L`evoluzione dell`intelligenza dall`uomo a Internet

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L`evoluzione dell`intelligenza dall`uomo a Internet
Comune di Modena
Settore Istruzione – Cde – Cdh
Provveditorato agli Studi di Modena
2° salone di idee e servizi per la scuola
Modena 6 – 10 settembre 1999
In collaborazione con
Provincia di Modena
Emilia Romagna Teatro
L'evoluzione dell'intelligenza dall'uomo a Internet
Giuseppe O. Longo
Università di Trieste
Sommario
L’intelligenza naturale è legata alla comunicazione, allo scambio di messaggi e alla cooperazione
cognitiva e affettiva. Questo scambio si è via via intensificato nel corso dell’evoluzione biologica e
culturale. Oggi anche le macchine informatiche (il calcolatore e le reti) partecipano al flusso
comunicativo, potenziandolo, ma anche modificandolo e filtrandolo. In questo articolo vengono
considerate le possibili novità che lo sviluppo delle reti e l’intelligenza artificiale apporteranno al
concetto e alle manifestazioni dell’intelligenza. La rete è lo stadio incipiente di una creatura
planetaria che, almeno sotto il profilo cognitivo, manifesta caratteristiche emergenti e trascende
tutti gli individui (persone e macchine) che ne fanno parte. A sua volta l’intelligenza artificiale ha
tentato di creare per via algoritmica una mente disincarnata e isolata dal contesto ambientale,
ottenendo buoni risultati nell’ambito logico-formale, ma incontrando gravi limitazioni nell’ambito del
riconoscimento percettivo, del buon senso e della competenza semantica. L’intelligenza artificiale
ha dunque creato una mente che per certi versi è complementare a quella dell’uomo. La diversa
storia delle due intelligenze ne spiega le differenze, che trovano il loro nodo nella presenza e
nell’assenza, rispettivamente, di un corpo immerso nel contesto del mondo.
1. La coevoluzione biotecnologica
Chi riflette sui rapporti complessi e per certi versi inquietanti tra uomo e tecnologia parte spesso
dall'ipotesi che l'uomo e la tecnologia siano due entità distinte nella loro essenza e nella loro storia
e, inoltre, che oggi la tecnologia si evolva con grande rapidità, mentre l'evoluzione dell'uomo è
lentissima o addirittura ferma.
Qui vorrei partire da premesse opposte: primo, la distinzione tra uomo e tecnologia non è netta
come spesso si ritiene, perché se l'uomo produce la tecnologia, questa a sua volta concorre a
formare l'essenza dell'uomo. In secondo luogo, e di conseguenza, l'evoluzione dell'uomo non si è
affatto arrestata, anzi, grazie alla tecnologia e in genere alla cultura, è oggi più rapida che mai. Le
due evoluzioni, dell'uomo e della tecnologia, si sono intimamente intrecciate in un'evoluzione
"bioculturale" o "biotecnologica", al cui centro sta una sorta di simbionte in via di formazione,
l'homo technologicus, costituito da una componente umana e da una componente macchinica
molto rilevante. Questo intreccio è conseguenza del mutamento subito negli ultimi tempi dalla
tecnologia, che oggi non coinvolge più tanto o solo la materia e l'energia, quanto l'informazione: le
"macchine" più tipiche della nostra epoca non sono le presse o le locomotive, bensì i calcolatori.
Bisogna anche tener presente che nell’homo technologicus la componente artificiale si presenta
sotto due forme: da una parte l’uomo è collegato al calcolatore e alle reti, dunque viene prolungato
dalla tecnologia; dall’altra esso è invaso da una tecnologia informatico-protetica, spesso
miniaturizzata se non addirittura nanometrica, che lo trasforma organo per organo rendendolo
sempre più simile ai cyborg della fantascienza.
Qui c’interessa forse più il primo aspetto, ma non è da trascurasi neppure il secondo, che si attua
con l’introduzione nel corpo, in particolare nel cervello, di piastrine integrate capaci di supplire a
funzioni importanti o di potenziare capacità naturali di movimento, sensibilità, memoria o
elaborazione. Anche la seconda modalità opera dunque una trasformazione sia del corpo sia della
mente.
Nell'evoluzione biotecnologica sono all'opera sia meccanismi darwiniani sia meccanismi
lamarckiani, in un groviglio difficile da sbrogliare. Inoltre i simbionti uomo-calcolatore si stanno
collegando a rete tra loro per formare una sorta di creatura planetaria, la quale, almeno sotto il
profilo cognitivo, potrebbe costituire un nuovo stadio evolutivo di tipo supersocietario .
Rispetto alla lentezza dell'evoluzione biologica, l'evoluzione biotecnologica è segnata da
mutamenti sempre più rapidi e affannosi, come se mancassero retroazioni negative equilibratrici a
frenarne la corsa: i lenti processi della natura, che procede per tentativi ed errori, sono qui
cortocircuitati da rapidi meccanismi di attuazione grazie ai quali gli adattamenti immediati alle
novità tendono a radicarsi subito nella struttura profonda della società.
Da questa rapidità di acquisizione e incorporazione segue che l'evoluzione culturale, rispetto a
quella biologica, ha caratteristiche più "catastrofiche", si svolge in uno squilibrio permanente, non
ha il tempo di procedere con gradualità verso i nuovi stati e verso le nuove configurazioni. Essendo
un sistema in cui si manifesta la cosiddetta criticità autoorganizzata, la cultura è sede di continue
"valanghe", piccole e grandi, i cui effetti si propagano nel sistema ristrutturandolo e trasformandolo.
Rispetto alla dinamica biologica, che pure si situa in quella zona critica tra rigido ordine e disordine
totale che è stata chiamata margine del caos, la dinamica culturale è molto più tesa e sostenuta. Il
margine del caos culturale è più turbolento di quello biologico per un apporto più concitato e
frequente di innovazioni. I "tempi storici" sono più brevi e convulsi dei "tempi biologici". La cultura
non procede in modo cauto ed esitante verso il nuovo equilibrio, ma sembra precipitare con
veemenza crescente in stati sempre squilibrati. Si osservi che ad accrescere questa dinamica
contribuisce la globalizzazione delle comunicazioni e delle interazioni, per cui le fluttuazioni si
propagano e si amplificano molto di più, e più in fretta, che per il passato.
Poiché, secondo la mia premessa, la tecnologia (come il corpo), fa parte integrante dell'uomo,
l'homo technologicus non è "homo sapiens più tecnologia", bensì "homo sapiens trasformato dalla
tecnologia", dunque è un'unità evolutiva nuova, sottoposta a un nuovo tipo di evoluzione in un
ambiente nuovo. A riprova dei cambiamenti indotti dalla tecnologia, si consideri il fatto che certe
minorazioni (autismo, paraplegie, dislessie ecc.), che un tempo condannavano all'inferiorità e
all’isolamento, possono oggi (e ancor meglio potranno in futuro) essere corrette da protesi
meccaniche e cognitive, che consentono al complesso "uomo+protesi" di muoversi nel nuovo
mondo a tecnologia intensa che oggi ci circonda come e meglio dei "normali". Insomma, l'ambiente
si è modificato ad opera dell'uomo e della sua tecnologia e di conseguenza si è dovuta modificare
anche la specie ospitata nell'ambiente: da questa coevoluzione è scaturita una nuova unità
evolutiva. L'interazione tra uomo e calcolatore, in particolare, produce un simbionte cognitivo in cui
certe facoltà sono ipertrofiche e altre sono atrofizzate rispetto a quelle dell'homo sapiens: ogni
tecnologia è un filtro.
Benché sia immerso nel mondo naturale e sia quindi soggetto alle sue leggi, il nuovo simbionte
vive anche in un mondo artificiale, fortemente segnato dalle informazioni, dai simboli, dalla
comunicazione e, sempre più, dalla virtualità. Questa duplice immersione rispecchia la fase di
transizione in cui si trova oggi l'uomo, il quale vede il futuro con gli occhi e i parametri del passato
e rischia di giudicare il domani secondo valori che tra poco non esisteranno più. Siamo incerti tra
progresso e conservazione, siamo combattuti tra un nomadismo avventuroso, alimentato dalla
perdita delle certezze antiche, e il rimpianto di un sedentarismo improntato ai valori stabili della
tradizione. Questa spaccatura divide non solo persone diverse (da una parte gli ottimisti a oltranza,
dall'altra i nostalgici), ma passa talora attraverso uno stesso individuo, con effetti destabilizzanti. Ci
sentiamo più padroni del nostro destino, perché ai ciechi meccanismi dell'evoluzione biologica
abbiamo affiancato quelli consapevoli del finalismo razionale. Ma l'enorme responsabilità di questa
conquistata autonomia ci sgomenta e ci fa a volte rimpiangere i tempi in cui le regole erano
emanate da un'autorità esterna e non erano faticosamente conquistate per essere di continuo
trasgredite.
Inoltre, all'unicità, per quanto discutibile, del prodotto dell'evoluzione biologica, si sostituisce, con la
progettazione razionale, un ventaglio di possibilità tra cui scegliere è difficile e anche rischioso, sia
perché le scelte tendono a rispecchiare gli interessi di un gruppo di potere (o l'ideale rassicurante
di un controllo sociale attuato mediante le pratiche eugenetiche ottimistiche e semplificanti della
bioingegneria) sia perché, a causa delle limitazioni della nostra capacità computante, i calcoli, le
previsioni e le simulazioni che sostengono il finalismo cosciente riescono a illuminare gli scenari
del futuro solo per breve tratto di tempo, mentre gli effetti delle decisioni possono essere durevoli e
irreversibili. Impadronendoci dei meccanismi di decisione, insomma, possiamo trasformare le
contingenze più miopi e improvvisate in necessità storiche dalle conseguenze incalcolabili e
irrimediabili. Questo senso "tragico" di trapasso dalla contingenza all'irreversibilità, che ciascuno di
noi sperimenta nella propria vita, si trasferisce così a livello di specie.
Ne segue che come l'evoluzione biologica trascende alla lunga la casualità dei meccanismi locali
di mutazione e selezione per formare un disegno avente un suo determinismo a posteriori, per
quanto debole; così l'evoluzione biotecnologica trascenderebbe i meccanismi, pur sempre locali,
della finalità cosciente e razionale, per generare uno sviluppo che potrebbe rivelarsi lontanissimo o
addirittura in contrasto con gli scopi di volta in volta dichiarati e perseguiti dai progettisti. Infatti, per
la complessità del reale, il contrasto tra la brevità dei tempi abbracciati dalle capacità di previsione
e la permanenza dei condizionamenti determinati dalle scelte si manifesterebbe con effetti di tipo
aleatorio. Insomma: la casualità (a livello locale) dell'evoluzione biologica produce a livello gobale
molto rigore deterministico (molta necessità); il determinismo (a livello locale) dell'evoluzione
biotecnologica produce a livello globale molta casualità. In questo senso l'evoluzione bioculturale
avrebbe lo stesso carattere di "fatalità aleatoria" dell'evoluzione biologica, anche se per un
meccanismo diverso e quasi opposto.
La consapevolezza diffusa di questa responsabilità nei confronti del futuro, la contrazione dei
tempi di progettazione e di attuazione, per cui il sistema non riesce ad assestarsi in uno stato
stabile prima di essere spinto verso il successivo, e il consumo sempre più vorace di risorse
(anche culturali, artistiche, creative e in genere mentali) portano a stati psicologici che vanno
dall'ansia all'entusiasmo parossistico all'indifferenza catatonica all'affaccendamento demenziale
alla fuga nell'irrazionalità alla ricerca del trascendente. Sono, questi, i segni premonitori di un
cambiamento radicale dell'umanità, che potrebbe anche configurarsi come la fine dell'"uomo a
tecnologia limitata", come lo conosciamo. Resta aperto il problema se l'homo technologicus saprà
prenderne il posto e con quali esiti.
2. Tecnologia ed epistemologia
E' stato detto che la tecnologia è il destino dell'uomo. Se per tecnologia s'intende l'insieme dei
modi e degli strumenti con cui l'uomo interagisce con l'ambiente e opera su di esso per conoscerlo
e modificarlo, allora quest'affermazione è quasi tautologica.
In quest'ottica si può anzi dire che il primo e più importante strumento tecnologico è il corpo, coi
suoi organi di senso, di elaborazione e di attuazione. Da sempre il corpo umano è stato ampliato
da protesi e apparati "artificiali" che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d'interazione, in
senso sia conoscitivo sia operativo. Tanto che non è facile stabilire dove termini il corpo: affermare
che esso è racchiuso nei suoi limiti "topologici", segnati dalla pelle, è - sotto il profilo comunicativo
e operativo - arbitrario e sostanzialmente inesatto, tanto più che, come si è detto, oggi la
tecnologia invade il corpo.
L'anello d'interazione mondo-uomo-mondo (o uomo-mondo-uomo), mediato dai sensi e dagli
attuatori, naturali e artificiali, costruisce il mondo nell'uomo (epistemologia) e, insieme, l'uomo nel
mondo (ontologia), allargandosi in una spirale profondamente radicata nella storia. Questa storicità
ha le sue origini nel fatto contingente ma ineludibile che la vita è nata in un determinato ambiente
fisico, con certe caratteristiche di gravità, densità, pressione, temperatura, composizione chimica e
così via, e che gli organismi si sono evoluti in una complessa interazione con tale ambiente,
modificandolo e modificandosi via via.
In questo senso, le categorie a priori di Kant, in cui s'inscrive tutto ciò che l'uomo (come ogni altro
organismo) può conoscere (e, aggiungo, fare), sono categorie di origine fisico-biologica, basate
come sono sulla nostra fisiologia e sull'interazione coevolutiva con l'ambiente in cui questa
fisiologia si è sviluppata e raffinata. I determinanti fisici dell'ambiente si sono inscritti nel corpo e
nei suoi prolungamenti strumentali, sono ivi riassunti e costituiscono quei filtri a priori di ogni
esperienza (e di ogni azione) che nel loro complesso costituiscono l'epistemologia (che è
inseparabile dalla prassi). In questo senso le categorie sono a priori per l'individuo, ma a posteriori
per la specie.
E' ragionevole supporre che l'orizzonte percettivo di ogni essere vivente, e di ogni specie, sia molto
particolare e condizioni la sua visione del mondo. Se ne può indurre, in particolare, che la natura
degli esseri umani è condizionata, a tutti i livelli e in maniera essenziale, dalle caratteristiche e
dalle limitazioni dei processi sensoriali, che a loro volta dipendono dall’organizzazione anatomica e
fisiologica degli organi di senso e del cervello. L'ipotetico abitante di Sirio, dotato di un corpo
gassoso e di un cervello diffuso in tutto l'ambiente, avrebbe un'epistemologia difficilmente
confrontabile con la nostra; il suo mondo (cioè il risultato della sua interazione costruttiva con il
mondo) sarebbe talmente diverso dal nostro da rendere forse problematica la comunicazione con
noi anche a livello elementare (per esempio mediante segnali binari).
Ora, se la tecnologia è un'estensione del corpo, anch'essa si trascrive nelle categorie a priori e
contribuisce a determinarle poiché, al pari del corpo, contribuisce a conoscere e a modificare
l'ambiente, noi stessi e la nostra interazione col mondo. Se questa visione è corretta, le categorie a
priori non sono date una volta per tutte, ma, come la fisiologia e la tecnologia, sono un prodotto
della storia e sono suscettibili di modificazioni evolutive proprio perché sono in un rapporto
d'interazione con gli strumenti "tecnologici" in senso lato, ereditati per via biologica o costruiti
dall'uomo.
Il carattere "essenziale" (direi "ontologico") della tecnologia deriva dal fatto che l'adozione di ogni
tecnologia particolare diviene ben presto irreversibile: essa cala in profondità, si radica nella
fisiologia della società che l'adotta e la modifica in modo più o meno esteso. La tecnologia è
oggetto, a livello individuale e sociale, di apprendimento o abitudine o assuefazione, quindi è
destinata ad essere programmata rigidamente, cioè a scendere negli strati profondi della fisiologia
fino ad essere usata con la stessa inconsapevole disinvoltura con cui usiamo la "tecnologia" del
nostro corpo. Quando la tecnologia si inscrive nei circuiti di base essa scompare come fatto
cospicuo e perspicuo (come sono "scomparsi", proprio perché sono diventati onnipresenti e
abituali, l'elettricità, i telefoni, i calcolatori ecc.). E' proprio allora che essa provoca i suoi effetti più
importanti: è quando gli occhiali diventano invisibili che essi agiscono più sottilmente sul modo in
cui vediamo le cose. Si pensi a tutti gli sforzi per produrre calcolatori "socievoli" (user-friendly)
onde attenuare gli effetti traumatici dell'interazione tra uomo e macchina e allargare la zona di
anestesia che facilita l'assuefazione tecnologica e quindi la sua programmazione rigida nei circuiti
della società e dell'individuo, che così diviene appunto homo technologicus. Proprio quando
scompare, la tecnologia comincia dunque a incidere sulle categorie primarie, modifica la nostra
epistemologia e, attraverso di essa, la nostra ontologia.
Di conseguenza, quando la tecnologia è scesa di livello ed è ormai cablata, la sua eliminazione
(cioè la distruzione dell'abitudine) richiede uno sconvolgimento difficile e doloroso del sistema
incipiente "homo technologicus più ambiente artificiale". D'altra parte anche il suo permanere porta
a uno sconvolgimento dell'uomo come lo conosciamo. E' un caso di doppio vincolo, analogo al
dilemma senza uscita di fronte al quale si sono trovate le culture tradizionali nei confronti della
cultura occidentale: farsi fagocitare accettando una trasformazione snaturante richiesta
dall'adattamento ai nuovi schemi? Oppure resistere, mantenendo la propria natura, cosa che
potrebbe portare alla morte per inedia culturale in seno a un più ampio sistema ostile e
incompatibile?
Così l'uomo di fronte alla tecnologia: adattarsi ad essa (cioè all'evoluzione bioculturale) subendo
un inevitabile snaturamento? Oppure resistere (e poi, a che livello: di singolo, di città, di comunità,
di nazione, di specie?) e "morire" per l'inevitabile avanzata del progresso tecnologico alimentata
dal denaro e dal mercato.
3. L’estroflessione cognitiva
Nel quadro della tecnologia in generale la tecnologia dell'informazione ha avuto, ha e
presumibilmente avrà uno sviluppo eccezionale. Questo sviluppo deriva da alcune circostanze di
natura tecnica e da altre di natura culturale.
Se consideriamo la storia della civiltà, è facile vedere che essa si è svolta all'insegna di un
aumento progressivo degli scambi d'informazione. Ma, ancor prima, ciò vale per la storia della
biologia, la quale è caratterizzata da un flusso sempre più imponente di messaggi. Insomma non
sono tanto o solo la materia e l'energia che contribuiscono all'evoluzione, biologica prima e
culturale poi, quanto l'informazione scambiata tra le varie unità evolutive.
Pensiamo alle grandi tappe dell'evoluzione biologica: la formazione delle prime cellule procariote, il
passaggio dalle cellule procariote alle cellule eucariote, il passaggio dalle cellule isolate ai metazoi
e poi dagli organismi isolati alle colonie e alle società animali fino ad arrivare alla società umana:
tutti questi grandi stadi sono caratterizzati da un aumento dei flussi informazionali tra le varie unità.
Addirittura, le unità evolutive si possono definire come i luoghi all'interno dei quali lo scambio di
messaggi è particolarmente intenso.
La tecnologia dell'informazione s'inquadra in questa visione storica o evolutiva basata sulla
comunicazione, che si è svolta prima a livello biologico, poi a livello culturale e oggi a livello
bioculturale o biotecnologico. Alla base del grande sviluppo di questa tecnologia c'è la cosiddetta
rivoluzione microelettronica, contrassegnata non soltanto dal rapidissimo e costante incremento di
efficienza (ogni quattro o cinque anni nasce una nuova "generazione" di calcolatori più potenti e
compatti), ma anche - e questa è forse la caratteristica più sorprendente - da una continua
diminuzione dei costi. Questo fenomeno è unico nella storia della tecnologia: il calcolatore che sta
comodamente sul nostro tavolo o sulle nostre ginocchia ci può collegare col resto del mondo ed
eseguire programmi di grande complessità a un costo straordinariamente basso.
La diminuzione drastica dei costi ha eliminato in gran parte quelli che erano i filtri classici della
comunicazione. Un tempo gli scambi d'informazione erano limitati da barriere la cui ragione ultima
era il costo della comunicazione e che si concretavano in varie forme: la famiglia, la chiesa, la
scuola, la stessa scienza ufficiale, tutte istituzioni che attraverso i canoni dell'ortodossia
decidevano ciò che doveva essere diffuso nella società e tramandato alle generazioni future.
Oggi queste barriere si stanno sgretolando, o sono già crollate, e si sta costituendo un ambiente
comunicativo globale entro cui gli scambi si fanno sempre più rapidi, sempre più facili e sempre
meno controllati. Ciò comporta naturalmente l'insorgere di alcuni gravi problemi, perché non
sempre la qualità dei messaggi scambiati aumenta con la loro quantità: oggi la comunicazione
soffre di un degrado che coinvolge il significato, o meglio il senso, e assume una problematica
caratteristica autoreferenziale.
Se ci si limita a considerare l'aspetto quantitativo, si ha l'impressione che questa crescita rapida e
tumultuosa degli scambi preluda, almeno sotto il profilo cognitivo e informazionale, alla formazione
di un nuovo stadio evolutivo, che potremmo chiamare supersocietario e che s’incarna nella rete. In
altre parole, lo scambio di messaggi tra i componenti della rete diventa sempre più rilevante a
paragone del flusso informazionale interno ai singoli componenti: ciò prelude alla nascita di un
soggetto di conoscenza e intelligenza più ampio, che possiede molte delle caratteristiche di un
formicaio. Il formicaio è percorso da un flusso di messaggi che non possono essere ricondotti ai
messaggi che si scambiano i singoli insetti. Il riduzionismo non basta a spiegare il comportamento
comunicazionale del formicaio: sotto il profilo della comunicazione e dell'azione la colonia
trascende le singole formiche. E' un soggetto di comunicazione collettivo.
Anche l'umanità è, da sempre, un soggetto collettivo, nel senso che manifesta comportamenti
cognitivi sociali e di massa (come le mode) che non possono essere ricondotti totalmente al
comportamento dei singoli individui, ma esigono una spiegazione o almeno una descrizione a un
livello più elevato. Il comportamento collettivo è basato sulla comunicazione che da sempre gli
esseri umani esercitano tramite la parola (e non solo). Con la parola, in particolare con la parola
scritta, i messaggi vengono estroflessi e diventano oggetti, sia pur molto particolari, mediante i
quali gli esseri umani possono agire e da cui vengono influenzati.
Con la parola nasce una rete ante litteram, che collega tra loro gli individui e consente loro
comportamenti collettivi. Rispetto alla comunicazione orale, quella scritta rappresenta un grado
ulteriore di estroflessione: l'oggetto ha un grado di permanenza e di fisicità molto superiore (scripta
manent) e sulla scrittura si può costruire una civiltà che ha il senso della storia.
Con la scrittura nascono i libri, le biblioteche, i giornali, insomma quei depositi esterni di dati che
ben conosciamo e che possono essere sfruttati per incrementare le capacità della memoria
individuale (endocranica) di ciascun uomo. Questa memoria esterna, inoltre, si accresce, lievita e
si sviluppa nel corso del tempo, creando, in interazione con gli esseri umani, un soggetto di
conoscenza collettivo cui partecipano anche gli individui da tempo scomparsi: le loro conoscenze e
le loro idee sono riassunte e incarnate nei testi, nelle formule, nelle opere d'arte, nelle macchine.
Quindi accanto alle risorse interne di memoria e di elaborazione di cui ogni individuo è dotato fin
dalla nascita e che si sviluppano e arricchiscono nel corso dell'esistenza, vi sono le risorse
esterne, costituite finora soprattutto da risorse di memoria oggettivata (biblioteche, cataloghi,
dizionari, enciclopedie) cui ciascuno può attingere. Oggi su questa strada si è andati più avanti:
con l'avvento dei calcolatori è stata estroflessa, almeno in parte, non solo la memoria ma anche la
capacità di elaborazione. Con il collegamento in rete di calcolatori ed esseri umani, infine, si ha la
formazione di un soggetto di conoscenza ed elaborazione connettivo (per distinguerlo dal soggetto
collettivo tradizionale), che costituisce una sorta di creatura globale o planetaria, simile per certi
versi a un formicaio, ma comprendente anche elementi "artificiali".
L’estroflessione delle capacità di elaborazione è un fenomeno importante. Affidando al libro o alla
formula le nostre conoscenze, le cristallizziamo in una forma ben definita, per così dire oggettiva,
sulla quale si può intervenire per lavorarla e trasformarla appunto come un oggetto fisico. Fino ad
oggi questo processo di elaborazione era affidato agli uomini, ma oggi che il calcolatore comincia a
possedere una certa capacità di elaborazione propria, incarnata nei programmi, è possibile
trasformare gli scritti in modo parzialmente automatico. Insomma, parte della nostra capacità di
elaborazione viene delegata alle macchine.
Le macchine intervengono sempre più sulle informazioni per regisatrarle, elaborarle e trasmetterle,
e si crea così una sorta di circuito in buona parte esterno all'uomo: più le macchine diventano
potenti, più siamo portati ad affidar loro la custodia e l'elaborazione dei nostri dati. Ciò comporta
una crescita della massa dei dati elaborati e quindi la necessità di un più ampio ricorso alle
macchine, in un circolo che si autoalimenta. Questo flusso di dati si svolge per la maggior parte
all'esterno degli esseri umani, che ne dovrebbero essere i destinatari finali. Ma i meccanismi di
costruzione e coagulazione di questi dati sembrano essere sempre più estranei agli utenti.
Insomma l'informazione rischia di sfuggire al controllo dei singoli e, un domani, dell'umanità nel
suo complesso, per diventare appannaggio di questo grande complesso macchinico che si sta
formando - e ciò in un certo senso è paradossale - proprio con il volonteroso aiuto degli uomini.
Per alcuni le prospettive che così si aprono sono allarmanti, per altri sono entusiasmanti. Si può
ipotizzare che la formazione incipiente di questo soggetto biotecnologico collettivo o connettivo
planetario, dotato per il momento solo di caratteristiche cognitive, preluda alla formazione di un
soggetto di tipo più ampio, più articolato e integrato, simile ai soggetti umani che ben conosciamo:
in particolare un soggetto anche etico, dunque responsabile. Da tempo, con il meccanismo della
delega specialistica, siamo abituati ad affidare parte delle nostre competenze, decisioni e azioni ad
altri esseri umani (il medico, l'avvocato, l'ingegnere), e così facendo deleghiamo anche la
responsabilità delle azioni che lo specialista intraprende per conto nostro. Ma con la delega
tecnologica, cioè con la delega alle macchine di parte delle nostre competenze e azioni, a chi
spetta la responsabilità di queste azioni?
Spesso si sente parlare di "errore umano" e in questa locuzione si annida un'ironia involontaria ma
tragica: nel momento in cui l'uomo, che si è estromesso da certi processi, cerca di rientrarvi
provoca dei disastri: sembra che, in questo senso, il processo della delega tecnologica abbia un
carattere irreversible. Ma per quanto concerne le sue azioni, la macchina non è (ancora) un
soggetto giuridico, mentre l'uomo di fatto non lo è più: si è creata una sorta di terra nullius eticogiuridica che tuttavia non potrà restare tale a lungo. Prima o poi la macchina potrebbe diventare
soggetto morale e quindi responsabile (le ricerche d'intelligenza artificiale potrebbero accelerare
questo processo di umanizzazione).
4. La creatura planetaria
Consideriamo più da vicino la rete globale, che non è esagerato considerare come lo stadio iniziale
di un soggetto cognitivo di tipo nuovo, di quella che ho chiamato creatura planetaria, sede di
un’intelligenza supersocietaria. Ma la rete è anche una grande e potente metafora, al pari della
metafora del "cervello elettronico" in voga alcuni anni fa. Al di là delle realtà funzionali e operative
in cui s'incarnano e da cui traggono origine, tali metafore hanno un forte effetto di suggestione
mitopoietica, e su ciò torneremo. Queste caratteristiche derivano alla rete dal fatto che essa è un
metacanale nel senso in cui il calcolatore è una metamacchina: con un programma opportuno un
calcolatore può essere trasformato in una macchina particolare e può svolgerne le funzioni; allo
stesso modo la rete, proprio perché congloba metamacchine, può (e soprattutto potrà) svolgere le
funzioni di svariati media, adottandone il linguaggio e manifestandone le caratteristiche. In questo
senso si può parlare di un proteiforme medium planetario che è di volta in volta archivio,
enciclopedia, mercato, televisione, arena di discussione, bacheca pubblica, testo, autore di storie,
ricercatore, portalettere...
Tutto ciò sotto l'egida dell'interfaccia digitale, che costituisce sia la frontiera della rete (ciò che non
è digitale non vi può accedere) sia la membrana semipermeabile che le consente di fagocitare ciò
che sta all'esterno e che magari le si oppone: la conversione da analogico a digitale è l'arma di
conquista della rete. Ciò consente di capire meglio l'autoreferenzialità (linguistica e testuale) della
rete: ciò che è fuori di essa semplicemente non esiste, e in questo la rete somiglia a un romanzo,
che, tautologicamente, contiene tutto ciò che gli serve e non fa riferimento a nulla che ne stia fuori.
Del resto è esperienza comune che ricevere, elaborare e, anche, redigere un testo fuori della rete
è sempre più arduo.
Come si è detto, alla rete fanno capo cospicue realtà operative. Gruppi di scienziati fanno ricerca
in rete, cioè collegandosi tra loro e con le banche dati. Poiché l'ubicazione geografica dei
ricercatori non ha più importanza, si assiste alla dissoluzione dello spazio inteso in maniera
tradizionale, così come a suo tempo la parola scritta portò a una parziale dissoluzione del tempo.
La dissoluzione dello spazio si accompagna a un potenziamento cognitivo: gli scienziati collegati in
rete con le macchine riescono a fare ricerche e a conseguire risultati che nessuno di loro,
isolatamente, riuscirebbe a ottenere.
Per esempio esistono teoremi di matematica così ampi e complessi che nessun essere umano può
dominarli nel senso in cui, ad esempio, domina il teorema di Pitagora. Magari si possono capire i
singoli passaggi della dimostrazione, ma non si riesce ad averla presente nel suo complesso sì da
poter dire "ho capito." E tuttavia questi teoremi sono stati dimostrati e fanno parte della
conoscenza collettiva: ma qual è il soggetto di questa conoscenza? Spesso si sente affermare che
oggi sappiamo molte più cose dei Greci: ma chi è che sa queste cose? Un singolo individuo scelto
a caso probabilmente sa meno cose di Aristotele, mentre il soggetto collettivo (oggi connettivo)
costituito da tutta l'umanità corredata dalle biblioteche, dalle formule, dai calcolatori elettronici,
questo soggetto ne sa certamente più della totalità dei Greci.
Quanto all'aspetto metaforico e suggestivo della rete, esso concerne soprattutto la conoscenza e
l'intelligenza. La conoscenza assume forme nuove, non più gerarchiche, bensì, appunto, "a rete."
Non più apprendere, dunque, ma documentarsi, non più studiare ma consultare, non più
organizzare il sapere intorno a concetti e idee di fondo, ma accumulare dati relativi a parole chiave.
L'idea della documentazione ruota intorno al mito dell'enciclopedia universale, della biblioteca
completa, e costituisce l'essenziale e sensibilissimo punto di contatto tra sapere individuale e
sapere collettivo, il tramite per cui le conoscenze accumulate dal mondo possono riversarsi nel
singolo per abbeverarlo indefinitamente. Da sistematica e organica, la cultura diviene pletorica e
frammentaria, si alimenta dell'enorme capacità delle banche di dati e dell'illimitata velocità degli
elaboratori che dànno sostanza a uno dei grandi miti generati dalla metafora della rete, quello
dell'onniscienza. Ma il mito dell'onniscienza resta tale, poiché questo cordone di alimentazione è
un canale di capacità limitata. Per quanto ricca sia la biblioteca, per quanto vasta l'enciclopedia,
per quanto sterminata la banca di dati, ciò che ogni individuo ne può trarre è una quantità
d'informazione che non supera le sue limitate capacità. Tutto il resto è superfluo, anzi rappresenta
un eccesso che può portare allo smarrimento, all'ansia, all'angoscia. Oppure porta a scambiare il
possesso dell'enciclopedia con la padronanza del suo contenuto, il controllo dei dati con il dominio
dell'informazione.
Inoltre l'accesso libero e illimitato alle rete è in parte illusorio. Per abbeverarsi alla fonte sterminata
promessa da Internet bisogna avere una strumentazione tecnica che ha un costo non solo in
termini monetari, ma anche in termini di competenza. Il divario che un tempo divideva i ricchi dai
poveri, oggi tende a dividere chi sa (o può) da chi non sa (o non può) accedere alla rete, gli alfabeti
dagli analfabeti informatici. Senza contare che rinascono le barriere monetarie: per ottenere certe
informazioni, bisogna pagare.
Non bisogna poi dimenticare che le tecnologie della rete, e in genere dell'informatica, sono a
disposizione di uno strato molto limitato della popolazione di un gruppo ristretto di paesi. E può
darsi, ve ne sono i segni, che questo divario di accesso basato sulla strumentazione e sulla
competenza, si accentui sia all'interno dei paesi più avanzati sia tra i paesi avanzati e i paesi
poveri.
5. I veleggiatori dell'ipertesto
Quanto la formazione della rete stia modificando la cultura si può dedurre anche da quella pratica
di divertimento in senso etimologico, cioè di divagazione e scorribanda, che è la navigazione, in cui
si rivela appieno la struttura policentrica e acefala della rete. Questa struttura somiglia a quella del
vocabolario, in cui la definizione di ogni parola è sostenuta dalla definizione di altre parole; non è
una piramide che si regga su un vertice da cui dipendano, in modo gerarchico e strutturato, tutte le
altre parti: ogni parola è il centro del vocabolario e insieme la periferia di tutti gli altri centri.
Già l'esplorazione del vocabolario o dell'enciclopedia tradizionali era una navigazione nel senso
che si dà ora a questa parola: oggi tuttavia questa pratica è stata accentuata dalla rete e tende a
sostituirsi a ogni altro metodo di esplorazione e anche di apprendimento. E non bisogna
dimenticare che, accanto ai vantaggi, questa pratica, come ogni altra, presenta svantaggi (gli
anglosassoni dicono giustamente che non esistono pasti gratuiti!). Nella navigazione si perde la
sistematicità della ricerca a favore della distrazione, dell'improvvisazione, della diversione
occasionale e quasi casuale. La navigazione presuppone un mare, ma sul mare non vi sono strade
riconoscibili; le strade, cioè le rotte, vengono tracciate dal navigatore nel suo procedere: si tratta di
una condizione tipica dei nostri tempi (postmoderni, direbbe qualcuno). Non abbiamo più guide, le
abbiamo licenziate o esautorate, e senza guide dobbiamo inventarci i nostri percorsi istante per
istante. Ma ciò non accade solo per la navigazione su Internet, accade a ciascuno di noi nella vita
d'ogni giorno. In questo senso la rete è una grande metafora che riassume e incarna la condizione
dell'uomo postmoderno. Avendo perduto i valori tradizionali, non possiamo seguire più le rotte
consolidate dall'esperienza altrui e trasmesse dalla tradizione. Dobbiamo inventarci i percorsi
giorno per giorno: tutto ciò è esaltante ma è anche molto faticoso.
Il navigatore che esplora il mare magnum della rete seguendo di volta in volta una rotta irripetibile
entra in un universo di segni che è fortemente omologato e insieme frammentario se non
addirittura polverizzato. Strano navigare, il suo, che si svolge nella più assoluta immobilità e che
pure gli spalanca visioni di ampiezza insospettata, squarci profondi su arcani paesaggi appena
intravvisti che lo incitano ad abbandonare l'itinerario stabilito (ma lo è davvero?) per avventurarsi
all'inseguimento delle sirene. Strano navigare, il suo, che lo illude di libertà illimitata mentre la sua
barca virtuale segue le inflessibili rotaie di percorsi prestabiliti benché numerosissimi: non è,
questo, un mare: è piuttosto un reticolo di binari e di scambi, invisibili ma non per questo meno
cogenti. Nonostante la sensazione di libertà sconfinata, il navigante non è autonomo, ma
eterodiretto: è un eroe passivo che vede sfilare davanti a sé lo spettacolo di un mondo rutilante
che non ha contribuito a creare (se non forse in minima parte) e le cui regole apprende in itinere:
prima fra tutte una sorta di legge di dissimmetria, per cui è facile essere assorbiti dalle rete, ma è
difficilissimo assorbirla. Il passaggio dall'illusione del possesso al possesso effettivo dei dati
avviene attraverso lo stretto pertugio delle risorse individuali, in particolare deve confrontarsi con il
tempo (questo sì reale!) a disposizione di ciascuno, che, ohimé, non si è dilatato quanto il
repertorio offerto dalla rete.
L'incalzare degli stimoli non lascia respiro e su ognuno di essi ci si può soffermare solo pochi
istanti, travolti da una sorta di coazione a procedere. L'abbondanza stessa dei dati può generare
disagio, riluttanza e financo rifiuto. Di solito l'eccesso di stimoli induce l'assuefazione: allora,
ascoltando le voci sussurranti senza freno e misura nel mare virtuale, il navigante ha l'impressione
straniante di assistere al flusso di coscienza di una creatura sconfinata che si racconta una storia
interminabile.
E questa storia coincide con la creatura stessa, perché la rete è fatta di testi giustapposti, collegati
dai rimandi come le isole di un arcipelago dai ponti: e questi collegamenti, che diventano attuali
solo quando il visitatore li attiva, concorrono a formare una famiglia di ipertesti. Prima di essere
destati dal navigatore questi ipertesti dormono nel seno gigantesco dell'ipertesto totale costituito
da tutti i testi della rete, e il navigatore acquista il suo profilo caratteristico, la sua individualità
specifica, attraverso la famiglia degli ipertesti che rende da potenziali attuali lungo il suo itinerario.
Dunque ogni viaggio è un racconto, e la rete è la totalità virtuale di questi racconti (qui virtuale ha il
senso antico di potenziale ma anche il senso nuovo di artificiale: il veleggiatore entra in un mondo
artificiale e, percorrendolo, rende attuali i suoi elementi o ipertesti potenziali). Del resto anche nel
mondo reale si ravvisa questo passaggio dal potenziale all'attuale: dal brulicante sottofondo dei
fenomeni possibili l'osservatore sceglie, in base a criteri di opportunità, i fenomeni da rendere
attuali e li nomina. Così il linguaggio contribuisce a formare il mondo. Anche nel mondo virtuale
della rete il linguaggio ha un'importanza fondamentale.
La natura potenziale della rete e la continguità dei suoi testi la rendono simile a un mosaico
multicolore (ma privo dell'immagine compiuta che di solito compare in un mosaico e lo unifica) in
cui tutte le tessere sono interessanti ma nessuna è davvero fondamentale. E' forse per questa sua
natura dis-integrata che la rete si è sviluppata in modo così rigoglioso: perché rispecchia la
struttura della cultura odierna, frantumata dai media di massa, cresciuta per aggregazioni
associative, per assonanze, sotto la spinta di esigenze mercantili e divulgative momentanee più
che per necessitante evoluzione interna. Si scopre quindi che la rete oltre ad essere una
megamacchina, uno strumento di ricerca, un gigantesco repertorio di dati e uno sconfinato
ipertesto, è anche una grande metafora della cultura e perciò agisce nei suoi confronti come un
potente catalizzatore, ricevendone a sua volta impulso e slancio. Per effetto delle perturbazioni,
delle consultazioni, degli accumuli, degli aggiornamenti, la rete si riconfigura di continuo,
assorbendo e integrando il "rumore" e trasformandolo in alimento per presentarsi sempre nuova e
sempre uguale.
Nel suo immobile viaggio attraverso la rete, il veleggiatore sperimenta anche una curiosa
trasmutazione di categorie: egli non si sposta nello spazio, come vorrebbe la metafora del
marinaio, bensì nel tempo. Eppure gli oggetti che, dopo un'attesa più o meno lunga, gli giungono
dalle profondità dello spazio virtuale (appiattito sull'invalicabile schermo) non recano i segni né del
tempo né della lontananza. Questo effetto, dovuto alle caratteristiche della rappresentazione
digitale, conferma il carattere virtuale dell'universo della rete: è un non-luogo, dove non c'è né il
vicino né il lontano, e un non-tempo, che vive in un eterno presente. In questo universo utopico e
ucronico la storia è stata uccisa, schiacciata su una temporalità immediata e su una virtualità che
fagocita chi vi si avventuri.
In questo modo le categorie fondamentali del mondo reale, il tempo, lo spazio, la causalità,
vengono sovvertite, s'intrecciano e si contaminano per fornire categorie nuove o spariscono,
generando un vuoto categoriale che viene riempito dall'accumulo sequenziale e ossessivo di dati,
richiami, immagini, testi. Questo accumulo, prodotto o evocato dal navigante nel suo procedere, ha
ben poco della narrazione tradizionale o del ragionamento argomentativo: la navigazione abitua al
discorso paratattico e fa dimenticare l’ipotassi tipica dell’argomentazione cui ci ha abituato la
riflessione culturale dell’Occidente. Anzi l'argomentazione è soffocata dall'accrezione caotica delle
informazioni e scompare fra le quinte del tempo annullato. Le attività che richiedono uno sviluppo
cronologico tendono ad essere bandite: non si può più ragionare, sistemare, ordinare perché i
nuovi dati incalzano, i collegamenti ammiccano invitanti, spingendo il visitatore sempre in altre
zone del non-tempo. Anche la ricerca scientifica in rete risente di questo effetto di accelerazione e
ha le caratteristiche di un surriscaldamento che prelude forse a una sua profonda trasformazione:
in questo senso la rete non è un semplice strumento comunicativo, ma contribuisce alla
formazione dei risultati come un autore anonimo e nascosto, ma realissimo e ingombrante.
Lo squadernamento dei dati senza prospettiva temporale e senza differenziazione spaziale dà alla
rete le caratteristiche di un singolare museo onnicomprensivo, in cui la Divina Commedia, l'ultimo
modello della Ford e le donnine nude si trovano su bancarelle contigue, e la prossimità tende a
confondere i valori e i generi tradizionali, neutralizzando le differenze e dando un'ingannevole
sensazione di democrazia dell'accesso. Non a caso parlo di bancarelle, perché la rete è anche un
policromo mercato totale dove ciascuno espone sé stesso (magari sotto le mentite spoglie di una
maschera digitale) e la propria effimera attività.
La rete consente la formazione rapida e la disgregazione altrettanto rapida di gruppi che si
coagulano per un tempo più o meno breve intorno a un tema di comune interesse. Sotto questo
profilo la rete costituisce uno schermo dietro il quale ci si può nascondere o assumere identità
fittizie. La simulazione e la dissimulazione diventano pratiche autorizzate e incoraggiate
dall'anonimato: chiunque può fingersi chiunque altro. E' un punto delicato, che non può non avere
una profonda influenza sulla personalità e che infatti ha destato l'interesse di psicologi e psichiatri.
La rete quindi non rappresenta solo un fenomeno tecnologico, ma incide profondamente sulla
nostra natura di esseri umani, sui nostri comportamenti e sulla nostra epistemologia: attraverso la
rete vediamo in modo diverso il mondo e la nostra posizione nel mondo. Non tutti saranno
d'accordo, ma io ritengo che la formazione del soggetto di conoscenza connettivo di cui ho parlato
non sia un fenomeno trascurabile o assimilabile ad altri fenomeni socioculturali di origine
tecnologica: quando si va a toccare la conoscenza e l'intelligenza, cioè le caratteristiche più intime
dell'individuo, gli effetti non possono essere superficiali. E sono tanto più profondi quanto più il
dialogo tra uomo e macchina viene facilitato. Ecco perché gli sforzi decennali che hanno
consentito all'uomo di dialogare più facilmente con la macchina hanno, paradossalmente, portato a
un maggior condizionamento dell'uomo da parte del calcolatore. Come ho già detto, quando la
tecnologia è così flessibile da diventare invisibile o trasparente, quando non ci si accorge più di
usare uno strumento, allora la tecnologia diventa parte della nostra attrezzatura corporea e ci
condiziona senza che l'avvertiamo. E si può forse intravvedere in ciò un capovolgimento del
rapporto strumentale tra uomo e macchina: la macchina non è più solo uno strumento dell'uomo e
forse l'uomo sta già diventando uno strumento della macchina. Samuel Butler diceva che una
gallina è lo strumento di cui un uovo si serve per fare un uovo migliore: può darsi che oggi l'uomo
stia diventando lo strumento di cui il calcolatore si serve per costruire un calcolatore migliore.
6. Cervello e calcolatore
Voglio dedicare la seconda parte di queste note all’intelligenza artificiale (IA), che sotto il profilo
teorico, e in parte sotto quello attuativo, è una delle imprese più interessanti del Novecento. Per
molti anni la doppia metafora del computer come "cervello elettronico" e della mente umana come
"elaboratore di informazioni" ha di fatto istituito una sorta di equivalenza tra i due sistemi. A questo
proposito vorrei sottolineare ancora una volta la funzione e l'importanza della metafora. Non
soltanto nel discorso quotidiano e in quello poetico ma, per quanto possa sembrare sorprendente,
anche in quello scientifico essa ha un valore grandissimo. La metafora non è solo un modo di dire,
ma getta un ponte tra due ordini di concetti prima slegati, illuminandoli entrambi di luce nuova e di
nuovo significato. Addirittura, per esempio in campo scientifico, una metafora può costituire la
giustificazione esplicativa, il ponte per la "comprensione" di un concetto nuovo. La metafora sta
alla base di molti modelli: si pensi alla metafora del sistema solare che fu usata da Bohr per
introdurre il concetto dell'atomo formato da nucleo ed elettroni rotanti. Anche se poi sono stati
individuati i limiti di questo modello - perché nessuna metafora o modello istituisce una
corrispondenza perfetta - esso è stato fondamentale per fornirci un'immagine intuitiva e utilissima
di un sistema microscopico e quindi inaccessibile ai sensi.
Ho già accennato alla valenza metaforica della rete, ma anche la macchina per eccellenza della
nostra era, il calcolatore, è stato ed è tuttora al centro di una fitta trama di metafore a vari livelli,
che servono a ricondurre l'ignoto al noto e, anche, ad esorcizzare timori e preoccupazioni. E in
questa elaborazione concettuale è stato quasi sempre coinvolto anche l'altro grande generatore e
attrattore di metafore che è il cervello: se il calcolatore è diventato per molti, specie a livello
popolare e divulgativo, il cervello artificiale, il cervello elettronico o addirittura il "cervellone," a sua
volta la macchina ha fornito stimoli e suggerimenti per la costruzione di modelli del cervello.
Questo doppio legame ha fatto sì che da una parte il calcolatore sia stato preso come modello
strutturale, semplificato ma non banale, del cervello e che il suo funzionamento a base di algoritmi
abbia prodotto un modello del funzionamento cerebrale; dall'altra parte, gli studi sul cervello hanno
portato alla concezione di calcolatori di tipo nuovo (reti neurali, calcolatori paralleli). La metafora
secondo cui il cervello è un calcolatore - metafora che è alla base delle ricerche sull'IA - tende a
ridurre la complessità del cervello, mentre l'altra, secondo cui la macchina è un cervello, tende a
complessificare la macchina (e forse una metafora che semplifica è più suggestiva di una metafora
che complica).
7. Il funzionalismo e le limitazioni della razionalità
Quanto può essere giustificata l’identificazione tra cervello, o mente, e calcolatore suggerita dalla
metafora?
Per rispondere a questa domanda è opportuno osservare che le capacità e le attività dell'uomo
hanno un ineludibile carattere sistemico e diacronico, sono impregnate di fini, di interessi e di
desideri che si ramificano nella più ampia sfera concepibile: l'universo intero. E' solo per ragioni di
comodo che dal contesto universale vengono ritagliati di volta in volta contesti più ristretti, ma non
si deve comunque dimenticare che ogni cesura di questo genere è fonte di distorsioni
epistemologiche e di fraintendimenti pratici.
In particolare l’intelligenza - termine difficile da definire, carico di significati e circondato da un
alone semantico ed emotivo come pochi altri- l'intelligenza è un fenomeno sistemico e contestuale,
basato com'è essenzialmente sulla comunicazione, cioè sullo scambio di messaggi: l'intelligenza si
sviluppa - nella specie e nell'individuo - grazie all'interazione coevolutiva e comunicativa con
l'ambiente. Tuttavia, speculando su sé stessa, l'intelligenza dell'uomo ha trovato utile, o forse
necessario, operare alcune semplificazioni: si è identificata con la parte più consapevole e
manifesta della propria totalità, la parte razionale, logica, "alta"; mentre ha ignorato o svalutato la
parte implicita, inconsapevole e "bassa", quella che si annida nelle strutture e nei meccanismi di
base del complesso mente-corpo. Già Aristotele aveva individuato nelle scarne regole della logica
le "leggi del pensiero" e l'ipotesi, non dimostrata ma accettata senza troppe riserve, che il
"pensiero pensante" e il "pensiero pensato" funzionino allo stesso modo ha dominato fino ai nostri
giorni il panorama scientifico e psicologico.
L’identificazione tra pensiero pensante e pensiero pensato è stata alla base dei tentativi di
meccanizzare il pensiero che hanno accompagnato tutto lo sviluppo dell'età moderna: che cosa
sono i Teatri della Memoria, l'Ars Magna, la Characteristica Universalis, la Macchina Analitica di
Babbage e via dicendo se non estroflessioni cognitive, più o meno raffinate ma sempre di natura
automatica, capaci di fornirci con un sol colpo di manovella tutte le proposizioni "vere", tutti i
risultati "esatti", tutti i teoremi "dimostrabili"? La stessa geometria analitica di Cartesio è una protesi
mentale che, grazie a ricette meccaniche, consente anche agli intelletti mediocri di dimostrare le
proposizioni più ardue di questa disciplina, che altrimenti richiederebbe immaginazione, intuito e
talento. Una spinta ulteriore in questa direzione venne ancora da Cartesio, il quale teorizzando la
preminenza del pensiero sull'essere, anzi assumendo il primo addirittura come prova del secondo,
separò le due res. E grazie alla separazione del corpo dalla mente riuscì più facile meccanizzare
entrambi
In passato i tentativi di automatizzare il pensiero erano dunque basati sulla presunta identità tra il
funzionamento intrinseco del pensiero e le regole della logica. Ma anche le più recenti ricerche
sull'IA di tipo simbolico-algoritmico sono in sostanza basate su questa ipotetica coincidenza, cioè
sull’ipotesi che il pensiero, in fondo, non sia altro che calcolo. Non solo calcolo numerico, certo,
anche calcolo sillogistico e quant'altro, ma insomma: quando l'uomo pensa non farebbe altro che
applicare a elementi cognitivi atomici un certo numero (piuttosto piccolo) di regole invariabili e
acontestuali.
Questa ipotesi (in passato sostenuta con forza per esempio da Hobbes e da Leibniz) ha assunto
qualche decennio fa una forma logico-matematica che va sotto il nome di tesi di Church, la quale
afferma in sostanza che tutta l'attività mentale dell'uomo è di tipo algoritmico, dunque è
riproducibile con una macchina discreta (la cosiddetta macchina di Turing). La tesi di Church (che
è una congettura non dimostrata) pone le premesse teoriche e la giustificazione filosofica della
cosiddetta versione forte dell'IA, secondo la quale una macchina ben programmata pensa. Il
ragionamento è semplice: una volta descritto il funzionamento della mente (cioè il pensiero) tramite
algoritmi, sarebbe possibile trasferire gli algoritmi mentali su un calcolatore, che ipso facto
diverrebbe una mente. Il postulato della separabilità tra funzione e supporto (tra mente e cervello),
da alcuni peraltro respinto con forza, sta alla base di quella che si chiama appunto IA
funzionalistica.
Insomma, per il funzionalista basta rappresentare simbolicamente gli elementi e descrivere le
regole in modo "chiaro e distinto", cioè mediante algoritmi, ed ecco che si può trasferire il calcolo
(dunque il pensiero) da un supporto (il cervello) a un altro (il calcolatore), senza che le differenze
tra i due supporti abbiano conseguenze di sorta. La funzione (il software) è tutto, la struttura
(l'hardware) non conta. Si tratta di un riduzionismo mentalista che ha le sue radici nel dualismo
cartesiano e, curiosamente, nel materialismo. Quello che conta è lo scheletro logico, non la carne
del supporto o i panni dei contenuti.
Le cose in realtà non stanno proprio così: la struttura logica non è tutto, e il supporto materiale ha
un'importanza straordinaria, perché la sua struttura fisica interagisce in maniera inestricabile con la
funzione e la modifica (ad esempio introducendo ritardi temporali e trasformando i rapporti logici in
rapporti di causa-effetto). Inoltre, per quanto riguarda gli esseri umani, i contenuti influiscono in
modo determinante sul modo di ragionare e sull'efficacia e rapidità del ragionamento, e i contenuti
hanno a che fare con la fisicità, il corpo, gli affetti, l'ambiente, la semantica e la comunicazione.
La strada inaugurata da Aristotele fu praticata per oltre duemila anni: nell'Ottocento George Boole
intitolava ancora Investigazione sulle leggi del pensiero il suo libro di algebra logica. Fino a tempi
recentissimi anche gli psicologi (sull’esempio dei pedagoghi e dei pedanti del passato) si sono
industriati di insegnare ai loro soggetti a pensare "bene," cioè in modo logico: ogni scostamento
dalle regole formali era considerato un errore dovuto alla stupidità, alla sprovvedutezza o alla
leggerezza, e grande impegno, condito con un pizzico di sadismo, si poneva nell'escogitare
problemi, detti "trappole cognitive", capaci di confondere le menti grosse delle persone ordinarie e
di metterne in luce le carenze.
Ma è corretto adottare questo criterio di secca razionalità per giudicare il pensiero? In realtà le
trappole cognitive sono utilissime, ma per motivi diversi, anzi contrari: lungi dal dimostrare che gli
esseri umani non sono capaci di ragionare come dovrebbero, esse dimostrano che la logica è un
modello inadeguato del pensiero. Queste trappole somigliano alle (cosiddette) illusioni ottiche, le
quali pure rivelano molto sui nostri meccanismi percettivi, plasmati dall'interazione filogenetica e
ontogenetica con l'ambiente. I meccanismi percettivi e cognitivi sono quelli che sono perché nel
corso dell'evoluzione sono stati selezionati in base al loro valore di sopravvivenza. Solo nel mondo
attuale, imbevuto di formalismo, di precisione e di astrattezza, il ragionamento logico comincia ad
avere un'utilità che in passato non ha mai avuto. Del resto anche il matematico ricorre alla logica
solo nella fase di sistemazione, mentre nella fase creativa, quando insegue con ansia e passione il
risultato che pare sfuggirgli, si serve di una panoplia di strumenti tutt'altro che rigorosi e
consequenziali.
Si è cominciato a capire che la razionalità dell'uomo è limitata e che di norma la mente ricorre a
robusti strumenti collaterali basati sull'interazione dialogica con il prossimo. Intanto siamo animati
da una forte volontà di cooperazione comunicativa, poi ci immedesimiamo negli altri, costruendo di
continuo ipotesi su ciò che essi pensano: la nostra mente opera in un circolo ricorsivo in cui è
impossibile separare le nostre immagini da quelle che attribuiamo ai nostri interlocutori. Di solito
quindi pensiamo, e agiamo, non sulla base di una realtà esterna, ma in base a complesse
immagini mentali di quella realtà, che di logico non hanno molto e che non sono rispecchiate con
fedeltà da modelli formali come la logica, la teoria dei giochi o la teoria delle decisioni.
Sempre di più emerge l'importanza del contesto: nel mondo della comunicazione il significato dei
messaggi e degli atti deriva dalle relazioni che essi hanno con l'ambiente più ampio. Inoltre sono
fondamentali i contenuti, le analogie e i richiami alle situazioni vissute ed esperite: un problema
formulato in termini che facciano riferimento alla quotidianità viene risolto in genere con molta più
facilità che un problema avente la stessa struttura logica ma formulato in termini astratti. Per di più
si è scoperto che la comunicazione, la comprensione e l’apprendimento sono condizionati dalle
emozioni e dagli affetti, dunque da fattori che gli schematismi logici non avevano mai preso in
considerazione: ciò apre prospettive interessanti nell’ambito delicatissimo della scuola.
Si rafforza dunque l'impressione che gli esseri umani non siano molto portati per l'astrazione: i
linguaggi e gli strumenti astratti e acontestuali sono fragili, anche se raffinati. Il calcolatore, e anche
le altre macchine mentali, come la matematica e la logica, sono puntelli che suppliscono alla
debolezza umana in un settore nel quale ce la caviamo piuttosto male anche perché, in fondo, non
c'interessa molto. Per lo stesso motivo, queste macchine sono lontane dalla complessa e robusta
realtà della nostra mente e del mondo che ci circonda e che ci sta a cuore. Eppure queste
macchine sono state prese a modello della nostra mente...
8. L'evoluzione e il corpo
Ho accennato all’evoluzione: ed è forse all’evoluzione che bisogna rifarsi per capire meglio se la
differenza tra IA e intelligenza naturale sia qualitativa oppure soltanto quantitativa, questione che
sta al cuore del dibattito filosofico sull'IA, cioè di quel dibattito che affronta le questioni di principio.
Proprio perché si tratta di questioni di principio, in attesa che la storia ci riveli qualcosa di più non si
possono fare che speculazioni. La grande differenza tra intelligenza umana e IA è che la prima è il
frutto di una lunga storia evolutiva e presenta aspetti sistemici e interattivi, mentre la seconda
nasce da una progettualità razionale che ha tenuto conto solo degli aspetti logico-simbolici e ha
sempre voluto eliminare gli aspetti casuali e non controllati, cioè tanto le contingenze storiche
quanto le interazioni perturbative con l'ambiente. L'intelligenza umana nasce e si sviluppa in un
contesto comunicativo: alimentata dal "rumore" ambientale, è capace di trasformare il disordine
moltiplicato del mondo in un ordine provvisorio e mutevole, ma pur sempre capace di fornire
un'immagine della realtà che funga da guida nella conoscenza e nell'azione.
Insieme con l'immagine della realtà esterna, l'incessante attività dell'intelligenza umana, sollecitata
e alimentata dai messaggi e dal rumore del mondo, fornisce un'immagine del sé, anch'essa
mutevole e provvisoria eppure adeguata a rappresentare l'individuo negli scambi interattivi con gli
altri e con sé stesso. E' quell'immagine che indichiamo col pronome "io" e che sta al centro delle
nostre narrazioni storiche e dei nostri progetti futuri. E' la coscienza, o autocoscienza, fenomeno
(come altro chiamarlo?) elusivo eppure innegabile, da sempre oggetto di riflessione introspettiva o
di analisi filosofica e psicologica e divenuto oggi nodo essenziale delle riflessioni che riguardano
appunto l'intelligenza. Alcuni infatti sostengono, forse a ragione, che non può esservi "vera"
intelligenza se non vi è autocoscienza: e questo problematico aggettivo "vera" vorrebbe
contrapporsi a certe caratterizzazioni puramente comportamentistiche che stanno al centro di altre
definizioni dell'IA, ad esempio il criterio di Turing, che dichiara intelligente un sistema che manifesti
un comportamento che si definirebbe intelligente se fosse manifestato da un essere umano.
Per il momento la progettazione razionale delle macchine, per quanto volonterosa e raffinata, non
ha prodotto la coscienza, dunque l'"io". E' quindi spontaneo chiedersi se la coscienza non abbia un
valore di sopravvivenza che l'abbia portata a manifestarsi nel corso dell'evoluzione biologica. E da
qui basta un passo molto breve per passare alla funzione del corpo, che è il vero oggetto e
soggetto della sopravvivenza. Le macchine costruite finora non hanno l'equivalente di un corpo, di
cui si debbano preoccupare, che debbano difendere e nutrire e per il quale debbano trovare forme
adeguate di riproduzione. Bastano questi cenni per capire la centralità del corpo nella
coevoluzione delle specie animali e della specie umana: il corpo è radicato nell'ambiente e tutte le
sue manifestazioni lo sono, anche quelle in apparenza più lontane, come l'intelligenza "astratta"
che costruisce un teorema di matematica o una teoria metafisica.
In una prospettiva informazionale, invece, il corpo può essere considerato un'interfaccia tra il sé
più interno (cioè l'intelligenza formale e simbolica) e il mondo esterno: ma è certo un'interfaccia
molto singolare, dato che la sua conservazione e il suo benessere condizionano l'immagine del
mondo che passa al sé e l'immagine che il sé offre all'esterno. Anzi, le esigenze di
quest'interfaccia sono predominanti rispetto a quelle dei due mondi interfacciati. Non so se da ciò
sia possibile concludere una sorta di irriducibilità del vivente alla macchina. Alcuni, come il filosofo
John Searle, propendono con decisione per il sì. Forse la giustificazione ultima di questa posizione
sta nel fatto che il vivente coincide con la propria storia: la coevoluzione tra ambiente e specie che
ha portato alla nascita dell'uomo così come esso è ha inscritto nella specie umana l'universo con le
sue caratteristiche fisico-chimiche: il microcosmo è un'immagine ridotta ma perfetta del
macrocosmo. Se così è, se il vivente è la propria storia, allora la macchina non può in alcun modo
profondo essere assimilata all'uomo, perché il suo macrocosmo e la sua storia sono diversi.
L'IA ha rovesciato il decorso della storia, perché ha voluto creare un cervello senza corpo. Il
cervello biologico ha origine, sotto il profilo evolutivo, come semplice organo di controllo e
regolazione di un corpo che lo precede. Solo in seguito, grazie allo sviluppo di specie sempre più
complesse, il cervello comincia a manifestare la capacità (del tutto imprevista e gratuita) di
effettuare attività "intelligenti" di livello superiore e di tipo astratto; invece il calcolatore è costruito,
in base a un progetto esplicito e deliberato, per compiere da subito attività di tipo astratto, non
legate a un corpo che non possiede. Volendo, si può dire che l'evoluzione del computer avviene
fuori di esso, nella mente del progettista.
Legata a questa prima fondamentale differenza (che riguarda la genesi dei due sistemi) ve n'è poi
un'altra: l'attività del cervello è autodiretta, quella del computer è eterodiretta. In altre parole, il
cervello opera per conseguire fini che esso stesso si pone (e che spesso nascono dalle esigenze
del corpo: l'integrità, la nutrizione, la procreazione); il calcolatore opera per conseguire fini che gli
sono imposti dall'esterno e che, in ultima analisi, riguardano il programmatore e il suo mondo.
Il cervello, attraverso il corpo e i suoi organi di senso, è immerso nell'ambiente e nella storia
evolutiva: dunque manifesta attività sistemiche e diacroniche. L'interazione con l'ambiente è il
motore primo dello sviluppo del cervello e delle sue capacità. Il computer, al contrario, viene tenuto
rigorosamente isolato dall'ambiente per non fargli subire gli effetti delle perturbazioni, e interagisce
col mondo soltanto attraverso il poverissimo canale delle istruzioni.
Osserviamo ora che l'uomo ha una sola bocca, quindi è costretto a parlare in modo sequenziale;
questo fatto in apparenza banale ha avuto effetti importanti, poiché la struttura lineale del
linguaggio è stata attribuita anche al mondo, con un errore epistemologico che solo di recente è
stato riconosciuto. In particolare, la linearità sequenziale è stata proiettata sull'attività del cervello
ed è servita di modello per la costruzione dei calcolatori seriali. In verità, sembra che il cervello
abbia un funzionamento spiccatamente parallelo.
Tutte queste differenze sono alla base della diversa qualità che ha l'intelligenza umana rispetto a
quella cosiddetta "artificiale". Se lo scopo dell'intelligenza artificiale vuol esser quello di costruire
una macchina che manifesti un'intelligenza di tipo umano, sarà necessario (anche se non
sufficiente) dotare il computer di un corpo che gli consenta d'interagire con il mondo; poi fornirgli
qualche scopo autonomo (ad esempio la sopravvivenza e l'integrità); e infine dotarlo (come già si è
cominciato a fare) di strutture di funzionamento parallelo.
Probabilmente, anche così facendo, si otterrà qualcosa di lontanissimo dalla mente umana, perché
diversa ne sarà stata l’evoluzione, e ciò darà ragione a quanti ritengono che nella locuzione
"intelligenza artificiale" il termine davvero importante sia artificiale e non intelligenza.
9. L'intelligenza artificiale simbolica
Il limite più grave di questa impostazione dell'IA è, come ho detto, la sua forte tinta atomistica,
acontestuale e riduzionistica: essa si sforza cioè di trovare gli atomi, le unità costitutive minime
della conoscenza dotate di un significato indipendente da ogni contesto, e di operare su di esse
con regole immutabili, date una volta per tutte e anch'esse indipendenti da ogni contesto. Dopo i
primi tentativi, circoscritti agli ambiti astratti della logica e della matematica (ma anche di certi
giuochi formali, come gli scacchi), in cui il riduzionismo acontestuale funzionava - grazie alla natura
dei problemi - e forniva risultati interessanti o addirittura pregevoli, anche i sostenitori più fervidi di
questa impostazione dovettero rendersi conto che non è possibile trasferire questo metodo in un
ambito più generale.
La conoscenza e l'informazione non sopportano un'impostazione riduzionistica, perché sono
basate sul contesto e sulla relazione. L'impostazione riduzionistica razionale e algoritmica si arenò
nelle secche del senso comune e dell'azione quotidiana, che sono intessute di significati e di
rimandi intrecciati, proprio l'opposto dell'atomismo. In effetti, se era piuttosto facile costruire un
programma che dimostrasse un teorema di matematica, risultava difficilissimo se non impossibile
costruirne uno che se la cavasse in una situazione di vita ordinaria (ad esempio nella
comprensione di un racconto o di una fiaba): in questo senso l’IA simbolica è quasi agli antipodi
dell’intelligenza umana, che affronta senza scomporsi i problemi del senso comune e in generale i
problemi di tipo "sintetico" e si trova spesso in difficoltà coi problemi logico-formali e in generale coi
problemi "analitici." Il calcolatore rispecchia il formalismo logico del "pensiero pensato" ma non
riesce, almeno per il momento, a restituire il "pensiero pensante."
L'IA funzionalistica dunque rimuove il corpo e il suo radicamento nel mondo e accentua le
prerogative logico-razionali della mente umana. Ma questa astrazione pone limiti invalicabili alle
ambizioni di replicare l'intelligenza naturale. Non è comunque facile scalzare le premesse dell'IA
simbolica, poiché i tentativi compiuti per dimostrare che non tutta l'attività mentale dell'uomo è di
tipo razionale, o più precisamente simbolico, vengono compiuti, paradossalmente, con strumenti
squisitamente razionali e simbolici, come se non fosse possibile usarne di altri o come se ci
potessimo fidare solo delle dimostrazioni razionali di cui stiamo cercando di trovare i limiti. E'
evidente che da questo circolo vizioso è difficile uscire se non affidandoci a strumenti diversi, non
formali, che pure, forse, sentiamo infidi. Contro questa tendenza a costruire un'intelligenza astratta
e disincarnata, si assiste oggi a una rivalutazione del corpo e delle sue prerogative.
10. Conoscenza biologica e conoscenza razionale
Per approfondire il rapporto tra intelligenza umana e IA è opportuno considerare la gnoseologia,
cioè lo studio delle modalità con cui si attua la conoscenza, che è sempre stata una delle branche
più importanti della riflessione filosofica. Nel corso dei secoli il complesso e controverso rapporto
tra oggetto e soggetto della conoscenza ha subito una lunga evoluzione, approdando oggi a una
sorta di "costruttivismo interattivo" che riflette da una parte la coevoluzione tra specie e ambiente e
dall'altra la continua interazione tra individuo e mondo. Secondo questa prospettiva, la conoscenza
non sarebbe né un rispecchiamento passivo dell'oggetto nel soggetto né una costruzione arbitraria
e solipsistica di quest'ultimo: sarebbe piuttosto una sorta di riflesso dell'oggetto filtrato dalle
caratteristiche individuali e specifiche del soggetto. La conoscenza si attua sempre all'interno dei
vincoli, delle condizioni e delle modalità che le sono propri, cioè nell'alveo neurosensoriale,
psicofisico, motorio, affettivo e razionale che accoglie ed elabora, a vari livelli di consapevolezza (o
inconsapevolezza) e con vari gradi di rapidità, i "dati" della realtà soggiacente per farne elementi
della realtà percepita. In realtà l'espressione "dati" della realtà è impropria: le cose stanno un po'
diversamente, come ora cercherò di chiarire.
Il sistema o macchinario conoscitivo individuale ha due modalità essenziali di funzionamento. La
prima, più arcaica sotto il profilo sia filogenetico sia ontogenetico, è la conoscenza tacita, globale e
immediata attuata dal corpo e incarnata nella sua struttura e nelle sue funzioni biologiche: è una
conoscenza che, a certi livelli, appare guidata dal sistema affettivo ed emotivo. La seconda, più
recente sotto il profilo evolutivo e posteriore nello sviluppo dell'individuo, è la conoscenza esplicita,
attuata nelle forme della logica astratta e in genere nella razionalità. La prima modalità di
conoscenza, che si attua nel corpo e tramite il corpo, corrisponde a mappe antiche, che
dall'evoluzione sono state portate a livello profondo e sono "cablate" nella biologia dell'individuo.
Le mappe della seconda modalità, che si attua tramite la mente, sono invece superficiali, debbono
essere richiamate con uno sforzo cosciente o costruite appositamente in caso di necessità e sono
presenti solo a livello razionale. Più lunga è la storia evolutiva di una mappa più profonda è la sua
collocazione e più inconsapevole e immediato è il suo uso. Le mappe del primo tipo si potrebbero
chiamare "naturali", quelle del secondo tipo "culturali". (Naturalmente tra i due tipi di mappe c'è un
passaggio graduale: natura e cultura si mescolano in varia misura).
Ogni essere vivente sfrutta l'energia che gli proviene dall'esterno per alimentare processi che sono
essenziali per il mantenimento della sua organizzazione strutturale e funzionale: l'attività
dell'organismo vivente è dedicata in primo luogo alla regolazione delle interazioni che ne
assicurano l'integrità; e questa integrità gli consente di svolgere la propria attività in condizioni
compatibili con tutti i vincoli esterni e interni. Quindi l'attività è insieme l'effetto e la causa
dell'organizzazione. Adottando una metafora molto espressiva, si può dire che l'attività di ogni
essere vivente, in particolare dell'uomo, è una sorta di computazione, un'elaborazione che a certi
livelli di complessità evolutiva ha natura cognitiva e, a livelli di complessità ancora superiori,
autocognitiva. Lo scopo fondamentale (e tautologico) di quest'attività computante è quello di
perpetuare le condizioni in cui tale computazione può svolgersi: e forse è proprio questo
automantenimento dinamico, attuato mediante una continua computazione, il carattere distintivo
degli organismi viventi (il cui scopo primo sarebbe dunque quello di conservarsi vivi). Quest'attività
è legata in modo indissolubile con l'attività cognitiva, anzi coincide con i suoi livelli più profondi e
costituisce il fondamento indispensabile dei suoi livelli più elevati. Il carattere cognitivo immanente
nell'attività vitale di base rende lecita se non addirittura necessaria una descrizione informazionale
degli organismi viventi (che autorizza in prima istanza il parallelo, per quanto grossolano, tra uomo
e computer).
Ma il termine "computazione" non deve trarre in inganno: non si tratta di un'attività assimilabile alla
computazione passo passo di un calcolatore (semmai, forse, è più simile al raggiungimento dello
stato di equilibrio in una rete neurale) e neppure all'attività di calcolo di un matematico: può essere
anche computazione in questo senso, ma è soprattutto un'esplicitazione inconsapevole delle
mappe profonde, che rappresentano abilità, acquisite per via filogenetica e perfezionate per via
ontogenetica, grazie alle quali l'essere vivente riesce a mantenersi in una condizione di equilibrio
omeostatico con l'ambiente. E' in gran parte un susseguirsi immediato - avulso da ogni
deliberazione riflessa, calcolata e cosciente - di azioni già pronte e "cablate" nella struttura stessa
dell'organismo.
Orbene, la storia della scienza occidentale è in fondo un lungo tentativo di tradurre le conoscenze
dalla prima alla seconda modalità, cioè dalla conoscenza biologica incarnata nel corpo (che a sua
volta è immerso nell'ambiente) a una razionalità "disincarnata". Questo tentativo è rispecchiato
nell'impostazione funzionalista o fisico-simbolica dell'IA. Poiché il tentativo ha dato buoni risultati in
fisica, lo si vorrebbe trasferire a tutto il dominio delle conoscenze, e questo è proprio il programma
dell'IA: esprimere in forma algoritmica tutte le conoscenze e tutte le abilità, comprese quelle legate
al senso comune che ci guidano nell'agire quotidiano, e poi tradurle in programmi di calcolatore.
11. Mente e corpo
Ma fino a che punto è possibile questo trasferimento? Per quanto strenuo e volonteroso, il
tentativo incappa nell'ostacolo tipico di ogni processo di traduzione, cioè l'incompletezza. Rimane
pur sempre un residuo ostinato, una cicatrice insanabile che ricorda come la traduzione sia
un'impresa impossibile, perché vorrebbe o dovrebbe essere un'applicazione totale del mondo su
sé stesso. All'inizio si riteneva che tutte le conoscenze fossero trasferibili, ma dopo i primi
entusiasmi sono venute le delusioni e oggi ci si rende conto che per replicare compiutamente
l'intelligenza umana (ammesso che sia questo lo scopo dell'IA) le macchine intelligenti non
possono fare a meno dell'equivalente di un corpo con tutta la sua attività cognitiva profonda e in
parte forse non algoritmica: l'intelligenza disincarnata è troppo fragile e limitata.
L'impostazione astratta dell'IA dà per scontato che capire qualcosa significhi averne una teoria e,
viceversa (seguendo Socrate e il cognitivismo morale), che averne una teoria comporti decisioni e
azioni rigorose e corrette. Questa impostazione vorrebbe estendersi anche al contesto quotidiano,
ignorando la base fisica e corporea di questo contesto e la prontezza all'azione insita nelle abilità
che l'uomo esplica di continuo in tale contesto. In fondo tutti noi ce la caviamo abbastanza bene
nel mondo senza averne una teoria. L'IA funzionalistica ha cercato prima di individuare in ogni
dominio di conoscenza, anche in quello della quotidianità e del buon senso, elementi atomici e
acontestuali (le "informazioni" o i "dati") e quindi di esplicitare tra questi elementi relazioni, leggi e
regole da tradurre in programmi formali. Ma il tentativo si è dimostrato più difficile del previsto ed è
probabilmente destinato al fallimento. Non è lecito astrarre con un'operazione chirurgica la nostra
conoscenza-esperienza da quell'organizzazione pragmatica che ci consente di usarla in modo
intelligente per affrontare i problemi d'ogni giorno.
Da Platone in poi la modalità di conoscenza razionale è stata considerata superiore a quella
corporea e tutta la corrente filosofica dominante, da Platone a Cartesio a Leibniz e via via fino al
primo Wittgenstein, si può interpretare in quest'ottica. Nel solco della filosofia razionalistica, anche
l'IA considera la conoscenza astratta più nobile di quella legata al senso comune: l'intelligenza che
dimostra un teorema sarebbe superiore a quella che riconosce una scena o che ci guida nelle
azioni quotidiane. Ma la lunga tradizione che privilegia la conoscenza logica, immersa in
un'atmosfera rarefatta in cui si staglia nitido ciò che è formale, generale e ben definito,
rappresentato e pianificato in anticipo, oggi viene messa in discussione. Addirittura si assiste a un
capovolgimento: si riconosce che la maggior parte delle conoscenze, specie quelle vitali, sono
espresse nella struttura stessa del corpo e nella sua interazione con l'ambiente; si riconosce che la
loro matrice è storica; che sono sempre immerse in un contesto il quale, con le sue continue
perturbazioni, lungi dall'ostacolarle (come ritiene l'IA simbolica) dà loro significato. Insomma il
concreto non è solo un gradino verso l'astratto: è già conoscenza, anzi costituisce la parte
fondamentale e fondante di tutta la conoscenza, compresa quella astratta. E' il corpo con le sue
capacità di conoscenza rapida, quasi fulminea, che ci permette di salvarci in situazioni di pericolo,
dove la lentezza della mente, impacciata per di più dalla coscienza, ci sarebbe fatale. Se l'IA
volesse costituire un modello più adeguato dell'intelligenza umana, dovrebbe rivalutare il
significato cognitivo delle azioni semplici, incarnate e contestualizzate che compiamo di continuo
nella vita di tutti i giorni. Ne segue, per precisare quanto si è detto sopra a proposito dei "dati" della
realtà, che il mondo non è dato, è invece qualcosa che costruiamo via via, partecipandovi col
nostro muoverci, respirare, mangiare e via dicendo.
Le strutture cognitive emergono dunque da mappe o schemi ricorrenti di attività sensomotoria, e
soltanto quando queste strutture cognitive cablate non ci soccorrono, soltanto durante le pause o
interruzioni dovute al presentarsi di condizioni inedite, subentrano processi di analisi razionale e
intenzionale, che sono abilità molto più recenti e corrispondono a mappe più superficiali, magari
ancora in via di formazione e di collaudo e più o meno labili. Le abilità di base sono per la maggior
parte inconsce e debbono restare tali, per non compromettere l'efficacia dell'azione-cognizione,
mentre le capacità che intervengono durante gli intervalli sono consapevoli. Le prime
corrispondono alle abilità degli esperti, le seconde a quelle dei principianti (si pensi al diverso
modo di suonare di un violinista provetto e di uno alle prime armi).
E' curioso dunque che l'intelligenza artificiale abbia cercato di imitare i principianti e non gli esperti.
La cosa si spiega tuttavia osservando che della conoscenza logico-razionale si ha consapevolezza
e quindi, a differenza delle mappe profonde, essa si offre all'indagine e al tentativo di riproduzione,
tanto che a lungo si è pensato che le regole esplicite della logica coincidessero con le regole
profonde del pensiero.
Pertanto, se davvero si vuol costruire il "robot cognitivo e cosciente", che capisca il mondo e sé
stesso, bisogna regalare un corpo al calcolatore, e questa scelta diviene necessaria se si presta
maggiore attenzione ai dati della biologia e dell'evoluzione. Le descrizioni e gli strumenti usati
finora in IA sono "alti e deboli": occorre integrarli con descrizioni e strumenti "bassi e forti", che
riflettano e riproducano lo sfuggente e pregnante "esserci nel mondo" dell'uomo teorizzato da
Heidegger. La conoscenza corporea e l'immersione del corpo nel mondo sono condizioni
necessarie e sufficienti per una semantica ricca e articolata, cioè una semantica come la si intende
comunemente. Senza la connessione mente-corpo la semantica sarebbe povera e rischierebbe di
ridursi a vuota sintassi.
Per concludere, mi sembra di poter affermare che fino a quando l'IA insisterà nel voler riprodurre
solo gli aspetti simbolici e formali della cognizione umana non riuscirà a fornire una simulazione
soddisfacente dell'intelligenza naturale. Ciò non toglie che possa ottenere risultati anche molto
importanti: ma questi risultati saranno caratterizzati più dall'aggettivo "artificiale" che dal sostantivo
"intelligenza". Se dunque l'ambizione è quella di produrre una simulazione dell'intelligenza
naturale, è forse indispensabile aggiungere al "calcolatore-cervello" un "robot-corpo" che si possa
immergere nell'ambiente. Questa condizione, probabilmente necessaria, non è tuttavia sufficiente:
può darsi benissimo che il sistema costituito da cervello (artificiale) più corpo (artificiale) manifesti
un'intelligenza molto diversa da quella umana, se non altro perché la storia, i fini e le necessità dei
due sistemi, uomo e macchina, sono molto diversi.
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