Una prospettiva di analisi organizzativa per il tema della diversità

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Una prospettiva di analisi organizzativa per il tema della diversità
Una prospettiva di analisi organizzativa per il tema della diversità
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Capitolo Primo
Una prospettiva di analisi organizzativa per il
tema della diversità
1.1. La diversità: un inquadramento concettuale. – 1.2. Le dimensioni della diversità. – 1.3.
Un dibattito aperto nella letteratura organizzativa. – 1.4. Il ruolo degli stereotipi ed il contributo degli studi di Organizational Behavior.
1.1. La diversità: un inquadramento concettuale
La diversità rappresenta un tema di ricerca di recente interesse nell’ambito
della letteratura organizzativa. I primi studi sull’argomento sono stati condotti
negli Stati Uniti, dove gli sviluppi demografici e le spinte internazionalistiche delle aziende hanno focalizzato l’attenzione manageriale sulla ricerca di nuovi modelli di organizzazione aziendale e di gestione delle risorse umane.
Alla fine degli anni ’80 è stato pubblicato in America Workforce 2000 (Johnston, Packer, 1987), un report dello Hudson Institute, commissionato dal Dipartimento del Lavoro del Governo Americano che presentava una proiezione
degli sviluppi demografici della popolazione americana per i successivi dieci anni.
Le previsioni emerse sulla progressiva affermazione delle donne e degli uomini
di colore nelle aziende americane sollecitarono significativamente l’interesse
dell’opinione pubblica ed, in particolare, di manager ed imprenditori, che iniziarono così ad interessarsi al fenomeno della diversità demografica della forza
lavoro.
Il nuovo orientamento manageriale fu tuttavia determinato non solo dagli
sviluppi demografici del Paese, ma anche dai cambiamenti emersi sullo scenario competitivo, per la necessità da parte delle aziende di orientare le proprie
strategie alla qualità ed all’innovazione dei prodotti ed ai processi di internazionalizzazione.
In tale prospettiva, gli assetti organizzativi tradizionali, di tipo funzionale, si
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presentavano inadeguati iniziando ad affermarsi modelli di organizzazione più
complessi, che spesso travalicavano i confini nazionali. Lo sviluppo delle imprese multinazionali e la diffusione di accordi di collaborazione o di rapporti di
scambio con imprese straniere hanno creato l’esigenza di un management interculturale, aperto al confronto e all’integrazione tra individui diversi per tradizione, costumi, lingua, stili di vita, religioni.
La ricerca sul tema della diversità nelle aziende si è sviluppata secondo una
varietà di prospettive teoriche, che hanno fornito differenti concettualizzazioni
dello stesso fenomeno.
Molteplici sono le espressioni utilizzate con riferimento al concetto di diversità, come etergeneità, varietà, divergenza, dispersione, dissimilarità; analogamente, si riscontra un ampio ricorso anche ad espressioni che definiscono concetti opposti alla diversità, come omogeneità, similarità, convergenza, consenso.
A questa varietà di espressioni corrispondono altrettanti tentativi di fonire
una definizione esaustiva del fenomeno. Alcuni Autori, in particolare, hanno
definito la diversità in senso restrittivo, confinado il campo di analisi solo a poche variabili demografiche, come il genere e la razza (Cross et al., 1994; Morrison, 1992). Altri invece adottano una concettualizzazione più ampia del fenomeno, per la quale la diversità scaturisce non solo da variabili demografiche ma
anche da caratteristiche non immediatamente visibili e percepibili, come i tratti
della personalità, i valori, le abilità, le competenze professionali, gli anni di esperienza in azienda (Jackson et al., 1995; Thomas, 1991).
Tutte queste variabili possono essere fonte di differenze molto significative
tra gli individui, creando complessità nella demografia aziendale per l’ampia varietà di comportamenti professionali e sociali di cui i lavoratori diventano interpreti.
Approcci più recenti nello studio del fenomeno hanno introdotto il concetto di “diversità percepita”, definito come la misura in cui gli individui percepiscono elementi di differenza tra loro (Dooley et al., 2000; Harrison et al., 1998;
Harrison et al., 2002; Jehn et al., 1999; Miller et al., 1998; Turban e Jones, 1988).
Al concetto di diversità, basato su caratteristiche distintive oggettivamente riscontrabili tra individui, alcuni Autori preferiscono quello di diversità percepita,
per il maggior potere esplicativo riconosciuto a tale costrutto quando sono studiati i comportamenti organizzativi.
Da tali considerazioni emerge un quadro estremamente complesso, da cui
risulta difficile pervenire ad una definizione univoca ed esaustiva del fenomeno
della diversità. Ciò ha contribuito ad un clima di disorientamento tra gli studiosi, per la mancanza di una terminologia condivisa e la possibilità di un confronto basato su una concettualizzazione comune.
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Considerando i vari contributi forniti dalla letteratura, nel presente lavoro si
propone una definizione di sintesi che descrive la diversità come “la distribuzione delle differenze tra individui che compongono una unità organizzativa
con riferimento ad una caratteristica comune” (Harrison, Klein, 2007).
La diversità rappresenta quindi un costrutto multidimensionale che può essere definito con riferimento ad una unità organizzativa. In particolare, non esiste diversità in sé, ma si può parlare di diversità solo in relazione ad una specifica caratteristica su cui gli individui manifestano delle differenze. La diversità
inoltre può essere osservata tra individui che compongono una unità organizzativa, sia essa rappresentata da un gruppo, una funzione aziendale, una organizzazione. In tal senso, gli studi sulla diversità offrono una prospettiva di analisi differente rispetto a quella tipica degli studi di demografia relazionale, dove
sono considerate le differenze tra un attore focale rispetto a tutti gli altri genericamente considerati (Tsui et al., 1992).
Un contributo importante al dibattito concettuale sul tema della diversità arriva da Harrison e Klein (2007), che indicano tre differenti concetti cui gli studi
sulla diversità di volta in volta fanno richiamo: separazione, varietà, disparità.
La separazione indica differenze tra individui che assumono posizioni ed
esprimono opinioni contrastanti con riguardo ad un compito o ad un tema di discussione. Tale concetto viene spesso richiamato per evidenziare differenze tra
individui in termini di atteggiamenti e comportamenti che possono creare conflitti oltre che problemi di coesione ed integrazione sociale (Locke, Horowitz,
1990; Tsui et al., 1995).
La varietà esprime differenze tra individui in termini di conoscenze, esperienze ed informazioni. La diversità come varietà rappresenta un concetto utilizzato
per spiegare la possibilità di processi decisionali più efficaci nell’ambito di gruppi
eterogenei, in termini di conoscenze, stili cognitivi e background funzionale
(Argote, Ingram, 2000; Austin, 2003; Finkelstein, Hambrick, 1996).
La disparità è riferita a differenze che scaturiscono dal prestigio o dallo status
sociale di alcuni individui rispetto ad altri. La letteratura sulla dispersione retributiva utilizza spesso il concetto di diversità con tale significato (Bloom, 1999),
spiegando come le differenze di status, potere o di retribuzione tra i membri di
un gruppo favoriscono un clima di competizione, creano frustrazione ed incitano ad atteggiamenti devianti.
Separazione, varietà e disparità esprimono pertanto tre differenti modi di
concepire la diversità, che utilizzano framework teorici e metodologie di analisi e
misurazione differenti. In gran parte degli studi sulla diversità, tuttavia, viene
fatto un richiamo solo implicito al significato che si intende attribuire al termine diversità, evitando spesso una definizione chiara ed esaustiva del fenomeno.
Ciò ha favorito un clima di confusione e mancanza di chiarezza tra gli studiosi,
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provocando spesso errori per il ricorso a metodologie di analisi e misurazione
inappropriate.
Un riferimento più esplicito al significato del termine ed una maggiore attenzione alla concettualizzazione del fenomeno favorirebbero un confronto più
aperto tra gli studiosi anche per la possibilità di definire un linguaggio unico e
condiviso. Si creerebbero quindi le premesse per un migliore sviluppo teorico e
metodologico sul tema.
Quadro 1.1. – La diversità nei media: Dr. House – Medical Division
Dr. House – Medical Division è una serie televisiva americana incentrata sulla
figura del dottor Gregory House, uno specialista infettivologo e nefrologo a
capo di una squadra di medicina diagnostica in un ospedale del New Jersey. La
trasmissione di questa serie televisiva è iniziata nel 2004 e attualmente, con una
diffusione in oltre 66 Paesi, si afferma come il programma televisivo più trasmesso al mondo. Tra i diversi premi e riconoscimenti conseguiti, il Dr. House –
Medical Division annovera due Golden Globe e tre Emmy Award.
La figura del dottor House ed i vari episodi in cui lo stesso è protagonista
sono stati oggetto di studio e riflessione, in vari ambiti, religioso, filosofico,
medico e deontologico. Di particolare interesse risultano sia le tematiche affrontate (es. eutanasia), sia il particolare approccio alla soluzione dei problemi
da parte del dottor House, medico di 50 anni con una disabilità fisica alla gamba, dotato di grande capacità ed esperienza, ma con metodi di lavoro stravaganti e poco convenzionali.
Le caratteristiche del team di lavoro che supporta il dottor House offrono
interessanti spunti di riflessione sul tema della diversità e dei benefici che ne
possono scaturire. Il team è composto da 4 medici molto diversi tra loro, sia in
termini di attributi demografici, che sulla base di caratteristiche di personalità e
competenze specialistiche.
Nelle ultime stagioni, il gruppo di lavoro del dottor House è più volte cambiato nella sua composizione ed attualmente risulta composto da Taub (l’attore
Peter Jacobson), medico ebreo quarantenne specializzato in chirurgia plastica,
da Katner (l’attore Kal Penn), di origine indiana specializzato in medicina sportiva e da Hadley (l’attrice Olivia Wilde), unica donna presente nel gruppo, specializzata in medicina interna.
La presenza di diversità di età, diversità di genere, diversità di razza, diversità funzionale e la condizione di disabilità fisica del team leader si affermano
come caratteristiche peculiari che consentono al team di lavoro di raggiungere
brillanti risultati, contribuendo al raggiungimento di una straordinaria efficacia
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nel processo decisionale. Il gruppo, infatti, riesce abitualmente a risolvere con
successo i casi più complessi grazie alla discussione di gruppo e al confronto
reciproco, sulla base di conoscenze ed esperienze peculiari di cui ciascun medico è portatore.
Caso di Marcello Russo
1.2. Le dimensioni della diversità
La diversità tra i lavoratori in azienda può manifestarsi secondo una varietà
di dimensioni. C’è diversità nelle culture nazionali, nella localizzazione geografica, nel genere, nell’età, negli orientamenti sessuali, nella condizione sociale,
nello stile di vita, nella formazione, ecc.
Tali dimensioni sono spesso correlate tra loro e si influenzano reciprocamente. Persone di differenti razze o etnie, per esempio, quasi sempre presentano differenze significative in relazione allo status socio-economico, al livello di
istruzione, alla religione e all’orientamento culturale (Pisares, 1999). Così come
uomini e donne talvolta rivelano differenze significative relativamente a capacità relazionali e ad orientamenti cognitivi.
Ciascuna dimensione della diversità può assumere un particolare significato
in relazione allo specifico contesto sociale ed ambientale di riferimento. L’età,
per esempio, rappresenta una dimensione rilevante in Paesi come gli Stati Uniti, dove i lavoratori di età superiore ai 50 anni sono spesso discriminati nelle aziende; diversamente, l’età è percepita in maniera molto meno rilevante rispetto
ad altre variabili come il genere e la razza nelle culture dei Paesi orientali.
Nel tentativo di fornire una classificazione delle dimensioni della diversità in
azienda, si propone un criterio molto diffuso tra gli studiosi, che descrive le differenze tra gli individui secondo caratteristiche osservabili e non osservabili (Cummings et al., 1993; Jackson et al., 1995; Tsui et al., 1992; Milliken, Martins, 1996).
Le caratteristiche osservabili sono tipicamente rappresentate dall’età, il genere, la razza, l’etnia, la forma fisica, il dialetto, il modo di parlare e più generalmente di presentarsi da parte di un individuo. Tali caratteristiche rimangono
generalmente immutabili nel tempo, sono immediatamente visibili e quasi sempre possono essere misurate in maniera attendibile (Jackson et al., 1993, 1995;
Milliken, Martins, 1996).
Le caratteristiche non osservabili determinano differenze tra individui basate su personalità, atteggiamenti, credi, valori, livello di istruzione, abilità tecniche, competenze funzionali, background socio-economico. Si evidenzia in let-
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teratura come tali attributi siano esposti a possibili evoluzioni nel tempo e siano modificabili per effetto di processi di crescita e di apprendimento da parte
dell’individuo (Jackson et al., 1995; Milliken, Martins, 1996).
Le due dimensioni della diversità, basate su caratteristiche osservabili e non
osservabili, non sono mutuamente esclusive in quanto gli attributi osservabili
dell’individuo sottintendono anche una forma di diversità “invisibile” o non
immediatamente percettibile. Si consideri, per esempio, che persone di razze
differenti, chiaramente identificabili in relazione al colore della pelle o a caratteristiche fisiche, quasi sempre presentano differenze significative in relazione allo status socio-economico, al livello di istruzione, e all’orientamento culturale
(Pisares, 1999).
Le dimensioni osservabili
Le differenze riscontrabili nelle caratteristiche osservabili degli individui sono riconducibili a variabili demografiche, rappresentate da tratti fisici (es. colore della pelle), caratteristiche biologiche (es. sesso ed età), condizioni di vita, usi
e costumi.
Secondo Cox (1993) le caratteristiche demografiche contribuiscono alla definizione dell’identità culturale di un individuo evidenziandone l’appartenenza
ad un particolare gruppo con caratteristiche distintive sotto il profilo sociale e
culturale (Ely, Thomas, 2001).
Le variabili demografiche sono state oggetto di interesse per gran parte degli
studiosi della diversità in azienda, probabilmente per la possibilità di essere misurate in maniera più attendibile oltre che per la diffusa convinzione che le caratteristiche demografiche sono espressione di differenze più profonde relativamente alla sfera psicologica degli individui (Bantel, Jackson, 1989; Jackson et
al., 1993; Pfeffer, 1983; Tsui et al., 1992). Il focus su tali variabili è stato anche
determinato dal forte interesse da parte del legislatore dei vari Paesi per il tema
delle pari opportunità e delle politiche antidiscriminatorie in azienda, con specifico riferimento a variabili basate sulla razza ed il genere (Harrison et al., 1998).
La ricerca sul tema della diversità demografica si è sviluppata secondo due
filoni di studio prevalenti.
Un primo filone affronta il tema della diversità considerandone l’impatto sui
livelli di performance, individuali ed organizzativi, che giustificherebbero interventi di gestione e valorizzazione della diversità in azienda.
Una demografia aziendale caratterizzata da varietà di genere, classi di età,
razza o etnia rappresenta una fonte di valore per l’organizzazione, garantendo
maggiore creatività nei processi decisionali, l’orientamento alla qualità e all’innovazione ed un sistema di organizzazione del lavoro più flessibile e aperto al
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cambiamento (Finkelstein, Hambrick, 1996; Hoffman, Maier, 1961). Gli studi
condotti nell’ambito di tale filone rappresentano la diversità come espressione
di differenze significative, relative ad aspetti più profondi rispetto a quelli che
appaiono in superficie, come la personalità, le capacità e la sfera psicologica degli individui. Per le donne, in particolare, sono considerate come caratteristiche
distintive le capacità relazionali, l’orientamento al compito e la propensione alla
collaborazione (Helgesen, 1990; Rosener, 1990). Per gli uomini di colore, invece, sono evidenziati modelli di comportamento peculiari basati sull’assertività, la
costanza, ed il linguaggio, caratterizzato da una spiccata inventiva verbale (Foeman, Pressley, 1987). In relazione a tali aspetti sono evidenziati i contributi che
la varietà demografica può apportare ai processi organizzativi ed alle performance aziendali.
Nella stessa prospettiva è stato studiato l’effetto che la diversità demografica
ha sui processi cognitivi e decisionali dei gruppi (Gruenfeld et al., 1996; Wittembaum, Stasser, 1996). Le differenze tra i lavoratori possono favorire una
maggiore efficacia nei processi decisionali di gruppo, grazie alla varietà di prospettive di analisi, stili cognitivi, conoscenze ed informazioni di cui il gruppo
diventa espressione (Jehn et al., 1999).
Il secondo filone di studi è attento agli aspetti etico-morali della diversità,
focalizzandosi prevalentemente sui problemi di iniquità sociale e sulle pratiche
discriminatorie che tendono a penalizzare quelle categorie di lavoratori sottorappresentate in azienda. Nell’ambito di questa letteratura si collocano gli studi
sul fenomeno del glass ceiling (Cox, Nkomo, 1990; Wirth, 2001), sul differenziale
retributivo (Ashraf, 1996; Blau, Beller, 1988), sulla segregazione occupazionale
(Anker, 1998; Ibarra, 1995).
Forme di discriminazione sono frequenti in aziende dove esistono rilevanti
squilibri nella composizione demografica della forza lavoro. Donne, anziani,
stranieri, spesso presenti in minoranza numerica, rappresentano gruppi minoritari in azienda, che subiscono pressioni da parte della maggioranza e sono quindi
costretti a comportamenti difensivi (Kanter, 1977).
Una configurazione demografica più equilibrata potrebbe favorire le dinamiche relazionali tra i gruppi e contribuire a migliorare le performance degli individui afferenti a quelle categorie sottorappresentate. È stato osservato che
una maggiore presenza del numero di donne in settori tradizionalmente dominati dalla presenza maschile potrebbe migliorare lo scambio informativo tra
uomini e donne (Blau, 1977), attenuare l’incidenza degli stereotipi sulle donne
(Kanter, 1977), favorire criteri di valutazione basati sul merito piuttosto che sul
genere (Gutek, 1985), ridurre gli atteggiamenti discriminanti contro le donne 1.
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Altri studi, invece, hanno riscontrato un peggioramento delle dinamiche relazionali tra ca-
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Le dimensioni non osservabili
Le differenze basate su caratteristiche non osservabili sono tipicamente riferite ai tratti della personalità, credi, valori e atteggiamenti, ai livelli di istruzione
o competenze espressi da un individuo sul luogo di lavoro (Milliken, Martins,
1996). Le informazioni su tali caratteristiche possono essere trasmesse sulla base di modelli di comportamento verbali e non verbali che possono essere appresi in seguito ad un periodo più o meno lungo di socializzazione tra individui, in modo da favorire lo scambio di informazioni ed una conoscenza reciproca approfondita (Jackson et al., 1995; Milliken, Martins, 1996).
Negli studi di psicologia sociale si osserva che individui simili tra loro secondo caratteristiche non osservabili tendono ad attrarsi mostrandosi particolarmente predisposti ad instaurare un rapporto di amicizia (Antill, 1984; Byrne,
1971; McGrath, 1984; Newcomb, 1961). Tali affinità favoriscono le relazioni
interpersonali, rafforzando la comunicazione e lo scambio informativo. Ciò porta ad una riduzione dell’ambiguità di ruolo e del conflitto di ruolo, perché gli
individui condividono convinzioni di fondo e punti di vista comuni con riguardo al proprio lavoro e più specificamente ai compiti da svolgere.
Differenze significative espresse in termini di personalità e valori sono associate a forme di conflitti interpersonali più o meno gravi sui luoghi di lavoro, in
quanto esse rappresentano fonte di incompatibilità e conflitti tra individui (Tosi
et al., 2002).
La diversità di valori, in particolare, è stata osservata nell’ambito del rapporto tra capi e sottoposti, dove le incongruenze tra i valori espressi da un lavoratore e lo stile di leadership del capo possono creare demotivazione e, quindi, un
calo delle performance da parte del lavoratore. L’importanza riconosciuta ai valori dell’autonomia e dell’indipendenza, ad esempio, può entrare in conflitto con
una leadership autocratica e poco partecipativa creando un clima di ostilità che
potrebbe impattare negativamente sui livelli di produttività a lavoro.
Tra le caratteristiche non osservabili che possono creare differenze talvolta
rilevanti tra individui sono considerati anche il livello ed il tipo di istruzione
percepita (Milliken, Martins, 1996). Nell’ambito di studi condotti sui team manageriali si è osservato che la diversità di istruzione può anche scaturire dal prestigio della Scuola o dell’Università di provenienza (Cummings et al., 1993; Jategorie di lavoratori al progressivo affermarsi della presenza dei gruppi di minoranza in azienda. Costoro, infatti, possono essere percepiti come una minaccia dal gruppo di maggioranza,
sollecitando atteggiamenti difensivi che, attraverso pratiche discriminatorie, sono tesi ad ostacolare la conquista di posizioni di potere da parte di questi gruppi di minoranza. Yoder (1991)
ha descritto tale processo come “contraccolpo” da parte del gruppo di maggioranza.
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ckson et al., 1991). Tali differenze possono determinare una elevata propensione al turnover da parte di coloro che non possono vantare un titolo di laurea
conseguito presso una Università prestigiosa.
Studi recenti evidenziano che le caratteristiche non osservabili che creano
differenze significative tra gli individui possono dar luogo alle cosiddette “identità sociali invisibili” (Clair et al., 2005). È questo il caso di specifiche categorie
rappresentate, ad esempio, da individui affetti da alcune forme di malattie croniche non chiaramente manifeste, come la sclerosi multipla o l’epilessia, di individui che presentano un orientamento sessuale discordante, come nel caso di
uomini gay o donne lesbiche, o di persone con origini razziali non chiaramente
evidenti, come spesso accade per gli Afro-Americani (Leary, 1999; Herek, 1996;
Reimann, 2001; Woods, 1994; Pinder, 1995 Schneider, Conrad, 1980). Tali condizioni creano delle identità sociali invisibili, per la consapevolezza da parte dei
soggetti interessati di appartenere a categorie con caratteristiche distintive, senza
possibilità di un immediato riconoscimento da parte di altri (Clair et al., 2005).
Questi individui sono esposti al rischio di essere stigmatizzati e, conseguentemente, di subire azioni discriminanti sul lavoro o di essere emarginati socialmente. Il
timore di essere riconosciuti crea un condizione di costante stress sul lavoro e spesso induce queste persone a non rivelare la propria identità (Schneider, 1987).
1.3. Un dibattito aperto nella letteratura organizzativa
La grande quantità di studi e ricerche condotti sul tema della diversità si caratterizza per un orientamento fortemente manageriale, ponendosi a supporto
di manager ed imprenditori, specialisti della formazione, consulenti d’azienda
(Ivancevich, Gilbert, 2000). Si consideri al riguardo che dal 2005 il 76 % delle
aziende americane ha intrapreso iniziative e programmi per la gestione della diversità investendo miliardi di dollari per servizi di consulenza alle aziende (Esen,
2005; Lubove, 1997). Tale trend manageriale, dopo i primi sviluppi in America,
si è poi progressivamente diffuso in altre realtà aziendali, asiatiche, europee, del
Sud America e del Sud Africa (Prasad et al., 2006).
L’ampia diffusione di iniziative per la gestione della diversità, tra le aziende
di successo, con forte reputazione e visibilità sullo scenario economico internazionale, ha favorito una concezione della diversità come moda manageriale,
piuttosto che come una reale esigenza organizzativa (Cuomo, Mapelli, 2007).
Conseguentemente, il tema della diversità e delle correlate politiche gestionali è stato fortemente patrocinato da accademici e consulenti d’azienda, impegnati nel perseguimento di interessi personali, come la realizzazione di una pubblicazione scientifica innovativa o la definizione di nuove opportunità di busi-
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ness per offrire servizi di consulenza alle aziende (Cuomo, Mapelli, 2007).
Tale approccio ha per anni caratterizzato gli studi sulla diversità ostacolando
lo sviluppo di un’indagine scientifica sistematica e rigorosa. Le conseguenze più
significative sono state riscontrate nella mancanza di un chiaro sviluppo concettuale e nell’indeterminatezza di strumenti concreti di misurazione e valutazione
del fenomeno in ambito organizzativo.
La carenza di un approccio sistematico in tale letteratura è evidente nella definizione di un quadro di studi fortemente frammentato e talvolta confuso, dal
quale risulta difficile una rappresentazione di sintesi chiara e coerente del fenomeno.
Tre livelli di analisi possono riscontrarsi nella letteratura sulla diversità, micro, meso e macro, in relazione al grado di specificità con cui sono considerati
gli effetti della diversità sugli individui e sui suoi comportamenti a lavoro.
Ad un livello di analisi micro gli studi sulla diversità sono orientati alla definizione di un modello interpretativo del comportamento organizzativo per effetto della diversità. L’analisi della relazione tra diversità e comportamenti sul
lavoro si fonda su una lunga tradizione di ricerca nell’ambito degli studi di psicologia industriale ed organizzativa (Schreiber, 1979). Variabili demografiche
basate sull’età, la razza, il genere sono state considerate in relazione ai livelli di
produttività sul lavoro (Waldman, Avorio, 1986), ai tassi di turnover e di assenteismo in azienda (Mobley et al., 1978; Rhodes, Steers, 1990), alla job satisfaction
ed al commitment organizzativo dei lavoratori (Mowday et al., 1982).
I framework teorici più frequenti nell’ambito di tali studi sono tratti dalla psicologica cognitiva (Carr-Ruffino, 1998; Cox, Beale, 1997; Hogan-Garcia, 2003;
Holmes, 2006; Iwata, 2004; Plummer, 2003), e dai modelli ecologici e cognitivi
della variazione, selezione e conservazione (Campbell, 1960) e dal principio cibernetico della varietà dei requisiti (Ashby, 1956).
Ad un livello di analisi meso, gli studi sulla diversità si focalizzano sulle strategie e le politiche stabilite a livello aziendale per gestire la diversità della forza
lavoro in azienda (Kossek et al., 2006; Pringle et al., 2006).
Tali studi attingono prevalentemente dalla letteratura sullo Human Resource
Management e Cultural Management e considerano tutti i benefici che un’azienda
può realizzare grazie ad un’adeguata gestione della diversità tra i suoi lavoratori.
Cox e Blake, in un noto articolo pubblicato nel 1991, descrivono l’opportunità dell’adozione di politiche di gestione della diversità in azienda, considerandone prevalentemente gli effetti positivi sulle performance aziendali.
La letteratura sulla diversità in una prospettiva di analisi meso comprende
anche molti studi sulla cultura organizzativa, che contribuiscono ad una migliore
comprensione del fenomeno della diversità. Il modello di organizzazione multiculturale di Cox (1991) si configura come lo studio più rappresentativo di tale
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filone di ricerca, nel quale sono presentati strumenti e politiche finalizzati ad
accogliere e valorizzare la diversità culturale a tutti i livelli organizzativi.
Coerentemente, lo studio di Thomas (1990) spiega i benefici che scaturiscono dalla diversità culturale nelle organizzazioni e fornisce chiare indicazioni sul
ruolo chiave della leadership nella gestione della diversità, al fine di favorire e
valorizzare un ambiente multiculturale.
In una prospettiva di analisi di tipo macro, gli studi sulla diversità considerano l’impatto delle variabili ambientali, socio-politiche e culturali sui fenomeni di
diversità in azienda (Pringle et al., 2006).
Molti di questi contributi attingono dalla letteratura sociologica, utilizzando
le teorie femministe, post-coloniali, del post-strutturalismo (Jones, 2004; Jones,
Stablein, 2006; Liff, Wajcman, 1996; Prasad, 2001; Prasad et al., 1997; Prasad et
al., 2006).
Alcuni Autori hanno considerato, ad esempio, come il tema della gestione della diversità in azienda si intreccia con quelli della giustizia sociale e delle pari opportunità (Mavin, Girling, 2000). Altri, invece, hanno descritto la gestione della
diversità come un discorso di potere manageriale (Jones et al., 2000; Lorbiecki,
Jack, 2000; Miller, Rowney, 2001; Sinclair, 2000), evidenziando la posizione di
privilegio riconosciuta in ambito organizzativo a certi gruppi socio-culturali a discapito di altri.
Tra le teorie più citate in questa letteratura si considerino la teoria della giustizia distributiva (Adams, 1963; Deutsch, 1985), la teoria dei tornei (Lazear,
1995; Lazear, Rosen, 1981), le teorie della stratificazione, dello stato gerarchico
e delle caratteristiche di status (Berger et al., 1977; Blau, 1960). Tali framework
teorici suggeriscono che il clima di competizione che spesso scaturisce dalle differenze retributive o nelle posizioni di potere e di prestigio possono indebolire
le relazioni interpersonali, riducendo la comunicazione tra gli attori e gli scambi
informativi.
Molteplici sono le criticità e le zone d’ombra che si possono evidenziare nell’ambito di tale letteratura.
In primo luogo, si osserva l’inconsistenza dell’analisi empirica sui temi della
diversità, testimoniata dalla presenza di risultati spesso contrastanti ed incoerenti che hanno contribuito ad alimentare un clima di confusione e di scetticismo teorico tra gli studiosi.
Un altro problema che si segnala riguarda la mancanza di un paradigma comune e condiviso sulla diversità. L’assenza di una visione comune sul concetto
di diversità, l’esistenza di più livelli di analisi e di una varietà di prospettive teoriche negli studi sul tema hanno ostacolato l’adozione di un linguaggio unico e
condiviso, creando spesso problemi di dialogo e comunicazione tra gli studiosi,
che si sono focalizzati su specifici aspetti del problema. Tale approccio, se da
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Diversità e stereotipi nell’organizzazione
un lato ha favorito l’analisi del fenomeno su aspetti e dimensioni differenti,
dall’altro lato ha creato difficoltà ad uno sviluppo coerente ed organico della ricerca scientifica sulla diversità, determinandone spesso rappresentazioni parziali e semplicistiche.
Altri problemi possono riscontrarsi per il frequente ricorso ad un approccio
normativo e prescrittivo nello studio della diversità, che ha determinato una visione eccessivamente semplificata del problema. Sono, infatti, trascurate le implicazioni della diversità sui processi organizzativi, oltre a riscontrarsi una diffusa tendenza a decontestualizzare il fenomeno, considerandolo indipendentemente dagli effetti che possono scaturire dal più ampio contesto socio-politico
e culturale in cui esso si sviluppa (Cassell, Biswas, 2000; Jones et al., 2000; Pringle et al., 2006).
1.4. Il ruolo degli stereotipi ed il contributo degli studi di Organizational
Behavior
Gli stereotipi derivano dall’umana tendenza a categorizzare le persone in
gruppi ampi, definiti secondo variabili socio-culturali, e a sviluppare credi e convinzioni sulle caratteristiche e sui comportamenti che accomunano le persone
di un medesimo gruppo (Powell et al., 2002; Gupta et al., 2005).
Si tratta di un tema molto presente negli studi di psicologia sociale e cognitiva, che enfatizzano il ruolo degli stereotipi nella formazione di giudizi e nei
processi decisionali (Fiske, Taylor, 1991). Negli ultimi anni, tuttavia, gli stereotipi si stanno affermando come argomento di rilevante interesse tra gli studiosi
di Human Resource Management e Organizational Behavior, nell’ambito di ricerche
condotte sulla diversità in azienda.
La crescente attenzione per tale tema deriva dal riconoscimento che molte
iniziative per la gestione della diversità in azienda sono spesso ostacolate dalla
presenza di stereotipi fortemente radicati nella cultura organizzativa, vanificando energie e capitali investiti su tali iniziative (Hansen, 2003; Kochan et al.,
2003).
Gli stereotipi creano problemi di iniquità sociale e di pratiche discriminatorie che tendono a penalizzare quelle categorie di lavoratori sottorappresentate.
Donne, anziani, stranieri, disabili, rappresentano storicamente gruppi minoritari in azienda, che subiscono pressioni da parte della maggioranza e sono quindi
costretti a comportamenti difensivi.
Fenomeni di discriminazione possono manifestarsi in varie forme, escludendo, ad esempio, certi lavoratori da ruoli di responsabilità o posizioni di prestigio, ma anche attraverso modalità più subdole e meno manifeste, etichet-