progetti ci
avevano affibbiato. Poi, prima di avere le precise consegne, il generale ci ha utilizzato per scopi personali:
conoscete ‘La grande caccia’?
A queste parole, Gwata, l’ex infermiera, che aveva
perso così due dei suoi figli, gli si avvento contro e gli
strappò con i denti un pezzo di orecchio. Ci volle più di
mezzora per bloccarla. Infine le iniettarono una droga
e riuscirono a riprendere l’interrogatorio. L’olandese si
teneva stretto l’orecchio con una benda medicata. E
con fatica ricominciò a parlare.
- Vi sembrerà strano ma capisco e condivido la reazione della vostra compagna. Io non sapevo niente di
quello che stava succedendo, solo il generale era al
corrente. E quando mi sono reso conto che stavamo
dando la caccia a delle persone, come se uccidere
degli umani era un gioco, io mi sono tirato indietro. Lì è
cominciata la mia crisi. Tutti i miei valori militari e di
fede sono svaniti nel nulla. Non ero più convinto di niente
e simulando uno stato di pazzia sono riuscito a farmi
esonerare dal gruppo degli eletti di Van Noveau. Però
sapevo troppe cose e la scelta era o uccidermi o eso-
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nerarmi e far perdere per sempre le mie tracce... Per
sempre. La fortuna vuole che uno dei tredici codici delle
guardie olandesi, il quinto precisamente, vieta di uccidere o giustiziare a morte un tuo simile. E così mi
hanno abbandonato alla mia falsa crisi mentale, convinti che non sarei più ritornato me stesso. Ed ecco
che inizio a pedinarti. Volevo solo fare giustizia.
- Si ma non capisco cosa centro io in tutta questa
faccenda?!
Lady non nascondeva il fatto di essere spazientita e
confusa dal racconto.
- Voglio dare una lezione a quel bastardo di Van
Noveau! Ma da solo mi è impossibile. Io posso darti
informazioni che neanche te lo immagini.
Nella mente di Lady nDacumba scattò qualcosa. Il
suo istinto le suggeriva di credere alle parole di quell’uomo. Il bianco degli occhi fu coperto quasi totalmente dalle palpebre strette in una sottile linea, che lasciava spazio solo alle pupille, puntate come due laser nell’introspezione del suo interlocutore.
Lo squillo metallico dell’interfono destò il Commissario Mogadish da sogni stupidi ed insignificanti. Allungò
la mano destra per arrivare sul comodino ma si accorse di aver fatto cadere qualcosa. Quando si decise a
schiudere gli occhi notò che stava dormendo sul divano. Con sforzi di volontà sovrumana, decise di andare
alla ricerca di quel ‘dring dring’ che non gli dava pace.
La televisione era ancora accesa e quando posò i
piedi a terra gli sembrò di camminare scalzo in una
palude.
Gli avanzi dei Take-away, regnavano incontrastati su
tutto il pavimento del desolato monolocale che aveva
preso in affitto. Schivare quei cartocci unti, quegli avanzi
di dolci che sembravano aver preso vita, non era impresa da poco.
Guidato dalla provvidenza, riuscì a trovare l’interfono
sotto una pigna di cartocci di pizza e di calzini sporchi. Stava per dire pronto, ma si allontanò dalla cornetta con la faccia disgustata: il lezzo di quell’apparecchio era paragonabile solo al suo alito.
- Mogadish…
- Mogadish… vecchio mio! Ho delle novità. Ma se ti
disturbo ti richiamo più tardi.
- Ciao Scognamiglio. No non mi disturbi affatto: dimmi cosa hai scoperto?
Allora. Ho sguinzagliato i miei uomini e hanno
scoperto che sei… un uomo morto!
Mogadish si svegliò di colpo.
Ma che cazzo stai farfugliando?!
Non fece in tempo a finire la frase che sentì un sordo tonfo. Poi la porta di casa precipitò per terra. La
cornetta dell’interfono gli scivolò dalle mani ma rimase
connessa la comunicazione con l’Italia, e il commissario Scognamiglio poté sentire in diretta le urla del
suo collega africano mentre cadeva a terra crivellato
dai colpi di vapor-mitra degli uomini del generale Van
Noveau.
Quando il frastuono dei proiettili di vapore svanì, dall’ingresso entrò il generale. Prese la cornetta
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dell’interfono che stava oscillando come il cappio di un
impiccato e disse solo: - Anche il secondo è passato
a miglior vita…
- Sempre ai vostri ordini generale.
Poi con passo militare si avvicinò alla finestra e guardò fuori, nell’immensa distesa di cemento, come se
riuscisse a vedere dove gli altri non potevano.
Quello che successe nei giorni a seguire fu solo cronaca nera. Pura vendetta.
Le informazioni che l’ex guardia olandese del Vaticano aveva dato a nDacumba si rivelarono esatte. Tutti
gli uomini del gruppo del generale Art Van Noveau furono trucidati con morti esemplari. E le loro teste imbalsamate, furono recapitate direttamente a Rhoma, nell’ufficio del segretario personale del Papa.
Lo svizzero che organizzava ‘le cacce grosse’ e il
nippo-portoghese che lo aiutava a trovare la selvaggina
umana, furono loro stessi vittime della loro invenzione.
Infatti furono usati per sfamare alcuni alligatori azzurri,
dall’area denutrita, che si aggiravano nel canale fognario
della periferia di Mombaza12. Ma anche se molte battaglie furono vinte, la guerra non era ancora finita…
… Il generale risultò introvabile.
Capitolo ventunesimo: Epitaffio 3
Forse…
Forse credo di aver amato e odiato… ma l’ho fatto in
corpi che non mi appartenevano completamente. Presi in prestito.
Corpi che galleggiavano in un cosmo tattile, materiale, venale… che bello.
Forse… forse se il creatore, mio padre, avesse intuito il mio istinto non mi avrebbe donato l’esistenza che
ho avuto. Quindi… anche Dio può sbagliare?
Galleggio nel vuoto. Sospeso tra la ‘non vita’ e tra la
‘non morte’.
Né uomo, né macchina e ne essenza…
Capitolo ventiduesimo: Le ali della vanità e dei
becchini piumati
Mi è venuta la fissazione delle rughe e passo il mio
tempo davanti allo specchio a spalmarmi creme e pomate di ogni tipo.
Hemel, non parla mai e mi segue sempre, qualsiasi
cosa io faccia, con devozione e ammirazione, credo...
Finalmente ha capito da quale parte stare.
Ieri mi ha scritto sullo specchio che la cosa che ama
di più è guardare, riflesso nei miei occhi, il volo stanco
e pesante degli enormi Maribù che da qualche mese
alloggiano con noi nel convento.
Hanno sentito l’odore di carne bruciata e putrefatta
che si espande dai piani bassi ed è stato un richiamo
irresistibile per loro.
Quando la scorta di cadaveri è finita, hanno iniziato a
risalire i piani del grattacielo in cerca di cibo; per arrivare fino agli immensi saloni degli ultimi piani, immersi
in nuvole dense come crema.
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Noi ci siamo stabiliti qui da poco, dopo aver racimolato in giro qualche apparecchiatura nuova per
ricollegarmi al mio satellite.
Questi uccelli sono fantastici. Non hanno lasciato
neanche le ossa in giro. Così posso pensare alle mie
rughe e a dipingere, aspettando che il satellite mi comunichi qualcosa di importante.
Oggi sento attorno a me gli sguardi dei Maribù, e
non so se mi fissano per devozione o aspettano la mia
morte per nutrirsi.
Un Messia non può soffermarsi su certe frivolezze,
ma sto passando talmente tanto tempo in involucri
carnosi, che ho assorbito un po’ di vanità e diffidenza
umana.
Amo dipingere al buio. La scelta dei colori è stabilita
da un istinto interiore non estetico, e non dai contrasti
o dagli accostamenti cromatici. E il risultato, a volte, è
stupefacente.
Adesso ho degli spazi che mi consentono di dipingere tele enormi; i saloni dei piani alti del convento, sono
stati concepiti per ospitare qualcosa di maestoso: e
non riesco ad immaginare niente di maestoso che possa
comparare la mia pittura.
L’estetica del mio corpo, abbrutito da droghe pessime, e la malattia del virus contratto nella rete, sono
ricordi lontani. Adesso, grazie a questi fantastici cosmetici, sono bellissimo; tanto da aver fatto innamorare una ex suora.
Dorme. Ha un’aria candida e nello stesso tempo
maliziosa. E’ un angelo; un angelo rinnegato. Ma rinnegato da chi le inculcava una falsa e blasfema dottrina. La sua salvezza mi è stata dettata dai suoi occhi,
e dalla fuga dal convento. Non sarebbe stato giusto
annientarla come ho fatto con le altre suore.
Adesso è adagiata sul mio petto e i lunghi capelli
neri, danno alla pelle, un risalto più netto: sembra
trasparente. Non so se ha paura di me, o mi ama veramente.
Forse è sveglia ora. Sento le manine sottili che mi
accarezzano, e mi abbandono sull’enorme letto in balia di questo piacere carnale, come un naufrago senza
rotta. Anche con gli occhi chiusi, riesco a vedere i
Maribù, che ad ali spiegate ruotano intorno. Uno di
loro è particolarmente affezionato a noi, e posso richiamare la sua attenzione con un semplice movimento
della mano. Sento le sue piume che accarezzano l’aria
acida e rancida del convento, e me lo vedo arrivare sul
letto. Deve aver sviluppato un meccanismo telepatico,
perché è l’unico che non emette versi, ma è anche
l’unico con cui riesco a comunicare.
Hemel solleva la testa e l’appoggia sul mio collo.
Sento la lingua, soffice e vellutata, che mi solletica. Il
colore della sua bocca potrebbe far intendere che è
pronta a lanciare fiammate e mi concede baci incandescenti su tutto il corpo. In questi momenti scopro
quanto di divino e religioso ci sia nell’amore fisico, e
riesco a parlare a Dio senza pronunciare alcuna preghiera. Solo adesso scopro di essere un Messia completo.
Siamo sfiniti e madidi di sudore, ci teniamo stretti,
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col respiro affannato.
- Hemel... prova a parlarmi. T’imploro...
Hemel abbassa gli occhi, in una smorfia che gli rattrista l’espressione. Il suo trauma gli ha causato la perdita della parola. Scoprire di aver passato tutta l’esistenza a invocare una figura maligna, è stato un colpo
troppo forte per la sua fragile struttura psichica. Ha
sempre ostentato un atteggiamento di diffidenza su
tutto e tutti quando era una suora, ma forse era solo
una copertura; una sottile membrana che si è sfaldata
irrimediabilmente.
- Non preoccuparti, dai... Ehi, non piangere. Vieni a
prendere una boccata d’aria.
Hemel si alza dal letto con l’agilità e la grazia di una
libellula che sfiora l’acqua di uno stagno. Le sue gambe sono lunghissime e in pochi passi raggiunge la terrazza, precedendomi. Soffia un vento delicato. I satelliti delle stagioni stanno funzionando a meraviglia. I
capelli e il sottile pareo svolazzano, lasciando intravedere la bellezza dei suoi lineamenti più nascosti. Siamo all’apice del grattacielo. Degli enormi gargoylles,
dall’espressione trucida e agguerrita, sembrano voler
tutelare la nostra intimità.
Non si vede Bucarest da quassù, ma forse non è un
male. Queste nuvole ci isolano dal resto del mondo.
Sento di nuovo le sue braccia che si avvinghiano al
mio collo, in una morsa di dolore e piacere, mentre il
calore delle sue gambe divaricate, sembra voler accogliere tutta la mia maschia irruenza.
Hemel brucia di passione.
Hemel geme.
Hemel è aggrovigliata anima e corpo a me.
Hemel... finalmente vive.
Io, la lascio giocare con tutto quello che ho di umano, mentre il mio pensiero viene richiamato dal volo
del mio Maribù preferito. Nel suo sbattere di ali mi accorgo che ci sono chiari richiami. Ma cosa sta succedendo?
Hemel è inarrestabile, mi ci vuole tutta la forza per
sorreggerla e portarla dal balcone al letto.
Io sabbia, lei mare.
Io acqua, lei sete.
Ho dimenticato di mettere in stand-by il computer e
ho paura di ricevere messaggi importanti dal satellite e
non accorgermene.
Non posso fermarmi proprio adesso, Hemel lo interpreterebbe in maniera negativa. Allora richiamo il becchino pennuto ed escogito un interscambio momentaneo di personalità.
Hemel sembra non far caso al becco dell’uccello che
si avvicina alla mia bocca. Al momento giusto, mi introduco nel Maribù e per non lasciare il mio corpo inanimato, spingo l’essenza del pennuto ad entrare nel
mio.
Finalmente posso avvicinarmi al computer. Sbatto le
ali, ed è come se le avessi sempre avute, mi muovo
sicuro di me stesso, ho un’eleganza che non appartiene a questa specie. Il mio involucro umano, posseduto
dal Maribù, riprende a far l’amore attivamente, anzi:
forse con troppa foga.
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Con il becco digito le chiavi per entrare nel sistema
operativo, e i miei sospetti si rivelano fondati: Ho tre
‘proposte’ nella cartella nera. Il colore nero della cartella sottintende il potenziale negativo dei soggetti esaminati. Non avevo mai ricevuto nessuna indicazione in
questa cartella, sino ad ora, e la cosa mi rende nervoso, ed eccitato... Sento le piume inturgidite, ed esito
ad aprire il file... Non voglio leggerne il contenuto adesso: voglio farlo questa notte, con ritualità e stile. Quando mi volto verso Hemel, scorgo il mio corpo levigato
dalla cosmetica, che cavalca sopra la sua grazia furente. Mi guardo e mi vedo bellissimo. Voglio tornare lì
dentro, inizio ad essere geloso.
Accarezzo il Maribù, appoggiato sul tavolo, mentre
bevo le mie polveri diluite con alcool. Ho una vestaglia
zebrata, il cui strascico è di parecchi metri. Hemel mi
massaggia le tempie con una nuova crema. E’ dura
ammetterlo e sembra blasfemo dirlo, ma le sue manine sono un vero miracolo.
Offro al pennuto ed a Hemel il nettare che ho preparato. Queste polveri sono sublimi e l’alcool è di qualità
eccelsa. Avvicino i bicchieri e li invito a brindare con
me. Le labbra di Hemel e il becco del Maribù sfiorano
l’argento con cui sono formati i disegni in stile liberty
sopra i cristalli. Il colore del liquido e fosforescente,
con piccole bollicine arzille. E mentre si espande il
liquido nel sangue, ho i primi effetti dell’allucinogeno. Il
mondo intero gira, ed io con esso. Una simbiosi di
lucide vertigini accarezza sia il mio corpo che il mio
spirito e le danze degli dèi, pigri e vanitosi, si uniscono
a quelle dei comuni mortali, che per qualche istante
ne assumono l’aspetto.
Hemel danza per tutto il salone, e il Maribù svolazza,
stordito ma elegante, insieme a lei. Una musica si è
creata nelle nostre menti, ed io sento la stessa andatura della melodia e del tempo con il quale il corpo di
Hemel accarezza l’estasi di movimenti più interiori che
esteriori.
Devo essere sincero. Quando mi avvicino al computer, lo faccio barcollando sulle gambe: non so se è
Hemel che mi ha prosciugato le forze, oppure ho abbondato troppo con le dosi delle mie polveri.
Attuo la connessione in 4-d, e prima di posizionarmi
negli occhi le ‘lenti a contatto’ che mi proietteranno le
immagini rubate dal satellite, inserisco gli auricolari e
la mascherina olfattiva. Quando apro i file della cartella
nera, le sensazioni, i suoni e le immagini che vedo
sono a dir poco preoccupanti: il mio satellite ha individuato tre ‘peccatori’ da annientare immediatamente.
Essi rappresentano un nucleo malato che infetterà la
terra e le popolazioni. Un cancro da estirpare: un pazzo stratega che si nasconde dietro la religione, che
annienta popolazioni intere in nome del suo ego; un
uomo dai poteri mentali straordinari, che conduce alla
perdizione chi lo segue, in nome di una dottrina dalle
origini pagane; ed infine una terrorista africana, che
per difendere la sua gente oppressa dai tiranni d’occidente, compie stragi innominabili.
Non mi accorgo che sto levitando a tre metri d’altez-
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za, e Hemel ed il Maribù mi guardano convinti di avere
delle allucinazioni.
Sono ancora in connessione col satellite, voglio salvare i dati nella memoria-aggiunta che mi sono fatto
innestare sotto la cute.
Tre uomini, completamente avvolti in tute sigillanti color
neve, con il viso nascosto da una maschera, irrompono nel salone.
Che siano anch’essi delle allucinazioni? Avrà pensato Hemel.
No!
Sono reali.
Imbracciano delle pompe che si alimentano in piccole cisterne posizionate come zaini sulla schiena. Non
hanno buone intenzioni. Quando mi sconnetto completamente dal satellite e tolgo dagli occhi le lenti, mi
accorgo che il salone è completamente invaso da una
squadra di questi uomini in bianco, che continua a
spruzzare in aria un gas. La maggior parte dei Maribù
giace stecchita al suolo, mentre altri rantolano senza
speranza. Hemel, non so dove prenda la forza, scappa
da tutte le parti, tenendosi un lenzuolo sulla bocca. I
suoi occhi sono completamente coperti di sangue ed
anche la candida pelle del corpo sembra irriconoscibile.
Il torpore dell’allucinogeno mi appesantisce i movimenti,
e mi accorgo di essere vulnerabile. Sono accerchiato
da una trentina di uomini tutti identici. Anche sotto le
tute mi sembrano uguali. Possibile che abbiano esattamente la stessa altezza e la stessa corporatura?
Non riesco a finire questo pensiero che un cilindro trasparente mi ingabbia dall’alto. Un’enorme campana di
una lega che assomiglia al cristallo-infrangibile mi imprigiona. Quattro uomini, con movenze fulminee, sigillano la base sul pavimento, spandendo per tutto il perimetro appoggiato a terra una schiuma collante. La
mia dignità di Messia non lascia trapelare nessuna
forma di espressione dal volto, ma il terrore si sta
impadronendo di me. Vedo il mio becchino pennuto
che giace con gli occhi ribaltati, e Hemel che continua
a difendersi con una forza inumana.
Una squadra di uomini in bianco si avvicina minacciosa al cilindro trasparente. Svitano delle valvole posizionate sul cristallo, e inseriscono le pompe. Nel giro
di pochissimo tempo il gas mi invade i polmoni, lasciandomi inebetito in balia di questo infernale oblio.
Hemel si accorge della mia situazione e la rabbia
prevarica sulla rassegnazione che ormai sembrava
sopraffarla. La sua pelle sembra rigenerarsi, e gli uomini che le stanno spruzzando il gas si fermano come
impauriti. Anche gli occhi sembrano tornare luminosi,
e alla vista di questa donna che si sta illuminando sotto i loro occhi, gli uomini vestiti di bianco indietreggiano, inciampando l’uno sull’altro. Hemel è diventata pura
luce: bianca e candida, e anche se sta preparando
l’offensiva contro il nemico, nel suo sguardo, regna
un’espressione benevola.
Ho perso i sensi, ed anche la mia essenza di Messia. Sono paralizzato.
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Quando apro gli occhi una luce accecante invade l’intero salone. Quasi mi acceca, ma sento che mi sta
rigenerando le forze. La mia mente è ancora offuscata,
e non riesco a formulare nessun pensiero. I miei occhi
si stanno abituando alla luce, e quando li apro completamente, mi accorgo di essere sdraiato sul letto. Tiro
su la testa, di soprassalto, e vedo che nell’intero salone galleggiano sospesi nel vuoto tutti gli uomini in
bianco. Le tute sono rigonfie a dismisura e l’inerzia dei
loro movimenti mi fa capire che sono tutti morti. Una
pace innaturale avvolge l’atmosfera. Inizio a girare per
il salone in cerca di Hemel: se è morta non mi darò
pace.
Non la trovo. E’ come se fosse sparita. La rabbia
s’impossessa dei miei movimenti, e inizio a colpire,
con pugni e calci, tutto quello che trovo davanti. Colpisco la maschera di un uomo, mi frantumo tre dita ma
non emetto un grido: lo stupore è troppo forte. Dietro
quella maschera scorgo un viso familiare: Wlazesku.
La mente mi si schiude ancora di più. Indietreggio barcollando e cado a terra. Mi avvicino ad un altro uomo e
gli tolgo la maschera. Lo stesso volto. Sono tutti cloni.
Droidi costruiti dallo stato. Allora l’uomo che forniva
informazioni ai due hacker non era Wlazesku! E io sono
stato scoperto dal governo: sennò chi può aver mandato questa truppa per ucciderci? Mi sento con l’acqua alla gola. Devo fuggire e distruggere tutte le prove
della mia esistenza terrena.
Ho l’aria di un animale braccato quando la mia attenzione cade su un fascio di luce che proviene dal salone dove sono esposte le mie immense tele. A mano a
mano che mi avvicino la luce è sempre più accecante,
ma stranamente non mi da nessun fastidio. Entro nel
salone e sono completamente accecato. Proseguo con
le braccia in avanti in cerca di oggetti che mi diano un
riferimento tangibile, ma è come se il tempo si fosse
fermato.
L’aria è densa come gelatina e non riesco più a muovermi. Questa sensazione di non-tempo non-luogo mi
riporta indietro nel passato, quando vidi per la prima
volta la Dea della Divina Luce Bianca. Deve esserci un
nesso in tutto questo. Il mio cervello umano non si da
pace.
All’improvviso sento le piccole manine di Hemel che
mi accarezzano il viso. Un benessere inspiegabile mi
invade simultaneamente dalla testa ai piedi, lasciando
però, separata la mia fredda essenza redentrice. Se
un fulmine mi avesse attraversato da parte a parte avrei
sentito meno dolore. I miei occhi non vedono, ma tutto
il mio corpo ha riconosciuto in Hemel la Dea della Luce
Divina Bianca. Avrei voglia di strapparmi la carne dalle
ossa e punirmi in un’eterna tortura. Ma come ho fatto
a non accorgermi prima... La donna che ho amato in
questo periodo era il mio nemico. Il male da redimere.
Sento di non poter resistere a questo oltraggio, la sua
fine deve segnare anche la fine del mio involucro umano. La collera che assale il mio corpo, sfalda il lavoro
delle mie creme, e in un attimo sono di nuovo ricoperto
di rughe. Non ho scampo.
Le sensazioni corporali svaniscono. Di colpo, la mia
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spiritualità si distacca da questo corpo vanitoso, e
sento che il divino creatore vuole aiutarmi a riparare
questo ennesimo errore. Non ho ragione di preoccuparmi, è come se avessi inserito il pilota automatico.
Hemel ormai rappresenta un ricordo lontano, un labile
sentimento che svanisce come cenere al vento.
La sua luce.
Le mie tenebre.
La contrapposizione è violenta, catastrofica. E mentre, per l’ennesima volta la seppellisco, ho come l’impressione di essere fissato da un dolce sguardo. Uno
sguardo caritatevole, e la cosa mi incattivisce ancora
di più.
Quando il convento si sgretola al suolo, in un boato
tremendo, la mia essenza brilla di riflessi bluastri lontano dalla catastrofe, e sento che la vanità svanisce,
trasportata lontano dalle ali del mio becchino pennuto.
Capitolo ventitreesimo: L’inferno sulla pelle
no.
E nonostante questa spettrale sagoma che si confondeva con quello che rimaneva di un cipresso morto
poco distante, il carisma che emanava era quello di un
‘dio’.
I cinesi corsero a perdifiato e raggiunsero ZDimitrij
che stese le braccia per accoglierli.
Quell’albero morto e nodoso dai rami secchi e contorti adesso aveva i suoi piccoli frutti: velenosi…
Lo salutarono come si conviene ad un imperatore.
Le minuscole ali giallastre del collo dei tatuatori presero a sventolare velocemente come ali di colibrì, e
ZDimitrij lo interpretò come la reazione di un cane fedele che scodinzola di gioia alla vista del padrone.
La notte arrivò di pomeriggio. E con essa la nebbia.
In una catacomba sotterranea della chiesa sconsacrata
ZDimitrij s’intratteneva con i tatuatori ed alcuni fedeli.
I piccoli uomini gialli tirarono fuori dai minuscoli bagagli una serie di punte di bambù e delle boccette di
colore. E mentre lo Starec ZDimitrij si nutriva con pezzi di carne cruda e marcia farcita con vermi che si
muovevano nervosamente tra le sue dita, stava sdraiato su una specie di divano di granito, sicuramente il
coperchio di una tomba. I cinesi buttarono delle palline
incolore nei bracieri e nel camino che ardeva al centro
del banchetto.
Il fumo che si sprigionò inebriò tutti i presenti. Erano
ghiandole di una lucertolina cinese quasi estinta, dal
potere allucinogeno.
Una sottile foschia attorniava tutti i presenti, i quali
conversavano tra loro in maniera anomala. Infatti
ZDimitrij, incapace di parlare, emetteva suoni gutturali; i cinesi squittivano versi in una deformata cadenza
orientale; e i fedeli sbraitavano frasi in un dialetto arcaico, a metà tra il latino e il russo.
ZDimitrij a fatica si alzò da quella posizione. La testa
sfiorava i mattoni umidi e ghiacciati del soffitto ad arco.
Tutti si zittirono intimoriti. Poi con una manata liberò il
tavolo dalle poche stoviglie e dai resti del banchetto
marcescente, e fece uscire dalla bocca e dal naso un
subsuono gravissimo.
All’istante due fedeli si precipitarono fuori dalla catacomba e i cinesi presero gli occorrenti per iniziare il
loro lavoro.
Quando entrarono nell’ampio salone limitrofo alla catacomba, trovarono Papa Sigrfisio incatenato nudo sopra
una lastra di gelido marmo nero, come fosse pronto
per essere sacrificato.
Ma la malvagità di ZDimitrij, rinforzata dallo sgarbo
subito da Rezelieu per volere del Papa, aveva partorito
qualcosa di impensabile e di molto più castigante, tanto
che la morte a confronto sarebbe sembrata la soluzione più soft.
Arrivarono dalla Cina. Erano i migliori tatuatori con il
bambù.
I tatuaggi con la penna di bambù sono quelli che fanno più male. La pelle ti rimane gonfia e pulsante per
mesi e la febbre sale altissima, tanto che alcuni uomini non riescono più a tornare normali e rimangono in
un mondo di delirio e pazzia. E questo ZDimitrij lo aveva previsto.
Alla frontiera, in quella lingua di terra fredda e grigia
che divide la Cina dalla Siberia, dove il cielo è opaco e
denso di vuoto, li stavano aspettando dei fedeli di
ZDimitrij. La vettura non era molto spaziosa, ma i
tatuatori erano talmente piccoli che entrarono tutti e
sei nel sedile di dietro.
Era difficile identificare l’età di questi piccoli gnomi
gialli. Avevano un’aura e delle movenze nervose e scattanti che li facevano apparire giovani, ma la pelle, stranamente candida e priva di qualsiasi macchiolina d’inchiostro, rivelava delle ragnatele di rughe sottili, da
ultracentenari.
Per tutto il viaggio non parlarono tra di loro e tanto
meno con i tre fedeli che stavano davanti alla vettura.
Parvero muti. Ma quando arrivarono alla reggia di
ZDimitrj, una chiesa sconsacrata attorniata da una nera
e tetra vegetazione di alberi morti e senza foglie, si
buttarono a terra e diedero sfogo a delle preghiere
convulse e cantilenanti. Quelle vocine stridule, quasi
da sembrare squittii, arrivarono ai sensori di ZDimitrij
che gli si precipitò incontro.
ZDimitrij, uscito dalla soglia della chiesa, si fermò a
contemplarli da lontano. Le protesi di metallo delle
gambe affondarono leggermente nella terra acquitrinosa che si estendeva dappertutto. Era completamente
nudo. I capelli lunghissimi, corvini e unti, gli cadevano
davanti, arrivando a sfiorare le giunture di metallo che
uscivano dalla carne delle gambe come radici che cre- Passarono tre giorni.
scono nel cemento. La pelle aveva delle sfumature che Tre giorni di lavoro assillante per i cinesi, e tre giorni
si vedono solo nei cadaveri, ed era cosparsa di innu- di tortura inaudita per Sigfrisio. Tre giorni di piccoli
merevoli e riluttanti abrasioni larghissime.
martellii su una pelle candida. Di colori e di urla. Il
Non può essere bello chi è rinato per andare all’infer- dolore che il Sigfrisio provava era paragonabile alla
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puntura di milioni di enormi vespe che per tre giorni
rimangono attaccate sulla pelle e pungono in continuazione.
All’inizio del secondo giorno la febbre salì a dismisura, e con essa anche il delirio. Quel delirio accompagnato da una pazzia irreversibile, che ZDimitrij aveva
auspicato per vendicarsi.
Sigfrisio rimase su quella lastra gelida per altri giorni,
in balia dell’oblio che lo aveva avvolto e quasi immobile
a causa del gonfiore sulla pelle. Uno dei fedeli si occupava della sua nutrizione: doveva assolutamente rimanere vivo. Lo imboccava con delle pappette di placenta umana, rinforzate con droghe antidolorifiche, che
sembravano ricostituenti per il fisico ma complicavano
ancora di più il suo vacillante equilibrio mentale.
Negli occhi gli versarono una mistura chimica che lo
teneva accecato e quindi incapace di vedere quali disegni gli avessero fatto sulla pelle.
E quando le forze sembrarono tornate fu il turno dei
piercing.
Quaranta chili di gancetti metallici gli furono applicati dalla testa ai piedi, badando bene di lasciare scoperti i disegni più significativi. Era stato completamente tappezzato di simboli satanici. Tutta la storia del
male era impressa sulla pelle del Papa.
Lo tennero nascosto a ZDimitrij fino alla notte della
ricorrenza della sua presunta morte.
Quella notte il cielo era il più cianotico e cupo che si
era mai visto in Siberia. E nonostante i numerosi falò
sparsi dentro e fuori la chiesa-casa di ZDimitrij, l’aria
che si respirava era tenebrosa e malsana.
Hermann Dhobb e Messaggero si esibirono nella solita sfida con i cinghiali. Fin quando giunse il momento
tanto atteso: i piccoli tatuatori d’oriente mostrarono al
loro Starec il capolavoro che avevano compiuto.
Quello che era stato Papa Sigfrisio ormai era solo un
ricordo remoto. L’uomo che aveva in mano il potere di
quasi tutto il mondo, l’uomo che stava per innescare il
processo irreversibile di una crociata nella Nuova Africa, l’uomo che aveva deciso della vita e della morte di
milioni di esseri umani, adesso era diventato un essere insulso e privo di linfa vitale. Circondato dagli stessi
fantasmi della propria pazzia.
Lo portarono davanti a ZDimitrij.
Cadde a terra senza rendersene conto. Teneva la
bocca aperta, e un rivolo di saliva gli scendeva costantemente dalle labbra, appesantite dai ganci metallici.
Gli occhi fissavano il vuoto, tanto erano pregni di veleno accecante.
Le fiamme dei falò illuminarono quello che sembrava
un espressione di soddisfazione del volto dello Starec.
ZDimitrij si alzò facendo cigolare le giunture delle
sue protesi e urinò sul viso di Sigfrisio, il quale sembrava compiaciuto tanto era inebetito.
fogne, e in lontananza si vedevano le cupole di cristallo che brillavano.
I vetri della vettura erano scuri e sudici. Come scuri e
sudici sembravano i volti delle persone che scesero
dalla vettura sorreggendo un uomo che pareva non reggersi in piedi. Lo presero con veemenza e lo scaraventarono nei pressi di un sottopassaggio maleodorante.
Avvolto da un mantello che gli copriva anche la testa,
rimase nella posizione in cui era caduto senza più
muoversi, assumendo le sembianze di un groviglio di
stracci.
Un passante si soffermò, e con la punta del piede
sollevò un lembo del mantello. Alla vista di quel volto
coperto letteralmente di tatuaggi e ganci metallici se
la diede a gambe più veloce del vento.
Capitolo ventiquattresimo: Rhoma città
semiaperta
Le rotaie stridevano fastidiosamente. La velocità del
treno in quel tratto di ferrovia si era dimezzata. Lady
nDacumba si avvicinò al plexiglas del finestrino e gettò
un’occhiata all’esterno. La carcassa del treno che lei
aveva sabotato, dove morì l’intero contingente del generale Art Van Noveau, faceva compagnia ad altre carcasse di animali. Un cimitero desolante e desolato.
Lady sentì sulla lingua il sapore della ruggine che si
espandeva nell’aria nonostante le chiusure ermetiche
dei vagoni. Poi, incurante degli sguardi morbosi dei
passeggeri seduti vicino, si riaccomodò al suo posto
sculettando.
Sulla sua testa le mosche sintetiche si muovevano in
una danza elettronica. Amava il suo paese e amava gli
animali.
Gli occhi sembravano due gocce di miele quando iniziò a giocherellare con una piccola lucertolina verde
fosforescente.
Il suo compagno di viaggio Ghanfe, l’ex guardia olandese si era guadagnata non solo la fiducia, ma anche
qualcosa di più. La stava osservando dalla partenza
alla stazione di Mombaza12. Sembrava nutrirsi con lo
sguardo. Sicuramente, oltre alla vendetta nei confronti
del generale, seguiva quella donna anche per istinto.
Un istinto maschio, che teneva soffocato dentro da troppo tempo. E l’irruenza e la caparbietà del carattere di
Lady, che ricambiava in eguale misura questa attrazione, la spinsero a fare la prima mossa.
Fu un rituale animale. Animale e a suo modo romantico. Si ritrovarono avvinghiati, sudati e ansimanti, in
un angolo deserto del vagone, e lì consumarono
fremebondi l’atto sublime.
Si erano annusati, e avevano espresso lo stesso sentimento dai ferormoni.
Sfiniti, si accomodarono a terra ancora semi svestiti.
E iniziarono a parlare della missione, sottovoce.
Il tunnel subacqueo, da Algeri a Napoli, fu il tratto più
Una elio-vettura, incrostata di fango e dalla targa in- bello del viaggio.
comprensibile, frenò bruscamente in uno dei tanti imbocchi turistici delle mura del Vaticano. Era notte fon- Alle tre, di una notte contaminata da turisti chiassosi
da e nell’aria aleggiava un penetrante aroma di aglio e e ignoranti, Lady e Ghanfe si ritrovarono a Rhoma, in
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piazza San Pietro, a spacciarsi per una coppia in viaggio di nozze.
Ghanfe, nonostante il buio, indossava un appariscente
paio di occhiali scuri: lui era di casa qui e avrebbero
potuto riconoscerlo. Lady aveva indossato un abito
meno appariscente della sua solita mise di tessuti trasparenti e plastificati. Ad ogni metro, veri e propri
Gladiatori e soldati romani dell’epoca si avvicinavano
alla coppia per vendere souvenir e gadget di ogni tipo.
E i due erano costretti ad interrompere i loro discorsi
tattici e simulare un atteggiamento turistico.
Ghanfe avrebbe voluto passare una notte d’amore
prima di intraprendere l’azione punitiva nei cunicoli
sotterranei del Vaticano e uccidere il Papa. Ma Lady
non volle sapere ragione: lo scopo del viaggio era infliggere il colpo più duro al volere del Vaticano e arrestare la corsa alla sua crociata africana.
Erano quasi arrivati al tombino da dove avrebbero intrapreso il viaggio nei passaggi segreti, ma arrivati sul
luogo trovarono uno strano individuo seduto proprio
sopra l’imbocco.
Da lontano l’uomo sembrava di carnagione scurissima, ma ad ogni movimento si intravedevano dei riflessi
argentei sulla pelle.
Ghanfe era preoccupato.
Lady decise di avvicinarsi il più possibile. A pochi
metri, constatarono che si trattava di un uomo, sicuramente occidentale, di bassa statura, con una testa
sproporzionata, completamente ricoperto di tatuaggi e
piercing. Sicuramente il peso effettivo dell’uomo era la
metà di quello che risultava: l’altra metà era composto
dal metallo e dall’inchiostro.
L’ometto li vide e li chiamò a sé. Poi tirò fuori dalla
tasca una luce. Una brillantissima lucina blue. Una
luce che sembrava scaturire dal nulla. E iniziò a passarsela da una mano all’altra, facendole fare delle
piccole evoluzioni in aria.
Quando decise di rivolgere la parola alla coppia, che
gli si era parata d’innanzi con gli occhi spaventati, lo
fece in latino. Due minuscoli occhietti azzurri quasi
trasparenti, brillavano dal viso ricoperto da brutture. Era
attraversato continuamente da scatti convulsi che lo
facevano sobbalzare, e parlava ad una velocità inumana: era pazzo. Completamente uscito di testa.
Ghanfe e Lady si avvicinarono all’uomo. Sicuramente era un giocoliere di strada, un ambulante in cerca di
spiccioli. E i due, per evitare qualsiasi atteggiamento
che poteva destare un ben che minimo sospetto, donarono all’uomo una manciata di spiccioli.
L’ometto, riconoscente, dopo aver preso i soldi fece
un gesto a Lady, come per invitarla a raccogliere sul
palmo della mano un dono in cambio del loro bel gesto. Anche se timorosa, la donna la cui pelle si mischiava con i tratti più bui della notte romana, allungò
il braccio. L’ometto fece scivolare lentamente la brillante lucina blue e in un attimo si disegnò nell’aria un
cerchio luminoso. I tre furono avvolti in una densa spirale elettrica. Un fulmine avvitato su se stesso. I loro
corpi si ritrovarono sospesi in aria, tremanti e privi di
volontà propria. Poi la dissoluzione si consumò in un
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lampo.
Sparirono nel nulla, lasciando solo una traccia luminosa nella retina dei turisti che stavano seguendo la
scena a pochi passi, applaudendo come inetti.
Vicino al tombino non rimase più niente, solo l’eco
degli applausi dei turisti, ormai lontani.
La riunione dei vertici del Vaticano aveva assunto dei
toni drammatici.
Avevano tenuta nascosta la notizia del rapimento del
Papa, convinti che avrebbero risolto il tutto in poco tempo. Ma erano passati mesi, e neanche gli uomini migliori dei servizi segreti erano riusciti a trovare una soluzione.
Adesso era giunto il momento di rendere pubblica la
notizia.
Il generale delle guardie olandesi Art Van Noveau,
reduce dalle deludenti imprese nella Nuova Africa, aveva gli occhi pieni di lacrime e a stento riusciva a non
singhiozzare. Affianco a lui il cardinale globale
Epistacchius, i Monsignori delle repubbliche
ifraterrestre, e gli Angelici delle galassie, avevano lo
sguardo basso di chi ha perso un riferimento di vita:
Dio in terra.
Rimasero in un silenzio disarmante che durò parecchi minuti. La decisione era presa. Rimaneva da decidere quando divulgarla alle agenzie. Nessuno aveva il
coraggio di intervenire e proporre date. Alcuni colpi di
tosse convulsa interrompevano ogni tanto quel silenzio glaciale che avvolgeva tutto quello che si trovava
nel perimetro olografico della ‘sala riunioni speciale’.
Quando all’improvviso le pareti dell’ampio salone iniziarono a tremare. Onde fuori sintonia stavano devastando il perfetto ordine degli oggetti, dei quadri e di
quant’altro si trovava vicino alle pareti. I loro volti si
tinsero di panico: qualcuno aveva interrotto bruscamente
la configurazione olografica e il salone stava per dissolversi. Ma nessuno aveva iniziato la procedura di Shutdown. I presenti alla riunione, dovevano firmare con una
password personale il foglio elettronico che ruotava
automaticamente nell’ovale di cristallo inscritto nel tavolo. Solo una persona poteva attivare questa procedura senza avere nessun consenso: Il Santissimo Papa.
Negli sguardi degli alti prelati militari passavano come
diapositive impazzite le più svariate emozioni. La preoccupazione del rapimento, la difficile situazione della
divulgazione della notizia, la sala riunione segreta che
sembrava essere stata manomessa. Fino a che le pareti
olografiche si dissolsero del tutto e lasciarono il posto
ad una visione orripilante. Un uomo dall’aspetto satanico si era seduto sul trono papale. Nei suoi piccoli
occhi brillava una luce dello stesso colore di quella
che sembrava scaturire dalla sua mano: blue.
Lady nDacumba aprì di colpo gli occhi. Il suono delle
campane era assordante. Con lo sguardo smarrito
cercò di capire dove si trovava. Sentiva un grosso peso
sulla gola e, quando si tastò con la mano, scopri di
essere incatenata ad un muro. Un collare di ferro la
costringeva in un angolo di quella che sembrava una
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cella senza finestre. Le sue ossa presero a tremare,
ma non per il freddo. Si sforzò di ricordare. Ma l’ultima
cosa che le venne in mente fu lo sguardo dell’ometto e
la luce blue. Poi, nel buio, con le mani protese in avanti, cercò il suo compagno, invano. Una lacrima le sgorgò spontaneamente. Di Ghanfe nessuna traccia.
Il generale Van Noveau e il Cardinale Epistacchius
erano ubriachi, e non solo di gioia. Le campane stavano suonando a festa da più di mezz’ora. Il popolo
rhomano si era radunato in piazza e non riusciva a
capire quale evento speciale fosse successo. Il Cardinale, quando vide la piazza gremita fino all’inverosimile decise che era arrivato il momento di fare l’annuncio.
Quando alle sue spalle comparve il Papa, Rhoma
esplose in un boato di fanatismo fuori dal tempo. Senza gli anelli e ganci metallici e rivestito con una pelle
sintetica, il Santo Padre aveva riacquistato tutto il suo
sproporzionato splendore e stava mandando in visibilio la sua gente. Ma il generale che si trovava a fianco
a lui sul sacro balcone, non poteva fare a meno di osservare quegli strani riflessi di luce blue che zampillavano dalla tasca della tonaca.
Rhoma ignorava quello che era successo.
Rhoma fu informata.
Ma dell’aiuto che il Papa aveva ricevuto dal Messia…
neanche una parola.
Capitolo venticinquesimo: Incubo: ad ognuno il
suo
Quel mostro sulle rotaie, in letargo da qualche tempo
nell’immediata periferia di Bucarest, per la seconda
volta sembrò rianimarsi. I ragazzini che stavano giocando nelle vicinanze e dentro la cabina della locomotiva, scapparono spaventati dal frastuono del motore
che si era rimesso in azione.
Quel vecchio cuore malandato aveva ripreso a battere ed a pulsare.
Doveva essere un segno di Dio. Questo treno pieno
di rifiuti radioattivi, finalmente se ne andava via.
Messaggero si avvicinò a ZDimitrij con una strana
espressione negli occhi. La sua già duplice personalità mannara era arricchita di qualcosa che lo Starec
notò immediatamente.
ZDimitrij era nella sua stanza tombale, in uno dei pochi
momenti intimi che si concedeva. Solo Messaggero
poteva stare affianco a lui in questi attimi. Nessun altro.
Davanti ad uno specchio dai riflessi deformati e con
alcuni pezzi rotti, lo Starec si sforzava di parlare. Era
uno spettacolo deprimente. Vedere questo dio con
poteri inumani che riusciva solo ad emettere versi era
penoso.
ZDimitrij dopo un paio di tentativi si fermò. Prese la
spazzola per i capelli e se la passò dolcemente sulla
criniera nera e unta.
Posò la spazzola sul comò, costatando che moltis-
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simi capelli erano rimasti attaccati. In quella posa sembrava un enorme bambola decadente di altri tempi. Poi
fece segno a Messaggero di avvicinarsi.
Si stava spargendo sul viso un talco bianco che copriva le macchie cianotiche, quando notò una strana
luce alle sue spalle.
Messaggero, in posizione eretta, stava offrendo al suo
padrone una soluzione allo sconforto.
ZDimitrij lesse nella mente di Messaggero la risposta al la sua tristezza
La vendetta era compiuta e la depressione era piombata improvvisa. Bastava seguire il suo discepolo. Lui
conosceva la persona giusta per guarirlo.
ZDimitrij si stava facendo regolare le protesi delle
gambe ad un’altezza inferiore. Doveva mimetizzarsi e
passare inosservato.
Aveva un’espressione confusa e remissiva, e sembrava privo di quel carisma che lo elevava in qualsiasi
situazione.
Quando Messaggero e ZDimitrij uscirono di nascosto dalla chiesa sconsacrata, nessuno si accorse di
loro. I fedeli dormivano sparsi in ogni angolo, come
zingari ubriachi, e loro, nascosti in mantelli ampissimi,
sgattaiolarono fuori, in una gelida mattinata che non
avrebbe mai visto la luce del sole.
NDacumba si teneva strette le mani sulle orecchie. Il
suono digitale di quelle campane era assordante e
penetrava nella carne fino alle ossa.
Quel rumore passò come una tromba d’aria su una
città, lasciando il segno della distruzione. Un ronzio
gli accerchiava la testa in una morsa insopportabile.
La cella buia di colpo si trasformo in un locale luminoso. Ma la ragazza era talmente inebetita dal dolore
che provava che non si accorse del bagliore che stava
diradando il buio.
In un attimo si sentì alleggerita dal peso della catena
sul collo, e quando si voltò vide Ghanfe che le sorrideva, con la catena e una chiave laser tra le mani.
Rimase impietrita in un mix di sensazioni astratte.
Dove era stato fino ad adesso il suo compagno?
Cos’era quello strana luce negli occhi?
Poi svenne.
Ghanfe e nDacumba appena fuori dalle mura del Vaticano salirono su un Elio-taxi.
Destinazione: il più lontano possibile da Rhoma.
Ghanfe le parlava, ma nDacumba non poteva sentire.
E rimaneva a fissare il blue dei suoi occhi.
Quel blue che non aveva mai visto.
Sigfrisio era attorniato da un nugolo di arzilli cortigiani. Lui sembrava avesse inserito il pilota automatico.
Dava risposte, firmava documenti, organizzava, tutto
ad occhi chiusi; in un sonno piombato in un momento
inatteso.
Quando sentì che la pressione attorno a lui si era
diradata, aprì gli occhi dolcemente, quasi con timore.
E vide il suo insostituibile Rezelieu che parlottava con
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il generale Art Van Noveau.
Volete farmi la cortesia?
E con un ampio gesto a rallentatore il Papa si alzò
dal trono e sporse le braccia in avanti.
I due si inginocchiarono dapprima e poi gli baciarono
ripetutamente gli anelli delle mani.
Sigfrisio sembrò scocciato. Aveva una strana fretta.
- Suvvia miei discenti: levatemi queste pesanti vesti… Non vedo l’ora di togliermi questa pelle.
Rimasto completamente nudo fu condotto nel salone
da bagno da Rezelieu e Van Noveau.
I due sembravano stremati. Il Papa per certe cose
era rimasto bambino, e per togliergli i vestiti ci volle
tutta la pazienza del mondo.
Iniziò a scappare con la pretesa di essere rincorso, e
per un’ora buona fece dannare i suoi due affezionati
servitori.
Quando si calò nella vasca-piscina, con una mano
teneva un enorme calice con uno strano frullato e dall’altra una pipa di cristallo che emanava volate di un
fumo celeste.
Rezelieu e Van Noveau stavano tirando il fiato ai bordi della grande vasca, aspettando ordini. Sigfrisio alzò
la pipa in alto più volte, facendo delle smorfie infantili
imbronciate. Rezelieu se ne accorse e immediatamente si precipitò sul display che regolava i componenti
chimici mischiati nell’acqua che servivano per sciogliere la pelle sintetica del Papa.
Uno strano moto fece ondeggiare l’acqua. Dalla vasca iniziarono a scoppiettare delle frizzanti bollicine
bollenti, e ne scaturì un denso vapore.
La pelle sintetica del Papa si diluì nei solventi lasciando riaffiorare i colori dei tatuaggi.
Nessuno specchio nel salone da toilette, solo colonne di marmo pregiato e muri dipinti con candidi cupidi
attorniati da prosperose donnone e uomini martirizzati.
Rezelieu e Van Noveau si avvicinarono alla vasca con
dei teli di seta. Nei loro volti un finto velo celava l’imbarazzo alla visione di quei tatuaggi.
Sigfrisio aveva ancora voglia di giocare. Con uno scatto
avvolse i suoi collaboratori con gli asciugamani facendoli sbilanciare e barcollare. Le risate di Sigfrisio erano qualcosa di orribile, paragonabili a brusche frenate.
I tre si ritrovarono in un vortice di seta bianca e di vapore. oscillarono sul bordo della vasca e precipitarono
nella parte alta, dove l’acqua era più di tre metri. Prima
di capire cosa stava succedendo si ritrovarono sul fondo a strattonarsi per liberarsi dagli asciugamani, ormai
stretti come pericolosi cappi.
L’unico dei tre che mantenne la calma fu il generale
Van Noveau, che sapeva nuotare. Il Papa e Rezelieu
furono colti dal panico più totale. Il Papa si ritrovò con
l’asciugamano stretto al collo. Rezelieu, che nel tentativo disperato di tornare a galla si stava arrampicando
sul dorso del Papa, non riusciva più a capire dove iniziava e dove finiva l’acqua.
che si doveva ancora svegliare, chi se li trovò d’innanzi
non poté fare a meno di notarli.
Messaggero e ZDimitrij parevano due Mante nell’oceano. Il vento faceva svolazzare il lembi dei mantelli neri
come morbide pinne nell’acqua e i colletti tenuti fin
sopra la testa gli davano l’aspetto di mostri senza occhi.
Quei sentieri sterrati e gonfi di gelido fango portavano
in un campo di nomadi. Messaggero aveva avuto modo
di conoscerli durante una perlustrazione notturna insieme a Hermann Dhobb.
Si erano trovati faccia a faccia con due zingare ed
erano rimasti atterriti. Le donne avevano delle bende
avvolte disordinatamente sul volto e sulle mani. Degli
aloni giallastri emergevano dalle fasciature, queste
anime perse in corpi che sembravano marcescenti erano molto affini a ZDimitrij. Anch’esso sembrava più
morto che vivo, ma lui non aveva la lebbra.
Le donne alla vista dei due animali venuti dall’inferno,
che ringhiavano come se stessero vedendo un cinghiale,
anziché scappare o dare segni di spavento, li accolsero tra le loro braccia, coccolandoli come cuccioli.
La loro amicizia fu cosa veloce. Come veloci furono i
rapporti carnali che ebbero.
Il campo nomadi era composto di sole donne. Donne
dall’aspetto orribile, streghe rinnegate anche dal male,
con, in più, la maledizione della lebbra.
Ma una notte messaggero, che non aveva certo paura di questa malattia, si dimostrò affettuoso nei confronti di una di loro. E lei per ricambiarlo si srotolò le
bende purulente dal corpo.
Quello che ne seguì fu puro amore. La donna-zingara-strega, rivelò una pelle e dei lineamenti bellissimi.
Quelle coperture servivano a tener lontani occhi indiscreti; queste amazzoni dell’est erano la medicina giusta per ZDimitrij.
Le orecchie non si stapparono più. Due rivoli di sangue essiccato solcavano il padiglione auricolare e parte del collo.
nDacumba fece un triste sorriso a Ghanfe, invitandolo ad avvicinarsi. Ghanfe, che sedeva di fianco al conducente del taxi, decise che era arrivato il momento di
levare il sipario di ambiguità che celava il suo volto.
L’Elio-taxi sorvolava una zona industriale, le ciminiere erano ovunque, e zigzagando a velocità sostenuta
sfiorava queste costruzioni antiche, tra una nube nera
e l’altra.
nDacumba fece segno a Ghanfe di far rallentare l’andatura. Ghanfe, si rivelò disinteressato alla richiesta
della compagna e girò lo sguardo verso il piccolo oblò
della portiera.
nDacumba irritata strattonò il conducente per attirare
la sua attenzione. Ma quando il taxista si voltò rimase
atterrita: il volto era quello di Ghanfe. Davanti a lei c’erano
due Ghanfe.
I contorni della vista iniziarono a tremare e offuscarsi.
Camminare a quella altezza, con le protesi regolate Tutto, intorno a lei, pareva dissolversi come liquido. Si
molto basse, per ZDimitrij fu una vera fatica, e nono- girò alla sua destra e vide il terzo clone. Poi un altro, e
stante gli sforzi per passare inosservati nel paese un altro ancora: la macchina scoppiava di uomini dal-
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l’aspetto identico a Ghanfe, e tutti ridevano a squarcia
gola, prendendosi gioco di lei.
Ma come poteva essere successo?
Il suo fidato compagno non poteva essere il protagonista del suo incubo.
nDacumba stava annegando.
In quel groviglio di braccia, gambe, e facce… tutte
uguali, nello stretto abitacolo del taxi, l’ossigeno venne a mancare.
Due, quattro, cento mani bianche, sulla sua pelle
nera. E quegli occhi che non aveva mai visto nel suo
compagno… i suoi occhi non avevano mai riflesso quella esile lucina blue…
I polmoni di Sigfrisio stavano iniziando a gonfiarsi
d’acqua. Rezelieu giaceva senza più vita, con un telo
di seta stretto al collo: l’acqua assassina aveva dato
vita ad un mostro. I teli di seta bianca si muovevano
nel liquido lenti e minacciosi come tentacoli di una
piovra malvagia.
Una folta schiuma esplose proprio vicino a Sigfrisio.
Il generale Van Noveau si era tuffato per l’ennesima
volta alla ricerca del santo Papa.
Quella vasca non era un oceano, eppure tutto si era
trasformato. Le onde altissime si mischiavano ai vapori, i tentacoli della piovra di seta sbucavano dall’acqua
per poi ricadere minacciosi e assetati di morte.
Il generale stava per raggiungere Sigfrisio… l’aveva
visto in fondo alla vasca. Il corpo si prestava, inanimato, al moto dell’acqua, senza reagire. Come un pupazzo.
Sigfrisio e Rezelieu, Van Noveau e la piovra di seta,
erano burattini, e l’acqua il burattinaio.
Van Noveau aveva quasi raggiunto il Papa. Dentro di
sé era nata, come una malattia incurabile, l’idea che
Sigfrisio era già morto. E questo gli aveva tolto la metà
della forza che possedeva.
Mancavano poche bracciate. Riusciva quasi a vedere
gli occhi semiaperti.
Non riuscì a crederci… Sigfrisio stava sorridendo, con
lo stesso sorriso atrocemente birichino che gli si stampava in faccia quando tornava bambino e si voleva fare
acciuffare.
Van Noveau si sforzò di cancellare quei pensieri assurdi. Ma più si avvicinava e più quel sorriso era reale.
Lo raggiunse. Le forze lo avevano quasi abbandonato
del tutto. Ora era la sua fede a dargli la benzina: il suo
credo fanatico era l’ultima risorsa.
Allungò le braccia per cingerlo e portarlo in superficie, ma una morsa gli strinse le caviglie.
Il dolore saliva, lento e inesorabile, dalle gambe fino
al torace. Poi la gola: i tentacoli della piovra di seta
erano animati dal male.
La furbizia di Sigfrisio non sopravalse la cattiveria della
piovra. Stava fingendosi morto per sfuggirgli. Ma l’assassina dai tentacoli bianchi, in una danza macabra,
sprigionò un latte acido dai pertugi distribuiti lungo le
estremità.
Il liquido turbinò per tutta la vasca, come un candido
veleno letale.
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ZDimitrij davanti a quelle donne avvolte dalle bende si
sentì a suo agio. Il morale sembrava essere tornato a
grandi passi.
Entrati nella carrozza più grande, si fece subito riassettare le protesi all’altezza standard. Con l’unico inconveniente che doveva rimanere sdraiato. Ma quella
posizione era congeniale per quello che avrebbe dovuto fare.
Né cibo, né bevande, né droghe: solo, e subito, sesso!
Le donne, quattro in tutto, si avvinghiarono allo scheletrico corpo di ZDimitrij, carezzando con foga e delicatezza quella pelle mummificata e cosparsa di macchie senili e cicatrici.
L’apice del piacere fu sfiorato più volte, ma grazie alle
capacità delle donne, volutamente mai raggiunto e risparmiato per un esplosiva eruzione finale.
Messaggero non volle rimanere a guardare: la donna
di cui si era invaghito si stava prestando al piacere del
suo padrone, e la cosa lo intristì.
Stava ripercorrendo il sentiero, mentre continuava a
sentire i gemiti di piacere e i versi di ZDimitrij che uscivano dalle finestre della carrozza.
In un attimo quei gemiti si trasformarono il strazianti
lamenti e urla di terrore.
Messaggero stentò a voltarsi. Poi si convinse a farlo
ma molto lentamente.
Quando vide la coda possente di Hermann Dhobb
che sbucava minacciosa dall’ingresso della carrozza,
intuì quello che stava succedendo.
Hermann aveva seguito il suo padrone e Messaggero
senza farsi scorgere. Non era abituato a vedere ZDimitrij
in quegli atteggiamenti. E quando vide le donne gettate sul su di lui pensò che gli stessero facendo qualcosa di negativo.
Quando Messaggero raggiunse la carrozza, poté solo
constatare che le donne giacevano a terra senza vita,
mentre ZDimitrij, soddisfatto, accarezzava il suo cucciolo.
Messaggero venne colto da una rabbia senza confini, un sofferenza fisica che non aveva mai provato. A
pochi passi da lui riconobbe il corpo della donna di cui
si era invaghito, trucidato dalle fauci assassine di
Hermann. Un dolore acuto lo attraversò offuscandogli
la mente.
Sotto gli occhi di ZDimitrij e di Hermann, Messaggero assunse delle sembianze mannare che non aveva
mai raggiunto.
La dentatura metallica si triplicò in tre file, e con essa
anche l’apertura delle fauci. S’ingobbì e si riposizionò
a quattro zampe: in una posa d’attacco.
L’andatura del taxi aveva preso la velocità di un razzo. Sfrecciava come impazzito tra i comignoli altissimi, pericolosamente. nDacumba si ritrovò a testa in
giù: l’Elio-taxi aveva preso a roteare su se stesso. Svanito il denso fumo nero di uno scarico, gli si parò davanti un enorme muro di mattoni secolari. L’impatto fu
semplicemente devastante.
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Il Blind-Train-Suicide aveva preso una direzione inesistente. Anche i binari erano spariti. E i passeggeri di
questo folle viaggio di sola andata, erano troppo occupati nei loro incubi per constatare che dagli enormi
finestrini del treno non esisteva nessun paesaggio.
Capitolo ventiseiesimo: A forma di calvario
Lady nDacumba aveva resistito, non voleva arrendersi a quella situazione anomala, ma adesso tutto il suo
corpo vibrava di piacere. Non aveva il coraggio di aprire
gli occhi. Aveva paura che quel godimento, rovente e
avvolgente come magma, potesse cessare da un
momento all’altro.
Sentiva ancora il calore delle mani. Dieci, cento mani,
che la accarezzavano dappertutto. E con esse, il respiro di mille bocche che l’avvolgevano come un vento
desertico. Si abbandonò completamente a queste sensazioni, e si lasciò trascinare come un ramoscello nella
corrente del fiume.
Le emozioni divennero sempre più forti: il confine tra
piacere e dolore si stava assottigliando. Le mani che
accarezzavano quella pelle nera stringevano la carne
come morse. Le bocche che la stavano sfiorando divennero tagliole con denti mortali.
Spalancò la bocca per urlare ma di nuovo le sue orecchie tornarono a non sentire niente.
Tutto intorno a lei si tramutò in dolore. Quando finalmente si decise ad aprire gli occhi si trovò avvolta da
pezzi di corpi umani, che, anche se staccati e
maciullati, erano animati da una vita propria.
La pelle scura del suo corpo era quasi completamente cosparsa di sangue, e le mani sembravano voler
staccarle dei lembi della sua carne.
Quelle mani aggrappate sulle gambe, sulle braccia,
dappertutto, assunsero l’aspetto di insoliti ragni.
Lo spazio per muoversi era poco, ma con scatti felini
e con altrettanta rabbia cercò di liberarsi da quelle prese.
Liberatasi da più mani-ragno da una parte, se ne ritrovava il doppio dall’altra. Lo strazio della sofferenza
si tramutò in pazzia. Nessuno avrebbe potuto resistere a quella tortura.
Con gli occhi gonfi di sangue e lacrime, cercò di trovare una via d’uscita. Si accorse di trovarsi in uno spazio ancora più stretto; ma non era l’abitacolo del taxi
dove poco prima aveva avuto l’incidente.
Non c’erano porte. Solo una finestra che non rifletteva luce, e tanto meno la faceva entrare dall’esterno.
L’esterno era lì… Ma non esisteva.
Guidò le lunghissime gambe rigonfie di lividi ed
ematomi verso quel vetro. Lo sforzo fu smisurato. Quei
pezzi di braccia e quelle mani pesavano tantissimo.
Le sembrava di aver percorso chilometri, ma in realtà
non si era mossa di un millimetro.
Si bloccò di colpo, consapevole di essere impotente.
Con il corpo non sarebbe mai riuscita a fuggire. Invocò
le sue mosche cyborg, ma non sentì più quel ronzio
elettronico.
Allora richiuse gli occhi e provò ad immaginarsi libera
da quelle mani. E in un attimo vide infrangere la vetrata.
Una mano sbucò dal bordo metallico della cisterna,
tutto ricoperto di una materia viscida e appiccicosa,
scivolando più volte prima di tenersi salda. Ce ne erano a dozzine di queste cisterne sul treno, e tutte avevano dei simboli di divieto in codici intergalattici. L’alto
contenuto radioattivo era catalogato in codici Sthaller
e segnava la percentuale più alta di pericolosità.
Le cisterne erano disposte sulle piattaforme dei vagoni in maniera disordinata. Avevano un aspetto malsano; sembravano cancri appollaiati come mostri, pronti a procurare sofferenza, distruzione e morte.
Sigfrisio sbucò dal fondo di una cisterna, convinto di
riemergere dalla sua vasca-piscina. Era talmente frastornato da quello che era accaduto che non si rese
conto di dove si trovava realmente. Ruzzolò pesantemente fuori, cadendo a peso morto. Rotolò per qualche metro verso la fine della piattaforma, col rischio di
precipitare giù dal treno in corsa.
Aveva l’aspetto di un neonato appena partorito. Era
letteralmente coperto di gelatina schiumosa e fumante e teneva gli occhi serrati.
Il colpo che aveva subito cadendo gli aveva tolto il
respiro.
Di nuovo in apnea.
Aprì di scatto la bocca dopo parecchi minuti di
catalessi che lo stavano conducendo in un viaggio
verso la morte e con uno sforzo immane inspirò aria
nei polmoni.
Sembrava riemerso dagli abissi più oscuri. Si portò
istintivamente le mani sugli occhi per togliersi quella
patina che gli impediva di aprirli e sentendosi la testa
più pesante del solito, si accorse di trovarsi ribaltato
all’ingiù con metà corpo sporto all’estremo della piattaforma.
Era impossibile dare una collocazione reale alle immagini che gli vorticavano davanti alle pupille per poi
infrangersi come bombe al napalm dentro il cervello.
Fu come se la coscienza malata di un feroce omicida, rimasta inerme per tutta la durata di una vita condotta nella perdizione, si fosse risvegliata di colpo e
con la punta di un trapano gigante stesse creando nel
suo cranio una voragine per far defluire il dolore del
rimpianto.
L’aria che respirava divenne incandescente, e di nuovo il non-panorama variò.
Con un colpo di reni sollevo il cranio da una vampata
di fiamme nata dal nulla. Crebbe per un istante di aver
sventato il pericolo, ma quando sentì il fuoco divampa- Non si vedeva niente. Il buio era denso come crema.
re dentro la sua carne, dentro i polmoni, negli occhi, ZDimitrij allungò una mano nel tentativo di accarezzadappertutto, capì che la strada del suo calvario era re una delle sue bestie. Non le vedeva, ma sentiva il
parecchio lunga.
loro respiro affannato.
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Hermann Dhobb e Messaggero si erano affrontati in
uno scontro all’ultimo sangue e… E adesso ZDimitrij
non ricordava più niente.
Chi aveva avuto la peggio tra i due?
Dove si trovava in questo momento?
Il pavimento iniziò a muoversi. Il movimento divenne
sempre più veloce, sino a sembrare un terremoto.
ZDimitrij cadde a terra. E con le mani ossute tastò
quella che sembrava una moquette semovente. Quei
peli ispidi e duri fra le sue dita scorrevano come falci in
campi di grano. Poi una mano rimase impigliata ad un
gancio aprendogli un solco nella carne.
ZDimitrij ebbe l’impressione di essere trascinato lontano in balia di un moto. Come una rock star che si
getta dal palco sui suoi fan e si lascia trascinare. Ma
quei ganci appuntiti che sbucavano gli stavano
dilaniando il corpo.
nDacumba era piombata sulla vetrata infrangendola.
ZDimitrij si era ormai convinto che quel tapis roulant
maligno nascondeva trappole mortali anche per un
semidio.
Sigfrisio stava bruciando come una torcia, in preda
ad una folle corsa senza meta. Sfondò una porta e le
fiamme con l’impatto si smorzarono. Ricadde all’interno di un luogo dove riuscì a vedere per un attimo
una mandria compatta di cinghiali impazziti che trascinavano sul dorso il suo nemico redivivo.
Allora Rezelieu aveva mentito? Non era riuscito ad
uccidere ZDimitrij?
Oppure quell’uomo era veramente dotato di poteri inumani?
Non fece in tempo a finire il pensiero che una pioggia
di vetro gli cadde sulla testa come una tempesta.
nDacumba gli ruzzolò addosso e alcune schegge
penetrarono in profondità nella sua carne.
I cinghiali alla vista di quelle fiamme, anziché scappare, gli andarono incontro.
ZDimitrij era disteso a corpo morto sulle loro schiene, arpionato dai denti aguzzi.
Nella cabina di pilotaggio non vi era presenza umana, solo uno strano bagliore dai riflessi bluastri. Il BlindTrain-Suicide stava percorrendo il suo ultimo viaggio
verso la fine.
Il Messia era riuscito nel suo intento. Aveva catturato
quelli che secondo lui erano i peggiori occupanti della
terra, ed era riuscito ad attirarli in una specie di imboscata sul treno diretto verso la morte.
Poi li aveva abbandonati al loro stesso oblio, facendoli annegare nelle loro paure, prima di eliminarli per
sempre; consapevole che non si sarebbero mai redenti.
Il viaggio sarebbe finito nella zona morta della Nuova
Africa, dove il male avrebbe trovato la sua tomba perfetta.
Una figura a dir poco ambigua e sfuggente si stava
avventurando lungo il corridoio delle carrozze del tre-
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no.
- Biglietti… Biglietti prego!
Aveva una voce non definibile. E ad ogni passo sembrava mutare d’aspetto.
Si avventurò verso l’ultima carrozza, dove bagliori e
rumori sembravano farla da protagonisti.
Continuando a ripetere la solita frase aprì la porta
della cabina.
Una puzza nauseante uscì come un gas mortale. Un
cumulo di carne abbrustolita stava bruciando al centro
della cabina. Cinghiali…
- Biglietti… Biglietti pre… !?
L’uomo interruppe di colpo quello strano loop. Il treno
aveva rallentato bruscamente la corsa. Le rotaie fecero stridere il metallo dei binari e una polvere rossiccia
di ruggine e scorie radioattive si addensò per tutto il
treno.
L’uomo allungò lo sguardo verso le nuvole, come se
potesse vedere oltre quell’orizzonte.
Gli occhi erano quelli di Ghanfe, poi divennero quelli
del giovane Neandertal, poi ancora mutarono e assunsero l’espressione triste di quelli del flagellato. Il viso,
come il corpo si trasformò in un mutazione continua.
Tutti gli esseri umani che il Messia aveva usato per le
sue missioni passarono in rassegna, mescolandosi in
una creatura mostruosa. L’unica cosa che univa in
simbiosi questo essere era lo sconforto. Qualcosa non
stava funzionando. Qualcosa non era andato per il verso giusto. Il burattinaio era rimasto impigliato nei fili
dei suoi burattini.
Il Blind-Train-Suicide si stava fermando. Un rumore
agghiacciante si librò nell’aria. Il Messia era continuamente attraversato dai corpi che si susseguivano e
barcollando in preda ad una danza sconnessa corse
fuori dalla cabina. Si precipitò verso la porta della carrozza.
Bloccata. Tutti i congegni sembravano inibiti. La coda
del mostro di metallo sulle rotaie stava proseguendo il
cammino accartocciando i vagoni dell’estremità in una
curva di rottami scintillanti. Anche le rotaie si staccarono in enormi ricci di metallo e ruggine. La terra
desertica si sbriciolò sotto quel peso insostenibile e
un enorme polverone offuscò la luce artificiale che illuminava quel paesaggio nucleare.
- Padreeeeeeee!! Non mi abbandonare proprio adesso! Dammi un ultima possibilità…
Il Messia stava squarciando la gola ai suoi contenitori umani in urla disperate. Come poteva essere accaduto? Non c’era via di scampo, era rimasto intrappolato.
Di ZDimitrij, di nDacumba e di Papa Sigfrisio erano
sparite le tracce. Non c’erano più.
La disperazione del Messia non aveva confini. Correva come un forsennato alla ricerca di una via di fuga.
Intanto sentiva il frastuono del marasma metallico che
si stava avvicinando sempre di più alla sua carrozza, e
come un’onda anomala alta duecento metri si sarebbe
abbattuta su di lui. Il fragore di quell’enorme coda di
scorpione, rovesciata su se stessa, destò nDacumba
che stava conducendo la locomotiva alla velocità massima, ad una distanza ancora non del tutto fuori dal
57
pericolo.
La testa del mostro aveva riacceso gli occhi. Adesso, anche senza corpo, quel mostro sembrava ancora
più vivo. Una pioggia di scintille schizzava dagli ingranaggi e ricadeva sul terreno facendolo friggere come
acqua santa su posseduti. L’onda sonora creata dal
treno che si stava sgretolando aveva costretto sia
Sigfrisio, sia ZDimitrij, a tenersi strette con le mani le
orecchie. La fuga dalla carrozza degli incubi fu puramente dettata dall’istinto. nDacumba era immune a
quel frastuono assordante, e con ancora i pezzi di vetro conficcati nella carne aveva intuito la via della fuga
fuori dal vagone. Quel treno era identico a quello che
aveva sabotato.
Gli altri due la seguirono senza rendersi conto di quello
che stava succedendo, intenti solo a ripararsi dal rumore.
Sganciare la locomotiva fu un gioco da ragazzi per
Lady ma quando vide in un angolo Papa Sigfrisio e il
suo ex braccio destro ZDimitrij la tentazione di non
scappare e di sacrificarsi per ucciderli fu smisurata.
Lady spinse quei rudimentali marchingegni in avanti
e la locomotiva tagliò l’aria infetta e putrida come un
coltello bollente appoggiato sul burro. Si voltò a guardare quei due esseri accartocciati in un angolo della
locomotiva, impauriti e più morti che vivi.
La curva dei binari le consentì di visionare l’impatto
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che ebbe la coda del treno quando ricadde sulla carrozza dove il Messia sembrava irrimediabilmente confinato.
Le cisterne di liquidi radioattivo si schiantarono con
una violenza inaudita e presero ad esplodere in successione, in una nuvola violacea di gas e detriti metallici che si estese come un fungo atomico fino a perdersi nell’atmosfera più alta.
Poi l’onda d’urto cancellò tutto…
O quasi.
Capitolo ventisettesimo: Epitaffio 4
Non ho occhi ma vedo. Non ho bocca ma parlo. Non
ho vita ma vivo… e non muoio.
Guardo affianco a me, non dovrei essere solo. Ho
portato coloro che sono riuscito, con la forza, a sconfiggere…
Il nulla.
Qualcosa non è andato come previsto. Sono solo. Di
loro tre non c’è la minima presenza.
Vago nel nulla. Galleggio nel vuoto. E mentre naufrago fuori e dentro me, riesco ad osservarmi, come fossi
all’esterno. E vedo solo brandelli di carne che penzolano attaccati a dei rottami, mentre volteggiano nel cosmo. E a guardarla bene, quella ferraglia mi ricorda
qualcosa. Forse una croce.
Forse…
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