E. Scalfari, L`uomo che non credeva in dio Einaudi
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E. Scalfari, L`uomo che non credeva in dio Einaudi
E. Scalfari, L’uomo che non credeva in dio Einaudi, 2008. L’infanzia è una stagione fatata. La sola di tutta una vita che non finisce mai e t’accompagna fino all’ultimo respiro. Anche i ricordi dell’infanzia ti seguono negli anni, sono gli ultimi ad annebbiarsi e quando le cellule che presidiano la memoria sentono già il logorio del tempo, il gocciolio del tempo che cade dalla gronda del cielo sui tuoi pensieri ormai svagati e sconnessi, il fanciullino che è rimasto in te ancora ti invia segnali, segnali di riso e di pianto, di gioco e di malinconia. La nostalgia è il rimpianto d’un passato che è stato e non può tornare; ma la malinconia è diversa. È rimpianto di ciò che non è stato ma che sarebbe stato possibile, di un’altra vita non vissuta, di un amore che ti ha sfiorato senza fermarsi. Di un tu che avresti voluto incontrare ma non hai incontrato, di un te stesso che avresti voluto essere e non sei stato. Ciascuno di noi ha la sua infanzia e non ce n’è nessuna che somigli ad un’altra, ma questa diversità non è una tua scelta. Tu sei già una persona ma la materia che ti raffigura è come una cera morbida, calda, plasmabile. La plasmano i fatti, il mondo in cui vivi e nel quale il caso ti ha catapultato. Ti devi misurare con quel caso che ti ha fatto nascere nero o bianco, povero o ricco, alto o basso, allacciando fra loro le tue cellule neuronali in un modo o in un altro, in una famiglia accogliente o ispida, armoniosa o invece devastata dalla discordia. (12-13). Ma noi, noi bipedi muniti di memoria, capaci di opporre il dito pollice alle altre dita della mano, abili nel costruire strumenti, sapienti nel pensare; noi perché siamo stati separati dalla natura? Quando e come è potuto accadere questo fatto inaudito e in che cosa questa separazione ci rende diversi da tutte le altre forme di vita esistenti ed esistite sul pianeta? È stato quando mi sono fatto questa domanda che è venuto il pensiero dell’innocenza. E il rimpianto dell’innocenza che ci fu tolta per sempre quando l’angelo con la spada fiammeggiante cacciò dal Paradiso i Progenitori scaraventandoli nella storia. Fu allora che ci separammo dalla natura. Da quel momento, durato molte centinaia di migliaia di anni, l’innocenza fu perduta e al suo posto si installò la coscienza. Il pensiero che pensa se stesso. Il se stesso che costruisce l’io. Quale suprema invenzione quella dell’io! Senz’altro la più sontuosa delle fantasie che la natura abbia fin qui saputo produrre. L’io ha definitivamente perfezionato la nostra separazione dalla natura e la perdita dell’innocenza. L’innocente non sa di esserlo. La pietra è innocente, il passero, ma anche il falco che ghermisce, la tigre che sbrana, il serpente che afferra la preda e la divora, la furia del fiume che straripa uccidendo e devastando. Tutti sono innocenti, tutto qunto esiste al mondo è innocente e puro. Soltanto l’io ha perduto l’innocenza… (pagg. 42-43). Le cose – e le persone – bisogna accarezzarle con mano lieve, bisogna fissarle a lungo, coglierne il calore, pesarne la consistenza spogliandosi delle difese del proprio io, dei suoi appetiti, del suo narcisismo, della sua profonda e connaturata convinzione di essere il centro del mondo. Bisogna dimenticarsi di sé per conoscere l’altro senza invaderlo, bisogna modificare la grammatica della psiche per passare dall’io e dal tu al noi. Il noi dell’accoglienza che cancella la separatezza. Ricordate il Gesù di Nazareth nell’orto del Getsemani, la notte in cui fu arrestato e poi processato, infine crocifisso sul Golgota? Raccontano i Vangeli che si recò in quell’orto per pregare e comunicare al Padre la pena che gli gravava sull’anima. Lasciò Pietro e Giacomo che l’avevano seguito fin lì e si inoltrò nell’ombra della notte. Poi si gettò a terra e invocò il Padre. Gli chiese di allontanare da sé il calice della sofferenza. «Ma se tu non vuoi, sia fatta la tua volontà». Per due volte invocò il Padre e rinnovò quella preghiera senza ottenerne risposta. Intanto arrivavano i soldati per arrestarlo. (pagg. 44-45). La vita è un breve percorso che si svolge sotto l’incubo della morte. Per superare quell’incubo, la natura ci fornisce segmenti di senso insiti nella nostra naturalità di animali socievoli, coscienti, abili, operosi. Il «senso limitato», che io chiamo segmento di senso per sottolinearne la connessione con l’attività pratica anziché con il preteso «senso ultimo», coinvolge tutti gli atti vitali di ciascun individuo; il suo lavoro, il suo piacere, la cura delle sue malattie, la conquista del suo spazio e l’impiego del suo tempo. La sua competitività. Il suo amore del prossimo. Il suo innamoramento per l’altro. (pagg. 72-73). L. Canfora, Filologia e libertà. Mondadori, 2008. Tra alti e bassi il destino della conoscenza delle lingua classiche è stato segnato appunto da questa polarità: da un lato il piacere elitista da parte dei detentori (quelli davvero tali, intendo) di tali competenze, e, sul versante opposto, la liquidatoria derisione della loro «inutilità». Questi alti e bassi si sono ciclicamente abbattuti come bufere (cioè come riforme) sugli ordinamenti delle «strutture educative»: le attuali discussioni sono soltanto una tappa di questa lunghissima storia. Negli anni Cinquanta incrociarono le armi intorno alla permanenza del latino nella scuola dell’obbligo due grandi studiosi comunisti, tra loro molto diversi, Antonio Banfi e Concetto Marchesi, scrivendo entrambi sulle pagine dell’«Unità» (sotto l’occhio attento di Togliatti, intimamente pro-Marchesi). Beppe Fenoglio, Una questione privata. 1963. Per la verità, spiegò Sceriffo, erano tutt’e cinque imbestialiti. Avevano lasciato Mango poco dopo che Milton era rientrato a Treiso dalla sua puntata su Alba. Non erano ancora arrivati al passo della Torretta che già era notte nera, incarnita. Camminavano in cresta, pigliando di petto un vento forte, sinistro, di un freddo già invernale. Un vento, disse Meo, che senz’altro nasceva dalle tombe spalancate di uno di quei cimiteri d’alta collina dove lui non sarebbe rimasto nemmeno da morto fucilato. Era un deserto completo, ma tutti i cani della mezzacosta latravano, annusandoli mentre passavano in cresta. Cobra che non può soffrire i cani a ogni latrato tirava una bestemmia. Si era già incappucciato la testa nella coperta e così pareva una suora che camminasse bestemmiando. E considerando le bestemmie che i contadini tiravano ai loro cani che colo loro zelo rivelavano l’esistenza e la posizione di case altrimenti assolutamente invisibili, si concludeva che tutto il mondo era una bestemmia. Anche perché pure gli altri quattro, che avanzavano digrignando i denti, bestemmiavano mentalmente… (ed. Einaudi 1986 pagg. 42-43). Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Solo allora, giù in fondo al canale che scorreva un venti metri di sotto, china a lavar biancheria o stracci vecchi o budella o qualcosa di simile, vidi una donna un po’ più vecchia di me. Sulla sessantina, sapete. In mezzo a tutto quel silenzio e a quel freddo e a quel livido e a quell’immobilità un poco tragica, l’unica cosa viva era lei. Si chinava, e mi pare anche a fatica, affondava gli stracci nell’acqua, li torceva e sbatteva su un sasso: poi li affondava, torceva e sbatteva, e via ancora così. Né lentamente né in fretta, e senza mai alzare la testa. Mi fermai sopra il ciglio a guardarla. Un sasso scivolò giù, fino in acqua, ma la vecchia nemmeno s’accorse. Solo una volta interruppe un momento. Si mise una mano sul fianco, diede un’occhiata alla sua carriola sull’argine e alla capra che frugava fra l’erba: e poi ancora riprese. (Ed. Einaudi 1980 pagg. 11-12). P.V. Tondelli, Postoristoro. Sono giorni oramai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore dii ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione, chiacchiere e giochi di carte e il bicchiere colmo davanti, gli amici scoppiati pensano si scioglie così Dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo. (in Altri libertini, Ed. Feltrinelli 1987 pag.9). Giusy arriva ogni giorno, puntuale come una maledizione saltellando sui tacchi e spidocchiandosi la lunga coda di capelli che alle volte nasconde nel cuffietto peruviano; distribuisce occhiate veloci intorno passando svelto in mezzo ai crocchi di studenti brufolosi che vengono dalla campagna alle scuole professionali qui in città e c’hanno le gambe curve e tozze e i fianchi larghi, ma anche culi rotondi e sodi e pare che i muscoli che si sfregano duri alle cosce debbano sprizzare via da quei blue jeans intirizziti di nebbia, come nei pullman che la domenica dragano la provincia e rimorchiano verso le balere, ormai sospesi perché di notte, al ritorno saltavano pure mutandine e reggiseno e in fondo sui sedili allungati si consumavano gare di chiavaggio e pompinaggio, anche fra maschi… (Ibid. pag.10). E. Tadini, Eccetera. Io ho avuto un padre giovane. Se ci penso, era come se mi guardasse da lontano. Ma sempre, anche quando ero lì – che gli sarebbe bastato allungare un dito per toccarmi. Come fanno più o meno tutti i bambini, credo, che quando le gambe gli si cominciano a allungare è proprio allora che si accorgono che non toccano più e l’acqua gli sta arrivando al mento, io mandavo i miei bravi Sos uno via l’altro. E a chi dovevo mandarli, se non a mio papà? Ma a quanto pare lui lo teneva sempre staccato, il ricevitore. Aveva altro, per la testa. Fare il giovane a tempo pieno sembrava che la considerasse l’unica professione non solo decente ma addirittura possibile. Anzi, una vera vocazione. E così – gli era toccato, la storia, eccetera – così, giorni, mesi e anni, fin che ne vuoi, ma minuti no, neanche uno, non aveva un minuto da perdere, doveva per forza andare in giro a fare la famosa rivoluzione per cambiare il mondo, lui, e una volta per tutte. Io, intanto, povero figlio di un monaco, con le mie gambe mai abbastanza lunghe, io mi facevo certe bevute… Eppure, adesso, io, le prime parole messe proprio fra virgolette che mi vengono in mente… Una cosa va messa in chiaro, comunque. A scanso di equivoci. Non sto mica fingendo di venire qui a venderti nientemeno che la verità, io. Non è il mio ramo. Che chissà poi quale sarà, il mio ramo. Mi sembra di esser sempre lì che volo. Una fatica… Alle volte, passato mio, ti fai nebbia! Anzi il più delle volte, devo dire. Io, ti assicuro, dietro le spalle è come se ci fosse un muro. (8) Saremo già tutti morti, vigliacchi e coraggiosi, con patente o senza. Sentiremmo freddo ai piedi, freddo ai polpacci, freddo alle ginocchia, e continueremo a fischiettare e a dire cazzate con la nostra bocca ancora un filo tiepida. Questo è poco ma sicuro. L’ultima cosa a morire non è la speranza, sai, è la voglia di chiacchierare. Che in fondo è una speranza anche quella. Che le cazzate ci sopravvivano, voglio dire… E guarda che è meno tremendo di quanto possa sembrare. Senza cazzate non ti senti a casa. Pensaci. Sono come l’acqua per i pesci rossi. (10). Eppure… Facci caso. Di giorno le cose stanno lì, ferme, fanno la cura del sole. Di notte no – “ma la notte no”, come diceva l’unica canzone decente che io abbia sentito cantare da mio padre in tutta la sua vita – di notte qualsiasi cazzata può anche accendersi, proprio come una lampadina, addirittura come un riflettore. (12). “Senti, - le faccio, perché in quanto a attaccare sono un fenomeno, io – chiedilo in giro, se non sono famoso per come so attaccar discorso – senti, dicono che mandi giù di tutto. Vediamo se è vero”. “Proprio di tutto, no, - mi fa lei, con un’aria un po’ stanchina, - però assaggiare si può sempre”. Per dire la classe. L’oro nel fango eccetera. Dunque è chiaro che io non è questione di vigliaccheria. …Lei, una qualsiasi, bella o brutta, basta che sia una ragazza, una donna, lei viene avanti, e è come se venisse da un altro pianeta, e più bello, infinitamente più bello… Non ha bisogno di parlare. Non ha neanche bisogno di muovere un dito. Basta che si faccia vedere, e qualche milione di ragazzi ci lasciano l’anima. E tutto per quello straccio di campionario che si sono visti sventolare davanti al naso per un attimo. Possono anche fare i di più, tutti quei ragazzi, finché vogliono… ma intanto ci hanno lasciato l’anima. Proprio come si lascia un giubbotto al guardaroba. Solo che in questo caso la contromarca l’hai persa e addio. …. A proposito, sarà vero che i gay, loro, giocano sul velluto? Vuoi vedere che hanno scoperto il trucco? Il trucco per tenersela ben stretta, la loro brava anima, dico, sotto il braccio… Che sia per quello che aumentano in continuazione, loro e il loro pride? (16). E sì che io, poi, il lavoro che faccio non mi dispiace neanche. (19) Forse dovrei mettermi a cercare in fondo alle tasche. Sai, una briciola o due di sentimento… Non che ne abbia mai fatto grandi scorpacciate, io, di sentimento. Ma qualche briciola potrebbe anche essercene rimasta. Un po’ una villanata, in fondo. Toro seduto, le villanate, per carità, credo proprio che siano il suo pane. Quella che non me lo aspettavo è la sua ragazza, mi sembrava un tipo più a posto. (36) Certo che una parola come “bello”… No,, dico – ti rendi conto? – una parola che a quanto pare va bene per una voce, come in questo caso, e per un culo, per una scopata e per qualcosa che era già sul vago quando c’era e che adesso comunque non c’è più e stai solo sforzandoti di ricordarla, una parola che va bene per una montagna e per un’auto, per una musica di quelle tenere e per un uppercut che ti fa secco, per un bambino e per unn travestito di quelli sul cupo, per una farfalla e per una fetta di salame… Tanto è vero che noi «bello, bello, bello…» E cento volte al giorno come minimo. Come se noi, va bene tutto, ma l’importante è che ci sia sempre qualcosa, comunque, sottomano, di bello. Da riconoscere. Evviva! Sott’acqua cambia tutto. Senti che è fatto per tenerti su, sott’acqua, il mondo. Non per pesarti addosso. Basta, sott’acqua, a muoverti, che tu pensi “adesso mi muovo”. Come se tra il dire e il fare – tra il tuo famoso spirito insomma e il tuo corpo famigerato – non ci fosse nessuna differenza. Insomma, è come se a pensare non fosse soltanto il tuo cervello ma tutto il tuo bravo corpo, dalla testa ai piedi. Pensi-vai avanti, indietro, a destra, a sinistra, e in alto, in basso… Ti fa capire, insomma, che cosa sia davvero, insieme a te, quella cosa che i nani, loro, credo, molto rispettosamente, e invece le persone piuttosto alte, o anche di altezza normale, con qualche distrazione o noncuranza del tutto fuori luogo, chiamano “lo spazio”. Eccolo qua, il famoso spazio celeste… È talmente forte la sensazione, che provi, di riconoscerlo, il mondo in cui ti stai muovendo, la sensazione, voglio dire, di averci già abitato – chissà quando… Ecco, è come se tu fossi a casa tua, finalmente. Sei tornata! Sai che potrebbe darsi che, noi, quando ti prende la voglia di ballare, è proprio perché senti una gran nostalgia dell’acqua – di come si sta sott’acqua, voglio dire, anche se non ci sei mai stata in vita tua? Nostalgia di quello spazio lì, meraviglioso, di quel modo di pensare, cioè di muoverti, cioè di liberarti di quel peso tremendo che sei costretto a portarti sulle spalle dalla mattina alla sera, nella vita normale, e sentire che braccia, gambe e tutto, vanno, finalmente, vanno, vanno… (Ed. Einaudi 2002, pag. 62). Francesca Bonafini, Mangiacuore. Sarà che ti piove sulla testa un tormento che dio lo manda e non hai riparo e te lo becchi tutto addosso, e allora comincia la fatica di andare per le strade con i vestiti fradici di quel tormento lì che la gente ti guarda con occhi torvi, perché non lo capisce proprio niente quel travaglio. La gente non li capisce proprio quei vestiti pesanti di pioggia tormentosa e dice ma perché non se li toglie e si dà una regolata. (Fernandel, 2008, pag. 12). Gabriele Romagnoli, Solo i treni hanno la strada segnata. Alle 22 e 7 minuti di una notte di fine Maggio due uomini stavano seduti su una panchina, nella stazione della metropolitana di Hunter College, a New York. Erano simili per aspetto ed età: quarant’anni circa, pelle bianca, fisico asciutto, capelli corti. Nell’attesa del treno vagavano collo sguardo. Un ragazzo si avvicinò. Aveva l’aspetto di uno studente: pelle scura, pizzetto scolpito, la camicia a scacchi fuori dai jeans, scarpe da tennis, uno zainetto portato al contrario, con la sacca sulla pancia. Fece cadere la domanda a metà strada fra i due uomini. La formulò in maniera impersonale, senza rivolgersi a nessuno dei due in particolare. Chiese: «Sapete l’ora?». Uno dei due uomini sulla panchina fissò il ragazzo, con diffidenza. L’altro abbassò lo sguardo e, insieme, ruotò il polso. Il suo orologio aveva un quadrante blu. Disse: «Le dieci e sette». Il ragazzo gli sorrise. Disse: «Grazie». Infilò la mano nello zaino, estrasse la pistola e sparò tra gli occhi all’uomo che non aveva risposto. Neppure un istante, nel farlo, smise di sorridere. (Mondatori, 2008, pag. 55). Assante – Castaldo Mina Repubblica, 20 ottobre 2008. Trasgressiva e rassicurante al tempo stesso, Mina era moderna, miracolosamente amata da tutti, dal pubblico più colto ed esigente come dalle platee più provinciali. Mutava di foggia, mise e pettinature, davanti agli occhi divertiti degli spettatori, conquistava tutti col suo smagliante sorriso, alta, spesso molto più alta dei suoi ospiti maschi, sempre elegante, a tratti garbatamente eccessiva, mai volgare. In ogni occasione dominava con la sicurezza sbalorditiva del su canto, col timbro purissimo, l’intonazione perfetta, l’eclettica capacità di trovarsi a suo agio in qualsiasi zona della musica, fosse lo swing, la canzone napoletana, il tango di Astor Piazzola, il rabbioso pop di Lucio Battisti, canzoni antiche o modernissime, controcanti acrobatici ai suoi ospiti di turno, foss’anche Nilla Pizzi, musicisti complici o repertori apparentemente lontani da lei.