Studia Moralia – Vol. XXXVIII / 2

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Studia Moralia – Vol. XXXVIII / 2
Studia
Moralia
Biannual Review
published by the Alphonsian Academy
Revista semestral
publicada por la Academia Alfonsiana
VOL. XXXVIII/2
2000
EDITIONES ACADEMIAE ALPHONSIANAE
Via Merulana 31, C.P. 2458 - 00100 Roma, Italia
283
Studia Moralia
–
Vol. XXXVIII / 2
CONTENTS / ÍNDICE
CONVEGNO
“La morale alfonsiana:
una risposta alle sfide di ieri e oggi”
in occasione del 50º anniversario della proclamazione di
sant’Alfonso Maria de Liguori
come patrono dei confessori e dei moralisti
Roma, Accademia Alfonsiana, 29-31 marzo 2000
J. W. TOBIN, Saluto ai partecipanti.....................................
B. HIDBER, La morale alfonsiana: strumento ermeneutico
per una risposta alle sfide di ieri e di oggi?
Presentazione, scopo e struttura del Convegno.........
R. GALLAGHER, The Alphonsian Tradition in the Light of
Consueverunt omni tempore. The Theological
Significance of an Ecclesial Event .............................
S. MAJORANO, Il confessore, pastore ideale nelle opere di
sant’Alfonso..................................................................
M. VIDAL, Rasgos innovadores en la moral de san Alfonso
R. TREMBLAY, “Hors de moi, vous ne pouvez rien faire”
(Jn 15, 5). À propos du fondement ultime de la
morale chrétienne........................................................
P. GILBERT, Le pardon dans la culture contemporaine .....
M. P. FAGGIONI, La sfida del riduzionismo tecnoscientifico
al progetto uomo .........................................................
A.-M. JÉRUMANIS, Le défi de l’espérance aux espérances
intramondaines............................................................
M. MCKEEVER, Tempi, testi, tradizioni: riflessioni conclusive ................................................................................
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Concerning / A propósito de Fides et ratio
J. LAFFITTE, L’agir rationnel du croyant. L’apport de
l’encyclique Fides et ratio à la théologie morale ........
523
Chronicle / Crónica
D. GROS, Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000...........................................
541
Reviews / Recensiones .........................................................
577
Books Received / Libros recibidos .......................................
631
Index of Volume XXXVIII / Índice del Volumen XXXVIII..
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CONVEGNO
“La morale alfonsiana:
una risposta alle sfide di ieri e oggi”
in occasione del 50º anniversario della
proclamazione di
sant’Alfonso Maria de Liguori
come patrono dei confessori e dei moralisti
Roma, Accademia Alfonsiana, 29-31 marzo 2000
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StMor 38 (2000) 287-289
P. JOSEPH WILLIAM TOBIN C.Ss.R.
SALUTO AI PARTECIPANTI
Ci sono degli atti di ubbidienza che non costano nulla, e che
anzi arrecano una grande gioia in chi li compie. Tra questi, posso metterci tranquillamente la mia ubbidienza al... programma
del Convegno, che prevede un “saluto ai partecipanti” da parte
del vostro umile servo.
Siate davvero benvenuti tutti, in quest’aula, testimone di un
collaudato e luminoso servizio svolto dall’Accademia Alfonsiana
per la ricerca e la proposta della riflessione teologica, a favore
del popolo di Dio da ormai più di quattro decenni. Un grazie a
tutti per la presenza e il contributo offerto per la realizzazione di
questo Convegno: dagli organizzatori ai collaboratori di ogni genere, dai relatori agli uditori, agli illustri ospiti che ci onorano
con la loro presenza. Forse anticipo i tempi nel dire “grazie”, ma
sono certo che tutti sapranno meritarlo. In ogni caso, spero che
questo Convegno sia un momento di grazia per tutti.
Ho assolto al mio atto di ubbidienza, e potrei anche ritenere esaurito il mio compito. Ma l’esperienza mi dice che è difficile
trovare un atto di ubbidienza totalmente immune da “interpretazioni” di tipo personale (nel peggiore dei casi …egoistico),
e allora permettetemi di esprimere – come da fratello a fratello
(o …sorella) – almeno altri due motivi di speranza che mi guidano in questo momento. Pur senza voler anticipare in nessun
modo i contenuti che, con una competenza certamente maggiore
della mia, saranno proposti in questa “tre giorni”, ritengo che
questi motivi di speranza corrispondono ad altrettante “attese”
nei confronti del Convegno, che mi auguro possano almeno in
parte essere soddisfatte.
Il primo motivo di speranza è collegato direttamente al titolo
del nostro Convegno: “Morale Alfonsiana: una risposta alle sfide
di ieri e di oggi”. Questo titolo ci ricorda un’eredità pesante,
quella che il nostro Fondatore ci ha trasmesso. Un’eredità maturata nel Settecento, un tempo apparentemente lontano “anni lu-
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JOSEPH WILLIAM TOBIN
ce” dai nostri, e pur tuttavia ad essi accomunato dalla stessa ricerca di fede, una ricerca che negli ultimi secoli è diventata via
via più problematica, chiamando in gioco interrogativi profondi
quanto radicali: chi è l’essere umano? La vita ha un senso, e quale? Qual’è l’esatto confine tra bene e male, dinanzi alle sorprendenti e per certi aspetti inquietanti possibilità della scienza, o dinanzi alla gamma di scelte sempre più ampia promossa dalle
leggi civili?
Senza voler andare troppo indietro nel tempo, basta guardare
all’ultima metà del secolo, quella evocata dallo stesso nostro
Convegno. Il 26 aprile 2000 saranno infatti passati 50 anni da
quando Sua Santità Pio XII, col Breve Apostolico Consueverunt
omni tempore proclamò sant’Alfonso Patrono dei Moralisti e dei
Confessori. Già solo tentando di fare un bilancio di questi ultimi
decenni, ci accorgiamo di quanto cammino abbiano percorso la
teologia, la pastorale, la stessa morale, per non parlare dei valori
che normalmente ispirano la vita quotidiana della gente. Un piccolo, grande terremoto si è verificato: piccolo se rapportato ai
movimenti tellurici che muovono da sempre la storia, grande per
chi volesse ostinarsi a pensare con le categorie di tempi passati.
Se solo pensiamo a quanto sia cambiato il nostro rapporto con le
“domande ultime” che hanno sorretto anche la teologia morale
del passato – ad esempio il giudizio di Dio, il pensiero dell’eternità, il concetto di salvezza, ecc. – non possiamo non comprendere la posta in gioco per la vita della Chiesa, che poi è la stessa
che ha dato origine a questo Convegno.
Un secondo motivo di speranza mi fa guardare alla bellezza
piena della vita, che per noi cristiani coincide con la santità. Anche se nessuno di noi ha nelle mani le chiavi per decifrare il futuro, pur tuttavia sappiamo che in esso risulteranno credibili
non le teorie ma le proposte di vita: e se le teorie avranno diritto
di cittadinanza, l’avranno nella misura in cui tengono in considerazione le ragioni della vita. Anche in questo senso il nostro
Fondatore ci lascia una preziosa eredità. Non solo perché egli è
santo, quindi uomo realizzato in pienezza. Ma anche per il cammino da lui percorso per diventare sacerdote, missionario, confessore, moralista, e poi patrono dei confessori e dei moralisti.
La sua Theologia moralis, lo sappiamo, prima di essere scritta a
tavolino nasce dal contatto quotidiano col popolo, dalle ore spese nel confessionale, da un esodo spirituale ed esistenziale: un
SALUTO AI PARTECIPANTI
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esodo che parte dalle ambizioni paterne e dalle sue stesse prospettive di carriera, per approdare alla concretezza della vita
quotidiana. Il suo messaggio ha fatto scuola e risulta tuttora credibile, perché maturato nell’ascolto delle persone e perché – incontrando le persone – Alfonso ha capito in tutta la sua urgenza
il bisogno di annunciare loro l’amore fattosi carne in Gesù Cristo. Egli ha capito soprattutto sulla sua pelle una frase che amava citare da san Gregorio Magno: “Purificati per poter purificare gli altri; avvicinati tu a Dio e dopo potrai condurvi il tuo prossimo; santificati tu per primo, per poter poi santificare le anime”. Da ciò il mio augurio, che da questo Convegno prorompa –
forte e seducente più che mai – il richiamo alla santità.
Ecco dunque in sintesi i principali motivi della mia speranza, che sono altrettanti auspici per il nostro incontro di studio:
la speranza di rispondere al bisogno del nostro tempo, e di farlo
con una proposta di senso pieno per la persona. E’ una speranza che ritengo radicata anche nell’evento giubilare che la Chiesa
si trova a vivere. Se cinquant’anni fa la Chiesa viveva un “Anno
Santo”, il 2000 segna per il popolo di Dio il “Grande Giubileo”:
queste ricorrenze sono pietre miliari, che ci ricordano – in una
maniera simbolica ed ecclesiale molto intensa – quello che è poi
il corso ordinario della grande misericordia di Dio, della abbondante redenzione in Gesù Cristo.
Infine, vorrei ricordare che tra una decina di giorni noi Redentoristi avremo un altro motivo di festa, con la beatificazione
del P. Francesco Saverio Seelos, un confratello che ha raggiunto
i vertici della santità anche grazie alle lunghe ore spese nel confessionale: anche lui imparando dal rapporto quotidiano con
Gesù Cristo e con la gente, anche lui risultando credibile con la
sua testimonianza di vita. Voglia il beato Seelos unirsi alla Madonna del Perpetuo Soccorso, a sant’Alfonso e a tutto il coro dei
Redentoristi in cielo, per impetrare dal Signore un “cammino
nella speranza” più gioioso per tutti. A cominciare da questo
Convegno. Auguri di cuore a tutti.
P. JOSEPH WILLIAM TOBIN C.SS.R.
Moderatore Generale
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StMor 38 (2000) 291-296
BRUNO HIDBER C.Ss.R.
LA MORALE ALFONSIANA:
STRUMENTO ERMENEUTICO PER UNA RISPOSTA
ALLE SFIDE DI IERI E DI OGGI?
Presentazione, scopo e struttura del Convegno
Il titolo di questo convegno: “Morale Alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e di oggi”, segnala immediatamente complessità e tensioni.
La prima tensione che s’impone e quella delle “sfide di ieri e
di oggi” in quanto ci confronta senza appello con ciò che Lessing, alias Reimarus, aveva chiamato il “garstiger Graben”, l’abisso tremendo della distanza storica tra il passato e il presente1.
Che cosa significa chiamare, nel nostro orizzonte dell’oggi qualcosa di ieri sfida? In che senso possiamo dire che una sfida del
passato lo è anche per il presente? Come mettere le sfide del presente postmoderno, caratterizzato p.e. da tendenze anti-razionali o da un relativismo particolaristico in rapporto con le sfide
del secolo di S. Alfonso, il secolo dei lumi, quindi con un razionalismo che si metteva in cammino con l’intento di voler spiegare il tutto? Ecco un primo livello di domande che si pongono
leggendo il titolo di questo convegno.
Ma non ci si può fermare a questo livello in quanto lo stesso convegno si propone di più: vuol dare una risposta alle sfide
di ieri e di oggi e indica l’istanza per tale risposta: la morale
Alfonsiana. Ed ecco ci sentiamo confrontati subito con domande analoghe a quelle già formulate. Ovviamente siamo in grado
di dare una risposta solamente alla luce del presente in quanto
siamo soggetti che vivono la storia di oggi con tutto ciò che questo implica come contesto sociale, culturale ed anche ecclesiale.
1 G.E. LESSING, Wolfenbüttler Fragmente eines Ungenannten, Wolfenbüttel 1774-78.
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BRUNO HIDBER
Il nostro processo di comprensione si svolge necessariamente
sempre nel presente. Eppure la risposta si riferisce a un personaggio del passato: Alfonso de Liguori e dunque al suo contesto
sociale, culturale ed ecclesiale, al suo modo di pensare e comprendere. La cosa si complica ancora di più in quanto la risposta non si riferisce solo all’Alfonso storico, bensì all’Alfonso proclamato “Patrono dei Moralisti e Confessori” 50 anni fa. Il discorso con questo non si apre solamente al secolo dei lumi, ma
anche all’epoca del centro del secolo ventesimo, al magistero di
quel periodo storico determinato, ma nel contempo al magistero come istanza di insegnamento e riferimento perenne.
Infine: La morale come risposta? E’ possibile affermare che
la morale, propriamente la morale può essere istanza di risposta
alle sfide di ieri e di oggi? Quale è il fondamento? Solleva subito nuove questioni di rapporto: p.e. tra morale e cultura, morale e ragione, morale e fede: “fides et ratio”2.
Dopo tante domande, una sfida è ovvia: questo convegno potrà trovare risposte soltanto se e in quanto saprà affrontare e far
tesoro dell’arte della mediazione giusta tra ieri e oggi, tra presente e passato, quindi dell’arte dell’ermeneutica, un’ermeneutica che saprà:
1. Dare il posto giusto e la rilevanza appropriata a un testo e
intervento del magistero, vale a dire al Breve Apostolico Consueverunt omni tempore del 19503. In che senso tale testo riflette
la tradizione alfonsiana e illumina il presente in grado di dare
una risposta alle sue sfide? Su questo problema indagherà il
Prof. R. Gallagher.
2. Poi il convegno dovrà aiutare a capire meglio come lo
stesso Alfonso de Liguori si è confrontato con il contesto storico
in cui era inserito e con quali criteri ermeneutici ha tentato di rispondere alle sfide del suo tempo. Farà questa ricerca il Prof. M.
Vidal prestando particolare attenzione al testo con cui S. Alfonso aveva intrapreso la sua risposta più sistematica, vale a dire
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Fides et Ratio. Lettera Enciclica, Città del Vaticano 1998.
3 Testo che è diventato occasione per questo convegno.
2
LA MORALE ALFONSIANA: STRUMENTO ERMENEUTICO
293
con i contenuti salienti ed innovatori della Theologia Moralis
messi in rilievo di recente dalla Lettera Apostolica “Spiritus Domini” di Giovanni Paolo II4; continuerà la ricerca il Prof. S.
Majorano dedicandosi a una tematica capace di mettere in rilievo un aspetto del tutto particolare dell’ermeneutica alfonsiana: il
rapporto intimo tra morale e pastorale nella figura del confessore. Assisteremo così a un processo ermeneutico anche nel senso
che si realizzerà un rapporto tra l’oggetto che verrà interpretato
–vale a dire- i testi trattati e l’agente che ne farà l’interpretazione presentandoci questi testi nella tensione tra sfida e risposta di
ieri e di oggi.
3. Il convegno si propone inoltre di illuminare il nostro presente nutrendosi per così dire del passato però come “Morale
Alfonsiana” di oggi e per l’oggi. Fare ermeneutica, interpretare
giustamente significa sempre integrare aspetti particolari di un
tempo determinato in una panoramica più ampia e complessiva
della realtà e di una realtà dotata di senso in quanto l’ermeneutica, secondo Pannenberg “mira alla comprensione del senso”5.
Ecco una sfida decisiva per la nostra epoca segnata da tante
frammentazioni che mettono in questione il fatto che ci sia un
senso che integri il frammento in un tutto unico. Tale sfida viene segnalata già dal sottotitolo di questo Convegno: Nel cantiere
della Teologia morale. Un problema bruciante di questo cantiere
si esprime nel fatto che la frammentazione della nostra realtà ha
come effetto che gli stessi criteri fondamentali del bene e del male, del giusto e del falso non di rado vengono sperimentati e interpretati come ciò che rimarrà incerto in linea di principio. Con
questo tocchiamo senza dubbio un elemento che offusca e rende difficile collocare azioni o omissioni malvagie come peccato
e ricercare la riconciliazione come impegno religioso. Il Prof.
Paul Gilbert della Pontificia Università Gregoriana metterà in rilievo questa sfida della nostra cultura parlando del peccato e
perdono e interpretando così un tema collegato specificamente
con la tradizione alfonsiana.
4
5
GIOVANNI PAOLO II, Lettera Spiritus Domini, in AAS 79 (1987) 1366.
W. PANNENBERG, Epistemologia e Teologia, Brescia: Queriniana 1975, 147.
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BRUNO HIDBER
Un problema particolarmente spinoso di una tale ermeneutica sarà poi di non perdere nel cantiere frammentario il filo rosso che conduce attraverso molteplici problemi verso una visione
integrale in quanto solamente una tale visione in verità potrà
chiamarsi “risposta” alle sfide di ieri e di oggi. Il Prof. R. Tremblay ne fornirà elementi decisivi con una riflessione sull’intreccio fede-ragione in riguardo all’agire morale alla luce della persona del Cristo. Si muoverà dunque in un campo classico di ermeneutica teologica.
Inoltre le frammentazioni della nostra epoca non si esprimono solamente a livello teorico conoscitivo. Segnalano una
frammentazione più drammatica: quella dello stesso essere
umano sia nella sua concezione teorica sia nella sua realizzazione pratica. Il Prof. M. Faggioni la tratterà come Sfida del riduzionismo tecnoscientifico.
Infine: Elemento integrale di ogni ermeneutica è comprendere ogni tentativo di risposta mai come ultima e unica risposta
possibile, bensì come processo interpretativo aperto ad ulteriori
sfide e risposte. In tal senso lo stesso metodo ermeneutico contiene in sé una dinamica verso un “plus ultra”6 o verso ciò che
la visuale cristiana chiama speranza. Il Prof. A.-M. Jerumanis
della Facoltà Teologica di Lugano tratterà la sfida della speranza ovviamente in chiave teologica come ciò che conduce oltre le
speranze intramondane. E verrà finalmente affidata al Prof.
McKeever l’arte ermeneutica di concludere il convegno non
semplicemente come cantiere frammentario bensì come evento
e cammino di risposta.
Tutto questo avverrà solamente evitando due malintesi, due
vie a senso unico che andrebbero frontalmente contro le regole
di ogni ermeneutica: bisogna evitare l’errore di ripetere semplicemente il messaggio alfonsiano di ieri nel contesto di oggi e vice versa bisogna evitare di rinchiudersi caparbiamente nel contesto di oggi svalutando, anzi rifiutando il messaggio di ieri. Invece una risposta alle sfide di ieri e di oggi richiede di assimilare fedelmente la risposta del passato e illuminarla nella luce del
6 Cf. G.
1950, 24-25.
VON
LE FORT, Plus Ultra, Erzählung. Wiesbaden:Insel Verlag
LA MORALE ALFONSIANA: STRUMENTO ERMENEUTICO
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presente, richiede esporre il presente in modo autocritico lasciandosi interpellare dal messaggio del passato arricchendo così il presente con ciò che la storia ha ritenuto come positivo e rivestirlo così di una identità e validità che potrà superare la futilità del momento. Parafrasando parole celebri di M. Heidegger:
bisogna entrare nel circolo ermeneutico riconciliando comprensione attuale e precomprensione storica7.
A tale proposito e per una attualità particolare mi permetto
di volgere lo sguardo per concludere a uno dei più grandi rappresentanti dell’ermeneutica contemporanea che l’undici febbraio a.c., quindi alcune settimane fa, ha festeggiato 100 anni di
vita in ottima vitalità: Hans Georg Gadamer. Egli nel suo capolavoro Wahrheit und Methode propone la mediazione tra il pensiero del passato e l’esperienza e il pensiero del presente con il
concetto di “fusione di orizzonti”8. Perché tale fusione avvenga,
bisogna in un primo momento “riconoscere la differenza del testo o in genere dell’altrui espressione rispetto al presente dell’interprete. Poi si deve cercare un orizzonte comune, che abbracci
insieme l’interprete e la cosa da interpretare nel suo contesto, e
quindi la tradizione in genere”9. E’ stato osservato che Gadamer,
nella sua ermeneutica, ha attribuito un ruolo preponderante alla tradizione fino ad affermare che la forza della storia e della
sua influenza non dipende dal suo riconoscimento in quanto la
coscienza di ogni uomo in ogni tempo per necessità è storica.
Tale preponderanza attribuita al passato è stata criticata da diversi autori e corretta in direzione di una oggettività di interpretazione del passato da parte del presente10. Ciononostante la nozione di “fusione di orizzonte” è stata recepita come elemento
decisivo dell’ermeneutica contemporanea e mi pare che possa
essere un buon indicatore anche per questo nostro convegno.
7 Cf. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit. Tübingen:Niemyer 1967, 148-153. In
contesto teologico: W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia:Queriniana
1984, 22.
8 H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen:Mohr 1960, 286-290.
9 W. PANNENBERG, Epistemologia e Teologia, 156.
10 Per esempio da E. BETTI, J. HABERMAS... Per una presentazione sintetica cf. ivi 157 ss.
296
BRUNO HIDBER
Alludendo ancor una volta al capolavoro di Gadamer, Verità
e metodo, mi auguro che il nostro convegno sappia intraprendere la fusione degli orizzonti tra ieri e oggi in modo che la Morale Alfonsiana possa rivelarsi un contributo appropriato per quella verità che solo potrà essere risposta valida per l’uomo di oggi.
PROF. BRUNO HIDBER CSSR
Preside, Accademia Alfonsiana
297
StMor 38 (2000) 297-319
RAPHAEL GALLAGHER C.Ss.R.
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF
CONSUEVERUNT OMNI TEMPORE
The Theological Significance of an Ecclesial Event
This essay is an hermeneutical reflection within historical
theology which I take to mean the study of religious thought in
the context of the epoch and people who shaped it with a view
to an interpretation of this thought for another context. The
reasons for this methodological option are indicated by the
elements which constitute the scope of the essay: an
ecclesiastical event, the Proclamation of St. Alphonsus as Patron
of Moralists and Confessors in the Apostolic Brief Consueverunt
omni tempore of April 26th 1950,1 which is an official ecclesial
recognition of a particular moral tradition (that is, the
alphonsian one) which continues to have theological
significance. With Henri Marrou I hold the view that
Our comprehension of a doctrine will be all the more authentic
and the more profound to the extent that we grasp it better
within the structure of its original reality. We always have the
right to abstract it from this complex, but indeed the surgical
operation is so delicate that many of the fine points……… risk
being damaged or destroyed in the course of the operation.2
The continuity between these three elements (an
ecclesiastical event, a moral tradition and contemporary
1 The official text is to be found in AAS 42 (1950) 595-597. Some have
questioned whether this Document is an Apostolic Brief because the AAS
does not refer to it as such. The use of the term “Breve Apostolico”
introducing the Latin text as printed in the L’Osservatore Romano,
01.06.1950, at I, should dispel such doubts.
2 HENRI MARROU, The Meaning of History, translation by Robert J. Olsen
(Baltimore: Helicon Press, 1966), 270-271.
298
RAPHAEL GALLAGHER
theological significance) is by no means obvious, not least
because we are dealing with differing forms of research and
presuppositions in the method of enquiry to be followed. I hope
to demonstrate that there is a continuity, but this must be
argued step by step. The historical reconstruction of the
Apostolic Brief Consueverunt omni tempore is the obvious
starting point.3
The historical process leading to Consueverunt omni tempore.
Far from leading to a respite of theological calm, the
proclamation of St. Alphonsus as a Doctor of the Church (March
23rd 1871) in fact led to a period of renewed polemics, both
within the Church and in non-Church circles. The theological
controversy within the Church, which we can broadly call the
Vindiciae controversy,4 had largely waned by the 1890’s, not least
because the Redemptorist defenders of St. Alphonsus had taken
steps to remedy a serious lacuna by beginning the
reconstruction of a critical edition of the Saint’s Theologia
Moralis, which was edited, after laborious years of work, by
Leonard Gaudé.5 The reception of St. Alphonsus outside the
theological circles of the Church was quite another matter. This
was most notable in the German-influenced areas, as has been
demonstrated by Otto Weiß6; it was present also in the AngloSaxon world where R. P. Blakeney’s St. Alphonsus Liguori, a
vitriolic book, had a long appeal in non-Catholic circles.7 It is
My major archival source is the Archivum Generale Historicum
Redemptoristarum, hereafter referred to as AGHR. The numeration of
documents is that of the Archives, to whose Director Father H. Arboleda
Valencia I express my gratititude.
4 I have chronicled some of this story in R. GALLAGHER, “The Moral
Method of St. Alphonsus in the light of the Vindiciae Controversy”,
Spicilegium Historicum CSSR, 45 (1997), 331-349.
5 Opera Moralia Sancti Alphonsi Mariae De Ligorio. Theologia Moralis.
Tom. 1-4, (Romae: Ex Typographia Vaticana, 1905-1912).
6 Among other publications of O. Weiß I would signal as the most
informative in this regard “Der Kampf gegen die ‘Liguorimoral’ (1894-1905)”
in Spicilegium Historicum CSSR, 96 (1996), 103-256.
7 First published in 1852 (London: The Reformation Society). I have
3
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
299
this background which explains the first step in the historical
process I am investigating. In 1901, the Redemptorist Rector
Major, Mathias Raus8 initiated a process that sought “una nuova
onorificenza” for St. Alphonsus because of the ongoing “insulti e
le bestemmie, proferite negli ultimi tempi contro la persona e la
dottrina di S. Alfonso….”9 The new honour sought was to have
St. Alphonsus Patron of those clerics “qui in studia incumbunt
theologiae moralis et pastoralis” as well as Patron of those sacred
ministers “qui moderandis conscientiis operam suam
impendunt”.10 The response was modest. The enthusiasm of the
Rector Major Raus and the implied, but not official, support of
the aged Pontiff Leo XIII did not stimulate a ground-swell for
the proposal. Signatures were gathered, indeed, from over 300
Cardinals and Bishops, but the enthusiasm which marked the
campaign for the Doctorate process is lacking.11 By 1903 we can
say that this first phase of the process is dead.12 From the
archival material it is clear that there was a fear that seeking this
further honour for St. Alphonsus might have the contrary effect
to that desired: give further ammunition to those who wished to
denigrate St. Alphonsus, for whatever motives. It is possible that
cooler heads in the Vatican Curia persuaded the Redemptorists
from continuing this campaign.13
noted how this book still provides fodder for the polemics of such as the
Reverend Ian Paisley when he is on one of his campaigns against the Roman
Catholic Church in general and Redemptorists in particular.
8 See S. J. BOLAND, A Dictionary of the Redemptorists, (Romae: Collegium
S. Alfonsi de Urbe, 1987), 309, which indicates a few other sources.
9 AGHR, 050901:ACPAT/01, 0001.
10 Ibidem.
11 It is interesting to compare the lackluster tone of these responses with
those gathered at the time of the Doctorate process. For this latter see the
seminal study of G. ORLANDI, “La causa per il Dottorato di S. Alfonso”, in
Studia Alfonsiana: ad centenarium memoriam doctoratus S. Alphonsi M. de
Liguori 1871-1971 (Romae: Biblioteca Historica CSSR, 1971, 5), 25-240.
12 A full list of those who responded can be found in AGHR, 050901:
ACPAT/01, 0003.
13 See the circular letter of Raus of 15.061901 as printed in Letterae
Circulares R.P. Mathiae Raus, (Romae: Typis Cuggiani, 1908), at 232. He is
referring to an audience which he had with Pope Leo XIII and it is clear the
Pope, too, expressed concern about the “atroces calumnias” which were
300
RAPHAEL GALLAGHER
The process, in a modified form, was resurrected in the mid1930’s. With the centenary of the canonization of St. Alphonsus
due in 1939 some Redemptorists, most notably Francisus Ter
Haar14 and to a lesser extent Emilio Rouff, both Consultors
General, saw an opportunity to seek a further ecclesiastical
honour for St. Alphonsus. The substance of their proposal is to
be found in the 34 page booklet,15 anonymously printed but with
the spirit of Ter Haar even if the final editing hand is that of
Rouff.16 To be noted is the restricted honour sought compared to
the first phase; now it is ‘only’ the title Patron of Confessors
which is sought. The booklet is interesting as an example of this
style of literature: the argument is extrinsic. The Church has
given patrons for so many other professions, why not one for
confessors, and who more fitting than St. Alphonsus whose
merits in this regard are outlined. There are, however, two
elements in the booklet which have a longer term importance: a
brief reference to the intrinsic suitability of St. Alphonsus
because of his pastoral prudence and, intriguingly, an inclusion
of Jacques Maritain’s enconium of St. Alphonsus in the latter
part of his Les degrés du savoir (1932).17 The Rector Major
Patrick Murray18 began the campaign to have this patronal
appearing in “sordidae quaedam ephemerides italianae” that are seen as a
regurgitation (“vomitus”) of the “haeretici Grassmannii”.
14 F. Ter Haar was an important figure in the internal life of the
Redemptorists for nearly half a century. See “Necrologia R.P. F. Ter Haar
(1857-1939)” in Analecta CSSR, Annus XVIII, 1939, 200-206.
15 Sitne conveniens S. Alfonsum M. De Ligorio caelestem confessariorum
patronum declarari (Roma: Ditta Tipografia Cuggiani, 1938). Hereafter
referred to as Sitne conveniens. Though I refer to the booklet as anonymous,
authoritative figures like A. Sampers do attribute the authorship to Rouff:
see Studia Moralia, 9 (1971) at 354.
16 Gregorio, who should have known, gives the credit to Rouff. See the
MSS of Gregorio in AGHR, 050902: ACPAT/O2, 0051a.
17 For the full text see J. et R. MARITAIN, Oeuvres Complètes, Vol. 4, Les
degrés du savoir (Fribourg: Editions Universitaires, 1983), 1086-1104. The
relevant page in Sitne conveniens is 27.
18 Murray awaits the critical biography which he deserves. Meanwhile,
there is interesting material about his early life in Spicilegium Historicum
CSSR 9 (1961): J. LÖW, “In piam memoriam R.mi Patris Generalis emeriti
Patricii Murray CSSR. I. De vita Patricii Murray usque ad assumptionem in
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
301
honour bestowed on St. Alphonsus by forwarding copies of this
booklet together with a cautious letter to Redemptorist
(Vice)Provincials dated December 25th 1938.19 Underlined in the
letter is the fact that the petition is to be forwarded to those
(Arch)bishops ‘nobis amicioribus’. The Sacred Congregation of
Rites discussed the question in January 1939, but took no
decision. The replies were not numerous (126) but, importantly,
they included a favourable one from Cardinal Pacelli (the future
Pius XII). At least one Provincial misjudged our friends: the
Archbishop of Ratisbon (Germany) did not approve of the
petition.20 The desultory tone of the campaign is easily
explained: an ill Pius XI was to die on February 10th 1939. The
election of Pacelli as Pope probably heartened the
Redemptorists, in view of his favourable response, but the
gathering clouds of a world war ended this second phase before
it had really started.
The approach of another anniversary, that of the bicentenary of the first edition of St. Alphonsus’ Theologia Moralis
in 1948, was the opportunity to begin the third phase of the
ecclesiastical process. The guiding hand was that of Oreste
Gregorio,21 Vice-Postulator of the Redemptorists: the spirit was
certainly helped by the new Rector Major Leonard Buijs (elected
in 1947)22 whose vision of St. Alphonsus was more
comprehensive and innovative than that of his predecessor
summum moderatorem, 1865-1909”, 3-20, and R. CULHANE, “ Most Rev.
Father Patrick Murray (1865-1959), Superior General C.SS.R. (1909-1947).
Biographical outline over the years 1865-1909”, 21-79.
19 AGHR, 050902: ACPAT/02, 0054.
20 Curtly noted in the MSS of Gregorio: AGHR, 050902: ACPAT/02,
0051a. A transcription, also by Gregorio, can be found in AGHR, 050902:
ACPAT/02, 0128.
21 For a brief note on Gregorio see the book of Boland (cited in note 8)
at 145-146.
22 No more than his predecessor Murray, Buijs deserves a full study. In
his case, different to Murray, we know more about his time as Rector Major
than about his early life. See the note of the Sociii Redactionis in Spicilegium
Historicum CSSR 1 (1953), 22-45, and the article of H. BOELAARS, “R.Mus P.
Leonardus Buijs, Cultor Theologiae Moralis et Pastoralis”, in Spicilegium
Historicum CSSR 4 (1956) 425-452.
302
RAPHAEL GALLAGHER
Murray. In many respects this third phase is a continuation of
the second. But some interesting, if ultimately incidental,
factors emerge in the process. It was the Redemptorists’
intention to pursue the proclamation of St. Alphonsus Patron of
Confessors: the idea of having him also declared as Patron of
Moralists came, surprisingly, from the Dominican Master of the
Sacred Palace, Cordovani.23 The usual procedure was followed:
approval from the Sacred Congregation of Rites, a campaign
(directed by Gregorio) to gather signatures from Cardinals,
Archbishops, Bishops, Superiors General and Catholic
Universities. The latter was of particular importance, at the
insistence of Pius XII.24 The reason may be inferred rather than
documented: given the residue of former controversies, the Pope
wished to ensure that a further honour for the Redemptorist
Saint would not re-kindle previous unedifiying quarrels between
religious congregations. In the event, only the Ateneo of San
Anselmo sent in a negative vote: it is clear, too, that the Dean of
the Institut Catholique (Paris) did not see much point in giving
a further honour to one who was already a Doctor.25 These views
did not outweigh the favourable response, a total of 423
(including the 126 already gathered in 1938-39). With apparent
bureaucratic smoothness the decree Consueverunt omni tempore
was promulgated on April 26th 1950. Theologically, it is an
unremarkable text. I would note, however, the inclusion of
prudence as characteristic of St. Alphonsus and the reference to
the doctrine of St. Alphonsus as “moralem et pastoralem”. The
importance of these points will emerge later.
Fifty years after it began, the ecclesiastical process reached
a successful conclusion. I insist on calling the process
‘ecclesiastical’, not to denigrate it, but to place it in its proper
context. The way the process was conducted was ecclesiastical,
in that the gathering of support was directed so that it would not
The apparent implications of Th. DEMAN’s article on “Probabilisme” in
the DTC (Vol. 13, 417-619) rankled with many Redemptorists even 15 years
after its publication in 1936.
24 Gregorio implies this in the MSS referred to in note 20.
25 L. Vereecke, in a letter to Gregorio of 20.02.1949, notes this fact:
AGHR, O5O9O2: ACPAT/02, 0102.
23
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
303
cause offense, a reminder of the sensitivities in some circles
about St. Alphonsus. The Apostolic Brief uses the ecclesiastical
language of ‘patron’ clearly understanding this term in the
canonical sense in which this title, once used more widely, had
now come to be understood.26 The reactions to the Apostolic
Brief were ecclesiastical: the customary response in L’Ossevatore
Romano, some brief references in the general press, and some
coverage, though surprisingly little, in the internal journal of the
Redemptorists, Analecta.27 I cannot find much reference in the
theological journals of the time:28 the event passed largely
unnoticed in this particular world, though there is a short but
interesting article by the then young Bernhard Häring.29 A
process which seemed doomed to failure at the start because of
the intense hostility to St. Alphonsus ends as an almost routine
ecclesiastical event, one more Patron proclaimed by Pius XII. To
show how an event that is dominantly an ecclesiastical one
could have a wider ecclesial significance must be carefully
articulated.
Interpreting the event within a moral tradition.
Interpreting the theological significance of an ecclesiastical
document could proceed along either of two hypotheses. The
exact theological weight of the teaching could be evaluated
hermeneutically, or the inner meaning could be discerned by an
See the appropriate entries in: Enciclopedia Cattolica, 9, 982
ss.(‘Patrono’); Lexikon für Theologie und Kirche, 8, 188 (‘Patron’);
Dictionnaire de Spiritualité, 14, 222 ss (‘Saints’), Dictionnaire de Droit
Canonique, 5, 882 ss. (‘Culte’). For the general context of the debate the work
of P. Molinari is still essential; Die Heilige und Ihre Verehrung (Freiburg:
Herder, 1964).
27 One would have expected more from the internal journal of the
Redemptorists.
28 The bibliography of A. SAMPERS, “Bibliografia circa theologiam
moralem S. Alfonsi 1938-1971”, Studia Moralia 9 (1971), 342-357
substantiates this claim.
29 “Alfons von Liguori als patron der Beichtväter und Moraltheologen”,
Geist und Leben 23 (1950), 376-379.
26
304
RAPHAEL GALLAGHER
examination of authoritative interpretations of the document.
The former hypothesis does not seem the appropriate one for
this Apostolic Brief, as we are clearly not dealing either with a
dogma of faith or a doctrinal exercise of the ordinary
magisterium. The latter hypothesis seems more plausible.
Though theological reaction to the Apostolic Brief was
scarce, as already noted, I suggest that the official letter with
which the Rector Major Buijs communicated the brief to the
Redemptorist Congregation (May 31st 1950) is the best
interpretative key in which to proceed.30 The authority of Buijs
in this matter is both that of his office as Rector Major and of his
personal competence to comment on such matters, a fact
sustained by his collaboration, with Cornelius Damen, in the
preparation of the 15th edition of the manual of moral theology
popularly known as that of Aertnijs-Damen.31 I will proceed in
this manner: choose the key theological allusions in Buijs’s
letter, place them in their context and interpret their significance
for the tradition of moral theology which has St. Alphonsus as
its founder.
Buijs insists that Redemptorists behave in a way which
shows ‘ut digni simus eius patroncinio’. From other sources it is
clear that Buijs had doubts on this precise point: he was worried
about the poor state of intellectual formation in some Provinces,
was distressed at the neglect and lack of aggiornamento of the
library in the Generalate House of San Alfonso (Rome), and his
own personal interest in the biblical and patristic sources of
theology as well as his awareness of the need for a new theology
of the laity left him in no doubt that the alphonsian moral and
pastoral tradition was in grave danger of becoming sterile. The
key sentence in Buijs’ letter, with regard to the theological task
to be undertaken, is that in which he refers to St. Alphonsus’
concept of prudence. The prudence of St. Alphonsus is not
The text (under the title “S.P.N. Alfonsus constituitur Patronus
confessariorum et moralistarum”) is given in Analecta CSSR, 32 (1950), fasc.
3, 73-74.
31 See J. AERTNYS-C. DAMEN, Theologia Moralis secundum doctrinam S.
Alfonsi de Ligorio Doct. Ecclesiae, 2 Vols., (Torino: Domus Editorialis
Marietti, 1947), 15th edition.
30
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
305
simply that of a theologian who makes a careful judgment in
choosing opinions, so as to avoid the extremes of laxism and
rigorism. For Buijs, alphonsian prudence is the ability to
celebrate the sacrament of confession in a way which facilitates
a conversion of heart as the first step of a total change in a
person’s life. Buijs is quite specific on this point: pastoral
prudence is not an external application of judgement to a case
but the internal communication with a person: “et quidem
praecipue”32 he pointedly adds. There are echoes here of a
notable article by his Dutch confrere, already mentioned,
Cornelius Damen, S. Alfonsus Doctor Prudentiae.33 Damen’s
article had its own purpose. I suspect it was a response to the
entry of Th. Deman on Probabilisme in the Dictionnaire de
Théologie Catholique which I have already quoted and in which
St. Alphonsus’ credentials as a theologian in the thomist
tradition is queried. The core of Damen’s argument is the one
apparently shared by Buijs. In essence this was: Alphonsus was
the master of a prudential moral theology, not simply on the
basis of his resolution of the 18th century crisis regarding reflex
principles, but because (a) Alphonsus was most interested in
knowing the state of a person’s heart and conscience and (b) was
keen to have a developmental approach to moral theology, on
account of the changing needs of such a practical science. Buijs’
interpretation of the Apostolic Brief was in line with the
initiative he had already taken (1949) in setting up the
Alphonsian Academy which he hoped to see as contributing to
the renewal of moral theology in general and not just alphonsian
studies in particular.34 An inclusive approach – biblically based,
systematically theological and oriented towards practice – was
to be the characteristic of its moral theology. Buijs would have
shared the sentiments of F. X. Murphy in his article written
around this period:
See text as indicated in note 30.
C. DAMEN, “S. Alfonsus Doctor Prudentiae”, Rassegna di Morale e
Diritto 5/6 (1939-40), 1-27.
34 For a fuller picture, see A. CÓRDOBA CHAVES, “La Academia Alfonsiana:
cincuenta años al servicio de la Teología Moral”, Studia Moralia, 37 (1999),
229-268.
32
33
306
RAPHAEL GALLAGHER
(St. Alphonsus does not work with a priori estimates of the state
of a soul)……but uses a clear competent knowledge of the
everyday life of individuals, their psychological construction,
their passions, impulses, temptations, the actual graces they
receive, and the aspirations they enter into and have a bearing
on their actions and judgments.35
The internal evidence of Buijs’ own comments, with the
ancillary evidence that while some Redemptorists shared his
views many others did not, lead me to conclude that, for Buijs,
the Apostolic Brief, happy ecclesiastical event that it was, was
primarily a providential theological opportunity to recuperate a
moral tradition he believed was in danger of fossilization.
The logic of this interpretation of Buijs’ comments leads me
to propose an hypothesis by which we can place the
ecclesiastical event of Consueverunt omni tempore within its
ecclesial significance. The Apostolic Brief names St. Alphonsus
as Patron of Moralists and Confessors: but, and this is the
crucial question, what type of moral theology and what type of
confessor? There were, at least, four divergent approaches to the
interpretation of St. Alphonsus at this period: (a) the
interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with the
historical text and context (Domenico Capone, Louis Vereecke);
(b) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with
contemporary, mainly personalist, philosophy (Bernhard
Häring); (c) the interpretation of St. Alphonsus through a
dialogue with neo-scholastic philosophy (Francis Connell) and
(d) the interpretation of St. Alphonsus through a dialogue with
the prudential practice of ordinary ministry (Cornelius
Damen).36 This is an approximation, but it is theologically
correct to advert to a fact that has not been given due attention:
the tradition of alphonsian moral theology is not as univocal as
F. X. MURPHY, “The Moral Theology of St. Alphonsus Liguori 17481948”, Thought 23 (1948), no. 91, 605-620, at 617.
36 For a reasonably complete bibliography of these authors on
alphonsian themes, within the indicated time limit, see A. SAMPERS,
“Bibliografia circa Theologiam Moralem S. Alfonsi 1938-1971”, Studia
Moralia 9 (1971), 342-357.
35
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
307
has been generally presumed. There are divergences within the
tradition. It is not within my scope here to judge which I
consider most valid. It is, however, through the concept of a
tradition and its developments that we can give an ecclesial
interpretation of the preoccupations Buijs raised in the wake of
the Apostolic Brief.
To sustain this argument I need to propose a definition of a
theological tradition (or ‘school of theology’, as some would
have it). A theological tradition emerges when a significant
group within the Church recognise the particular insight of a
given theologian as fruitful for the vitality of the Christian life
and dedicate themselves to developing and maintaining the core
insights of the original founder. Such a tradition evolved from
the life and thought of St. Alphonsus. Thomas O’Meara’s
comment on St. Alphonsus strikes me as an appropriate way of
describing this particular tradition:
When a consistent approach to theology or spirituality moves
from individuals to communities, a school emerges. The genius
of a spiritual leader (Bernard of Clairvaux) or the needs of
ministry (Alphonsus Liguori) can summon from the Gospel a
new perspective.37
O’Meara’s interest is in the variety of schools within the
thomist tradition, but his comment on St. Alphonsus is striking.
From it I would construct the following definition of the
alphonsian tradition of moral theology. Arising from the
experience of pastoral ministry, St. Alphonsus developed core
insights from St. Thomas with a view to ensuring serenity of
conscience and the possibility of spiritual growth through a
nuanced understanding of the nature of the human person and
the circumstances of their life. A first reaction may be: that
sounds rather banal and obvious. A more critical analysis of the
elements in that definition shows the possibility of a
fossilization of a genuine tradition, which I believe to be Buijs’
concern at the time of Consueverunt omni tempore. The pastoral
37 T. F. O’MEARA, Thomas Aquinas Theologian (Notre Dame and London:
University of Notre Dame Press, 1997), at 154.
308
RAPHAEL GALLAGHER
needs of the post-war period were significantly different from
18th century Naples: one need only refer to the resourcement
theologians in France to underline the challenge of this fact. The
development of core insights from St. Thomas had become
much more complex as a result of the differing researches of the
various schools of thomism at the same period: to mention the
names of Maritain, Gilson, Maréchal, Rahner, GarrigouLagrange, Przywara, Congar (from among a longer possible list)
is indicative of a problem with the alphonsian tradition:38 St.
Alphonsus used St. Thomas as his principal theological source,
but were his interpretations the correct ones, or were they
overly-influenced by the so-called Baroque Thomists or the
commentaries of Suarez or Cajetan? Achieving a serenity of
conscience was one thing in the period of the systems-debates
which was the context of St. Alphonsus’ writing: it was quite
another as a result of the insights of such as Freud or Jung, as
can be demonstrated by the new knowledge gained by
distinguishing scruples in the strict sense and scruples as a form
of obsessive-compulsive behaviour of a psychological type.39
Similar comments could be made about the other elements of
my definition of the alphonsian tradition (spiritual growth,
human nature, the circumstances of life): these had to be
conceptualized differently as a result of the new insights in
ecclesiology, anthropology and the social sciences generally.
Considering the process leading to Consueverunt omni
tempore and interpreting the concerns of Buijs it is my judgment
that the internal dynamic of the alphonsian tradition had lost
38 Too often alphonsian scholars simply ignore the complexities of
thomistic textual interpretation, of the type lucidly exposed by G. PROUVOST,
Thomas d’Aquin et les thomismes (Paris: Les Editions du Cerf, 1996)
39 I choose the example of scruples because in the classic manual
literature St. Alphonsus is referred to as the major authority in the matter. It
is of interest, therefore, to read a solid contemporary book on the topic (J.
CIARROCCHI, The Doubting Disease: Help for Scrupulosity and Religious
Compulsions, Mahwah NJ: Paulist Press, 1995) which relies on the
contemporary sciences without reference to the classic theological source.
The fault is not that of the author, but rather of the alphonsian tradition
which is not sufficiently engaged with the implications of this debate.
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
309
some of the tensions which are necessary to keep a tradition
alive. Paradoxically, while a theological tradition is centrally
based on one person (here, St. Alphonsus) the inheritors of that
tradition can betray it in three distinct ways: by failing to
understand the biblical and patristic background out of which
all theological traditions emerge, by a literalist reading of the
dominant text, or by an ignoring of the new questions which
contemporary life raises for the vitality of a tradition. On all
three points questions have to be asked about the period of
Consueverunt omni tempore and the alphonsian tradition as it
was then dominantly expressed. St. Alphonsus had become too
extrinsic an authority (there are constant references to the
ecclesiastical approval of his writings) so that there was little
interest in what preceded him, an ironic development in view of
the fact that the truly radical theologians of the 1940’s and the
1950’s were those who had returned to the biblical, patristic and
wider medieval sources in order to answer the new questions. As
a result of the hurt Redemptorists felt from the theological
questioning of some of St. Alphonsus’ positions, his text was
being read in a literalist way precisely at a time when it was
unclear what exactly equiprobabilism meant in practice. The
contemporary questions were, admittedly, raised but in a
defensive way: they were not seen as having the potential for
dialogue with the alphonsian tradition seeing that the general
attitude was that the answers were already there in St.
Alphonsus anyhow.
Though he did not, to my knowledge, ever express it in the
terms I have used here, I believe that Buijs wished to encourage
the inheritors of the alphonsian tradition to move beyond the
ecclesiastical event of Consueverunt omni tempore to a more
ecclesial appropriation of the dynamic tensions of that tradition
for a new and challenging era.
Continuing theological relevance of this tradition.
We come to the final part of my triadic re-interpretation of
Consueverunt omni tempore. A rather obvious note of caution is
necessary: I am not attempting a full reconstruction of a
tradition as I am restricting my remarks to those elements of the
310
RAPHAEL GALLAGHER
tradition which I believe this particular process highlights as
being of continuing importance. This is a significant caveat. My
interpretation is within the confines of a particular historical
process and a short document. Other questions, and perhaps
more important ones, would clearly emerge were the focus
wider.
The immediate context of the three phases of the process
was different. This dictated that the type of argument used in
each phase had a different nuance. One concern, however,
appears in all three phases, though none of the phases resolves
it. This is: in what sense was the alphonsian tradition ‘pastoral’
and what does this mean? In the first petition (1902) the request
was to have St. Alphonsus proclaimed patron of those who teach
moral theology and pastoral theology; in the second petition
(1938) the request is for a proclamation of the Saint as patron of
confessors, though the text refers to the pastoral concern of St.
Alphonsus: in the document Consueverunt omni tempore (1950)
St. Alphonsus is proclaimed Patron of Moralists and Confessors,
though earlier in the document there is a reference to the moral
and pastoral doctrine of St. Alphonsus. These nuances are not, I
believe, casual.
What one notices in this process is an effort to redefine the
alphonsian tradition in more contemporary terms than those
which had been used in the Doctorate process. Noticeably
absent is any reference to ‘equiprobabilism’ as a ‘system’.40
When, in 1902, the terms moral theology and pastoral theology
are used I believe that this was an effort to show that St.
Alphonsus, as a moralist, belongs to a tradition that has a spirit
(that is, pastoral charity) rather than a rigid method (that of
equiprobablism, understood as the exterior application of reflex
principles). The insight is useful. Why, then, is it dropped in the
1950 Apostolic Brief? The reasons are to be found outside the
alphonsian tradition. By 1950, pastoral theology had become a
separate discipline within theological studies, and had attained
40 This would have been the dominant type of language in the years
immediately prior to the process studied in this article. See L. GAUDÉ, De
Morali Systemate S. Alphonsi Mariae de Ligorio (Romae: Ex Typografia a
Pace, Philippi Cuggiani, 1894).
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
311
its own scientific credibility.41 To have St. Alphonsus proclaimed
Patron of pastoral theology would, in 1950, have made no sense
to those who had developed this particular branch of theology
along specific lines in the 20th century. Nonetheless, the
reference to the pastoral doctrine of St. Alphonsus is maintained;
significant, I believe, is an article written in 1948 by Oreste
Gregorio, certainly the guiding hand of the final phase, entitled
Alla scuola pastorale di San Alfonso.42
The process leading to Consueverunt omni tempore shows
that the inheritors of the alphonsian tradition were aware that
the moral doctrine of St. Alphonsus was of a particular type:
norms and laws had their place, but within a spiritual-pastoral
conception of the person, particularly under the aspect of
conscience. How to phrase that, in a contemporary way, was the
issue. Joseph Maréchal’s statement about the two methods of
approaching moral truth is dense, but it is precisely the question
the alphonsian tradition was struggling with at the time of the
Apostolic Brief. Maréchal is talking of two methods in
approaching the question of truth, which he calls the ‘ancient’
and the ‘modern’:
These two methods, which approach the total object from two
complementary angles, should, if led to their final conclusion,
yield identical conclusions; for the ancient critique posits at once
the ontological object, which includes the transcendental
subject; and the modern critique considers the transcendental
subject, which postulates the ontological object.43
This is superbly chronicled, at different levels, by the late SEAN
O’RIORDAN. See Section Two (149-205) of his Sean O’Riordan Theologian of
Development (edited R. Gallagher-S. Cannon), Rome: EDACALF, 1998. The
three articles of this section are written with differing audiences in view, but
the emergence of pastoral theology as a self-standing theological discipline
is the underlying theme.
42 O. GREGORIO, “Alla scuola pastorale di San Alfonso”, S. Alfonso
(Pagani) 21 (1950), 114-118.
43 J. MARÉCHAL, A Maréchal Reader (New York: Herder and Herder, 1970,
ed. and trans. J. Donceel), 85.
41
312
RAPHAEL GALLAGHER
Maréchal carefully says the two methods should yield
identical conclusions. The problem is that they do not always do
so. At the time of the publication of Consueverunt omni tempore
the divergence is clear in the way casuistry had developed
almost as a separate science which had lost its bearing within
theology.44 Since 1950 the problem has appeared in another
guise, which we can broadly call that of the double-truth of the
moral life: one ‘truth’ derived from a normative understanding
of nature, and one ‘truth’ derived from the intrinsic dynamics of
the individual conscience.45 I wish to suggest that the indication
of the process leading to Consueverunt omni tempore that the
alphonsian tradition is primarily pastoral has the potential to
solve this dilemma. Pastoral, in this context, is not to be
understood in the sense in which it is generally used in the
theological discipline called ‘pastoral theology’ (or ‘practical
theology’, as some prefer). It is, rather, a distinguishing
hermeneutical criterion. Capone’s interpretation seems correct
to me: referring to St. Alphonsus he says:
La sua ermeneutica … è chiara………. La teologia vera è
subordinata al criterio pastorale: come lì non era verità salutare
quella che, manifestata, era causa di rovina, data la condizione
di fragilità della persona del penitente, così anche qui la
penitenza non è salutare se, imposta al penitente fragile, lo pone
in crisi.46
The issue is extremely delicate. We clearly must learn the
lessons from the past: how the alphonsian tradition, at least in
part, became sterile because of a casuistry that separated the
moral life from a theological foundation in general and a
spiritual orientation in particular. We must, equally, be aware of
the modern problematic that has been referred to as ‘the creative
See the still valid article of J-M. AUBERT “Morale et Casuistique”
Recherche de Science Réigieuse 68 (1980), 167-201.
45 This is clearly a major concern of the Encyclical Letter Veritatis
splendor issued in 1993.
46 D. CAPONE, La proposta morale di Sant’Alfonso – sviluppo e attualità
(Roma: EDACLF, 1997), 271.
44
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
313
conscience’ which would make the subjective intuition the basis
of an objective moral judgment.47 What I infer from
Consueverunt omni tempore is this: the intentionality of the
alphonsian spirit of moral theology is best captured in the
phrase ‘pastoral’, used hermeneutically. It is not co-incidental, I
believe, how the question is phrased in the Introduction to the
Constitutions and Statutes that govern the Redemptorist way of
life:
Urged on by the same missionary spirit, it fosters, too, the
scientific study of pastoral practice, thus following in the steps
of St. Alphonsus who, in 1871, was declared a Doctor of the
Church, and in 1950 the patron of all confessors and moralists.48
The choice of the words ‘scientific study of pastoral practice’
is significant: we are not encouraged, for instance, to study
moral theology in se or the spiritual life in se, master of both
though St. Alphonsus was. I have referred a number of times to
the alphonsian tradition. The genius of the founding-father of
that tradition was to resolve the theological war of the 18th
century reflex principles: the contemporary challenge to that
tradition, posed by Consueverunt omni tempore, is to find an
hermeneutical convergence between the insights of
contemporary pastoral (or practical) theology and
contemporary moral theology, in its various legitimate
expressions.49 I am not trying to claim that moral theology is the
same as pastoral theology. Pastoral theology, it is now clear, can
claim to have its own formal object as a theological discipline as,
for instance, proposed by Midali when he describes this as
rilevare, valutare e orientare, alla luce della fede, e con l’ausilio
di principi unificatori, di teorie, di modelli e di categorie
See note 45.
Constitutions and Statutes. Congregation of the Most Holy Redeemer
(Rome: General Curia C.Ss.R. 1988), 18.
49 An ecumenical dimension is most helpful here, such as the excellent
study of D. S. BROWNING, A Fundamental Practical Theology, ( Minneapolis:
Fortress Press, 1991).
47
48
314
RAPHAEL GALLAGHER
interpretative, il divinire della religione, del cristianesimo e della
Chiesa, considerato nell’oggi e nei differenti contesti umani,
cristiani e ecclesiali.50
The Italian word pastoralità, which is so difficult to translate
into other languages, is near to what I am suggesting. It is an
hermeneutical expression of the intention which shapes the
historical purpose of moral theology at the service of the Church
in particular concrete circumstances.
A second element from the process leading to Consueverunt
omni tempore which has contemporary theological relevance is
the idea of prudence. The term is not explicitly used in the first
phase, though it is implied. It is alluded to in the decisive
document of the second phase Sitne conveniens and it appears
in the Apostolic Brief as a characteristic of St. Alphonsus’
theological approach. We are aware of the controversies
surrounding the interpretation of the virtue of prudence among
thomistic scholars. Important, therefore, is the sense in which
Gregorio uses the term in the 1948 article already referred to: he
refers to prudenza evangelica. It is fair to imply that it is in this
sense that the term is to be understood. I find this well expressed
in a recent article by Christopher Thompson:
The thesis I develop here is simple and two-fold: first, that our
friendship with God, as spoken of under the general notion of
‘beatitude’, is a constitutive component of the moral life; second,
that it is St. Thomas’ doctrine of the gifts of the Holy Spirit…. in
the baptized individual, that completes his portrait of moral
decision making……….. reflection on the gifts of the Holy Spirit
supply a much needed answer to those interpreters of Aquinas
who wish to minimize the significance of beatitude, or
friendship with Christ, in moral discernment.51
50 M. MIDALI, Teologia pastorale o practica, (Roma: LAS, seconda
edizione, 1991), 571.
51 C. J. THOMPSON, “The Spirit and Limits of Prudential Reasoning”, The
Thomist 63 (1999), 425-437, at 425.
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
315
In other words: prudence, even as a cardinal virtue, needs to
be placed in the context of the Spirit and His gifts in order,
precisely, to show both the importance and the limitations of
prudential reasoning considered in the abstract. This way of
interpreting prudence as an evangelical virtue is clearly in line
with what I have already said about the pastoralità of the
alphonsian tradition. Its relevance today is most clearly seen in
the light of the revival of a virtue-based moral theology, largely
in the wake of Alasdair MacIntyre’s important work After
Virtue.52 Among the criticisms of this development is one made
by Fergus Kerr: that a virtue-based moral theology runs the
danger of becoming too abstract or theoretical and,
consequently, incapable of dealing adequately with the tragedies
of life.53 The alphonsian tradition, as articulated in the process
leading to Consueverunt omni tempore, is one that is particularly
suited to dealing with life’s shadows and sins: St. Alphonsus is,
after all, the moralist who developed a tradition from the
experience of where life’s shadows and sins are most intimately
exposed, in the celebration of the Sacrament of Confession. The
prudence typical of the alphonsian tradition is, as Gregorio
expressed it, una prudenza evangelica: perhaps the more
contemporary word ‘discernment’ better captures that spirit.
Such a process has been described by Richard McCormick as
“…. a matter of knowing deeply in faith Jesus Christ who is
present to me in His Spirit. It is a matter of knowing the
obstacles to and recognizing and heeding God’s gracious
invitation”54 It is my judgment that the process I have been
commenting on invites us to take this understanding of
prudence in the alphonsian tradition, though I admit other
interpretations of the virtue of prudence are theologically
legitimate. The appeal of calling this approach one of prudenza
evangelica or discernment is that it ensures that the alphonsian
First published in 1981 (Notre Dame Ind: University of Notre Dame
Press) it is important to note the slight modifications of later editions.
53 See F. KERR, “Moral Theology after MacIntyre: Modern Ethics,
Tragedy and Thomism”, Studies in Christian Ethics 8 (1995), 33-44.
54 R. A. MCCORMICK, Corrective Vision, (Kansas City MO: Sheed and
Ward, 1994), 67.
52
316
RAPHAEL GALLAGHER
tradition does not become fossilized or theoretical, in the wrong
sense. The insight of Heinrich Klomps regarding the clash
between Jansenism and Probabilism is relevant not only to
understanding a core aspect of the tradition St. Alphonsus
helped to found but its theological relevance for today can be
easily seen: speaking of the importance of this historical victory
of Probabilism over Jansenism, Klomps asserts:
… la chiave per capire questo fenomeno storico-religioso per
excellenza sta semplicemente nella esatta comprensione del
difficile problema di conciliare l’obbligo di predicare in ogni
tempo la “vox evangelii” con la legittima convinzione di poter
interpretare come “vox Dei” il carattere unico del presente
sempre nuovo.55
The concluding contemporary theological significance for
the alphonsian tradition that I would take from the process
studied in this article is a development of the first two and based
on the reference to Maritain in the 1938 text Sitne conveniens. If
I understand him correctly, Maritain expounds how the
practico-practical knowledge of life in St. Alphonsus’ theology,
shaped on the anvil of experience, is a genuinely scientific
knowledge that is coherent with the speculative knowledge
gained from metaphysical reasoning. Maritain takes great care
to show that the two types of knowledge are complementary or,
in his terms, form a continuity. But he insists that the type of
scientific knowledge in St. Alphonsus’ moral theology, especially
as expressed in the Praxis Confessarii,56 is a practico-practical
knowledge that is an extension, in the concrete, of a prudencebased conduct of life. The contemporary theological relevance of
this technical point can be seen in the discussions, mostly
among North American writers (for instance, A. Jonsen, S.
55 H. KLOMPS, Tradizione e progresso nella teologia morale (Roma:
Edizioni Paoline, 1963), 11.
56 An accessible and reasonably reliable edition (in contemporary
Italian) is Pratica del Confessore (Frigento: Casa Mariana, 1987).
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
317
Toulmin,57 J. Keenan,58 and R. Miller59), on casuistry in moral
theology. This discussion is not, in any way, an effort to revive
the correctly discredited casuistry associated with the tradition
of the casus conscientiae. What is emerging from the discussion
is a greater clarity about the ways of moral reasoning
appropriate to moral theology. One view would want moral
reasoning to achieve a scientific certitude analogous to
mathematics: the morality of an individual act is a logical
deduction from a universal moral principle. Another view of
moral reasoning would see it as more akin to the practical
science of clinical medicine. Universal principles are of little use
if one has misdiagnosed the circumstances: only then can one
make a sure judgment about which principle to apply. The issue
at stake here, and alluded to (I believe) by Maritain, is the
epistemological one of the method of moral reasoning, a debate
that has its philosophical roots in the aristotelian discussion on
the difference between episteme and phronesis. By including the
reference to Maritain, I think we can presume that the
alphonsian tradition is more in the line of phronesis.60
The process leading to Consueverunt omni tempore is not the
most important episode in the development of the alphonsian
tradition but, on a closer examination, it has indicated some
crucial pointers for the vitality of that tradition. In the first
place, the immediate interpretation of the document by Buijs
underlines that moral theology is, primarily, a theological
discipline (that is, not an exercise of casuistry). This is common-
See A. JONSEN and S. TOULMIN, The Abuse of Casuistry (Berkeley:
University of California Press, 1988).
58 Keenan has not just been a major personal contributor to the debate
but has been a catalyst in gathering other scholars to study the issues. See,
as an example, J. KEENAN and T. SHANNON (editors), The Context of Casuistry
(Washington, D.C.: Georgetown University Press, 1995).
59 R. MILLER, Casuistry and Modern Ethics (Chicago: University of
Chicago Press, 1996).
60 The issues here are complex, and moral theologians could do well by
entering into dialogue with the better philosophical writing on such issues,
such as: J. DUNNE, Back to the Rough Ground. ‘Phronesis’ and ‘Techne’ in
Modern Philosophy and in Aristotle (Notre Dame IN: University of Notre
Dame Press, 1993).
57
318
RAPHAEL GALLAGHER
place to acknowledge now, but it was not at all obvious to many
exponents of the alphonsian tradition in 1950. If theology is, so
to speak, the substance of the science, it is clear from the
Apostolic Brief that it is qualified by two further elements:
moral, and pastoral. The moral questions are clearly implied in
the fact that the alphonsian tradition is above all concerned with
the ethical questions as they affect people in the stuff of ordinary
life. But the substance (theology) is qualified not only by the
adjective (moral): the hermeneutical link between substance and
adjective is through the pastoralità which defines the
intentionality of one’s study of the subject ‘theology’ under the
aspect of ‘moral questions’. Much has happened since 1950 to
the ministry of being a moralist and being a confessor of which
St. Alphonsus was declared Patron. It would be unwise not to
study these changes, in themselves, and independent of the
limited focus of my research presented here.61 But there may be
more to be learned from the process leading to Consueverunt
omni tempore in discerning a response from within the
alphonsian tradition than at first appears. The ecclesiastical
event has, indeed, a deeper ecclesial significance with the
potential to indicate some theological elements of the
alphonsian tradition which, while certainly not the only valid
tradition of moral theology, continues to have its own relevance
in the pastoral response to many ethical enigmas of this
fractured period of history.
Via Merulana 31
C.P. 2458
Roma
Italy.
RAPHAEL GALLAGHER C.Ss.R.
—————
61 The millenium fever was notable in moral theology, too, where there
were many review-type studies of the present state of our discipline. Among
the more interesting ones is C. E. CURRAN, Moral Theology at the End of the
Century (Milwaukee WI: Marquette University Press, 1999).
THE ALPHONSIAN TRADITION IN THE LIGHT OF CONSUEVERUNT
319
Summary / Resumen.
This article examines the three stages of the process leading to the
proclamation of St. Alphonsus as Patron of Moralists and Confessors
in the Apostolic Brief Consueverunt omni tempore (26.04.1950). The
argument follows this line: though the process is properly called an
ecclesiastical one, an interpretation of the final document shows
important ecclesial possibilities which can, in turn, be useful for the
theological retrieval of the alphonsian pastoral tradition in our day.
Este artículo examina las tres fases del proceso que conducen a la
proclamación de San Alfonso como Patrono de moralistas y confesores
por el breve apostólico Consueverunt omni tempore (26.04.1950). El
argumento se plantea de la siguiente manera: aunque el proceso se
llama propiamente eclesiástico, una interpretación del documento final
muestra importantes posibilidades que pueden, a su vez, hacerlo útil
para recuperar la tradición pastoral alfonsiana en nuestro tiempo.
—————
The author is an Invited Professor at the Alphonsian Academy.
El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
—————
321
StMor 38 (2000) 321-346
SABATINO MAJORANO C.Ss.R.
IL CONFESSORE,
PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
Concludendo il suo intervento al congresso tenuto in Accademia Alfonsiana nel marzo del 1997, in occasione del terzo centenario della nascita di S. Alfonso, lo storico Gabriele de Rosa
sottolineava che la proposta del Patrono dei moralisti e dei confessori, mettendo «la pastorale in rapporto con la fragilità umana», facendo «dipendere il perdono più dalla misericordia che
dalla legge», restituendo «alla confessione e al confessore il ruolo di un atto di amore», costituisce, non solo per il secolo diciottesimo, ma anche per noi oggi «un evento certamente straordinario». E aggiungeva: «Da giudice il sacerdote diventa padre:
una trasformazione che poteva scaturire in sant’Alfonso solo
dalla sua ansiosa e generosa pratica evangelica in mezzo ai condannati, ai vagabondi, agli esclusi, ai fuorilegge, ai poveri, che
affluivano alle Cappelle serotine, pratica che a poco a poco lo liberò dal cupo rigorismo degli anni giovanili». Però a lungo andare «il risultato di questo capovolgimento «copernicano» della
teologia morale non sarebbe stato possibile se in sant’Alfonso
non fosse affiorata la consapevolezza della libertà come fondamento della fede e delle scelte del cristiano, a cui il missionario,
ma anche il vescovo o curato, avrebbe offerto il supporto della
carità»1.
Alla luce di quanto è stato suggerito dalla relazione introduttiva del Prof. Gallagher e avendo presente il cammino complessivo del nostro convegno, il mio contributo invita a focalizzare questa «trasformazione» o «capovolgimento» operato da S.
Alfonso, che ha portato il confessore a riscoprirsi padre, prima e
1 G. DE ROSA, La figura e l’opera di sant’Alfonso nell’evoluzione storica, in
Spicilegium Historicum CSSR 45 (1997) p. 224.
322
SABATINO MAJORANO
più che giudice. Ripercorrendo alcune delle sue pagine più significative, cercheremo così di meglio comprendere la direzione
che il Patrono dei confessori e dei moralisti indica per una fruttuosa attuazione della ministerialità sacramentale.
Tre citazioni, tratte da opere della sua maturità, ci permettono di coglierne subito tono e prospettive fondamentali. Nella
Selva di materie predicabili ed istruttive, pubblicata a Napoli nel
1760, egli scrive: «Bisogna persuadersi che l’esercizio più giovevole per salvare le anime è l’impiegarsi nel sentir le confessioni.
Diceva il ven. p. Lodovico Fiorillo domenicano che col predicare si gittano le reti, ma col confessare si tirano al lido e si pigliano i pesci… il sacerdote specialmente vien costituito, allorché si
ordina, ad amministrare il sacramento della penitenza»2.
Cinque anni prima, ha aperto la Pratica del confessore (Napoli 1755) con queste parole: «Grande certamente sarà il premio
e sicura la salvazione de’ buoni confessori che s’impiegano nella
salvezza de’ peccatori... Ma piange la Chiesa in vedere tanti suoi
figli perduti per cagione de’ mali confessori, poiché principalmente dalla loro mala o buona condotta dipende la salvezza o
ruina de’ popoli»3.
Nel 1757, nella Istruzione e pratica pei confessori, sintetizza
in questi termini la ministerialità del confessore: «l’officio suo è
officio di carità, istituito dal Redentore solamente in bene delle
anime»4.
Per Alfonso il ministero della confessione, strettamente collegato con quello dell’evangelizzazione, è prioritario nella vita
del sacerdote: ad esso egli «specialmente vien costituito» e dalla
sua «buona o cattiva» attuazione «dipende la salvezza o ruina»
2 Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli Esercizi a’ Preti ed
anche per uso di Lezione privata a proprio profitto, con una piena Istruzione
pratica in fine degli esercizi di Missione. Data in luce […] per uso de’ Giovani
della medesima Congregazione, parte I, cap IX, § 4, n. 31, in Opere complete,
III, Torino 1847, p. 77 [d’ora in poi Selva].
3 Pratica del confessore per bene esercitare il suo ministero, n. 1, edizione
critico-pratica a cura di G. PISTONI, Modena 1948, p. 1 [d’ora in poi Pratica].
4 Istruzione e pratica pei confessori, cap. XVI, punto VI, n. 110, in Opere
complete, IX, Torino 1861, p. 415 [d’ora in poi Istruzione e pratica].
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
323
dei fedeli. Va però sempre vissuto come «officio di carità» mirando «solamente» al bene delle anime5.
Sono affermazioni forti da leggere avendo presente il contesto morale e pastorale del Settecento. Credo però che il loro significato, come sottolinea lo stesso evento che il nostro convegno sta commemorando, va oltre il momento in cui sono state
scritte. Per meglio coglierlo, è opportuno innanzitutto rilevare
come Alfonso colloca la confessione nella ministerialità sacerdotale e nel progetto di missione per gli abbandonati, che costituisce il perché della sua vita. Sarà così più agevole valutare la
maniera con cui delinea i compiti specifici del confessore, sottolineando quelli di padre e di medico, e la formazione necessaria per la loro fruttuosa attuazione.
1. La ministerialità sacerdotale
Al pari degli altri aspetti della sua proposta teologica e pastorale, anche la ministerialità sacerdotale viene precisata da
Alfonso partendo dalla esperienza viva. Il tracciato di fondo è
dato dalle prospettive e dalle coordinate della pastorale post-tri-
5 Cf. D. CAPONE, Il compito del confessore, compito di carità in Cristo: riflessioni pastorali con S. Alfonso M. de Liguori, in ID., La proposta morale di
sant’Alfonso. Sviluppo e attualità, a cura di S. BOTERO GIRALDO e S. MAJORANO,
Roma 1997, p. 261-295; S. MAJORANO, La formazione della coscienza nella tradizione redentorista: I dati delle origini, in AA. VV., Proceedings of the Third International Congress of Redemptorist Moral Theologians, Pattaya (Thailand)
1995, p. 189-219; ID., Il dialogo confessore - penitente. La riconciliazione vista
dal confessore e dal penitente, in La Madonna 47 (1999), n. 1, p. 21-31; ID., Il
cammino etico esistenziale verso il Padre alla luce di Sant’Alfonso Maria de Liguori, in Vivarium 8 (1999), n. 1, p. 87-100; V. PELLEGRINO, La direzione spirituale di Sant’Alfonso, in P. GIANNANTONIO (a cura), Alfonso M. de Liguori e la
società civile del suo tempo, Firenze 1990, p. 643-651; Th. REY-MERMET, La riconciliazione in S. Alfonso e nel suo tempo, in L. ALVAREZ - S. MAJORANO (a cura), Morale e redenzione, Roma 1983, p. 223-234; R. THÉBERGE, Liguori et la
formation morale de la conscience, Sainte Foy: Université Laval 1987; ID., Une
morale pour une pastorale de la miséricorde. L’«Homo apostolicus», in AA.
VV., Alphonse de Liguori pasteur et docteur, Paris 1987, p. 127-138; M. VIDAL,
La morale di Sant’Alfonso. Dal rigorismo alla benignità, Roma 1992, particolarmente p. 238-240.
324
SABATINO MAJORANO
dentina, permeate e arricchite dal grande patrimonio biblico e
patristico, abbondantemente citato in tutti i suoi scritti. Gli
aspetti maggiormente sottolineati evidenziano la tensione a rispondere costruttivamente alle urgenze pastorali della società
meridionale del suo tempo, soprattutto a quelle degli abbandonati: ridestare ed approfondire la fede, liberandola dalle presenze magico-superstiziose, dovute soprattutto alla scarsa o inadeguata evangelizzazione; difenderla dalle insidie provenienti dal
crescente diffondersi di istanze razionalistiche e materialistiche,
i cui rischi sono accentuati dalla carenza di formazione religiosa nelle classi più umili; ridarle lo slancio della coerenza nelle
scelte di ogni giorno, messa a dura prova dalle discriminazioni
e dalle mille difficoltà presenti nella vita quotidiana del popolo6.
Avendo presente tale contesto, è possibile meglio valutare le
accentuazioni alfonsiane nei riguardi della ministerialità sacerdotale: evangelizzazione in linguaggio accessibile e concreto;
formazione delle coscienze, radicata in una lettura misericordiosa della fragilità umana; sostegno nel cammino verso la santità, fondato nella preghiera e nel frequente accostarsi ai sacramenti. Vengono concretizzate da Alfonso partendo da ciò che ha
specificato il suo cammino umano e spirituale: la fedeltà alla
chenosi salvifica del Redentore, che lo ha portato a condividere
la dura condizione degli abbandonati dei quartieri più poveri di
Napoli prima e delle campagne poi7. È una realtà scrutata con
6 Cf. D. AMBRASI, Seminario e clero a Napoli dalla nascita dell’istituzione
alla fine del Settecento, in Campania Sacra 15-17 (1984-1986) p. 7-95; J. DELUMEAU, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al
XVII secolo, Cinisello Balsamo 1992; R. DE MAIO, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna (1656-1799), Napoli 1971; G. DE ROSA, Vescovi, popolo e
magia nel Sud, Napoli 1983; A. DE SPIRITO, La parrocchia nella società napoletana del Settecento, in Spicilegium Historicum CSSR 25 (1977) p. 73-117; G.
GALASSO – C. RUSSO (a cura), Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno
d’Italia, I e II, Napoli 1980 e 1982; G. ORLANDI, Il regno di Napoli nel Settecento. Il mondo di S. Alfonso Maria de Liguori, in Spicilegium Historicum
CSSR 44 (1996) 5-389; C. RUSSO (a cura), Società, Chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, Napoli 1976; M. TURRINI, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna, Bologna 1991.
7 Cf. S. MAJORANO, Il popolo chiave pastorale di S. Alfonso, in Spicilegium
Historicum CSSR 45 (1997) p. 71-89; ID., La teologia come fedeltà alla cheno-
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
325
gli occhi di un avvocato che, lasciato nel 1723 il foro partenopeo,
è passato a quello della «giustizia salvifica» del Redentore, vista
come copiosa redemptio, scegliendo per clienti i «poveri peccatori»8. Può così elaborare una proposta, morale e pastorale, tesa
alla difesa appassionata del loro diritto alla pienezza della vita
cristiana, nonostante la fragilità, frutto del peccato, che, in molteplici forme, pesa sulla loro vita9. Si tratta di una difesa che non
legittima certo la fragilità, ma si preoccupa prima di tutto di individuarne e denunciarne le cause, rendendone possibile l’effettivo superamento.
Le scelte di fondo sono chiare già nei primi impegni pastorali nei quartieri popolari di Napoli. Stralcio dalla colorita descrizione tratteggiata dal Tannoia: «Animato dallo spirito di Dio,
non predicava Alfonso, che Cristo Crocifisso. Non vi erano frasche nelle sue prediche, ed apparati vani d’inutili erudizioni. Tutto era nerbo, e sostanza, con istile piano, e familiare... Non tantosto si vide sedere al Tribunale della Penitenza, che accerchiato
ne venne il nuovo Confessore da una moltitudine di Penitenti.
Prodigioso era il numero di qualunque ceto e condizione, che da
ogni parte vi concorreva. Tutti accoglieva Alfonso con una carità
sopraffina; e siccome la mattina era il primo a presentarsi in
Chiesa, così era l’ultimo a levarsi dal Confessionale»10.
In seguito, l’intensa attività missionaria, sostenuta da un costante impegno di riflessione, lo convincerà sempre più che il
«predicare all’apostolica» e il confessare misericordioso (imitando cioè la «condotta del Redentore»), devono essere considerati
come i due cardini, strettamente correlati tra di loro, di ogni valida azione pastorale. Il primo è la necessaria porta che apre le
si del redentore: La proposta di S. Alfonso Maria de Liguori, in Divus Thomas
20 (2/1998) p. 94-115.
8 Cf. F. CHIOVARO, S. Alfonso Maria de Liguori: ritratto di un moralista, in
Spicilegium Historicum CSSR, 45 (1997) p. 121-153; P. PERLINGIERI, Alfonso de
Liguori giurista, in P. GIANNANTONIO (a cura), op. cit., p. 271-285.
9 Cf. la visione sintetica che ho tracciato in Essere Chiesa con gli abbandonati. Prospettive alfonsiane di vita cristiana, Materdomini 1997.
10 Della vita ed istituto del Venerabile Servo di Dio Alfonso M.a Liguori Vescovo di S. Agata de’ Goti e Fondatore della Congregazione de’ preti missionarii del SS. Redentore, I, Napoli 1798, p. 35-36 e 38-39.
326
SABATINO MAJORANO
menti e i cuori alla verità salvifica, superando resistenze e incomprensioni; il secondo, sviluppandosi come momento privilegiato della formazione delle coscienze, permette la necessaria
personalizzazione della stessa verità nella sua capacità di rinnovare la vita. Fino alla tarda età, ricorda ancora Tannoia, Alfonso
non si stancherà di ripetere che il ministero delle confessioni è
«il più profittevole per le Anime, e ‘l meno soggetto a vanità per
un Operario Evangelico; perché... per mezzo di questo, più che
per qualunque altro ministero, le Anime si riconciliano immediatamente con Dio, e loro si applica con soprabbondanza il sangue di Gesù Cristo»11.
All’inizio degli anni Sessanta, Alfonso condensa, nella Selva,
l’esperienza e la riflessione di più di trent’anni, dandoci una visione articolata della ministerialità sacerdotale. Le affermazioni
a volte hanno toni e colori particolarmente forti, che è possibile
comprendere correttamente avendo presente che si tratta di un
testo per la predicazione, come viene richiamato negli stessi «avvertimenti» iniziali12.
L’opera risulta articolata in tre parti. Nella prima (Delle materie predicabili) vengono affrontate le tematiche più fondamentali riguardanti la dignità e la vita sacerdotale13. La seconda (Delle istruzioni) sviluppa analiticamente alcuni aspetti più specifici
Ivi, p. 39.
«La presente operetta si è intitolata Selva, non già discorsi o esercizj
spirituali, perché sebbene siasi procurato di unir la materia propria appartenente a ciascuno degli assunti proposti, nulladimeno non si è dato l’ordine
che ricerca un discorso formato per ciascuna materia; né i sentimenti si sono distesi; si son notati questi alla rinfusa, ed in breve; ma ciò si è fatto di
proposito, affinché il lettore scegliendone quelle autorità, dottrine e pensieri che più gli gradiscono, egli poi gli ordini e li stenda come meglio gli piacerà, facendosi con ciò proprio il discorso» (Selva, p. 5).
13 È articolata in dieci capitoli: «Della dignità del sacerdote» (cap. I);
«Del fine del sacerdote» (cap. II); «Della santità che deve avere un sacerdote» (cap. III); «Gravezza e castigo del peccato del sacerdote» (cap. IV); «Del
danno che apporta al sacerdote la tepidezza» (cap. V); «Del peccato d’incontinenza» (cap. VI); «Della messa sacrilega» (cap. VII); «Del peccato di scandalo» (cap. VIII); «Dello zelo del sacerdote» (cap. IX); «Della vocazione al sacerdozio» (cap. X).
11
12
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
327
del ministero e le principali virtù del sacerdote14. La terza infine
riguarda gli «esercizj di missione»15.
Punto di partenza è la dignità del sacerdote, prospettata come «dignità somma fra tutte le dignità create»16, dal momento
che «Gesù è morto per fare un sacerdote»17. La motivazione sta
nella «potestà che tiene [il sacerdote] sovra il corpo reale e il
corpo mistico di Gesù Cristo». Riguardo al primo, «è di fede che
quando il sacerdote consagra, s’è obbligato il Verbo incarnato ad
ubbidire ed a venire nelle sue mani sotto le specie sacramentali». Riguardo al secondo, «il sacerdote ha la potestà delle chiavi,
cioè di liberare il peccatore dall’inferno e farlo degno del paradiso, e da schiavo del demonio farlo figlio di Dio»18.
È però una dignità tutta ministeriale, che deve privilegiare
coloro che più hanno bisogno di salvezza. Alfonso lo ha avuto
chiaro fin dal momento della sua decisione per il sacerdozio,
prendendo le distanze da un padre che sognava per lui una carriera di prestigio. Può perciò scrivere nella Selva: «Grandissima
è la dignità e l’officio de’ sacerdoti; ma è grande ancora l’obbligo ch’essi hanno di attendere alla salute delle anime»19.
14 Le istruzioni sono complessivamente undici: «Circa la celebrazione
della messa»; «Circa il buon esempio che dee dare il sacerdote»; «Circa la castità del sacerdote»; «Circa la predicazione e circa l’amministrazione del sacramento della penitenza»; «Circa l’orazione mentale»; «Circa l’umiltà»;
«Circa la mansuetudine»; «Circa la mortificazione specialmente interna»;
«Circa la mortificazione esterna»; «Circa l’amor di Dio»; «Circa la divozione
verso Maria SS.».
15 I dodici capitoli trattano dapprima separatamente dei diversi esercizi
(I: «sentimenti»; II: rosario; III: confessione dei ragazzi; IV: «soliloquj per la
comunione»; V: catechismo grande; VI: catechismo ai ragazzi; VII: predica;
VIII: altri esercizi; IX: «esercizj divoti che si lasciano raccomandati a praticarsi dopo la missione»), per poi presentare una serie di «avvertimenti generali» (X), le «incombenze del superiore» (XI) e le «virtù particolari che
debbono osservare i missionarj nel tempo della missione» (XII).
16 Parte I, cap. I, n. 1, p. 7.
17 Ivi, n. 4, p. 8.
18 Ivi, n. 5-6, p. 8.
19 Ivi, cap. IX, § 1, n. 3, p. 65. Il capitolo è dedicato allo zelo e si apre
con queste affermazioni: «Si avverta che nel darsi gli esercizj al clero, questa
dello zelo è la predica più necessaria da farsi e che può riuscire la più utile
di tutte; perché, se mai si risolve un sacerdote degli ascoltanti, come dee sperarsi dalla grazia del Signore, ad impiegarsi nel procurare la salute del pros-
328
SABATINO MAJORANO
Le espressioni di tale zelo sono molteplici. Alfonso si sofferma su quelle che ritiene più importanti. Innanzitutto il sacerdote «dee attendere a correggere i peccatori»20. Occorre poi che si
dedichi alla predicazione: «Per la predicazione si è convertito il
mondo alla fede di Gesù Cristo, siccome dice l’apostolo: Fides ex
auditu; auditus autem per verbum Christi (Rm 10,17). E per la
predicazione si conserva la fede e il timore di Dio ne’ fedeli»21.
Deve inoltre «impiegarsi nell’aiuto dei moribondi, ch’è l’opera di
carità più cara a Dio ed è la più utile alla salute delle anime»22.
Ma soprattutto «bisogna persuadersi che l’esercizio più giovevole per salvare le anime è l’impiegarsi nel sentir le confessioni».
Né devono scoraggiare le difficoltà che si incontrano in questo
ministero: «Ma, dice taluno, questo è un officio di molto pericolo. Non ha dubbio, sacerdote mio, ti dice S. Bernardo, ch’è molto pericoloso il porsi a fare il giudice delle coscienze: ma incorrerai un maggior pericolo, se per pigrizia o per troppo timore lascerai di far quest’officio quando il Signore ti chiama a farlo»23.
Il ribadire l’importanza del ministero delle confessioni non
era sufficiente, dal momento che spesso i problemi derivavano
soprattutto dalla scarsa qualità dei confessori, per carenza di
formazione o di zelo. Nell’istruzione quarta della Selva Alfonso
sottolinea che «chi vuol essere idoneo e buon confessore bisogna
prima di tutto che consideri essere un tale offizio molto difficile
e molto pericoloso». Ma aggiunge subito che «ciò va detto non
già per quei buoni sacerdoti che, dotati di santo timore, procurano prima di abilitarsi quanto conviene a questo grande officio
simo, non si guadagnerà una sola, ma cento e mille anime, che si salveranno per mezzo di questo sacerdote» (p. 63-64).
20 Ivi, § 4, n. 28, p. 76. Aggiunge: «I sacerdoti che vedono le offese di Dio
e non parlano sono chiamati da Isaia cani muti: Canes muti, non valentes latrare (56,10). Ma a questi cani muti saranno imputati tutti i peccati che poteano impedire e non hanno impedito».
21 Ivi, n. 29, p. 76-77.
22 Ivi, n. 30, p. 77.
23 Ivi, n. 31, p. 77. Le difficoltà devono spingere invece a uno studio continuo: «Ma io, replica colui, non sono abile a quest’officio, perché non ho
studiato. Ma non sai che il sacerdote è obbligato a studiare?... Se non volevi
studiare per poter aiutare il prossimo, a che serviva il farti sacerdote?».
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
329
e poi mettonsi ad esercitarlo pel solo desiderio di portare anime
a Dio; ma solamente si dice a rispetto di coloro che per fini mondani o d’interesse temporale o di stima propria ed alle volte senza la bastante scienza vanno a prendere la confessione»24.
A questo fine, oltre la redazione, costantemente sottomessa
a revisione, della ponderosa Theologia moralis, Alfonso si impegna a mettere in mano ai sacerdoti strumenti pratici per il migliore espletamento del loro ministero: Pratica del confessore per
ben esercitare il suo ministero (1755), Avvertimenti ai confessori
novelli (1756), Istruzione e pratica pei confessori (1757), Il confessore diretto per le confessioni della gente di campagna (1764).
Le scrive in italiano (tranne le pagine relative al sesto comandamento), limitandosi alle questioni principali, per superare le difficoltà poste dalla lingua latina e dal costo dei grandi tomi delle
Institutiones theologiae moralis25.
Dalle pagine, ricche di concretezza di queste opere, emerge
una ministerialità, in cui la fedeltà alla misericordia del Redentore rende il confessore prima di tutto padre e medico e poi dottore e giudice. Senza rinunziare mai alla verità, la incarna costruttivamente nella vita, mediante una proposta di vita cristiana che apre la fragilità alla tensione sincera verso la santità. Lo
vedremo dettagliatamente in seguito, dopo aver rilevato la collocazione della confessione nel progetto missionario.
Ivi, parte II, Istruzione II, § 2, n. 7 e 8, p. 117-118.
Significativo quanto nota all’inizio del Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna: «Essendoché i piccioli paesi della campagna,
per la povertà della gente che v’abita, non han modo di somministrare stipendi pingui a’ sacerdoti che assistono alla loro cultura; ed all’incontro non
essendo in tali luoghi necessaria ne’ sacerdoti, per udire le confessioni, quella scienza che bisogna per li paesi grandi, dove sogliono abitare anche persone culte; per tanto ho stimato cosa utile dar fuori questa breve Istruzione,
che giudico esser sufficiente a’ preti, che poco son versati nello studio della
morale, e che non possono comprarsi libri di maggiore spesa, per abilitarsi
a prendere le confessioni della gente di campagna. Che se poi occorressero
casi che richiedono maggiore discussione e studio, allora bisognerà che si
osservino libri che trattano le materie più diffusamente, o almeno ricorrano
al consiglio di uomini che sono ben fondati in questa scienza», in Opere complete, IX, Torino 1861, p. 641.
24
25
330
SABATINO MAJORANO
2. Il progetto missionario
Nel novembre 1732 Alfonso decide di passare definitivamente nel mondo dell’abbandono: «Accertato della volontà di
Dio, scrive il Tannoia, si animò, e prese coraggio; e facendo a Gesù Cristo un sacrificio totale della Città di Napoli, si offerse menar i suoi giorni dentro proquoi, e tuguri, e morire in quelli attorneato da’ Villani, e da’ Pastori»26. Fonda la comunità redentorista il cui «intento» è «per seguitare l’esempio del nostro comune Salvatore Giesù Cristo, d’impiegarsi principalmente sotto
l’obbedienza degli Ordinarj de’ luochi nell’aiutare i paesi di campagna più destituiti di soccorsi spirituali». Avrà perciò come «distintivo assoluto» di radicarsi tra gli abbandonati, ponendo le
«chiese e case fuori dell’abitato e in mezzo alle diocesi, affine di
andar girando con maggior prontezza colle missioni per i paesi
d’intorno; ed affine insieme di porgere in tal modo più facilmente il commodo alla povera gente di accorrere a sentir la divina parola e prendere i sacramenti nelle loro chiese»27.
La definizione del progetto missionario non fu facile. Non è
qui il luogo per ricostruirne le tappe, mettendo in rilievo i contributi dei singoli membri del gruppo primitivo28. Mi preme solo
evidenziare la centralità che in esso viene assegnata al ministero
delle confessioni. Emerge con chiarezza da quanto Alfonso scrive ai vescovi in difesa del suo progetto: «Chi non è pratico di missioni e del confessare che si fa in missione, non può intendere
mai quanto sia grande il loro profitto… il frutto maggior delle
missioni non consiste nel sentir le prediche, ma nel confessarsi
tutti del paese a’ missionarj. Se ciascuno nella missione non aggiusta i conti della vita passata e non mette sistema alla vita futura colla confessione, poco gli gioveranno le prediche intese»29.
Op. cit., I, p. 66.
Spicilegium Historicum CSSR 16 (1968) p. 385.
28 Cf. S. MAJORANO, «Idea» dell’istituto, in D. CAPONE – S. MAJORANO, I Redentoristi e le Redentoriste. Le radici, Materdomini 1985, p. 349-424; ID., Testi
regolari anteriori al 1749, in F. CHIOVARO (a cura), Storia della Congregazione
del Santissimo Redentore, I/I. Le Origini, Roma 1993, p. 431-451.
29 Riflessioni utili ai vescovi per la pratica di ben governare le loro chiese
tratte dagli esempj de’ vescovi zelanti ed approvate coll’esperienza, cap. II, § 5,
26
27
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
331
La durata e l’articolazione della missione erano progettate
alla luce di questa prioritaria preoccupazione. Per questo Alfonso, ricorda il Tannoia, «anche ne’ loghetti di poche Anime, vi si
tratteneva i giorni quindeci; ma nelle Città grandi, e popolate, i
venti, e ventidue, e talvolta il mese intero». Voleva infatti che
«tutto il Popolo si fosse confessato da’ nostri». Perciò «non usciva in Missione, se non aveva soggetti in numero proporzionato
al paese; e nelle Missioni grandi arrivava a portare i diciotto, e
venti, e talvolta di vantaggio. Sette ore perduravasi la mattina
nel Confessionale, inclusa la S. Messa; e la sera per lo meno, terminata la predica, confessar si doveva per altre due ore»30.
La missione veniva aperta «rilevando con una predica le Misericordie di Dio sopra del paese». Nei giorni seguenti «di per
tempo la mattina eravi in Chiesa la predica per coloro, che uscir
dovevano alla campagna. Finita la predica ognuno de’ Missionarj seder doveva ai Confessionali, chi destinato per gli uomini,
e chi per le donne»31.
La catechesi serale «sminuzzar doveva i principali doveri,
che verso Dio assistono, verso il prossimo, e verso noi medesimi.
Rilevava le parti integrali per essere valida la Confessione, ed il
grave danno, che risulta dalle confessioni invalide, massime le
sacrileghe; e soprattutto rilevavasi l’ingiusto tolto, e ritenuto»32.
Momenti culminanti della missione erano le «comunioni generali», cominciando da quella «de’ figliuoli, e figliuole». Venivano collocate in maniera che prima il popolo avesse avuto il
tempo di avvicinarsi alla confessione: «Volendo dar luogo alle
Confessioni, e togliere di mezzo qualche sacrilegio, che commetter si poteva per umano rispetto, non permetteva, che si
communicasse chiunque prima delle Comunioni generali». Era-
in Opere complete, III, Torino 1847, p. 874-875. Sul metodo missionario alfonsiano cf. G. ORLANDI, La missione, in F. CHIOVARO (a cura), op. cit., p. 325-399.
30 Op. cit., I, p. 308. Lo stesso Tannoia aggiunge: «Giungendo ne’ paesi,
pregava i Parochi, ed i Confessori del luogo, ma non costringevali, per mezzo de’ Vescovi, che per qualche tempo astenuti si fossero dall’ascoltar le confessioni. Soleva dire che chi per erubescenza ha fatto il sacrilegio col proprio
Confessore, volentieri, perché incontra maggior vergogna, lo fa di nuovo anche nella Missione».
31 Ivi, p. 309.
32 Ivi.
332
SABATINO MAJORANO
no precedute da momenti catechetici specifici. In maniera particolare la preparazione per quella degli uomini durava tre giorni: «rilevavasi la prima sera ai medesimi, quanto a Gesù Cristo
fosse a cuore tra’ Cristiani la scambievole carità, e quanto in
abominio le risse, ed i rancori. Si animavano gli offesi alla riconciliazione; ed ai piedi del Crocifisso, detestando ognuno le
proprie vendette, riconciliato vedevasi col suo offensore»33.
La missione terminava con la pratica della vita divota: dopo
«le prediche delle Massime, eravi per tre o quattro giorni un pio
esercizio meditativo, ch’egli chiamava Vita Divota. Consisteva
questo per prima in istruire il Popolo sulla maniera di mentalmente orare; spiegavane la necessità, e mettevasi in veduta l’utilità di sì pio esercizio. Indi per un’altra mezz’ora facevasi praticamente meditare la dolorosa passione di Gesù Cristo… Questa
meditazione, che di per sé attirava le lagrime ad ognuno, operava il maggior frutto nella Missione. Se il popolo non era tutto sodisfatto, specialmente colla Sacramentale Confessione, soleva
portare più in lungo questo pio esercizio»34.
Mirando soprattutto alla perseveranza e alla crescita nel bene, Alfonso «non solo sbarbicar cercava i vizj, ma innestarvi ancora, e piantarvi le virtù cristiane; né lasciava mezzo per venir a
capo di quanto desiderava». Tra tutti «il mezzo de’ mezzi» era
«che si capisse il gran bene, che produr suole la frequenza de’
Sacramenti, e che ognuno se n’invogliasse. Confessione e Comunione sono, ei diceva, e ripetevalo sempre, la sorgente di tutt’i beni; questi abbattono le passioni, e ci fortificano contro le tentazioni: senza di questi si cade, e si va in precipizio. Inculcava perciò
che in ogni otto giorni ricevuti si fossero questi due Sacramenti,
con ispiegare la disposizione con cui dovean riceverli»35.
La centralità del ministero delle confessioni nella strategia
missionaria viene ribadito in maniera tassativa nelle costituzioni redentoriste del 1764: «L’unico impegno de’ padri non sarà
che di confessare essi tutto il popolo, escluso affatto ogni ajuto
33
34
35
Ivi, p. 311.
Ivi, p. 311-312.
Ivi, p. 313-315.
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
333
de’ confessori del luogo. Questo è un punto di somma importanza, e si facciano scrupolo i superiori di violarlo»36.
E questo anche nella «missione continua» costituita dalla
comunità radicata tra gli abbandonati: «Primieramente le nostre
chiese saranno assistite di continuo da’ confessori, ed acciocché
tutto vada ben regolato, il Rettore destinerà tanti soggetti per
ciascheduno giorno della settimana, così per gli uomini che per
le donne; sebbene ogni soggetto resta nella libertà di calare sempre che vuole, come l’è sempre in obbligo di fare ove ne fosse
comandato ad ogni cenno de’ superiori, ancorché non fosse giorno destinato per esso. Ne’ giorni però di festa sono tutti tenuti
d’assistere ai confessionali, e di continuamente accudire a’ bisogni che mai fossero in chiesa»37.
Le stesse costituzioni perciò non esitano ad indicare «l’ascoltare le confessioni» come un’opera che «dovrà essere sommamente a cuore ai soggetti del nostro santo Istituto. Chi più si
segnalerà in questo, più avrà spirito missionario, e di seguace di
Gesù Cristo»38.
Questa decisa accentuazione del ministero delle confessioni
va certamente letta alla luce del contesto socio-religioso, contrassegnato, come sottolinea J. Delumeau, da un senso vivo dell’obbligo dell’accusa dettagliata, da un diffuso bisogno di «ostetricia spirituale» e dall’urgenza pastorale di «tranquillizzare» le
coscienze tramite anche il ricorso alle confessioni generali39.
Credo però che in essa occorre cogliere innanzitutto l’esigenza
evangelica di incarnazione della verità nella storia viva di ogni
persona. Alfonso infatti ha particolarmente a cuore tale esigenza, sottolineandone il valore sanante nei riguardi della fragilità
umana. È stato ricordato da Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai
Redentoristi in occasione del terzo centenario della nascita del
36 N. 55: Codex regularum et constitutionum CSSR, I (1749-1894), Roma
1899, p. 50-51. Si noti che con i testi normativi del Capitolo del 1764 termina la prima codificazione completa della congregazione redentorista, cf. al
riguardo F. FERRERO, Costituzioni, statuti capitolari e strutture (1749-1785), in
F. CHIOVARO (a cura), op. cit., p. 483-488.
37 Codex…, n. 163, p. 94.
38 Ivi n. 57, p. 51.
39 Cf. La confessione e il perdono…, p. 25-47.
334
SABATINO MAJORANO
loro fondatore: «L’annuncio è autentico se, seguendo la pedagogia di Cristo, si concretizza nell’accompagnamento paziente della coscienza di ognuno nel graduale cammino verso il vero e il
bene. S. Alfonso testimonia con forza che la franchezza della
predicazione deve farsi accoglienza di padre e pazienza di medico – soprattutto nel sacramento della riconciliazione – perché
ogni persona possa aprirsi all’azione di Cristo Salvatore. La fedeltà al Fondatore chiede in maniera particolare ai Redentoristi
tale capacità e tale impegno, indispensabili per quella «generale
mobilitazione delle coscienze e comune sforzo etico» che non mi
stanco di indicare come risolutivi delle problematiche anche più
gravi, come quelle concernenti la vita»40.
3. I compiti del confessore
Alfonso non si limita ad affermare questa centralità del ministero delle confessioni. Convinto che «l’ufficio del confessore è
ufficio di carità, istituito da Cristo Signore solo per il bene delle
anime»41, si impegna a delineare un modello di confessore che,
radicato nella disciplina tridentina, la interpreta da «avvocato»
desideroso di far accedere i propri «clienti» (cominciando dai
più abbandonati) alla ricchezza di grazia propria di questo sacramento. I tratti fondamentali di questo modello è facile coglierli seguendo la presentazione sintetica, tratteggiata nella Pratica del confessore, dei suoi fondamentali «uffici»: padre, medico, dottore, giudice.
In quanto padre, il confessore «dev’esser pieno di carità».
Questa si concretizza innanzitutto «nell’accogliere tutti, poveri,
rozzi e peccatori». Va perciò denunciato con forza l’atteggiamento di alcuni confessori che, quando «s’accosta un povero peccatore, lo sentono di mala voglia, ed infine lo licenziano con ingiurie. E quindi succede che quel miserabile, il quale a gran forza
sarà venuto a confessarsi, vedendosi così mal accolto e discac-
La ricorrenza tre volte centenaria, n. 3, in AAS 89 (1997) p. 143.
Theologia moralis, lib. VI, tract. IV, cap. II, dub. V, n. 610, ed. GAUDÉ,
III, Roma 1909, p. 635.
40
41
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
335
ciato, piglia odio al sagramento, si atterrisce di più confessarsi, e
così, diffidando di trovar chi l’aiuti e l’assolva, si abbandona alla
mala vita ed alla disperazione». I veri confessori invece «quando
si accosta un di costoro, se l’abbracciano dentro il cuore e si rallegrano quasi victor capta praeda, considerando di aver la sorte
allora di strappare un’anima dalle mani del demonio. Sanno che
questo sagramento propriamente non è fatto per l’anime divote,
ma per li peccatori… Sanno che Gesù Cristo si protestò dicendo:
Non veni vocare iustos, sed peccatores (Mc 2,17). E perciò, vestendosi di viscere di misericordia, come esorta l’Apostolo, quanto più infangata di peccati trovano quell’anima, tanto maggior
carità cercano d’usarle, affin di tirarla a Dio»42.
La carità che accoglie deve farsi ascolto paziente e misericordioso del penitente: «Maggiormente dee il confessore usar
carità nel sentirlo. Bisogna pertanto ch’egli si guardi di mostrar
impazienza, tedio o maraviglia de’ peccati che narra; se pure
non fosse così duro e sfacciato che dicesse molti e gravi peccati
senza dimostrarne alcun orrore o rincrescimento, perché allora
è di bene fargli intendere la loro deformità e moltitudine, bisognando allora svegliarlo dal suo mortal letargo con qualche correzione»43.
È un ascolto che porta il confessore a guardare le cose dall’angolazione del penitente: non per legittimare ciò che non è
possibile legittimare, dato che la carità chiede sempre di chiamare il bene e il male con il proprio nome; ma per cogliere l’effettivo valore di ciò che si è vissuto e così individuare i passi effettivamente risolutivi.
È quell’ascolto che ha permesso allo stesso Alfonso di maturare il distacco dal probabiliorismo della sua prima formazione
e la conversione alla benignità pastorale: «Nel corso del lavoro
missionario, scrive nel 1749, abbiamo scoperto che la sentenza
benigna è comunemente sostenuta da numerosissimi uomini di
grande onestà e sapienza... ne abbiamo perciò ponderato accuratamente le ragioni e ci siamo accorti che la sentenza rigida
non solo ha pochi patroni e seguaci – e questi dediti forse più alle speculazioni che all’ascolto delle confessioni –, ma è anche po-
42
43
Pratica, cap. 1, § 1, n. 3, p. 3-4.
Ivi, n. 4, p. 4.
336
SABATINO MAJORANO
co probabile, se si vagliano i principi, e per di più circondata da
ogni parte da difficoltà, angustie e pericoli. Al contrario abbiamo scoperto che la sentenza benigna è accettata comunemente,
è molto più probabile dell’opposta, anzi è probabilissima e, secondo alcuni, non senza un fondamento molto grave, moralmente certa»44.
La lettura misericordiosa della fragilità umana, frutto di
questa «conversione», mette in primo piano la persona del peccatore, considerando il suo stato innanzitutto come malattia. All’ufficio di medico viene perciò dedicato il maggiore sviluppo
nella Pratica: «Il confessore, affine di ben curare il suo penitente, dee per prima informarsi dell’origine e cagioni di tutte le sue
spirituali infermità». Solo così sarà possibile «far la correzione,
disporre il penitente all’assoluzione ed applicargli i rimedi»45.
Il primo e indispensabile rimedio è l’apertura alla verità mediante l’ammonizione: «Informatosi il confessore dell’origine e
della gravezza del male, proceda a far la dovuta correzione o ammonizione. Sebben egli come padre dee con carità sentire i penitenti, nulladimeno è obbligato come medico ad ammonirli e
correggerli quanto bisogna… E ciò è tenuto a farlo anche con
persone di conto, magistrati, principi, sacerdoti, parrochi e prelati, allorché questi si confessassero di qualche grave mancanza
con poco sentimento»46.
Ricorrendo all’autorità di Benedetto XIV, Alfonso sottolinea
il particolare valore delle ammonizioni del confessore: esse «sono più efficaci che le prediche dal pulpito», perché «il predicatore non sa le circostanze particolari, come le conosce il confessore; onde questi assai meglio può far la correzione ed applicare i rimedi al male»47.
È retta da queste prospettive terapeutiche la maniera di affrontare i casi di ignoranza. Occorre «ammonire chi sta nell’i44 Dissertatio scholastico-moralis pro usu moderato opinionis probabilis
in concursu probabilioris, in Dissertationes quatuor, Monza 1832, p. 77-78.
45 Pratica, cap. I, § 2, n. 6, p. 7.
46 Ivi, n. 7, p. 7.
47 Ivi, p. 8. Aggiunge: «Né deve allora il confessore badare agli altri penitenti che aspettano, poiché è meglio, come dicea s. Francesco Saverio, far
poche confessioni e buone che molte e mal fatte».
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
337
gnoranza colpevole di qualche suo obbligo, o sia di legge naturale o positiva». Quando invece si tratta di ignoranza incolpevole, allora se «è circa le cose necessarie alla salvezza, in ogni conto gliela deve togliere; se poi è d’altra materia, ancorché sia circa i precetti divini, e ’l confessore prudentemente giudica che
l’ammonizione sia per nocere al penitente, allora deve farne a
meno e lasciare il penitente, nella sua buona fede». Il motivo è
«perché deesi maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale, mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso»48.
Nella Theologia moralis Alfonso specifica ulteriormente,
chiedendosi cosa fare quando si dubita che l’ammonizione risulti effettivamente proficua per il penitente. La risposta è che
va fatta in ogni caso «si non timetur de damno». Quando invece
si è incerti sia sul danno che sul beneficio «tunc confessarius
pensare damnum et utile, item gradum timoris damni ac spei
utilitatis, et eligere quod judicat praeponderare». Aggiunge inoltre che nel dubbio «mala formalia potius evitanda sunt quam
materialia»49.
All’ufficio di medico viene ricondotto anche il discernimento nei riguardi delle penitenze da imporre: «In fine il confessore
dee attendere ad applicare i rimedi più opportuni alla salvezza
del suo penitente, con dargli quella penitenza che più conviene
al suo male, e che all’incontro quegli verosimilmente sarà per
adempire». Si noti che le penitenze sono considerate da Alfonso
soprattutto rimedi: «È vero che nel Tridentino (Sess. 14, de Poenit. c. 8) dicesi che la penitenza dee corrispondere alla qualità
48 Ivi, n. 8, p. 8-9. Questo però non vale «quando dall’ignoranza dovesse
avvenirne danno al ben comune, perché allora il confessore, essendo egli costituito ministro a pro della repubblica cristiana, è tenuto a preferire il ben
comune al privato del penitente… onde in ogni conto dee ammonire i principi, i governatori, i confessori ed i prelati che mancano al loro obbligo, perché la loro ignoranza, sebbene invincibile, sempre sarà di danno alla comunità almeno per lo scandalo»; quando il penitente «interrogasse, perché allora è obbligato il confessore a scoprirgli la verità, essendo che in tal caso l’ignoranza non sarà più affatto incolpabile»; quando «al penitente tra breve
sia per giovare l’ammonizione, benché al principio egli non acconsenta» (ivi,
n. 9, p. 11).
49 Lib. VI, tract. IV, cap. II, dub. V, n. 616, ed. GAUDÉ, III, p. 641.
338
SABATINO MAJORANO
de’ delitti, ma ivi stesso si aggiunge che le penitenze debbono essere pro poenitentium facultate, salutares et convenientes. Salutares, cioè utili alla salute del penitente; et convenientes, cioè proporzionate non solo a’ peccati, ma anche alle forze del penitente. Ond’è che non sono salutari né convenienti quelle penitenze
a cui i penitenti non sono atti a soggiacere per la debolezza del
loro spirito, poiché allora queste piuttosto sarebbon cagioni di
lor ruina». La correttezza di questa interpretazione viene fondata nel significato salvifico del sacramento: «In questo sagramento più s’intende l’emenda che la soddisfazione: perciò dice il Rituale Romano (De sacram. Poenit. 19) che ‘l confessore nel dar la
penitenza dee aver ragione della disposizione de’ penitenti». Dopo aver ricordato «esser giusta causa per diminuir la penitenza
il giudicare che così il penitente resti più affezionato al sagramento», Alfonso può perciò concludere: «Da tutto ciò si rileva
con quanta imprudenza oprino quei confessori che ingiungono
penitenze improporzionate alle forze de’ penitenti»50.
Specificandoli ulteriormente, i «rimedi» vengono da Alfonso
distinti in «generali... da insinuarsi a tutti» e «particolari per
qualche particolar vizio». Da quelli generali emerge una proposta di vita cristiana, tesa ad aprire a tutti il cammino verso la
santità51. Il ministero del confessore, infatti, non può limitarsi al
superamento del peccato: «Quel che disse il Signore a Geremia:
Ecce constitui te super gentes... ut evellas... et dissipes et aedifices
Pratica, cap. I, § 2, n. 11-12, p. 13-16.
Vengono così elencati da Alfonso: «1) L’amore a Dio, giacché Dio a
questo sol fine ci ha creati; e con ciò diasi ad intendere la pace che gode chi
sta in grazia di Dio, e l’inferno anticipato che prova chi vive senza Dio, colla
ruina anche temporale che porta con sé il peccato. 2) Lo spesso raccomandarsi a Dio e alla Madonna col rosario ogni sera, all’angelo custode ed a
qualche speciale santo avvocato. 3) La frequenza de’ sagramenti; e che se
mai cadono in colpa grave, subito si confessino. 4) La considerazione delle
massime eterne, e specialmente della morte; ed a’ padri di famiglia il far l’orazione mentale ogni giorno in comune con tutta la casa, almeno il rosario
insieme con tutti i loro figli. 5) La presenza di Dio in tempo della tentazione, con dire: Dio mi vede. 6) L’esame di coscienza ogni sera col dolore e proposito. 7) Agli uomini secolari l’entrare in qualche pia associazione ed a’ sacerdoti l’orazione mentale e ‘l ringraziamento dopo la Messa; almeno che si
leggano qualche libretto spirituale prima e dopo d’aver celebrato» (ivi, n. 15,
p. 20-21).
50
51
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
339
et plantes (1,10), lo stesso dice ad ogni confessore, il quale non
solo dee sradicare i vizi da’ suoi penitenti, ma dee anche in essi
piantare le virtù». Perciò «quando vede il confessore che ‘l penitente vive lontano da’ peccati mortali, deve far quanto può per
introdurlo nella via della perfezione e del divino amore con rappresentargli il merito che ha Dio, questo infinito Amabile, per
essere amato, e la gratitudine che dobbiamo a Gesù Cristo il
quale ci ha amato sino a morire per noi; e ‘l pericolo inoltre in
cui sono l’anime che sono chiamate da Dio a vita più perfetta, e
fan le sorde»52.
Delineando l’ufficio di dottore, Alfonso si preoccupa di porre in risalto la necessità dello studio costante della scienza morale, senza del quale è impossibile evitare errori anche gravi: «Il
confessore, per ben esercitare l’officio di dottore, bisogna che
ben sappia la legge; chi non la sa, non può insegnarla agli altri».
Ricordato con S. Gregorio Magno che «l’officio di guidare l’anime per la vita eterna è l’arte delle arti» e con S. Francesco di Sales che «l’officio di confessare è il più importante e ’l più difficile di tutti», aggiunge: «È il più importante, perch’è il fine di tutte le scienze, ch’è la salute eterna; il più difficile, mentre per prima l’officio di confessore richiede la notizia quasi di tutte l’altre
scienze e di tutti gli altri offici ed arti; per secondo la scienza
morale abbraccia tante materie disparate; per terzo ella consta
in gran parte di tante leggi positive, ciascuna delle quali si ha da
prendere secondo la sua giusta interpretazione. Inoltre ogni legge di queste si rende difficilissima per ragione delle molte circostanze de’ casi dalle quali dipende il doversi mutare le risoluzioni». Il confessore non può perciò limitarsi a «possedere i principi generali della morale», perché, pur essendo evidente che tutti
i casi vanno risolti con i principi, «qui sta la difficoltà: in applicare a’ casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non
può farsi senza una gran discussione delle ragioni che son dall’una e dall’altra parte; e questo appunto è quel che han fatto i
moralisti»53.
52
53,
Ivi, cap. IX, n. 99, p. 160.
Ivi, cap. I, § 3, n. 17, p. 22-23.
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SABATINO MAJORANO
Infine, in quanto giudice, il confessore «per prima dee informarsi della coscienza del penitente, indi dee scorgere la sua disposizione, e per ultimo dare o negare l’assoluzione»54. Nel dettagliare questo compito, Alfonso pone in rilievo soprattutto l’aiuto da prestare ai penitenti non sufficientemente preparati, avvertendo che «mal fanno quei confessori che licenziano i rozzi,
affinch’essi meglio esaminino la loro coscienza. Ciò il p. Segneri lo chiama un errore intollerabile»55.
Insomma il giudice non deve mai perdere di vista che è prima padre e medico. E questo per restare fedele alla «condotta»
del Redentore, soprattutto nei riguardi dei peccatori, come ricorda in maniera viva il Tannoia: Alfonso «voleva, ed inculcavalo che quanto più fossero tali, maggiormente si abbracciassero.
Non altrimenti, ei diceva, fu la condotta di Gesù Cristo... Non li
spaventate, ripeteva, con dilazioni di mesi e mesi, com’è la moda
che corre. Questo non è ajutarli, ma ruinarli. Quando il penitente
ha conosciuto, e detesta il suo stato, non bisogna lasciarlo colle sole sue forze nel conflitto colla tentazione: bisogna ajutarlo, ed il
maggior ajuto si dà colla grazia dei Sacramenti»56.
La carità del confessore si poneva così come apertura, stimolo ed aiuto nella «pratica di amare Gesù Cristo» (secondo il
titolo di una delle opere in cui Alfonso meglio sintetizza la sua
proposta). Radicata nella memoria dell’amore misericordioso
del Padre (costantemente approfondita nella meditazione del
Crocifisso) e sostenuta dalla preghiera e dal frequente accostarsi all’eucaristia e alla confessione, la vita cristiana poteva ritrovare lo slancio verso la santità57.
Ivi, § 4, n. 19, p. 29.
Ivi, n. 20, p. 30.
56 Op. cit., III, Napoli 1802, p. 153.
57 Significativo l’altro richiamo di Giovanni Paolo II ai Redentoristi nella lettera già citata: «Con s. Alfonso occorre ribadire la centralità del Cristo
come mistero di misericordia del Padre in tutta la pastorale. I Redentoristi
non devono mai stancarsi di annunciare la “copiosa redemptio”, cioè l’infinito amore con il quale Dio in Cristo si piega verso l’umanità, cominciando
sempre da coloro che hanno più bisogno di essere guariti e liberati, perché
più segnati dalle conseguenze nefaste del peccato… Per questo occorre non
stancarsi mai di proclamare la misericordia divina. Resta tuttora attuale per
tutta la pastorale il richiamo di s. Alfonso: “Bisogna persuadersi che le con54
55
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
341
3. La preparazione
Vivere il ministero della confessione come carità che sostiene nel cammino della santità, proponendo salvificamente la verità, non è agevole. Di qui l’insistenza di Alfonso su una preparazione adeguata e continuamente rinnovata.
La sua necessità viene nella Selva sottolineata, riportando
quasi letteralmente le affermazioni della Pratica. Si insiste innanzitutto su una «grande scienza»: «Chi vuol esser confessore
primieramente ha bisogno d’una grande scienza. Alcuni stimano
una cosa molto facile la scienza della morale: ma giustamente
scrive il Gersone che questa tra le scienze è la più difficile di tutte… Parimente s. Francesco di Sales dicea che l’officio di confessore è il più importante e il più difficile di tutti. E con ragione: il più importante, perché importa la salute eterna, ch’è il fine di tutte le scienze; il più difficile perché la scienza morale richiede la notizia di molte altre scienze ed abbraccia tante materie disparate: oltre il rendersi ella difficilissima per causa che,
secondo le tante diverse circostanze de’ casi, diverse debbon essere le risoluzioni; giacché un principio, per esempio, che corre
per un caso vestito d’una tal circostanza non correrà poi in un
altro vestito d’una circostanza diversa»58.
Ancora più necessaria è «la santità per ragione della gran
fortezza che dee avere il confessore in esercitare il suo officio».
Essa esige «un gran fondo di carità» per accogliere tutti, senza
discriminare nessuno59. Occorre però che si dia anche come for-
versioni fatte per lo solo timore de’ castighi divini son di poca durata... se
non entra nel cuore il santo amore di Dio, difficilmente persevererà”… Da
questa conversione centrata sull’amore scaturisce la costante tensione alla
santità. Facendo sperimentare l’intensità della misericordia con cui Dio si
piega verso l’uomo, per guarirlo e liberarlo, s. Alfonso riesce a far riscoprire
a tutti, anche ai più umili e ai più poveri, la chiamata e il cammino della santità… Al tempo stesso, egli dà a questa santità una chiara tensione evangelizzatrice che porta a farsi carico del proprio ambiente» (n. 4-5, p. 144).
58 Selva, parte II, Istruzione IV, n. 8, p. 118.
59 Ivi, n. 10, p. 119. Dura è la critica che Alfonso rivolge ai confessori che
fanno diversamente: «A tali confessori, dice il Redentore (il quale venne a
salvare i peccatori e perciò fu tutto pieno di carità) quello appunto che disse una volta a’ discepoli Nescitis cujus spiritus estis (Lc 9,33). Ma non fanno
342
SABATINO MAJORANO
tezza «nel sentire le confessioni delle donne» e «nel correggere i
penitenti… senza riguardo ad alcuna loro condizione di nobiltà
o di potenza»60. E soprattutto deve permettere un corretto equilibrio tra rigore e benignità: «Bisogna riflettere che il confessore
tanto sta in pericolo di dannarsi se portasi coi penitenti con
troppo rigore quanto se lor usa troppa indulgenza. La troppa indulgenza, dice s. Bonaventura, genera presunzione; il troppo rigore genera la disperazione»61.
Si tratta di un equilibrio che richiede studio continuo per la
complessità e la diversità dei dati, teorici e esperenziali, da armonizzare62. È la praticità del sapere morale, che Alfonso non si
così i confessori che son vestiti di quelle viscere di carità ch’esortava l’apostolo: Induite vos ergo, sicut electi Dei… viscera misericordiae (Col 5,12)».
60 Ivi, n. 11, p. 119-120.
61 Ivi, n. 12, p. 120. Alfonso aggiunge: «Non v’ha dubbio che molti errano per esser troppo indulgenti: e questi fanno gran ruina; anzi, dico, la maggior ruina, perché i libertini, che fanno la maggior parte, a questi confessori
larghi più concorrono e fanno la lor perdizione. Ma ancora è certo che i confessori troppo rigorosi anche cagionano gran danno… Il troppo rigore, scrive il Gersone, ad altro non serve che per indurre le anime alla disperazione
e dalla disperazione al maggior rilassamento ne’ vizj». Nella introduzione alla Pratica viene evidenziato che si tratta «non di sola bontà abituale», ma di
«una bontà positiva, quale appunto conviensi ad un ministro della penitenza», che deve «diriger le coscienze altrui, senza errare o per troppa condiscendenza o per troppo rigore; dee maneggiar tante piaghe senza imbrattarsi; praticar con donne e con giovanetti, ascoltando le loro cadute più vergognose, senza ricerverne danno; dee usar fortezza con persone di riguardo,
senza farsi vincere da’ rispetti umani; dee in somma esser pieno di carità, di
mansuetudine, di prudenza» (p. 1-2).
62 Significativo quanto Alfonso dice di se stesso: «Io nelle questioni più
dubbie non ho sparambiata fatica in osservare gli autori così moderni come
antichi, così della benigna come della rigida sentenza... Specialmente poi mi
sono affaticato ad osservare in fonte tutti i testi canonici che s’appartenevano alle materie trattate. Quando ho ritrovato qualche passo di santo Padre
spettante alle cose controverse, ho procurato di notarlo colle proprie parole,
con farvi tutta la riflessione e darvi tutto quel peso che meritavasi la sua autorità. Inoltre sono stato attento a trascrivermi ed avvalermi delle dottrine di
S. Tommaso, cercando di osservarle tutte ne’ proprj. Di più nelle controversie più intrigate, non avendo potuto risolvere i miei dubbj colla lettura degli
autori, ho procurato di consigliarmi con diversi uomini dotti. Nella scelta
poi delle opinioni ho cercato sempre di preferire la ragione all’autorità; e prima di dare il mio giudizio ho procurato di mettermi in una totale indiffe-
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
343
stanca di sottolineare63. Deciso è il monito rivolto ai sacerdoti
della sua diocesi di Sant’Agata alla fine del 1764: «Avvertano i sacerdoti, da noi approvati per le confessioni che non basta loro, a
non trovarsi rei per tale officio avanti Dio, l’approvazione avuta
dal vescovo; ma vi bisogna l’approvazione di Gesù Cristo giudice, che dovrà esaminare in punto di morte se l’hanno bene o male esercitato. Con ciò vogliamo dire che il confessore, per ben
esercitare il suo officio, non deve lasciare lo studio della Morale.
Questa scienza non è così facile, come alcuni la credono: ella è
molto difficile, ed è molto vasta per ragione delle innumerabili
circostanze che possono occorrere in ogni caso di coscienza, e
perciò collo studiare sempre s’imparano cose nuove; e per ragione ancora di tante leggi positive che oggidì ci sono. Ond’è
che, se il confessore lascia di rivedere i libri, facilmente si dimenticherà col tempo anche di quelle cose che prima già sapea.
Per tanto raccomandiamo a tutti di non lasciare lo studio della
Morale»64.
Analogo è stato il richiamo ai confratelli nell’agosto del
1754: «Raccomando a’ confessari lo studio della Morale, e di
non seguitare alla cieca alcune opinioni de’ Dottori, senza prima
considerare le ragioni intrinseche, e specialmente quelle che, nel
mio secondo libro, non sono state da me ammesse più per probabili». Questo non significa imposizione delle sue posizioni:
«prego, prima di ributtarle, a leggere il mio libro e a considerarenza e di spogliarmi da ogni passione che mi avesse potuto trasportare a difendere qualche opinione non abbastanza soda» (Risposta a un anonimo...,
in Apologie e confutazioni, I, Monza 1831, p. 77-78).
63 Cf. D. CAPONE, La «Theologia moralis» di S. Alfonso: prudenzialità nella scienza casistica per la prudenza della coscienza, in StMor 25 (1987) p. 2778; M. VIDAL, op. cit., p. 120-127.
64 Lettere, III, Roma 1890, p. 590-591. Significativa è l’insistenza di
Alfonso sulla partecipazione di tutti i sacerdoti all’approfondimento teologico-morale a livello di presbiterio: «Nella Notificazione da noi fatta a’ sacerdoti, si parla del modo come deve farsi la congregazione de’ casi di coscienza in ogni settimana, e si ammoniscono ad intervenirvi tutti i sacerdoti, se
vogliono essere considerati nelle provviste; ma parlando de’ confessori, assolutamente imponiamo loro di assistervi sempre; e sappiano che, mancando essi per tre volte senza legittima causa (della quale dovrà ciascuno farne
inteso il prefetto ed averne la di lui licenza), troveranno poi impedimento ad
essergli prorogata la pagella» (ivi, p. 591).
344
SABATINO MAJORANO
re quello che ho scritto con tanta fatica, discorso e studio. E
questa fatica, Fratelli miei, io non l’ho fatta per gli altri né per
acquistar lode; ne avrei fatto volentieri di meno, se altro non
avessi avuto a ricavare che un poco di fumo: Dio sa il tedio e pena che ci ho sopportato. L’ho fatta solamente per voi, Fratelli
miei, acciocché si seguiti una dottrina soda, almeno acciocché si
proceda con riflessione»65.
Le parole di Alfonso costituiscono tuttora un monito importante per ogni confessore66. La sola conoscenza teorica della verità non basta, è necessario che egli sappia renderla pratica, cioè
incarnarla salvificamente nella vita di coloro che con lui celebrano la misericordia del Padre. Non è un compito facile: occorre uno studio costante, sorretto dalla preghiera e dal dialogo.
Si tratta però di una diaconia alle coscienze sempre fondamentale, secondo il monito dello stesso Giovanni Paolo II, indirizzato ai Redentoristi, ma valido anche per gli altri operatori pastorali: «L’approfondimento della teologia morale si colloca in questa prospettiva. S. Alfonso si è particolarmente prodigato perché
in tutti gli strati del popolo di Dio venisse colmata la separazione tra fede e vita. La praticità del Fondatore deve continuare a
stimolare i suoi figli nella loro opera pastorale, specialmente in
ordine al rinnovamento del sacramento della Riconciliazione.
Occorre non fermarsi mai alla sola enunciazione dei principi,
ma illuminare con essi la quotidianità, in maniera da permettere alla coscienza di ogni battezzato un cammino sicuro. Questa
praticità alfonsiana esige essenzialità e concretezza, in risposta
agli interrogativi che effettivamente contano per il popolo, nella
fedeltà al Vangelo e alla Tradizione vivente nella Chiesa. Essa
spinge alla maturazione di coscienze capaci di illuminare con la
saggezza dello Spirito la complessità delle diverse situazioni della vita»67.
Ivi, I, Roma 1887, p. 260-261.
Cf. S. MAJORANO, La teologia morale e il ministero sacerdotale nella visione alfonsiana, in StMor 34 (1996) 433-459.
67 La ricorrenza…, n. 4, p. 143-144.
65
66
IL CONFESSORE PASTORE IDEALE NELLE OPERE DI SANT’ALFONSO
345
Conclusione
In Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ha sottolineato l’impegno giubilare «per la riscoperta e la intensa celebrazione del sacramento della Penitenza nel suo significato più
profondo» (n. 50). Sappiamo tutti molto bene quanto siano complesse e numerose le difficoltà che un tale impegno deve affrontare. Le radici e le sfide vanno molto lontano.
Le pagine alfonsiane, che abbiamo ripercorso, ci hanno
spinto a riflettere sul modello di ministerialità sacerdotale esigito da una celebrazione della riconciliazione che rispecchi la
«condotta» misericordiosa del Redentore. Si tratta di un aspetto
certamente non secondario, anche se la «crisi» del sacramento
esige risposte a diversi livelli. Credo però che dal modello delineato dal Patrono dei confessori e dei moralisti emerga una urgenza che sarebbe errore lasciar cadere: la necessità che la comunità cristiana e in maniera particolare i presbiteri restino fedeli alla chenosi misericordiosa del Cristo, ponendosi, come ricorda la Veritatis splendor, «solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da qualsiasi
vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini (cf. Ef 4,14), a
non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e rimanere in essa» (n. 64).
SABATINO MAJORANO C.Ss.R.
Via Merulana, 31
C.P. 2458
Roma
Italy.
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Summary / Resumen
This article highlights the model of the confessor as outlined by St.
Alphonsus. The model begins from the conviction that the confessor’s
“office is one of charity, instituted by the Redeemer solely for the good
of souls”. By giving particular attention to the ‘practical’ works which
St. Alphonsus dedicated to this sacrament, the alphonsian
transformation is seen more clearly in that the confessor is rediscovered
346
SABATINO MAJORANO
first as a father and only later as a judge. This article then gives
attention to the central place assigned to the role of confessor, always
in close relationship to the that of preacher, in priestly ministry and
particularly in missionary work among the most abandoned. An
analysis is given of the attitudes and constant formation which
Alphonsus regarded as indispensable for the confessor in order to be
faithful to the merciful practice of the Redeemer.
Este artículo destaca el modelo del confesor ideado por San
Alfonso. El modelo comienza por la convicción de que el confesor es
como “un despacho de caridad, instituido por el Redentor únicamente
para el bien de las almas”. Prestándole atención especial a los escritos
“prácticos” que San Alfonso dedicó a este sacramento, la
transformación alfonsiana se observa más claramente en que el
confesor se redescubre primero como un padre y sólo después como un
juez. El artículo dirige su atención, entonces, al puesto central que se
asigna al confesor, siempre en íntima relación con el de predicador, en
el ministerio sacerdotal y especialmente en el trabajo como misionero
con el más abandonado. Se analizan las actitudes y la formación
permanente que Alfonso consideró indispensable para el confesor, para
que fuese fiel a la experiencia misericordiosa del Redentor.
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The author is an Ordinary Professor at the Alphonsian Academy.
El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana.
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347
StMor 38 (2000) 347-380
MARCIANO VIDAL C.Ss.R.
RASGOS INNOVADORES
EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
I. LA HISTORIOGRAFÍA DE LA MORAL ALFONSIANA
1. RENOVACIÓN
DE LOS ESTUDIOS ALFONSIANOS
Creo que hoy no sería objetiva la apreciación que hace varias décadas pudimos leer en el estudio de J. Guerber sobre la recepción de la moral alfonsiana entre el clero francés del siglo
XIX1. En la introducción afirmaba que “hasta el día de hoy, la
moral de san Alfonso no ha sido objeto de ningún estudio objetivo ni siquiera mínimamente profundo”. Haciendo un parangón con la situación de los estudios sobre la mariología alfonsiana, constataba que “se necesitarían bastantes monografías
para poner de relieve la fisonomía propia de la enseñanza de san
Alfonso, la significación exacta de su obra y su influjo sobre la
evolución de las ideas y de la práctica pastoral”2.
En contraste con esa apreciación, hay que afirmar que el panorama de la historiografía sobre la moral de san Alfonso ha
cambiado profundamente en los últimos treinta años. Los estudios sobre la moral alfonsiana han conocido un momento de es-
1 J. GUERBER, Le ralliement du clergé français à la morale liguorienne (Roma, 1973). El libro es el resultado de una tesis doctoral defendida en la Universidad Gregoriana, con aprobación académica fechada en 1965. La Introducción, en la que aparece la apreciación, está firmada en junio de 1972 en
Yaundé (Camerún).
2 J. GUERBER, o. c., 9. Llama la atención que recoja y repita esta valoración un estudio más reciente como el de J. ESCUDERO, La manualística ligoriana de Teología Moral desde la canonización de San Alfonso hasta su proclamación como Doctor de la Iglesia (1836-1871) (Roma, 1990) 94.
348
MARCIANO VIDAL
plendor en las tres últimas décadas del siglo XX. En cada una de
estas décadas ha habido una conmemoración, en torno a la cual
se han producido congresos, semanas de estudio, reflexiones, estudios y publicaciones.
En la década de los ’70 se celebró el primer centenario de la
proclamación de san Alfonso como Doctor de la Iglesia (1871).
Los estudios más importantes sobre la moral alfonsiana, con
ocasión de la celebración de ese centenario (1971), aparecieron
publicados en un número monográfico de la revista Studia Moralia de la Academia Alfonsiana de Roma3. Como antecedentes
inmediatos a estos estudios hay que señalar las investigaciones
de D. Capone sobre el “sistema moral alfonsiano” a partir de los
mismos textos de Alfonso contextualizados dentro de las discusiones de la época4.
En la década de los ’80, y más precisamente con ocasión de
la celebración del segundo centenario de la muerte de Alfonso
(1987), es cuando acontece una variación cualitativa en la interpretación del significado histórico y en la posible actualización
de la moral alfonsiana. Son de destacar las monografías de M.
Vidal5 y de Th. Rey-Mermet6; las obras colectivas Saint Alphonse
de Liguori. Pasteur et Docteur (Paris, 1987), Actualité pastorale
d’Alphonse de Liguori (Ste-Anne-de-Beaupré, 1988), y A moral e
os grandes desafios do presente (Porto, 1988); y los números monográficos de las revistas Studia Moralia 25 (1987) 3-461, Moralia 10 (1988) 123-376, y Asprenas 35 (1988) 1-166. En este momento, fue decisiva la intervención de Juan Pablo II en la carta
apostólica Spiritus Domini7 en la que consagró la interpretación
dada por los estudiosos acerca de la moral alfonsiana: una “moral de la benignidad pastoral” frente al rigorismo jansenista8.
3 Studia Moralia 9 (1971): “S. Alfonsus Maria de Ligorio Doctor Ecclesiae 1871-1971”.
4 Studia Moralia 1 (1963) 265-343; 2 (1964) 89-155; 3 (1965) 82-149.
5 M. VIDAL, Frente al rigorismo moral, benignidad pastoral. Alfonso de Liguori (1696-1787) (Madrid, 1986). Con traducción italiana, puesta al día: La
Morale di Sant’Alfonso. Dal rigorismo alla benignità (Roma, 1992).
6 Th. REY-MERMET, La morale selon Saint Alphonse de Liguori (Paris, 1987).
7 AAS 79 (1987) 1365-1375.
8 “Semper, praeterea, veluti ductrix habeatur benignitas pastoralis”:
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
349
En la década de los ’90 tuvo lugar otra conmemoración alfonsiana: la celebración del tercer centenario de su nacimiento
(1696). El conjunto de estudios más representativo de este período es la publicación que recoge las Actas del Congreso celebrado en Roma del 5 al 7 de marzo de 1997. La focalización de los
trabajos viene indicada por el título que se le dio al Congreso y
a la publicación de la Actas: La recepción del pensamiento alfonsiano en la Iglesia9. La mayor parte de los trabajos tienen que ver
con la recepción de la moral alfonsiana en los siglos XIX y XX.
2. VALORACIÓN
Y PROSPECTIVA
En todas estas celebraciones alfonsianas el aspecto que más
ha atraído la atención ha sido el pensamiento moral de Alfonso.
Del conjunto de esos estudios se puede afirmar que existe hoy un
conocimiento bastante exacto del significado histórico de la
obra moral alfonsiana. También existe una nueva interpretación
de su propuesta, alejada de las confrontaciones estériles de escuela y de las defensas partidistas nacidas del celo familiar.
A este respecto es interesante comparar los estudios sobre la
moral alfonsiana de los finales del siglo XX (y comienzos del siglo XXI) con los de los finales del siglo XIX (y comienzos del siglo XX). También a finales del siglo XIX (y comienzos del siglo
XX) apareció, debido a diversos factores que son suficientemente conocidos10, un interés especial hacia la moral alfonsiana. Pero ese interés se centró en un aspecto muy concreto: en la cuestión de si Alfonso había propuesto un “sistema moral” propio y
en qué medida esa propuesta, denominada “equiprobabilismo”,
se distinguía del probabilismo clásico. Todo ello dio lugar a la
llamada “cuestión ligoriana”. Mirada a la distancia de un siglo,
se puede aceptar la apreciación de que “esa producción abun-
AAS 79 (1987) 1374. Sobre las intervenciones del magisterio eclesiástico reciente acerca de la moral alfonsiana, ver: M. VIDAL, La Moral de San Alfonso
según el Magisterio Eclesiástico reciente: Moralia 22 (1999) 255-280.
9 Los estudios se encuentran publicados en: Spicilegium Historicum
C.Ss.R. 45 (1997) fasc. 1-2.
10 M. VIDAL, La Morale di Sant’Alfonso…, 201-216.
350
MARCIANO VIDAL
dante, mediocre en su conjunto, esencialmente polémica y desprovista de perspectiva histórica constituye más bien una barrera entre el pensamiento del gran moralista y sus lectores de
hoy”11.
Los estudios recientes sobre la moral alfonsiana han abandonado el tono polémico, el aura hagiográfica y el prurito de autoestima familiar. Se sitúan dentro de las exigencias de la metodología histórica, sin dejar por ello de descubrir la capacidad de
actualización que posee el pensamiento alfonsiano12.
A pesar de esta floración de estudios es preciso reconocer la
necesidad de seguir investigando sobre el significado específicamente histórico del pensamiento moral alfonsiano. Es necesario
situarlo en su momento propio y analizar su aportación específica en relación con los planteamientos morales de su época.
Creo que ésta será, o deberá ser, la orientación que adopten los
estudios del futuro próximo sobre la moral alfonsiana. La gran
preocupación ha de ser descubrir lo que realmente significó en
su momento histórico y no sólo, ni principalmente, en las “lecturas” y en los “usos” que ha tenido posteriormente, sobre todo
en el siglo XIX y primeras décadas del siglo XX.
En esta nueva perspectiva me sitúo al ofrecer las siguientes
reflexiones. Como es obvio, no es mi pretensión abarcar todo el
conjunto del pensamiento moral alfonsiano y analizar su significado histórico en relación con los planteamientos de la época.
Me limito a señalar algunas de las principales innovaciones que
ofrece la moral de san Alfonso al compararla con la producción
teológica de su época. Para encuadrar esta perspectiva ofrezco,
en primer lugar, una anotación sobre el carácter innovador que
posee la obra de Alfonso en su conjunto.
11 J. GUERBER, o. c., 9. Esta opinión es compartida por otros estudiosos
(cf. M. VIDAL, La Morale di Sant’Alfonso…, 213). J. ESCUDERO, o. c., 94, afirma: “quizás las disputas en torno a los diversos ‘sistemas morales’ y, en particular, la controversia sobre el ‘sistema’ de san Alfonso, hayan oscurecido el
valor específico de su teología moral”.
12 En otro lugar me he ocupado de hacer un balance bibliográfico sobre
los estudios acerca de la moral alfonsiana aparecidos en los últimos años: M.
VIDAL, Estudios recientes sobre la Moral de San Alfonso: Moralia 22 (1999)
129-140.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
351
II. EL RASGO DE “INNOVADOR” EN LA FIGURA
HISTÓRICA DE ALFONSO
1. LAS
DIVERSAS
“IMÁGENES”
DE
ALFONSO
De Alfonso, como es normal, han existido interpretaciones
muy variadas y, a veces, contradictorias. Sobre su figura histórica se han proyectado muchas “imágenes”:
Se ha hecho de él un “demócrata” y “liberal” (A. Capecelatro); pero también un “conservador” y “reaccionario”, develador de todos los errores “modernos”13.
Se lo ha interpretado desde la óptica “francesa” (A. Berthe),
a la que sucede, como contrapartida, la reivindicación de la
inicial pertenencia de Alfonso a la corona “española” (R. Tellería), sin que falte la perspectiva un tanto superior de la
mirada “anglosajona” (F. M. Jones).
En cuanto a su pertenencia religioso-cultural, se dice de Alfonso que es el “santo de la Ilustración” (Th. Rey-Mermet, G.
De Rosa), pero hay quien prefiere decir que su hogar religioso-cultural es la época pre-moderna (R. De Maio), no faltando quienes proponen una alternativa a las dos opciones
anteriores y lo convierten en un pre-romántico (C. Scanzillo).
De la imagen convencional de “católico” y “papista” algunos
pasan a decir que Alfonso vivió como un “buen luterano” en
el Reino de Nápoles14.
Habrá que seguir preguntándose “quién era” y “qué quería”
realmente Alfonso15. Creo, sin embargo, que a la personalidad
histórica de Alfonso le corresponde, como rasgo propio, el “carácter innovador”. Esta fuerza innovadora se advierte en el conjunto de su obra.
Acta Doctoratus (Roma, 1870) 52: “neminem reperies qui plenius, clarius, validius syntagma coaevi erroris profligaverit”.
14 Anotación transmitida por O. WEISS, Der Kampf gegen die Liguorimoral (1894-1905): Spicilegium Historicum C. Ss. R. 46 (1998) 256.
15 O. WEISS, Wer war Alfons von Liguori und was wolte er?: Spicilegium
Historicum C. Ss. R. 44 (1997) 195-418.
13
352
MARCIANO VIDAL
2. EL
RASGO DE
“INNOVADOR”
Alfonso realiza innovaciones en casi todos los campos de su
labor como escritor y como pastor. Me limito aquí a señalar algunas de las innovaciones en relación sobre todo a su proyecto
pastoral. Sobresalen: la creación de las “Capillas del atardecer”,
escuelas de vida cristiana y de elevación humana para los laicos
y con los laicos; la acentuación formativa y catequética de las
Misiones populares; un nuevo estilo en la predicación y en la
presentación del Evangelio.
Las Capillas del atardecer (“Capelle serotine”) constituyen
una “innovación” pastoral alfonsiana16. Además de otros aspectos positivos, no cabe la menor duda que esta práctica pastoral
supuso una recuperación social de la gente marginada así como
una elevación de su nivel de responsabilización. Así lo reconocen el Cardenal Luciani (futuro Juan Pablo I) y el Papa Juan Pablo II. Para el primero, Alfonso “buscaba con la instrucción llana y sencilla la recuperación religiosa y civil de los ‘marginados’
(lazzaroni)”17. Para Juan Pablo II, las Capillas del atardecer “llegan a ser una escuela de reeducación cívica y moral”18.
Las Misiones populares, tal como las entiende y las practica
Alfonso, tienen también notables “innovaciones”19. Una de estas
peculiaridades innovadoras es la acentuación del aspecto “formativo”, mediante la importancia otorgada a la “catequesis” y a
la “instrucción” (al pueblo en general, y a los diversos grupos en
particular). La elevación cultural de la gente es una consecuencia de esta acentuación de la dimensión formativa de las Misiones.
La predicación y los escritos de Alfonso tienen un sello propio. Ese “estilo” se identifica con el “hombre” del que brotan. En
la predicación Alfonso huye de toda vanidad formal y de todo
16 Cf. G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, Alfonso de’ Liguori e il secolo dei lumi.
Una rivisitazione storico-sociologica in occasione del terzo centenario della
nascita: Rassegna di Teologia 38 (1997) 304-307.
17 A. LUCIANI, S. Alfonso cent’anni fa era proclamato dottore della Chiesa
(Venecia, 1972) 15.
18 JUAN PABLO II, Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1366.
19 Cf. G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, a. c., 307-310.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
353
“fuego de artificio” para concentrarse en su función práctica:
“instruir” la mente y “mover” el corazón de la gente hacia una
práctica individual y social en conformidad con la noble condición de personas y de hijos de Dios.
En los escritos no pretende “sorprender” a los cultos e intelectuales sino “formar” a la gente sencilla. La estrategia de
“obras cortas”, a modo de libros de bolsillo (“livre de poche”), se
encuadra dentro de ese objetivo20. El estilo claro, concentrado, y
directo son signos no sólo de la preclara mente de Alfonso sino
también de su deseo de llegar a la formación del pueblo llano21.
En el trabajo teológico también se puede hablar, según A.
Luciani, de “un estilo (propio) de Teología”. El Cardenal de Venecia, y futuro Papa Juan Pablo I, resume este estilo mediante
los siguientes rasgos22: “Alfonso era teólogo en vistas a los problemas prácticos que hay que resolver de inmediato, en función
de las experiencias vividas”; “había estudiado una filosofía
ecléctica, no aristotélica: de ahí su horror a las sutilezas y a las
discusiones inútiles”; “el estudio del derecho y la práctica del foro le habían infundido gran respeto por la tradición y la capacidad para desembrollar casos complicados”; “el púlpito y el
confesionario le decían cuáles eran las necesidades inmediatas
de las almas en aquel momento concreto: teólogo justo para el
tiempo justo”.
III. INNOVACIONES EN EL CAMPO DE LA MORAL
1. ENTRE TRADICIÓN
Y
RENOVACIÓN
Juan Pablo II ha destacado en la personalidad de Alfonso
dos rasgos que, aparentemente, parecen ser contradictorios pero que, en el fondo, constituyen la clave explicativa de la valía
objetiva y de la capacidad actualizadora de la moral alfonsiana.
20
21
22
Cf. A. LUCIANI, o. c., 32.
Cf. Ibid., 27-28.
Las frases entrecomilladas están en: Ibid., 27.
354
MARCIANO VIDAL
El Papa dice que Alfonso fue un hombre de la Tradición y al mismo tiempo un renovador de la Moral católica23.
Sin duda alguna, Alfonso siente un gran “respeto hacia la
Tradición”24. Conviene recordar que hizo un tratamiento explícito sobre la Tradición en su comentario de la Sesión IV del Concilio de Trento25. Son de destacar sus análisis sobre los tres tipos
de contenidos de la Tradición: las tradiciones divinas, las apostólicas (algunas de las cuales son también divinas por haber sido recibidas de la boca de Cristo o haber sido reveladas por el
Espíritu Santo), y las humanas26. Además, proporciona un conjunto de reglas para distinguir las tradiciones “divinas” de las
“humanas” y viceversa, aludiendo a ejemplos de verdadero interés histórico27.
En su trabajo teológico-moral, Alfonso utiliza de hecho la
Tradición como lugar teológico y fuente de la moral cristiana sirviéndose de los Padres de la Iglesia y de los grandes teólogos medievales, sobre todo de santo Tomás, a quien considera el “theologorum princeps”28. Hasta tal punto fue un hombre de la Tradición que Juan Pablo II llega a hacer esta afirmación: “tuvo él (Alfonso), como pocos, el ‘sensus Ecclesiae’, un criterio que le
acompañó en la búsqueda teológica y en la práctica pastoral
hasta llegar a ser él mismo, en cierto sentido, la voz de la Iglesia”29.
Pero la propuesta alfonsiana, enraizada en la Tradición, no
mira nostálgicamente hacia el pasado. La mirada de Alfonso está tendida hacia el presente y hacia el futuro. Siente como suyas
las necesidades de la gente. Y esas urgencias no se solucionan
con mirada retrospectiva, sino con los ojos puestos en el futuro.
Es también Juan Pablo II quien ha subrayado fuertemente el
carácter innovador de Alfonso en el campo de la moral. En apre-
Carta apostólica Spiritus Domini: AAS 79 (1978) 1365-1375.
A. LUCIANI, o. c., 27-28.
25 SAN ALFONSO, Opera dogmatica contra gli eretici pretesi riformati: Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, VIII (Torino, 1848) 842-854.
26 Ibid., 851-852.
27 Ibid., 853-854.
28 GAUDÉ, I, 26.
29 Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1372: “nam ‘sensum Ecclesiae’ summopere habuit … adeo ut fuerit ipse quodanmodo vox Ecclesiae”.
23
24
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
355
ciación del Papa, las grandes obras de moral de Alfonso “han hecho de él el maestro de la sabiduría moral católica”30. Más aún,
“Alfonso fue el renovador de la Moral”31.
2. LAS
INNOVACIONES EN LA
MORAL. VISIÓN
DE CONJUNTO
La magna innovación de Alfonso en el campo de la Moral católica fue haber superado la crisis del enfrentamiento entre el
probabilismo y el probabiliorismo. No lo hizo proponiendo otro
sistema desde los mismos presupuestos de los sistemas enfrentados, sino señalando un camino nuevo para la búsqueda de la
verdad moral. De esta innovación fundamental se originan las
innovaciones concretas. Éstas son abundantes en la obra moral
de Alfonso.
Las más llamativas son aquellas en las que Alfonso, bien a
su pesar y pidiendo disculpas, se aparta del parecer de santo Tomás, a quien tenía por el máximo maestro en las cuestiones teológicas32.
Tal cosa sucede en la afirmación de Alfonso sobre el estatuto de la conciencia invenciblemente errónea, cuyos actos no
sólo están excusados de culpa (según aceptaba únicamente
santo Tomás) sino son también meritorios (según la opinión
de G. Ockham).
Lo mismo acaece en el parecer de Alfonso sobre la licitud del
matrimonio, y del acto conyugal, por razón del “remedium
concupiscentiae”, apartándose con ello de la interpretación
de santo Tomás.
Merece la pena añadir otra cuestión en la que abiertamente
se aparta también de la opinión de san Agustín y de santo
Tomás: la “tolerancia social” de la prostitución. Apoyándose
en razones de dignidad humana, manifestando gran sensibilidad hacia las personas marginadas, y remitiendo a los es-
Ibid., 1367: “magistrum sapientiae moralis catholicae prodant”.
Ibid., 1367: “verum enimvero fuit Alfonsus rerum moralium, id est
doctrinae de moribus, restitutor”.
32 GAUDÉ, II, 689.
30
31
356
MARCIANO VIDAL
tudios y a la práctica pastoral de su compañero J. Sarnelli
con las mujeres prostituidas en la ciudad de Nápoles, Alfonso se opone a la tolerancia social de la prostitución, aún sabiendo que va en contra del parecer de san Agustín y de santo Tomás33.
Otro grupo importante de innovaciones de Alfonso son aplicaciones o deducciones de su sistema moral. Su opción por situar la verdad en el orden objetivo en cuanto es “aprehendido”
por la persona le lleva a afirmar que la ley eterna alcanza la “promulgación” requerida sólo a través de la criatura racional. De la
afirmación del principio de “flexibilidad” deduce la función de la
virtud de la epiqueya, “aún en cuestiones de ley natural”, así como la amplitud de la ignorancia invencible, la cual alcanza ámbitos de la ley natural, al menos en sus principios secundarios.
Este segundo grupo de innovaciones son defendidas por Alfonso apoyándose en interpretaciones de los textos de santo Tomás.
No es el lugar para analizar todas las innovaciones alfonsianas en el campo de la moral concreta. Quede abierta la cuestión
para estimular estudios posteriores. Creo que J. T. Noonan acierta cuando dice que Alfonso “no era un innovador en teología
moral como Le Maistre, pero defendía valientemente las opiniones que le parecían buenas”34.
Quede también abierta la cuestión sobre la tradición teológica en la que se apoya Alfonso para proponer y justificar sus innovaciones en el campo de la moral. Es de destacar el uso que
hace Alfonso de las interpretaciones de san Juan Crisóstomo. A
Alfonso debió impresionarle el “principio de condescendencia”
tan empleado por este Padre de la Iglesia35. Está por estudiar si
la veta más innovadora del pensamiento moral alfonsiano depende más del influjo de la Patrística griega que de la latina.
En los apartados siguientes me detendré en cuatro grupos
de innovaciones alfonsianas: tres se refieren a temas concretos
de la moral alfonsiana (conciencia, matrimonio, moral social) y
la cuarta tiene que ver con el espíritu general de su propuesta te-
GAUDÉ, I, 678-679.
J. T. NOONAN, Contraception et mariage (Paris, 1969) 408.
35 Cf. J. S. BOTERO, El cónyuge abandonado inocentemente: un problema
a replantear: Estudios Eclesiásticos 73 (1998) 452.
33
34
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
357
ológico-moral. Son, a mi juicio, las innovaciones de mayor significado en el contexto histórico de Alfonso así como las de mayor fuerza inspiradora para el planteamiento actual y futuro de
la moral católica.
IV. PECULIARIDAD ALFONSIANA EN EL TRATADO
SOBRE LA CONCIENCIA MORAL
1. EL
CUADRO DE LA
MORAL GENERAL
La moral general de Alfonso se concentra en las dos categorías de la conciencia y de la ley. Estas dos realidades de la vida
moral constituyen el núcleo de la moral general alfonsiana. En
ellas se encuentra la razón de la normatividad moral, la cual es
vista como una tensión -a veces conflictiva- entre la conciencia y
la ley. Las dos constituyen la “norma de los actos humanos” (“regula actuum humanorum”); ellas son los dos principios básicos
de la moralidad. Las dos fuentes forman el fundamento de la
moral alfonsiana (Libro I)36.
La doctrina alfonsiana sobre la ley ha sido objeto de varios
estudios. Han sido analizados los aspectos siguientes: el principio de la ley dudosa (Bouchard), el principio de posesión (Suttner), la ignorancia invencible en relación a los contenidos de la
ley natural (Curran). Recientemente ha cobrado importancia la
doctrina alfonsiana sobre la usura y el préstamo a interés37. No
faltan valiosos estudios de síntesis sobre la condición de “abogado” de Alfonso, sobre su formación jurídica, y sobre el conjunto de su pensamiento sobre la ley38.
36 Alfonso valoraba mucho esta parte de la moral, que consideraba como la “cabeza de toda la obra” (Lettere, III, 201).
37 M. CESCHINI, La dottrina alfonsiana su usura e interesse: Il Segno n. 172
(1996) 81-90.
38 F. CHIOVARO, Alfonso de Liguori avvocato e magistrato: Il Segno n. 142143 (1993) 51-54; ID., Alfonso de Liguori avvocato: Segno n. 211 (2000) 26-38;
L. VEREECKE, Sant’Alfonso giurista. La formazione giuridica e l’influsso sulla
358
MARCIANO VIDAL
El aspecto que más interés suscita actualmente es el que se
refiere a la ignorancia invencible en relación con la ley natural;
por dos razones: por la conexión que tiene ese tema con la función de la conciencia moral, y porque en él se expresa una destacable peculiaridad del pensamiento moral alfonsiano más inclinado a la “benignidad pastoral” que al rigorismo inmisericorde. En conexión directa e inmediata con la cuestión sobre la ignorancia invencible está la doctrina sobre la epiqueya; precisamente, la referencia al pensamiento de Alfonso sobre este punto
suscita una confrontación entre dos tendencias destacadas de la
Moral católica actual, la de signo personalista y la de carácter
objetivista39.
Aún reconociendo la originalidad alfonsiana en el tratado
sobre la ley, hay que afirmar la primacía del tema de la conciencia, el tratado más personal de la moral general, y hasta de toda
la Theologia Moralis alfonsiana.
Para Alfonso la conciencia reviste una importancia especial.
En cuanto tratado, fue elaborado por él con un interés particular40 y lo coloca como puerta de ingreso al edificio de su síntesis
teológico-moral41. En cuanto categoría, la conciencia constituye
el núcleo de la sensibilidad moral y es el cauce (“regla”) imprescindible (“interna”) y constituyente (“formal”) de la moralidad.
Aunque Alfonso pueda ser calificado con razón como “Doctor de
la prudencia” y aunque él insista, en ocasiones, en la función
morale: Studia Moralia 31 (1993) 265-282; M. CESCHINI, Santo Afonso Maria
de Ligório, jurista e teólogo da Morale: VARIOS, Etica e Direito (Aparecida,
1996) 33-63.
39 G. VIRT, Epikie und sittliche Selbstimmung: D. MIETH (Hrg.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika “Veritatis splendor” (Freiburg-Basel-Wien, 1994) 204- 219, se refiere a la doctrina alfonsiana de forma positiva y aprobatoria; por el contrario, M. RHONHEIMER, Intentional Actions and the Meaning of Object: The Thomist 59 (1995) 279-311, cree que la
“metodología” alfonsiana no es correcta (por tratar la “ley natural” como si
fuera una ley positiva) si bien acepta su “espíritu” (sin precisar en qué consiste ese “espíritu” alfonsiano).
40 “Speciali studio a me elucubratum” (GAUDÉ, I, 3).
41 “Hunc tractatum de conscientia quo aditus ad morale Theologiam
aperitur...” (GAUDÉ, I, 3).
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
359
moral de la prudencia42, sin embargo, su síntesis teológico-moral tiene en la conciencia el rasgo más peculiar.
A mi juicio, dos son las principales peculiaridades que introduce Alfonso en el significado y en la función de la conciencia moral: hace de ésta el factor “personalizante” de la vida moral y la convierte en instancia “constitutiva” de la moralidad.
2. La conciencia, factor “personalizante” de la vida moral
Desde el final de la Escolástica y durante toda la época postridentina, la conciencia moral ocupó un lugar destacado en la
vida y en la reflexión morales del catolicismo. Aquí se encuentra
la clave de la llamada “revolución copernicana” del casuismo:
haber colocado la conciencia como centro en torno al cual gira
el universo moral43. Tanto es así que se puede hablar de la moral
católica moderna como una “moral de la conciencia”.
En este aprecio por la conciencia Alfonso no fue un innovador. Otros manualistas, antes que él, habían situado el tratado
sobre la conciencia en el lugar primero de la síntesis moral. Pero, la intervención de Alfonso, no siendo novedosa, fue decisiva
a este respecto. “La problemática relativa a la conciencia llegó a
ser central en la Teología moral, en cuanto disciplina autónoma,
y continuó ocupando los primeros puestos en los manuales hasta la mitad del siglo XX a causa de la fuerte influencia alfonsiana”44.
Alfonso se distancia de la interpretación común que da el casuismo acerca de la función de la conciencia moral. Para la generalidad de los casuistas, fue, ante todo, un lugar y un conjunto de reglas, en el que, y mediante las cuales, se realizaba un procedimiento a fin de obtener la certeza necesaria para actuar moralmente. La conciencia consistía básicamente en una “técnica”
para habérselas en el juego de opiniones diversas, en un contex-
42 “Prudentia, quae est proxima regula nostrarum actionum” (Dissertatio scholastico-moralis. Edición de L. Corbetta, t. 28, Monza 1831, 20).
43 M. TURRINI, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima Età moderna (Bolonia, 1991) 187.
44 Ibid., 184.
360
MARCIANO VIDAL
to donde no se aspiraba a obtener “verdades” objetivas sino, a lo
sumo, “certezas” subjetivas.
Bajo esta comprensión un tanto “mecanicista”, la conciencia
se convirtió en una especie de “foro, en el que se aplicaban técnicas de jurisprudencia”45. Consiguientemente, se generó un tipo de discurso moral en el que la persona quedaba reducida a
un “sujeto calculante y calculable”46. El punto álgido de esta forma de entender la actuación de la conciencia se verificó en el
procedimiento para salir de la “duda”, lo cual dio origen a la diversidad de los así llamados “sistemas de moral”, que no son
otra cosa que estructuras procedimentales para conseguir la
“certeza” moral.
Alfonso se aleja de esta interpretación “mecánica” y exageradamente “procedimental” de la conciencia moral. En su pensamiento late una marcada orientación “personalista”47, la cual se
traduce en la interpretación de la conciencia como un factor “personalizante” de la vida moral. El padre D. Capone ha analizado la
peculiaridad de la “casuística” alfonsiana y ha puesto de relieve la
presencia en ella de la “prudencialidad”. La conciencia moral, según Alfonso, es el factor personal que integra la función de la
“prudencia” tomasiana y el papel de la “casuística” moderna48.
3. La conciencia, instancia “constitutiva” de moralidad
Sin duda alguna, la afirmación más peculiar y más decisiva
de Alfonso, en relación con la conciencia, es la de decir que es
Ibid., 182.
Ibid., 188.
47 Cf. D. CAPONE, Fattualismo o personalismo morale?: Studia Moralia 26
(1988) 183-207; ID., Il personalismo in Alfonso M. de Liguori: P. GIANNANTONIO
(a cura di), Alfonso M. de Liguori e la società civile del suo tempo (Florencia, 1990) 221-257.
48 Además de los artículos citados en la n. 4, ver: La “Theologia moralis”
di S. Alfonso. Prudenzialità nella scienza casistica per la prudenza nella coscienza: Studia Moralia 25 (1987) 27-78. Esta postura de Capone es asumida
y desarrollada por S. MAJORANO, The Formation of Consciente according to the
Redemptorist Tradition: VARIOS, Proceedings of the Third International Congress of Redemptorist Moral Theologians (Pattaya, 1995) 8-15.
45
46
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
361
“norma formal y próxima” del obrar moral. Con esta orientación, Alfonso se sitúa en lo que llamaríamos hoy tendencia subjetiva del discurso y de la vida morales. Pero conviene explicar
esta interpretación para que no sea mal interpretada.
Alfonso, como no podría ser de otro modo, admite dos factores en la constitución del orden moral: uno, de carácter objetivo, y el otro, de carácter subjetivo. Con el lenguaje de la época
denomina a cada factor: “regula actuum humanorum”49. Los dos
factores son “constitutivos” del universo moral, cada uno según
su peculiaridad. De ahí también que el mundo de la moral haya
de ser considerado dentro de esa tensión entre objetividad (¿qué
es lo bueno?) y subjetividad (¿cómo ser buenos?).
Hay que anotar la calificación que da Alfonso a cada uno de
los dos factores: al objetivo lo llama “regula remota sive materialis” y lo identifica con la “lex divina”, mientras que al subjetivo lo denomina “regula proxima sive formalis” y lo concreta en
la “conscientia”. Por los términos binómicos empleados se deduce que no puede darse una polaridad sin la otra (“proxima-remota”, “formalis-materialis”). Sin embargo, por la resonancia
lingüística y por el contenido semántico de cada término, la preferencia alfonsiana parece inclinarse hacia la “regula formalis”,
que está representada por la conciencia.
Alfonso no explica en qué sentido es la conciencia una instancia “constitutiva” de moralidad. De seguro que no aceptaría
entender la conciencia como la fuente “creativa” de la moral, ni
identificaría el juicio de conciencia con una mera “decisión” de
la persona, según el sentido que tienen tales interpretaciones en
la condena que de ellas hace la encíclica Veritatis splendor (nn.
54-56). Alfonso no habla de “decisión” sino de juicio o dictamen50, si bien no reduce este dictamen a un mero reflejo de la
norma objetiva. Alfonso sabe que el orden objetivo es norma “en
cuanto es captada” por la conciencia51. En ese “prout apprehen-
GAUDÉ, I, 3: “Duplex est regula actuum humanorum; una dicitur remota, altera proxima. Remota, sive materialis, est lex divina; proxima vero,
sive formalis, est conscientia”.
50 GAUDÉ, I, 3: “Conscientia definitur sic: est judicium seu dictamen
practicum rationis”.
51 GAUDÉ, I, 3: “Licet conscientia in omnibus divinae legi conformari de49
362
MARCIANO VIDAL
ditur ab ipsa conscientia” está la función “constitutiva” de la
conciencia en la vida moral.
Donde aparece con mayor relieve la doctrina alfonsiana sobre la fuerza “constitutiva”, que opera la conciencia en la moral,
es en la explicación del carácter vinculante de la “conciencia invenciblemente errónea”52. Mientras que para Tomás de Aquino
el error invencible únicamente “excusaba” de pecado, para Alfonso, en cambio, la conciencia invenciblemente errónea constituye en “meritorio” el acto moral, en cuanto que, aún en ese caso, la actuación “está dirigida por el dictamen de la razón y de
la prudencia”53.
Como se ve, la doctrina alfonsiana se distancia del pensamiento de Tomás de Aquino, situándose, más bien, en la órbita
de Guillermo de Ockham54. La razón de esta postura alfonsiana
está en que Alfonso no cree en un “objetivismo moral craso”
(“lex ut in se est”), sino en una “objetividad mediada por la razón” (“lex prout repraesentatur a ratione”)55.
Desde esta comprensión de la conciencia en cuanto instancia “constitutiva” de moralidad, se deduce la importancia que
otorga Alfonso al juicio de conciencia en la pastoral y, más concretamente, en el sacramento de la penitencia. La conciencia es
la que “determina” la verdad práctica y, por consiguiente, la verdad que salva o condena.
beat, bonitas tamen aut malitia humanarum actionum nobis innotescit,
prout ab ipsa conscientia apprehenditur”.
52 Cf. L. VEREECKE, La conscience selon Saint’Alphonse de Liguori: Studia
Moralia 20 (1983) 262-266.
53 GAUDÉ, I, 4: “Non solum autem qui operatur cum conscientia invincibiliter erronea non peccat, sed etiam probabilius acquirit meritum; ut recte
sentit Pater Fulgentius Cuniliati cum aliis communissime. Ratio, quia ad dicendum aliquem actum bonum, saltem inadaequatum, sufficit ut ille dirigatur per rationis et prudentiae dictamen”.
54 Cf. L. VEREECKE, a. c., 263.
55 GAUDÉ, I, 153: “Quando peccatur contra legem invincibiliter ignoratam, materialiter tantum, non formaliter peccatur; quia lex, non ut in se est,
sed prout repraesentatur a ratione, ita fit regula et mensura nostrae voluntatis”.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
363
V. INNOVACIONES EN LA MORAL MATRIMONIAL
Junto con la conciencia ha sido la moral matrimonial el
campo en el que se han constatado las innovaciones más importantes del pensamiento moral alfonsiano. Me limito aquí a señalar ese carácter innovador en dos aspectos de la moral matrimonial: la ordenación de los fines del matrimonio; y, la licitud
del matrimonio, así como de la relación conyugal, “propter remedium concupiscentiae”.
1. LA
ORDENACIÓN DE LOS FINES DEL MATRIMONIO
a. Pensamiento alfonsiano
Alfonso pertenece a una época de la moral matrimonial en
que ya no se habla de “bienes” del matrimonio. El significado del
matrimonio se expresa con la categoría de “fines”. En este cuadro conceptual hay que situar su importante formulación sobre
los fines del matrimonio.
De hecho, la orientación básica que ilumina todo el conjunto del pensamiento alfonsiano sobre el matrimonio se encuentra en su peculiar comprensión y exposición sobre los fines
del matrimonio. Aquí reside la mayor originalidad de Alfonso.
Según él, “en el matrimonio existen tres clases de fines: fines intrínsecos y esenciales, fines intrínsecos accidentales, y fines extrínsecos accidentales:
Los fines intrínsecos esenciales son dos: la mutua donación
con la obligación de entregarse al otro, y el vínculo indisoluble.
Los fines intrínsecos accidentales son también dos: la procreación, y el remedio de la concupiscencia.
Los fines accidentales extrínsecos pueden ser muchos como,
por ejemplo, la paz entre las familias, la satisfacción de alguna apetencia personal”56.
56
GAUDÉ, IV, 61-62.
364
MARCIANO VIDAL
Para valorar con objetividad el significado de esta formulación alfonsiana sobre los fines del matrimonio es necesario, en
primer lugar, situarla en su contexto histórico; a continuación,
se puede señalar el grado de innovación que supuso en su época
y que todavía puede seguir teniendo en la actualidad.
b. Contexto histórico
No hay que pensar que la formulación alfonsiana sobre los
fines del matrimonio fue una creación totalmente nueva de Alfonso. En la Edad Media se comenzó a hablar de fines del matrimonio, traduciendo así a nuevo lenguaje la doctrina agustiniana sobre los bienes del matrimonio. Se señalaron tres fines: la
procreación y educación de la prole; el remedio de la concupiscencia; y el significado sacramental. Entre la época medieval y
la formulación de Alfonso se establecen otras precisiones y divisiones que es necesario tener en cuenta. Creo que las principales fuentes directas del texto alfonsiano están en cuatro autores,
escalonados temporalmente: Tomás Sánchez (1550-1610), Claudio Lacroix (1652-1714), Salmanticenses (s. XVII-XVIII), y
Constantino Roncaglia (1677-1737).
Tomás Sánchez es uno de los autores preferidos por Alfonso,
sobre todo en los temas relacionados con el matrimonio57. De seguro que Alfonso leyó lo que el moralista cordobés había escrito
sobre los fines del matrimonio. Muy probablemente, lo escrito
por Sánchez pudo darle la impresión, como nos la da ahora a nosotros, de cierta imprecisión58. Distingue Sánchez entre fines
“per se” o “ratione sui” y fines “extranei”. Señala los primeros en
función de dos dimensiones de la institución matrimonial:
en cuanto es contrato, el fin del matrimonio “ratione sui” es
la entrega mutua del derecho al cuerpo y la comunión de los
A T. Sánchez lo tiene por autor “probado” (Prólogo a la 1ª edición de
la Theologia Moralis); lo cataloga entre los “gravissimi auctores” (GAUDÉ, I,
645); lo tiene por “sapientissimus et piissimus” (GAUDÉ, I, 700); lo defiende
frente a quienes lo denigran por tratar temas “escabrosos” (GAUDÉ, IV, 82-83).
58 El texto se encuentra en: T. SANCHEZ, De sancto matrimonii sacramento, t. I (Antuerpiae, 1614) 157.
57
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
365
espíritus (“traditio potestatis corporis alteri coniugi et mutua animorum coniunctio”);
en cuanto que el matrimonio está ordenado a la sexualidad
(“cum ad copulam ordinatur”), su finalidad es más compleja (aquí es donde se encuentra la “imprecisión” a la que acabo de aludir): primariamente (“primario”) está instituido en
orden a la procreación (“institutum ad propagationem sobolis”), y secundariamente, aunque por razón intrínseca (“finis per se, non tamen per se primus sed secundarius”), al remedio de la concupiscencia (“remedium concupiscentiae”).
Claudio Lacroix tiene en común con Alfonso el haber sido
uno de los grandes comentaristas de la Medulla de Busembaum59. En efecto, el moralista jesuita compuso una notable
obra de moral casuista, que fue reeditada por F. A. Zaccaria; de
esta reedición proviene la Disertación prolegómena con que se
abría la 3ª edición de la Theologia Moralis alfonsiana. La obra de
Lacroix influyó mucho sobre el pensamiento de Alfonso, sobre
todo en la época en que preparaba las ediciones 2ª y 3ª de su Moral. En relación al significado del matrimonio (“Quid sit”)60, Lacroix recuerda los bienes de la institución conyugal61. En cuanto a los fines, sigue dentro de la pauta marcada por Sánchez, si
bien introduce más claridad en la formulación. Hace la siguiente organización de fines62:
fin esencial (“essentialis”): la entrega de los cuerpos y la obligación radical del débito conyugal (“mutua corporum traditio et radicalis obligatio tradendi debitum”);
fin accidental pero al mismo tiempo propio (“finis accidentalis sed proprius”) que es de doble índole: a) primario (“primarius”): procreación y educación (“generare et ad Dei cultum educare prolem”); b) secundario (“secundarius”): remedio de la concupiscencia;
59 Sobre Lacroix y sobre los comentarios a la obra de Busenbaum, cf. M.
VIDAL, La moral de san Alfonso de Liguori y la Compañía de Jesús: Miscelánea
Comillas 45 (1987) 391-416.
60 Cito por la siguiente edición (que contiene las anotaciones de F. A.
Zaccaria): C. LACROIX, Theologia Moralis, t. III (Ravennae, 1761), 19.
61 “Bonum matrimonii est tripartitum: fides, proles, sacramentum”
(Ibid., 19).
62 Ibid., 19.
366
MARCIANO VIDAL
-
fines extrínsecos63: la salud, la paz, las riquezas, la belleza, etc.
De los Salmanticenses puede decirse que fueron el libro de
consulta primera y continua de Alfonso64. Es normal que en ellos
leyera la exposición que hacen sobre el “triplex finis” del matrimonio65:
fin intrínseco substancial: la mutua entrega y la obligación
radical del débito conyugal (“traditio mutua, obligatioque
radicalis reddendi debitum”);
fin intrínseco accidental: la procreación y el remedio de la
concupiscencia (“prolis procreatio et educatio ad cultum
Dei, necnon remedium concupiscentiae”);
fin extrínseco: la paz, las riquezas, la nobleza, la belleza, etc.
Constantino Roncaglia es otro de los autores utilizados por
Alfonso como fuente bibliográfica básica y continua para la elaboración de su Theologia Moralis66. Para la cuestión de los fines
del matrimonio es la fuente más cercana al pensamiento alfonsiano. Según Roncaglia los fines intrínsecos (no habla más que
implícitamente de los fines “extrínsecos”) del matrimonio son67:
fin intrínseco substancial: la mutua entrega y la obligación
radical del débito conyugal (“mutua traditio et radicalis obligatio ad copulam”);
63 En la edición que utilizo existe un error de impresión, ya que habla
de “fines intrinseci” (Ibid., 19), siendo lo que procede hablar de fines “extrínsecos”; de hecho en páginas posteriores (p. 25) se habla de fines “extranei”.
64 En el prólogo a la 1ª edición de la Theologia Moralis se lee esta referencia alfonsiana a los Salmanticenses: “Communi aestimatione moralem
hanc scientiam diffuse, et egregie pertractant; Quosque ipse inter ceteros frequentius familiares habui: itaut fere omnia, quae iidem tot libris latiore calamo in examen revocant, breviter concinnata hic invenies”.
65 Cito por la siguiente edición: SALMANTICENSES, Cursus Theologiae Moralis, t. II (Madrid, 17175) 103-104. Sobre los Salmanticenses morales y sobre la relación de Alfonso con ellos, cf. T. SIERRA, El Curso Moral Salmanticense. Estudio histórico y valoración crítica (Valladolid, 1968); San Alfonso y
los Salmanticenses morales: Moralia 10 (1988) 235-254.
66 Cf. M. VIDAL, Frente al rigorismo moral, benignidad pastoral (Madrid,
1986) 138. A Roncaglia lo cataloga entre los autores “probi” y entre los autores “gravi” (Ibid., 136).
67 Cito por la siguiente edición: C. RONCAGLIA, Universa Moralis Theologia, t. VI (Luca, 1849) 199.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
-
367
fin intrínseco accidental: la procreación y el remedio de la
concupiscencia (“prolis procreatio et remedium concupiscentiae”).
c. Innovación alfonsiana
Comparando la exposición de Alfonso con la de las cuatro
fuentes, que muy bien pudo utilizar, se pueden constatar un gran
número de convergencias; pero también alguna divergencia.
Tanto Alfonso como los autores indicados distinguen entre
fines “intrínsecos” y “extrínsecos” (considerando a éstos últimos
como “accidentales” al matrimonio); entre los fines intrínsecos,
todos establecen otra distinción, más importante, entre “substanciales” y “accidentales”; Alfonso prefiere el término “esenciales” al de “substanciales”, ya que unos y otros pertenecen a la
substancia del matrimonio. Alfonso acepta la opción de los Salmanticenses y de Roncaglia de no establecer prioridad, como lo
hacen Sánchez y Lacroix, entre los fines accidentales, es decir,
entre la procreación y el remedio de la concupiscencia.
Según mi parecer, no es propiamente innovación alfonsiana
el haber distinguido, entre los fines intrínsecos del matrimonio,
los “esenciales” y los “accidentales” y el haber colocado la procreación entre éstos últimos, es decir, entre los “accidentales”.
Esta comprensión de los fines matrimoniales y esta articulación
de la procreación en ellos no puede ser considerada una novedad alfonsiana ya que, según he señalado, se encuentra en moralistas precedentes. Sin embargo, el que haya sido aceptada por
Alfonso sí tiene gran importancia.
En la comprensión alfonsiana del matrimonio hay dos elementos de particular relieve que parecen chocar contra algunas
orientaciones excesivamente “procreativistas” de la tradición anterior. Me refiero a estas dos afirmaciones:
la procreación no es un fin esencial del matrimonio; es solo
un fin intrínseco accidental68;
el matrimonio es lícito y válido aunque se excluyan los dos
fines intrínsecos accidentales, concretamente, el remedio de
68
GAUDÉ, IV, 61.
368
MARCIANO VIDAL
la concupiscencia y la procreación; así contrajeron su matrimonio María y José69.
El criterio básico que ilumina todo el conjunto del pensamiento alfonsiano sobre la procreación es su doctrina peculiar
sobre los fines del matrimonio y el puesto que en ellos ocupa la
finalidad procreativa. Según la comprensión alfonsiana sobre el
significado (“fines”) del matrimonio:
no se requiere la intención procreativa en toda relación conyugal70;
más aún, se puede admitir que a veces es lícito el desear no
tener hijos71, por razón del principio de responsabilidad general que ha de abarcar toda la realidad del matrimonio y de
la familia.
A partir del significado general que Alfonso otorga a la función procreativa dentro de la realidad del matrimonio surge una
moral de la procreación de signo más equilibrado que la ofrecida por comprensiones morales precedentes. En la moral alfonsiana se insinúa lo que actualmente constituye una vigencia ética dentro de la moral católica: el principio de “procreación responsable”.
2. LA
LICITUD DE LA RELACIÓN CONYUGAL
“PROPTER
REMEDIUM CON-
CUPISCENTIAE”
Nadie niega que haya de ser considerada como innovación
alfonsiana la interpretación de 1 Cor 7, 2 que la Vulgata tradujo
así: “propter fornicationem, unusquisque suam uxorem habeat,
et unaqueque suum virum habeat”. En su sentido original el texto paulino no pretende dirimir una disputa sobre el significado
del matrimonio72; sin embargo, la tradición eclesial lo usó para
GAUDÉ, IV, 62.
GAUDÉ, IV, 109: “Consequenter resolvitur licitum esse uti matrimonio:
a) prolis causa; etsi haec non neccessario debeat intendi cum exercetur:
dummodo positive non impediatur”.
71 GAUDÉ, IV, 123.
72 S. VIDAL, Las cartas originales de Pablo (Madrid, 1996), 180-181, nota
83: “no se refiere aquí al contraer matrimonio (estaría en contradicción con
69
70
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
369
justificar el matrimonio por razón de ser “remedio para la concupiscencia” (remedium concupiscentiae).
Alfonso se encontró con una corriente importante, y hasta
mayoritaria, de teólogos, entre los cuales se situaba a santo Tomás, que sólo veían en el texto paulino una simple “indulgencia”
que no quitaba el desorden objetivo inherente a contraer matrimonio con el fin principal del “remedio de la concupiscencia”.
Consiguientemente, según esta interpretación, el contraer matrimonio teniendo como fin principal el remedio de la concupiscencia era, al menos, pecado venial.
Le costó a Alfonso apartarse de esa forma de pensar73, sobre
todo al tener que ir en contra del parecer de santo Tomás, a
quien tenía por el principal guía en su trabajo teológico74. Sin
embargo, pidiendo disculpas al Aquinate, prefiere la interpretación de san Juan Crisóstomo75, quien veía en el texto paulino no
una “concesión indulgente” sino la afirmación de un valor objetivo del matrimonio. Así, pues, Alfonso afirma con coraje la ausencia de pecado y, consiguientemente, la bondad objetiva del
matrimonio contraído principalmente por motivación sexual
(“remedio de la concupiscencia”).
Esta innovación alfonsiana tiene varias vertientes:
por una parte, la postura alfonsiana fue decisiva para que el
texto paulino fuera interpretado comúnmente no como una
“concesión” sino como la afirmación de una “valor” de la vida conyugal;
por otra parte, como el mismo Zalba reconoce, Alfonso, en
contraste con san Agustín, considera como bueno (y caren-
v. 8.25ss.40), sino al uso de él (v. 3-5); se opone a ‘no tener contacto’ (v. 1).
Esto quiere decir que la afirmación del v. 2 (especificada en los v. 3-5) es de
tipo pragmático realista (sobre el uso del matrimonio), y no se puede interpretar como una afirmación general sobre el sentido del matrimonio (como
remedium concupiscentiae)”.
73 La exposición, amplia y matizada, se encuentra en: GAUDÉ, IV, 62-64.
74 Cf. M. VIDAL, o. c., 126-146.
75 “Sed venia tanti Doctoris (cujus sententiis universe obsequi in caeteris ego studui) magis propria videtur interpretatio S. Joannis Chrysostomi”:
GAUDÉ, IV, 63.
370
MARCIANO VIDAL
te de culpabilidad objetiva) “el ejercicio de la vida conyugal
en cuanto remedio de la concupiscencia”76;
de esta suerte, se adopta una nueva perspectiva para valorar
de forma más personalista las relaciones intraconyugales y,
en general, la institución matrimonial.
En relación con la última afirmación, conviene anotar otra
afirmación alfonsiana que participa de la innovación que estamos comentando. Me refiero a la afirmación básica de Alfonso
de que los “fines” que justifican el matrimonio son los mismos
que cohonestan la relación conyugal77. Este criterio ilumina, con
una luz personalista, toda la moral de la vida conyugal.
En la monumental obra de Noonan sobre la historia del pensamiento cristiano acerca de la contracepción cobra un relieve
especial la figura de Alfonso de Liguori78. Se le presenta, en cierta medida, como el “antagonista” de la postura agustiniana. Si
ésta defiende la orientación procreativista del matrimonio, la
orientación alfonsiana apoya la valoración de la relación conyugal por razón de ella misma y propone una moral de responsabilidad en la procreación.
Con “Alfonso se ve netamente declinar la vieja actitud agustiniana frente a la relación conyugal desprovista de intencionalidad procreativa”79. Bien es cierto que el mismo Noonan reconoce que “el pensamiento de Alfonso todavía refleja una doctrina de transición”80: abandona la teoría marcadamente procreativista pero no se decide por la opción personalista del amor
conyugal como núcleo justificador de la vida conyugal.
A Alfonso hay que situarlo en la corriente de significación
más personalista y de orientación más benigna. Como dice J.
Delumeau, “espíritus independientes como Dionisio el Cartujano (+1471), Martín Le Maistre (+1481), Tomás Sánchez (+1610),
76 M. ZALBA, S. Alfonso in contrasto con la tradizione e con S. Agostino?:
Rassegna di Teologia 10 (1969) 385.
77 GAUDÉ, IV, 109: “Iidem enim fines, quos habere licet ad matrimonium
contrahendum, cohonestant etiam petitionem copulae”.
78 Cito por la traducción francesa: J. T. NOONAN, Jr., Contraception et
mariage. Evolution ou contradiction dans la pensée chrétienne? (Paris, 1969).
79 Ibid., 409.
80 Ibid., 420.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
371
San Alfonso María de Ligorio (+1787), hicieron retroceder poco
a poco, a pesar de una poderosa oposición conservadora, la imposible moral agustiniana respecto al matrimonio”81.
Uno de los signos llamativos de esa orientación innovadora
está en el abandono de la opinión de santo Tomás, que interpretaba de forma pesimista el texto de 1 Cor 7, 2 y, consiguientemente, veía culpa, aunque leve, en la opción por el matrimonio
contraído como “remedio de la concupiscencia”. Es interesante
constatar cómo Alfonso en esta cuestión se distancia de un autor a quien tanto apreciaba y a quien tenía por “theologorum
princeps”. Con mayor conocimiento histórico tendría que haber
dicho que se distanciaba, al mismo tiempo, de la tradición agustiniana82.
Pero más llamativo aún es a quién se adhiere, después de
abandonar a santo Tomás y a la tradición agustiniana: a san
Juan Crisóstomo. Es Noonan quien contrapone las visiones de
san Juan Crisóstomo y de san Agustín83: la segunda de signo más
pesimista y procreativista y la primera de carácter más optimista y más relacional. Se pregunta, además, cómo hubiera sido la
tradición teológica y eclesial ulterior si ésta hubiera seguido más
a san Juan Crisóstomo que a san Agustín, y se responde que habría existido “un tono teológico diferente, una visión diferente
del matrimonio”84.
81 J. DELUMEAU, El catolicismo de Lutero a Voltaire (Barcelona, 1973). Parecida valoración hace M. A. FARLEY, Etica sexual: J. B. NELSON - S. P. LONGFELLOW (Dir.), La Sexualidad y lo Sagrado (Bilbao, 1996) 118, al hablar del
“intento de Alfonso María de Ligorio por integrar el fin paulino del matrimonio con el fin de la relación sexual”.
82 Conviene tener en cuenta que Alfonso apenas se refiere a san Agustín
en el tema de la moral matrimonial. Solamente he contabilizado cuatro citas (y en lugares de poca importancia) de obras agustinianas en el tratado alfonsiano sobre el matrimonio de la Theologia Moralis: GAUDÉ, IV, 59, 64, 76,
103. Por eso, la referencia a san Agustín en la obra alfonsiana ha de ser interpretada de modo implícito, es decir, en cuanto que la opción agustiniana
se encuentra en la tradición comúnmente vigente con la que se confronta Alfonso.
83 J. T. NOONAN, o. c., 127-128.
84 Ibid., 128.
372
MARCIANO VIDAL
En todo caso, existió un gran moralista, Alfonso de Liguori,
que prefirió la opinión de san Juan Crisóstomo a la de santo Tomás e, implícitamente, a la de san Agustín. Este “espíritu alfonsiano”, insertado como estuvo en la genuina tradición cristiana,
sirvió para reorientar teórica y prácticamente la postura global
de la Iglesia en este campo hacia sensibilidades de signo más
personalista.
Eso fue lo que acaeció en las respuestas que dio la Sagrada
Penitenciaría, en el siglo XIX, a preguntas sobre cuestiones de
moral matrimonial; concretamente, sobre la moralidad de la cooperación de la esposa en el “coitus interruptus” y sobre la necesidad o no de preguntar en el confesionario acerca de los pecados de la vida conyugal. El estudio histórico de esta cuestión
arroja como balance global, dejando aparte matices parciales, la
aceptación de la orientación alfonsiana en moral matrimonial85,
un signo más del proceso de liguorización por el que entró la
moral católica a partir del segundo tercio del siglo XIX.
VI. LA RESPONSABILIDAD “CIVIL” EN LA
PREOCUPACIÓN MORAL DE ALFONSO
Las innovaciones alfonsianas en el campo de la pastoral, a
las que aludí en un apartado precedente, tenían como objetivo,
entre otros, la promoción de la sociedad civil mediante una
evangelización en que cobra relieve especial el ethos profesional
y la cultura de la legalidad en cuanto soporte imprescindible del
bien social.
85 Un estudio detallado de esta cuestión puede verse en: C. LANGLOIS, Régulation romaine et morale alphonsienne en France dans la première moitié du
19e. siècle. Les propositions de Mgr Bouvier sur la morale conjugale: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (19997) 309-329. Los matices se refieren a la
forma de invocar la doctrina alfonsiana por parte de la Sagrada Penitenciaría. También advierte C. Langlois (p. 327) sobre el peligro de caer en “anocronismos” a la hora de interpretar la doctrina alfonsiana, peligro del que
cree que no escapa del todo Noonan en su monumental obra sobre la historia de la contracepción en la moral católica.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
373
Tanto las Capillas del atardecer como las Misiones populares
pusieron a Alfonso en contacto con las “zonas periféricas” del
Reino de Nápoles y con la “parte olvidada” de la sociedad. Se
trataba de un mundo “distinto” del suyo, espiritual y culturalmente desatendido. El “éxodo” de Alfonso hacia esa realidad humana no tuvo por motivo ninguna suerte de despecho o frustración; fue, más bien, resultado de una conversión interior de toda su persona hacia el “clamor” de la gente necesitada. Toda su
obra tendrá como meta la “elevación integral” (religiosa y humana) de la gente marginada.
La praxis pastoral alfonsiana propicia una elevación social
de la gente sencilla mediante la creación de actitudes y de comportamientos de responsabilización. Esta dimensión “civilizadora” de la pastoral alfonsiana tiene repercusión en su concepción
de la moral cristiana. Ésta ha de insistir en la moralidad social
y en la ética profesional. Hay aquí otro signo del carácter innovador de la moral alfonsiana.
Insistencia en la moralidad social. Alfonso creyó en la “cultura de la legalidad”86. Se opuso a los excesos del “legalismo” en
la vida moral del cristiano; pero cultivó el respeto a la “norma”
en cuanto cauce del obrar social responsable. Este respeto a la
legalidad sirve de apoyo al tejido social, crea sensibilidades sociales en los individuos, y orienta la conciencia moral hacia la
realización del bien común. La formación jurídica de Alfonso no
sólo configuró su pensamiento moral, sino que le sirvió para justificar una moralidad pública exigente. Se ha destacado la fuerza del pensamiento moral alfonsiano en relación con la cuestión
de la usura87.
Responsabilidad profesional. Siguiendo el modelo de los Manuales de moral de la época, Alfonso dedica un tratado especial
a la moral de los “estados particulares”88. En relación con las
G. DI GENNARO - D. PIZZUTI, a. c., 311-312.
Además del artículo citado en la nota 37, ver: M. F. DOS ANJOS, Usura:
Etica dos Juros. Uma releitura latino-americana de Sto. Afonso de Ligório: Revista Eclesiástica Brasileira 57 (1997) 658-665; VARIOS, Diritto alla vita e debito estero (Nápoles, 1997).
88 Liber Quartus. De Praeceptis particularibus certo hominum statui
propriis: GAUDÉ, II, 441-686.
86
87
374
MARCIANO VIDAL
“profesiones civiles”, se fija preferentemente en las relacionadas
con el mundo de la justicia: jueces, abogados, escribanos, secretarios, notarios, procuradores, etc89. Tiene algunas alusiones rápidas a la moral de las profesiones médicas, económicas y empresariales90; no conviene olvidar que las cuestiones relacionadas con estas últimas ya las ha tratado al exponer el quinto y el
sexo precepto del Decálogo. Más que la “letra” de esta moral profesional, es de destacar el “espíritu” que subyace a esta preocupación alfonsiana. Si Alfonso fue sensible en su vida al ethos de
la profesionalidad, también está preocupado por la responsabilidad profesional del cristiano. De este modo, se desmiente un
tópico muy difundido de que la ética de las profesiones corresponde a la mentalidad protestante y está ausente del catolicismo.
VII. CARÁCTER INNOVADOR DE LA ORIENTACIÓN
GENERAL DE LA MORAL ALFONSIANA
La innovación mayor de Alfonso en el campo de la moral
consistió en superar los planteamientos tanto del probabilismo
como del probabiliorismo. Éstos se bloquearon en el concepto
de verdad moral, al entenderla únicamente en relación con la
ley. Una ley objetivada en la esencia de la naturaleza para el probabiliorista. Una ley exterior y, por lo tanto sometida al juego de
las probabilidades externas, para el probabilista. Para Alfonso la
verdad moral no está en la esencia ni en la fuerza exterior legislante. Por eso se opone tanto al probabiliorismo esencialista que
89 GAUDÉ, II, 625-684. Hay que alabar las iniciativas de N. Fasullo (Palermo, Italia) en orden a promover el pensamiento de Alfonso en el mundo
de las profesiones jurídicas. Ha editado la moral alfonsiana sobre las profesiones jurídicas, tomándola de Istruzione e Pratica, c. XII, punto 3 y de Il
Confessore diretto, c. XX, punto único: ALFONSO DE LIGUORI, Degli obblighi de’
giudici, avvocati, accusatori e rei (Palermo, 1998). El mismo N. Fasullo hace
una sucinta, pero exacta, introducción a la moral alfonsiana, con un conocimiento preciso de la producción bibliográfica (pp. 9-29).
90 GAUDÉ, II, 684-686.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
375
conduce a un objetivismo apersonal como al probabilismo basado en la fuerza jurídica extrínseca que también conduce a una
falta de consideración de la persona. Estas dos posturas no tienen en cuenta la condición salvífica de la verdad moral, lo cual
“le hacía considerar como peligrosos no solo el tuciorismo, absoluto o mitigado, y el laxismo, sino también el verdadero probabiliorismo y un cierto fácil e indiferenciado probabilismo”91.
La verdad moral, según Alfonso, está en la persona. Existe el
bien (y el mal) objetivo, cosa que no considera el probabilista;
pero ese bien (o mal) solamente se convierte en verdad moral
cuando es “aprehendido” por la persona, afirmación que no tiene en cuenta el probabiliorista. De ahí la importancia de la prudencia en el sistema moral alfonsiano92, de tal modo que la opción alfonsiana por el “equiprobabilismo” es interpretada por D.
Capone como una opción por el “principio de flexibilidad”93. Así,
pues, “Alfonso hace una Moral de la persona cristiana, mientras
otros hacen una Moral de la ley, y otros una Moral del acto libre,
como entidad y valor por sí mismo”94.
Alfonso llegó a esta innovación a contracorriente de la época. Fueron la sensibilidad de santo y la pastoral entendida y
practicada como servicio y no como poder los factores decisivos
y de fondo que le llevaron a esa opción. El estudio, la reflexión,
y la confrontación le ayudaron a madurarla y a racionalizarla,
proceso que le ocupó durante tres largas décadas (desde los finales de 1740 hasta los finales de 1770). No dejó de tener influencia su formación filosófico cartesiana, su configuración intelectual en la Facultad de Leyes, y la práctica del foro. El principio de “equidad” moral en Alfonso tiene mucho que ver con la
teoría filosófico-jurídica sobre la “equidad” de J. B. Vico, presidente del tribunal en el examen de ingreso de Alfonso a la Universidad.
D. CAPONE, Dissertazioni e Note di S. Alfonso sulla probabilità e la coscienza (1769-1777): Studia Moralia 3 (1965)144.
92 Ibid., 145.
93 D. CAPONE, Dissertationi e Note: Studia Moralia 1 (1963) 282; 3 (1965)
147-148.
94 D. CAPONE, Dissertazioni e Note: Studia Moralia 3 (1965) 148.
91
376
MARCIANO VIDAL
Para explicar el funcionamiento de la conciencia y, consiguientemente, para entender la constitución del sujeto moral
responsable, se sirvió Alfonso de los instrumentos que le proporcionaba la antropología jurídica. De hecho, los dos principios básicos de su sistema moral, el principio de “posesión” y el
principio de “epiqueya”, dependen más de la antropología jurídica que de la antropología filosófica. Como dice Capone, Alfonso volcó un “espíritu nuevo” en “odres viejos”95. Fue el espíritu alfonsiano lo que cuestionó la moral de la época, aquello
que supo leer la Iglesia del siglo XIX y lo que permanece válido
aún hoy.
La clave de ese “espíritu” está en la comprensión salvífica de
la verdad moral96. Alfonso no entiende la reflexión teológico-moral como una simple búsqueda de la verdad moral objetiva. Para él, la orientación salvífica de la moral es una clave hermenéutica decisiva. Es la razón del rechazo del excesivo rigorismo,
el cual lleva en sí una carga condenatoria97 y no refleja la “clemencia divina”98. También justifica la orientación “sanante” de
la pastoral penitencial alfonsiana, en la que la función de “médico” y de “padre” predomina sobre la de “juez”99.
El carácter salvífico de la verdad moral tiene una función directa e inmediata en la constitución del sujeto moral responsable. Éste se construye en función del carácter salvífico de la Moral. De ahí que, según el pensamiento moral alfonsiano, en la
constitución del sujeto responsable haya que tener en cuenta los
factores siguientes:
La fragilidad humana, señalada por Alfonso en afirmacio-
D. CAPONE, a. c., 63.
Para Alfonso el fin de todas las ciencias (“omnium scientiarum finis”)
no es otro que la “salvación eterna” (“nihil aliud esse debet quam salus aeterna”): Praxis confessarii, 17: GAUDÉ, IV, 536.
97 GAUDÉ, I, 61.
98 GAUDÉ, III, 518.
99 Cf. D. CAPONE, a. c., 86; S. MAJORANO, Il popolo chiave pastorale di S.
Alfonso: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (1997) 84; G. DE ROSA, La figura e l’opera di Sant’Alfonso nell’evoluzione storica: Spicilegium Historicum C.
Ss. R. 45 (1997) 224.
95
96
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
377
nes100 que Juan Pablo II califica de “palabras memorables”101.
La gradualidad en el descubrimiento y en la realización de la
verdad moral102.
La aceptación de las circunstancias, históricas y biográficas,
como factor importante en la constitución de la verdad moral. Alfonso anota que por razón del cambio de las circunstancias una ley que era “cierta” puede pasar a ser “dudosa”103. La verdad moral salvífica se realiza en la aplicación de
los criterios morales según la situación concreta de la persona.
El uso de la epiqueya como criterio regulador de la verdad
moral, aún en cuestiones de ley natural104, tiene en el pensamiento de Alfonso una justificación de carácter antropológico-teológico.
Lo mismo hay que decir de la aceptación de la ignorancia invencible en el sujeto moral. Esta ignorancia inculpable impide el pecado formal, el único que ofende a Dios y que se
opone a la salvación105. La “buena fe”, en la que a veces hay
que dejar a las personas106, es un rasgo importante de la antropología moral y pastoral de Alfonso107.
B. Forte ha puesto de relieve la valía de la intuición alfonsiana en la discusión sobre los sistemas de moral para comprender el significado auténtico de la decisión moral108.
“Atendiendo a la fragilidad de la presente condición humana, no
siempre es verdad que la cosa más segura sea dirigir las almas por la vía estrecha” (GAUDÉ, II, 53). “La excesiva severidad cierra el camino hacia la vida
eterna” (GAUDÉ, I, 61). Cf. S. MAJORANO, a. c., 81-82; G. DE ROSA, a. c., 224.
101 JUAN PABLO II, Spiritus Domini: AAS 79 (1987) 1368.
102 Cf. S. MAJORANO, a. c., 84-85.
103 Dell’uso moderato dell’opinione probabile, 1765, c. III, n. 89. Edición
de L. Corbetta, t. 29 (Monza, 1831) 199.
104 GAUDÉ, I, 182: “etiam in naturalibus”.
105 GAUDÉ, III, 636: Praxis confessarii, n. 8.
106 Por ejemplo, en los comportamientos de la vida conyugal: C. LANGLOIS, Régulation romaine et morale alphonsienne en France dans la première
moitié du 19e siècle: Spicilegium Historicum C. Ss. R. 45 (1997) 327-329.
107 Cf. S. MAJORANO, a. c., 81-82; G. DE ROSA, a. c., 222.
108 B. FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale (Roma, 1993) 303-307.
100
378
MARCIANO VIDAL
Para este teólogo actual la decisión moral es el acto por el
cual se realiza el encuentro salvífico de la persona con la gracia.
Es la realización finita (en el tiempo) de las posibilidades personales con un peso de autotrascendencia (de eternidad). En el debate sobre los sistemas de moral entra en juego la estructura y
la función de la decisión moral: ese debate “nace precisamente
del conflicto entre la radicalidad de la exigencia ética, fundada
en el ethos de gracia, y la incertidumbre de su realización concreta en la mutabilidad y complejidad de las situaciones vitales.
En este conflicto la certeza moral es con frecuencia no absoluta,
sino relativa”109.
Este conflicto es resuelto por la ética de situación eliminado
uno de los polos de la tensión (la dimensión objetiva) y absolutizando el otro (la temporalidad). Los sistemas rigoristas (tuciorismo, probabiliorismo) sacrifican la necesaria mediación histórica y situacional de la responsabilidad personal. El probabilismo transfiere todo el peso de la decisión a los condicionamientos extrínsecos. “En realidad, el conflicto de los sistemas revela
la tensión más profunda entre el objetivismo clásico y el subjetivismo emergente en la modernidad”110.
La intuición de Alfonso consistió en superar los planteamientos reduccionistas tanto del probabiliorismo como del probabilismo. Situó la decisión moral en la persona (la conciencia
que “aprehende” el orden objetivo) y así encontró el camino de
solución a la crisis de los sistemas de moral. “Esta vía -propuesta por el realismo sapiencial y prudente de San Alfonso de Liguori- reconoce en la decisión moral un acto de la persona, la
cual está en él implicada con toda la riqueza de sus componentes de interioridad y exterioridad, además de interlocutor libre y
consciente de la alianza con Dios, proveniente de la gracia”111.
A partir de esta interpretación, la intuición alfonsiana puede ser actualizada hoy como propuesta alternativa a la crisis entre el “objetivismo” y el “subjetivismo” en la vida moral y en el
discurso ético.
109
110
111
Ibid., 304.
Ibid., 305.
Ibid., 306.
RASGOS INNOVADORES EN LA MORAL DE SAN ALFONSO
379
Para Alfonso, la verdad moral pasa por la persona. De ahí
que no se canse de repetir la afirmación de santo Tomás: la bondad moral se mide “secundum bonum apprehensum”, es decir,
la verdad moral está en el bien objetivo pero “en cuanto es aprehendido” por la persona112. Esta orientación personalista alfonsiana fue la que superó los enfrentamientos históricos del “laxismo” y del “rigorismo”113.
También hoy esta opción alfonsiana puede ayudar a encontrar la “vía media” y el “camino seguro” entre la Escylla y la
Carybdis del “objetivismo” exagerado y del “subjetivismo” excesivo. La celebración del Cincuenta Aniversario de la declaración
de Alfonso como Patrono de confesores y de moralistas (1950) es
una buena oportunidad para recoger ese mensaje y traducirlo a
las nuevas condiciones de nuestra situación presente.
Manuel Silvela 14
28010 Madrid
España
M ARCIANO VIDAL, C.SS.R.
—————
Summary / Resumen
Studies on the moral theology of St. Alphonsus have experienced a
splendid period in the last forty years. As a result, we are now better
aware of the historical significance of alphonsian moral thought. This
article seeks to clarify more this historical significance by pointing out
the ‘innovative character’ of the pastoral and theological proposal of St.
Alphonsus. A panorama of the principal innovations of the alphonsian
moral theology is given. The article takes more time with the analysis
of three concrete tracts in which the innovative character is conspicuous: conscience, matrimony, social and professional responsability.
The innovative force of the alphonsian moral thought is summarized in
how the Patron of Confessors and Moralists deals with the question of
112 Quodl. 3, q. 12, a. 2: “El ideo actus humanus iudicatur virtuosus vel
vitiosus secundum bonum apprehensum in quod per se voluntas fertur, et
non secundum materiale obiectum actus”. Cf. también: I-II, q. 19, aa. 3 y 5.
113 D. CAPONE, a. c., 112-115.
380
MARCIANO VIDAL
moral truth. This is a truth which saves and transforms the total person. This alphonsian orientation could be a help in overcoming the
current moral crisis which is the result of the excesses of subjectivism
as well as of objectivism.
Los estudios sobre la moral de san Alfonso han experimentado una
época de esplendor en los últimos cuarenta años. Como consecuencia,
hoy se conoce mejor el significado histórico del pensamiento moral alfonsiano. El presente artículo pretende clarificar mejor ese significado
histórico señalando el “carácter innovador” de la propuesta pastoral y
teológica de san Alfonso. Presenta una panorámica de las principales
innovaciones de la moral alfonsiana. Se detiene en el análisis de tres
tratados concretos en los que sobresale el carácter innovador: la conciencia, el matrimonio, la responsabilidad social y profesional. Resume
la fuerza innovadora del pensamiento moral alfonsiano en la concepción que el Patrono de confesores y moralistas tiene acerca de la verdad
moral: es la verdad que transforma y salva a la persona en su totalidad.
Esta orientación alfonsiana puede ayudar a superar la crisis moral actual producida por los excesos tanto del subjetivismo como del objetivismo.
—————
The author is as Invited Professor at the Alphonsian Academy.
El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
—————
405
StMor 38 (2000) 405-435
PAUL GILBERT S.J.
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
Cet article se donnera un cadre limité. Je ne suis pas théologien mais philosophe, et en philosophie je ne suis pas moraliste
mais métaphysicien. Mon point de vue sera donc très particulier,
assez éloigné d’une réflexion basée sur l’étude des cas. Je ne serai
cependant pas trop distant d’une étude anthropologique adaptée
aux exigences de la morale aristotélicienne qui dégage, par des
analyses phénoménologiques d’avant la lettre, les formes de nos
attitudes de vie essentielles1. Je fais également mien un autre
aspect de l’aristotélisme, l’enquête dialectique, ou plus précisément l’étude de la tradition, qui nous renseigne tout d’abord sur
le sens ancestral de nos mots et qui nourrit ensuite une réflexion
austère et rigoureuse sur nos dispositions actuelles2. À l’aide de
On verra en ce sens J. LAFFITTE, Le pardon transfiguré, Paris, Desclée et
Éditions de l’Emmanuel, 1995, excellent ouvrage qui, d’un point de vue
d’abord anthropologique puis théologique, analyse le phénomène du pardon
et en classe avec précision les diverses formes ou approches ainsi que les
structures élémentaires. L’ouvrage ne touche cependant pas à la métaphysique du pardon, malgré l’intention de l’Auteur. Sans doute, “le plan métaphysique se réfère à la réalité sous-jacente à l’expérience: une personne ne se
confond pas avec ce qu’elle vit. Elle n’est pas sa propre expérience” (14).
Mais l’analyse de cette ‘réalité’ métaphysique est menée avec les seules ressources d’une psychologie assez élémentaire. Le mot ‘métaphysique’ a de nos
jours une rigueur toute différente.
2 C. BRUAIRE, La dialectique, Paris, PUF, 1985. Selon Bruaire, chez
Aristote et contrairement à Platon, la dialectique a un rôle propédeutique et
non démonstratif: “la dialectique ne mène plus aux rivages de la contemplation, de l’intelligence immédiate, intuitive, du vrai. Elle les explore indéfiniment sans jamais les découvrir assurément” (27-28). Cependant, puisque les
oeuvres du Stagirite commencent souvent par une enquête dialectique, celleci ne peut pas être tenue pour secondaire, un vain chemin d’opinion; un événement de vérité s’y produit nécessairement. De fait, la dialectique a “deux
titres de noblesse: elle est investigatrice, en débat discursif, et elle fait saillir
1
406
PAUL GILBERT
ces instruments d’inspiration aristotélicienne, mais en assumant
la philosophie contemporaine, je souhaite déployer l’essence
rationnelle du pardon.
Puisque je me situe dans le domaine philosophique, je ne
parlerai pas de péché. Le mot ‘péché’ est en effet réservé à un
événement qui se produit entre une personne et Dieu. Certes, le
mot ‘Dieu’ a site en philosophie, mais il n’est pas tout à fait clair
ni sûr qu’il ait le même valeur qu’en théologie. Pour éviter toute
ambiguïté, et dans l’impossibilité d’entrer dans la question des
relations complexes entre la philosophie et la théologie, je laisserai de côté la réflexion sur le péché comme tel, mais j’assumerai plutôt le vocabulaire contemporain de la faute et de la culpabilité.
Je me concentrerai sur le thème du pardon. Nous verrons
comment s’y inscrit, mais à un second moment, la question de la
faute et de la culpabilité. Je parlerai donc d’abord d’un pardon
sans faute à pardonner. La culture contemporaine récente nous
permet un telle organisation, originale pour la tradition, de la
réflexion. Par ailleurs, si la documentation philosophique sur la
faute et la culpabilité est importante, quasi sans fin3, depuis toujours quant à la faute, depuis Freud quant à la culpabilité, le
thème du ‘pardon’ est par contre étudié plus récemment du
point de vue spéculatif. On peut tirer d’auteurs contemporains
des éléments pour une réflexion radicale, métaphysique en ce
sens, à son propos. Le thème du ‘don’ se trouvera à notre point
de départ. Il a été beaucoup travaillé depuis que Heidegger a
entrevu dans le mot ‘être’ la signification d’‘être donné’. Le phénomène du ‘don’, évoqué par l’expression allemande es gibt4, a
donné lieu à de nombreux commentaires philosophiques, surtout de langue française (je pense à Bruaire5, à Marion, et évi-
les oppositions par leurs conséquences respectives. Deux vertus de la pensée
qui lui permettent de juger convenablement, quand la science est muette”
(33). La science du principe ou la métaphysique ne peut qu’être d’abord dialectique, puisque le principe n’est pas l’objet d’une évidence immédiate.
3 Cf. par exemple P. RICOEUR, La symbolique du mal, Paris, Aubier, 1960,
99-144.
4 Es: ‘cela’; geben: ‘donner’.
5 Cf. P. GILBERT, “L’acte d’être: un don” in Science et Esprit 41 (1989) 265-286.
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
407
demment à Derrida6). Or l’étude du ‘don’ déploie inévitablement
un ensemble de données rationnelles dont la compréhension du
‘pardon’ a besoin pour acquérir un sens complet, et profondément humain. Nous verrons donc comment le thème contemporain du ‘don’ éclaire celui du ‘pardon’, qu’il porte à sa plus haute
signification.
Mon exposé progressera en quatre sections: je parlerai
d’abord (1-), d’un point de vue étymologique, du pardon, puis
(2-) du don dont l’idée impose la possibilité de la faute, ensuite
(3-) de la gratuité qui va du don au pardon, et enfin (4-) de la
forme temporelle nouvelle dont témoigne la miséricorde.
1. L’invention du mot ‘pardon’
Je m’attacherai maintenant aux significations que comporte
le mot ‘pardon’. En général, nos mots sont riches de l’expérience
des générations qui nous ont précédés et qu’ils expriment en les
systématisant plus ou moins consciemment de manière cohérente. L’analyse étymologique d’un mot et de sa cohérence interne ouvre ainsi l’intelligence à la profondeur de l’expérience des
siècles antérieurs et des traditions qui s’y sont concentrées. Ces
considérations générales valent aussi pour le mot ‘pardon’.
Le mot ‘pardon’ vient du latin médiéval. Auparavant, on ne
disait pas ‘pardonner’, mais donare ou condonare. Alain Gouhier
a décrit comment on est passé du donare antique au perdonare
médiéval. Retraçons ce chemin. Le mot donare signifie avant
tout “donner une faveur”, celle-ci pouvant être une terre ou une
grâce, sans contrepartie et sans raison préalable, sans intention
de recevoir quelque chose en retour; il signifiait aussi ‘avoir de
l’indulgence’. Ce dernier cas s’est spécialisé par la suite et a été à
l’origine de la création du verbe condonare. Voici une description, brève mais précise, par laquelle Gouhier fait comprendre
cette caractéristique essentielle du condonare: Si la “faveur
consiste à laisser à autrui ce qu’il me devait, sa dette, je lui
Cf. J.L. MARION, Étant-donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Paris, PUF, 1997; J. DERRIDA, Donner le temps. I. La fausse monnaie,
Paris, Galilée, 1991; ID., Donner la mort, Paris, Galilée, 1999.
6
408
PAUL GILBERT
‘donne’ en quelque sorte ce qu’il devait me ‘donner’”7. Le verbe
condonare signifie donc ‘abandonner un dû’, le con prolongeant
et redoublant le geste du premier donare. Mon débiteur me doit
par exemple une certaine somme d’argent; cette somme, qui est
ma propriété, je la lui abandonne définitivement en renonçant à
mon droit sur elle; que mon débiteur garde donc pour lui ce qui
m’appartenait. Mais dans ce redoublement du donare, se joue un
phénomène qu’ignore le simple donare économique: le phénomène de la relation des libertés. Le verbe condonare accentue en
effet une nuance de spiritualité; il signifie veniam dare, donner
une grâce, une faveur, et indique par là le sens proprement
humain du premier donare8.
Le mot condonare va donc insister sur l’humanité du don en
déployant l’idée d’un don qui se redouble en anéantissant le
devoir de rendre au donateur ce qu’il a donné. En fait, déjà au
temps de Cicéron, on remettait une dette en exerçant ce genre de
purification. La dette pouvait être matérielle, mais aussi morale,
ou même une faute: condonare crimen9. On passait ainsi clairement au domaine éthique et à ses structures originales, distinctes des nécessités cosmiques. La faute peut en effet rendre
nécessaire une réparation équivalente si on y voit seulement un
événement physique: après un manque de ce genre, il faut rétablir l’équilibre perdu. Or c’est précisément cette réparation physique qui est ‘rendue’ au fautif dans un acte riche de sens
humain: le bon vouloir se substitue à la nécessité. ‘Condonare
volontiers’ témoigne certainement de la générosité du donateur,
mais cela renvoie aussi le fautif à l’intelligence d’un non-dû, et
par là à la conscience de son humanité et de sa responsabilité
personnelle. Il lui fait reconnaître qu’il est capable de répondre
librement de ses actes; il exige de lui, en conséquence, qu’il
A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, Paris, Epi, 1969, 34.
La langue italienne exprime fort bien cette différence en distinguant
dare et donare, le second terme ayant une nuance nettement anthropologique: il en appelle à la liberté. En français de même, mais dans une langue
plus littéraire que populaire, on distingue ‘donner’ et ‘faire don’.
9 CÉSAR, Guerre des Gaules, I, 20, 5 (“rei publicae iniuriam [...] condonet”)
et 6 (“se Diuiciaco fratri condonare dicit”); SALLUSTE, La conjuration de
Catilina, 52, 8 (“haud facile alterius lubidini malefacta condonabam”).
7
8
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
409
rende en fait plus que sa faute matérielle, qu’il convertisse son
humanité intérieurement autant, sinon plus, qu’extérieurement10. On retrouve cet éveil à elle-même de l’humanité libre
dans l’expression commune: “se donner la peine de ...” pour
répondre à quelque inviation, même heureuse. L’effort à
déployer est à la mesure de la bonté du don. Il ne suffit pas que
le fautif soit acquitté de sa dette tout simplement, sans aucun
événement nouveau de sa part, sans aucun changement intérieur réel ou raisonnablement possible. Il ne suffit pas qu’il rétablisse un ordre cosmique et un équilibre des forces. Il faut qu’il
“se donne la peine de ...”, qu’il s’engage effectivement et librement.
L’imputation éthique libère progressivement les verbes
donare et condonare de leurs significations uniquement physiques. Voilà pourquoi, petit à petit, on ne dira plus pour quelle
raison précise on “donne la grâce”, de telle sorte que se créera un
espace “pour le sens infini d’une telle proposition, car au
moment où l’on ne désigne plus ce qui est dû, cette indétermination ouvre la réflexion sur une infinité de désignations possibles”11. Cette infinité, signe de la liberté humaine, peut être
extensive, indicative de la grande inventivité de ceux qui, grâce
à l’éthique de la responsabilité, “se donnent la peine de ...”, mais
aussi intensive. On en arrive alors à créer le mot perdonare, où le
per, “préverbe ‘augmentatif’ ou ‘intensif’, [signifie:] ‘complètement’ ou ‘entièrement’”12. ‘Pardon’ équivaut donc à ‘don parfait’
et met en jeu l’intériorité radicale de la personne, sa capacité à
prendre la responsabilité de son don et à engager des relations
intersubjectives neuves.
Alain Gouhier signale deux problèmes contigus à celui que
nous venons d’analyser. Le latin classique connaît condonare,
mais non pas perdonare; pourquoi a-t-il fallu créer ce nouveau
mot si tard? Par ailleurs, le latin médiéval populaire ne fait
jamais de Dieu le sujet de perdonare, alors que pour nous, lec-
10 Cette expérience fait écho à l’expression de saint Paul: “là où le péché
s’est multiplié, la grâce a surabondé” (Rm 5:20).
11 A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 35.
12 Ibid. Sur la même base linguistique, on construit l’extensif ‘parfait’ à
partir de ‘fait’.
410
PAUL GILBERT
teurs modernes de Luc 5:2113, il est évident qu’Il en est le premier sujet. Ce second problème est aisé à résoudre. Le mot perdonare arrive pour la première fois dans un écrit populaire, la
traduction par un certain Romulus d’une fable d’Ésope, autour
des années 400; l’expression classique aliquem incolumitate
donare, qui signifie “donner la vie sauve à quelqu’un”, y devient
vita incolumitate perdonare. Le mot perdonare signifie ainsi la
remise d’une dette sévère, in casu la remise de la peine de mort.
“Ainsi donc, perdonare débute sa carrière le jour où il signifie,
dans la tradition populaire, la grâce suprême, la rémission de la
peine suprême”14. Par la suite, le mot ‘pardon’ prendra une
nuance de plus en plus juridique, jusqu’au perdonum maximum
qui, en 1349 et 1392, lors des premières années jubilaires de l’Église romaine, sera déclaré pardon suprême ou “indulgence plénière des péchés que concède le Souverain Pontife”. Mais de là
à faire passer le perdonare populaire et juridique dans la théologie, il y a un pas qui n’a pas été franchi avant longtemps: un mot
qui énonce la capacité qu’a l’homme de pardonner a connu des
résistances dans son application ‘théologique’ à Dieu15.
Venons-en maintenant au premier problème. D’où vient le
mot perdonare, utilisé seulement vers 400? Ce ne peut pas être
des versions latines de la Bible de l’époque. En effet, dans son
Apologie du Prophète Daniel (n° 62) des années 390 par exemple,
Ambroise dit, à propos du péché, qu’il peut être “donné par
grâce [donatur per gratiam], effacé par le sang ou couvert par la
charité”; ce que nous nommons ‘pardon’ est donc ici ‘don par
grâce’. En fait, l’entrée tardive du terme perdonare dans la langue
officielle peut s’expliquer, selon Gouhier, de cette manière: ce
mot existait au sens intensif dans la langue populaire, ce dont
témoigne la traduction de la fable d’Ésope qu’on vient d’évoquer;
la langue juridique s’en est approprié ensuite, lorsqu’elle a dû
exprimer une réalité humaine que les auteurs classiques ne
nommaient pas adéquatement. En fait, la langue populaire
“Qui peut remettre les péchés, sinon Dieu seul?”
A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 36.
15 Le mot n’entre pas dans l’index de la Somme théologique et de la
Somme contre les Gentils de l’Aquinate publié par la Commission Léonine en
1948.
13
14
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
411
antique était riche, sans doute plus riche que la langue codifiée
des savants; des témoignages littéraires le prouvent: pensons aux
fables, aux histoires d’amour courtois, aux expressions spontanées qui libèrent une intelligence profonde mais enveloppée des
libertés. De là la proposition de Gouhier. Dans le roman et le
latin populaire, le mot “‘pardonner’ remplit de nouvelles fonctions, celle des relations interpersonnelles, de l’intersubjectivité;
il entre dans le vocabulaire des sentiments, de l’amour, de la
‘réciprocité des consciences’. Il se met à signifier des relations de
gratuité”16. On peut donc conclure que “le latin parlé, le roman
avant ses premiers ‘codages’ en langue écrite, a peut-être aussi
connu le pardon de Dieu”17. Les chrétiens savent que Dieu pardonne; les théologiens aussi, évidemment, mais ils doivent chercher une expression pour fixer ce savoir dans leurs codes. Voilà
pourquoi pendant tout un temps, ‘donner’ a coexisté avec condonare dans le langage savant, et avec perdonare dans le langage
populaire et juridique; ce n’est que petit à petit que les expressions les plus pures de la gratuité du don se sont installées dans
la langue des théologiens.
2. Le don et la faute
Comme le mot ‘pardon’, le mot ‘don’ a une longue histoire,
plus longue encore, car indo-européenne; il renvoie lui aussi originellement à la bonne volonté. Émile Benvéniste a décrit son
invention d’une manière qui en manifeste le sens profond. Le
latin donum appartient à une grande famille linguistique dont la
racine commune, dâ (latin: donum; grec; dw`ron; l’arménien: tur;
le slavon: daru), indique un désintéressement relatif qui détermine a priori les notions de l’économie. “L’activité d’échange, de
commerce se caractérise d’une manière spécifique par rapport à
une notion qui nous paraît différente, celle du don désintéressé;
c’est que l’échange est un circuit de dons plutôt qu’une opération
proprement commerciale”18. L’analyse permet de voir que, pro-
16
17
18
A. GOUHIER, Pour une métaphysique du pardon, 37.
Ibid.
É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes. T. 1.
412
PAUL GILBERT
gressivement, s’accentue la dimension de désintéressement
intrinsèque au ‘don’, contrairement à la réciprocité caractéristique de l’origine. Benvéniste interprète en ce sens un vers
d’Hérodote qui utilise l’adverbe dôreá: “par don, par un don, gracieusement, pour rien”. Ce qu’on précise comme suit: “dôron est
le don matériel, le don même; dôreá, le fait d’apporter, de destiner comme don”19. Le don est dès lors pensé de manière très
articulée; il est l’acte de donner plutôt que le résultat ‘objectif’ de
cette action. Le mot dósis précise cette nuance; il renvoie à une
pratique de ce genre: “on demande un volontaire pour une mission périlleuse; on lui promet qu’il aura une bonne dósis, non
pas un dôron, car l’objet même du don n’existe pas. Dósis est
donc ‘l’acte de donner’. La formation en acte définit en effet un
accomplissement effectif de la notion, qui peut ainsi, mais non
nécessairement, se matérialiser dans un objet”20. On ne peut pas
mieux distinguer l’acte de donner et l’objet donné, le mot ‘don’
valant ici pour ‘donner’ plutôt que pour ‘donné’21. Un dernier
terme: le mot dôtiné, qui est lié à la crainte révérencielle ou à la
pression d’un contrat, signifie pour sa part que “la valeur attribuée à quelqu’un se mesure aux offrandes dont on le juge
digne”22; en d’autres termes, il désigne “un don en tant que prestation contractuelle, imposée par les obligations d’un pacte,
d’une alliance, d’une amitié, d’une hospitalité”23. Le don est ici
tout le contraire d’une expression digne des libertés en relation;
il confond l’échange par contrat et la crainte des puissants.
Les conclusions du linguiste français sont amples et donnent du souffle; elles permettent de mesurer et de contester les
analyses de Marcel Mauss sur le ‘don’24. Pour le sociologue fran-
Économie, parenté, société, Paris, Minuit, 1969, 66-67. Sur le même thème,
cf. ID, “Don et échange dans le vocabulaire indo-européen” dans ID.,
Problèmes de linguistique générale, Paris, Gallimard, 1966, 315-326.
19 É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire, 67.
20 Id., 67-68.
21 Ces nuances font que le thème traité dans cet article a une importance
décisive pour la métaphysique de l’‘acte d’être’, qu’on distingue du ‘fait d’être’.
22 É. BENVÉNISTE, Le vocabulaire, 69.
23 Ibid.
24 M. MAUSS, “Essai sur le don” dans ID., Sociologie et anthropologie,
Paris, PUF, 1950, 143-279 (le texte original est de 1925).
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
413
çais, à tout don correspond un contre-don, de sorte que ‘donner’
et ‘rendre’ forment une nécessité qui s’impose réciproquement
au donateur et au donataire; le but serait de maintenir quelque
harmonie universelle répétée indéfiniment sans véritable
déploiement nouveau ou créatif. Ce n’est pas un des moindres
mérites de la recherche contemporaine que de mettre l’accent
sur la liberté originaire du don, sur le don fait simplement pour
donner, un don qui n’a pas d’autre raison d’être que son être en
acte.
Or, comme le montre de manière étonnante l’histoire du lien
de ‘don’ à ‘pardon’, l’idée de faute naît dans la foulée de celle du
don originaire, du dôreá qu’Aristote définissait comme un dovsiı
anapovdotoı25, un don qui semble n’imposer aucune obligation en
retour, mais qui se crée effectivement des ‘obligés’, qui éveille
ainsi, sur fond de l’harmonie universelle exigée par la raison
humaine, le sens d’un dû impossible à rendre, d’une faute par là
‘impardonnable’, car précédée indéfiniment par une origine à
jamais inaccessible, impossible à répéter en son originariété.
Pour approcher l’idée difficile et inquiétante de ‘faute’ qui
surgit ainsi de l’idée de ‘don’26, idées que contient en elle celle de
‘dette’, nous devrons approfondir plus tard le sens de ‘gratuité’.
Il nous suffit de signaler maintenant que cette idée implique
celle d’une relation sans cause ou condition. L’idée de pardon est
liée à cette idée: au pardon demandé par l’offensant doit correspondre la réponse libre et inconditionnée, gracieuse, de l’offensé27. L’exemple le plus banal du pardon nous est donné par la
ARISTOTE, Topiques 125a18: “Un don [dôrea] est une prestation [dósis]
que l’on n’a pas à rendre”.
26 Notre culture occidentale, qui entend le ‘don’ à la manière économique de Mauss, ne peut pas y voir le lieu d’émergence d’une faute, car le
‘don’ semble ne plus avoir le sens d’une valeur. Il serait bon de lire à ce propos “Paysage sublunaire et atonal. Entretien avec Jean Baudrillard” dans O.
ABEL (éd.), Le pardon. Briser la dette et l’oubli, Paris, Éditions autrement,
1993, 34-41. Notre monde est devenu indifférent à tout. “Le jeu de l’indifférence, c’est celui de l’indétermination” (36), déclare Baudrillard; il n’y a plus
ni bien ni mal.
27 De là les éléments essentiels du pardon: “le vrai pardon est un événement daté qui advient à tel ou tel instant du devenir historique; le vrai pardon, en marge de toute légalité, est un don gracieux de l’offensé à l’offenseur;
25
414
PAUL GILBERT
remise d’une dette impossible à payer ou d’une dette payée par
le créditeur avant que son débiteur ne puisse le faire entièrement. Le pardon ainsi illustré semble remplacer par un acte
libre du donateur le devoir que le débiteur ne peut pas remplir
actuellement, qu’il ne pourra peut-être jamais accomplir. Le
‘perdonnant’, au sens fort du terme, anticipe en ce sens le temps
de la restauration d’un équilibre économique ou autre. Le pardon devance de quelque manière le cours normal des choses.
Mais cette anticipation pourrait manquer de droiture éthique si
le ‘perdonnant’ se substituait tout simplement au débiteur sans
lui laisser l’occasion d’affirmer ses responsabilités. Elle pourrait
même comporter une contradiction interne si elle signifiait que
le créditeur pouvait rétablir l’ordre qui précède l’offense, celui de
l’égalité des personnes, dans un système qui ignore qu’un équilibre a été réellement rompu à cause du débiteur et qu’il appartient à toutes les libertés d’agir pour le rétablir.
Le créditeur qui entend rétablir par son seul pardon l’ordre
rompu par la faute de son débiteur estime que cet ordre dépend
de son seul acte libre, que son débiteur n’y a aucun rôle irremplaçable, qu’il peut rétablir par sa seule volonté toute-puissante
un ordre nécessaire ou cosmique dont il dictera les règles.
Toutefois, ce faisant, le créditeur vit une contradiction puisqu’il
ne peut pas ne pas reconnaître que l’ordre a été effectivement
perturbé auparavant et que s’il requiert par après un apurement
de la dette, un pardon, c’est parce que la perturbation résulte
foncièrement d’actions libres. Le pardon véritable ne peut pas
ignorer que l’ordre humain dépend des libertés effectives. Il doit
donc se déployer en renonçant à la seule nécessité de la succession temporelle et à l’équilibre univoque des forces cosmiques; il
ne peut pas se contenter de l’action d’une seule personne qui se
prétendrait susceptible de se substituer à l’autre. Hannah Arendt
a mis en évidence le fait que le pardon introduit une rupture
dans la destinée du temps. Le pardon met en effet un point d’arrêt aux conséquences des actes blessants28. Mais il ne peut pas y
le vrai pardon est un rapport personnel avec quelqu’un” (V. JANKÉLÉVITSCH, Le
pardon, Paris, Aubier-Montaigne, 1967, 12).
28 “Si nous n’étions pardonnés, délivrés des conséquences de ce que
nous avons fait, notre capacité d’agir serait comme enfermée dans un acte
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
415
avoir là une simple restauration de la justice initiale. Le pardon,
plus radicalement que cette modification de la temporalité
linéaire, met en jeu des actes libres et originaires, hors du temps
et du cosmos29.
Le pardon donné implique la reconnaissance de la liberté de
l’offensant. De même, le pardon demandé par l’offensant
implique la reconnaissance de la liberté de l’offensé, de son don
antérieur, sans chercher à rétablir dans son état précédent
l’ordre déstabilisé. Le pardon doit être librement demandé avant
d’être donné librement, sans quoi, comme nous l’avons vu il y a
un instant, il n’aurait pas de sens à être offert par l’offensé.
Quand l’offensant demande pardon, il fait appel à la magnanimité de l’offensé, car il sait bien que son offense n’a pas détruit
en celui-ci la liberté et la capacité d’initiative, ni non plus sa
propre liberté. Savoir que l’offensé puisse faire un don nouveau
en pardonnant librement l’offensant conditionne la demande de
pardon de ce dernier. Mais ne pourrait-on pas objecter alors que
le pardon demandé, s’il sollicite la surabondance du don originaire en vue de supprimer la faute, tend à récupérer in extremis
ce que l’offense a mis en échec? S’il y a eu faute, c’est parce que
le don a été contredit. Le pardon demandé, comme le pardon
donné, pourrait bien exprimer alors, de nouveau, le simple désir
de rétablir quelque ordre antérieur. Toutefois, cet ordre ne pourra plus être à l’image de la nécessité mécanique du cosmos; il
résultera plutôt des libertés qui se seront reconnues à l’origine
d’elles-mêmes et de leur don; il sera l’ordre de l’intersubjectivité
première.
unique dont nous ne pourrions jamais nous relever; nous resterions à jamais
victimes de ses conséquences, pareils à l’apprenti sorcier qui, faute de formule magique, ne pouvait briser le charme” (H. ARENDT, La condition de
l’homme moderne, Paris, Calmann-Lévy, 1983, 266-267).
29 H. Arendt le note également, en opposant ‘pardon’ et ‘vengeance’: “Par
opposition à la veangeance, qui est la réaction naturelle, automatique à la
transgression, réaction à laquelle on peut s’attendre et que l’on peut même
calculer en raison de l’irréversibilité du processus de l’action, on ne peut
jamais prévoir l’acte de pardonner. C’est la seule réaction qui agisse de
manière inattendue et conserve ainsi, tout en étant une réaction, quelque
chose du caractère original de l’action” (Id., 270-271)
416
PAUL GILBERT
Nous tenons par hypothèse que le don initial est par essence libre et intersubjectif, que la demande de pardon en révèle la
saveur, qu’il a un sens avant toute gratification économique,
avant toute célébration de la magnificence de quelque puissant
donateur, qu’il rompt en ce sens l’ordre matériel et qu’il provoque par conséquence un désordre originel30. Le pardon offert
ou demandé ne peut pas résorber ce désordre en visant un ordre
ou un équilibre qui ignorerait la liberté créatrice du don intersubjectif originaire. Ce serait le cas si le pardon demandé s’avalisait d’excuses31; il ramènerait ainsi les éléments déséquilibrés
au sein d’une structure stable qui aurait la capacité de les absorber rationnellement. Ce serait la même chose si le pardon donné
consistait à effacer entièrement l’offense subie, à l’‘oublier’. Pour
que le pardon soit fidèle à son essence, il faut plutôt qu’il soit
donné sans raison, pour rien, non pas pour ‘réduire’ l’offense ‘à
rien’. Le pardon coexiste donc fort bien avec la mémoire de la
faute passée. Le don du pardon perfectionne même à ce moment
le donateur et le donataire en signifiant que le don est donné
fidèlement, malgré l’offense qui, ‘accomplie’, ne pourra plus
jamais être niée. La perfection du don, c’est sa libre fidélité
envers l’infidèle. Par souci de cohérence, nous devons même
ajouter que le don parfait, ou le ‘pardon’, ne doit pas attendre la
demande de pardon de l’offensant; il convient qu’au contraire
l’offensé prenne l’initiative de pardonner avant même que l’offensant, humilié par son offense, ne s’adresse à lui32. Le pardon,
30 Telle est la raison pour laquelle la justice et le pardon s’opposent, du
moins si la justice est pensée à la manière d’un équilibre cosmique, ce qu’implique sa définition en termes de distribution: “À chacun selon son dû”, en
fait à chacun selon le déploiement de sa force active dans l’équilibre du
monde.
31 “L’excuse ne pardonne qu’en se dépassant et en allant trop loin. Mais
dans la mesure où elle est purement intellective, elle ne va, au contraire, pas
assez loin; dans la mesure où elle est en retrait sur le pardon proprement dit,
elle manque de générosité” (V. JANKÉLÉVITCH, La pardon, 123).
32 La radicalité paradoxale de cette proposition rejoint ce que dit
Derrida du don: “Il n’y a de don, s’il y en a, que dans ce qui interrompt le système ou aussi bien le symbole, dans une partition sans retour et sans répartition, sans l’être-avec-soi du don-contre-don. Pour qu’il y ait don, il faut que
le donataire ne rende pas, n’amortisse pas, ne rembourse pas, n’acquitte pas,
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
417
pour être véritablement la perfection du don, devrait se donner
à l’offensant qui ne l’a pas encore demandé, et qui peut-être ne
le demandera jamais – le don sera à cette condition fidèle à son
originariété. “Je n’ai pas besoin de l’aveu de l’autre pour lui pardonner”33, déclare Stanislas Breton.
Mais y aura-t-il jamais un pardon donné d’une manière
aussi abrupte? Est-il même utile de pardonner si l’offensant n’a
pas reconnu sa faute? En fait, le pardon donné aussi gratuitement courra le risque de se substituer à l’offensant sans lui
demander son avis. Cette interprétation du don gratuit rationalise l’action de pardonner et suppose que le pardon ramènera un
équilibre qui n’aurait jamais dû connaître de désordre, c’est-àdire de liberté essentielle. Cette interprétation contredit la structure essentielle du don et du pardon. En outre, un pardon gratuit qui ne tient pas compte de la conscience de l’offensant et de
sa demande réelle de pardon, consentira-t-il à l’offensé de ne
rien modifier de son comportement envers celui qui l’a blessé?
Certes pas. La prudence requise après l’affront ne pervertit pas
le pardon donné d’une manière voilée en espérant la conversion
de l’offensant, mais elle permet de vivre humainement ce pardon. La prudence et le retrait de l’offensé, la mise en réserve
(mais non pas la négation) de sa disponibilité envers l’offensant,
sont des signes d’un pardon efficace, mais qui n’est pas encore
plénier.
Le pardon donné ne peut pas absorber l’offensant dans la
source du don, dans la volonté du donateur. Un tel processus
ferait d’ailleurs remonter la faute jusqu’au niveau du don originaire; il exigerait que soit nié le désordre qu’entraîne le don; il
pervertirait ainsi radicalement le donateur, et donnerait un succès final à l’offense. Le pardon de l’offensé qui se contente de
n’entre pas dans le contrat, n’ait jamais contracté de dette” (J. DERRIDA,
Donner le temps, 25-26). Un vrai don ne peut même pas être perçu comme
don. Si le donataire “le reconnaît comme don, si le don lui apparaît comme
tel, si le présent lui est présent comme présent, cette simple reconnaissance
suffit pour annuler le don” (26).
33 “L’autrement du monde. Entretien avec Stanislas Breton” dans O.
ABEL, Le pardon. Briser la dette et l’oubli, 105. Voir aussi de S. BRETON, “Grâce
et pardon” dans Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 70 (1986)
185-196.
418
PAUL GILBERT
rétablir le monde défait par l’offensant ne peut y parvenir qu’en
détruisant le don lui-même; l’effort de restaurer l’état antérieur
stable ne peut être qu’une feinte, et donc une corruption du don
originaire. L’offensant qui attend qu’un nouveau don de l’offensé répare l’équilibre initial qu’il a rompu suppose semblablement que le don, source de désordre à cause de sa liberté, puisse ne pas avoir eu de force libre et puisse maintenant être annihilé. Étrange résultat: la réponse du donateur au pardon demandé pourrait annihiler son don et tout être de pardon. Nous
serions alors livrés au nihilisme, à l’effondrement du sens de
tout acte de don, de pardon demandé et de pardon donné.
Le pardon authentique ne cherche aucunement à rétablir un
équilibre naturel antérieur qui, par ailleurs, n’a jamais existé. La
question est de savoir comment faire en sorte que, dans le pardon demandé et donné, subsiste la liberté du don. En fait, l’ordre
lui-même résulte du bon vouloir des libertés. L’origine est don,
exception, création nouvelle, désordre. Le pardon demandé et
donné, au moment même où il s’imagine revenir à un état antérieur comme s’il n’y avait là aucun manque, souligne a contrario
que cet état antérieur est lui-même restauré grâce au don actuel
des libertés les unes aux autres34. L’ordre résulte des dons, sans
les précéder; au maximum, il les médiatise. En ce sens, le pardon voulu par les deux parties, l’offensé et l’offensant, et sous la
condition de renoncer à quelque restauration que ce soit, ‘parfait’ réellement le don initial de chacun en l’accomplissant en
intersubjectivité librement consacrée. Le pardon révèle que
toute relation humaine demeure dans l’ordre des libertés, et que
le temps et le monde résultent de leurs initiatives sans nécessité
et de leur reconnaissance mutelle.
De nombreux thèmes philosophiquement essentiels se
retrouvent ici, surtout celui, contemporain, de la dette de soi35;
34 En ce sens, l’idée d’un dépassement du ‘péché’ par ‘retour’ à l’origine,
idée quasi plotinienne habituelle dans de nombreux textes sacrés, doit être
entendue avec prudence (cf. P. RICOEUR, La symbolique du mal, 78-81).
35 Ce point a été travaillé profondément par C. BRUAIRE, L’être et l’esprit,
Paris, PUF, 1983, 51-64 (“Ontodologie”). En déployant la structure fondamentale de l’expérience réflexive, l’Auteur écrit ceci: “la conversion contractive substantielle n’est mouvement en forme d’assomption de soi que dans le
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
419
ce thème concerne aussi bien le donateur offensé que le donataire offensant. Le présent ou l’actuel renvoie à un don initial, à
un principe premier généreux, que recueille une sorte d’‘archéologie’. L’expérience du don absolument premier est pour chacun
de nous, d’un point de vue phénoménologique, celle de notre
engendrement par (ou ‘à partir de’) nos parents que nous
sommes pas, qui sont radicalement ‘autres’ que nous36. La vie
humaine naissante est jetée au monde, littéralement. Bien sûr,
nous expérimentons dans la mort qui vient la fin de nos possibilités, ou la possibilité ultime qui révèle par son scandale que
nous sommes faits pour plus que l’empirique sensible37. Mais
cette possibilité que nous sommes est conditionnée antérieurement à nous, et non seulement dans l’au-delà téléologique de
notre monde et des étants que notre intelligence transcende.
D’ailleurs, nous ne nous sommes pas ouverts de nous-mêmes à
notre possible; nous le projetons en ayant été d’abord jetés au
monde à l’instant de notre engendrement sans que nous l’ayons
choisi.
De là le sentiment que la vie est tragique, un sentiment qui
n’est pas la seule angoisse de la mort, mais le savoir intérieur
d’être en dette de soi-même, d’être dès l’origine inadéquat à soi.
J’ai reçu la vie que je peux transmettre, mais je ne peux pas la
rendre à ceux qui me l’ont donnée. En effet, rendre la vie à ceux
qui me l’ont donnée, ne serait-ce pas, littéralement, mourir? Mais
ma mort, si elle paie ma dette de vivre, nie la vie qui m’a été donnée. Je suis en dette d’être, et je ne peux rendre la vie qu’en vivant
et donnant la vie après moi, sans jamais revenir en arrière. Le
don que je suis à moi-même ne pourra être rendu que sous la
forme d’un don parfait, d’un ‘pardon’ sans retour à son origine;
en engendrant moi-même, en donnant la vie, je perfectionne le
temps où, en contre-courant, de soi à l’autre, du même que soi à l’origine
autre, il est effusion, en forme d’ouverture, de diffusion, de reddition de soi.
Ce qui se comprend d’une seule façon: l’épreuve de la tache aveugle, à l’arrière, à l’origine de l’être est celle de l’être-en-dette de lui-même” (60).
36 Cf. G.C. PAGAZZI, ““Unico Dio generato” (Gv 1,18). Idee per una cristologia del ‘Figlio’” dans Teologia 23 (1998) 66-99 (surtout 70-77 sur “La rimozione della nascita” dans la culture contemporaine).
37 Cf. M. HEIDEGGER, Être et temps, § 40-41.
420
PAUL GILBERT
don et ‘pardonne’ le don de ceux qui m’ont engendré. Ce pardon,
bien sûr, est à comprendre selon la signification qui nous lui
avons accordée dans la première section de cet article. Il parfait
le don reçu en le multipliant. Il n’a rien à voir avec un échange
contractuel, avec la réciprocité neutralisante d’un contre-don38.
Le pardon éthique ne paie rien pour annuler la dette d’être. Non
seulement, bien sûr, aucun argent neutre et indifférent aux personnes ne peut restaurer la stabilité perdue définitivement par
l’avènement généreux du don de la vie, mais aucune sorte de
contre-don ne pourra prendre la même initiative que l’initiative
de ceux qui ont donné la vie et engendré. Le pardon ne peut que
consister au contraire à multiplier le premier don reçu, c’est-àdire à le donner à d’autres, et puisque le premier don est de donner la vie à un autre, le ‘pardon’ sera de donner la vie à de nouvelles personnes. C’est alors seulement que le don réussira,
quand il donnera “ce qu’on n’est pas”39, d’être autre. Pour être
droit, le pardon ne peut pas neutraliser le don mais l’achever en
‘redondance’, en donnant à nouveau la vie à un autre, tout
comme le donateur l’a donnée en se perdant en quelque sorte
dans un autre que soi. Ainsi, ni le don ni le pardon ne pourront
jamais s’éteindre. Jamais la dette d’être ne sera effacée.
La dette d’être, pour la conscience qui met en oeuvre toutes
les puissances formalisantes de son intelligence, est insuppor-
Bruaire s’oppose fortement à Mauss sur ce point: “Et de même que
nous trahissons le don par l’image de la chose préalable transférée d’un propriétaire à l’autre, la somme virée d’un compte à l’autre, nous faisons contresens [...] en imaginant une dette d’être en peine de s’honorer comme un transfert en retour, une dépossession en échange” (C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, 61).
39 Selon Bruaire, “il ne s’agit pas, pour payer sa dette, de rendre tout ou
partie de soi, ce qui reviendrait à déposer hors de soi sa propre substance, à
déposer le même que soi, à donner quelque chose de ce qu’on a. Payer la
dette qu’on est, c’est donner l’autre, honorer l’altérité, donner ce qu’on n’est
pas” (Id., 61). Cette idée rejoint ce que disait Gilson de l’émanation en la distinguant de la participation: “Dans une doctrine de l’Être, l’inférieur n’est
qu’en vertu de l’être du supérieur. Dans une doctrine de l’Un, c’est au contraire un principe général que l’inférieur n’est qu’en vertu de ce que le supérieur
n’est pas; en effet le supérieur ne donne jamais que ce qu’il n’a pas, puisque,
pour pouvoir donner cette chose, il faut qu’il soit au-dessus d’elle” (É. GILSON,
L’être et l’essence, Paris, Vrin, 1948, 42).
38
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
421
table. Elle exige trop. De là sans doute un sens naturel de la
faute40, issu de la perception d’une contradiction intérieure à
l’humanité. L’expression du don reçu est étrangement comme
une expérience native d’un mal impardonnable. Hannah Arendt
disait qu’il doit y avoir un lien entre le pardon et le châtiment,
car “les hommes sont incapables de pardonner ce qu’ils ne peuvent punir [et ils sont] incapables de punir ce qui se révèle
impardonnable”41. La dette d’être ne sera jamais payée au donateur, ‘punie’; de ce point de vue, elle restera toujours impardonnable. Pourtant, n’est-ce pas la vie elle-même qui rend impossible le retour de la vie reçue? Nous apercevons maintenant de
plus en plus l’ambiguïté pesante de l’être en dette, une situation
qui peut basculer en offense radicale si elle exige un retour au
donateur, mais qui peut au contraire devenir béatifiante si elle
rayonne en nouveau don de vie, si elle ne paie rien au donateur.
L’homme est destiné à se perdre lui-même pour donner la vie. Or
ce destin est un choix; le ‘pardon’ est libre. Par son intelligence,
l’homme est capable d’embrasser toutes les choses, de tout
réduire aux mesures de ses désirs; la modernité a montré que
rien, par principe, ne peut résister à son emprise et à ses entreprises. Mais la personne concrète, y compris le savant, ne naît
jamais d’elle-même; elle a toujours été précédée par ceux de qui
elle reçoit d’être; elle est toujours en dette d’être, une passivité
originaire42. L’intelligence, et sa puissance transformatrice du
monde, se connaît alors contredite d’une manière qui ne lui est
pas secondaire, mais première. Faite pour produire l’universel et
Le mot ‘faute’ vient du participe passé du verbe latin fallere, qui signifie ‘faire glisser’, ‘induire en erreur’, ‘abuser’, etc.
41 H. ARENDT, La condition de l’homme moderne, 271. L’auteur renvoie
dans la même page au mal radical de Kant et à ces offenses qui “transcendent le domaine des affaires humaines et le potentiel du pouvoir humain
qu’elles détruisent tous deux radicalement partout où elles font leur apparition”. L’allusion à la ‘Shoa’ est limpide.
42 On devrait ouvrir un chapitre, très fondamental pour la pensée
contemporaine, sur la passivité spirituelle. Cf. P. RICOEUR, Soi-même comme
un autre, Paris, Seuil, 1990, 367-409, où l’Auteur décrit “le trépied de la passivité, et donc de l’altérité” (368); à la fin de ce texte (402), en parlant de la
conscience, Ricoeur renvoie à Heidegger (Être et temps, § 58) qui parle précisément de ‘dette’, selon la traduction hors commerce de Martineau.
40
422
PAUL GILBERT
changer le monde, elle sait qu’elle a été d’abord donnée à ellemême, qu’elle doit d’abord se recevoir. Le travail de l’universel
constitue sa raison d’être, son identité, mais elle ne s’y est pas
disposée d’elle-même. N’ayant radicalement pas en soi sa raison
d’être, l’intelligence reconnaît qu’elle doit choisir entre accueillir
son origine ou se rebeller contre elle, la recevoir ou la subir,
avant même de pouvoir poser ses projets savants et de les déterminer en conséquence.
Dans l’histoire humaine, l’intelligence, en s’éveillant de ses
songes de puissance, a perdu parfois sa clarté devant elle-même;
il lui est arrivé de se rendre compte de son absence à elle-même,
de s’inquiéter de soi. Elle a exprimé cette inquiétude de différentes manières, qui toutes renvoient aux limites de sa force, à
la racine de sa passivité. Pensons au fleuve platonicien de l’oubli. L’intelligence est depuis toujours ‘passée’ de son origine à
aujourd’hui. Une rupture la constitue intrinsèquement. De nombreuses cultures racontent l’origine de l’homme en représentant
des tragédies sanglantes, des antagonismes fraternels insurmontables. Que ce soit la terre arrachée au dieu, que ce soit la femme
séparée du côté de l’homme, que ce soit l’être humain condamné à ne pas disposer du vrai et du faux, l’homme, pour advenir,
doit renoncer à sa paix, se séparer, se poser ‘différent’, entrer
dans la solitude, loin des ‘autres’, du monde, d’autrui, des dieux.
Pour s’unir à tout grâce à son intelligence formalisante et à la
force de ses passions, il doit nier son être séparé; la compréhension entière est plus qu’une illusion: c’est une faute. Pour accéder au contraire à son essence, l’homme doit recommencer,
après chaque emprise de son intelligence et de ses affections, à
revenir à une séparation initiale, à y adhérer comme à une chose
bonne, à choisir la solitude. En présence d’autrui, la séparation43
est le mode d’être originaire, la décision (mot qui vient d’une
racine qui se retrouve dans cadere: ‘tomber’, de-cidere: ‘trancher’,
‘couper’) d’ouvrir en soi un espace de relations, de se retirer pour
laisser du champ, de faire de soi un lieu d’accueil de l’universel
étranger et, au bout du compte, d’accepter librement de se recevoir d’autrui pour donner la vie. C’est en effet quand je me déci-
43 Cf. les analyses sur la ‘séparation’ de E. LÉVINAS, Totalité et infini, Paris,
Le Livre de Poche (Biblio), s.d., 111-126.
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
423
de devant autrui, quand je choisis d’être limité par lui44, que je
me choisis et parfait le don reçu, que je donne un espace pour
accomplir le don qui me fait être, que je me pardonne d’être en
acceptant de ne pas être tout-puissant, un pardon où je me
reconnais donné à moi-même en donnant à autrui d’être.
3. La gratuité et la redondance
Personne ne naît de soi-même. Sans doute, libre et responsable, chacun est-il autonome au sens où, nécessairement, pour
être digne de soi, il doit se vouloir soi-même soumis à sa responsabilité, mais sans que cela signifie qu’il puisse tirer de soi,
arbitrairement, tous ses principes et toutes ses déterminations.
La réflexion ancestrale de l’homme sur lui-même lui a fait
connaître que son savoir actuel ou présent n’est pas à la mesure
des enjeux qu’il entend et proclame promouvoir. On a pu dire en
ce sens que le kantisme posait la morale avant la science déterminante puisque la morale peut remonter jusqu’à un absolu et
inviter à lui obéir tandis que la science doit se taire aux frontières du non-savoir, ne pas dépasser imprudemment ses bornes.
Mais il faut nuancer cette interprétation du philosophe de
Königsberg. En effet, si la loi de la morale l’emporte sur la loi de
la science, ce n’est pas en abandonnant la raison derrière soi,
mais parce que la raison scientifique ne conduit pas jusqu’au
bout l’expérience que la raison a d’elle-même. En fait, la raison,
même théorique, peut ne pas se vouloir cohérente avec ellemême, la plus universelle qui soit. Certes, la science cherche le
plus universel, mais elle ignore qu’elle ne peut pas faire autrement, qu’elle ne dispose pas de son destin, et cette ignorance
entraîne souvent l’échec ou les étroitesses de ses entreprises. La
philosophie dit par contre à la science ses limites ou lui révèle
ses conditions; de plus, elle n’outrepasse pas son essence quand
44 Cette limite ne se pose pas clairement devant le ‘monde’, qui demeure pour l’intelligence un espace à conquérir, sans vraie altérité. Pour l’homme, l’altérité insurmontable est une autre ‘liberté’, non pas une autre ‘chose’.
Certes, le monde n’est pas seulement ce que je peux assimiler; il est aussi
‘don’ que je peux offrir à autrui.
424
PAUL GILBERT
elle se veut conforme, plus que la science, au tout de la raison.
L’expérience première, pour Kant, est celle du respect de la
raison devant la loi universelle, c’est-à-dire devant elle-même en
tant qu’elle ne dispose pas de soi. Il y a dans la raison une antériorité dont la raison scientifique n’a pas la maîtrise mais qui lui
assigne sa dignité. La raison autonome s’identifie à sa tension
vers l’universel; mais elle ne peut pas manier une telle ouverture;
elle ne dispose donc pas de tous les termes de son acte; elle n’est
pas vraiment indépendante. La loi exprime cette dépendance.
Mais en entreprenant de ramener toutes les réalités aux constructions mesurées de ses représentations, la science peut ignorer que
la loi s’impose à elle, précisément tant que loi, et qu’elle ne lui laisse pas des choix indéfinis. La raison devient digne de soi quand
elle se veut autonome, mais non pas indépendante: elle se connaît
alors réflexivement plus que représentative, donnée à elle-même
autrement qu’à partir des réalisations de ses puissances conceptualisantes et schématisantes. Pour Kant, “la raison qui reconnaît
que sa plus haute destination pratique est de fonder une bonne
volonté, ne peut trouver dans l’accomplissement de ce dessein
qu’une satisfaction qui lui convienne, c’est-à-dire qui résulte de la
réalisation d’une fin que seule encore une fois elle détermine, cela
même ne dût-il pas aller sans quelque préjudice porté aux fins de
l’inclination”45. La fin de la raison est ici immanente à la raison,
mais aussi plus que la raison. Cette ultériorité, que signale le
terme de ‘bonne volonté’ appliqué à la raison elle-même, fait que
cette dernière n’est pas sans connaître une manière d’acte libre,
cette espèce d’option que Blondel a appelé “agnition”46. La raison
doit se vouloir mise en vérité.
45 E. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Paris, Delagrave,
1969, 93-94.
46 M. BLONDEL, L’action I, Paris, Alcan, 1936, 353: “Comme il s’agit en
somme de reconnaître ce qu’il y a d’essentiel, de hiérarchique, d’impérieux
dans les vérités qui doivent orienter nos jugements pour gouverner notre vie,
on pourrait peut-être emprunter au verbe agnoscere, puisqu’il signifie accepter la vérité d’un fait, d’un acte, d’une personne, le vocable formé avec son
supin et présentant par là même une signification active”. Même s’il ne s’agit
pas là d’une ‘option’ au sens strict, “puisque ce mot évoque trop une opération de la volonté” (ibid.), l’‘agnition’ est quand même “la reconnaissance
qu’à travers les progrès de sa croissance mentale l’esprit humain aura à faire
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
425
Or est-il si évident que la raison puisse s’accorder ainsi à son
autonomie, qui n’est pas une indépendance ou une auto-position
prétentieuse de soi par soi? Une tension intérieure constitue la
raison, et la rend consciente de son inadéquation à soi. La raison sait qu’elle n’est pas à l’origine d’elle-même, qu’elle doit donc
entretenir une préoccupation spéciale envers elle-même, assurer
quelque rectitude qui lui est propre, non pas pour arriver finalement à égaler ses songes d’identité idéale, mais pour demeurer
fidèle à sa nature. La raison est donnée à elle-même; la perfection de son don, son ‘pardon’ dans notre vocabulaire, est la fidélité au don qu’elle a reçu, en reconnaissant qu’elle n’a pas la maîtrise de son être, qu’il lui faut donc obéir à ce qu’elle est47.
L’expérience de la raison rend témoignage à celle du don et
du pardon. En fait, la raison peut se tromper, ne pas être droitement fidèle à ce qu’elle a reçu. Comment? Si la pensée en acte
répond au don d’être, comment peut-elle errer? Ne serait-ce pas
parce que la pensée en acte est plus un exercice de ‘pardon’ que
l’effectivité du don originaire? Le pardon, c’est-à-dire le don qui
se parfait en se laissant penser par l’intelligence en acte, n’est
peut-être pas l’exacte redondance du don de l’origine. Jean-Luc
Marion a parlé avec précision et beauté de cette ‘redondance’48.
Le pardon perfectionne le don en lui donnant de continuer son
mouvement de donation, mais en l’éloignant donc sans cesse de
son origine. En fait, comme nous l’avons déjà noté, ce n’est habituellement pas dans un sens uniquement positif que l’on parle de
‘pardon’. Ce mot est ambigu, et la conscience y reconnaît plutôt
une signification négative, le reflet d’un drame ontologique.
Pour nos schèmes mentaux communs tout comme selon ce que
nous avons développé dans notre section précédente (l’idée de la
faute suit celle du don), le pardon devrait engager une régression
de toutes les vérités qui sont la lumière, la nourriture et la fin de l’intelligence” (366).
47 La logique a un sens philosophique non pas à cause de sa formalité,
mais de la pratique obéissante qu’elle induit.
48 J.L. MARION, L’idole et la distance, Paris, Grasset, 1977, 211: “La charité en se donnant se manifeste d’autant plus authentiquement. Chaque redondance du don où elle s’abandonne sans retour atteste son unique et permanente cohésion”
426
PAUL GILBERT
plutôt qu’une progression, la fidélité à une origine plutôt que sa
continuation. Pardonner, n’est-ce pas remettre une dette, combler un manque, un raté, une faute?
Nos mots ne nous trompent pas. Ils nous parlent sérieusement et nous devons y être attentifs. Mais nous devons aussi
maintenir fermement ce que nous avons dit dans la section précédente sur l’impossible de rétablir, dans le pardon, le désordre
provoqué par le don originaire. Entre le ‘don’ et le ‘pardon’, il n’y
a pas de continuité immédiate. Le ‘pardon’ garde toujours une
nuance négative: il répond au ‘don’ sans pouvoir y revenir, et
donc vit une faute impossible à soulever. Voilà pourquoi le premier pardon, qui est une demande, se tourne vers l’origine,
moins pour l’exonérer de sa faute ou d’un échec de sa générosité que pour se libérer soi-même d’une infidélité à ce qui a été
reçu; en demandant pardon, l’offensant revient vers le donateur
dont il libère la capacité à donner de nouveau son don en ôtant
ce qui lui fait obstacle, mais sans pour autant réduire la différence qui le sépare du don originaire. Il n’est pas possible de
penser que le don comme tel, même s’il cause un désordre à
cause de son imprévisibilité, soit une faute; une telle pensée pervertirait le sens commun. Si faute il y a, elle ne se trouve pas du
côté de la donation créatrice et désordonnante, mais du côté du
donataire qui n’accueille pas le don comme il le devrait, comme
don imprévisible, c’est-à-dire gratuit.
Pourtant le donataire ne peut pas assurer la redondance du
don s’il ne peut pas en être en tout le créateur, s’il doit donc
renoncer à être lui-même créatif, à tenir le rôle du donateur. La
redondance du don révèle sans doute le succès du don, sa perfection ou son ‘pardon’ au sens originaire du terme; mais elle
n’est accomplie que si le donné reconnaît être en dette de soi,
veut jouir de soi sans être à l’origine de soi, être autonome mais
sans disposer de sa propre auto-transcendance, et renonce au
désir d’être originaire en s’acceptant dépendant49. L’être ‘donné’
49 L’expérience même du pardon rend évidente cette tension. “Le pardon
atteste la distance – que seul il peut franchir – entre la gratuité première et
l’obligation que celle-ci impose à la liberté comme sa nécessité propre” (A.
CHAPELLE, Les fondements de l’éthique. La symbolique de l’action, Bruxelles,
Éditions de l’Institut d’Études Théologiques, 1988, 124). Ou encore: “Là où
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
427
prend alors la forme d’un être ‘subi’. La rébellion n’est pas loin.
Le donataire ne peut jamais devenir l’égal du donateur; dépendant du donateur, en dette d’être, il ne peut pas redoubler le don
en son surgissement originaire. La joie de transmette le don reçu
peut alors s’accompagner du sentiment d’humiliation. Le don
reçu, je ne peux pas le rendre vraiment, le redoubler en parfaite
redondance; je prends alors conscience que si je le reçois, je le
subis tout autant.
Me voici dans une ambiguïté insurmontable. C’est seulement à la condition de ne pas recréer en son origine le don reçusubi que je pourrai librement le redonner, que le débiteur pourra le laisser se déployer en soi et hors de soi, après soi. Cette
condition est mortifiante. Comment d’ailleurs le donataire pourrait-il renoncer à se prétendre à l’origine du don qu’il transmet
s’il entend prendre la responsabilité de son don second? Ne se
jugera-t-il pas manquant de plénitude par le fait qu’il a été fidèle au don subi mais sans pouvoir en recréer librement l’origine50? Je suis pleinement responsable, mais non pas d’être responsable. De là une condamnation inévitable: ou bien je transmets le don de façon responsable, et donc originaire, mais alors
la liberté spirituelle s’engage totalement et sans rémission, sans recours ni
réserve, sans plus découvrir en soi de capacité de surdéterminer sa propre
action, à l’ultime de ce qu’elle est, elle se voit vouée au nécessaire impossible.
C’est là aussi que, pour l’action éthique, demeure au-delà de l’impossible et
de sa nécessité, l’unique gratuité qui la fonde, celle du pardon” (125).
50 Le problème est bien plus radical que celui du rapport entre le savoir
de ce qu’il y a à faire et la réalisation de ce savoir. A. Chapelle, en s’inspirant
de la nécessité impossible de M. BLONDEL, L’action (1893) (Paris, PUF, 1950,
388), exprime ce rapport de cette manière: “La nécessité éthique fondamentale – énoncée dans la syndérèse – est impresciptible, et elle est symboliquement, historiquement et spirituellement impraticable” (A. CHAPELLE, Les fondements de l’éthique, 125). Notre problème est cependant plus radical: il
s’agit de savoir si la fidélité ne sera pas origine de la faute. Cette manière
inquiétante de poser le problème vient des philosophes du soupçon, dont la
pensée contemporaine ne s’est pas encore libérée vraiment. Il est trop facile
d’affirmer que “l’impossibilité absolue se “réalise tout de même”, car son
absoluité, par son absence de référence, marque la coïncidence de la liberté
avec elle-même dans l’acte où elle se découvre donnée à soi, dans la gratuité
du pardon” (126). C’est que justement, celui qui est donné à soi ne peut
jamais coïncider avec soi.
428
PAUL GILBERT
je commets la faute dont je devrai demander pardon, la faute de
disposer moi-même de l’origine; ou bien je ne transmets pas le
don en en prenant la responsabilité, et je commets de nouveau
la faute, celle de ne pas être conforme à l’origine donatrice, en
arrêtant le mouvement de donation du don. Ce sera une faute
que d’épouser la puissance redondante du don, et encore une
faute que de ne pas y identifier mon action. De toute manière, je
serai condamné, et obligé de vivre dans une déchéance insurmontable.
Le ‘pardon’ ne réussira jamais, comme jamais ne sera apurée la dette qui nous rend autonomes mais dépendants. Tel est le
triste horizon de nos ambivalences. Du point de vue étymologique, le mot ‘pardon’ signifie la perfection du don; nous ne pouvons entrevoir dans cette perfection aucune ombre de faute,
aucun manque; le pardon indique la redondance parfaite du
don. Mais du point de vue du langage commun, le même mot
signale une faute, un manque, une dette impossible à payer. Ce
conflit entre un pardon qui parfait le don et le pardon qui reconnaît avoir trahi le don peut être entendu à la lumière de l’ambivalence de l’expérience intellectuelle; nous avons indiqué plus
haut que l’intelligence, faite pour l’universel, peut si bien restreindre son champ aux concepts qu’elle se désintéresse des réalités multiples et manque de fidélité à son destin; nous reviendrons sur ce manque de droiture de la raison lorsque, bientôt,
nous parlerons de la modernité. Le conflit originaire peut aussi
être interprété en considérant l’engendrement, qui fait être une
liberté qui n’a pas demandé d’être; nous en avons également
parlé déjà. Le conflit peut enfin être saisi de manière encore plus
radicale, si l’on considère que la perfection du don fait voir dans
le pardon la splendeur irradiante de l’origine, et que le pardon
de la faute révèle dans cette même perfection un appel au donataire à s’abandonner en amont (l’origine qu’il n’est pas) et en aval
(vers celui qu’il n’est pas); la distance demeure alors définitive
entre le donateur et la donataire, une distance qui souligne l’irréductible gratuité de l’origine, mais une gratuité qui recèle en
soi la possibilité de la faute.
Un schéma plotinien pourrait éclairer jusqu’à un certain
point ce que nous balbutions ici. D’une part, l’origine excellente
n’est qu’action, abondance de soi, unité qui ne connaît aucune
division s’imposant à elle de l’extérieur, mais une sorte de divi-
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
429
sion quand même puisqu’elle ‘émane’ en se multipliant, en faisant exister les divers. D’autre part, l’émanation peut être comprise comme une perte de l’énergie intérieure qui va jusqu’à
s’abîmer dans la matière. La générosité folle de l’origine se terminerait ainsi dans son contraire, l’action première devenant la
passion dernière. Si dans la matière, à l’opposé de l’‘Un’, il n’y a
plus aucune trace de l’origine, aucun désir de ce qui fait être,
alors l’émanation du don se révèle une tragédie essentielle, une
absurdité. Mais cela n’est pas pensable. De là la conversion plotinienne, l’appel que lance l’origine jusqu’à la matière pour que
l’action s’y poursuive mais selon les modalités d’un retour vers
l’origine et d’un abandon de la terre. Mais en cela-même Plotin
reste lié à l’éternel retour du paganisme grec; il n’y a pas chez lui
de vraie redondance du don, de continuité du don dans la multiplication, de consécration du donnant dans l’‘autre’, le donné.
Le philosophe des Ennéades va du bien au mal, puis du mal au
bien. Aucun don ne peut vraiment béatifier dans cette situation
circulaire.
En registre chrétien, il en va tout autrement. Le temps est
linéaire, et la conversion ne consiste pas à se tourner vers l’origine pour y revenir51, mais à continuer l’oeuvre de l’origine, à se
faire ‘lieutenant’ de l’acte premier, son ‘pardonnant’ authentique
plutôt que son gardien ou son accomplissement une fois pour
toutes52. L’expression ‘redondance du don’ signifie la puissance
recréatrice du pardon, qui n’a rien à voir avec l’oubli du passé,
ni avec l’aveuglement de la conscience qui ne veut pas voir le mal
qui a été réellement fait. La réouverture en soi, par le pardon, de
l’action de l’origine, cette décision à se faire redondance du don
doit être bien comprise. On pourrait y voir une vérité de la
modernité, qui a précisément entrepris d’aller de l’avant, d’agir
51 D’ailleurs, l’origine ne peut pas ne pas être ‘autre’, c’est-à-dire inaccessible de quelque façon. Selon Bruaire, “le mystère de l’origine gardé par
la tache aveugle exclut un savoir originel, une identification d’un auteur ou
donateur, impersonnel ou personnel. Le don qu’est l’être-de-don est référence sans référant. Dans les termes de l’École, notre existence n’implique par
le Deus per se notus, pas plus qu’elle n’enferme une prescience de notre destinée” (C. BRUAIRE, L’être et l’esprit, 90).
52 De là l’unité des deux commandements de l’amour de Dieu et du prochain (Mathieu 22:34-40 et parallèles).
430
PAUL GILBERT
sur le monde pour le faire plus habitable, plus humain, en l’analysant au plus près, en le divisant en une infinités d’unités de
sens, en découvrant des structures intelligibles qui le rendent
plus rationnel et aimable pour la vie. Voilà pourquoi la modernité et la culture du travail sont filles du christianisme53, descendantes du judaïsme et du sens biblique de l’histoire. Pourtant
la modernité n’a pas été fidèle à l’intelligence complète de l’histoire; en effet, le dynamisme du don n’y est pas vraiment compris en fonction d’une démultiplication de soi, mais plutôt au gré
d’une nécessité répétitive de l’identité de l’origine; l’action
actuelle du don n’y est pas entendue à distance respectueuse de
l’origine, en manque d’origine, mais comme l’action originaire
elle-même qui, devenue propulsive et indépendante, suffit à
combler toute distance, toute non-immédiateté théorique de
l’origine. Voilà les modernes aveuglés sur le manque de fondement de la raison en elle-même et sur son indépendance, son
refus d’être en dette, et donc sa faute d’être.
La modernité, qui identifie le ‘don’ au ‘pardon’ et qui s’est
rebellée contre l’origine en devenant indifférente aux valeurs
transcendantes, proclame la victoire prochaine de l’homme sur
ses nombreux drames; elle a voulu nous sauver de nos malheurs
et les couvrir de son savoir bienfaisant. Elle est née sur les
cendres de la sorcellerie et des dernières pestes européennes;
elle a surmonté les guerres de religion54. En même temps que la
science cartésienne et son fondement dans le cogito, surgissait
avec Montaigne une nouvelle exigence de sagesse subjective55,
un nouveau désir d’habiter une terre accueillante. Le drame
d’être était intensément alors présent, et les savants modernes
ont voulu l’affronter avec un sens affiné de leur responsabilité,
Cf. S. NATOLI, I nuovi pagani, Milano, Il Saggiatore, 1995, 99-112:
“Oeconomia salutis. Le metamorfosi dell’idea di salvezza nell’età moderna”.
54 Cf. J. DELUMEAU, Le péché et la peur, Paris, Fayard, 1983; du même
auteur, voir ausi L’aveu et le pardon. Les difficultés de la confession.
XIIIe-XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1990. Signalons en passant que cet ouvrage
part du Concile Latran IV, de 1215, dont les ‘canons’ sur la confession (Denz.Sch. 802, 812-814) ne connaissent pas le mot ‘pardon’; ce qui confirme la
première section de cet article.
55 Cf. S. MANCINI, Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, Milano, FrancoAngeli, 1996.
53
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
431
mais pour le défaire en interprétant l’origine distante ou autre
comme un état maléfique, en écartant donc la mémoire, pour
eux stérile, du manque premier, en ‘pardonnant’ mais sans se
rendre compte qu’ils exerçaient par là la faute d’origine. L’oubli
de la distance, qu’on peut comprendre comme une conséquence
de l’oubli de l’être, a entraîné l’oubli de la raison, ou plus exactement la restriction de l’intelligence à ses prétentions formelles,
à ses calculs manipulateurs. On sait où ont conduit ces appauvrissements de l’humanité. On connaît les vastes programmes
d’un vingtième siècle parfois volontairement déshumanisant56.
Pour sauver la raison d’elle-même, il est essentiel et urgent de lui
rappeler le sens de son origine et du pardon entier, le sens de
l’humilité et de la miséricorde.
Pendant des siècles, l’Église a voulu maintenir ce sens, mais en
s’opposant à la modernité et à ses oublis, en méconnaissant la
vertu de la prévision scientifique et en réaffirmant les droits de la
tradition, en dénigrant les réalisations des savants et en s’attribuant l’exclusivité sacramentelle de la redondance du don. Il est
temps aujourd’hui, il est même essentiel pour sauver ce qui a
émergé dans l’Europe moderne et qui a été bon pour l’humanité,
de considérer l’essence entière de l’homme; la science a une efficacité réelle, une valeur ontologique, bien qu’elle ne soit pas à l’origine du don qu’elle réalise. Il devient indispensable que des
témoins s’attachent à rendre à la raison sa totalité méconnue par
la modernité ignorante de son origine, mais méconnue aussi par
ceux qui ne voyaient pas dans le travail de la science l’oeuvre continuée du don. Encore faut-il montrer la gratuité de l’origine, que la
raison n’absorbe jamais en sa puissance, sinon en devenant inhumaine. Sans doute, serait-ce là ce qu’il appartient aux chrétiens de
dire plus que jamais: la gratuité de l’origine de la raison. Kant avait
peut-être approché cette problématique, mais il ne s’est guère fait
entendre: la pesanteur de ses formes et de son agnosticisme a desservi sa reconnaissance de ce qui anime l’humaine raison57.
56 Cf. J. SOMMET, “La condition inhumaine. Le camp de Dachau” dans
Études, janvier 2000, 115-125, un texte publié une première fois en 1945.
57 Sur cette critique de Kant, voir P. GILBERT (éd.), Au point de départ.
Joseph Maréchal, entre la critique kantienne et l’ontologie thomiste, Bruxelles,
Lessius, 2000.
432
PAUL GILBERT
4. Le temps et la miséricorde
Le pardon modifie de fond en comble le sens de la temporalité. Nous pensons spontanément le temps à partir du présent,
certes, mais en l’étendant en deux directions opposées, le passé
et le futur, qui nient à chaque fois au présent sa plénitude. Or le
poids de notre être ainsi divisé devient plus pesant jour après
jour. Notre passé est un destin dont nous ne réussissons pas à
nous libérer; et nos projets futurs, année après année, s’amenuisent jusqu’à disparaître. Le sens unique du temps est dramatique pour l’individu, jour après jour plus abandonné à l’abîme
de la terre. De ce point de vue, les sciences et leurs projections
modernes apparaissent pathétiques: elles se confient à une
mémoire universelle où l’on ne rencontre plus personne; chacun
doit disparaître pour le bien de tous. Le temps en arrive ainsi par
ne plus rien signifier à moins qu’il ne soit stabilisé dans l’éternité d’une science qui indéfiniment dévore ses serviteurs et fait
rêver nos spécialistes en virtualité. Ce temps intemporel, sans
faute ni dette ni pardon, nous abandonne au drame de nos obscures existences singulières. Tout sens de nos engagements
libres nous est alors enlevé, et nous restons dramatiquement ou
ingénument insensés.
Notre époque, encore fascinée par les sciences, mais en
même temps désillusionnée d’elles, peut toutefois retrouver le
sens du don et du pardon, ce qui pourra éclairer en contre-coup
le sens exact du temps et en corriger les représentations en schémas fixes. Les extases temporelles ne sont pas seulement des distanciations sur la ligne abstraite du temps; le présent en son
‘instant’ (mot qui signifie: ‘qui se trouve en soi’) est riche d’éternité. L’éternité ne suspend pas intemporellement le vol du
temps; elle ne résulte pas de l’absence de différence entre des
moments qui, sur une ligne droite, iraient du passé au futur; elle
n’est autre que le présent dont le pardon exprime le secret. Les
catégories correctes pour penser le ‘temps d’éternité’ ou le poids
infini de l’‘instant’ ne sont pas aisées à trouver et à comprendre.
Elles devraient souligner que l’action présente (l’acte d’être) est
bénie grâce à une passion première. Elles ne proviennent pas de
l’expérience des extases temporelles distendues et de la négation
de ce qui les différencie, c’est-à-dire de leurs limitations, oppositions et solitudes réciproques. Le présent d’éternité, bien que
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
433
l’éternité soit souvent imaginée indéterminée et par là peu désirable, ne l’est pas pour la raison droite. L’argumentation traditionnelle de la voie d’éminence ne peut pas se contenter de
redoubler la voie de la négation par une opération seulement
ultérieure58. L’expérience délivrée par le mot ‘pardon’ éclaire
cette éminence et sa positivité dans le présent d’éternité. La dette
d’être n’est pas perte d’être; elle peut certes se tourner en faute,
et donc en perte, quand l’être en dette profite de son être réel
pour se vouloir sans plus se recevoir, craignant sans doute de
subir un don alors qu’il s’agit d’accueillir la vie. Mais le pardon
demandé à l’‘être’ donnant, et accordé, restaure le donné en sa
vérité et renouvelle miséricordieusement l’être en dette, convertissant son affection, lui faisant prendre conscience que le don
reçu n’est pas à subir mais une grâce, et rouvrant ainsi en lui un
espace pour la redondance infinie du don originaire. L’éternité
est cette redondance.
Comment cela est-il possible? Le pardon donné ne peut être
qu’un don miséricordieux. À cette condition, il ne sera pas subi;
il respectera autrui auquel il se donne, ainsi que l’originalité des
blessures de l’offensé et de l’offensant, sans se distraire du mal
trop réellement vécu par l’un et l’autre, mais en le prenant sur
soi. Se donner la peine de s’unir ainsi à celui qui est dans la
misère, à l’offensant tel qu’il est, voilà le seul pardon raisonnablement possible que l’offensé puisse accorder. Prendre sur soi le
péché du monde. Mais pour libérer ainsi l’offensant, il ne suffit
pas de pactiser avec lui, de s’identifier kénotiquement à lui, car
ce serait là retenir en soi, dès son origine, le don originaire. La
miséricorde kénotique n’est pas une simple identification avec le
pécheur59. La filiation révèle au contraire la générosité de l’origine paternelle et émerveille ceux qui ne sont pas à l’origine
d’eux-mêmes tout en reconnaissant et s’étonnant d’être.
58 On connaît le rythme habituel de cette manière d’analogie: (voie positive:) Dieu est bon; (voie négative:) il n’est pas bon (comme l’homme); (voie
d’éminence:) il est plus que bon.
59 L’hymne aux Philippiens insiste autant sur le renoncement du Fils à
user “de son droit d’être traité comme un dieu” (Phil 2:6) que sur son obéissance en lequel se manifeste le don du Père. “C’est pourquoi Dieu l’a souverainement élevé” (Phil 2:9).
434
PAUL GILBERT
L’amour du Père dans le Fils miséricordieux envers les
pécheurs se fait alors silence plutôt que conseil, communion fraternelle plutôt que jugement savant, don eucharistique plutôt
que réserve, affection engagée plutôt que raison détachée. Le
discours proprement chrétien vient ainsi au secours d’une pensée difficile; il va l’accompagner miséricordieusement. Il indique
qu’un choix ou une option qualifie la dette d’être. La foi chrétienne, antérieure au discours philosophique, a ainsi rendu
celui-ci plus rationnel que jamais, plus vrai que jamais, plus
humain que jamais.
Università Gregoriana
Piazza della Pilotta 4
00187 Roma
ITALY.
PAUL GILBERT SJ
—————
Summary / Resumen
Contemporary philosophy has rediscovered the metaphysical meaning of gift and pardon. The word ‘pardon’ means the perfection of the
gift, which is clearer in the French language: ‘pardon’, ‘don’. The gift
cannot be perfect unless it is handed over or given again, so to speak,
in the same way as it was originally given. But it is impossible to return
to the origin. Hence the meaning of ‘fault’ which accompanies the gift
which is received and which cannot be transmitted in the original manner. This imposes an ambivalent context on the word ‘pardon’: perfection of the gift, and fault. Nonetheless, filiation has a structure which
recreates the meaning of the essential terms of the impossibility of the
perfect gift. The key to this is the idea of blessing.
La filosofía contemporánea volvió a descubrir el significado
metafísico del don y del perdón. ‘Perdón’ significa la perfección del don,
que en lengua francesa aparece más claro: ‘pardon’, ‘don’. El don no
puede ser perfecto a no ser que se entregue o, por así decirlo, se dé otra
vez, tal como se dio originalmente. Pero es imposible volver al origen.
De aquí el significado de ‘falta’ que acompaña al don que es recibido y
que no puede ser trasmitido según la manera original. Esto impone un
contexto ambivalente a la palabra ‘pardon’: perfección del don, y falta.
LE PARDON DANS LA CULTURE CONTEMPORAINE
435
No obstante, filiación tiene una estructura que re-crea el significado de
los términos esenciales dada la imposibilidad del don perfecto. La clave
de esto es la idea de bendición.
—————
The author is Ordinary Professor of Metaphysics at the
Pontifical Gregorian University.
El autor es profesor ordinario de metafisica en la Pontificia
Universidad Gregoriana.
—————
437
StMor 38 (2000) 437-474
MAURIZIO P. FAGGIONI O.F.M.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO
AL PROGETTO UOMO
Lo studio che presentiamo è dedicato all’esame di alcune
sfide che il progresso tecnoscientifico, con i suoi presupposti
riduzionisti, lancia all’antropologia cristiana e, più in generale,
ad ogni antropologia aperta alla dimensione spirituale della persona. Dopo aver definito che cosa si intende per riduzionismo,
seguiremo per grandi arcate la complessa parabola storica del
riduzionismo antropologico, dando quindi particolare attenzione ai riduzionismi che più immediatamente sono riconducibili
all’odierno progresso tecnoscientifico e che in modo più diretto
coinvolgono le premesse del discorso morale. In questa prospettiva vedremo gli attacchi al progetto antropologico integrale che
provengono delle neuroscienze e dalle scienze cognitive, dall’evoluzionismo e dalla genetica, sottolineando infine il profondo
significato che alcuni punti fermi dell’antropologia cristiana
rivestono in ordine alla riconoscimento e alla promozione della
verità e dignità della persona.
1. Che cos’è il riduzionismo
Che cosa accomuna posizioni eterogenee come il rasoio di
Ockham, l’analisi di Condillac, la nosografia del linguaggio
scientifico di Wittgenstein e il comportamentismo di Watson? Il
fatto che, in ogni caso, si tratta di programmi riduzionisti cioè
di strategie finalizzate alla semplificazione del sapere. Il riduzionismo è una forma particolare della relazione di identità, la
relazione – come sostengono MacKay e Searle - “nient’altro che”
o “nientaltrismo”: gli A infatti possono essere ridotti a dei B solo
se gli A non sono altro che dei B1.
1
Cfr. SEARLE J. R., The Rediscovery of the mind, Cambridge 1992 (trad.
438
MAURIZIO P. FAGGIONI
Dal punto di vista logico, la riduzione può essere definita
come la assimilazione di una classe di oggetti a un’altra ovvero
la trasformazione di un certo enunciato in un altro enunciato
equivalente al primo, ma più semplice o più preciso e quindi tale
da rivelare la falsità o la verità dell’enunciato di partenza. Nella
riduzione definitoria, sia concettuale sia proposizionale, gli
enunciati che si riferiscono a un certo tipo di entità possono
essere tradotti senza residui in altre parole o enunciati riferentesi ad entità di altro tipo. Così enunciati relativi ai numeri possono essere tradotti o, se si vuole, ridotti a enunciati relativi ad
insiemi di numeri e, similmente, enunciati relativi alla casalinga
di Voghera possono essere ridotti a enunciati specifici intorno a
quelle donne che a Voghera fanno le casalinghe. Nella riduzione
proposizionale, in particolare, il valore veritativo delle proposizioni stesse resta invariato, mentre si modifica il loro contenuto
semantico. Nella riduzione teorica, una teoria viene ridotta a un
caso particolare di un’altra, dimostrando che le leggi della prima
possono essere dedotte, mediante precise regole di corrispondenza e servendosi di opportuni enunciati passerella, dalle leggi
della seconda2. Un esempio classico è dato dalla riduzione delle
leggi dei gas alle più generali leggi della termodinamica o da
quello più complesso della riduzione della genetica formale alla
genetica molecolare3.
Dal punto di vista epistemologico, il riduzionismo è una strategia di condensazione dell’informazione e di diminuzione della
complessità. Nella sua forma tipica, la riduzione ontologica, il
it. La riscoperta della mente, Torino 1994, 128-130). L’espressione “nothingbuttery theory” si trova in: MACKAY D. M., Information, Mechanism and Mind,
Cambridge (Mass.) 1969.
2 C’è discussione sulle regole di conversione, ma sono usualmente accettate le due condizioni formulate da E. Nagel: la prima è che ogni termine
della teoria ridotta deve essere definito per mezzo dei termini della teoria
riducente e la seconda è che ogni proposizione della teoria ridotta deve poter
essere derivata da un insieme di proposizioni della teoria riducente. Cfr.
NAGEL E., The Meaning of Reduction in the Natural Sciences, in STAUFER R. T.
ed., Science and Civilisation, 1949, 99-138; ID., The Structure of Science, New
York 1961, 345-349.
3 FORNERO G., Riduzione, in ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, Torino
19983, 934.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
439
riduzionismo afferma che “oggetti di determinati tipi non sono
altro che oggetti di altri tipi: ad esempio, che le sedie non sono
altro che collezioni di molecole”4. L’attitudine riduzionista, così
come è espressa da Ockham nella classica regola di economia
(“Entia praeter necessitatem non multiplicanda sunt”), non solo
evita la proliferazione inutile di entità che vengono postulate in
virtù di pure costruzioni logiche o metodologiche, ma soprattutto tende a respingere concetti che si riferiscono a entità inosservabili5. Ogni sistema reale viene quindi considerato come la
semplice risultante aggregativa di un insieme di sottosistemi che
lo compongono e le proprietà e i poteri causali di un ente sono
spiegati riconducendoli alle proprietà e poteri causali di enti più
semplici: per esempio il calore di una sbarra di ferro incandescente non presuppone una vis calorifica, ma dipende dall’energia cinetica media delle molecole che compongono la sbarra
stessa, mentre le conseguenze causali tipiche di un solido, quali
la resistenza alla pressione e l’impenetrabilità, non postulano la
soliditas come entità, ma rimandano ai poteri causali del reticolo in cui si organizzano le molecole di ferro nella sbarra. Una
longa et vexata quaestio, tuttora non risolta in modo soddisfacente, è quella del riduzionismo biologico: mentre i meccanicisti
del passato e i riduzionisti di oggi tendono a ricondurre la vita e
il vivente alle leggi che regolano e spiegano il mondo non vivente, i vitalisti di ogni tempo sostengono che il fenomeno vita è in
sé irriducibile alla realtà inanimata per cui ammettono l’esistenza di leggi proprie dei viventi, non riconducibili pienamente alle
leggi fisico-chimiche6.
Riduzionismo e scienza moderna sembrano fare tutt’uno.
Per la scienza positiva del XIX secolo e ancor più sistematica-
SEARLE J. R., La riscoperta,128.
Questo spiega l’opzione riduzionista di filosofie nativamente antimetafisiche come l’empirismo, il sensismo, il positivismo e il neopositivismo.
6 Nella seconda metà del secolo XX, ad esempio, W. M. Elsasser parlava di speciali “leggi biotoniche” che spiegherebbero i fenomeni biologici in
accordo con le leggi fisiche, ma a queste non riducibili e analogamente M.
Polanyi proponeva per i viventi principi più elevati addizionali alle leggi
della fisica e della chimica. Cfr. ELSASSER W. M., Atom and Organism,
Princeton (NJ) 1966; POLANYI M., Life’s Irreducible Structure, “Science” 160
(1968), 1308-1312.
4
5
440
MAURIZIO P. FAGGIONI
mente per i neopositivisti del XX secolo, il riduzionismo rappresenta una tesi epistemologica cardinale che postula un ordine
gerarchico delle varie discipline scientifiche a partire dalla fisica, considerata prima e fondamentale; alla fisica sono subordinate, in ordine di importanza decrescente, la chimica, la biologia, la psicologia e la sociologia. Tutti i termini ed i concetti di
una qualunque di tali discipline sono traducibili nei termini e
nei concetti di una disciplina più fondamentale, mentre il contrario non è possibile. Nella prospettiva neopositivista di
Carnap, il riduzionismo si propone di operare una discriminazione fra teorie scientifiche e metafisiche, costruendo un linguaggio empirico composto da enunciati protocollari o da osservazioni alle quali sarà riconducibile qualsiasi enunciato scientifico. Questo programma riduzionista presuppone che, al di là
della autonomia metodologica delle diverse discipline, si dia una
autentica omogeneità dei saperi e postula, come esito estremo,
l’unificazione delle scienze nella fisica (fisicalismo). La psicologia potrà essere ridotta alla neurofisiologia, la biologia alla chimica organica, la chimica organica a quella inorganica e questa,
a sua volta, alla fisica, sino a pervenire alla massima unificazione e semplificazione.
Prescindendo dall’opzione antimetafisica e antispiritualista
implicata in diverse espressioni del riduzionismo, la scienza
moderna ha provato l’utilità delle regole di economia, imposte
dal riduzionismo logico, per la formalizzazione e assiomatizzazione delle teorie scientifiche nonché l’enorme potere euristico
del riduzionismo epistemologico. Ma è lecito chiedersi se l’eleganza formale e concettuale della riduzione non esponga al
rischio di giungere a una ipersemplificazione artificiosa dei dati
che sottace e occulta le specificità irriducibili di alcuni fenomeni. Se spesso è utile, infatti, considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un
altro ordine di fenomeni, è questa riduzione sempre possibile e
rispettosa della complessità del reale e dei suoi livelli di emergenza o non rappresenta invece, almeno in alcuni casi, un oggettivo impoverimento del sapere?
La domanda diventa drammatica quando si pensa a impostazioni crudamente riduzioniste applicate per leggere e comprendere una realtà complessa e pluristratificata come quella
rappresentata dal fenomeno umano. Parlando di riduzionismo
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
441
antropologico noi ci riferiremo appunto a tutte le impostazioni
antropologiche che cercano di spiegare la complessità del fenomeno umano riconducendola o, meglio, riducendola a realtà più
semplici e ontologicamente inferiori. La tesi che cercheremo di
illustrare in questo intervento è che il riduzionismo antropologico connesso con il progresso tecnoscientifico contemporaneo
non è nient’altro che una fase della tensione riduzionista ovvero
ipersemplificativa che percorre in qualche modo tutta la storia
del pensiero. O. Wilson, il fondatore della sociobiologia, una
delle espressioni più conturbanti del riduzionismo antropologico, applica a questa tensione il concetto einsteniano di incantesimo ionico7. I filosofi ionici, almeno nella presentazione che ne fa
Aristotele e la dossografia greco-romana, avevano infatti messo
al centro delle loro ricerche filosofiche la questione dell’archè del
reale e c’è chi ravvede in questo tentativo di ricondurre il molteplice ad unum il movente della prima ricerca filosofica e il sogno
segreto di tutto il pensiero filosofico e scientifico occidentale8.
2. L’uomo è un episodio della natura?
La cultura greca accordò all’uomo un indubbio primato fra
tutti gli esseri, come è espresso filosoficamente nel criterio dell’homo mensura del sofista Protagora e poeticamente nell’inno
all’uomo nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle.
Nonostante ciò, la visione antropologica greca rimase sempre fondamentalmente cosmocentrica. Per i Greci l’uomo non è
nient’altro che un episodio, per quanto sublime, della realtà
cosmica e il fenomeno umano può quindi essere adeguatamente compreso applicando a lui lo schema ontologico valevole per
7 WILSON E. O., Consilience, Cambridge (Mass.) 1998 (trad it. L’armonia
meravigliosa. Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza,
Milano 1999, 4-5).
8 Non entriamo nella questione se l’arché degli ionici sia da intendersi
in senso riduzionista moderno e, quindi, si tratti del rimando ad un principio materiale che costituisce come il tessuto portante del reale nella sua
strutturazione o se non si tratti piuttosto della ricerca di un principio metafisico che possa render conto del reale nel suo divenire.
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MAURIZIO P. FAGGIONI
ogni altro ente. Questa realtà cosmica, poi, era concepita in
modo tendenzialmente dualista: esiste nel cosmo una dimensione di opacità, indeterminatezza, disordine e irrazionalità cui si
contrappone la dimensione della razionalità, comunque venga
immaginata, sia essa il platonico Iperuranio delle idee o il Logos
immaginato come Fuoco cosmico dagli Stoici o il Nous aristotelico, e tale istanza della razionalità è apportatrice di ordine e di
intelligibilità, trasformando il Kaos in Kòsmos. L’uomo, perciò,
microcosmo rispetto al macrocosmo, è un frammento nel quale
si specchia l’eterna e tragica tensione fra sensibile ed intelleggibile, fra materia e spirito, fra opacità e chiarezza9.
Questo punto è di capitale importanza per comprendere la
tormentata vicenda dell’antropologia patristica, alla ricerca di
un paradigma antropologico capace di veicolare lo specifico della
visione biblica dell’uomo. Nessuna antropologia presente nell’ambiente filosofico ellenistico riusciva a dar conto pienamente
della singolarità e unicità della persona e perfino il dualismo
antropologico di Platone – a ben guardare – non aveva di mira la
peculiarità ontologica dell’uomo, ma riproponeva nell’uomo il
dualismo cosmico di materia-idee10.
I Padri, pur adottando le categorie ermeneutiche dell’antropologia ellenistica (stoica, peripatetica e soprattutto medio e
neoplatonica), vi immettono alcune prospettive tipiche che essi
derivano dalla Rivelazione biblica e che costituiscono ciò che
potremmo definire le attitudini che qualificano cristianamente
una antropologia. La prima attitudine è la sottolineatura dell’unità dell’uomo che si articola in una irriducibile dualità, espressa tradizionalmente con il binomio, caro alla cultura ellenica, di
anima e di corpo; la seconda è la persuasione, fondata sulla fede
9 Cfr. FAGGIN G., L’anima nel pensiero classico antico, in SCIACCA F. M.
cur., L’anima, Brescia 1954, 29-69.
10 Contrariamente a quanto si sente ripetere di solito, pur ammettendo
il peso innegabile del platonismo nella genesi del pensiero antropologico cristiano, non si è mai avuto in senso rigoroso un Plato christianus, come dimostra la revisione della letteratura specialistica compiuta da MADEC G.,
Platonisme des Pères, in Catholicisme, Paris 1988, vol. 11, 491-507; dopo quelle di ARNOU R., Platonisme des Pères, in Dictionnaire de Théologie Catholique,
vol. 12/2, coll. 2258-2392 e di IVÀNKA E. V., Plato christianus, Einsiedeln 1964.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
443
in Dio Creatore, della nativa bontà e positività della materia e
quindi della carne; la terza è l’orientamento teologico e non
cosmologico dell’antropologia, espresso attraverso la categoria
biblica dell’imago Dei. Affermare che l’uomo, ogni uomo e tutto
l’uomo, nella sua unità psicosomatica, è uscito dalle mani di Dio
per portare a compimento la divina immagine del Figlio su cui
è stato esemplato, significa oltrepassare d’un balzo le angustie
dell’antropologia greca, nonostante l’uso di categorie filosofiche
greche e il permanere di fraintendimenti e contaminazioni11.
“Non è a partire dal mondo delle idee – scrive Italo Fornaro –
che la realtà viene compresa, ma attraverso il riconoscimento
della realtà in se stessa. È una visione delle cose che parte dalla
forza rivelatrice della carne di Cristo, è in questa visione – che è
cammino dell’uomo verso Cristo – che appare la nostra somiglianza divina”12.
Un ruolo chiave nello sviluppo della antropologia cristiana
occidentale fu svolto da sant’Agostino nel quale confluiscono,
talora senza riuscire a comporsi armoniosamente, le tensioni e
le conquiste di una plurisecolare e delicata riflessione antropologica13. Agostino prende una posizione netta contro la concezione ciclica del tempo propria della cultura greca e sottrae così
l’uomo dalla fatale necessità cosmica; in polemica con i
Manichei, purifica progressivamente il suo pensiero da influenze dualistiche di tipo cosmologico e guadagna una giusta valutazione della bontà della creatura materiale; approfondendo il
tema biblico dell’imago in prospettica cristologica, egli non
interpreta più l’uomo a partire dal cosmo, ma il cosmo a partire
dall’uomo, creato ad immagine del Creatore.
11 La stessa categoria di imago Dei, così ricca di risonanze bibliche, si
intreccia con l’analoga categoria neoplatonica senza tuttavia confondersi
con essa. Cfr. BALTHASAR H. U., Herrlichkeit, II/1, Einsiedeln 1962, 45-74
(trad. it. Gloria, vol. 2, Milano 1971, 43-77); PÉPIN J., Idées greques sur l’homme et sur Dieu, Paris 1971 (soprattutto chap. 6, Le Ier Alcibiade et les Auteurs
Chrétiens).
12 FORNARO I., La teologia dell’immagine nella Glossa di Alessandro
d’Hales, Vicenza 1985, 29-30.
13 Cfr. VAN BAVEL J., The Antropology of Augustine, “Louvain Studies” 5
(1974), 34-47; SCIACCA M. F., Il composto umano nella filosofia di sant’Agostino, “Studia Patavina” 1 (1954), 211-226.
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MAURIZIO P. FAGGIONI
Il cammino di abbandono del cosmocentrismo antropologico, anche se all’interno di una cosmologia dualista, giunge a
compimento con l’antropologia tomista che, per superare le
aporie e i residui dualismi del modello antropologico platonicoagostiniano, opera un recupero sapiente dell’ilemorfismo aristotelico. L’ilemorfismo era stato rifiutato dalla maggioranza dei
Padri perché, equiparando l’anima umana all’entelècheia di qualunque altro corpo organico, evidenziava bensì l’unita dell’uomo, ma faceva dell’anima quasi un aspetto del corpo e sembrava oscurare la radicale dualità dell’uomo, rendendo altresì problematico spiegare la sopravvivenza personale dell’uomo al di là
delle soglie della morte14. In effetti anima e corpo, nella concezione aristotelica, non sono due esseri, ma due aspetti di un
medesimo composto vivente, sono funzioni del tutto (sinolo) e
san Tommaso, pur riprendendo l’interpretazione ilemorfica del
composto umano, per non smarrire la singolarità ontologica
della persona, vi introdurrà innovazioni di grande portata teoretica15.
Prima di tutto egli rifiuta la teoria della materia spirituale
con la quale i dottori coevi spiegavano la sostanzialità ed insieme
la contingenza dell’anima umana e degli angeli, perché può sostituirvi, nel quadro della sua metafisica, la categoria di potenza.
L’anima umana è sostanza perché composta di essenza (che è la
14 La più acuta critica patristica ad Aristotele è contenuta nel De natura
hominis di Nemesio di Emesa, che, tradotta in latino nell’XI secolo da Alfano
e poi da Burgundio da Pisa e ritenuta opera di Gregorio di Nissa, ebbe un
peso incalcolabile sulla genesi dell’antropologia scolastica. Cfr. SICLARI A.,
L’antropologia di Nemesio di Emesa, Padova 1974. Non mancano Autori
moderni che propendono per un’interpretazione dualista anche del pensiero
aristotelico maturo: HEINEMAN R., Aristotle on the Mind Body Problem,
“Phronesis” 1990 (35), 83-102; SHIELDS C., Soul and Body in Aristotle, “Oxford
Studies in Ancient Philosophy” 6 (1988), 103-137.
15 GILSON E., Elements of Christian Philosophy, New York 1960 (trad. it.
Elementi di filosofia cristiana, Milano 1964, 297-323); LOBATO A. cur., L’anima
nell’antropologia di S. Tommaso, Milano 1987; VANNI-ROVIGHI S.,
L’antropologia filosofica di S. Tommaso d’Aquino, Milano 1965; VERBEKE G.,
L’unité de l’homme: St. Thomas contre Averroé, “Revue Philosophique de
Louvain” 58 (1960), 220-249; WEBER E. H., L’homme en discussion à
l’Université de Paris en 1270. La controverse de 1270 à l’Université de Paris et
son retentissement sur la pensée de St.Thomas d’Aquin, Paris 1970.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
445
sua natura di forma spirituale) e di actus essendi; essenza ed esse
stanno fra loro nel rapporto di potenza e di atto, come in ogni
sostanza finita che riceve l’esse mediante l’opera creatrice di Dio.
Perciò nel dilemma fra anima come sostanza intellettuale e
anima forma del corpo, egli non sceglie, ma dà una soluzione che
supera i termini dell’antitesi dicendo che l’anima è forma del
corpo non malgrado sia una sostanza, ma proprio perché è una
sostanza intellettuale. In questo modo, prendendo posizione contro la definizione di Nemesio (che egli crede essere di san
Gregorio di Nissa), Tommaso può negare, in nome dell’ilemorfismo, che il nesso fra anima e corpo sia la composizione accidentale fra due sostanze complete. Il composto umano, come ogni
altra sostanza, deriva l’actus essendi dalla sua forma, che per l’uomo è una sostanza spirituale, a sua volta attuata da un atto di
essere. In altre parole, l’anima partecipa il proprio essere al corpo
o, meglio, riceve il corpo nella comunione del suo stesso atto di
essere. L’anima, in quanto forma sostanziale, non viene ad informare un corpo di per sé individuato, perché, essendo una forma
in senso proprio, essa è destinata ad informare non un determinato corpo, ma la materia prima. “Così si afferma – spiega Karl
Rahner - che ciò che noi chiamiamo corpo non è altro che l’attualità dell’anima stessa nell’altro della materia prima, l’alterità
autooperata dell’anima stessa, come sua espressione e simbolo”16. In tal modo viene salvaguardata sia la originalità ontologica del composto umano rispetto ad ogni modalità di esistenza
creata, sia l’unità del composto umano, che risulta attuato da un
unico atto di essere, sia infine l’immortalità dell’anima, vale a
dire l’eccedenza ontologica della persona rispetto alla corruttibilità legata alla mondanità e alla temporalità.
Questa immortalità dell’anima umana che in Aristotele, a
rigore, non è pensabile e che infatti sarà per secoli al centro di
una lunga disputa interpretativa, in Tommaso, invece, risulta
perfettamente giustificata: l’anima umana, infatti, non solo possiede un proprio atto di essere, ma essendo una sostanza intel-
16 RAHNER K., Zur Theologie des Symbols, in Schriften zur Theologie/4,
Einsiedeln 1960, 305 (trad. nostra).
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lettuale e non materiale, essa risulta non composta di parti e
quindi è anche incorruttibile17.
Sia ben chiaro che - come nota Gilson - “non c’è nulla di aristotelico nella nozione di una sostanza spirituale composta di
potenza ed atto, cioè di essenza ed esistenza. E, invero, nella filosofia di Aristotele una forma deve essere una forma materiale,
corruttibile come la sostanza materiale stessa, oppure deve essere una sostanza separata, quali sono gli angeli nella teologia di
Tommaso d’Aquino. Non vi è posto nell’aristotelismo, per una
forma intellettuale che sia contemporaneamente, la forma di un
corpo, ed una sostanza spirituale”18. Ha ben ragione Giovanni
Duns Scoto (1263-1308) a criticare la lettura tomista di
Aristotele e certamente l’antropologia elaborata in chiave averroista da Pietro Pomponazzi (1462-1525) è più sintonica con
l’ontologia peripatetica di quella dell’Aquinate19. Questa rilettura
audace e sottilmente infedele del verbo peripatetico compiuta da
Tommaso rivela la profonda persuasione cristiana dell’irriducibilità dell’uomo ad ogni altro ente creato, al punto da sacrificare la coerenza estetica del sistema alla salvaguardia della verità
del mistero umano.
Con l’autunno del medioevo entra in crisi la grandiosa sintesi scolastica e questa crisi è legata emblematicamente alla
17 Particolarmente lucida la dimostrazione che se ne dà in Summa contra Gentiles, lib. 2, cap. 39, §2. Cfr. JOLIF J. Y., Affirmation rationelle de l’immortalité de l’âme chez saint Thomas, “Lumière de Vie” 4 (1955), 59-78;
VANNI-ROVIGHI S., La concezione tomista dell’anima umana, “Sapientia” 10
(1957), 347-359.
18 GILSON E., Elementi, 304. Si veda la diversa lettura del problema offerta in: NEGRO G., Soul and Corporeal Dimension in the Aristotelian Conception
of Immortality, “Gregorianum” 79 (1998), 719-742. Uno status quaestionis in:
NUSSBAUM M. C., RORTY A. O. eds, Essays on Aristotle’s De Anima, Oxford 1992.
19 Duns Scoto, vista la diversa nozione che egli ha di essentia rispetto a
Tommaso, sosteneva con maggior ragione che l’immortalità dell’anima è una
verità di fede che la ragione può giungere conoscere, ma che la ragione
potrebbe altrettanto bene negare, come di fatto è accaduto nello svolgimento del pensiero filosofico. Anche alcuni tomisti inconcussi della Seconda
Scolastica, come il cardinal Caietano, inclineranno per la non dimostrabilità
razionale dell’immortalità dell’anima. Cfr. VERGA E., L’immortalità dell’anima
nel pensiero del cardinal Gaetano, “Rivista di Filosofia Neo-scolastica” 47
(1935), 21-46.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
447
regola di parsimonia nota come rasoio di Ockham. La modernità, a partire dalla crisi nominalista del pensiero metafisico
medievale, si caratterizza per una forte accentuazione naturalista, intendendo con questa categoria generica tutta una serie di
filosofie che non riconoscono l’esistenza di nessun altra realtà se
non quella naturale20. È l’esito prevedibile di un pensiero che
nasce dal desiderio di emanciparsi dall’egemonia teologica e
che, più o meno consapevolmente, si sta muovendo verso la
secolarizzazione. L’eliminazione di Dio dall’orizzonte ideale
conduce inevitabilmente a rifluire verso forme di cosmocentrismo o meglio, come si diceva, forme di naturalismo. Il pensiero
cristiano patristico e medievale aveva cercato di superare il
cosmocentrismo tendenzialmente dualista dei Greci elaborando
una antropologia teocentrata, ma la modernità tornerà a un
nuovo cosmocentrismo, questa volta tendenzialmente meccanicista, e così, nonostante le pretese antropocentriche dell’umanesimo laico, si assiste a una progressiva deriva antropologica che
conduce poco a poco l’uomo a essere riassorbito nella natura
onnivora e onnipotente. Solo sbilanciandosi oltre il proprio baricentro terrestre, infatti, l’uomo può fondare e argomentare la
sua diversità ed eccedenza rispetto agli oggetti della natura.
Il segnale di questa deriva antropologica fu dato dal crollo
della cosmologia classica. Già Tycho Brahe (1546-1601) aveva
dimostrato che l’insolito spettacolo apparso nei cieli europei nel
1572, l’esplosione di una nova, non era un fenomeno sublunare,
ma si collocava in quello che era ritenuto il cielo delle stelle fisse,
notoriamente esente da ogni forma di generazione e di corruzione. Qualche anno più tardi, Galileo Galilei (1564-1642), con i
suoi studi sul sistema solare, sulle fasi lunari, sulle macchie solari, sui satelliti gioviani, dimostrò con prove evidenti che la tesi
peripatetica sulla incorruttibilità del mondo sopralunare era
insostenibile. Ma se non esisteva un dualismo cosmico fra
mondo sublunare, il mondo umano segnato dalla instabilità,
dalla variabilità e dalla corruttibilità, e mondo sopralunare, ete-
20 Nel naturalismo moderno si individua un filone materialista-meccanicista che va da D. Hume sino ai neoempiristi, ed un filone panteistico-vitalista, che va dalla triade rinascimentale di Telesio, Bruno, Campanella ai
romatici Schelling e Goethe.
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reo e incorruttibile, allora come spiegare l’articolazione di corruttibilità e incorruttibilità presente nell’uomo?
Le conseguenze antropologiche di questa rivoluzione culturale furono colte appieno da R. Descartes (1590-1650) il quale
compì l’estremo tentativo di salvare la spiritualità dell’uomo,
introducendo nell’uomo stesso la dualità che scompariva dall’universo meccanicistico della scienza nuova. Descartes – annota
con acutezza Pietro Prini – trasferì “alla res cogitans, allo spirito
… gli antichi privilegi dei corpi astrali o almeno l’essenziale
separazione gerarchica che li contrapponeva ai corpi del mondo
sublunare. L’uomo, in quanto res extensa, fa parte della fisica ed è dunque anch’esso una macchina - ne è invece sottratto in
quanto spirito, che è dotato di tale libertà di iniziativa che ‘noi
agiamo in modo da non sentire alcuna forza esteriore che vi ci
costringa’, ed è così chiaramente distinto dal corpo da poter esistere senza di esso”21.
In un universo che la modernità concepisce monisticamente, l’esistenza di un essere concepito dualisticamente è paradossale. Il corpo umano è, come il corpo di ogni altro vivente, un
automa stupefacente, ma nell’automa umano alberga la res cogitans, la cui esistenza può essere provata rigorosamente e scientificamente attraverso gli atti intellettivi e volitivi, la libertà e la
parola che sono segno della specificità umana22. L’uomo cartesiano vive in se stesso l’inconciliabile dualismo fra il suo corpo
studiato dalla scienza ed il suo spirito che, rivelato dagli atti a lui
propri, nella sua ultima realtà sfugge tuttavia alle maglie del
metodo sperimentale, oggetto e soggetto insieme. Si tratta di un
dualismo estremo e dagli accenti altamente drammatici: se per
Platone il dualismo apriva una via sicura alla conoscenza della
verità, per Cartesio il dualismo rende contraddittoria l’esigenza
21 PRINI P., Il problema dell’antropologia oggi, in AAVV, Il problema dell’antropologia, Padova 1980, 16.
22 DESCARTES R., Traité de l’homme (1664), in Oeuvres et lettres de
Descartes, Paris 1952, 808-873 (trad. it. L’uomo, in Opere scientifiche, vol. 1.
La biologia, Torino 1966, 57-154). Sul meccanicismo cartesiano, vedere:
BONICALZI F., Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, Milano
1987.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
449
iniziale di pervenire ad una conoscenza spirituale, e quindi certa
ed evidente, del mondo materiale, il quale, come insegna la
scienza, può essere percepito solo dai sensi23.
Il superamento delle difficoltà del dualismo cartesiano sarà
tentato lungo le due vie opposte dello spirito e della materia.
Dopo il cartesianesimo, le antropologie che si sono avvicendate
alla ribalta del pensiero, nel tentativo di risolvere e comporre la
tragica aporia, sono oscillate fra l’oggettività e la soggettività, fra
dato e coscienza, fra interiorità ed esteriorità, come un pendolo
che con moti isocroni si porta da un capo all’altro del suo percorso. Esula dai nostri intendimenti tracciare una mappa sia pur
schematica delle correnti antropologiche che si sono succedute
e sovrapposte nel tumultuoso e convulso itinerario filosofico
della modernità, ma è possibile cogliere alcune tendenze di
fondo, riconducibili al tentativo di superamento del dualismo
per ricomporre in unità l’uomo disgregato.
Secondo Virgilio Melchiorre si deve considerare “anzitutto il
superamento assoluto della dualità, intendendo con questo l’identificazione di uno dei due termini - corpo o spirito - con l’altro. Semplificando e con tutti i pericoli della semplificazione,
possiamo tuttavia dire che il superamento assoluto si offre
secondo due chiavi interpretative: o dalla parte dell’anima (idealismo) o dalla parte del corpo (materialismo)”24. Poi, dalla fine
dell’800, esauritisi tanto il dualismo assoluto quanto il suo superamento spiritualista e idealista, si è imposto sempre più un
monismo riduzionista di tipo materialista che, rafforzato dalla
sua accoglienza trionfale nel campo scientifico, ha segnato la
concezione contemporanea dell’uomo e quindi l’intero quadro
della nostra cultura. Questo profonda trasformazione antropologica è legata ad una serie di fattori che sarebbe lungo esaminare, ma non ultimo l’alienazione dell’uomo dalla sua umanità
integrale, il primato dell’avere, del conquistare e del dominare
rispetto all’essere, al contemplare, all’ammirare, la contrapposizione dei valori materiali e tecnici come più efficaci e produttivi
rispetto ai valori spirituali.
Cfr. PETROSINO S., L’io, il corpo e l’origine nel dibattito filosofico contemporaneo, “Communio” 54 (1980), 70-74.
24 MELCHIORRE V., Il corpo, Brescia 1984, 46-47.
23
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Per risolvere la disgregazione schizofrenica dell’uomo dualista, il pensiero moderno maturo elimina quindi uno dei due termini del bipolo e riduce l’uomo alla sola dimensione corporea.
L’uomo era convinto di essere il vertice e il centro dell’universo,
era convinto di essere stato creato direttamente da Dio nell’anima e nel corpo, era sicuro di possedere - lui solo rispetto a tutti
i viventi - un principio spirituale che lo accomunava con il
mondo di Dio, ma la scienza moderna - si dice - ha smascherato le false pretese dell’uomo di essere diverso e più dagli altri animali ed ha ferito per sempre il suo puerile narcisismo. L’uomo,
che l’antropologia cristiana teocentrica aveva liberato dalla
schiavitù della necessità cosmologica, rientra così nell’ordo universi, come episodio accidentale e fortuito della storia del
cosmo. La neurobiologia, l’etologia, il comportamentismo, la
sociobiologia rappresentano oggi l’espressione dello scientismo
riduzionista nella sua forma più raffinata e l’eliminazione più
radicale della multidimensionalità antropologica che era stata
espressa dagli Antichi con la coppia anima-corpo.
3. Le grandi sfide provenienti dal progresso tecnoscientifico
Dopo aver lumeggiato con rapidissime pennellate la complessa parabola del riduzionismo antropologico nella sua perenne tensione cosmocentrica, sullo sfondo di questo variegato contesto, vedremo alcune delle grandi sfide del riduzionismo tecnoscientifico contemporaneo al progetto umano integrale.
3.1 La sfida delle neuroscienze
Una delle sfide più durature e gravi alla comprensione adeguata del progetto umano è venuta dallo studio del cervello.
Le premesse erano già tutte nel positivismo ottocentesco, ed
in particolare nel metodo e nelle teorie fisiologiche elaborati da
C. Bernard (1813-1878)25. Con Bernard giunse a maturità una
25 BERNARD C., Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, Paris
1865. Cfr. FEDERSPIL G., SCANDELLARI C., L’evoluzione storica della metodolo-
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
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concezione fisicista dell’uomo, che si ricollegava non solo all’empirismo materialista di Hume e di Locke, ai sensisti francesi e a
tutta la biologia meccanicista sei e settecentesca emblematicamente rappresentata dall’Homme-machine di J. Offroy de La
Mettrie (1709-1751), ma ultimamente risaliva allo stesso
Cartesio che, nell’ambito della sua antropologia dualista, aveva
paragonato il corpo animale, incluso il corpo umano, ad una
macchina biologica. Tenacemente avversi all’ammissione di una
consistenza extrafisica dei contenuti mentali, gli scienziati positivisti professeranno un materialismo dogmatico acritico e insieme tragico. Lo zoologo Karl Vogt (1817-1895) formulerà in questo senso uno degli assiomi più crudi che esprimono il clima del
tempo: “Il pensiero è secrezione del cervello come la bile è secrezione del fegato”.
Su uno sfondo meccanicista, alquanto meno ingenuo e
metodologicamnte molto raffinato, si muove anche la psicologia
fisiologica di J. Wundt (1832-1920), secondo il quale i processi
mentali superiori non possono diventare oggetto di ricerca rigorosa, ma viene assunta a oggetto principale di studio la coscienza esaminata attraverso l’introspezione elementistica. Il dualismo in certo qual modo presente nella proposta di Wundt è del
tutto superato da una delle risposte più rigorosamente riduzioniste, in senso materialista, al problema del rapporto fra meccanismi neurologici e mente, quella dei comportamentisti o behavioristi. L’ipotesi emessa da J. Watson negli anni ’20 è che il
comportamento umano non ha cause mentali, dal momento che
il comportamento osservabile di un organismo, incluso l’organismo umano, dipende dalle risposte osservabili a determinati stimoli: le cause del comportamento stanno negli stimoli e non in
un preteso mondo della mente. Ricollegandosi idealmente a
queste posizioni, Skinner più tardi sviluppò una psicologia il cui
ruolo è quello di catalogare le leggi che determinano relazioni
casuali fra stimoli e risposte. Le asserzioni psicologiche del tipo
“ho sete” significano, cioè “stanno per”, comportamenti e dispo-
gia in medicina, in “Federazione Medica” 44 (1991), 481-490; GRMEK, M. D.,
Raisonnement expérimentale et recherches toxicologiques chez Claude
Bernard, Paris-Genève 1973 (trad. it. Psicologia ed epistemologia nella ricerca
scientifica. Claude Bernard: le sue ricerche tossicologiche, Milano 1976).
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sizioni al comportamento.“Ho sete” significa quindi “Se ci fosse
acqua da bere, la berrei”.
Ai nostri giorni, venendo a contatto con l’incredibile sviluppo delle neuroscienze, l’eterno problema anima-corpo ha assunto la forma del dilemma mente-cervello. Pare essere un’evidenza
che esistono contenuti mentali, che esistono la creatività e la
fantasia, che esiste la capacità di elaborare le idee e di produrre
simboli, ma non è chiaro che rapporto intercorra fra lo psichico
e il neurologico. Una impostazione alquanto diffusa fra i cultori
delle neuroscienze, di cui si è fatto influente interprete J.-P.
Changeux con L’homme neuronal26, tende non solo a ridurre lo
spirituale al mentale o allo psichico, ma cerca di ridurre ulteriormente il mentale al neurologico. Secondo la lettura materialista della vita psichica, il mentale non è distinto dal fisico e tutti
gli stati, le proprietà, i processi e le operazioni mentali sono
identici, in linea di principio, a stati, proprietà, processi e operazioni fisiche. La teoria dell’identità ha due principali declinazioni: la identità di tipo, per cui ad ogni evento mentale corrisponde un ben determinato evento cerebrale, e la identità di
occorrenza, per cui ogni evento mentale è identico a un evento
cerebrale, anche se non è possibile ridurre la tassonomia della
psicologia a quella della neurologia. Una lettura ancora più
estrema nega che esistano realtà ed eventi mentali e che quindi
il linguaggio che si riferisce ad essi è semanticamente vuoto o, al
massimo, costituisce uno strumento utile per interpretare noi e
gli altri, pur non designando alcuna realtà sussistente27.
Lo studio della memoria, dei centri della parola, della visione, degli stati emotivi compiuti attraverso la Risonanza magnetica, la Tomografia emissione di positroni e altre metodiche di
brain imaging che permettono di seguire in diretta il funzionamento di determinate aree cerebrali in relazioni con specifiche
operazioni mentali, sembra confermare una precisa localizza-
CHANGEUX J.-P., L’homme neuronal, Paris 1983 (trad. it. L’uomo neuronale, Milano 1983).
27 Cfr. CHURCHLAND P.M., Matter of Conscioussness. A Contemporary
Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge (Mass) 1984; CHURCHLAND
P. S., Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind-Brain,
Cambridge (Mass) 1986.
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zione cerebrale di eventi psichici quali memoria, volizione, intellezione, emozioni, elaborazione delle sensazioni. La corrispondenza fra precisi stati mentali e modificazioni funzionali di alcuni gruppi neuronali o di intere aree cerebrali conferma la precomprensione riduzionistica che il mentale altro non sia che un
modo per indicare l’effetto delle funzioni neurofisiologiche28.
Contro coloro che, come il filosofo D. Chalmers29, parlano
del rapporto mente-cervello come di hard problem e postulano
una irriducibilità della mente a qualcos’altro, allo stesso modo
che sono irriducibili le categorie di spazio e di tempo, D.
Dennett sostiene che, una volta risolto i soft problems, gli aspetti strutturali e funzionali del cervello, avremo risolto anche il
problema della coscienza30.
Le scoperte sui neuromediatori e sui neuromodulatori del
sistema nervoso centrale, gli effetti sul comportamento e sul
tono dell’umore di svariate sostanze psicotrope, gli stessi successi della psiconeurofarmacologia su patologie mentali, finora
ribelli a qualsiasi trattamento psicoterapico, convergono a confermare una interpretazione organicista della vita psichica. La
stessa medicina psicosomatica sembra aver riscoperto l’unità
pluristratificata del composto umano, ma, a ben guardare essa
non è altro che una variante del generale riduzionismo, perché
riduce la persona all’integrazione di soma e di psiche, intendendo per psiche la somma dei contenuti mentali consci e inconsci
e non certo il principio immateriale dell’esistenza umana.
Si potrebbe obiettare che le modificazioni neurobiologiche
accadono semplicemente in occasione e per effetto dei processi
mentali, ma, con rigorosa applicazione del rasoio riduzionista, A.
Damasio risponde che “i processi biologici che sembrano semplicemente corrispondere a processi mentali, in realtà sono i pro-
28 Si veda, in questo senso: CRICK F., The Astonishing Hypothesis. The
Scientific Search for the Soul, New York 1994 (trad. it. La scienza e l’anima,
Milano 1994).
29 CHALMERS D. J., The Puzzle of Conscious Experience, “Scientific
American” 273 (1995), 80-86.
30 DENNETT D., Consciousness Explained, London 1991 (trad. it.
Coscienza. Che cosa è, Milano 1993); ID., Kinds of Minds (trad. it. La mente e
le menti. Verso una comprensione della coscienza, Milano1997).
454
MAURIZIO P. FAGGIONI
cessi mentali: non sto negando – egli continua – l’esistenza della
mente o affermando che, quando avremo conosciuto tutto ciò che
occorre sapere sulla biologia, la mente cesserà di esistere. Penso
semplicemente che la mente, sebbene preziosa e unica, sia un’entità biologica, che deve essere descritta in termini biologici”31.
Una risposta all’antimentalismo che caratterizza molte teorie psicologiche e comportamentali a sfondo neurofisiologico è
data dalle sempre risorgenti teorie dualiste. Secondo l’impostazione dualista, la mente non è riducibile al cervello, ma è una
sostanza non fisica, tradizionalmente detta spirito o anima.
Esistono diverse versioni del dualismo fra le quali il dualismo
emergentista, come quello di K. R. Popper, e il dualismo interazionista neo-cartesiano, come quello di J. C. Eccles32. Si tratta di
posizioni molto variegate e complesse che qui non possiamo
certo esaminare in dettaglio, ma contro le quali vengono sollevate due principali difficoltà: se la mente è qualcosa di non fisico, ne segue che non occupa una posizione nello spazio fisico e
allora riesce difficile capire come una causa non fisica possa
dare un effetto comportamentale che ha come via d’uscita una
alterazione fisica; in secondo luogo ci si chiede come il non fisico possa dar luogo ad un effetto fisico senza violare le leggi di
conservazione della massa, dell’energia e della quantità di moto,
senza cioè che si abbia una produzione di energia ex nihilo.
La risposta del neurobiologo J. C. Eccles e del fisico R.
Penrose è che, all’interno dei microtubuli dei neuroni, i moti
molecolari implicati nell’attività neuronale devono essere immaginati come soggetti alla meccanica quantistica e non a quella
classica33. In altre parole, l’attività neuronale non risponde al
determinismo della fisica classica, ma all’indeterminismo della
DAMASIO A. R., Mente, coscienza e cervello, “Le Scienze” 63 (1999), 101.
ECCLES J. C., POPPER K. R., The Self and its Brain, Berlin- New York
1977 (trad. it. L’io e il suo cervello, Roma 1981; ECCLES J. C., Evolution of the
Brain. Creation of the Self, Routledge-London-New York 1989 (trad. it.
Evoluzione del cervello e creazione dell’io, Roma 1990).
33 PENROSE R., The Emperor’s New Mind.. Concerning Computers, Minds,
and the Laws of Physics, Oxford 1989 (trad. it. La mente nuova dell’imperatore, Milano 1992); ID., Shadows for the Mind. An Approach to the Missing
Science of Conscioussness, Oxford 1994 (trad. it. Ombre della mente. Alla
ricerca della coscienza, Milano 1996).
31
32
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
455
fisica quantistica. Benché non sembri plausibile cercare di spiegare l’obscurum per obscurius, tuttavia è affascinante pensare
che la libertà e la creatività della persona potrebbero essere
riconnesse al principio di indeterminazione.
3.2 La sfida delle scienze cognitive
L’antimentalismo ha dominato quasi incontrastato la scena
antropologica sino a tutti gli anni ’60 ed i suoi echi si possono
rintracciare in molti dei più influenti autori e movimenti filosofici, dall’empirismo logico, a Quine a Ryle, al secondo
Wittgenstein. Lo sviluppo delle scienze cognitive negli anni ’70
segna una svolta nella comprensione del rapporto mente-cervello e un deciso superamento delle posizioni dei comportamentisti, al punto che tale che i cognitivisti, pur non essendo dualisti,
si autodefinirono provocatoriamente mentalisti. Le scienze
cognitive partono da quella che è l’architettura interna dei processi cognitivi e, per farlo, ricorrono a modelli computazionali
nella presunzione che la mente umana funzioni come una elaboratrice attiva delle informazioni che le giungono tramite gli
organi sensoriali, in analogia con i servo-mecanismi di tipo
cibernetico.
Secondo la versione classica del funzionalismo computazionale, introdotta da Hilary Putnam, gli stati o i processi mentali
sarebbero identici a stati o processi computazionali della mentecervello, ovvero, con una metafora, la mente è il software che
gira nel nostro hardware cerebrale34. Ai nostri giorni lo studio
delle reti neurali sta producendo in questo campo notevoli sviluppi ed evoluzioni, con un continuo rinvio dall’intelligenza
naturale a quella artificiale e viceversa. Dall’interpretazione del
cervello che come un sistema di interconnessioni gerarchizzate
e distribuite in parallelo è scaturita la progettazione di computer a imitazione delle reti neurali e quindi dotati di flessibilità di
fronte a situazioni nuove e di capacità di apprendimento, anche
34 PUTNAM H., Minds and Machines, in HOOK S. ed., Dimensions of Mind,
New York 1960.
456
MAURIZIO P. FAGGIONI
se tuttora più primitivi del più elementare sistema nervoso animale35.
Se la mente pensante può essere compresa adeguatamente
in termini computazionali, allora si può teorizzare che un computer potrà, presto o tardi, simulare le prestazioni dell’intelligenza umana. È ovvio, infatti, che, se il soggetto pensante funziona come una macchina si può ipotizzare che una macchina
opportunamente progettata possa giungere a sviluppare un pensiero analogo a quello umano. A ben guardare, la questione è
tuttavia più complessa di quanto non vorrebbero accettare i
nostri sogni sull’intelligenza artificiale: prima di tutto noi non
sappiamo esattamente che cosa significhi essere intelligenti e
pensare, ma certo il pensare umano non può essere ridotto allo
svolgimento di compiti per quanto impegnativi essi siano. Il soggetto che pensa – a meno di non far ricorso all’homunculus ovvero dello spirito nella macchina (ghost in the machine) dei dualismi ingenui36 – non raggiunge l’autocoscienza, la percezione
della propria soggettività a prescindere dal suo corpo, dalle sue
sensazioni, dalle sue emozioni.
Secondo la ipotesi riduzionista difesa da A. R. Damasio e G.
M. Edelman, il fondamento biologico del senso del Sé può essere
rinvenuto nei meccanismi cerebrali che rappresentano, istante
dopo istante, la continuità di uno stesso organismo. Damasio, in
particolare, ritiene che il cervello sia capace non solo di rappresentarsi il mondo esterno e di ricavarne mappe, ma anche di autorappresentare l’organismo cui esso appartiene e che interagisce
con il mondo esterno. Il cervello è in grado di produrre elabora-
35 CHURCHLAND P., SEJNOWSKI T. R., The Computational Brain. Models and
Methods on the Frontiers of Computational Neuroscience, Cambridge (Mass)
1992 (trad. it. Il cervello computazionale, Bologna 1995); EDELMAN G. M.,
Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, New York 1987
(trad. it. Darwinismo neurale: la teoria della selezione dei gruppi neurali,
Torino 1995).
36 Il problema del Sé viene tradizionalmente risolto postulando l’esistenza di un homunculus pensante che sarebbe il soggetto ultimo dell’autocoscienza, ma questo sposta il problema dal cervello all’homunculus. Cfr.
DAMASIO A. R., Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain, New
York 1994 (trad. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano,
Milano 1996.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
457
zioni sia di primo, sia di secondo ordine, di elaborare, per esempio, sia la sensazione visiva, sia l’organismo che riceve ed elabora
questa stessa sensazione: l’autocoscienza è un’autorappresentazione dell’organismo che interagisce con il mondo37. Solo accidentalmente questa autorappresentazione può servirsi di espressioni verbali e non verbali che permettono, fra l’altro, alla soggettività umana di emergere pienamente38. Così l’ipotesi computazionale e rappresentazionista ritiene di eliminare per sempre il
ricorso a entità immateriali e, in ogni caso, diverse dal cervello.
L’uso di metafore tratte dal mondo della tecnica per descrivere e comprendere il funzionamento del sistema nervoso centrale è antico e può rivelarsi fecondo39. I grandi neurofisiologi
hanno tratto spesso dal loro ambiente l’ispirazione per illustrare,
con opportune analogie, le loro teorie anatomo-fisiologiche.
Galeno nel II secolo d. C., pensando alla mirabile rete idrica dei
Romani, paragonò il sistema nervoso centrale a una complicata
rete di acquedotti; Descartes, nel XVI secolo, mentre si diffondeva in Europa la mania degli automi, spiegò in termini meccanicistici le reazioni nervose dei bruti; i medici dell’800, affascinati
dalle scoperte nel campo dell’energia elettrica e del suo sfruttamento, paragoneranno il sistema nervoso centrale ad una grande
centrale elettrica; noi, che viviamo immersi nel mondo dei computer, amiamo dare una spiegazione cibernetica del funzionamento della mente. Ovviamente se si tratta di metafore ed analogie, questo procedimento è corretto e può servire per illuminare
37 Cfr. DAMASIO A. R., The Feeling of What Happens. Body and Emotion in
the Making of Consciuosness, Harcourt Brace 1999; EDELMAN G. M., Bright,
Air, Brilliant Fire. On the Matter of the Mind, New York 1992 (trad. it. Sulla
materia della mente, Milano 1993); KOSSLYN S., Image and Brain. The
Resolution of the Imagery Debate, Boston 1994. Partendo dal presupposto che
l’autocoscienza è autorappresentazione, si riduce un problema metafisico a
un problema gnoseologico. L’autocoscienza è invece frutto della reditio completa dello spirito, resa possibile proprio perché lo spirito è, per definizione,
immateriale e inesteso. Per lo sviluppo dell’argomento si veda: BASTI G., Il
rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Bologna 1991, 23-61.
38 Sul rapporto fra cervello, mente e linguaggio: BONCINELLI E., Il cervello, la mente e l’anima, Milano 1999.
39 Sull’uso delle metafore: KUHN T. S., La metafora nella scienza, Milano
1983.
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MAURIZIO P. FAGGIONI
questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema nervoso
centrale, se rispondono invece alla logica nientaltrista, diventano
letture riduttive e parziali. Dire che esiste una analogia tra il funzionamento del cervello umano e il funzionamento di un computer è del tutto legittimo, mentre invece affermare che “il cervello umano non è nient’altro che un calcolatore” è riduttivo.
Le scienze cognitive rischiano certamente di cadere in una
forma molto sottile di meccanicismo, ma la situazione cambia
se passiamo da una considerazione banale e fisicista del cervello computazionale alla considerazione del significato informazionale delle reti neurali. In questa direzione si muove G. Basti,
studioso di stretta osservanza tomista ed esperto di cibernetica,
il quale ha compiuto un interessante tentativo di porre in rapporto il tema della forma corporis con quello delle reti neurali,
recuperando l’idea di dispositio e soprattutto recuperando il
tema scolastico dell’intenzionalità rispetto a quello moderno
della rappresentazione. Non si tratta quindi di creare energia,
come nel dualismo interazionista, ma di produrre informazione
e la mente potrebbe essere descritta come una forma che organizza la materia40.
3.3 La sfida dell’evoluzionismo
La teoria dell’evoluzione come fu proposta da Ch. Darwin
nel 1859, pur essendo nata come semplice ipotesi biologica, è
diventata poco a poco una chiave di lettura di tutta la realtà ed
ha sostituito una visione rigida e statica del mondo con una
visione dinamica e in divenire, allargandosi ad abbracciare in un
unico movimento evolutivo il cosmo stesso. La teoria della evoluzione, con tutte le sue ricadute in campo sociale, politico ed
economico, ispirate soprattutto alla logica della sopravvivenza
del più adatto, e con la sua carica eversiva verso antiche istituzioni e credenze è più che una teoria scientifica: essa è una vera
e propria metanarrazione tipica della modernità e, come tale, si
presta ad essere strumentalizzata e piegata verso usi ideologici
extrascientifici.
40
BASTI G., Il rapporto mente-corpo, 106. 265.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
459
Una delle grandi sfide dell’evoluzionismo al progetto umano
e motivo permanente di scandalo, sta nella affermazione della
continuità fra uomo e animali. Collocata in un orizzonte empirista, questa affermazione, trapassa facilmente dalla continuità
biologica, che può essere verificata o falsificata, alla continuità
ontologica che, essendo un asserto metafisico non è verificabile
né falsificabile attraverso prove ed esperimenti. Tale pretesa
continuità va contro una persuasione profondamente radicata
nell’animo umano. I nostri antenati, infatti, nel corso della evoluzione della nostra specie, hanno sviluppato una crescente consapevolezza del loro essere, una autocoscienza che li faceva
cogliere a se stessi come soggetti di fronte agli oggetti naturali.
Il rapporto uomo-animale è stato segnato sin dagli albori dell’umanità dalla contrapposizione, una contrapposizione nella lotta
della sopravvivenza che si è tradotta nella convinzione di una
ben più profonda e insuperabile contrapposizione ontologica,
sul piano dell’essere. Si può dire che l’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale. Umanità e animalità appaiono come termini di una polarità irriducibile: il possesso del logos e l’uso, quindi, della parola
e della ragione, qualificano l’uomo e segnano la sua distanza
incolmabile dall’animale, che è àlogos, privo di favella e pertanto di razionalità41.
Questa idea percorre davvero tutta la storia culturale
dell’Occidente, dall’antichità greca, attraverso il cristianesimo,
sino alla modernità. Se per Aristotele l’uomo si distacca e si differenzia dalla sua base animale perché appunto dotato di razionalità (l’uomo è zoòn logikòn o animal rationale), la fede giudeocristiana riconosce, pur nella comune origine creaturale e terrestre, l’incomparabile superiorità dell’uomo sull’animale, essendo
l’uomo dotato di uno spirito vitale che lo assomiglia, come divina imago, al Signore e ne giustifica il compito dominativo sulle
altre creature. Nella concezione scientifica del mondo propria
della modernità non c’è dubbio che l’animale esista per il servi-
41 Sulla storia del rapporto uomo-animale: BONDOLFI A., Rapporti uomoanimale. Storia del pensiero filosofico e teologico, “Rivista di Teologia Morale”
21 (1989), 57-77; 107-123 (ricca selezione bibliografica); CASTIGNONE S.,
LANATA G. curr., Filosofi e animali nel mondo antico, Pisa 1994.
460
MAURIZIO P. FAGGIONI
zio e il benessere dell’uomo e sarà proprio il meccanicismo che
caratterizza il nascere della biologia moderna a fornire una base
“scientifica” allo sfruttamento animale42.
Preparata idealmente da antesignani sette e ottocenteschi e
sorretta scientificamente dagli apporti delle scoperte nel campo
dell’evoluzione, dell’etologia, della sociobiologia, una delle
novità filosofiche più significative degli ultimi decenni è stato
l’emergere della cosiddetta tematica animalista. La filosofia animalista sottopone ad analisi critica le categorie di umanità e animalità, per verificarne la consistenza e l’adeguatezza teoretica
rispetto agli attuali parametri scientifici, e riflette sulla relazione uomo/animale, tradizionalmente interpretata in termini antinomici, partendo dall’assunto opposto che, cioè, questa antinomia è insostenibile e interrogandosi sul significato di natura
umana o razionale in quanto opposta a natura animale43.
Un tema preso di mira dai filosofi animalisti per mostrarne
l’insostenibilità dal punto di vista scientifico è quella della complessità mentale, argomento principe tradizionalmente usato dai
sostenitori di una prassi di esclusione assoluta degli animali dal
mondo morale. Nella prospettiva dell’antropologia riduzionista
l’esse è appiattito sul bios e viene negata aprioristicamente l’esistenza di realtà spirituali nell’uomo, per cui si cerca di ricondurre le facoltà superiori dell’uomo (razionalità, autocoscienza,
libertà) a semplici dinamismi psichici. Una volta esclusa la
dimensione spirituale dell’uomo, la demarcazione fra umanità e
non umanità o animalità diventa evanescente. Non solo infatti la
nostra vita mentale non è considerata altro che un effetto dell’attività del sistema nervoso centrale, ma si può anche scientificamente dimostrare che essa si svolge su una struttura largamente comune alle altre specie: i dati più recenti offerti dalla
neurofisiologia comparata, dimostrano che esiste una reale
somiglianza e continuità delle funzioni neurofisiologiche fondamentali in tutti gli animali pluricellulari, uomo incluso, e che le
42 Si noti, però, che il macchinismo cartesiano è stato recentemente rivisitato: COTTINGHAM, A Brute to the Brutes? Descartes and the Treatment of
Animals, “Philosophy” 53 (1978), 551-558. MARCIALIS M. T., La questione dell’anima delle bestie ovvero la razionalità senza soggetto, “Rivista di Storia della
Filosofia” 48 (1993), 83-100.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
461
somiglianze crescono - come è intuibile - con il crescere della
posizione di una certa specie nella scala zoologica. La continuità
a livello delle strutture neurologiche e le omogeneità di funzionamento, fanno pensare che debba esistere una vera continuità
anche tra le funzioni mentali che queste strutture e funzioni sottendono e, in particolare, si può legittimamente pensare a una
continuità fra sensibilità, intelligenza, autocoscienza umana e
sensibilità, intelligenza, autocoscienza animale44. Non esiste perciò una barriera invalicabile tra umani e non umani e diventa
possibile confrontare le esperienze psichiche tra specie diverse
sulla base dell’accertata similitudine delle proprietà fondamentali dei neuroni, delle sinapsi e dei meccanismi neuroendocrini.
La visione delle relazioni biologiche e ultimamente ontologiche fra uomo e animali, generata dall’evoluzionismo estremo
di matrice darwiniana, ha ricevuto conferme non solo dalla
paleontologia, l’anatomia comparata e la genetica, ma anche –
come vedremo più avanti – dall’etologia che, studiando il significato del comportamento, delle motivazioni, della comunicazione degli animali, ha cercato di evidenziarne elementi significativi di continuità col comportamento umano e ha portato a
rafforzare, di conseguenza, l’idea dell’affinità e della continuità
dell’uomo con le altre specie animali. Ne consegue un’antropologia che non teme di umiliare la dignità umana nel considerare Homo sapiens sapiens una specie fra le altre e un’etica che,
negata la sacralità della vita umana, non riesce più a cogliere la
differenza assiologica fra vita umana e vita animale45.
Per un primo approccio: BATTAGLIA L., Etica e diritti degli animali,
Roma-Bari 1997; CASTIGNONE S. cur., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, Bologna 19882; REGAN T., P. SINGER eds., Animal Rights and
Human Obligations, Englewood Cliffs 1976 (trad. it. Diritti animali, obblighi
umani, Torino 1987); SINGER P. ed., In Defence of Animals, Oxford 1985 (trad.
it. In difesa degli animali, Roma 1987).
44 Cfr. ALLEN C., BEKOFF M., Species of Mind, Cambridge (Mass.) 1997
(trad. it. Il pensiero animale, Milano 1998); DENTON D., The Pinnacle of Life.
Consciousness and Self-Awareness in Humans and Animals, St. Leonards
(Australia) 1993; GRIFFIN D. R., The Question of Animal Awareness, New York
1976 (trad. it. L’animale consapevole, Torino 1979); VALLORTIGARA G., Altre
menti. Lo studio comparato della cognizione animale, Bologna 2000.
45 Questa posizione è stata sviluppata in due studi molto discussi:
43
462
MAURIZIO P. FAGGIONI
La posizione della teologia cattolica e del Magistero sull’evoluzionismo applicato all’uomo è stata molto circospetta e non
è questa la sede per entrare nel dettaglio46. Oggi, superati,
mediante un’accorta purificazione epistemologica, i pregiudizi
materialisti e immanentistici presenti nelle versioni correnti dell’evoluzionismo e risolti, mediante una ermeneutica raffinata, i
più ardui ostacoli antievoluzionistici contenuti nelle fonti della
Rivelazione, resta la questione davvero fondamentale di comprendere come la persona umana, nella sua unità di anima e di
corpo, possa emergere da realtà ontologicamente inferiori.
Secondo l’interpretazione proposta da Karl Rahner – che resta
ancor oggi una delle letture più penetranti – si deve pensare a un
autosuperamento della creatura che è reso possibile attraverso il
concorso di Dio che non opera accanto all’operare creaturale, ma
che è causa di quello stesso operare47.
Questa visione dell’uomo e dell’evoluzione umana che, pur
rispettando la multidimensionalità dell’uomo e la distanza ontologica fra la realtà umana e non umana, ci fa tuttavia sentire
parte integrante del nostro universo materiale risponde a un
bisogno profondo del cuore umano, sempre teso fra mondanità
e trascendenza. Gli esseri intelligenti non sono frutto di pura
casualità – come afferma, in uno dei manifesti del riduttivismo
biologico, J. Monod48 – ma il traguardo del divenire del cosmo.
RACHELS J., Created from Animals. The Moral Implications of Darwinism,
Oxford-New York 1990 (trad. it. Creati dagli animali. Implicazioni morali del
darwinismo, Milano 1996); SINGER P., Rethinking Life and Death (trad. it.
Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano 1996).
46 Una sintesi storico-teologica: MOLARI C., Darwinismo e teologia cattolica, Roma 1984. Si veda il numero monografico di “Concilium” 36 (2000), 1
su Evoluzione e fede. Il 24- 10-1996, il Santo Padre ha inviato una Lettera alla
Pontificia Accademia delle Scienze che contiene un’apertura all’evoluzionismo moderato. Si vedano i commenti: MURATORE S., Magistero e darwinismo,
“Civiltà Cattolica” 148 (1997), I, 141-145; VILLANUEVA J., Una riabilitazione
dell’evoluzionismo? Elementi per un chiarimento, “Acta Philosophica” (1998),
127-148.
47 RAHNER K., OVERHAGE P., Das Problem der Hominisation, Freiburg
19632 (trad. it. Il problema dell’ominizzazione, Brescia 1969).
48 MONOD J., Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de
la biologie moderne, Paris 1970 (trad. it. Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Milano 1970).
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
463
Se nella lezione di Teilhard de Chardin l’evoluzione del cosmo e
dei viventi risponde a una direzione di movimento che punta al
traguardo della Noosfera sino al punto Omega49, secondo i fautori del cosiddetto principio antropico, il cosmo è strutturato fin
dall’inizio in modo tale da ammettere la comparsa nel suo seno,
a un qualche stadio, di esseri capaci di coglierne l’intima intelligibilità50. “Il cosmo- commenta Saturnino Muratore – è inteso
come un grande complicatissimo laboratorio che sta eseguendo
un programma, la produzione della vita, anzi, della vita intelligente … Questo insperato recupero dell’Anthropos all’interno di
una lettura scientifica del cosmo rappresenta un’autentica svolta nei confronti di quella rivoluzione copernicana che aveva dato
origine alla modernità occidentale”51.
3.4 La sfida della genetica
Gli stupefacenti progressi della genetica, la scoperta della
probabile base genetica non solo dei caratteri fisici ma anche
delle disposizioni a contrarre malattie, dei tratti temperamentali, di certe inclinazioni normali e devianti, la possibilità di leggere il programma genetico dell’uomo e, virtualmente, di ciascuno di noi, la prospettiva di poter intervenire e manipolare
questo stesso programma attraverso l’ingegneria genetica, stanno provocando profonde ripercussioni nella nostra consideraVedere, oltre ovviamente ai testi del gesuita francese, alcuni studi d’insieme: GIBELLINI R., Teilhard de Chardin: l’opera e le interpretazioni, Brescia
19842; SMULDERS P., La visione di Teilhard de Chardin, Torino 1967;
50 Sul principio antropico: BARROW J. D., TIPLER F. J., The Anthropic
Cosmological Principle, Oxford 1988; BERTOLA F., CURI U. eds., The Anthropic
Principle, Cambridge 1993; GALE G., Il principio antropico, “Le Scienze”
(1982), 62-73; MASANI A., Il principio antropico; in COYNE G. V., SALVATORE M.,
CASACCI C. edd., L’uomo e l’universo, Città del Vaticano 1987, 4-21; MURATORE S., L’evoluzione cosmologica e il problema di Dio, Roma 1993; RONDINARA
S., Il principio antropico e l’unità dell’universo, “Nuova Umanità” 12 (1991),
39-53. Critici sul valore del principio: GALLENI F., Scienza e teologia. Proposte
per una sintesi feconda, Brescia 1992; STRAFELLA F., Le obiezioni al principio
antropico, in GIANNONI P. cur., La creazione. Oltre l’antropocentrismo, Padova
1993, 30-40.
51 MURATORE S., L’origine e l’evoluzione della vita. Puntualizzazioni epistemologiche, “Rassegna di Teologia” 38 (1997), 213.
49
464
MAURIZIO P. FAGGIONI
zione dell’uomo, delle sue scelte e dei suoi comportamenti.
L’ingegneria genetica costituisce uno strumento molto
potente per allargare le nostre conoscenze nel campo delle scienze della vita, dall’embriologia, alla fisiologia, alla patologia.
L’impiego delle sonde molecolari, permettendo di riconoscere la
sequenza e la posizione dei geni sui cromosomi, ha aperto la
possibilità di analizzare interi genomi (mappatura). L’obiettivo
più ambizioso è la mappatura dell’intero genoma umano normale e della individuazione delle principali alterazioni genetiche
alla base di patologie umane: a questo stupefacente progetto,
detto progetto genoma, si stanno dedicando decine di istituti di
ricerca in tutto il mondo coordinati a livello internazionale52.
La biologia sta chiarendo la cascata di eventi che può spiegare le relazioni fra predisposizione genetica e comportamenti.
I geni codificano infatti proteine con funzioni diverse: se ci sono
alterazioni genetiche, per esempio, nelle proteine che costituiscono i recettori implicati nella risposta nervosa o che sono
coinvolte nella metabolizzazione dei neuromediatori, possono
aversi turbe psichiche e comportamentali legate all’alterato
equilibrio dei neuromediatori.
Nel caso della tossicodipendenza, per esempio, è stato provato che nel causare tale condizione concorrono diversi fattori
di tipo socio-culturale, psicologico e biologico che interagiscono
fra loro secondo modalità non ancora pienamente chiarite.
Esistono indizi scientificamente provati, benché di significato
ancora piuttosto incerto, che porterebbero a ipotizzare l’esistenza - almeno in alcuni soggetti - di una sorta di predisposizione
biologica all’assunzione di droghe, analogamente a quanto è
stato supposto per l’assunzione di alcool negli alcoolisti.
Tuttavia la semplice e inoppugnabile osservazione che persino
52 Per approfondire: BROVEDANI E., Progetto genoma. Aspetti tecnicoscientifici, prospettive e implicazioni etiche, “Aggiornamenti sociali” 40
(1989), 487-507; TRENTIN G., Progetto Genoma. Questioni etiche della conoscenza e manipolazione del patrimonio genetico, “Credere oggi” 17 (1997), 4,
37-54; WILKIE T., La sfida della conoscenza. Il progetto genoma e le sue implicazioni, Milano 1995; ZUCCO F., Responsabilità etica e ricerca scientifica: il
caso della mappatura del genoma, in DI MEO A., MANCINA C. curr., Bioetica,
Bari 1989, 217-230.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
465
un soggetto diventato tossicodipendente possa interrompere
permanentemente, se opportunamente aiutato e motivato, l’assunzione compulsiva della droga, ci porta a ritenere che tale predisposizione non agisce in modo deterministico o almeno che
non sia sufficiente a spiegare da sola il sorgere del comportamento di abuso53. “Il fenomeno della tossicodipendenza - scrive
lo psichiatra V. Andreoli - è l’insieme di tre fattori: sostanza, consumatore, ambiente sociale in cui l’incontro tra sostanza e consumatore si attua. Qualsiasi valutazione fatta ignorando uno di
questi elementi conduce ad un errore riduzionistico. Vi può
essere il riduzionismo farmacologico, quello psicologico ed infine quello sociologico. Ognuno di questi atteggiamenti tende a
minimizzare o neutralizzare le altre componenti”54.
Certamente, anche ridimensionando il determinismo genetico verso comportamenti anomali o devianti, resta la percezione
che la nostra libertà sia probabilmente più condizionata di
quanto di solito non si sospetti. Sappiamo che la libertà umana
è una realtà in via di definizione ed emerge concretamente come
frutto della dialettica fra determinazione e non determinazione,
ma le spinte deterministiche – dopo la scoperta della base genetica di tante inclinazioni e comportamenti – operano ad un livello strutturalmente così intimo e profondo da chiederci se davvero si aprono spazi adeguati per l’esercizio della libertà55.
Una forma estrema di riduzionismo, strettamente connesso
con i progressi della genetica, è dato da una nuova disciplina, la
sociobiologia56. Secondo la definizione data dal suo fondatore, E.
GERRA G., Drogati si nasce? Percorsi nell’infanzia-adolescenza prima
della tossicodipendenza, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 18: “Se qualcosa di
biologico dovesse realmente influenzare l’individuo nella sua pulsione verso
le sostanze - conclude G. Gerra - si tratterebbe di un semplice cofattore, cioè
di un componente parziale determinante il comportamento, non della causa
assoluta: è facile immaginare quante possibili influenze ambientali e culturali vadano a modificare nell’uomo le spinte ricevute dalla natura e si sommino con la sua struttura biologica”.
54 ANDREOLI V. et al., Tossicodipendenze, Milano 19942, 1-2.
55 Una trattazione di impostazione classica, ma aggiornata ai progressi
delle scienze, sui condizionamenti dell’atto umano in: CHIAVACCI E., Teologia
Morale, vol. 1, Assisi 19844, 49-94.
56 Sul rapporto fra sociobiologia e morale: DE FEO A. M., L’etologia di K.
53
466
MAURIZIO P. FAGGIONI
O. Wilson, la sociobiologia è “lo studio sistematico delle basi
biologiche di ogni forma di comportamento sociale”57. Essa
cerca di spiegare ogni comportamento, specialmente quello
sociale, sia degli animali, sia dell’uomo con le sole risorse della
biologia in una prospettiva evoluzionista che integra i dati della
genetica e quelli dell’etologia. La biologia ci insegna che ogni
specie è caratterizzata da un certo patrimonio genetico che
viene trasmesso in modo invariante alla progenie, ma, all’interno di una stessa specie e quindi nell’ambito di un’informazione
sostanzialmente omogenea, possono esistere genotipi che presentano leggere diversificazioni. Il processo selettivo che sta alla
base dell’evoluzione consiste sostanzialmente nella sopravvivenza e nella riproduzione differenziale dei diversi genotipi: in un
certo ambiente un certo genotipo può rivelare una maggiore idoneità biologica e quindi una migliore capacità di sopravvivenza
e di riproduzione. La selezione naturale, dunque, si riferisce primariamente alla sopravvivenza dei geni e non alla sopravvivenza dell’individuo. Lasciando da parte le critiche di natura scientifica mosse a Wilson e ai suoi seguaci, dal punto di vista filosofico il limite di fondo della sociobiologia sta nel suo esasperato
e programmatico riduzionismo: essa dà un’importanza esclusiva agli aspetti genetici dell’evoluzione sociale e sottovaluta gli
aspetti extragenetici che, nella specie umana, determinano invece quella seconda natura che è la cultura.
Non sfugge al riduzionismo neppure la proposta, per altri
versi affascinante, di Dawkins. Correggendo l’idea di Wilson che
la cosa più importante dell’evoluzione sia il bene della specie
invece che il bene dell’individuo e quindi dei suoi propri geni,
Dawkins ritiene “una qualità predominante da aspettarsi in un
gene che abbia successo è un egoismo spietato. Questo egoismo
del gene provocherà, in genere, egoismo nel comportamento dell’individuo … Tuttavia esistono circostanze speciali in cui un
gene può raggiungere le proprie mete egoistiche favorendo una
Lorenz e la sociobiologia di E. O. Wilson. Due paradigmi per un’etica naturale
evolutiva, Roma 1990.
57 WILSON E. O., Sociobiology. The New Synthesis, Cambridge (Mass.)
1975 (trad. it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Bologna 1979).
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
467
forma limitata di altruismo a livello dei singoli animali”58. Egli è
d’altra parte ben conscio che “una società umana basata soltanto sulla legge del gene, una legge di spietato egoismo, sarebbe
una società molto brutta in cui vivere”59. Per fortuna, però,
anche se la natura biologica non sempre ci aiuta, la nostra specie può cercare di opporsi ai disegni dei geni egoisti. Infatti,
accanto ai replicatori naturali, i geni, sono apparsi, con l’uomo,
replicatori culturali, detti da Dawkins memi o unità di imitazione assunte per apprendimento (es. parole, teorie, norme, melodie ecc) la cui evoluzione e diffusione può essersi attuata in un
certo modo perché è vantaggioso per lui. Forse Aristotele avrà
soltanto ancora due o tre dei suoi geni in viaggio per il mondo,
ma i suoi memi sono ancora molto diffusi nell’umanità e continuano a influenzare le nostre scelte, giudizi, comportamenti. A
ben guardare, tuttavia, gli esseri umani restano, anche in questo
caso, semplici supporti dei memi, come prima erano stati i supporti dei geni egoisti60.
Una delle grandi sfide della genetica e delle discipline che ad
essa si appellano sta proprio in questa riduzione di tutto l’agire
umano alle leggi del vantaggio selettivo sia esso popolazionistico
o individuale e quindi nella difficoltà di spiegare come libertà
possa emergere e sopravanzare il determinismo del gene tiranno.
4. Verso una conclusione: riaffermare l’eccedenza umana
Molti argomenti riduzionisti possono essere accusati di
essere semplicistici o frutto di sintesi affrettate e, in effetti, il
dibattito in campo scientifico e filosofico è ampio e serrato, ma
la sfida del riduzionismo non manca il bersaglio e pone gravi
58 DAWKINS R., The Selfish Gene, Oxford 1976 (trad. it. Il gene egoista,
Milano 1995, 4-5).
59 Ibid., 5.
60 La tesi corrente è che la trasmissione dei dati culturali (incluse le
norme morali) avviene in modo lamarckiano, cioè istruttivo, e non attraverso
meccanismi selettivi di tipo darwiniano, ma si stanno facendo strada modelli
biologici di trasmissione della cultura: CHANGEUX J.-P., Ragione e piacere,
Milano 1995; CHANGEUX J.-P., RICOEUR P., La natura e la regola. Alle radici del
pensiero, Milano1999; SPERBER D., Il contagio delle idee, Milano 1999.
468
MAURIZIO P. FAGGIONI
interrogativi al progetto uomo. In sostanza, rispondere alle sfide
del riduzionismo antropologico significa riaffermare la differenza dell’essere umano rispetto ad ogni altro essere e quindi la sua
eccellenza assiologica, come si legge in un famoso testo di
Gaudium et Spes dedicato a descrivere i costitutivi dell’uomo:
Corpore et anima unus, homo per ipsam suam corporalem
condicionem elementa mundi materialis in se colligit … Homo
vero non fallitur, cum se rebus corporalibus superiorem agnoscit
… Interioritate enim sua universitatem rerum excedit61.
Il pensiero cristiano, sin dai primi tentativi di pensare la fede
da parte dei Padri, ha ritenuto irrinunciabile l’affermazione dell’eccedenza dell’uomo rispetto alla sua base o dimensione o componente biologica e materiale e ha trovato conveniente esprimere
questa eccedenza ricorrendo al philosophoumenon/ theologoumenon dell’anima. La parola anima, da comprendersi in relazione
con la categoria biblica di imago Dei, prima ancora che rispondere a una categoria ontologica precisa, è lo strumento linguistico
appropriato per indicare la diversità dell’uomo e la sua eccedenza costitutiva rispetto allo strato animale. Professare l’esistenza
dell’anima umana è quindi un’affermazione della singolarità dell’uomo e costituisce un creditum che solo in seconda istanza si
tematizza razionalmente in uno scitum. L’eccedenza ontologica
permetteva infine alla Tradizione fondare l’eccellenza assiologica
dell’uomo (sacralità della vita, in quanto vita di persona, anima
come principium agendi e ratio essendi, dignità della persona).
Il contesto culturale contemporaneo, tendenzialmente ostile
o estraneo alla metafisica tradizionale, non pare offrire strumenti adeguati, almeno paragonati agli strumenti linguistici
potenti che venivano offerti al pensiero cristiano dalla filosofia
classica. Soprattutto il pensiero scientifico si mostra – come si è
visto – spesso indifferente o avverso al tema dello spirito umano
così come è stato compreso nella tradizione teologica: dalla finestra epistemologica della scienza l’esistenza dell’anima in quanto
61 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. Past. Gaudium et Spes, 14 (EV
1/1363).
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
469
realtà non materiale, non può essere affermata e, di per sé, non
ci sono ragioni intrinseche alla scienza (per esempio contraddizioni interne o falle incolmabili) che possano indurre a postularne l’esistenza. Essa resta per definizione inattingibile alla
conoscenza scientifica, almeno come la scienza si è sviluppata
dal Rinascimento ad oggi.
La situazione teologica attuale, sotto il punto di vista del
dialogo e della possibilità di fruizione degli apporti di altre discipline non teologiche, risulta perciò più difficile che nel passato.
Il creditum resta fermo e come tale viene riproposto ed annunciato in documenti di grande autorità dottrinale62. Il problema
nasce quando si vuole tematizzare il creditum in uno scitum
argomentabile e comprensibile per la cultura scientifica e filosofica odierna, dovendosi correlare i molteplici e spesso contraddittori apporti delle antropologie regionali elaborate dalle
scienze umane e delle antropologie filosofiche, con alcuni elementi irrinunciabili della lex credendi e della lex orandi. La questione basilare verte sul modo di intendere e di esprimere l’attitudine antropologica della tradizione sull’unidualità della persona e finora non pare che si sia riusciti a riformulare in moduli
linguistici nuovi, ma semanticamente equivalenti, quello che la
tradizione aveva condensato nella nozione cristiana di anima e
di corpo.
Il rapporto del soggetto umano con il suo corpo è complesso e non può essere descritto in modo strumentale o possessivo,
secondo una lettura oggettuale della formula anima utens corpore, però neanche la concezione antropologica per cui “l’uomo
è il suo corpo”, può essere accettata senza attenuazioni, come
osserva Guido Gatti:
Ma l’uomo è anche più del suo corpo; vivendolo lo trascende. Questa trascendenza non comporta, almeno nella classica
visione tomista dell’uomo, alcun dualismo di anima e di corpo.
L’essere uomo è caratterizzato da una specifica “unitotalità”. Pur
sperimentando una certa tensione tra queste due dimensioni del
Ricordiamo: Gaudium et Spes, 14(EV 1/1363); Donum Vitae, I, 1. 5
(EV 10/1163. 1171); Veritatis Splendor, 4 (EV 13/2658-2659); Catechismus
Ecclesiae Catholicae, 362-368;
62
470
MAURIZIO P. FAGGIONI
suo esistere, egli è sempre e insuperabilmente unità di spirito e
di corpo, in ognuna delle sue decisioni e delle attività con cui
realizza se stesso, agisce nel mondo e comunica con gli altri63.
In attesa di una sintesi originale, che rinnovi quello che san
Tommaso fece nella sua epoca, l’antropologia teologica stenta a
coordinare in una visione d’insieme le tante suggestioni e le sfide
che le giungono dal nostro universo culturale e si nota la tendenza di innestare le nuove prospettive antropologiche sul tronco robusto, ma vetusto dell’ontologia scolastica. Appare tuttavia
assai problematico difendere oggi la densità ontologica ed assiologica della persona, nella complessità pluristratificata delle sue
dimensioni, ricorrendo senza mediazioni a un modello antropologico, quello ilemorfico appunto, che non è più comprensibile
al di fuori del suo orizzonte filosofico. L’osservazione critica di
M. Flick e Z. Alszeghy suona pertanto assai pertinente:
La speculazione teologica contemporanea sulla struttura
dell’uomo è determinata da un duplice fatto. Dall’una parte, la
spiegazione dell’unione corpo-anima come materia-forma proviene da una concezione ilemorfica di tutto l’universo, la quale è
stata applicata (con le dovute modifiche) all’uomo. Attualmente,
essendo la concezione ilemorfica praticamente abbandonata, le
categorie materia-forma, non avendo altra applicazione eccetto
il caso dell’uomo, non danno una vera spiegazione sull’unione
spirito-materia. Dall’altra parte, mancando nel pensiero contemporaneo la categoria delle sostanze incomplete (entia quibus in
opposizione agli entia quae) l’affermazione che l’uomo è composto di due sostanze, viene interpretata quasi inevitabilmente in
senso cartesiano, che concepisce come dato primario due
sostanze eterogenee, di cui ciascuna esiste come tale, indipendentemente dall’altra e che unendosi costituiscono l’uomo. Per
comprendere correttamente l’affermazione che anima e corpo
sono uniti come forma e materia, si ha bisogno di riesumare un
sistema universale, per applicarlo esclusivamente all’uomo, pro-
63
GATTI G., Morale sessuale, educazione dell’amore, Leumann (To) 1988, 50.
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
471
cedimento che certamente non facilita la comprensione del fenomeno umano quale appare nella rivelazione64.
Alcune delle pagine più penetranti sul rapporto fra spiritomateria, rapporto che soggiace senza identificarvisi alle discussioni antropologiche della tradizione filosofica su anima e
corpo, sono state scritte ancora una volta da K. Rahner, che più
volte è tornato sull’argomento65. Egli parte da una analisi ontologica sulla natura del simbolo che gli permette di definire il
corpo come un simbolo, una espressione, una autoattuazione
dell’anima, per cui ciò che noi diciamo corpo non è altro che l’attualità dell’anima stessa nella materia prima, materia prima che
viene da lui identificata con la vuota spazio-temporalità; “il
corpo è già spirito, colto nel momento in quel momento dell’autoattuazione in cui la spiritualità personale perde se stessa allo
scopo di poter incontrare in maniera diretta e tangibile il diverso da sé”66. Dialetticamente, quindi, la non identità dell’anima e
del corpo (quella che potrebbe dirsi la dualità), dipende in ultima analisi proprio dall’unità di spirito e di materia nell’uomo,
per cui la materia è già spirito e lo spirito ha la materia come
momento costitutivo intrinseco.
In questo orizzonte filosofico le categorie tradizionali vanno
in frantumi e la non comunicabilità con la teologia scolastica e
con il tomismo in particolare, nonostante la volontà rahneriana
di essere interprete di san Tommaso, si fa evidente67. Nel banco
di prova dell’antropologia, l’escatologia individuale, egli non
FLICK M., ALSZEGHY Z., Fondamenti di antropologia teologica, Firenze3,
99-100.
65 Soprattutto vedere: RAHNER K., Geist in Welt. Zur Metaphysik der endlichen Erkenntnis bei Thomas von Aquin, München 19643; ID., Zur Theologie
des Todes, Quaestiones disputatae 2, Freiburg 19632 (trad it. Sulla teologia
della morte, Brescia 19662); ID., Die Einheit von Geist und Materie im christlichen Glaubensverständnis, in Schriften zur Theologie/6, Einsiedeln 1965, 185214 (trad. it. L’unità vigente tra spirito e materia nella concezione cristiana, in
Nuovi saggi/1, Roma 1968, 257-295).
66 RAHNER K., Teologia dell’esperienza dello Spirito, Brescia 1978, 515.
67 Una critica all’antropologia rahneriana dal punto di vista del tomismo
più osservante: CAVALCOLI G., L’antropologia di Karl Rahner, “Sacra Doctrina”
36 (1991), 28-55.
64
472
MAURIZIO P. FAGGIONI
teme, per esempio, di negare la possibilità di una reale separazione, di una diastasi di anima e di corpo: questa diastasi non
sarebbe che una distinzione metafisica e meta-esistentiva, nel
senso che l’uomo non si incontra mai concretamente come un
semplice corpo e una semplice anima68. Analoghe difficoltà sorgono quando si voglia confrontare l’interpretazione tomista
della ominizzazione, fondata sull’idea della infusione dell’anima
razionale, e quella rahneriana, centrata sulla concezione che
l’uomo non è spirito in forza di un principio sostanziale, ma in
quanto interlocutore di Dio69.
Probabilmente noi oggi dobbiamo affrontare un problema
che è ancora più radicale della questione ermeneutica. Nel contesto della presente crisi della metafisica e preso atto della debolezza dell’ontologia contemporanea, non si può facilmente
immaginare di partire da una affermazione antropologica teoreticamente forte, come quella della Tradizione o anche come
quella di K. Rahner, per fondare poi su di essa una proposta
etica. Mentre il movimento logico del pensiero tradizionale
prendeva le mosse dall’affermazione dell’eccedenza ontologica
dell’uomo per giungere all’affermazione della sua eccellenza
assiologica, ora la traiettoria dovrebbe essere invertita.
Come nel V secolo a. C., il nominalismo corrosivo dei Sofisti
era stato vinto dall’umanesimo etico di Socrate che aprì la strada alla grande stagione del pensiero metafisico platonico e aristotelico, così il nominalismo antimetafisico e riduzionista dei
nostri giorni potrà essere superato soltanto attraverso l’etica e
sarà l’etica ad aprire la strada per un ritorno dell’ontologia. Il
68 Nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede su Alcune
questioni di escatologia si legge: “La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte di un elemento spirituale dotato di coscienza e di
volontà, così che l’Io umano, pur mancando nel frattempo (interim) del complemento del suo corpo, sussista. Per designare tale elemento, la Chiesa adopera il termine anima. Benché non ignori che nelle Sacre Scritture stiano
sotto (subici) a questo termine significati diversi, essa nondimeno ritiene che
non ci sia alcuna valida ragione perché questo termine sia respinto e giudica inoltre assolutamente necessario uno strumento verbale per sostenere la
fede dei cristiani” (EV 6/1539).
69 RAHNER K. Hörer des Wortes. Zur Grundlegung einer religionsphilosophie, München 1941 (trad. it. Uditori della Parola, Torino 1967).
LA SFIDA DEL RIDUZIONISMO TECNOSCIENTIFICO AL PROGETTO UOMO
473
superamento del nominalismo della tarda modernità, non potrà
avvenire attraverso una critica di tipo teoretico, ma di tipo etico.
“Conosci te stesso” affermava Socrate, opponendo al nichilismo
dei sofisti il valore della persona. “Uomo, riconosci la tua
dignità” ripete oggi il cristianesimo opponendo alla cultura del
non-senso il richiamo alla dignità e grandezza trascendente
della persona creata a immagine del Figlio di Dio.
La via da percorrere per ristabilire la verità integrale della
persona parte dall’affermazione e dalla testimonianza fattiva
dell’eccellenza assiologica dell’uomo e dalla constatazione degli
effetti nefasti cui conduce l’omologazione ontologica uomo-animale o la degradazione della persona a oggetto naturale. La
mediazione fra soggetto morale e vita buona, vita sensata, vita
felice è attuata dal valore fondamentale della persona. Se quindi la vita deve avere un senso buono universalizzabile, se è vita
buona quella che si attua nell’altruismo, nella cura, nell’attenzione all’altro, allora bisogna che la vita dell’altro abbia valore e
che io possa essere capace di coglierlo e di rispondere al suo
appello. Così l’eccellenza etica della vita umana, di ogni vita
umana, si fa cifra e rivelazione della sua eccedenza ontologica.
Via Merulana 124b
00185 Roma
Italy.
MAURIZIO P. FAGGIONI OFM
—————
Summary / Resumen
This study examines some of the challenges which technical
scientific progress launches in the face of an integral anthropological
vision, with all its repercussions on our conception of the human
person. After defining what is meant by reductionism, the author gives
a broad sweep of the historical parable of reductionism. Particular
attention is given to those reductionist aspects which are more
immediately traceable to technical scientific progress and which have
direct implications for the anthropological presuppositions of moral
discourse. From this perspective the following attacks on an integral
anthropological project are discussed: those that come from
neurobiology, from the cognitive sciences, from evolutionism and from
474
MAURIZIO P. FAGGIONI
genetics. Finally, the author underlines the profound significance
which some central points of Christian anthropology provide with a
view to safeguarding and promoting the truth and dignity of the person.
Este estudio examina algunos desafíos que, con sus repercusiones
en nuestra concepción de la persona humana, lanza el progreso técnico-científico contra una visión antropológica integral. Una vez definido el significado de reduccionismo, el autor recorre a grandes pasos la
parábola histórica del reduccionismo. Presta especial atención a los
aspectos del reduccionismo que se identifican más inmediatamente
con el progreso científico técnico y que tienen implicaciones directas en
los presupuestos antropológicos de la cuestión moral. Desde esta perspectiva se discuten los ataques al proyecto antropológico integral provenientes de la neurobiología y de la ciencias del conocimiento, del evolucionismo y de la genética. Al final, el autor subraya la enorme importancia de algunos puntos centrales de la antropología cristiana para
salvaguardar y promover la verdad y la dignidad de la persona.
—————
The author is Extraordinary Professor of Bioethics at the
Alphonsian Academy.
El autor es profesor extraordinario de Bioética en la Academia
Alfonsiana.
—————
475
StMor 38 (2000) 475-510
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE
AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
Comme le rappelle le philosophe suisse Bernard
Schumacher, la notion d’espérance fut mise en question par la
montée du nihilisme exprimé par Nietzsche et Schopenhauer,
ainsi que Kafka, Cioran, Camus, Sartre et encore par des événements comme Verdun, Auschwitz et Hiroshima. L’homme de
l’ère nucléaire est devenu pour la première fois “le maître de
l’apocalypse, se trouvant constamment sous l’épée de Damoclès
d’un suicide collectif qui réduirait à néant le principe d’une espérance historique tendant vers l’instauration de la Heimat. Il est
également menacé depuis Auschwitz par la réduction de la personne à une chose, à une masse que l’on peut utiliser et transformer à son gré. L’espérance humaine a été, en outre, traitée
comme un belle idée sans réalité concrète, une folie, une consolation, voire le pire des maux (cf. Nietzsche), un cadeau empoisonné que les dieux auraient infligé à l’homme”1. Face à ces
doutes la voix chrétienne s’élève pour sauver l’espérance dans un
monde tenté par le désespoir. C’est ainsi que le cardinal
Ratzinger parlant de l’espérance à partir des lettres pauliniennes
affirme qu’ “être chrétien, c’est être un homme qui espère, c’est
se placer sur le terrain d’une espérance sûre”2. Elle apparaît
comme la définition de l’existence chrétienne. Et comme le dit
Heinrich Schlier l’espérance chrétienne est ce qui la détermine3.
Un Ignace d’Antioche n’hésite d’ailleurs pas à montrer que les
1 B. SCHUMACHER, Espérance, dans M. CANTO-SPERBER, Dictionnaire
d’éthique et de philosophie morale, Paris, 1996, p. 524.
2 J. RATZINGER, De l’espérance, dans ComF 9,4 (1984), p. 32.
3 H. SCHLIER, Nun aber bleiben diese Drei. Grundriss des christlichen
Lebensvollzuges, Einsiedeln, 1971, p. 12.
476
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
chrétiens sont ceux qui “espèrent le Seigneur”4. Pourtant, c’est
précisément sur le terrain de l’espérance que le chrétien rencontrant les espérances du monde en vient à annoncer que son espérance transcende toutes les espérances car elle lui offre l’assurance d’être comblé par le don du grand amour5. Selon
Ratzinger l’espérance a pour but ultime l’accomplissement de
l’amour6. Partant de l’affirmation johannique “Dieu est amour”
(1 Jn 3, 16), il ne peut qu’arriver à une constatation que celui qui
est sans espérance, c’est bien celui qui vit “sans Dieu dans le
monde”7. Une telle prise de position peut certes susciter une surprise dans un monde sécularisé. Bloch, par exemple, considère
au contraire que seul l’athée est un homme qui espère, au point
de faire dans Das Prinzip Hoffnung,8 de l’espérance la question
centrale de toute philosophie. La théologie elle-même, sous l’impulsion d’un Moltmann, s’est vue interpellée pour une nouvelle
réflexion sur l’espérance alors qu’elle apparaissait comme une
grande oubliée9.
Dans la présente conférence prononcée en l’honneur du 50°
anniversaire de la Proclamation de saint Alphonse de Liguori
Patron des Moralistes et des Confesseurs, notre intention est de
mettre en évidence la richesse de l’espérance chrétienne à partir
d’une expression paulinienne “le Christ espérance de la Gloire”
(Col 1, 27), en montrant en quoi la Gloire du Christ est capable
de sauver l’homme contemporain du désespoir, du non-sens, et
de l’absence de forme. Nous procéderons en cinq étapes. Après
avoir montré la relation qui existe entre la beauté et l’espérance
(1), nous nous évertuerons à souligner comment le désenchantement postmoderne (2), est un défi que lance le monde contemporain à la foi chrétienne, appelée à être la gardienne de la gloire selon l’expression même de Hans Urs von Balthasar (3). La
théologie de l’espérance de saint Alphonse de Liguori possède
une dimension esthétique habituellement oubliée par ses com-
4
5
6
7
8
9
Cf. IGNACE, Aux Ephésiens 1, 2; 21,2, etc.
J. RATZINGER, Op. cit., p. 35.
Cf. J. RATZINGER, Ibid., p. 35.
J. RATZINGER, Ibid., p. 35.
E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Francfort s. M., 1959.
R. NORMANDIN, Une grande oubliée: l’Espérance, Ottawa, 1948.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
477
mentateurs. Elle est un exemple de l’importance que le saint
docteur attachait à la beauté de l’espérance chrétienne pour
convaincre ses lecteurs à suivre la voie du Christ (4). Enfin, dans
l’ultime chapitre, nous interrogerons quelques théologies
contemporaines de l’espérance à la lumière du paradigme esthétique (5)
1. La relation entre la beauté et l’espérance
Le défi de l’espérance chrétienne aux espérances intramondaines peut, nous semble-t-il, être défini en ces termes: face au
non sens c-à-d. à l’absence de forme, de figure et d’harmonie
conduisant au désespoir, la redécouverte du sens ultime, de la
forme ultime à travers la figure du Christ offre au monde
l’Espérance de la gloire, ce que nous pouvons exprimer en
d’autres mots comme l’espérance de la forme ultime de toutes
choses. Les Pères du Concile Vatican II se sont adressés aux
artistes en soulignant cette relation entre la beauté et l’espérance: “Le monde dans lequel nous vivons a besoin de beauté pour
ne pas sombrer dans la désespérance. La beauté, comme la vérité, c’est ce qui met la joie au coeur de l’homme, c’est ce fruit précieux qui résiste à l’usure du temps, qui meut les générations et
les faits communier dans l’admiration”10. Le nihilisme se trouve
ainsi confronté à l’Espérance fondée sur la beauté ultime, révélée, dévoilée en Jésus-Christ. L’objet de notre recherche est donc
une tentative d’approcher la question de l’espérance chrétienne
sous l’angle de l’esthétique. Approche justifiable à notre avis en
raison même de la relation qui existe entre la beauté et l’espérance. Nous pensons à l’antiquité grecque avec un Platon qui
montre que l’objet de l’espérance humaine est bien la beauté11,
10 Message du Concile du 8 décembre 1965, dans Concile Oecuménique
Vatican II. Constitutions, Décrets, Déclarations, Paris, 1967, p. 730.
11 Comme le note très justement R. Bultmann, en parlant de l’espérance: “Pour Platon il n’y a pas de motif pour repousser l’eros qui agit dans l’elpis, puisque c’est l’eros qui pousse au beau et au bien” (R. BULTMANN, dans
Theologisches Wörterbuch zum neuen Testament, Vol II, Tübingen, 1935, p.
517).
478
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
intuition reprise par Augustin qui définit l’homme comme un
saint désir de la beauté12. C’est une dimension d’ailleurs présente dans le Nouveau testament avec l’expression paulinienne
“espérance de la gloire”13. Retrouver la relation qui existe entre
l’espérance et la beauté semble être le défi fondamental que le
chrétien est appelé à relever face à ce monde désenchanté de la
postmodernité.
Cf. AUGUSTIN, In Io. Ep. 4, 5-6, SC 75, p. 228-232.
À ce propos, nous sommes conscients que l’interprétation proposée
mérite d’être explicitée pour éviter tout malentendu. Quant à l’expression de
Col 1, 27, Aletti écrit: “L’insistenza sulla gloria, legato evidentemente al
Cristo, si pone nella linea dell’esordio: in Cristo tutto è stato dato, manifestato. La gloria è quella del Cristo risorto, e dunque quella di Dio, quella sperata da/per tutti i credenti” (J.-N. ALETTI, Lettera ai Colossesi, Bologne, 1994,
p. 128). Il faut cependant souligner qu’il existe une nuance esthétique de
cette espérance qui ne semble pas contredire la pensée paulinienne, et
qu’une interprétation de la gloire permet comme le montre Spicq. Il souligne
en effet l’idée de splendeur qui caractérise la notion de gloire, et donc la
beauté qui en est le rayonnement (cf. C. SPICQ, Lexique théologique du
Nouveau Testament, Paris, 1991, p. 377). En outre, c’est par le biais du lien
qu’il établit entre la grâce et la gloire que nous retrouvons encore un éclairage supplémentaire en ce qui concerne la dimension esthétique de la gloire. En effet comme le montre l’auteur, la splendeur de cette gloire lui vient
en fin de compte de cet amour de Dieu qui se donne en surabondance à
l’homme. La beauté de la gloire de Dieu est ainsi la beauté de son amour, de
sa grâce (cf. C. SPICQ, Théologie morale du Nouveau Testament, I, Paris, 19704,
p. 110-133). Un auteur comme Schlier montre qu’appliquée à Dieu, la gloire
exprime la manifestation extérieure lumineuse de sa puissance, l’éclat de sa
majesté, la magnificence divine, l’honneur divin, la splendeur divine visible,
mais aussi plus directement son essence divine en tant qu’elle désigne sa
puissance et sa sainteté (cf. H. SCHLIER, La notion de Doxa dans l’histoire du
salut, dans Essais sur le Nouveau Testament, Paris, 1968, p. 381-382). En ce
qui concerne la signification plus spécifique de la dovxa paulinienne relevons
que selon W. Bauer les différentes nuances de dovxa renvoient à l’aspect de la
lumière, et permette donc effectivement une interprétation esthétique (cf. W.
BAUER, A Greek-English Lexicon of the New Testament and other Early
Christian Literature, Chicago, 1979, p. 203-205).
12
13
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
479
2. Le désenchantement de la postmodernité
Il existe une relation entre le nihilisme de la culture d’un
monde désenchanté et l’esthétique que nous tenterons de mettre
en évidence pour mieux comprendre l’importance de la beauté
pour une philosophie de l’espérance. Le nihilisme de Nietzsche
et le désespoir latent d’Heidegger ont abouti à la déconstruction
de toute utopie moderne qui pouvait encore “enchanté”,
“enthousiasmer” l’homme de la modernité ainsi qu’à la perte de
la prise en considération de tout méta-récit comme dans les pensées de G. Vattimo, de J. Derrida et de J. Baudrillard. Il n’y a
donc plus de finalité historique mais l’affirmation de la nécessité de devenir un parfait nihiliste. Lorsqu’on analyse une telle
conception on aboutit nécessairement à montrer que l’attitude
nihiliste de l’homme postmoderne est en partie déterminée par
sa conception esthétique. Afin de mieux comprendre le défi que
lance l’espérance chrétienne de la gloire à la culture postmoderne, il convient de présenter l’espérance “esthétique” de la postmodernité (2.1). On constate en effet une réduction de la compréhension du symbole et une réduction de la forme accomplie
(2.2.), tout comme une perte du “visage” (2.3). Au fond l’esthétique oubliant la différence de l’être aboutit à une esthétique
superficielle sans âme (2.4). Mais le désir de la beauté persiste et
permet de sauver l’homme du néant (2.5).
2.1. La valeur de l’esthétique dans la postmodernité
Il n’est pas inutile de rappeler que la notion de postmodernité n’est pas née dans le milieu philosophique mais bien dans le
milieu des architectes, dans le contexte de leur réflexion sur la
forme14. Aborder la postmodernité par le biais de l’esthétique
14 Cf. M. NACCI, Postmoderno, dans P. ROSSI, Stili e modelli teoretici del
Novecento, Turin, 1995, p. 361; l’architecture postmoderne critique fortement toute uniformité des méga-projets urbains qui ne tiennent pas compte
des exigences effectives des personnes; il faut au contraire un “collage” de
solutions diverses; l’éclectisme caractérise ainsi l’architecture moderne (cf.
CH. JENCKS, Die Sprache der postmodern Architektur, Stuttgart, 1978). Quant
à la datation du début de l’époque postmoderne il n’existe pas d’unanimité.
480
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
s’impose donc en quelque sorte tout naturellement. C’est
d’ailleurs ce que montre W. Kasper lorsqu’il souligne que la postmodernité permet une réévaluation d’autres modes de pensée
comme l’esthétique et la mystique15. Notons que selon G.
Coccolini cette dimension esthétique de la postmodernité est
précisément ce qui la caractérise, la postmodernité étant une
réhabilitation d’une vision esthétique du monde16.
J.-F. Lyotard, dans Moralités postmodernes17, un recueil de
quinze notes sur l’esthétisation postmoderne, parle de la fragmentation de la morale postmoderne qui toutefois présente un
point commun esthétique. D’une manière synthétique, il résume
par une phrase significative la nouvelle unité d’une morale ayant
renoncé à son unité métaphysique: “La moralité des moralités,
ce serait le plaisir ‘esthétique’”18. Telle est la place de l’esthétique
dans l’éthique postmoderne. Une esthétique qui occupe l’espace
laissé ouvert par le déclin de la métaphysique, celle-ci étant
réduite à ne plus être qu’un ensemble de métaphores réalisées19.
Lyotard la fait commencer vers les années cinquante (cf. J.-F. LYOTARD, La
condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, 1979, p. 11). Pour
Vattimo, il faut au contraire remonter à la destruction nihilistique de la
valeur de la vérité opérée par Nietzsche (cf. G. VATTIMO, La fine della modernità, Milan, 1985, p. 175). J. Habermas lui aussi voit dans la pensée de
Nietzsche le début de la postmodernité (cf. J. HABERMAS, Der philosophische
Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Francfort s. M., 1985). W. Kasper
montre que le concept de postmodernité apparaît explicitement avec le livre
de R. PANNWITZ, Die Krisis des europäischen Geistes, dans lequel l’auteur parle
de “l’homme postmoderne” en se référant au “super-homme” de Nietzsche,
mais il souligne que la problématique du postmoderne naît dans le débat
nord-américain qui touche la littérature, l’architecture et les arts figuratifs
(cf. W. KASPER, La Chiesa di fronte alle sfide del postmoderno, dans Hum(B)
52 (1977), p. 173). À ce propos nous renvoyons à J. R. BENIGER, The Control
Revolution. Technological and Economic Origins of the Information Society,
Cambridge, Mass; Londres, 1986; cf aussi S. SEIDMAN, Postmodernism and
Social Theory: the Debate over General Theory, Oxford, 1992; A. WELLMER, The
persistence of Modernity, Massachussets, 1991.
15 Cf. W. KASPER, Op. cit., p. 175.
16 Cf. G. COCCOLINI, Postmoderno, in RTM (1995), p. 132; tel est aussi
l’avis de W. Welsch (cf. Ästhetisches Denken, Stuttgart, 1993).
17 Cf. J.-F. LYOTARD, Moralités postmodernes, Paris, 1993.
18 J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 11.
19 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 21.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
481
Selon Lyotard l’esthétique a annoncé le déclin de l’empire argumentatif relativisant la méthode, modus logicus, en lui opposant
la manière modus aestheticus20. Mais relevons la précision de
notre auteur soulignant qu’il s’agit au fond d’une esthétique
réduite à la simple manière sans référence à la nature et à un
contenu: “Les objets, ou les contenus, deviennent indifférents.
La seule question est s’ils sont intéressants (...). Quand l’objet
perd sa valeur d’objet, ce qui garde de la valeur est ‘la manière’
dont il se présente. Le ‘style’ devient la valeur”21. Toute la vie de
l’homme consiste désormais à se réaliser dans cet univers superficiel de “la manière”22. La valeur de l’esthétique se trouve affirmée avec force par Lyotard à la fin de son livre: “Quand les
idéaux viennent à manquer comme objets de croyance et
modèles de légitimation, la demande d’investissement ne désarme pas, elle prend pour objet la manière de les représenter. Kant
appelait manière, le modus aestheticus de la pensée. L’esthétique
est le mode d’une civilisation désertée par ses idéaux. Elle cultive le plaisir de les représenter. Elle se nomme alors culture”23.
L’esthétique est ainsi vue comme la prévalence de l’imaginaire
sur la réalité.
Une telle approche de l’esthétique est selon Lyotard fort
ambiguë au point qu’il en parle comme d’un poison qui envahit
la philosophie même de la postmodernité: “La culture contemporaine immerge ces idéalités (du vrai, du bien et du beau) et
noie leur distinction dans la soupe de l’esthétisation”24. Or
Lyotard pense qu’il ne peut y avoir de convergence entre la philosophie et l’esthétique, la première étant rationnelle tandis que
la seconde irrationnelle. Il parle même des effets désastreux
dont l’esthétique philosophique est l’agent depuis deux siècles25.
Cependant il reconnaît à l’esthétique une fonction de salut face
au néant: “La ‘modernité’ d’aujourd’hui n’attend pas de l’aisthesis qu’elle donne à l’âme la paix du beau consentement, mais
20
21
22
23
24
25
Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 31.
J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 33.
Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 34.
J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 199.
J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 201.
Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 202.
482
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
qu’elle l’arrache de justesse au néant”26. En effet Lyotard reconnaît la persistance du désir d’un absolu qui n’est toutefois qu’un
nom vide27. La voie métaphysique est donc sans issue28 et la
seule transcendance tient à l’immanence d’une affliction, elle est
l’évocation de la précarité d’une oeuvre29.
On peut donc résumer la pensée de Lyotard quant au rapport existant dans la postmodernité entre l’esthétique et
l’éthique en disant, que c’est dans cette situation de vide métaphysique, propre à la postmodernité, qu’une vie, modelée selon
le plaisir esthétique et la recherche du style, est l’unique manière de survivre dans la condition postmoderne.
2.2. Une réduction de la compréhension du symbole, réduction de la forme accomplie
E. Grassi a bien exprimé la compréhension du symbole de
l’homme moderne: “L’homme moderne, désacralisé et mondain,
vit les directives du symbole comme grimace du silence, qui
apparaît derrière une vitrine”30. Le symbole pour l’homme d’aujourd’hui n’est donc plus théophanie ou chiffre qui suscite
l’émerveillement de la raison puisque on a décrété la mort de
Dieu avec Nietzsche et la mort de l’homme avec M. Foucault31.
Selon I. Calvino nous vivons une désintégration et une fragmentation de l’unité synthétique de la forme au profit du moment
analytique et critique32. P. Miccoli a mis en évidence une dérive
de l’art qui révèle l’origine du phénomène dans le phénomène
mondain. En sorte que l’apparence est élevée au rang d’essence33. Son diagnostic de l’époque postmoderne est particulièrement éclairant: “Ayant perdu Dieu, et déformé le monde, et
J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 207.
Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 34.
28 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 76.
29 Cf. J.-F. LYOTARD, Ibid., p. 198.
30 E. GRASSI, Potenza della fantasia, Naples, 1990, p. 39.
31 Cf. P. MICCOLI, Corso di estetica, Rome, 1995, p. 87.
32 Cf. I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milan, 1988.
33 Cf. P. MICCOLI, Op. cit., p. 89.
26
27
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
483
rendu outre mesure problématique l’homme lui-même, l’aventure poétique du 20° siècle devient destruction de la forme et
séduction de l’élément dionysiaque et vital pour autant qu’on
pense à la Métamorphose de Kafka, à Guernica de Picasso, au
théâtre de l’absurde de Beckett, aux récits nébuleux de
Hoffmansthal, aux hommes-rhinocéros de Ionesco, etc... Ces
topos de l’art de notre siècle sont des documents trop emblématiques d’une anthropologie symbolique qui atteste le drame de la
conscience désorientée de l’homme athée et nihiliste, du froid de
l’homme sans qualité”34. Au fond l’esthétique postmoderne avance à l’insigne du Dieu perdu vers l’abîme du néant, et elle s’accompagne d’un refus de la forme accomplie ou sauvée. L’art
postmoderne se confronte avec un monde angoissant qui
devient menaçant pour l’homme. C’est ainsi que la perte de la
lumière de l’être et du visage est suivie par les ténèbres et un univers de masques. L. Bergel exprime très bien ce monde: “Ne
croyant en aucune valeur qui puisse servir de guide, la création
froide, méthodique du chaos est leur moyen pour soulager l’ennui du vide dans lequel ils vivent”35. P. Miccoli montre que l’esthétique postmoderne est la justification théorique de cette symbolique du monde sécularisé toute orientée à la ridiculisation de
l’émerveillement métaphysique “aristocratique” et de la joie spirituelle chrétienne devant le merveilleux spectacle de la nature
qui révèle l’infinie sagesse du Créateur36.
2.3. La perte du visage
Une autre manière de comprendre l’évanouissement de la
forme dans la postmodernité est de parler comme le fait Sante
Babolin de l’évolution progressive vers “la perte du visage” dans
les arts figuratifs et la perte de la tonalité dans l’art musical. Il
nous en livre une explication particulièrement pertinente qui
nous permet de comprendre tout le poids d’une anthropologie
authentique pour l’esthétique: “la perte du visage humain, de ses
P. MICCOLI, Ibid., p. 90.
Cf. L. BERGEL, L’estetica del nichilismo e altri saggi, Naples, 1980, p. 97.
36 Cf. P. MICCOLI, Op. cit., p. 92.
34
35
484
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
yeux, est le résultat de beaucoup de ‘complications’, de beaucoup de pertes en ce qui concerne la relation qui existe entre
l’homme et Dieu, entre l’âme et le corps, entre la raison et le sentiment, entre le sentiment et l’émotion. La perte de la relation
avec l’Unique nécessaire rend l’art subjectif, trop subjectif, et en
fait l’expression d’une anthropologie fermée. Il y a certainement
des exceptions, à toute époque et aujourd’hui même, cependant
la prédominance de certaines tendances change le panorama de
l’art, en tant qu’il modifie les dominantes culturelles qui créent
le contexte. Aussi les ruptures qui s’expriment dans l’art sont la
projection des désintégrations advenues dans l’autoperception
de la personne humaine”37. S. Babolin n’hésite pas non plus à
mettre en relation cette perte de visage avec le mal en parlant
d’état infernal en esthétique38, comme l’affirmait d’ailleurs K.
Rosenkranz: “L’enfer n’est pas seulement éthique et religieux,
mais il est aussi un enfer esthétique”39. Face à cette perte de visage, Babolin propose de reconstruire le visage en esthétique à
partir d’une fondation anthropologique qui intègre tous les
aspects de la personnalité humaine, évitant les dualismes qui se
sont révélés destructeurs du visage de l’homme en esthétique.
2.4. L’oubli de la différence de l’être
Heidegger a mis en évidence dans sa critique de la métaphysique occidentale l’oubli de la différence de l’être au profit de
l’affirmation de l’identité avec ses conséquences en esthétique40.
Il reproche à l’époque moderne l’exaltation du sujet qui, en
esthétique, se manifeste par une attention exagérée au stade
affectif considéré comme le stade esthétique. Or le beau, selon
Heidegger, n’est pas marqué par la faiblesse mais au contraire,
grâce à sa dimension d’enchantement et de ravissement, possè-
S. BABOLIN, L’uomo e il suo volto. Lezioni di estetica, Rome, 1993, p. 178.
S. BABOLIN, Ibid., p. 245.
39 K. ROZENKRANZ, Estetica del Brutto, a cura di R. Bodei, Bologne 1984,
p. 49, (Ästhetik des Hässlichen, 1853).
40 Cf. M. H EIDEGGER, Brief über den Humanismus (1946), dans
Wegmarken, Francfort s. M., 1976; ID., Der Ursprung des Kunstwerkes (1936),
dans Holzwege, Francfort s. M., 1950.
37
38
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
485
de une puissance et une force. Dans cette optique esthétique, il
plaide pour une désubjectivation de la pensée qui conduit à une
expérience, et une perception esthétique différente du réel, laissant l’objet être ce qu’il est. C’est ainsi que la vérité ne réside plus
dans un jugement ni dans une adéquation, mais dans la manifestation de la chose elle-même. Le sujet est ainsi d’abord appelé à une attitude d’abandon (Gelassenheit) devant la différence
de l’être41. La Lichtung est précisément cette perception non subjective qui permet de voir par contraste la vérité42. En fait en
redécouvrant la différence, Heidegger réintroduit la dimension
de l’écoute: l’être humain est à l’écoute de la différence de l’être.
Il est donc toujours en chemin, ce qui lui permet d’échapper à
l’aliénation et à l’enracinement43. Hans Urs von Balthasar a
montré la valeur de cette redécouverte de la différence qui permet de retrouver la gloire de l’être, tout en soulignant en quoi
cette pensée ne peut reporter pleinement la beauté dans le
monde en raison du refus d’une ouverture sur la vraie transcendance. Il lui manque ce que Balthasar appelle la quatrième différence ontologique44, qui est la seule qui peut sauver l’homme
en le replaçant dans sa véritable dimension.
41 Cf. M. HEIDEGGER, Von Wesen der Wahrheit, Francfort s.M. 1949, p. 1415 (4e éd.); cf. aussi ID., Die Gelassenheit, Pfullingen, 1959.
42 Cf. M. HEIDEGGER, Von Wesen der Wahrheit, p. 16-18; PERNIOLA souligne que la Lichtung est cette irradiation lumineuse, cet événement, cet avènement de la vérité (cf. M. PERNIOLA, L’estetica del Novecento, Bologne, 1977,
p. 167).
43 Cf. M. PERNIOLA, Ibid., p. 168.
44 Cf. H.U. v. BALTHASAR, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd III/I,
2: Im Raum der Metaphysik. Neuzeit, Einsiedeln, 1975, p. 782-786; soulignons cependant que Vattimo présente Heidegger sous un aspect bien différent non plus comme le philosophe de la nostalgie de l’être mais comme
celui qui affirme la perte du caractère métaphysique de l’être et de l’homme.
Il parle en effet d’une dissolution de l’être dans le langage, dans la tradition
qui est transmission et interprétation de messages. Aussi Heidegger est plutôt à comprendre comme celui qui présente un être sans fondement dans un
sens nihiliste (cf. G. VATTIMO, La fin de la modernité. Nihilisme et herméneutique dans la culture post-moderne, Paris, 1987, p. 29-31). Et donc l’esthétique
elle-même perd son fondement métaphysique et ne peut être comprise
comme une manifestation de la présence de l’être.
486
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
2.5. Le désir esthétique postmoderne
Le vide, ou l’absence de beauté, de symphonie dans la postmodernité ne veut pas dire que l’homme soit capable d’oublier la
nostalgie du beau qui l’anime. Il existe une relation réciproque
entre le désir et la beauté comme l’a très bien montré saint
Augustin. Pourtant l’époque postmoderne se caractérise par une
conception très limitée du désir. À ce propos M. Borghesi parle
de l’aliénation du désir postmoderne. Il constate en effet que la
gnose postmoderne prend le visage d’un idéalisme esthétique
qui affirme que le terrain propre de la liberté, du dépassement
spirituel de la loi, de la charis séparée du nomos, est précisément
l’inconsistance de l’être45. En sorte que “totalement immergé
dans le monde comme apparence le ‘je’ poétique est, en même
temps, radicalement ‘abstrait’, privé de stupeur et d’émotion,
incapable de se rendre compte du moment dramatique de l’existence”46. Cette ataraxie postmoderne suppose ainsi une érosion
de la réalité et du désir. Le réel étant vidé de son fondement
ontologique l’homme peut ne plus désirer le définitif. Son désir
est réduit à rechercher dans un plaisir esthétique le bonheur
d’un moment passager.
La critique du désir postmoderne qu’offre P. Sequeri nous
permet d’évaluer toutes les limites d’une espérance construite
essentiellement sur le plaisir esthétique. Face à une conception
subjective du désir, sans fondation propre de la postmodernité,
et qui identifie le désir au plaisir esthétique47, Sequeri nous offre
une réflexion sur le désir enraciné dans la structure ontologique
du réel qui permet de comprendre la différence qui existe entre
le désir postmoderne et l’authentique désir humain48. Il parle du
désir de l’être, de cette tension du désir qui est originairement
inconditionnée embrassant l’horizon intégral des possibilités, ce
45 Cf. M. BORGHESI, L’ironia e il mondo come favola, dans Il Nuovo
Aeropago 57 (1996), p. 25-26.
46 M. BORGHESI, Ibid., p. 27.
47 Cf. A. FERRARA, L’eudaimonia postmoderna, Naples, 1992.
48 Cf. P. SEQUERI, Il desiderio ingiustificato e il giusto senso. La libertà
condizione del sapere nella struttura originaria della ragion pratica, dans
Teol(M) 13 (1988), p. 132-148.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
487
lieu “idéal”. L’analyse phénoménologique du désir montre qu’il
existe comme volonté de soi soutenue par une volonté d’être
autre49. Un désir qui ne conçoit la réalisation que comme un
appel à un dépassement. Le désir est ainsi la condition originaire de la liberté50. Mais ce désir vit en tension dialectique avec le
besoin qui est le désir sous la forme de la nécessité qui le porte
à l’extinction même. Si le désir porte à la liberté, le besoin porte
à l’esclavage, car il est, selon Sequeri, séparation de l’horizon
infini de l’être, alors que le désir est marqué par la transcendance de l’être. L’évidence éthique qui est la correspondance entre le
sens vrai et le sens bon n’est possible que si elle s’enracine dans
la liberté et donc dans la tension vers l’être qui est le désir
même51. Cette attention au désir de la part de Sequeri rejoint
également l’invitation de W. Kasper de tenir compte de la réalité
de l’homme postmoderne qui aspire au bonheur52. Si Kasper le
fait dans le cadre de l’eschatologie, Sequeri nous offre les bases
philosophiques qui permettent de comprendre que le désir de
bonheur est authentique dans la mesure où il est compris
comme l’expression de la tension de l’homme vers l’être.
3. Le réenchantement chrétien
W. Kasper a montré que la critique de la prétention totalisante de la raison scientifique qui conduit à affirmer la valeur de
l’esthétique et du mystique dans la postmodernité mérite d’être
prise en considération. Une approche esthétique de la vérité est
selon lui tout à fait louable permettant à la pensée de sortir
d’une étroitesse qui fut fatale à la pensée moderne. L’annonce de
la vérité chrétienne dans la culture postmoderne pour être porteuse d’espérance se doit de prendre en considération l’aspect
esthétique. Seule une vérité belle sauve l’homme du désespoir et
provoque le désir de la suivre. Le chrétien se voit donc confier la
mission de réenchanter le monde en réintégrant l’approche
49
50
51
52
Cf.
Cf.
Cf.
Cf.
P. SEQUERI,
P. SEQUERI,
P. SEQUERI,
W. KASPER,
Ibid., p. 135.
Ibid., p. 143.
Ibid., p. 144-145.
Op. cit., p. 186.
488
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
esthétique dans la parole sur Dieu, c’est-à-dire la théologie, en
laissant la Parole s’exprimer dans sa parole. La théologie est
ainsi appelée à devenir une théologie de l’espérance capable de
répondre au défi de la déconstruction du nihilisme et de la perte
de la forme qui l’accompagne. On ne peut donc envisager de
relever ces défis de la postmodernité si le discours chrétien ne
commence pas par un examen de conscience sur la manière de
proposer la “parole qui sauve” (3.1.). Le chrétien sera ainsi le
gardien de la gloire à condition de prendre en considération la
dimension esthétique de l’espérance chrétienne, la Parole doit
effectivement retrouver cette dimension de la gloire et donc de
la joie capable d’enchanter le coeur de tout homme (3.2.).
3.1. Un examen de conscience: la relativisation du thème de
la beauté en théologie
La réticence catholique face à la beauté ainsi que l’importance de la beauté pour la théologie est très bien exprimée par
Hans Urs von Balthasar au début de Herrlichkeit lorsqu’il écrit
de manière prophétique: “Il n’est donc pas nécessaire que la
théologie, comme elle le fait fréquemment en notre siècle,
renonce au point de vue esthétique - que ce soit inconsciemment
ou consciemment, par faiblesse ou par oubli, ou par fausse prétention scientifique. Il lui faudrait alors abandonner une bonne
part de ce qu’elle est, sinon la meilleure”53. Balthasar constate en
effet un appauvrissement de la théologie qui résulte d’un oubli
de l’esthétique, car selon lui il ne peut y avoir de théologie vraiment grande et féconde en dehors de la constellation du kalovn et
de la cavri"54. La désesthétisation de la théologie commencée à
H. U. v. BALTHASAR, La Gloire et la Croix. Aspects esthétiques de la
Révélation. Vol. I: Apparition, Paris, 19902, p. 97 (cité dorénavant GC 1);
Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd. I: Schau der Gestalt, Einsiedeln
19883, p. 110 (cité dorénavant H 1).
54 Balthasar s’évertue à souligner le lien qui existe entre l’esthétique et la
théologie. Comme le note Sommavilla à propos de la théologie pour
Balthasar: “Seulement quand la théologie devient esthétique elle devient
vraiment théologie” (G. SOMMAVILLA, “Gloria” di Hans Urs von Balthasar
ossia: religione nel segno della bellezza, dans RdT 3 (1977), p. 303; Balthasar
note lui-même que ce sont les grands esthètes qui ont façonné la théologie
53
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
489
l’époque des temps modernes, tant dans le protestantisme que le
catholicisme, a entraîné une dérive de la théologie qui a “échoué
sur les bancs de sable du rationalisme”55. La perte de la fécondité se manifeste en théologie par un déplacement du centre de
gravité de l’intérêt et de la recherche, qui se trouve désormais
placé sur l’aspect historique de la théologie56. Et ce fait affecte
selon notre auteur toutes les disciplines particulières de la théologie, y compris celle de la théologie morale qui “perd son caractère par trop philosophique: on y voit la manière dont historiquement, la Parole de Dieu nous est adressée dans toute nouvelle situation historique”57.
L’auteur rappelle que cette évolution est causée par un malentendu sur la nature de la théologie58. Elle est certes science
authentique, mais seulement analogiquement par rapport aux
autres sciences. Car elle est participation, par grâce, à la science
intuitive de Dieu lui-même et de l’Église glorieuse. Or “c’est seulement dans cette dimension qu’on peut découvrir la ‘forme’
théologique distinctive et sa beauté spécifique, ce n’est qu’en elle
qu’est possible l’acte décrit par la tradition augustinienne
comme fruitio et qui donne seul accès au contenu théolo-
(cf. Rechenschaft, Einsiedeln, 1965, p. 300); l’Esthétique s’inscrit dans cette
recherche du point unitaire de la théologie marquée par un éclatement:
“Avec l’esthétique théologique (comprise il ne faut pas l’oublier comme la
première partie d’une trilogie appelée à se développer dans une dramatique
et une logique théologique), Balthasar se met à la recherche de ce point unitaire avec la conviction qu’il ne peut être trouvé qu’à l’intérieur de l’autorévélation même de Dieu, dont le noyau central, qui coïncide avec la formalité de la gloire se trouve dans son unicité absolue” (R. VIGNOLO, Hans Urs von
Balthasar: Estetica e Singolarità, Milan, 1982, p. 114).
55 Cf. l’article-programme de Balthasar: Theologie und Heiligkeit,
dansWuW 3 (1948), p. 881-896) (Théologie et sainteté, dans DViv 12 (1948), p.
17-31).
56 Cf. GC 1, p. 61, (H 1, p. 70); cf. R. VIGNOLO, Figura come principio
ermeneutico alternativo all’ideologia storico-critica, in ID., Hans Urs von
Balthasar: Estetica e Singolarità, p. 275-283.
57 GC 1, p. 62, (H 1, p. 70).
58 A ce propos nous renvoyons à l’étude de M. L OCHBRUNNER,
Theologieverständnis. Verhältnis zur theologischen Wissenschaft, dans ID.,
Analogia caritatis. Darstellung und Deutung der Theologie Hans Urs von
Balthasars, Freiburg i. Br, 1981, p. 66-69.
490
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
gique”59. Ainsi, si Balthasar, peut dire “que ce sont les grands
esthètes qui ont façonné la théologie chrétienne”60, c’est parce
qu’ils ont d’abord contemplé dans une fruitio la figure de la
Révélation. Cet acte est l’acte central de la théologie en tant que
science, un acte que la pensée moderne rejette comme non
“scientifique” dans la “spiritualité” non scientifique, ou encore,
qu’elle laisse en suspens tant que la recherche “exacte” ne s’est
pas prononcée61.
Nous pouvons donc le dire certainement aussi pour la théologie morale: la fécondité de la théologie morale dépend de la
réintroduction de l’esthétique. Peut-être trouve-t-on formulée
par Balthasar une des raisons de la non-réception de l’enseignement moral de l’Église. On ne peut aimer une vérité, une exigence morale que si elle attire. Annoncer la vérité sans pédagogie, sans tenir compte de l’espérance qu’elle doit susciter n’est ce
pas condamner la vérité à rester lettre morte? Or la vérité chrétienne est tout d’abord une Vérité vivante: le Christ, lui
l’Espérance de la gloire.
3.2. Le chrétien, gardien de l’espérance de la gloire
Cette prise en considération de l’impact du discours théologique sur l’annonce de l’espérance de la gloire va de pair avec
une prise en considération de la mission chrétienne d’être
témoin de l’espérance de la gloire dans le monde désenchanté de
la postmodernité. Nous nous inspirerons de l’esthétique théologique de Hans Urs von Balthasar pour montrer que la responsabilité de la figure et donc de l’espérance de la gloire incombe
désormais aux chrétiens (3.2.1), en devenant eux-mêmes “figure
existentielle” (3.2.2), car ils sont capables de voir la “Figure de la
révélation” (3.2.3), la beauté étant à l’origine du christianisme
(3.2.4).
59
60
61
GC 1, p. 63, (H 1, p. 71).
Rechenschaft, p. 300.
GC 1, p. 63, (H 1, p. 71).
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
491
3.2.1. La responsabilité de la figure incombe aux chrétiens
Devant le vide et la tristesse engendrée par une dissolution
de l’être et de la forme, et donc du désespoir qui l’accompagne,
Hans Urs von Balthasar nous livre un réflexion fondamentale
pour comprendre le défi de l’espérance chrétienne qui passe par
une redécouverte de la forme: “Devoir retrouver, à partir de ce
vide sans écho, l’image que l’Auteur Premier avait envisagée
pour nous, cette exigence peut paraître presque surhumaine. Et
peut-être, en vérité, n’est-elle réalisable que chrétiennement (...)
la responsabilité de la figure incombe au chrétien”62. Ce vide
dont parle Balthasar se réfère à la situation contemporaine d’absences de formes car “elles se brisent, et sont tenues en suspicion
idéologique”63, mais aussi parce que “l’homme à force d’avoir
souillé et renié les formes, se sent tellement humilié, partageant
leur souillure, que la tentation s’offre à lui chaque jour de mettre
en doute la dignité de l’existence, et de répudier un monde qui
nie et détruit son propre caractère d’image”64. Et pourtant il existe une image originaire divine invisible au yeux du monde,
laquelle peut être visible pour le chrétien capable de voir, dans le
fou humilié de l’Évangile, l’image qui projettera, de son coeur
caché, sur le monde, les rayons de sa beauté. Il y a selon notre
auteur un petit groupe de personnes, la communauté ecclésiale
qui reçoit un organe pour voir la figure primitive de l’homme
dans l’existence et pour remettre tout ensemble en lumière: le
vrai, le bon et le beau65. L’Église est ainsi au service de la redécouverte de la gloire dans la culture contemporaine.
Il n’est pas facile de voir la beauté, la préciosité, la grandeur,
la dignité de l’homme, selon qu’en témoigne le comportement de
l’homme contemporain et la difficulté de respecter les droits de
l’homme depuis les premiers moment de la conception de l’être
humain jusqu’à l’ultime moment de son existence. Balthasar pose
en effet une condition fondamentale: il faut être capable de voir
l’indissolubilité de la figure de l’être humain. Et c’est précisément
62
63
64
65
GC 1, p. 22-23, (H 1, p. 24).
GC 1, p. 21, (H 1, p. 22).
GC 1, p. 22, (H 1, p. 23).
Cf. GC 1, p. 22, (H 1, p. 23).
492
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
cela qui fait problème. On ne peut la dissoudre en des degrés inférieurs. L’homme ne peut être compris qu’à partir de son devenir.
Certes tous les éléments biologiques et psychologiques ont une
valeur qui reste cependant relative. Ils ont besoin d’être intégrés à
partir du Christ. Fidèle à sa méthode d’intégration, Balthasar
montre que l’homme ne peut être compris, c’est-à-dire obtenir
une figure, qu’à partir de l’Unique Nécessaire. Mais pour cela, il
convient de découvrir cet Unique, et l’ayant découvert, transporté
par la beauté de cette forme unique, l’être humain est amené à
considérer tout le reste comme de la balayure. En sorte que cette
perle (l’Unique) confère à tout ce que nous sommes sa propre
valeur. Or seul l’Évangile peut offrir une telle figure. Seul l’Évangile peut offrir un trésor absolu qui n’est pas informe et qui ne
détruit pas du dedans la figure du moi spirituel comme une certaine mystique du New age. C’est ainsi que le chrétien, parce qu’il
peut voir la figure incomparable du Christ, au nom de cette perception se voit doté d’une mission: “lorsque toute authentique
figure du monde devient douteuse, la responsabilité de la figure
incombe au chrétien”66. Voilà pourquoi Balthasar affirme que
c’est aux chrétiens “puisqu’ils doivent briller ‘comme les astres
dans l’univers’, (que) la tâche ... incombe d’éclairer l’espace obscurci de l’être, afin que sa lumière originelle brille de nouveau,
non seulement pour eux, mais pour le monde entier; car c’est uniquement dans cette lumière que l’homme peut marcher conformément à son authentique destination”67.
3.2.2. Le chrétien, épiphanie de l’Espérance de la gloire
Parler de l’espérance de la gloire dans le champ de la théologie morale, c’est donc parler de la responsabilité du chrétien par
rapport à la gloire. Ainsi le chrétien se voit invité à devenir révélateur de cette gloire pour rendre l’espérance au monde. C’est en
ce sens que Hans Urs von Balthasar s’exprime: “Le chrétien ne
GC 1, p. 23, (H 1, p. 24).
GC 4/3, p. 400, (H 3/1, 2, p. 976); le chrétien parce qu’il croit à l’Amour
absolu de Dieu pour le monde, doit lire dans l’être la différence ontologique
et le considérer comme renvoi à l’amour (cf. GC 4/3, p. 398-399/ H 3/1, 2, p.
974-975).
66
67
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
493
remplit sa mission - en tout temps, et spécialement dans le nôtre
- que s’il devient réellement cette figure voulue et fondée par le
Christ; figure dans laquelle l’extérieur exprime et reflète, d’une
manière digne de foi pour le monde, un intérieur, et celui-ci,
étant prouvé et justifié dans sa vérité, est rendu digne d’amour
dans sa beauté rayonnante, par la manifestation extérieure”68.
Dans une perspective chrétienne cette figure reflète l’être
filial du chrétien qui participe à l’être christique et donc à la
figure du Fils69. C’est ainsi que l’être chrétien est figure par excellence (das Christsein ist Gestalt)70 car la beauté de l’existence
chrétienne surgit de cette forme absolue. En effet l’être chrétien
est grâce, possibilité d’existence ouverte par le Christ qui justifie.
Ce n’est pas une possibilité générale, informe, une prétendue
liberté. Non, c’est une charge, une mission, un charisme, un service chrétien dans l’Église et envers le monde71. Il y a donc une
différence avec toute autre forme de vie. Fondamentalement,
Balthasar situe cette différence à un niveau ontologique; cette
forme est à mettre en relation avec la rémission des péchés, la
justification, la sainteté, l’ennoblissement de tout l’être qui sont
les garanties de la supériorité de la figure spirituelle du chrétien.
En fait par le mystère de l’incarnation, et de la rédemption
“l’image de l’existence (das Bild des Daseins) est irradiée par le
modèle qu’est le Christ (Urbild Christi), et travaillée par le libre
pouvoir de l’Esprit Créateur, avec la supériorité de celui qui n’a
pas besoin, pour atteindre son but surnaturel, de détruire quoi
que ce soit de naturel”72.
GC 1, p. 24, (H 1, p. 26).
Le Fils est la figure par excellence en raison de la dimension trinitaire de cette figure. La figure du chrétien qui participe à cette figure possède
ainsi une dimension trinitaire (cf. M. LOCHBRUNNER, Op. cit., p. 172).
70 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); cf. aussi H. U. v. BALTHASAR, Die christliche
Gestalt, dans Hochl. 62 (1970), p. 289-300.
71 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); dans la Dramatique divine Balthasar explicitera cet aspect de la mission en montrant comment le sujet spirituel devient
personne ecclésiale à partir de sa mission (cf. Dramatique divine 2/2. Les personnes du drame. Les personnes dans le Christ, Paris-Namur, p. 62-166/
Theodramatik 2/2. Die Personen des Spiels. Die Personen in Christus,
Einsiedeln, 1978, p. 186-191).
72 GC 1, p. 24, (H 1, pp. 25-26); cette remarque est importante car elle
68
69
494
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
Le chrétien ne remplit sa mission d’espérance que s’il
devient cette figure voulue et fondée par le Christ. L’extérieur
doit exprimer un intérieur, alors la figure devient digne de foi
pour le monde: “c’est le but de la vie ecclésiale d’incarner de plus
en plus la figure du Fils dans le monde pour la glorification du
Père, et de la rendre visible pour le monde non-croyant. Dès lors
le chrétien individuel, comme membre de l’Église, est-il réellement placé sous la loi de la figure du Christ (das Gestaltgesetz
Christi)”73. Cette figure est ainsi rendue digne d’amour dans sa
beauté rayonnante au point que Hans Urs von Balthasar s’appuyant sur la vie des saints peut affirmer que “la figure épanouie
du chrétien est ce qu’il y a de plus beau dans le domaine
humain”74, parce qu’elle est devenue transparente au Christ;
permet de comprendre à partir de l’esthétique comment le fait de tout ramener au Christ, et de le poser comme norme ultime ne le fait pas tomber dans
le rétrécissement barthien qui absolutise le domaine de la grâce au mépris
de celui de la nature. Balthasar aborde la question du rapport nature-grâce
à partir de la Personne du Christ: il considère cette relation telle qu’elle s’est
réalisée dans le Christ: “il n’y a pas entre la nature et la grâce, (...) un parfait
équilibre, mais seulement cet ordre qui est fondé sur la Personne du Christ:
la nature comme expression est au service de la surnature. Dans ce service
elle n’y perd pas” (Verbum Caro, Einsiedeln, 19903, p. 180). Ainsi nous pouvons comprendre la pensée de Balthasar selon laquelle l’esthétique inférieure est au service de l’esthétique supérieure. Il est important de comprendre
que pour notre auteur l’ordre naturel ne peut plus être considéré comme si
la venue du Christ n’avait rien changé, alors que “la valeur universelle et abstraite des lois fondées dans la nature humaine ont participé en lui à son
assomption dans l’union avec la personne du Verbe divin (...), les lois essentielles, abstraites, sont intégrées en lui, sans être supprimées, à l’unicité de
sa personne, et elles sont régies et informées par elles” (La théologie de l’histoire, Paris, 19703, p. 28/ Theologie der Geschichte, Einsiedeln, 19796, p. 16). Il
nous semble donc clair qu’il ne supprime pas l’ordre de la nature, mais il
invite à regarder la réalité à partir du Christ, car c’est en lui que toutes les
lois naturelles atteignent leur sens final (cf. Christlicher Stand, Einsiedeln,
19812, p. 186).
73 GC 1, p. 180, (H 1, p. 207).
74 GC 1, p. 24, (H 1, p. 25); Balthasar considère le saint comme celui qui
“rayonne quelque chose de la proximité de l’Origine” (Retour au centre, Paris,
1971, p. 12/ Einfaltungen, Einsiedeln, 19874, p. 18); cf. aussi P. PETIT, La sainteté d’après la théologie de Hans Urs von Balthasar, dans ID., Un grand théologien spirituel. Hans Urs von Balthasar, Montréal, 1985, p. 1-80.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
495
“celui qui est vraiment saint est toujours celui qui se confond le
moins avec le Christ, ce qui lui permet d’être transparent au
maximum pour le laisser voir”75.
3.2.3. Le chrétien, capable de voir la figure de la révélation
Devenir porteur de l’espérance de la gloire du Christ suppose qu’on soit capable de voir la figure du Christ dans la figure
totale de la révélation telle qu’elle se présente dans l’histoire du
salut. Seule cette unité permet de ne pas défigurer le Christ et de
retrouver en lui la gloire du Père. En effet “l’existence et la doctrine du Christ ne seraient pas une figure saisissable sans sa
connexion avec une histoire du salut qui conduit à lui; c’est avec
cette histoire et en provenant d’elle qu’il devient pour nous l’image qui révèle l’invisible”76. C’est ainsi qu’on peut parler du Christ
comme du “centre de la figure de la révélation”. Il est important
d’apercevoir que cette expression ne veut pas dire que le Christ
serait la fraction centrale de la figure de la révélation, mais “elle
désigne bien plutôt ce par quoi la figure totale acquiert son unité
et son intelligibilité, le pourquoi auquel il faut rapporter tous les
aspects particuliers pour qu’ils deviennent compréhensibles”77.
La position centrale du Christ désigne dès lors ce point auquel
tout le reste est ordonné: “cela est vrai absolument, car il est le
Fils unique du Père, et ce qu’il fonde et établit n’a de sens que
par lui, n’est relatif qu’à lui, et n’est maintenu vivant que par
lui”78 C’est ainsi que Balthasar nous invite à voir la figure de la
révélation divine dans l’histoire du salut, avec le Christ comme
principe et comme fin.
Mais ici encore comme pour la recherche de la figure
humaine pour voir la figure de la révélation il faut déjà avoir
habitué nos yeux anciens à voir la figure essentielle. Le surnaturel ne remplace pas le naturel. “En fait, l’incarnation de Dieu
accomplit toute l’ontologie et toute l’esthétique de l’être créé,
dont elle se sert, avec une profondeur nouvelle, comme d’une
75
76
77
78
GC 1, p. 180, (H 1, p. 207).
GC 1, p. 27, (H 1, p. 30).
CC 1, p. 390, (H 1, p. 445).
GC 1, p. 391, (H 1, p. 445).
496
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
langue exprimant l’être et l’essence divins”79. La perception de la
beauté surnaturelle suppose dès lors une capacité naturelle de
perception de la beauté intramondaine. Il ne faut donc pas
opposer l’esthétique naturelle et surnaturelle mais montrer que
le Christ étant la source première de toute esthétique chrétienne, est aussi la source de toute esthétique80. L’espérance chrétienne est capable de voir dans la beauté de la création cette
beauté qui renvoie au Créateur et lui donne d’espérer secrètement la rencontre avec une beauté supérieure.
Afin de saisir l’importance de la dimension esthétique pour
la compréhension de l’espérance, il convient de préciser brièvement le sens de l’analogie qui est fondamental pour éviter toute
confusion entre l’espérance de la gloire intramondaine et
l’Espérance de la gloire de Dieu. En effet comme le note
Balthasar “la figure du beau est animée d’une telle transcendance qu’elle semble glisser sans discontinuité du domaine profane
à celui qui est supraterrestre”81. Pourtant on ne peut ne pas soumettre le domaine de l’esthétique au jugement de la Parole de
Dieu qui rappelle l’absolue transcendance de l’esthétique divine.
Toutefois on peut affirmer, contre un certaine vision démonisante de la beauté intramondaine, l’existence d’un pont reliant la
beauté naturelle et surnaturelle: “il ne faudrait pas alors refuser
une analogie interne entre les deux formes, ou les deux degrés de
la beauté”82 et donc entre l’espérance naturelle de la beauté et
l’espérance surnaturelle de la beauté éternelle.
C’est précisément le concept d’analogie qui constitue l’élément fondamental pour penser la relation entre la nature et la
grâce et pour pouvoir comprendre l’esthétique théologique83. En
GC 1, p. 25, (H 1, p. 26).
Cf. GC 1, p. 25, (H 1, p. 27); comme nous le montrions plus haut et
comme le laisse entendre l’analogie de l’être qui permet de penser la continuité dans son juste rapport du naturel et du surnaturel. C’est ainsi que dans
le cadre de l’esthétique on peut parler de l’analogie de la beauté (cf. N. O’DONAGHUE, A theology of beauty, dans J. RICHES, (ed.), The analogy of Beauty. The
Theology of Hans Urs von Balthasar, Edimbourg, 1986, p. 6).
81 GC 1, p. 29, (H 1, p. 31).
82 GC 1, p. 30, (H 1, p. 32).
83 Le thème de l’analogie est le principe autour duquel tourne toute la
pensée de notre auteur (cf. A. MODA, Hans Urs von Balthasar. Un’esposizione
79
80
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
497
effet nous nous référons à la pensée de Balthasar pour affirmer
qu’entre la grâce et la nature il ne peut y avoir de rupture84. Il
existe en fait une transparence réciproque entre la nature et la
grâce. La beauté surnaturelle que Balthasar désigne selon le
terme biblique de gloire (dovxa), est un transcendantal théologique qui existe dans une indissoluble périchorèse avec les transcendantaux philosophiques de l’être85. Toutefois l’auteur exclut
toute réduction de la gloire transcendantale à une beauté intramondaine. Alors comment penser les deux beautés si ce n’est
selon la catégorie de l’analogie telle que le quatrième Concile du
Latran le définit “maior dissimilitudo in tanta similitudine”86. Il
convient donc de maintenir à l’esprit le principe d’analogie pour
interpréter correctement le rapport qui existe entre l’esthétique
naturelle et surnaturelle et l’espérance naturelle et surnaturelle.
Ajoutons un ultime élément fondamental: la vision de la
figure de la révélation suppose un élément surnaturel, l’intervention de l’Esprit Saint. En se référant à la permanence de la
figure du Christ dans la période post pascale87, on peut en effet
mettre en évidence le rôle de l’Esprit Saint dans la vision du
“centre de la figure de la révélation”. La naissance de l’image, de
la figure totale de la révélation dans les disciples avec la descente de l’Esprit, leur permet de voir la figure du Christ comme l’accomplissement de l’Ancienne Alliance, et la proportion unique
entre l’Ancien et le Nouveau88. L’Esprit-Saint est donc l’artisan
de cette vision et devient l’élément principal de la doctrine de la
perception de la gloire et joue donc un rôle fondamental dans ce
que l’on peut appeler l’esthétique théologique de l’espérance.
critica del suo pensiero, Bari, 1976, p. 223-224); cf. aussi la présentation qu’en
fait G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Brescia,
1997, p. 235-238.
84 Cf. J. SCHMID, Im Ausstrahl der Schönheit Gottes. Die Bedeutung der
Analogie in “Herrlichkeit” bei Hans Urs von Balthasar, Münster, 1982, p. 197198.
85 Cf. GC 3/2, p. 208, (H 3/2, p. 224).
86 DS 806.
87 Pour Balthasar la vision de la figure dépend du Ressuscité lui-même
qui fait participer l’homme en modelant ses sens (cf. GC 1, p. 310/ H 1, 353 p.).
88 Cf. GC 1, p. 26, (H 1, p. 28).
498
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
3.2.4. L’espérance de la gloire du Christ à l’origine du christianisme
Si l’être chrétien est figure c’est précisément en réponse à la
figure du Christ. La vision engendre une réponse qui devient responsabilité. Or cette réponse est le résultat d’un transport, d’un
ravissement devant la splendeur de la figure de la révélation. Cet
élément de ravissement est si important dans l’optique de Hans
Urs von Balthasar, qu’il situe l’origine du christianisme dans ce
ravissement: “être transporté (hingerissenwerden), c’est l’origine
du christianisme”89.
La rencontre avec la figure du Christ provoque en effet un
enthousiasme (Begeisterung), qui est amour de la beauté du
Christ, au nom de laquelle l’homme devient un insensé. On peut
citer en exemple l’expérience johannique et paulinienne de rencontre avec la figure du Christ. Pour Jean la figure du Christ
apparaît dans la rencontre et transperce l’homme d’une manière
indicible le jetant à genoux dans l’adoration et en faisant un disciple90. Paul également, sur le chemin de Damas a vu la beauté
suprême au point de devenir disciple du Christ qu’il persécutait
auparavant91. La sequela Christi naît donc d’une rencontre
enthousiasmante. Enthousiasme qui les portera jusqu’à la croix
et leur donnera la force de souffrir dans l’espérance de la gloire
divine.”Ils (les Apôtres) souffrent, volontairement, pour leur
amour et seul leur embrasement pour la Beauté suprême, couronnée d’épines et crucifiée, justifie qu’ils souffrent avec Elle”92.
Balthasar spécifie que cette voie du ravissement est la vie secrète des saints mais que peu s’en soucie vraiment alors qu’elle est
offerte à qui le veut vraiment93.
89 GC 1, p. 28, (H 1, p. 30); c’est ainsi que pour Balthasar : “le centre de
l’apologétique chrétienne demeure dans cet Incomparable. Incomparable à
condition que la figure de Jésus ne soit pas morcelée” (Aux croyants incertains, Paris, 1980, p. 26-27/ Kleine Fibel für verunsicherte Laien, Einsiedeln,
19893, p. 23).
90 Cf. GC 1, p. 28, (H 1, p. 30).
91 Cf. GC 1, p. 28, (H 1, p. 30).
92 GC 1, p. 28, (H 1, p. 30).
93 Cf. GC 1, p. 29, (H 1, p. 31).
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
499
4. Reconsidérer l’esthétique dans les théologies actuelles de
l’espérance
Nous ne pouvons certes pas développer un dialogue exhaustif avec la théologie de l’espérance actuelle mais nous nous
contenterons de quelques considérations qui mériteraient bien
d’autres développements.
On pourrait se demander si cette esthétique théologique de
l’espérance que nous prônons est conciliable avec la théologie de
l’espérance apparue avec un Moltmann qui a proposé de relire la
théologie à partir de l’espérance en considérant la provocation
sécularisante d’E. Bloch. Selon lui le noyau central du christianisme se trouve dans la lecture des évènements de la vie du
Christ comme anticipation, comme promesse du Règne. À propos de cette théologie de l’espérance de Moltmann, nous pouvons d’une part dire que, s’il est vrai que sa théologie de l’espérance reste traditionnelle dans le sens qu’il applique le rapport
promesse-accomplissement, il accentue trop selon Balthasar
l’eccédence, son règne ne s’étant pas encore affirmé dans l’histoire du monde94. Moltmann s’oppose ainsi à une eschatologie
trop épiphanique laquelle est considérée trop tributaire d’une
conception grecque. Parler d’espérance esthétique comme nous
le faisons semble donc être trop epiphanique et entrer en contradiction avec la réalité humaine qui gémit dans l’attente d’une
libération. Il faut pouvoir situer la pensée de Moltmann et se
rapeller qu’il est héritier de la pensée protestante laquelle aussi
a évacué l’esthétique de la théologie en considérant la vision
comme un élément étranger au message biblique. Luther refusa
en effet tout ce qui voulait faire accorder esthétiquement la divinité (la révélation) et l’humanité (la courtisane Raison). Toute
recherche d’accord signifie diminuer la foi. Entre Dieu et l’homme, entre la surnature et la nature, entre la beauté humaine et la
beauté divine ne peut exister qu’un rapport dialectique. De
même le point de départ luthérien étant anticontemplatif, privilégiant l’exaiphnès, l’évènement-éclair, il est logique que le pro-
94 Cf. La dramatique divine. III. L’Action, Namur, 1990, p. 144
(Theodramatik III. Das Endspiel. Einsiedeln, 1976, p. 150)
500
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
testantisme éliminât du canon des Écritures tous les livres saints
proprement contemplatifs et esthétiques. De même la seule
théologie valable pour ce siècle devient la theologia crucis, la
theologia gloriae étant réservée au siècle future.
Et pourtant une théologie de l’espérance pour les plus
pauvres peut comme le montre une récente étude de C.
Mendoza-Alvarez récupérer l’élément esthétique. C. MendozaAlvarez nous offre une synthèse entre l’esthétique et la théologie
de la libération dans une recherche sur la révélation chrétienne
en dialogue avec la modernité95. Cette étude touche à la fois la
théologie fondamentale et la théologie morale mais sous l’aspect
de la libération. Nous présentons les grandes lignes de cette
réflexion car elle permet de montrer comment l’esthétique investit un domaine de la théologie qui lui semble a priori étranger.
Selon l’auteur, l’esthétique théologique est une médiation épistémologique pour la théologie en tant qu’elle est l’étude des conditions de la réception de la révélation pour l’époque contemporaine. Il est convaincu que c’est bien l’esthétique qui permet de
sortir des impasses que pose la modernité à la théologie fondamentale96. L’esthétique permet en effet de proposer un langage
qui soit “persuasion de l’intelligence et séduction de la volonté”
selon l’expression de Bartolomé de Las Casas97. Elle ouvre également la possibilité de construire une esthétique conçue
comme sequela du Christ98. À la base de cette esthétique théologique, nous trouvons l’intuition fondamentale de la théologie de
la libération qui associe la question de la souffrance de l’innocent au langage sur Dieu. L’auteur refuse en effet la domination
de la raison quantitative moderne qui n’est plus capable de voir
le visage du Christ en celui de toute personne opprimée99. Il
s’agit donc de faire apparaître un visage sur la figure déformée
de tout être souffrant. Selon Mendoza-Alvarez l’esthétique théo-
95 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Deus liberans. La Revelación cristiana en diálogo con la modernidad: los elementos fundacionales de la estética teológica,
Fribourg, 1996.
96 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 2.
97 C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 13.
98 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 2.
99 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 13.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
501
logique de Hans Urs von Balthasar présente une insuffisante
attention à l’expérience humaine de la souffrance. Le primat de
la kénosis dans l’esthétique théologique de Balthasar et le rayonnement de la gloire de Dieu dans l’expérience de la croix sont
jugés positivement, mais il n’a pas intégré un discours sur la
négation de la vie innocente dans le dynamisme de la figure
christologique. Il estime aussi que la dimension de l’expérience
humaine, ainsi que la consistance de l’autonomie relative de
l’homme, ne sont pas, mis en évidence dans cette esthétique100.
Balthasar privilégie, selon lui, comme sujet fondamental de sa
théologie, Dieu et sa vie trinitaire101. L’esthétique théologique de
Mendoza-Alvarez propose au contraire une voie d’approche différente qui intègre la voie anthropologique à partir de la perception de la négativité du sujet et de l’histoire. Il parle ainsi de l’esthétique de la négativité102. L’esthétique théologique est donc
conçue comme une théorie de la perception théologale du
monde103. L’esthétique théologique permet la perception théologique de cette réalité qui sera lue à la lumière du Serviteur souffrant. Avec Bartolomé de Las Casas, Mendoza-Alvarez considère
en effet que dans la négativité du sujet souffrant c’est bien la présence du Christ souffrant qui s’y manifeste et qui est perçue par
Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 308-309.
Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 308. Une remarque s’impose à propos de cette critique concernant Balthasar. Il nous semble que la perspective de Balthasar est beaucoup plus équilibrée. Dieu est bien le sujet premier
de la théologie mais non sans concerner l’homme en profondeur, le terrain
concret de son histoire peccamineuse. Sa théologie de l’histoire comme elle
est exprimée dans Theologie der Geschichte apporte une lumière sur une juste
intégration en théologie de l’humanum. Une présentation de Marchesi de
l’anthropologie de Balthasar permet de lever toute équivoque: “La voie de la
transcendance est comme la monnaie précieuse qui assure l’autenticité du
monde et de l’homme; en soulignant fortement l’absolue transcendance et
l’altérité de Dieu, on insiste avec la même énergie sur la dimension de l’autotranscendance, propre à l’homme, non seulement en relation avec certaines choses particulières, mais aussi en relation avec le monde entier, à la
totalité de l’être; dans sa liberté l’homme accueille la différence qui existe
entre lui et le monde” (G. MARCHESI, Op. cit, p. 177).
102 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Op. cit., p. 311.
103 Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 30.
100
101
502
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
la lumière de la foi104. La figure du Christ est dès lors avant tout
perceptible dans la figure de l’homme souffrant. C’est là que
Dieu se manifeste. En outre, si pour Balthasar la croix est perçue comme manifestation de la gloire de Dieu dans l’amour qui
s’y donne, la croix pour Mendoza-Alvarez est la manifestation de
la solidarité de Dieu avec la souffrance et donc de la fidélité de
Dieu à son Alliance. La perception de la souffrance de l’innocent
et de son contexte historique défavorable, rend ainsi possible
l’annonce de la croix du Christ comme réponse de solidarité et
de rédemption de la part de Dieu devant le drame de la souffrance humaine. L’être humain qui souffre se voit appelé à
entrer avec sa souffrance dans l’espérance de la résurrection du
Fils de Dieu105. L’esthétique théologique de la libération se présente donc comme une tentative de libérer l’homme de la raison
dominante qui empêche l’homme moderne de percevoir la
valeur du visage souffrant. Cette critique de Mendoza-Alvarez
nous semble juste, et elle s’inscrit dans le contexte même de la
postmodernité qui refuse la réduction de la lecture de la réalité
selon le seul critère de la raison scientifique. Par rapport à la critique de l’esthétique de Balthasar, nous retenons qu’il a effectivement privilégié le point de vue d’en haut, mais qu’une lecture
complète de son oeuvre laisse percevoir un engagement de
l’homme dans la réalité de ce monde à la suite de l’engagement
de Dieu en faveur du frère qui a valeur de sacrement. Il est vrai
que l’herméneutique de la croix du Christ, selon Hans Urs von
Balthasar, vise à sauvegarder le sens d’une rédemption comprise
comme libération de la réalité du péché, de toute réduction
sécularisante et idéologique de l’acte rédempteur. Cependant le
point de vue de Mendoza-Alvarez nous semble acceptable à
condition d’éviter une idéologisation de la croix et une lecture
essentiellement existentielle. Celle-ci doit être subordonnée à
une lecture théologale de la croix.
Parler d’esthétique dans la théologie de l’espérance qui
accentue la libération horizontale pourrait sembler anhistorique
et pourtant l’espérance de la libération n’est-elle pas aussi la libé-
104
105
Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 434.
Cf. C. MENDOZA-ALVAREZ, Ibid., p. 433.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
503
ration du non-sens, de l’absurdité de l’absence de signification.
Peut-on donc proposer une théologie de l’espérance qui ne tienne pas compte du désespoir existentiel de l’homme? Chercher à
rendre visible la figure de la révélation, sa beauté et donc la révélation du sens ultime de toute réalité, c’est contribuer à éclairer
le non-sens de l’absence de la forme par la forme ultime eschatologique du Christ.
Il nous semble également devoir souligner l’importance de
l’élément esthétique pour une théologie des réalités dernières.
Car au fond l’espérance de la gloire est bien l’espérance de la
beauté éternelle de Dieu à laquelle l’homme participe déjà maintenant dans une tension toujours actuelle en attendant la pleine
révélation de cette gloire dans le face à face avec le Père.
Retrouver le désir du ciel à partir du désir de la beauté, c’est
faire redécouvrir à l’homme qu’il porte en lui une trace de la
beauté infinie à laquelle il aspire. Cette beauté reste voilée à sa
conscience en raison d’un situation culturelle refusant la différence ontologique ou en raison même du regard moderne qui a
privilégié le moment analytique “qui divise” pour mieux dominer, mais qui est incapable de voir la synthèse et donc la symphonie du réel. Libérer l’homme de cette fermeture du regard
sur l’au-delà n’est ce pas rendre un service de libération?
5. La dimension esthétique de la théologie de l’espérance de
saint Alphonse de Liguori
La théologie de l’espérance de saint Alphonse est fondée sur
la puissance de Dieu, les promesses de Dieu, et la bonté de Dieu
qui suscitent émerveillement et amour.
L’homme peut ainsi espérer en son salut en raison même de
la toute puissance de Dieu capable de réaliser ce que lui ne peut
obtenir par ses propres forces. En effet saint Alphonse ne
manque pas de souligner la différence existant entre la puissance de l’homme et celle de Dieu pour montrer que l’espérance
humaine en quelques biens est incertaine en raison de la volonté changeante de l’homme et de la capacité défectueuse de
l’homme d’accomplir de manière constante ses plans. Au
contraire, en se référant à la doctrine du docteur angélique,
Alphonse affirme que le chrétien peut avoir une certaine espé-
504
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
rance de la béatitude éternelle, parce qu’elle ne s’appuie pas sur
la grâce que nous possédons mais sur la divine toute-puissance
et sa miséricorde106.
Mais si l’homme perd l’espérance et n’obtient pas la béatitude c’est uniquement en raison d’un obstacle situé du côté de
l’homme et non de Dieu car notre espérance est fondée sur une
promesse celle faite par Dieu. Saint Alphonse ne manque pas de
souligner la fidélité de Dieu à ses promesses: “Mais cette miséricorde il la veut pour notre plus grand bien, miséricorde que nous
espérons avec vive confiance en nous fondant sur ses mérites et
ses promesses”107. C’est dans l’Écriture sainte que le docteur
trouve le fondement d’une telle confiance; en particulier en se
référant à Marc 11,24, aux Psaumes 17,31; 40,14,15 et 70,1; à
l’Ecclésiastique 2,2 et Jean 16,23.
A côté de cet argument métaphysique, la puissance de Dieu,
et l’argument existentielle, avoir confiance dans les promesses
de Dieu, Alphonse avance un argument théologique qui s’appuie
sur les dogmes de la création, de l’incarnation et de la rédemption pour fonder la bonté de Dieu, qui est présentée comme la
manifestation de cette puissance et la réalisation de la promesse
divine, et qui suscite émerveillement et amour.
Le dogme de la création est bien le fondement de la théologie de l’espérance. Il voit dans l’amour premier de Dieu pour
l’homme le motif par excellence de l’espérance. Il nous a aimé le
premier; il nous a aimé avant la création du monde; et c’est au
nom de l’amour qu’il a créé le monde. La création est le premier
grand don fait par Dieu à l’homme en vue d’obtenir l’affection du
coeur de l’homme. Et cet amour est provoqué par la beauté de la
création. Telle est l’analyse de Kramer dans son étude sur l’espérance chez saint Alphonse qui a précisément relié cet amour à la
beauté, aux merveilles de la création108. Parlant de Thérèse
d’Avila, le saint docteur écrit: “Sainte Thérèse disait autour d’elle, qu’en regardant les arbres, les sources, les ruisseaux, la mer,
ou les prés, toutes ces belles créatures lui rappelaient son ingra-
Cf. De spe christiana, (ODW 2), p. 727.
Via della salute, (OAT 2), p. 277; 275.
108 Cf. C. KRAMER, Fear and Hope according to Saint Alphonsus Liguori,
Washington, D. C., 1951, p. 15.
106
107
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
505
titude d’aimer aussi peu le Créateur qui les avait créées pour être
aimées”109. Nous trouvons ainsi un élément fondamental pour
affirmer que la pensée de saint Alphonse a intégré la dimension
esthétique dans sa théologie. C’est précisément la beauté de la
création qui reflète l’amour de Dieu invitant l’homme à aimer
Dieu par gratitude. On peut donc affirmer que pour saint
Alphonse, l’homme peut espérer en la bonté de Dieu en raison de
la beauté de sa création qui manifeste son amour.
Saint Alphonse ne reste pas seulement au niveau de l’ordre
de la création pour fonder l’espérance, mais c’est en considérant
le mystère du Christ dans le dogme de l’incarnation qu’il nous
livre un premier élément de sa pensée christocentrique de l’espérance chrétienne. C’est dans le Fils que se manifeste tout
l’amour du Père: “Considère comment le Père éternel en nous
donnant son Fils comme rédempteur, comme victime et comme
prix de notre rachat, ne pouvait pas nous offrir motif meilleur
d’espérance et d’amour, pour nous donner confiance et pour
nous obliger à l’aimer. En nous donnant le Fils, il ne sait ni ne
peut nous donner autre chose en plus. Il veut que nous fassions
droit de ce don immense, pour gagner le salut éternel et toute
grâce nécessaire; alors qu’en Jésus nous trouvons tout ce que
nous pouvons désirer: nous trouvons la lumière, la force, la paix,
la confiance, l’amour et la gloire éternelle; puisque Jésus Christ
est un don qui contient tous les dons que nous pouvons chercher
et désirer”110. Il convient de noter que le docteur s’appuie à nouveau sur l’amour pour fonder l’espérance en rappelant que c’est
l’amour du Père pour l’homme qui se révèle dans l’incarnation.
Et c’est dans le mystère de la nativité, dans l’humilité de la naissance du Fils de Dieu, que saint Alphonse voit le désir de Dieu
d’être d’abord aimé et non craint: “mais parce qu’il venait pour
gagner notre amour, il voulut venir et se faire voir comme un
enfant”111.
La mort du Christ en croix est le second élément de cette
théologie christocentrique de l’espérance alphonsienne. La mort
du Christ vise à révéler à l’homme l’amour du Père: “Pour nous
109
110
111
Practica di amar Gesù Cristo, 1.3, (OAR 1 1933), p. 3.
Meditazione 3, Novena del Santo Natale, (OAR 4.1 1939), p. 145.
Incarnazione, (OAR 4 1939), p. 29.
506
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
démontrer l’amour qu’il nous portait: Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. 5, 2). Il nous a aimé, parce qu’il nous
aimait, il se livra à la douleur, à l’ignominie et à la mort la plus
difficile qu’un homme n’ait jamais subie sur la terre”112. Et face
à cet amour l’homme ne peut que répondre par l’amour en se
rappelant que le Christ est venu sauver le pécheur par amour, et
qu’il continue à aimer l’homme d’un même amour. L’homme ne
peut donc désespérer en contemplant cet amour parce que Jésus
Christ est l’unique espérance de tous nos désirs; parce que Jésus
Christ nous pardonnera nos péchés; parce que Jésus Christ nous
rendra persévérant; parce que Jésus Christ nous donnera l’éternelle béatitude.
Au fond nous retrouvons dans la théologie de l’espérance de
Liguori l’intuition augustinienne et johannique, reprise par
Hans Urs von Balthasar à savoir le thème de la beauté de
l’amour. C’est donc bien la beauté de l’amour de Dieu manifesté
dans la création, dans l’incarnation et dans la rédemption qui
constitue le fondement de l’espérance alphonsienne. On peut dès
lors affirmer que l’espérance chrétienne de la gloire est ainsi l’espérance de la beauté de l’amour divin manifesté en Jésus-Christ.
6. Conclusion
Nous avons conscience d’offrir une voie peu parcourue par
les théologiens de l’espérance. Pourtant notre étude nous montre
une relation réciproque qui existe entre l’esthétique et l’espérance. L’objet de cette rencontre de théologiens en l’honneur de
saint Alphonse est réalisée dans un esprit de recherche et donc
c’est sans prétention d’absoluité que nous avons osé élargir le
thème de l’espérance à l’esthétique. Nous proposons de manière
synthétique un certains nombres d’éléments qui apparaissent au
terme de cette étude.
a) L’espérance de l’être humain est une espérance de sens
global, de vérité absolue, d’un fondement ultime. La fragmentation de la vérité dans la postmodernité ou la réduction rationa-
112
Practica di amar Gesù Cristo, 1.7, (OAR 1 1933), p. 5.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
507
liste de la vérité de la modernité entraîne une frustration tant
intellectuelle que spirituelle. On peut certes répondre par un
éloge de la pensée faible comme le fait G. Vattimo et pourtant
l’aspiration à la plénitude, d’harmonie, de forme, persiste dans le
coeur de tout homme. La légèreté de l’être, l’apologie du néant
sont nous semble-t-il des voies peu fécondes même si apparemment elles libèrent et peuvent, dans le mirage d’un instant
qu’offre la fruition esthétique, provoquer l’illusion de la vraie vie.
b) Le foi chrétienne n’est pas séparable de l’espérance. Le
chrétien croit en un Dieu trine, il espère en lui et il l’aime.
Pourtant l’objet de son espérance nécessite pour son adhésion et
son dynamisme interne une dimension esthétique que nous
avons tenté de relever. Sans figure il ne peut y avoir ravissement
ni perception de la beauté éternelle révélée en Jésus Christ.
Croire dans la bienheureuse espérance qu’est le Christ n’est possible que si on redonne à cette espérance un attrait qui la fasse
désirer plus que le non-être. Est-il possible de faire goûter par
anticipation la vie éternelle si on réduit la vérité chrétienne à la
seule raison logique? Restituer la beauté à la théologie est un
défi qui ne peut laisser indifférent le théologien catholique. Nous
nous associons à la constatation prophétique du Cardinal
Lustiger qui voit dans cette sensibilité nouvelle une chance pour
le christianisme dans l’annonce de la vérité: “Je pense que l’approche esthétique de la vérité est extrêmement importante pour
fonder la démarche théologique. Cette revendication théorique
faite aujourd’hui par des intellectuels et par des théologiens, je
la perçois comme l’annonce d’un printemps à venir, et pour la
société et pour l’Église”113. Nous pensons en effet que le désir de
sauver la vérité ne peut se réduire à une affirmation de la vérité.
Celle-ci doit apparaître belle et bonne sinon elle se présente avec
une violence qui repousse l’homme d’aujourd’hui (au lieu de l’attirer et de se faire aimer) et l’empêche d’adhérer par manque de
clarté (d’harmonie et de lumière). Plus que jamais, nous sommes
invités à manifester la vérité. Une théologie “pédagogique” sera
une théologie “épiphanique” qui annoncera la beauté et la bonté
du Christ. La Parabole du Fils prodigue (bonté du Père) et l’épi-
113
J.-M. LUSTIGER, Le choix de Dieu, Paris, 1987, p. 142-143.
508
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
sode de la Transfiguration (beauté du Fils) nous en indiquent la
voie. Le Christ est la Voie pour l’homme parce qu’ il attire par sa
bonté et sa beauté et lui fait découvrir la vérité. Nous ne pouvons
donc réduire la vérité à un concept purement logique. Il
convient au contraire d’associer la vérité aux autres transcendantaux et favoriser une conception de la vérité comme révélation et manifestation qui est la seule à notre avis à rendre vraiment compte de la conception chrétienne de la vérité114. Une
telle approche permet de comprendre comment la vérité est le
dévoilement et l’épiphanie d’un fond objectif qui sous-tend toute
la réalité humaine et donne un sens ultime. C’est ainsi que nous
pouvons donner raison au questionnement prophétique d’un
Maurice Zundel et en saisir toute sa portée: “Ne faudrait-il pas
toujours associer la Beauté à la présentation de l’Évangile? Estce que ce n’est pas sous cet aspect qu’il doit se propager? N’estce pas la seule manière de l’accréditer auprès de l’âme humaine
que de lui donner son vrai visage qui est le visage de l’éternelle
Beauté? Il est clair que si le christianisme veut nous conduire au
plus haut niveau de l’existence — s’il est vraiment un art divin de
vivre — s’il fait jaillir notre vie en beauté... il n’aura pas besoin
d’être défendu: il rayonnera comme fait une oeuvre d’art. On l’aimera comme l’espace où la liberté respire. On s’y reconnaîtra
parce que toute âme humaine porte en elle la nostalgie de l’éternelle Beauté.”115
c) L’espérance de la gloire devient ainsi le moteur de tout
agir chrétien: le chrétien espère la gloire de Dieu dans cette vie
et dans l’autre vie. Il espère non pas pour la posséder de manière égoïste pour soi mais son espérance est appelée à se purifier
chaque jour davantage pour pouvoir espérer gratuitement la
114 Scheeben a souligné la dimension de mystère qui accompagne la
vérité chrétienne. Une conception de la vérité comme voilement et dévoilement est la seule qui sauve cette dimension. Il met également en relation la
dimension esthétique avec le mystère. On comprend dès lors qu’une telle
conception de la vérité sauve la dimension esthétique et révèle encore une
fois l’importance de la beauté pour comprendre la vérité chrétienne. (cf. M.
J., SCHEEBEN, Die Mysterien des Christentums, 1, 1-4, Freiburg i. Br., 1941, p.
1-40).
115 M. ZUNDEL, L’hymne à la joie, Québec, 1992, p. 81.
LE DÉFI DE L’ESPÉRANCE AUX ESPÉRANCES INTRAMONDAINES
509
gloire de Dieu. Son espérance s’étend au dimension de l’univers
dans le désir de réconcilier, d’harmoniser toute la création, tout
homme avec Dieu. Mais est-il possible d’espérer dans la réconciliation de la nature avec Dieu et avec l’homme si on exclut la
dimension esthétique? N’est-ce pas un autre regard qui permet
de voir la destruction de la nature et permet d’espérer sans tomber dans le pessimisme? On peut ainsi parler d’une espérance de
la gloire dans le contexte de l’écologie. Comment redonner à
l’homme l’espérance d’une “demeure” (oikos) harmonieuse si lui
manque la capacité et le désir de contempler une unité harmonieuse du réel? Cette espérance de réconciliation porte aussi sur
le salut spirituel de tout homme. Car c’est en Jésus-Christ que le
chrétien reçoit une beauté qui lui est donnée et qui surpasse
toute beauté intramondaine. C’est en lui que le non-sens de la
disharmonie intérieure (péché) s’éclaire de manière définitive
comme un refus de l’unité harmonieuse de l’amour et qu’il peut
retrouver son harmonie à partir du Christ son Rédempteur. C’est
en lui que l’absurdité de la souffrance peut être récupérée et
transfigurée par une association à la Croix et être lue comme
participation à l’offrande du Christ. C’est aussi en lui que le chrétien peut fonder la dignité de tout être humain, celle d’être fils
dans le Fils, croire et espérer dans la victoire du bien et du beau
dans le coeur de tout homme parce qu’il est créé et recréé en
Jésus-Christ. Lorsque l’homme est tenté de chosifier l’être
humain, de le réduire dans une approche utilitariste à n’être
homme que parce qu’il est utile à la société, à l’état, à l’économie, son avenir est menacé. C’est alors que l’espérance de la gloire chrétienne offre un autre regard sur l’homme qui est salvifique et qui contribue à éclairer la conscience de la culture
contemporaine tentée par un nihilisme technologique où prime
le faire sur l’agir, l’avoir sur l’être, l’égoïsme sur le don. C’est dans
ce sens qu’on peut vraiment affirmer que la beauté de la Gloire
sauve le monde.
Casa Parrocchiale
6914 Carona
Svizzera
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
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510
ANDRÉ-MARIE JÉRUMANIS
Summary / Resumen
The author proposes a reading of the theology of hope in the
framework of an aesthetic theology illustrating the Pauline expression:
“Christ in you and the hope of glory” (Col. 1,27). Basing himself on the
aesthetic dimension of glory, the author show how the splendour of
Christ responds to the nostalgia of beauty which characterises the
contemporary person tempted by the despair of non-meaning and of the
absence of form in life. Christian hope offers a global meaning and an
ultimate example. To illustrate this affirmation he bases his argument
in a notable way on the theology of hope of St. Alphonsus de Liguori
which has an aesthetic dimension usually overlooked by commentators
on him. It is an example of the importance which the Saint and Doctor
gives to the beauty of Christian hope to convince his readers to follow
the way of Christ.
El autor propone una lectura de la teología de la esperanza en el
marco de una estética teológica que ilustra la expresión paulina: “Cristo entre vosotros, esperanza de la gloria” (Col. 1,27). Apoyándose en la
dimensión estética de la gloria, demuestra cómo el esplendor de Cristo
responde a la nostalgia de belleza que caracteriza a la persona contemporánea tentada por la desesperación del sin-sentido y por la carencia
de forma en la vida. La esperanza cristiana brinda un significado global y un ejemplo concluyente. Para ilustrar esta afirmación, se basa sobre todo en la teología de la esperanza de San Alfonso de Liguori, el cual
posee una dimensión estética frecuentemente olvidada por sus comentaristas. Es un ejemplo de la importancia que el Santo y Doctor da a la
belleza de la esperanza cristiana, para inducir a sus lectores a seguir el
camino de Cristo.
—————
The author is Professor of Special Moral Theology at the Theological Faculty of Lugano (Switzerland).
El autor es profesor de Teología Moral Especial en la Facultad
Teológica de Lugano (Suiza).
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511
StMor 38 (2000) 511-522
MARTIN MCKEEVER C.Ss.R.
TEMPI, TESTI, TRADIZIONI:
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Dopo tanti discorsi scientifici, corposi e profondi, mi sarà
consentito iniziare queste riflessioni conclusive con un’illustrazione più leggera.
Nel 1965 un giovane studente di medicina arrivò per la prima volta alla famosa scuola di medicina dell’Università di Cambridge. Entrato nel portico, un altro studente, appena laureato,
si avvicinò, portando un enorme manuale d’anatomia umana e
disse: “Senti, amico, vedo che sei nuovo qua. Quindi, devi per
forza studiare l’anatomia. Posso offrirti questo manuale per sole 10 sterline.” Il nuovo studente prese il libro, lo aprì, lo guardò
e poi disse con indignazione “ma questo manuale è stato pubblicato nel 1915!!” Sereno, lo studente più grande rispose: “E allora? il corpo umano non è cambiato tanto in questi anni!”.
Per quanto sia banale, questa piccola scena porta in sé gli
elementi essenziali del nostro convegno: tempi, testi e tradizioni. Abbiamo sentito parlare del tempo di Sant’ Alfonso, del tempo della sua Proclamazione a Patrono dei moralisti e dei confessori, dei nostri tempi moderni e postmoderni; abbiamo sentito parlare dei testi della Sacra Scrittura, dei testi di S. Alfonso e
del testo del Breve Apostolico; e abbiamo sentito parlare della
grande Tradizione della Chiesa e di quella tradizione teologica
più particolare della morale alfonsiana.
Non è il caso in questa riflessione né di ripetere né di sintetizzare quello che è stato detto su questi temi durante il convegno. Si tratta piuttosto di offrire una lettura degli interventi alla
luce del titolo del convegno, vale a dire chiederci come la morale alfonsiana possa essere una risposta alle sfide di ieri e d’oggi.
Per dare una struttura a queste riflessioni, vorrei prendere in prestito alcuni elementi del modello di una tradizione scientifica che
ci fornisce Alasdair MacIntrye nel suo celebre Whose Justice?
512
MARTIN MCKEEVER
Which Rationality? (London: Duckworth,1988). Tra tante altre riflessioni stimolanti, questo studio ci suggerisce le seguenti come
esigenze imprescindibili d’ogni tradizione scientifica:
1. Il rapporto diretto tra pratica e teoria nello sviluppo di una
scienza
2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica
3. La produzione e il riconoscimento di testi scientifici “canonici”
4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una “crisi epistemologica”
5. L’educazione come processo di inserzione nella tradizione
rinnovata
Si nota subito come queste esigenze risuonano degli elementi del convegno, anche qui abbiamo da fare con tempi, testi
e tradizioni. Per questo motivo, le cinque esigenze possono servirci come cornice in cui collocare la portata delle conferenze
per il nostro tema. In altre parole, applicando questo modello di
tradizione scientifica al contenuto del convegno sarà possibile
vedere meglio il modo in cui la morale alfonsiana è ritenuta una
risposta alle sfide di ieri e di oggi. Prima di fare questo, però, vale la pena soffermarci brevemente su queste esigenze, per capire meglio perché sono imprescindibili per una tradizione scientifica. A questo fine, prendiamo l’esempio non della teologia morale ma di un’altra scienza come quella della medicina. Così sarà
possibile vedere meglio sia che cosa vuol dire considerare la teologia morale come scienza sia in che cosa consiste la particolarità di questa scienza. Vorrei, quindi, applicare questo modello
di tradizione alla medicina, invitando chi ascolta a prestare attenzione all’analogia, cara anche al S. Alfonso, tra medicina e
teologia morale come scienza.
1. Il rapporto diretto tra pratica e teoria nello sviluppo di una
scienza
La prima esigenza si riferisce al legame tra l’atto di studiare
la medicina come scienza e la pratica concreta della medicina
negli ospedali e negli studi medici di una società. Vale la pena ri-
TEMPI, TESTI, TRADIZIONI: RIFLESSIONI CONCLUSIVE
513
cordare il fatto ovvio che la raison d’être di una scuola di medicina è quella di preparare medici per rendere servizio pratico ai
malati.
2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica
Altro fatto ovvio ma spesso trascurato è che la scienza ha bisogno di istituzioni: come esseri umani, e quindi esseri sociali,
tutti i nostri progetti, incluso quello di pensare in modo scientifico, si collocano in spazi costruiti socialmente.
3. La produzione e il riconoscimento di testi scientifici “canonici”
Quest’esigenza si rispecchia nei manuali di medicina. Lo
studente nuovo ha ragione quando rifiuta di comprare il manuale del 1915. Questo non vuol dire, comunque, che il contenuto di un tale manuale sia inutile. Si suppone, in fatti, che un
manuale più recente includerà il meglio di quello che contiene il
manuale anteriore, escludendo elementi superati e introducendo le attualizzazioni necessarie.
4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una
“crisi epistemologica”
Quando un medico o un ricercatore scopre un fatto originale che non si può spiegare con le teorie vigenti, la tradizione
scientifica entra in “crisi epistemologica” nel senso che c’è una
discrepanza tra quello che si sa e quello che si può spiegare. Si
cerca, allora, una spiegazione nuova dentro la quale il fatto recentemente scoperto si lascia capire. La medicina, come scienza, ha bisogno di processi in cui varie teorie e pratiche vengono
sottoposte ad una critica continua, capace di valutare la veridicità e l’efficacia di teorie e pratiche contrastanti e rivali.
5. L’educazione come processo di inserzione nella tradizione
rinnovata
Educarsi nella scienza pratica e teorica della medicina vuol
dire inserirsi come apprendista in questa tradizione continuamente rinnovata. Si capisce che all’inizio l’apprendista avrà
l’aiuto di professionisti già riconosciuti come esperti in materia,
ma lo scopo pedagogico è quello di formare uno scienziato ca-
514
MARTIN MCKEEVER
pace non solamente di ripetere cose imparate, ma di affrontare
situazioni sconosciute in modo prudente e creativo.
Ascoltando quest’applicazione del modello di MacIntrye alla
medicina, senza dubbio l’analogia tra questa scienza e quella
della teologia morale avrà già provocato ricordi, riflessioni e interrogativi emersi negli ultimi giorni. Lo scopo di questa riflessione conclusiva è quello di offrire una lettura puntualizzata del
convegno con la quale chi ascolta può paragonare le proprie impressioni e opinioni.
1. Il legame tra teoria e pratica nello sviluppo di una scienza
Se ci chiediamo quali riferimenti durante il nostro convengo corrispondono alla parola “pratica” in questa prima esigenza,
ci troviamo di fronte ad un vero e proprio “imbarazzo della scelta”. Già la locandina del convegno esprime graficamente quello
che si è stato detto in cento modi diversi: che nella vita di S.
Alfonso il servizio pastorale e la riflessione teologica sono intimamente legati. Questo collegamento profondo trova espressione testuale sia nel Breve Apostolico con la descrizione della dottrina alfonsiana come “moralem et pastoralem” sia nella Lettera
Apostolica Spiritus Domini con il riferimento al “carattere pastorale inconfondibile” della dottrina di S. Alfonso. Come esempi concreti della pratica pastorale di Alfonso e dei redentoristi
del suo tempo ricordiamo specificatamente: le cappelle serotine,
le missioni, le prediche, le visite pastorali. Tra tutte le forme di
pratica pastorale, comunque, non c’è dubbio che la forma privilegiata di S. Alfonso è la confessione. E’ nel confessionale che S.
Alfonso si rende conto dei problemi della teologia morale vigente; è di fronte al peccatore recidivo, ignorante o disperato che
sente il bisogno di rinnovare la morale cristiana per meglio servire questa povera gente; è, in fine, di fronte ai giovani confratelli che si preparano per il ministero della riconciliazione che
sente il bisogno di offrire un’alternativa ai sistemi morali dell’epoca. Per tutti questi motivi il convegno ha ampiamente illustrato il principio della correlazione tra teoria e pratica nella
morale alfonsiana, la quale deriva dalla pratica pastorale ed è
destinata alla pratica pastorale.
TEMPI, TESTI, TRADIZIONI: RIFLESSIONI CONCLUSIVE
515
Ma proprio quest’intimo legame tra la pratica della confessione e la morale alfonsiana diviene motivo di perplessità quando prendiamo atto del contesto culturale contemporaneo. Abbiamo sentito come questa cultura è spesso caratterizzata dalla
mancanza di un senso di peccato personale con le ovvie conseguenze per il sacramento della riconciliazione. Il problema qui
non è semplicemente un problema di strategia pastorale (per es.
come convincere la gente a riprendere o a migliorare la pratica
della riconciliazione) ma anche e soprattutto un problema di autocomprensione del soggetto morale moderno o postmoderno.
Prima di offrire la morale alfonsiana come risposta a questo soggetto bisogna ascoltare la sua domanda. Durante il convegno
questa domanda è stata articolata in modi diversi, a volte anche
inquietanti: Chi mi ha dato questa vita? A chi posso dare la mia
vita? Che cosa vuol dire perdonare quelli che mi hanno offeso?
Dove posso portare la mia propria colpa? Oppure: Che cosa sono io?: Un organismo biologico? Un corpo animato? Una animale che parla? Un episodio del cosmo?
La risposta della persona credente dev’essere una pratica e
una teoria della vita cristiana che sia attraente, bella e piena di
speranza. La risposta del moralista o del confessore ad un tale
soggetto non può essere una ricetta o una panacea, ma deve consistere piuttosto nel prendere atto della tradizione ma rimanere
aperto e creativo di fronte ai fattori particolari dei tempi e delle
persone. Vedremo vari esempi più specifici di questo metodo
nella trattazione delle altre esigenze.
2. La necessità della struttura istituzionale come locus dell’attività scientifica
Passiamo alla seconda esigenza di una tradizione scientifica. Quali sono gli spazi sociali dove si colloca l’attività scientifica che è la morale alfonsiana? La forma istituzionale di fondo è
naturalmente quella della Chiesa stessa. Come ogni teologia la
morale alfonsiana ha la Sacra Scrittura per anima e s’inscrive
nelle strutture istituzionali in cui l’interpretazione della medesima è articolata e propagata. Durante il convegno questa dimensione istituzionale della Chiesa è stata l’orizzonte dentro il quale abbiamo riflettuto su due strutture istituzionali subordinate.
516
MARTIN MCKEEVER
La prima di queste è la Congregazione del Santissimo Redentore. La teologia di Alfonso nasce e cresce nel progetto pastorale della Congregazione da lui fondata. La missione di questa consiste proprio nella proclamazione del Vangelo, soprattutto ai più abbandonati. Nel corso del convegno abbiamo avuto
modo di notare le vicissitudini che la Congregazione, come ogni
struttura storica, ha dovuto affrontare sia dall’interno sia dall’esterno. In modo particolare è stato mostrato il prezzo che si paga quando la teologia morale si stacca da questo proposito evangelico originale e diventa per esempio una mera tecnica di ragionamento casuistico. E’ stato ribadito con insistenza che la
morale alfonsiana si basa sulla verità morale come fatto salvifico, fatto da condividere con benignità e da predicare con convinzione. Ugualmente, il processo che conduce alla proclamazione ricorda il rischio che la missione della Congregazione corre quando si stacca dallo studio continuo e impegnativo della
teologia. Essere fedeli alla visione del fondatore vuol dire dedicarsi alla missione evangelizzatrice della Congregazione senza
trascurare gli studi.
L’idea di curare gli studi ci porta alla seconda struttura istituzionale in questione, cioè la stessa Accademia Alfonsiana. C’è
una tendenza a dare per scontato l’esistenza, la gestione e la manutenzione di una tale struttura istituzionale, con tutto l’impegno che comporta. Come ogni forma di pensiero scientifico, la
morale alfonsiana ha bisogno di tali strutture in cui svilupparsi.
Si può capire la vita di quest’Accademica come una espressione
istituzionale dell’impegno della Congregazione negli studi e nella formazione. Vari relatori hanno ricordato il bisogno di approfondire le loro riflessioni sui problemi morali e storici. Ci auguriamo che qualche aspirante dottore abbia sentito la chiamata di affrontare tali sfide nei suoi studi approfonditi.
Riconoscere queste due strutture non vuol dire naturalmente chiudersi in un piccolo mondo redentorista o alfonsiano; colgo l’occasione en passant di esprimere la nostra soddisfazione
per la presenza e collaborazione di fratelli e sorelle di altre famiglie religiose e diocesane.
TEMPI, TESTI, TRADIZIONI: RIFLESSIONI CONCLUSIVE
517
3. La produzione e il riconoscimento di testi “canonici”
La proclamazione di S. Alfonso patrono dei moralisti e dei
confessori si può capire come un esempio formale e ufficiale del
riconoscimento di un testo “canonico”. Prendendo il testo del
Breve Apostolico come punto di partenza, abbiamo visitato vari
altri testi classici della tradizione alfonsiana: si pensi soprattutto agli scritti più pastorali come la Selva di materie predicabili ed
istruttive e la Pratica del confessore, e in primo luogo al grande
testo della Theologia Moralis.
Il convegno ci ha aiutato a capire perché S. Alfonso produce
questi testi e perché vengono riconosciuti come testi autorevoli.
La produzione della TM in modo particolare è il frutto di decenni di lavoro pastorale e teologico da parte del Santo. Prima
di essere scrittore Alfonso è lettore: della Santa Scrittura, di S.
Giovanni Crisostomo, di S. Tommaso e di tanti altri teologi. Insieme a questi studi ardui, S. Alfonso è lettore dei suoi tempi tramite l’impegno pastorale. Il suo manuale è proprio il frutto di
questi due fattori, la tradizione teologica che egli ha ereditato e
i bisogni pastorali che ha notato nel suo tempo. Tra gli aspetti
salienti e innovatori della morale alfonsiana sono da tenere presenti: la benignità pastorale, il ruolo della coscienza, la prudenza.
Il testo è stato riconosciuto per motivi ben precisi che risalgano ai dibattiti tra i sistemi di morale nei secoli scorsi. Abbiamo sentito come, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte,
la visione morale di Alfonso è stata oggetto di aspre critiche. Il
processo di riconoscimento non vuol dire che un autore o un
manuale possa risolvere tutti i problemi morali, ma vuol dire
che l’esperienza indica che un certo autore e la sua visione morale si sono dimostrati autorevoli. Assistiamo qui ad un processo analogo a quello nelle altre scienze in cui pratiche e teorie
vengono selezionate e raffinate. I nostri relatori ci hanno ricordato il valore perenne di vari aspetti della morale alfonsiana,
senza negare che in contesti nuovi ci vorrebbero nuove articolazioni, come vedremo in seguito.
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MARTIN MCKEEVER
4. La nuova articolazione della tradizione di fronte ad una
“crisi epistemologica”
Questa quarta esigenza ci porta al nocciolo del nostro tema.
Dire che la morale alfonsiana sia una risposta alle sfide non solamente di ieri ma anche di oggi vuol dire spiegare il modo in cui
testi scritti per il mondo napoletano del Settecento abbiano la loro importanza per Londra, São Paolo o Manila nel terzo millennio. Quali considerazioni sono state proposte per sostenere una
rivendicazione così audace? Si può pensare a tre riflessioni salienti: quella che radica la morale alfonsiana nella tradizione anteriore, quella che interpreta Alfonso nel suo contesto storico e
quella che si riferisce alla trasmissione della sua morale ad altri
contesti storici.
La prima considerazione concerne la particolarità della teologia come scienza. La tradizione alfonsiana si inserisce fedelmente
ma creativamente nella tradizione della fede cattolica, che è fede
in Dio trino, Creatore e Redentore del mondo, sia del mondo di
Alfonso, sia del mondo di oggi. Come Alfonso ha guardato il suo
mondo con occhi credenti, cercando di capire i segni del suo tempo con l’aiuto del grande esegeta che è lo Spirito Santo, così noi
leggiamo i segni del nostro tempo fiduciosi che la vox Dei ci parla
e ci chiama. Prima ancora d’essere una chiamata alla redenzione,
la voce di Dio ci chiama ad essere figli adottivi. La vita e la morte
di Gesù costituiscono il perno imparagonabile e il fondamento insostituibile di ogni riflessione teologico-morale. Ogni sfida della
cultura odierna va affrontata in questo orizzonte e con il dovuto
radicamento nella grande Tradizione e nei testi canonici originali.
La seconda considerazione si riferisce al significato duraturo degli stessi testi di S. Alfonso. Sarebbe chiaramente ingenuo
presentare il suo manuale di teologia morale come ricetta per i
problemi di oggi. Sarebbe ugualmente ingenuo, comunque, voler affrontare i problemi della gente di oggi senza capire il testo
del grande dottore. Quello che perdura dei suoi scritti include
senz’altro molti riferimenti specifici accumulati nella esperienza
del santo: basta ricordare i consigli preziosi e perennemente validi che offre al confessore. La morale alfonsiana si esprime più
che nei precetti specifici, nel metodo e nell’atteggiamento in cui
viene elaborata, contrassegnati quest’ultimi dalla prudenza
evangelica, dalla benignità e dalla pastoralità.
TEMPI, TESTI, TRADIZIONI: RIFLESSIONI CONCLUSIVE
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Possiamo pensare a S. Alfonso come ad un teologo che si
trova di fronte ad una “crisi epistemologica” nel senso di una
tensione tra il modo di pensare la vita morale come descritta nella teologia che conosceva dalla tradizione e i problemi emersi
nella sua pratica pastorale. I suoi scritti costituiscono un esempio di una nuova articolazione della verità morale alla luce di
nuovi problemi. Questa sua versione, come abbiamo sentito da
vari relatori, è caratterizzata da alcuni elementi significativi e, a
volte, innovatori: la verità morale concepita come verità salvatrice, la coscienza capita come fattore personalizzante della vita
morale, le conseguenze pastorali della distinzione tra peccato
formale e peccato materiale, l’enfasi sulle possibilità di conversione della persona vivente e così via.
Si capisce che queste innovazioni non vogliono dire rigettare in massa l’insegnamento di S. Tommaso, per esempio, ma riconoscere il bisogno di una nuova articolazione su punti specifici alla luce di circostanze diverse e persone diverse.
La terza considerazione è la trasmissione della tradizione in
nuovi contesti storici. Non si tratta evidentemente di un bagaglio di concetti o di teorie che si possono scrivere sulla carta e
trasferire intatte a generazioni successive. Ci vorrebbero certo
gli scritti ma ci vorrebbe anche l’arte dell’ermeneutica. Badiamo
bene che questo è l’unico modo di rimanere veramente fedeli alla morale di S. Alfonso: ripetere quello che egli dice senza prendere atto del nuovo contesto e delle nuove circostanze dell’agente morale, non vuol dire essere fedeli ma tradire i principi fondamentali del suo metodo.
La lettura autorevole dei testi canonici non può essere né arbitraria né fossilizzata. Non arbitraria in quanto deve rimanere
coerente con le grandi linee della tradizione, partendo dalla forma originale su punti specifici solo per meglio rendere l’insieme
accessibile in un contesto nuovo. Non fossilizzata in quanto non
si limita al ripetere un elenco di concetti predeterminati senza
prendere in considerazione le condizioni culturali attuali in cui
la verità morale viene espressa. In questo senso “tradizione” è
un’altra parola per l’ermeneutica comune e autorevole tramite la
quale una comunità assimila un modo di pensare e di vivere nelle circostanze nuove di un’altra epoca.
Come S. Alfonso, il moralista di oggi (per non parlare del
confessore) si trova in piena crisi epistemologica nel senso che
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MARTIN MCKEEVER
l’esperienza della gente nella cultura contemporanea spesso non
trova facile riscontro nella teoria morale tradizionale. La vera risposta nostra a questo problema non è ripetere le risposte di
Sant’ Alfonso alle sfide del suo tempo ma vedere in che modo noi
possiamo fare per il nostro tempo quello che egli ha fatto per il
suo. Un tale progetto deve anzitutto individuare con saggezza e
prudenza le caratteristiche del nostro tempo che rendono difficile l’assimilazione della morale cristiana. In questi giorni abbiamo focalizzato, tra altri fattori, gli aspetti seguenti: il modo
di ragionare che tende a vari riduzionismi nei confronti della
persona umana; la delusione, a volte espressa in toni disperati e
nihilistici della cultura postmoderna; le nuove scienze, empiriche e sociali, che mettono in dubbio le spiegazioni tradizionali
della persona umana e la sua vita morale.
Alla luce di questi aspetti non mi pare esagerato affermare
che tra la Napoli del Settecento e la Parigi del 2000 c’è un abisso particolarmente tremendo. Come Fides et Ratio ci ricorda, la
nostra cultura si trova spesso in dissonanza fondamentale con la
visione evangelica della vita umana. Per quanto siano stati generosi nell’individuare le sfide, i nostri relatori sono stati un poco più economici nel tentare risposte specifiche. Ci hanno offerto, invece, qualcosa di più utile: uno spirito di speranza e un metodo con cui far fronte alle nuove sfide del nostro tempo.
5. Educazione come processo educativo
Arriviamo così alla sesta e ultima esigenza di una tradizione, cioè la propria propagazione tramite l’educazione. Essere
una persona preparata nella teologia morale alfonsiana vuol dire inserirsi tramite lettura, studio, dibattito e pratica pastorale
in questa tradizione che si è mostrata efficace e che invita ad essere emulata.
Nelle citazioni delle lettere e degli scritti di S. Alfonso sentiamo la sua passione per l’educazione sia della gente sia dei
confratelli. Nessuno come lui era sensibile alla delicatezza necessaria nell’esercitare il ministero del confessore o del moralista e quindi consapevole del bisogno di una formazione adeguata ad affrontare questa sfida. A parte la complessità inerente alla materia, bisogna imparare a far fronte alle molteplici varia-
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zioni e particolarità delle persone e delle circostanze. Come altri
moralisti prima di lui, Alfonso riconosce che più si scende nei
dettagli, più difficile è sapere con certezza la cosa giusta da fare.
Nessun sistema di regole può prevedere tutte le circostanze possibili, quindi il processo educativo deve condurre lo studente ad
una certa capacità originale e creativa.
In questo convegno non abbiamo parlato tanto dell’educazione, abbiamo fatto qual cosa di più importante cioè l’abbiamo
messo in pratica. In una parola, questo convegno si può capire
come un momento particolare nel progetto continuo della nostra educazione nella morale alfonsiana.
Conclusione
Alla luce di quest’applicazione del modello della tradizione
scientifica al nostro convegno possiamo affermare che la morale alfonsiana soddisfa pienamente le esigenze di questo modello.
Per quanto riguarda le sfide di ieri, la morale alfonsiana è
stata una risposta creativa, prudente e coraggiosa. L’origine di
questa risposta, la ripetiamo un ultima volta, è stata la fede incrollabile di S. Alfonso nella bontà di Dio, una bontà salvatrice
che vuole abbracciare anche le anime più miserabili e disperate.
La risposta ha coinvolto un processo di riflessione e di studio
per trovare la via media tra gli eccessi di un lassismo decadente
e una rigidezza paralizzante.
La morale alfonsiana costituisce una risposta alle sfide di
oggi proprio in quanto è una tradizione scientifica di teologia,
con tutte le esigenze che questa descrizione coinvolge. Modellandosi sul modo di agire e di ragionare del Santo, il teologo
contemporaneo, come raccomanda Giovanni Paolo II nella Spiritus Domini, saprà inserirsi fedelmente nella tradizione e aprirsi alle domande dei nostri tempi. Questi interrogativi sono di
una gravità tutta particolare, come sono anche le sofferenze delle persone che si trovano senza speranza. Oggi più che mai abbiamo bisogno dunque dell’aiuto della mano forte, esperta e benigna di S. Alfonso, patrono dei moralisti e dei confessori.
Via Merulana 31
C.P. 2458
Roma - Italy.
MARTIN MCKEEVER C.SS.R.
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MARTIN MCKEEVER
—————
Summary / Resumen
The author takes up the problem posed by the articles of Professor
Hidber and Gallagher, namely, the relationship between the
Proclamation itself and the theological tradition to which it belongs. In
this contribution, the author applies the general concept of tradition
articulated by Alasdair MacIntyre to the specific case of the alphonsian
moral tradition, demonstrating in which sense this tradition can be
considered ‘scientific’ in the light of the other contributions to the
Congress printed in this volume.
El autor aborda el problema planteado en la apertura del Congreso
por los Profesores Hidber y Gallagher, en cuanto a la relación entre la
misma proclamación y la tradición teológica a la que pertenece. En
esta aportación, el autor aplica el concepto general de tradición formulado por Alasdair MacIntyre, al caso específico de la tradición moral
alfonsiana, demostrando cómo esta tradición puede considerarse
‘científica’ a la luz de otras aportaciones al Congreso, publicadas en
este volumen.
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The author is an Invited Professor at the Alphonsian Academy.
El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
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L’AGIR RATIONNEL DU CROYANT
L’APPORT DE L’ENCYCLIQUE FIDES ET RATIO
À LA THÉOLOGIE MORALE*
Il est urgent que les chrétiens redécouvrent la nouveauté de
leur foi et la force qu’elle donne au jugement par rapport à la culture dominante et envahissante…Il faut retrouver et présenter à
nouveau le vrai visage de la foi chrétienne qui n’est pas seulement
un ensemble de propositions à accueillir et à ratifier par l’intelligence. Au contraire, c’est une connaissance et une expérience du
Christ, une mémoire vivante de ses commandements, une vérité à
vivre. Ces lignes ne sont pas citées de l’Encyclique Fides et Ratio,
mais de l’Encyclique Veritatis splendor1.
L’Evangile et les écrits apostoliques proposent (…) soit des
principes généraux de conduite chrétienne, soit des enseignements
et des préceptes ponctuels. Pour les appliquer aux circonstances
particulières de la vie individuelle et sociale, le chrétien doit être en
mesure d’engager à fond sa conscience et la puissance de son raisonnement. En d’autres termes, cela signifie que la théologie morale doit recourrir à une conception philosophique correcte tant de la
nature humaine et de la société que des principes généraux d’une
décision éthique. Ces lignes ne sont pas citées de l’Encyclique
Veritatis splendor, mais de l’Encyclique Fides et Ratio2.
On pourrait sans difficulté multiplier les lieux de convergence entre ces deux textes majeurs, et montrer ainsi comment
la manière dont la foi et la raison sont articulées dans Fides et
* Este artículo se basa en una conferencia pronunciada por el autor el
9 de Noviembre de 1999 en la Academia Alfonsiana.
This article is based on a conference delivered in the Alphonsian
Academy on November 9th 1999.
1 JEAN PAUL II, Lettre encycl.Veritatis splendor, (AAS 85) 1993, 88.
2 JEAN PAUL II, Lettre encycl. Fides et Ratio (AAS 90) 1998, 68.
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Ratio a déjà été utilisée et appliquée au rapport entre la foi et la
morale dans Veritatis splendor. Parmi les grandes lignes convergentes, on doit souligner: une dynamique essentiellement théologique; une centralité analogue de la personne du Christ; la
même articulation raison-foi évitant tout extrinsécisme; la mise
en évidence des dangers liés à la prétention de séparer toute
rationalité de la lumière de la révélation; une reprise dans Fides
et Ratio du concept de vérité appliqué au bien moral longuement
développé dans Veritatis splendor; enfin, l’insistance sur la possibilité d’une transfiguration de la raison. Le but de cette réflexion
n’est pas d’établir une comparaison systématique entre les deux
textes, mais de montrer que l’enseignement de Fides et Ratio a
une pertinence pour l’agir humain. En d’autres termes: tenter de
répondre à la question fondamentale de savoir s’il existe une
dimension morale dans l’usage de l’intelligence. Comme cet
usage de la raison est déterminant pour la relation au Christ, il
convient d’abord de montrer comment la perspective de l’encyclique est surtout de nature théologique et d’illustrer dans le
texte la place centrale de la figure de Jésus Christ.
La perspective théologique et la centralité du Christ dans
Fides et Ratio
La première phrase d’introduction à l’encyclique pourrait
laisser supposer qu’il y a deux voies de connaissance de la vérité, la foi et la raison, et que ces deux voies seraient d’égale portée: La foi et la raison sont comme les deux ailes qui permettent à
l’esprit humain de s’élever vers la contemplation de la vérité. Il ne
s’agit cependant pas d’un double mouvement symétrique (de la
foi-vers la raison et de la raison vers la foi), mouvement dans
lequel les deux pôles seraient interchangeables. L’intention du
texte est théologiquement orientée (Foi et Raison et non Raison
et Foi), comme on peut le constater à partir de l’ordre des chapitres: credo ut intellegam précède intellego ut credam. Tout le
rapport de l’homme à la vérité est vu à la lumière de Dieu qui
désire se communiquer en Jésus-Christ. C’est cette lumière divine qui illumine aussi le mystère de la raison qui cherche Dieu
sans l’avoir trouvé; et le projet de Dieu lui-même inclut une
dimension naturelle. Dieu se trouve à l’origine de la recherche de
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la vérité, et cela est une donnée théologique. Nous retrouvons la
même démarche dans les deux textes: dans Veritatis splendor est
fait référence à une nostalgie de la vérité absolue3, alors que dans
Fides et Ratio est explicitée avec plus de force l’origine divine
d’une telle recherche4. La nostalgie est certainement un désir,
mais en référence à un bien perdu. S’il est formulé de façon abstraite dans la première encyclique (l’expression vérité absolue est
un concept), dans la seconde le bien est ainsi identifié: le bien
suprême, Dieu lui-même.
Il semble qu’une telle nostalgie possède déjà une consistance morale si elle n’est pas confondue avec n’importe quel élan
sentimental. Il s’agit d’une nostalgie active, une recherche nostalgique si l’on veut, un peu comme l’exprimait la philosophe
Simone Weil quand elle disait que seule la partie la plus haute de
l’attention entre en contact avec Dieu, quand la prière est assez
intense et pure pour qu’un tel contact s’établisse; mais toute l’attention est tournée vers Dieu5. L’ensemble de la Tradition chrétienne a examiné cette attente, du cor inquietum de saint
Augustin aux récentes explorations personnalistes6, en pasant
par le thème de la recherche de Dieu présent dans le courant
médiéval de la spiritualité cistercienne7.
3 “Les ténèbres de l’erreur et du péché ne peuvent supprimer totalement
en l’homme la lumière du Dieu Créateur. De ce fait, la nostalgie de la vérité
absolue et la soif de parvenir à la plénitude de sa connaissance demeurent
toujours au fond de son cœur” (VS 1).
4 “L’Apôtre met en lumière une vérité dont l’Eglise a toujours fait son
profit: au plus profond du cœur de l’homme sont semés le désir et la nostalgie de Dieu” (FR 24).
5 WEIL S., in Attente de Dieu, La Colombe, Paris 1950, 114; cf. sur ce
point: J.-F. THOMAS, Simone Weil et Edith Stein. Malheur et souffrance (Préf.
G. Thibon), in IIIème Partie, Chap. I: La mystique de l’attention, Culture et
vérité, Namur 1992, 89-100.
6 BUBER M., in Gottesfinsternis, Betrachtungen zur Beziehung zwischen
Religion und Philosophie, Manesse, Zürich 1953; NEDONCELLE M., Les leçons
spirituelles du XIX ème siècle, Paris 1936; SCHELER M., Nature et formes de la
sympathie. Contribution à l’étude des lois de la vie émotionnelle (all: Natur und
Wesen der Sympathie); STEIN E., Zum Problem der Einfühlung, Halle 1917…
7 Pensons au thème particulier de l’amitié spirituelle conçue comme le
moyen de désirer l’Ami parfait: Guillaume de Saint-Thierry, Baudouin de
Ford, Aelred de Rievaulx.
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Pourquoi l’attente de Dieu cause-t-elle une inquiétude dans
le cœur de l’homme? Le passage de l’innocence originelle au
péché et à ses conséquences qui marque le début de la storia
salutis a pour implication majeure, du moins en ce qui concerne l’intériorité, la naissance de la culpabilité. La culpabilité peut
être vue comme une sanction morale agissant dans le cœur de
l’homme. Le cadre grandiose de l’œuvre de Ricoeur, Finitude et
culpabilité, le manifeste bien. La nostalgie est le désir d’un retour
à la plénitude, ou à l’intégrité de l’amour. C’est surtout ce dernier
aspect qui caractérise sa dimension morale: l’amour de l’amour
est un acte moral qui implique la recherche de l’aimé. Dieu est
eprouvé comme absence, parfois comme motif de crainte ou de
peur. Nédoncelle a cherché à exprimer ainsi la réalité de l’attente: Cette inquiétude-là, c’est le pressentiment de l’ordre divin en
nous et autour de nous; elle repose sur l’humilité et l’amour…Avec
elle nous sommes…tout près de reconnaître le don de Dieu; car
c’est Dieu qui a mis en l’homme cette aspiration infinie et cette
frayeur soudaine qui bouleverse les âmes quand elles découvrent
leur fragilité ou leur malice8.
Fides et Ratio s’inscrit dans cette longue tradition que nous
avons évoquée lorsqu’elle affirme en liminaire que c’est Dieu qui
a mis au cœur de l’homme le désir de connaître la vérité et, au
terme, de Le connaître lui-même afin que, Le connaissant et
L’aimant, il puisse atteindre la pleine vérité sur lui-même.
Effectuons maintenant le passage de la dimension personnelle de la recherche de Dieu à la figure du Christ: dans la très
belle expression de Nédoncelle déjà citée, il est important de
souligner le caractère personnel de l’attente. L’Auteur parle
d’une pressentiment de l’ordre divin en nous et autour de nous.
Celui qui recherche la vérité des choses s’engage ultimement
dans sa propre demande. Il sait d’une certaine manière que, si
elle lui est donnée, la réponse aux questions qu’il se pose ne le
laissera pas intact: il devra prendre position, au sens littéral, en
ce sens qu’il devra ajuster sa propre position au regard de la vérité découverte. Cette dernière le touchera, le changera et transformera le monde autour de lui. Le fait que si peu de personnes
8 NEDONCELLE M., La découverte de notre misère, in Les leçons spirituelles
du XIXème siècle, p. 17.
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réussissent à aller au fond des questions relatives à la vérité des
choses est un paradoxe pour l’intelligence chrétienne et la sensibilité des baptisés. Peut-être la réponse n’est-elle pas réellement
désirée, et les questions qui touchent l’existence propre (ces
questions fondamentales rappelées par l’encyclique: qui suis-je?
où vais-je? Pourquoi le mal?) ne sont pas considérées comme le
véritable enjeu de la vie.
On est en droit de se demander si ne se trouve pas là précisément la nature authentiquement morale de la question philosophique de la vérité: l’abandon des questions sérieuses par
crainte des conséquences possibles. Avant de connaître la vérité
elle-même, l’homme en connaît un caractère fondamental: son
exigence. Le choix moral se trouve comme enfoui au cœur de la
question sur le vrai, parce que l’alternative morale sera d’accepter ou de refuser les exigences du vrai. Or, s’il est exact que cette
aspiration infinie au vrai, avec la présence spécifique de la nostalgie, est le désir du retour à un amour menacé ou perdu,
comme nous l’avons déjà désigné, il s’ensuit que la découverte de
la vérité, si elle advient, prendra nécessairement les traits d’une
expérience amoureuse; et une telle expérience ne pourra exister
sans une causalité personnelle et bienveillante. La vérité doit
être forcément révélée, parce que c’est une exigence de l’amour
de se révéler pour se diffuser. Une telle révélation peut-être
exprimée de façon adéquate par la catégorie de rencontre. Nous
arrivons ainsi à la nature christocentrique du texte. La Vérité qui
est Amour se manifeste et se révèle dans la personne de Jésus
Christ selon le dessein éternel du Père. Fides et Ratio 7 utilise le
terme rencontre pour désigner la découverte de cette vérité qui
est le Christ: A l’origine de notre être de croyants se trouve une rencontre, unique en son genre, qui a fait s’entrouvrir un mystère
caché depuis les siècles (cf. 1 Co 2, 7; Rm 16 16, 25-26), mais
maintenant révélé… Plus loin, l’identité personnelle de cette révélation s’exprime ainsi: la vérité que Dieu a confiée à l’homme sur
lui-même et sur sa vie s’inscrit donc dans le temps et
l’histoire…elle a été prononcée une fois pour toutes dans le mystère de Jésus de Nazareth. La rencontre avec Jésus est le cœur de la
réponse non seulement à la question que l’homme se pose sur
Dieu, mais aussi à toute question sur la vérité des choses qui
marquent fortement son existence. La phrase suivante à cet
égard est caractéristique: en tant que source d’amour, Dieu dési-
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re se faire connaître, et la connaissance que l’homme a de Lui porte
à son accomplissement toute autre vraie connaissance que son
esprit est en mesure d’atteindre sur le sens de son existence9.
Notons que Dieu ne donne pas de réponse métaphysique sur
sa propre existence: Il désire se faire connaître à travers la personne du Verbe Incarné. Il s’agit d’une révélation de l’amour personnel de Dieu; et cet amour est apte à combler toutes les
attentes de l’homme et à répondre à toutes ses interrogations,
métaphysiques ou non. Dans le même temps, cependant, il
convient d’affirmer l’ordre providentiel de Dieu dans toute sa
cohérence. L’esprit humain contemple dans la figure de Jésus
Christ tant la plénitude de la création (par Lui tout a été fait) que
l’accomplissement de l’œuvre divine de salut. Cette unité de la
vérité, naturelle et révélée, trouve son identification vivante et
personnelle dans le Christ10. C’est à la christologie qu’il revient
de fonder en théorie les exigences d’une telle unité de la vérité
dans le Christ.
La centralité de la figure du Christ est une donnée commune aux deux encycliques. Dans Veritatis splendor, le Christ est
pour le jeune homme riche la rencontre fondamentale, l’occasion unique d’obtenir une réponse sur la vérité morale. Le texte
reconnaît dans cet anonyme jeune homme riche la figure de tout
homme qui, consciemment ou pas, s’approche du Christ, rédempteur de l’homme, et lui exprime ses interrogations morales. Le
Christ est la réponse à la question morale, il révèle où se situe la
vraie bonté morale (Unus est bonus, Mt 19, 17)11, et sa réponse a
une valeur universelle: le dialogue entre Jésus et le jeune homme
riche se poursuit, d’une certaine manière, dans toutes les périodes
de l’histoire, et encore aujourd’hui…et c’est toujours le Christ, et
lui seul, qui donne la réponse intégrale et finale12.
Nous avons là une personnalisation de l’agir, figurée par l’histoire d’une rencontre avec Dieu dans son humanité et dans sa
divinité, avec la norme de l’agir humain et avec la réalisation
idéale de la dignité de la personne humaine13; cette rencontre hisFides et Ratio, 7.
Ibid., 34.
11 Veritatis splendor, 9.
12 Ibid., 25.
13 CASTELLANO CERVERA J., Morale, Spiritualità e Nuova Evangelizzazione,
9
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torique transcende les limites du temps et de l’espace. Dans Fides
et Ratio, la révélation de Dieu dans l’événement de l’Incarnation
de Jésus Christ exprime une vérité qui n’est plus enfermée dans un
cadre territorial et culturel restreint, mais elle s’ouvre à quiconque,
homme ou femme, veut bien l’accueillir comme parole de valeur
définitive pour donner un sens à l’existence14.
II- Existe-t-il un usage moral de la raison?
La question qui introduit la deuxième étape de notre
réflexion sur quelques aspects de la relation foi-raison: Existe-til un usage moral de la raison? n’est pas, si l’on ose s’exprimer
ainsi, politiquement correcte. Une séparation théorique et pratique entre ces deux modes de connaissance est tellement entrée
dans les habitudes, que parfois exercer sa raison semble un exercice superflu, un ajout à la foi, un luxe non nécessaire à celui qui
de toutes façons croit, tandis que, dans une démarche inverse, il
arrive que l’adhésion de la raison à la foi révélée est jugée
comme l’ abandon, de sa part, de ses propres critères méthodologiques et épistémologiques. Il est certain que nous avons dans
ces deux tendances extrêmes, une authentique trahison de la foi
dans la première tendance (car une telle attitude revient à dire
qu’il n’existe pas une intelligibilité de la foi) et une trahison de la
raison dans la seconde tendance (attitude déraisonnable d’une
fonction qui refuse la possibilité offerte de dépasser ses propres
limites). Il serait impossible de parcourir ici l’histoire philosophique d’une telle séparation entre raison et foi. On peut étudier
la conception de la raison qu’exprime Fides et Ratio.
Sans prétendre à l’exhaustivité, on relève dans le texte les
observations suivantes: la raison dont les indices dans l’homme
sont les questions profondes, la demande de sens, et le désir du
vrai, appartient à la nature même de l’homme. Parmi les
diverses applications de la raison, figure la capacité spéculative
qui permet de bâtir un savoir systématique; sont ensuite men-
in Veritatis Splendor, Testo integrale e commento filosofico-teologico, a cura
de R. Lucas Lucas, San Paolo, Torino 1994, 385.
14 Fides et Ratio, 12.
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tionnées quelques attitudes appropriées de la raison quand elle
se propose d’accéder aux connaissances fondamentales, per
exemple l’émerveillement suscité en l’homme par la contemplation
de la création: l’être humain est frappé d’admiration en découvrant
qu’il est inséré dans le monde, en relation avec d’autres êtres semblables à lui dont il partage la destinée15. Nous verrons plus loin
qu’il existe d’autres attitudes qui font obstacle à la recherche
personnelle de la vérité. La raison a été capable de mettre en évidence un certain nombre de connaissances philosophiques dont
la présence est constante dans l’histoire de la pensée16. Les
exemples cités sont intéressants: outre les classiques principes
de non-contradiction, de finalité, de causalité; l’encyclique mentionne la conception de la personne comme sujet libre et intelligent, et sa capacité de connaître Dieu, la vérité et le bien, en
somme ce qui est décrit plus loin17 comme une capacité métaphysique, et explicité ainsi dans le chapitre III, cœur de l’encyclique: capacité de s’élever au dessus de ce qui est contingent pour
s’élancer vers l’infini18. Laissons de côté les remarques faites sur
la potentialisation de la raison opérée par la connaissance de foi,
pour souligner cette observation très fine et d’une grande force:
dans la vie d’un homme, les vérités simplement crues demeurent
beaucoup plus nombreuses que celles qu’il acquiert par sa vérification personnelle19.L’acte de croire (qui est toute autre chose
que de se rendre à une évidence) n’est pas étranger à la raison, il
n’offense pas cette dernière, s’il est vrai que la raison elle-même
utilise précisément beaucoup de ces connaissances reçues et
non vérifiées personnellement. Nous nous trouvons dans une
perspective analogue à celle du philosophe Gadamer20 qui a parfaitement illustré l’échec de l’illuminisme dans sa prétention à
ne considérer valides que les connaissances scientifiquement
vérifiables. Si la raison exigeait la vérification de toutes les données qu’elle utilise, en les supposant vraies, dans les propositions
15
16
17
18
19
20
Fides et Ratio, 4.
Ibid.
Ibid., 22.
Ibid., 24.
Ibid., 31.
Cf. GADAMER H. G., in Wahrheit und Method.
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qu’elle unit de façon cohérente, elle perdrait pratiquement toute
certitude en dehors des vérités arithmétiques et de quelques
applications pratiques. En récupérant la phronesis aristotélicienne, Gadamer a montré la nécessité de sauver les fins spirituelles avec l’aide des traditions et des cultures. La vérité est
aussi pour le penseur allemand l’occasion pour l’homme d’une
authentique expérience concrète.
Comment rendre compte théoriquement de la validité d’une
expérience humaine? Comment tenir pour universellement valide l’enseignement issu d’une expérience humaine? Nous
sommes au cœur d’un problème avant tout de nature méthodologique. Deux types d’expérience pourraient illustrer une telle
problématique: l’expérience du beau, et l’expérience spirituelle.
La première est marquée par une forte émotion éprouvée devant
l’œuvre d’art, une émotion d’ailleurs parfois traduite en termes
de rencontre, de rapport interpersonnel –qu’on pense à la description par le poète Rilke d’une statue de Rodin: chaque point
de la statue te regarde, observait-il; toutefois, ce qui semble un
événement unique et personnel vécu par celui qui admire
l’œuvre n’empêche ni que l’expérience soit partagée avec
d’autres, ni que soient recherchés les motifs de l’admiration
éprouvée (critères esthétiques). La seconde est l’expérience spirituelle qui ne doit naturellement pas être confondue avec l’expérience mystique. L’une et l’autre ont été étudiées par la théologie spirituelle et de nombreux auteurs philosophiques21.
L’expérience spirituelle d’une personne est sa façon singulière de
vivre quelques vérités sur Dieu. L’expérience manifeste une infinité de degrés dans l’engagement spirituel, comme l’a observé
Ch. Bernard22. Au sens strict, l’expérience spirituelle authentique
KIERKEGAARD, R. OTTO, M. SCHELER, N. HARTMANN…
BERNARD Ch. S.J., in Vie morale et croissance dans le Christ: “Par rapport à la vie éthique, la question précise que pose la vie spirituelle est donc
celle-ci: dans quelle mesure l’homme assume-t-il sa condition chrétienne
pour la vivre en plénitude?…On ne peut séparer la considération de l’itinéraire spirituel de la qualité de la décision qui permet et soutient la marche.
Nécessaire à tout moment, la rectitude morale doit composer avec cet aspect
qualitatif si difficilement discernable, qu’on nommera générosité, magnanimité, don de soi mais aussi désir de Dieu et élan spirituel” (p. 49).
21
22
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conduit le sujet à la recherche de relations toujours plus profondes avec les Trois Personnes divines. L’entrée dans une vie
théologale plus développée opère comme une vérification interne de l’authenticité d’une expérience amoureuse dont le dynamisme porte à accomplissement cette relation avec Dieu. Vues
de l’extérieur, il existe des expériences spirituelles objectivement
fondatrices non seulement pour la personne concernée mais
pour toute la communauté des croyants. Citons parmi d’autres
l’expérience transcendante que Saul fait de Jésus ressuscité sur
le chemin de Damas, ou encore la conversion intellectuelle et
morale du futur saint Augustin23. Ces expériences, suivies d’un
changement radical de la vie personnelle ont offert à l’Eglise la
contribution fondamentale de leur richesse spécifique. Tout l’enseignement de saint Paul sera marqué par cet événement primordial; quant à l’heure ineffable vécue par Augustin en compagnie d’Alypius, elle structurera toute son anthropologie métaphysique (la conversio augustinienne). Tant l’expérience esthétique que l’expérience spirituelle peuvent faire accéder à des
vérités valides pour tous24.
Si nous avons dit que le problème est d’abord méthodologique, c’est parce que l’examen citique de ces deux types d’expérience se fait au moyen d’instruments et de critères propres à
chacune. Seule l’unité de la foi, en effet, permet de vérifier la
pertinence et la cohérence chrétiennes de l’enseignement issu
d’une expérience spirituelle; de la même manière, toute œuvre
d’art s’inscrit dans une tradition, un savoir, ou une science du
beau, si l’on peut dire, ce qui permet d’en vérifier la contribution
23 Dans l’un et l’autre cas, ces deux expériences singulières n’ont pas eu
seulement des implications sur la vie d’un grand nombre de croyants, par
exemple par l’agir apostolique de chacun d’eux, mais elles ont permis d’approfondir le sens profond d’une conversion véritable au Christ, qui est une
richesse objective pour l’ensemble des croyants et un patrimoine universel
pour l’Eglise. La même observation vaut de façon plus large pour les expériences spirituelles qui ont précédé des œuvres de fondation que l’Eglise a
reconnues siennes.
24 On ne prétend pas nier ici la nécessité que soient parfois remplies des
conditions minimales de réception de ces vérités transmises: culture, éducation et formation pour les valeurs esthétiques, disposition intérieure et exigence morale pour les vérités spirituelles.
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spécifique, à un moment donné, ou bien absolument. Même
dans le cas d’une œuvre révolutionnaire, c’est relativement à un
certain savoir, à un patrimoine artistique qu’on mesurera en
quoi l’œuvre s’inscrit en rupture de ce qui a précédé, tout en
imposant sa manière nouvelle. Remarquons en tous cas que
l’existence dans l’histoire de la pensée d’une métaphysique du
beau, prétendant voir dans cette catégorie l’un des caractères
constitutifs de l’être, illustre à quel point les deux approches sont
analogues. Nous retrouvons en somme ce que l’encyclique exprime sur la capacité de la raison d’éprouver admiration et émerveillement.
Il reste maintenant à examiner comment la raison peut être
utilisée de façon inappropriée, selon Fides et Ratio. Dans une
perspective théologique, le texte montre la capacité originelle de
la raison humaine de s’élever naturellement des êtres observables à l’origine de tout être: le Créateur. La désobéissance des
origines en tant que choix d’une autonomie pleine et absolue à
l’égard du Créateur a entraîné l’obscurcissement de cette capacité. Fides et Ratio parle ainsi de blessures de la raison. Il existe
une première blessure de la raison, l’indifférence à la vérité. Il
s’agit sans doute de la plus grave: être indifférent ne signifie-t-il
pas pour l’intelligence renier sa propre raison d’être? Personne
ne peut être sincèrement indifférent à la vérité de son savoir. La
parole sincèrement nous replace dans le champ moral. Le mensonge comme choix délibéré de non-vérité est une offense infligée à celui auquel on ment, en ce sens qu’est violé son droit à la
vérité. Dans une catéchèse du mercredi, le pape désignait l’indifférence à la vérité comme une maladie mortelle de l’intelligence25.
La recherche de la vérité ne s’exprime pas seulement dans le
domaine théorique, mais aussi dans le champ pratique. Fides et
Ratio 24 renvoie sur ce point à Veritatis splendor 34. Il existe un
droit à être respecté dans sa propre recherche de la vérité (et
celle-ci exige donc, notons-le, d’être d’être accueillie par un
choix libre). En corollaire, il existe encore antérieurement l’obligation morale grave pour tous de chercher la vérité et, une fois
qu’elle est connue, d’y adhérer26.
25
26
JEAN PAUL II, Catéchèses d’Août 1981.
Veritatis splendor, 34. L’encyclique renvoie en note à la Déclaration
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L’un des aspects les plus importants du Chapitre III de Fides
et Ratio est le juste équilibre entre les deux versants de la vérité
pratique, le versant objectif et le versant subjectif.
Versant objectif: la question est formulée clairement, est-il
possible ou non d’accéder à une vérité universelle et absolue?27.
Dans des secteurs régionaux du savoir, certaines vérités sont
acceptées par tous. Une telle certitude n’apaise en rien la soif de
vérité qui pousse l’homme à rechercher une vérité absolue. Ici,
le texte relie le caractère d’absoluité avec la dimension ultime.
Ce qui est propre à la vérité absolue-ultime, c’est qu’elle donne le
fondement de toutes les autres vérités désirées et connues. Il
s’agit d’une vérité existentielle parce qu’elle regarde la totalité de
l’existence humaine; elle inclut ainsi les questions qui touchent
l’origine propre de la personne et de sa mort inéluctable. Très
significative est la référence faite ici à la mort de Socrate28. La
réponse à cette interrogation globale est donnée par la foi: elle
est la vérité que Dieu révèle en Jésus Christ29.
Versant subjectif: Fides et Ratio montre comment toute la
problématique de la vérité absolue se déploie à l’intérieur du
sujet. L’originalité de cette perspective réside en ceci: nous avons
une question objective, mais une question que le sujet s’approprie au travers de la recherche honnête qu’il conduit sur le sens
ultime de sa propre vie. Le sujet ne peut rester en dehors, dans
une attitude de neutralité. L’accès à la vérité sur la fin ultime est
Dignitatis humanae du Concile Vatican II: “En vertu de leur dignité, tous les
hommes, parce qu’ils sont des personnes, c’est-à-dire doués de raison et de
volonté libre, et, par suite, pourvus d’une responsabilité personnelle, sont
pressés, par leur nature même, et tenus, par obligation morale, à chercher la
vérité, celle tout d’abord qui concerne la religion. Ils sont tenus aussi à adhérer à la vérité dès qu’ils la connaissent et à régler toute leur vie selon les exigences de cette vérité” (N. 2).
27 Fides et Ratio, 27.
28 “Chacun veut – et doit - connaître la vérité sur sa fin. Il veut savoir si
la mort sera le terme définitif de son existence ou s’il y a quelque chose qui
dépasse la mort; s’il lui est permis d’espérer une vie ultérieure ou non. Il n’est
pas sans signification que la pensée philosophique ait reçu de la mort de
Socrate une orientation décisive et qu’elle en soit demeurée marquée depuis
plus de deux millénaires” (FR 26).
29 Fides et Ratio, 34.
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rendu possible par un engagement personnel du sujet. Parmi les
obstacles que l’encyclique reconnaît dans cette recherche du
vrai, se trouve l’inconstance du cœur. Le cœur est vu comme le
lieu intime des décisions les plus fondamentales de l’homme.
Il convient de prêter attention à un autre usage inapproprié
de la raison: le doute, et éclairer sur ce thème un véritable paradoxe. Fides et Ratio 28 affirme que jamais un homme ne pourrait
fonder sa propre vie sur le doute, sur l’incertitude ou sur le mensonge, alors que le doute est vu plus loin30 comme l’occasion
d’une maturation et d’une croissance personnelle. Le doute est
ainsi en lui-même ambivalent: il existe un doute utile et bon, et
un doute peccamineux, dont les conséquences sont la peur et
l’angoisse. Comment distinguer entre ces deux attitudes et les
évaluer moralement? Le doute est légitime quand il décrit l’attitude critique de la raison dans sa recherche des conditions de
validité d’une assertion fondée sur une croyance; ou encore
quand il désigne le moment initial d’un processus de vérification
d’une affirmation non démontrée. L’examen critique de la raison
est alors une exigence naturelle de l’esprit humain en même
temps qu’un service rendu à la vérité. Le doute cesse d’être une
attitude saine lorsqu’il devient fin à lui-même et qu’il s’organise
en un système global de pensée. On parle alors de scepticisme,
forme de pensée qui met en question le rapport personnel du
sujet au réel; et élaboré comme doctrine, le scepticisme rend
impossible la découverte de la vérité absolue et de toute vérité
universelle. Il laisse alors grand ouvert l’espace dans lequel se
développeront des faux absolus, montrant ainsi sa propre incohérence.. Analysant la naissance de semblables systèmes philosophiques qu’il appelait des métaphysiques pécheresses (erbsündige Metaphysike), Erich Przywara disait qu’Adam et Eve, en
s’appropriant le fruit défendu afin de devenir comme des dieux,
en réalité n’ont pas laissé l’Absolu être vraiment l’Absolu pour eux;
pour ce motif, ils n’ont pu que le manquer31. Parmi les diverses
raisons de ces métaphysiques, le penseur allemand mentionne la
divinisation de l’intériorité. On comprend que l’entreprise de ren-
Fides et Ratio, 31.
CF BIJU-DUVAL D., La pensée d’Erich PRZYWARA, in NRT (Avril-Juin
1999) 249.
30
31
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verser la tendance et de substituer à ces systèmes une métaphysique rachetée, pour utiliser une autre expression de l’auteur,
consistera à restituer à la subjectivité humaine son véritable statut créaturel devant Dieu et en relation avec le réel32.
L’ouverture de la raison à des vérités qui la surprennent et
éventuellement qui la dépassent est la condition de son plein
exercice comme elle est aussi la garantie de la validité de sa
méthode. En outre, elle nécessite une attitude de confiance
envers les autres comme envers soi-même. Au fond, le scepticisme n’est autre que la défiance de la raison envers ses propres
capacités d’accéder à des vérités.
L’articulation foi-raison ou la parabole de la raison prodigue
Avant d’approfondir brièvement quelques aspects relatifs à
ces deux binômes foi-raison et théologie-philosophie, il semble
honnête de faire une simple observation. Penser ensemble les
deux ordres de connaissance comme nous le faisons aujourd’hui
à la lumière de Fides et Ratio est le fruit d’une longue recherche
de la pensée chrétienne et philosophique au cours des siècles. Il
n’est pas exagéré d’y reconnaître un signe évident de la maturité
de la pensée chrétienne, maturité saluée d’ailleurs en dehors des
cercles chrétiens à l’occasion de la publication de l’encyclique.
Nous avons montré les deux pôles possibles de la séparation
entre la foi et la raison; observons qu’il existe une tendance diffuse à ne plus confier à la raison ce qui par grâce a pu être
découvert dans un acte de foi33. Il est vrai que l’émerveillement
éprouvé devant la splendeur de la vérité, quand elle prend le
visage du Christ, fait ressortir clairement les limites de toutes les
sagesses humaines. Comment adhérer à la grande philosophie
des Grecs si la Croix du Christ lui semble une folie? La juste attitude qui consiste à rechercher et explorer tous les semina Verbi
dans les divers systèmes de pensée est fruit d’une liberté intel-
Ibid., 250.
Pensons à la quasi-disparition de l’apologétique, ou encore à l’usage
de plus en plus rare des arguments de convenance dans la réflexion théologique.
32
33
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lectuelle qui est une conquête de l’intelligence. Le temps lui est
une aide nécessaire. Pour ce motif, une lecture libre de la parabole du Fils prodigue peut nous aider à suggérer la véritable portée d’une telle séparation entre foi et raison.
Quand la raison s’éloigne de la foi, elle opère un mouvement
analogue à celui du fils prodigue qui s’éloigne de son père, qui
part dans un lieu désert; la raison ne dispose plus de la nourriture sapientielle qu’elle possédait auparavant dans la demeure
paternelle de la foi; elle se contenterait bien des caroubes des
connaissances partielles et éclatées, mais elle n’y a pas davantage accès; elle perd le sens de sa propre identité, de sa dépendance originaire des lumières de la foi, et elle en éprouve une grande nostalgie. Au moment de s’éloigner, elle formula ainsi ses exigences: donne-moi tout de suite la part d’héritage qui me revient.
Elle ne s’est pas rendu compte que sa part d’héritage à cet instant cessait de vivre, et devint indépendante de toute tradition
vive. Très vite la maison paternelle disparut à ses yeux. La raison
dépensa tout ce qu’elle avait, oubliant qu’une telle liberté, désormais dénaturée en sa nouvelle et stérile autonomie, avait été elle
aussi un don du Père. Elle se mit à la recherche de nombreux
motifs d’exister, et se fit à l’idée que l’existence n’était qu’une
occasion de sensations et d’expériences; elle se mit au service
d’un des habitants de ce pays lointain, et qui donnait lui aussi la
primauté à l’éphémère. Celui-ci l’envoya aux champs garder les
porcs, parce que c’était là la préoccupation du jour. Personne ne
donnait à la raison les caroubes qu’elle désirait. La raison se
lassa d’être à la disposition des porcs et de désirer leur nourriture. Elle rentra en elle-même, commença à raisonner et dit: Je
retournerai chez mon père. Elle prépara un discours, assez bref,
de trois phrases. Les deux premières étaient intelligentes: Père,
j’ai péché contre le ciel et contre toi; je ne suis plus digne d’être
appelé ton enfant; la troisième était moins intelligente: traite-moi
comme l’un de tes mercenaires. Par chance, quand la raison
retourna chez son père, elle le vit qui venait à sa rencontre pour
la prendre dans ses bras. La raison commença à prononcer son
discours, au moins les deux premières phrases, celles qui étaient
le plus intelligentes. On ne sait, en effet, si elle oublia la troisième ou bien si elle n’eut pas le temps de la prononcer, car elle fut
remplie d’émerveillement en entendant les quelques mots prononcés par son père: Vite, apportez le plus bel habit, prenez le veau
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gras et préparez-le. Réjouissons-nous et faisons un banquet de fête.
Or, sur ces entrefaites, arriva la frère aîné de la raison; il fut très
contrarié de voir son père accueillir ainsi la raison prodigue. Lui
était toujours demeuré fidèle à son père, se disait-il, et il avait en
son temps critiqué justement l’éloignement de la raison, avec
grande sévérité; à dire vrai, il l’avait jugé bien irraisonnable,
comme il jugeait maintenant irraisonnable la propre attitude de
leur père commun. Il ne parvint pas à comprendre ce dernier,
refusa avec véhémence d’entrer dans la maison, et l’histoire ne
nous dit pas s’il ne choisit pas, tout à son indignation, de s’éloigner à son tour.
Cette lecture très libre de la parabole nous a permis d’illustrer ceci: quand la raison revendique pour elle-même une autonomie absolue à l’égard de la foi, elle croit pouvoir dépenser ce
qui lui revient, alors qu’elle ne dépense pas autre chose que l’héritage de la foi. Il est un fait qu’il a fallu la métaphysique chrétienne de la création pour que l’homme acquît une intelligibilité
stable de l’univers et une véritable confiance dans la valeur
même de la raison, et qui furent les fondements indispensables
de la naissance et du développement des sciences. La raison
autonome n’aurait jamais existé si la foi ne lui avait donné les
moyens de sa politique. Guardini parle de la déloyauté de la pensée moderne autonome: elle ne s’oppose à la foi qu’en gaspillant
l’héritage de cette dernière. L’héritage est totalement dilapidé
quand il ne reste rien d’autre que le nihilisme, attitude dont l’encyclique fait ressortir le caractère immoral, s’il est vrai que le
nihilisme, ainsi qu’il apparaît de façon toujours plus évidente
dans les divers courants du postmodernisme, prône le refus
déterminé de tout engagement personnel: au néant correspond
nécessairement un refus de la nature et de ses normes, ce qui
implique une éthique de la désespérance: En face de la nature,
ajoute Guardini, l’homme de notre temps a également cessé
d’éprouver les sentiments religieux qui s’étaient manifestés sous
une forme claire et sereine chez Goethe, sous une forme enthousiaste chez les romantiques, ou dithyrambique chez un Hölderlin.
Il a traversé une crise de désenchantement34.
34
66.
GUARDINI R., La fin des temps modernes (all: Das Ende der Neuzeit), p.
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Le désenchantement n’est autre que l’absence d’émerveillement et d’admiration. Dans son manque d’espérance, la raison
prodigue ne pouvait imaginer qu’elle serait traitée par son père
autrement que comme l’un de ses mercenaires. L’accueil du Père
dépassait ses propres limites de compréhension. Quant au frère
aîné, son refus d’entrer dans la perspective de son père pourrait
très bien figurer l’attitude pusillanime d’une raison triste qui ne
s’ouvre pas aux joies mises à sa disposition. Le veau gras était
toujours resté disponible: tout ce qui est à moi t’appartient. Le
frère aîné n’a pas fait un geste vers ce qui pourrait symboliser
dans notre lecture toutes les richesses de l’univers qui proviennent toujours du Père. Dans l’attitude parfois étroite de l’intelligence, il y a quelque chose de similaire à celle du frère aîné de la
parabole, qui ne peut ou ne veut se laisser surprendre par les
dons de la bonté du Père.
Pontificio Instituto Giovanni Paolo II
Piazza S. Giovanni in Laterano 4
00120 Città del Vaticano.
JEAN LAFFITTE
—————
El autor es profesor y vicepresidente del Istituto Pontificio Juan
Pablo II en Roma.
The author is a Professor and Vice-Preside of the Pontifical Institute od John Paul II in Rome.
—————
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Chronicle / Crónica
ACCADEMIA ALFONSIANA
Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000
1. Eventi principali
1.1. Inaugurazione dell’anno accademico
L’8 ottobre 1999 l’Accademia Alfonsiana, che quest’anno ha
festeggiato cinquant’anni di storia e quaranta di incorporazione
nella Pontificia Università Lateranense, ha inaugurato, sotto la
presidenza di S.E.R. Mons. Angelo Scola, Rettore Magnifico della stessa Università, il nuovo anno accademico. La cerimonia è
iniziata con una messa solenne, concelebrata dal Rev.mo P. Joseph W. Tobin, Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore, nonché Moderatore Generale dell’Accademia
Alfonsiana, dal Rev.mo P. Sergio Campara, Rettore della Casa S.
Alfonso, dai Proff. Bruno Hidber e Sabatino Majorano, rispettivamente Preside e Vicepreside dell’Accademia Alfonsiana e da
numerosi professori e studenti.
Durante l’omelia (riportata nell’opuscolo Cinquant’anni di
storia – Quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università
Lateranense, Roma, Edacalf, 1999, pp. 3-6), Mons. Scola ha ricordato tra l’altro ai presenti che “la figura paradigmatica della
decisione cristiana è quella del povero di spirito, del semplice,
del bambino che, ricevendo tutto dalle mani di un Altro, ne riconosce l’ultima positività e perciò tutto osa”.
Al termine della celebrazione, nell’aula magna dell’Accademia ha avuto luogo un atto accademico che si è sostanzialmente articolato in quattro momenti:
• il primo, marcato dalla prolusione del Rev.mo P. Joseph
W. Tobin, che ha sottolineato il carattere giubilare di quest’anno
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DANIELLE GROS
accademico ricordando come, nel 1949, l’allora Superiore Generale della Congregazione del Ss. Redentore, P. Leonardo Buijs,
fondò l’Accademia e come, nel 1960, Sua Santità il Papa Giovanni XXIII, la incorporò nella Facoltà Teologica della Pontificia
Università Lateranense. Inoltre, il Moderatore Generale ha sottolineato l’importante ruolo che viene riservato all’Accademia
Alfonsiana come istituzione cattolica all’insegna dell’universalità,
fra le tante opere svolte dai Redentoristi. Egli ha infine messo in
evidenza la sua importanza per la missione della Chiesa e ha posto in luce l’eredità ricevuta da Sant’Alfonso (Cf. Idem, pp.7-10);
• il secondo, sostanziatosi nella “Sintesi dell’anno accademico 1998-1999 e dei cinquant’anni dell’Accademia Alfonsiana”
esposta dal Preside, Prof. Bruno Hidber, che ha evidenziato come la situazione presente dell’Accademia sia frutto del lavoro e
dell’impegno degli anni passati. Egli ha inoltre sottolineato le
tappe principali dell’evoluzione dell’Accademia, mettendone in
luce l’identità e indicandone qualche orientamento per il futuro
(Cf. Idem, pp.11-20);
• il terzo, riferito alla relazione del Prof. Sabatino Majorano, intitolata “Cinquant’anni di impegno per il rinnovamento
della teologia morale”, nella quale il Vicepreside ricorda che in
questi ultimi cinque decenni la teologia morale, alla quale l’Accademia Alfonsiana ha dedicato tutte le sue forze, ha vissuto un
processo di rinnovamento senza precedenti. E, dopo aver ricordato che è stato proprio quel rinnovamento a determinare la nascita dell’Accademia Alfonsiana, egli ha ricostruito a grandi linee lo sviluppo del suo piano di studi, cercando di evidenziarne
i fattori, radicati nella tradizione alfonsiana, che l’hanno sorretta in questi primi cinquant’anni e che permettono di guardare al
futuro con fiducia e rinnovato impegno (Cf. Idem, pp. 21-40);
• il quarto, conclusosi con un intervento di S.E.R. Mons.
Angelo Scola sui “Quarant’anni di incorporazione nella Pontificia Università Lateranense”, inteso a sottolineare il legame che
da quarant’anni unisce l’Accademia all’Università, ed il ruolo che
svolge la prima nella pluriformità della seconda (Cf. Idem, pp.
41-46).
L’intero atto accademico, conclusosi con un rinfresco che ha
rappresentato una utile occasione per un ricco scambio d’idee
tra professori, ufficiali e studenti, è stato accompagnato per tutta la sua durata da un intrattenimento musicale, curato dal
15.Cronaca 1999-2000.1
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quartetto da camera “I solisti di Roma” che hanno eseguito il
“Divertimento in Si bemolle maggiore” di Joseph Haydn.
E’ stata allestita anche una mostra di documenti inerenti la
fondazione dell’Accademia e la sua incorporazione nella P.U.L..
Il 15 ottobre 1999, alcuni professori e numerosi studenti dell’Accademia, hanno partecipato alla messa d’inaugurazione dell’anno accademico di tutti gli atenei ecclesiastici romani, presieduta da Sua Santità Giovanni Paolo II.
1.2. Nomine
Quest’anno accademico ha fatto registrare numerose nuove
nomine da parte:
• di Sua Santità Giovanni Paolo II che, il 15 novembre
1999, ha nominato nuovo Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski;
• del Segretario di Stato, S.E.R. il Sig. Card. Angelo Sodano, che il 24 novembre 1999 ha nominato il Preside dell’Accademia Membro Ordinario della Pontificia Accademia di Teologia;
• del Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, S.E.R. Mons. Angelo Scola, che il 1 aprile 2000 ha nominato il Prof. Rafael Prada, C.Ss.R., Professore invitato “pro prima vice” per l’anno accademico 2000-2001, per la disciplina di
“Antropologia empirica”;
• ancora di S.E.R. il Sig. Card Angelo Sodano, che il 13
aprile 2000 ha nominato i Proff. Sabatino Majorano e Maurizio
Faggioni Consultori della Congregazione per le Cause dei Santi.
Inoltre quest’ultimo, al termine del capitolo provinciale del
suo ordine, è stato eletto Provinciale della Provincia Toscana
dell’Ordine dei Frati Minori.
1.3. Attività accademiche, avvenimenti ed incontri
1.3.1. Incontro Preside/Studenti
Durante il consueto incontro di inizio anno tra Preside, Segretario Generale e nuovi studenti, questi ultimi sono stati informati su varie questioni riguardanti la struttura dell’Accademia e
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la vita accademica in generale. Al termine dell’incontro, i vari
Consulenti accademici hanno ricevuto i nuovi studenti appartenenti ai rispettivi gruppi linguistici, per poterli orientare verso
una programmazione sistematica dei corsi e seminari del biennio per la licenza;
1.3.2. Conferenza
Il 9 novembre, il Prof. Jean Laffitte, Vicepreside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, ha tenuto una conferenza dal titolo L’agire razionale del credente. Il contributo dell’Enciclica Fides et ratio alla teologia morale. Al termine della conferenza, seguita con attenzione da un gran numero di studenti e professori, ha fatto seguito un vivo dibattito;
1.3.3. Inaugurazione dell’anno accademico alla Pontificia
Università Lateranense
Il 16 novembre, in occasione dell’inaugurazione dell’anno
accademico della Pontificia Università Lateranense, il Santo Padre, dopo aver inaugurato il nuovo atrio ed i nuovi locali dell’Università, ha presenziato tutta la cerimonia.
All’ inaugurazione hanno partecipato il Preside e la Segretaria Generale dell’Accademia Alfonsiana;
1.3.4. Elezione dei Rappresentanti degli Studenti
Il 1 dicembre 1999 l’assemblea degli studenti ha eletto, quali propri rappresentanti, Sr. Hirilene Aparecida Guerra e William
Rice, entrambi studenti ordinari iscritti al primo anno del programma biennale per la licenza. Questi rappresentanti, con la loro elezione, diventano membri del Consiglio Accademico e fungono da portavoce degli studenti presso le autorità accademiche
ed amministrative dell’Accademia;
1.3.5. Incontro per festeggiare il nuovo anno civile
Il 17 gennaio 2000 gli studenti hanno organizzato un incontro festoso tra professori, personale e studenti dell’Accademia in
occasione dell’inizio del nuovo anno civile;
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1.3.6. Incontro con il nuovo Prefetto della Congregazione
per l’Educazione Cattolica
Il 3 marzo 2000, in un incontro alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Preside ha incontrato S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski, al quale ha presentato l’Accademia Alfonsiana;
1.3.7. Giornata per i seminaristi e i sacerdoti-studenti presenti a Roma
Cogliendo la singolare occasione educativa del Grande Giubileo del 2000, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha
organizzato la celebrazione di una Giornata per i seminaristi e i
sacerdoti-studenti presenti a Roma che si è tenuta il 24 marzo
nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, ed è consistita nella liturgia del passaggio della Porta Santa con la raccolta di offerte
a favore dei poveri di Roma, e nella Via Crucis, presieduta dal
Prefetto, S.E.R. Mons. Zenon Grocholewski.
Molti studenti dell’Accademia hanno accettato l’invito a partecipare che era loro stato rivolto dal Prefetto attraverso il Preside;
1.3.8. Colloquium doctum
Il 27 marzo, il Prof. Eberhard Schockenhoff, titolare della
cattedra di teologia morale presso l’Università di Freiburg/BR,
ha incontrato i professori dell’Accademia per un colloquium doctum sul tema Legge naturale ed etica universale;
1.3.9. Festa di S. Alfonso
Come ogni anno, il Preside ha invitato le autorità della Pontificia Università Lateranense, dell’Accademia Alfonsiana ed i
Rettori dei collegi, seminari e convitti che affidano i loro studenti al nostro Istituto, ad un pranzo festivo che si è tenuto il 28
marzo;
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1.3.10. Associazione Teologica Italiana per lo Studio della
Morale - ATISM
Il 25 aprile, l’Accademia ha ospitato l’incontro annuale dei
soci dell’ATISM del Centro Italia a cui ha partecipato il Prof. Sabatino Majorano. La relazione di base è stata tenuta dal Prof.
Luciano Padovese, docente di teologia morale alla Facoltà Teologica di Padova, ed aveva per titolo Il futuro ultimo cristiano di
fronte alla sfida sociale della perdita di senso globale.
Il Prof. Zuccaro, ordinario di teologia morale e Direttore dell’Istituto Teologico Leoniano di Anagni, è intervenuto sull’argomento Il tempo: all’inizio della vita, alla fine e oltre;
1.3.11. Giubileo Lateranense
In concomitanza con il Convegno di preparazione al Congresso Eucaristico Internazionale e con la Giornata Internazionale Lateranense, la Comunità Accademica Lateranense ha celebrato il Giubileo nei giorni 26-29 aprile.
Alla celebrazione hanno partecipato gli Istituti collegati all’Università ed in tale ambito, dopo la visita e la messa a S. Maria Maggiore, il 28 aprile si è svolta una visita all’Accademia
Alfonsiana;
1.3.12. Rinnovo del secondo piano dell’Accademia
Durante l’estate 1999 è stato rinnovato tutto il secondo piano dell’Accademia Alfonsiana.
Oltre agli uffici della Segreteria, resi più accoglienti e funzionali, le aule dei seminari sono state dotate di nuovi tavoli, tutte le porte sono state sostituite, così come le tende ed i punti luce, mentre i pavimenti sono stati arrotati e lucidati.
1.4. Convegno
Nei giorni 29-31 marzo, in occasione del 50° anniversario
della proclamazione di S. Alfonso a Patrono dei Moralisti e dei
Confessori, l’Accademia ha organizzato un convegno dal titolo
Morale alfonsiana: una risposta alle sfide di ieri e di oggi.
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Il Convegno è stato aperto dal Moderatore Generale dell’Accademia, Rev.mo P. Joseph W. Tobin, che ha salutato i partecipanti.
Le conferenze sono state tenute dai professori Bruno Hidber, Sabatino Majorano, Raphael Gallagher, Réal Tremblay,
Maurizio Faggioni, Martin McKeever, dell’Accademia Alfonsiana, Marciano Vidal, dell’Istituto Superior de Ciencias Morales di
Madrid, Paul Gilbert, della Pontificia Università Gregoriana e
André-Marie Jérumanis, della Facoltà Teologica di Lugano ed
ex-studente dell’Accademia. Moderatori, la Prof.ssa Nella Filippi, dell’Accademia Alfonsiana, ed il Prof. Ignazio Sanna, Pro-rettore della Pontificia Università Lateranense, nonché Professore
dell’Accademia. Durante questo Convegno si è voluto riflettere
per stabilire se la morale di S. Alfonso, sviluppatasi nei secoli dei
lumi, possa rimanere una risposta anche alle sfide della nostra
epoca postmoderna.
Nella sua presentazione il Preside ha sottolineato che il Convegno si propone prevalentemente un lavoro ermeneutico di mediazione: si tratta di evitare l’errore di ripetere semplicemente il
messaggio alfonsiano di ieri nel contesto di oggi e, viceversa, di
non rinchiudersi semplicemente nel contesto di oggi svalutando
o, piuttosto, rifiutando il messaggio di ieri.
Bisogna, ha aggiunto, intraprendere il tentativo di una “fusione degli orizzonti” (H.G. Gadamer) tra ieri e oggi in modo che
la morale alfonsiana possa rivelarsi un contributo adeguato all’uomo di oggi.
Il Convegno ha riscosso un buon successo di partecipazione,
anche da parte degli studenti. Al termine di questi tre giorni di
studio, si è potuto apprezzare anche S. Alfonso nella sua veste di
musicista, al quale il Convegno ha dedicato un concerto di musiche proprie di S. Alfonso.
Gli atti del Convegno verranno pubblicati nel secondo volume di Studia moralia, che uscirà in dicembre 2000.
2. Consiglio di amministrazione
Dal 14 al 16 febbraio 2000, convocato dal Moderatore Generale, si è riunito il Consiglio di Amministrazione dell’Accademia
Alfonsiana.
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A questo incontro hanno preso parte:
- il Preside, che ha svolto un rapporto sulla situazione accademica;
- la Segretaria Generale, che ha relazionato sulla situazione
amministrativa e su vari aspetti inerenti gli studenti;
- il Prof. Sabatino Majorano, quale delegato del Consiglio
dei Professori, per descrivere la situazione del corpo docente;
- l’Economo, per esporre la situazione finanziaria;
- l’Executive Director for Development, per informare sulla situazione delle relazioni pubbliche.
Il C.d.A., presieduto dal Moderatore Generale, è quest’anno
composto da molti nuovi membri, Superiori Provinciali della
Congregazione del Santissimo Redentore.
Dopo aver esaminato i vari rapporti con grande attenzione, il
C.d.A. ha preso atto che l’insegnamento si svolge con regolarità e
che è stato potenziato sotto vari aspetti, ed ha espresso il proprio
apprezzamento per la grande professionalità negli uffici.
Il C.d.A. ha altresì ringraziato la Provincia Redentorista di
Monaco per la creazione di una fondazione in memoria del Prof.
Bernhard Häring.
Tra le principali preoccupazioni è emerso il problema del
grande lavoro richiesto ai professori nel seguire le tesi e le tesine, lasciando loro poco tempo per la ricerca scientifica. Il C.d.A.
ha anche riconosciuto la necessità di un progetto di previdenza
sociale per i Professori, e per gli altri membri Redentoristi dell’Accademia.
3. Corpo insegnante
3.1. Stato attuale
In quest’anno accademico l’Accademia Alfonsiana si è avvalsa della collaborazione di 36 professori, di cui sei ordinari, due
straordinari, uno associato, ventitre invitati e quattro emeriti.
Tra questi, 30 hanno svolto 33 corsi, diretto 21 seminari e numerose tesi di licenza e di dottorato. Altri ancora, in veste di professori invitati, hanno anche insegnato presso diversi centri ecclesiastici.
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3.2. Nuovi docenti
L’Accademia Alfonsiana si è avvalsa per quest’anno accademico della preziosa collaborazione del noto Professore Don Guido Gatti, sdb, ordinario dell’Università Pontificia Salesiana. Il
Prof. Gatti ha svolto un corso di morale sessuale durante il secondo semestre.
3.3. Pubblicazioni dei Professori
Da evidenziare che molti docenti, oltre alla loro principale
attività didattica e di assistenza agli studenti, hanno anche pubblicato diverse opere, offrendo in tal senso un utile contributo
alla ricerca scientifica.
3.4. Docenti che lasciano l’Accademia Alfonsiana
Il Prof. Joachim Ntahondereye, richiamato dal suo Vescovo
per tornare nel proprio paese, il Burundi, lascia l’insegnamento
presso l’Accademia Alfonsiana. Il Professore, ex studente dell’Accademia, ha insegnato per 4 anni nella sezione di teologia
morale sistematica speciale.
Alla fine del secondo semestre i professori si sono riuniti per
salutarlo, ringraziarlo ed augurargli il meglio per i suoi futuri
impegni di cui egli stesso non era ancora a conoscenza.
4. Studia Moralia
L’impegno della Commissione per Studia Moralia e la collaborazione dei Professori interni ed esterni, hanno permesso la
regolare pubblicazione dei due fascicoli della rivista Studia Moralia, per l’anno 1999.
5. Studenti
In quest’anno accademico gli studenti sono stati 295 (282
uomini e 13 donne), di cui 276 ordinari che si sono preparati a
conseguire i gradi accademici, e 19 ospiti. Tra gli ordinari, 125
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sono del secondo ciclo, 148 del terzo, mentre 3 sono iscritti al
programma biennale per il diploma.
La provenienza degli studenti è riferita a tutti i continenti:
131 dall’Europa, 66 dall’Asia, 27 dall’America del Nord, 29 dall’America del Sud, 38 dall’Africa e 4 dall’Australia/Oceania.
Divisi per appartenenza religiosa, 176 sono del clero secolare, 103 tra religiosi e religiose appartengono a 48 diversi ordini,
mentre 16 sono laici.
Durante l’anno accademico 1999-2000 sono state difese con
successo 33 tesi di dottorato e 29 studenti, dopo la pubblicazione delle loro rispettive tesi, sono stati proclamati dottori in teologia della Pontificia Università Lateranense, con specializzazione in teologia morale. Inoltre, 47 studenti hanno conseguito la
licenza in teologia morale.
Durante il mese di marzo il Preside ha incontrato, personalmente, tutti gli studenti del primo anno di licenza per verificare
con loro la propria programmazione accademica, ed il loro
orientamento. Inoltre, sono stati numerosi gli incontri tra il Preside ed i Rappresentanti degli Studenti, diretti a deliberare su
varie questioni riguardanti gli studenti stessi.
6. Informazioni sugli ex studenti
6.1. Nomine
Durante l’anno accademico 1999-2000, 6 ex studenti dell’Accademia Alfonsiana di seguito specificati sono stati elevati alla
dignità episcopale:
- S.E.R. Mons. Thomas Pulloppillil, nominato primo Vescovo di Bongaigaon (India). E’ stato studente dell’Accademia
dal 1987 al 1994;
- S.E.R. Mons. Martin Adjou, nominato primo Vescovo di
N’Dali (Bénin). E’ stato studente dell’Accademia dal 1988 al
1991;
- S.E.R. Mons. Domenico Caliandro, nominato Vescovo di
Nardò-Gallipoli (Italia). E’ stato studente dell’Accademia dal
1971 al 1973;
- S.E.R. Mons. Gerald Mathias, nominato Vescovo di Sim-
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la e Chandigarh (India). E’ stato studente dell’Accademia dal
1982 al 1987;
- S.E.R. Mons. Aurel Perca, nominato Ausiliare dell’Arcidiocesi di Iasi (Romania). E’ stato studente dell’Accademia dal
1983 al 1985;
- S.E.R. Mons. Daniel Nlandu Mayi, nominato Ausiliare
dell’Arcidiocesi di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo). E’ stato studente dell’Accademia dal 1981 al 1987.
6.2. In memoriam
E’ giunta la notizia del decesso degli ex studenti Brendan
Soane e Paul Burire.
Brendan Soane, nato l’11 aprile 1936 a Westminster (Inghilterra), ha frequentato l’Accademia dal 1971 al 1973, ottenendo la
licenza in teologia morale il 18 giugno 1973.
Paul Burire, nato l’11 novembre 1942 a Mirama (Burundi),
ha frequentato l’Accademia dal 1981 al 1986, ottenendo prima la
licenza e poi il dottorato in teologia morale.
7. Inaugurazione dell’anno accademico 2000-2001
L’inaugurazione del prossimo anno accademico è fissata per
il 10 ottobre.
In occasione di un incontro tenutosi il 14 marzo con S.E.R.
Mons. Walter Kasper, Segretario del Pontificio Consiglio per la
Promozione dell’Unità dei Cristiani, il Preside ha invitato il Vescovo a presiedere la celebrazione eucaristica dell’inaugurazione, invito che questi ha accettato
Mons. Kasper, dopo la celebrazione, in un atto accademico
che seguirà nell’aula magna dell’Accademia, terrà una conferenza sui problemi attuali dell’ecumenismo.
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8. Gradi accademici conferiti
8.1. Dottori designati
Nel corso dell’anno accademico 1999-2000, 33 studenti hanno difeso pubblicamente la loro dissertazione dottorale:
BOWA KATETA, Grégoire (Repubblica Democratica del Congo
- o.f.m.): Le mal zaïrois. Essai d’une étude comparative. - 25
maggio 2000; Moderatore: Prof. Bruno Hidber
Les diagnostics des systèmes politique, économique et socioculturel établis par les évêques du Zaïre et le Magistère universel
ont révélé l’existence d’un mal. Ce dernier se présente sous deux
aspects: structurel et moral. Au Zaïre, il s’institutionnalise et se
pratique partout, même là où on ne pouvait plus s’y attendre,
surtout dans les secteurs où l’on devrait respecter les droits des
citoyens. Au niveau structurel, c’est le cas par exemple de la corruption et, au niveau moral, c’est l’absolutisation du pouvoir et
de l’argent, pour bien paraître. Ce mal est qualifié de “mal zaïrois”, par le fait qu’il est devenu comme une norme absolue pour
tous.
BULEYA, George (Malawi - diocesi di Blantyre): The Concrete
Human Condition: A Privileged Locus for Moral Truth. The
Implications of Gaudium et spes 4-10 (the Expositio introductoria) in Shaping Moral Proposals. - 18 novembre 1999;
Moderatore: Prof. Raphael Gallagher
The moral crisis of our times is about the difficulties humanity
is facing in finding a meaningful centre around which lives can
revolve. In similar efforts to find a new and effective way to conceive the relationship between the Church and the world, Gaudium et spes turned to the concrete human condition as the interpretative centre. It seems that a similar turn has to be made
in the realm of moral proposals if they are to be both plausible
and effective. The concrete human condition has to be allowed
to take the same privileged position as a “locus” for moral truth
in shaping moral proposals.
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CIPRESSA, Salvatore (Italia - diocesi di Nardò-Gallipoli): Il fenomeno transessuale fra medicina e morale. - 18 maggio
2000; Moderatore: Prof. Maurizio Faggioni
Il presente studio cerca di rispondere ai molteplici ed inquietati
interrogativi che suscita la drammatica condizione transessuale
attraverso un articolato itinerario di ricerca. Si esamina la sessualità umana nelle sue molteplici dimensioni, illustrando le
principali tappe del processo di acquisizione del sesso e dell’identità sessuale. Successivamente si studiano gli aspetti eziologici, psicologici, comportamentali, diagnostici e terapeutici del
transessualismo come presupposto imprescindibile per la riflessione morale. Quindi, alla luce dell’antropologia sessuale cristiana, vengono esaminati i principali problemi etici e giuridici connessi con lo stato transessuale. Le questioni etiche e giuridiche
si impongono nella psicoterapia e soprattutto nel trattamento
medico-chirurgico e nelle questioni riguardanti l’ammissione di
una persona transessuale al matrimonio, all’Ordine sacro e alla
vita consacrata. Infine, si offrono alcune indicazioni pedagogicopastorali per aiutare la persona transessuale a realizzare la sua
vocazione umana e cristiana.
DANKA, Sami (Irak - diocesi di Baghdad): L’uomo immagine e
somiglianza di Dio secondo Narsai di Nisibi. - 4 novembre
1999; Moderatore: Prof. Luigi Padovese
L’uomo è fatto a immagine di Dio, portatore di una valenza divina; deve dominare sul mondo, sulla terra, su tutti gli altri viventi; è l’ultima opera della creazione, il culmine, l’opera più bella, con una dignità che non ha eguali. Quest’uomo rivela l’amore di Dio alle creature e rappresenta un “oggetto” visibile attraverso il quale le creature possono conoscere ed amare Dio. Narsai non ritiene soddisfacente che l’uomo sia capace di dominare
su tutto, capace di guidare la propria libertà e volontà, ma di più:
1. La sua creazione è diversa da quella delle altre creature, in
quanto implica un “consiglio nuovo”; 2. La figura del Creatore
come grande Artigiano: crea l’uomo con grande abilità; 3. L’uomo è piena immagine di Dio in Cristo Gesù che lo rende capace
di amare.
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FERNANDES, Stephen Eustace (India - diocesi di Bombay): Justice as Participation in John Rawls and in the Social Teachings of Pope John Paul II. - 31 maggio 2000; Moderatore:
Prof. Brian Johnstone
The research is limited to the title of the work. It is the study of
two important authors in the field of justice whose religious and
cultural upbringing differs enormously. Section one of the research focuses on the conception of justice as participation according to John Rawls. Section two of the research commences
with the philosophical framework of Pope John Paul II’s thought
prior to his pontificate and his teaching on justice as participation in his early encyclicals - Redemptor Hominis and Dives in
Misericordia. It then elaborates the teaching of justice as participation in the social encyclicals of John Paul II, the reigning Pontiff. The research presents an individual evaluation of the specificity and limitations of both John Rawls and John Paul II and
concludes with a comparative evaluation of their points of similarity and differences.
FERRARI, Roberto (Italia - o.f.m.): L’azione dei Minori Osservanti nei Monti di Pietà. Il Defensorium di Bernardino de Busti. - 05 aprile 2000; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher
Il lavoro è costituito da due tomi: il primo presenta l’”editio princeps” del testo originale del DEFENSORIUM di Bernardino de
Busti, con la relativa trascrizione e traduzione (ed. 1497); il secondo offre contributi significativi del prestito ad interesse e all’usura. Viene considerata l’azione specifica dei rappresentanti
più significativi dell’Osservanza francescana che attraverso la
predicazione itinerante e la concreta testimonianza evangelica
della carità verso i poveri, promuove e fonda l’istituto dei Monti
di Pietà. Monti di Pietà ed usura: un binomio inseparabile di
questo studio. Il testo del Defensorium propone i punti centrali
della polemica anti ebraica circa l’usura, e la differente posizione tra la scuola francescana e domenicana sul prestito ad interesse.
FOLTYN, Piotr (Polonia - diocesi di Varsavia): L’uomo nel matrimonio come marito e padre secondo il magistero universa-
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le della Chiesa, 1878-1995. - 26 maggio 2000; Moderatore:
Prof. Seán Cannon
La paternità non è soltanto un valore personale dell’uomo, ma
anche un valore familiare, sociale e religioso. La rapida mutazione socio-culturale e le trasformazioni in campo familiare
mettono a dura prova la figura del padre. Dare l’allarme che la
famiglia odierna e insieme con essa la paternità sono in pericolo, non basta. Pur necessaria e indispensabile, va riscoperta e valorizzata in un contesto nuovo. Questo lavoro si rivolge ai documenti principali del Magistero universale della Chiesa (18781995), che in modo diretto o indiretto trattano della figura dell’uomo come marito e padre. Indubbiamente attenzione più particolare viene rivolta ai documenti papali e conciliari che sono
stati dedicati al matrimonio e alla famiglia.
GONSALVES, Archibald R. (India - o.c.d.): The Beginning of the
Human Individual: A Western and an Indian Perspective. - 29
maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
The Western Perspective on “The Beginning of the Human Individual”, developed by Norman M. Ford, in his book, “When did
I begin?” is compared with the Indian Perspective as developed
in the Indian Medical System, “Ayurveda”. These Perspectives
have their foundations in their respective Philosophies, Sciences
and Religions. While the Western Perspective keeps on asking
the question, “When did I begin?” the Indian Perspective asks
the questions, “How did I begin” These two perspectives, though
different in their approaches, are complementary in telling us
more about the beginning of the human individual.
HERNANDEZ MEDRANO, Rodolfo (Messico - o.f.m.): La Solidaridad como Exigencia Etica de Promocion Humana en las
ONGs de Derechos Humanos en Mexico. Una Reflexion Desde
la IV Conferencia del Episcopado Latinoamericano. - 11 ottobre 1999; Moderatore: Prof. Silvio Botero
Las Organizaciones No Gubernamentales de derechos humanos
en México nos muestran de una manera concreta la mutua relación y dinamismo que existe entre los grandes temas reconoci-
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dos por el magisterio como signos de los tiempos, es decir, la creciente solidaridad entre las personas por defender los derechos
humanos y la promoción de un verdadero y auténtico desarrollo
humano.
El objetivo de la tesis es la fundamentación ético-teológica de la
acción social estas ONGs a partir de la solidaridad propuesta por
la IV Conferencia General del Episcopado Latinoamericano. De
igual manera se pretende subrayar la urgencia de una concientización para el compromiso solidario a favor de los derechos humanos en México presentándolo como expresión de una Nueva
Evangelización y una cultura ciudadana.
JECZEN, Jaroslaw (Polonia - diocesi di Lublino): Persona e morale. Morale come il compimento della persona in Giovanni
Paolo II. - 9 giugno 2000; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi
La tesi Persona e morale, intitolata così per analogia alla più famosa opera di Karol Wojtyla Persona e atto è lo studio integrale
sul suo personalismo filosofico-teologico in quanto morale. Da
una parte lo analizza come ulteriore specificazione del discorso
antropologico tomista-fenomenologico sulla base di un movimento circolare: operari sequitur esse, ma anche esse sequitur
operari; dall’altra, lo presenta nel campo della teologia come
chiave della morale della persona: l’uomo realizza se stesso mediante l’atto moralmente buono, confermando, sviluppando e
consolidando in sé la somiglianza di Dio Personale – Unio Personarum. La tesi tratta della morale personale e nel contempo
della morale del compimento di sé. Senza essa, l’uomo non può
ritrovare se stesso. Senza la morale, l’uomo non può pienamente realizzare se stesso come persona.
KAITHARATHOTTIYIL, Lukose (India - c.f.i.c.): Somatic Cell
Gene Therapy. Scientific and Ethical Aspects. - 20 gennaio
2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
The first human somatic cell gene therapy, the technique of correcting genetic disorders through genetic engineering, in 1990,
heralded a great leap forward for medical sciences. Though the
effects of this technology are restricted to the individual, it has
been for some time the subject of a lively debate. It raises few
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ethical problems as it does not represent a departure from standard medical practice. But it should not be used for enhancement purposes. More information about this literature helps understand and appreciate its great potential that would revolutionize modern medicine by providing a rational treatment to those suffering from serious disease. The Catholic Church associates herself with those who commit themselves in bringing the
positive outcome of this technology. Somatic cell gene therapy is
morally justifiable and therefore it is well worth pursuing.
KANAPKA, Algirdas (Lituania - diocesi di Vilkaviskis): L’interdipendenza tra l’amicizia cristiana e il perdono accordato ed accolto secondo l’insegnamento di Paolo VI. - 5 giugno 2000;
Moderatore: Prof. Dennis Billy
Lo studio svolto presenta l’esame dell’insegnamento di Paolo VI
in cui emerge l’interdipendenza tra due concetti: l’amicizia cristiana e il perdono accordato ed accolto. L’amicizia cristiana si
delinea come una complessa realtà dell’espressione umana e
umano-divina, quindi l’inizio e la meta dei rapporti interpersonali, composta da tanti elementi strettamente legati tra loro. Il
perdono in quanto mezzo si rappresenta come l’invito all’amicizia cristiana e quindi al cambiamento della vita e dei rapporti infranti. La tesi fa emergere anche l’atteggiamento di Paolo VI: dell’uomo amico di Dio e di ogni uomo, pronto a chiedere il perdono ed instancabile a perdonare seguendo le orme di Gesù, superando tutti i pregiudizi e qualsiasi condizionamento.
MACERI, Francesco (Italia - s.j.): La formazione della coscienza
del credente. Una proposta educativa alla luce dei “Parochial
and Plain Sermons” di John Henry Newman. - 18 febbraio
2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay
La formazione della coscienza consiste in un itinerario di trasformazione, lungo il quale, per grazia e per impegno, il cristiano acquisisce sempre più l’abilità di incontrarsi con Dio in Cristo, “solus cum Solo”. Dopo aver mostrato l’attualità dei Sermoni (I), l’autore ha ricostruito, alla luce delle pagine newmaniane,
l’identità essenziale di Dio Trinità e dell’uomo che si è rivelata
nell’opera di redenzione (II), e ha analizzato, nelle sue articola-
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zioni e nei suoi sviluppi, il dinamismo della vita del rigenerato,
in modo da far emergere i contenuti, le caratteristiche e le modalità principali dell’azione educativa cristiana (III). Fatto ciò,
utilizzando i dati antropologici e teologici e applicando il modello pedagogico emersi, è stato tracciato un itinerario di formazione della coscienza, considerata in rapporto alle facoltà
umane, immersa nel dinamismo escatologico impresso alla vita
del credente dalla presenza dello Spirito e nel contesto ecclesiale (IV). Infine, prestando di nuovo attenzione ai contenuti antropologici e teologici in prospettiva pedagogica, si è delineato un
breve ma denso cammino di conformazione cristologica di tutto
l’uomo – intelletto, affettività e volontà -, necessario perché Cristo sia accolto nella coscienza (V).
MARIANI, Andrea (Italia - diocesi di Tortona): La vita morale
come cammino di crescita nel catechismo della Chiesa cattolica. Per una formazione della coscienza morale. - 8 giugno
2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano
Cogliendo gli interrogativi etici, suscitati dalle scienze umane e
dalla cultura contemporanea, la riflessione morale che orienta il
presente studio, alla luce dell’attuale rinnovamento della catechesi, presenta la dinamica della ‘gradualità’, ponendosi al servizio della persona e accettando il confronto sistematico con le
scienze dell’educazione. Tale cammino graduale riveste un particolare rilievo, non solo per il suo carattere sistematico in ambito magisteriale-dottrinale, ma risulta altrettanto fruttuosa oggi,
per la prassi e l’accompagnamento, in prospettiva pedagogicopastorale e catechistico. L’istanza della ‘gradualità’ risulta essere
quel principio che meglio risponde alla comprensione della vita
cristiana come cammino progressivo di crescita; l’uomo è infatti quell’essere ‘storico’ chiamato alla santità.
MARRONE, Domenico (Italia - diocesi di Trani): Il messaggio
morale cristiano nel magistero episcopale di Mons. Antonio
Bello (1935-1993). - 20 novembre 1999; Moderatore: Prof.
Sabatino Majorano
La tesi si propone di individuare il quadro di riferimento assiologico del magistero di una delle figure di rilievo dell’episcopato
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italiano degli ultimi anni: il vescovo di Molfetta Mons. Antonio
Bello (1935-1993). Il lavoro è diviso in quattro capitoli. Il primo
presenta un approccio biografico per ripercorrere le tappe decisive che hanno segnato il percorso umano e formativo dell’autore. Nel secondo capitolo si passa a considerare la questione del
linguaggio, elemento importante dell’esperienza morale. Nel terzo capitolo si traccia la trama complessiva del messaggio antropo-teologico di Bello. Emerge la centralità di Dio e dell’uomo
quali due fuochi di un’unica ellisse del suo magistero. Infine, nel
quarto capitolo si enucleano i fulcri portanti del discorso morale: la profezia della povertà, l’opzione per i poveri, l’impegno per
realizzare l’utopia della pace, il sogno della convivialità delle differenze. L’itinerario di riflessione approda così alla definizione
di un orizzonte complessivo che si caratterizza per alcuni indicatori etici fondamentali, fecondi per questo trapasso di millennio in vista della civiltà dell’amore: l’ethos della solidarietà, della
convivialità, della tenerezza.
MBULA MALENGO, Faustin (Repubblica Democratica del
Congo - o.praem): L’enjeu éthique du rapport avec le cosmos
pour une inculturation du message du salut en milieu BantuNgombe. - 21 febbraio 2000; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi
Les Bantu-Ngombe, dans leur rituel séculier présentent les caractéristiques d’un peuple qui célèbre la vie dans sa dimension
cosmique. Les étapes importantes de l’existence sont vécues comme expérience qui renvoit au tout de la vie. Cependant, le milieu
culturel et historique actuel des Ngombe connaît une désintégration qui annihile l’harmonie entre les valeurs de la culture et le
dynamisme de l’Evangile. Les âpres dissensions que connaît l’Afrique des cultures l’éloignent de plus en plus de son idéal de vie,
où l’éthique chrétienne se trouve en face d’un certain nombre des
questions urgentes et apparemment insolubles qui touchent la
personne dans ses dimensions profondes. En ces circostances,
l’inculturation de la Bonne Nouvelle se révèle et se réalise comme
ferment qui féconde et (re)-vitalise la culture dans des structures
nouvelles d’évangelisation et de référence des valeurs.
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MUANDA, Kienga (Repubblica Democratica del Congo - diocesi di
Boma): La loi naturelle chez Servais Pinckaers. Exposé et confrontation. - 3 maggio 2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay
La tesi è un approfondimento critico della legge naturale nel
pensiero di Pinckaers, il quale, per continuare il rinnovamento
della morale indicato da Vaticano II, intende attualizzare il pensiero della “legge naturale” nella sua giusta antropologia, dopo
di che se ne fa un’analisi dettagliata. Nella seconda parte, si confronta il pensiero di P. su due punti: il dibattito attuale sulla legge naturale, il legame tra morale e cristologia. Ne emerge un prezioso contributo per il chiarimento del dibattito, ma una debolezza cristologica di fondo. Da lì, si propone un approccio cristologico della legge naturale (legge naturale come legge filiale en
creuz), più teologico e più adatto all’evangelizzazione odierna.
NSAMBI-e-MBULA B., Jean-B. (Repubblica Democratica del
Congo - c.m.): La conscience morale comme fondement de la
dignité humaine dans la société congolaise. Approche contextuelle et élucidative de l’ethos négro-africain. - 16 dicembre
1999; Moderatore: Prof. Joachim Ntahondereye
Le débat sur la nature de la conscience morale reste ouvert alors
que semble acquis le principe de la dignité de toute personne. En
Afrique noire parfois présentée comme professant une “morale
sans péché”, la conscience morale a été niée ou est mise en doute, pendant que la non jouissance des droits fondamentaux semble annuler toute prétention à la dignité humaine. En partant de
l’élucidation de l’expérience morale vécue au Congo-Kinshasa, la
thèse réoriente le débat et démontre que la dignité humaine est
plus que la jouissance des libertés et droits fondamentaux parce
qu’elle se fonde, dans la perspective christologique d’une morale
négro-africaine découlant de l’ontologie (l’être-avec-la vie), dans
la conscience comme le centre le plus secret de la personne.
NTABANA, Augustine (Uganda - diocesi di Masaka): Respect,
Protection and Promotion of Fundamental Civil and Political
Rights and Freedoms: A Moral Theological Study of Uganda
since 1962-1999 in the Light of Some Selected Social Encyclicals. - 2 giugno 2000; Moderatore: Prof. Raphael Gallagher
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The study aims at making a contribution within the context of
Moral Theology, to building up a new culture in Uganda, whereby Government leaders would become committed to respecting and guaranteeing the free enjoyment of the people’s civil
and political rights and freedoms. A moral analysis of the various violations reveals that the leaders responsible for the violations were egocentric and power hungry. Their sole concern
seems to have been to acquire power and to retain it even at the
expense of the citizens’ civil and political rights. To correct this
situation we have proposed some moral principles that need to
be inculcated among the people at the various levels of society,
beginning with the family.
PANZETTA, Angelo (Italia - diocesi di Taranto): La legge naturale e la legge della grazia nel secolo XVIII. La riflessione di Pasquale Magli. - 15 aprile 2000; Moderatore: Prof. Sabatino
Majorano
La dissertazione, che si inserisce nel contesto della storia della
teologia morale del secolo XVIII, prende in esame le interessanti tesi sulla legge naturale e sulla legge della grazia di un autore
fin ad ora praticamente sconosciuto, Pasquale Magli (17201776). Si tratta di un sacerdote di Martina Franca (TA), studioso
di questioni filosofiche e teologiche. Per analizzare criticamente
le tesi del Magli sulla legge naturale e sulla grazia, viene ricostruito prima il contesto filosofico, teologico e personale in cui
sono nate, poi si analizza la proposta specifica partendo dai fondamenti antropologici e teologici su sui è costruita e, da ultimo,
si ricostruisce il dibattito che il martinese ha avuto con s. Alfonso de Liguori sulla questione della legge naturale.
PARAYIL, Thomas (India - diocesi di Berhampur): The Position
of India on Nuclear Disarmament: A Moral Assessment in the
Light of the Teaching of the Catholic Church. - 11 maggio
2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
Our study shows that the Catholic Church maintains that nuclear deterrence can be morally acceptable on the condition that
it is a step towards complete nuclear disarmament. There is a
strong indication in the Church’s teaching against the use of the-
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se weapons. The Church advocates multilateral and verifiable
nuclear disarmament. Based on the teaching of the Church we
conclude that the position of India on nuclear disarmament is
morally acceptable. In our conclusion we note that an important
step on the road to nuclear disarmament would be for all nuclear
powers to abandon nuclear deterrence.
PERCHINUNNO, Michele (Italia - diocesi di Cerignola - Ascoli
Satriano): La dimensione pneumatologica della vita cristiana
nei manuali italiani di teologia morale degli ultimi due decenni (1970-1990). - 3 giugno 2000; Moderatore: Prof. Sabatino
Majorano
Lo scopo di questa tesi è stato quello di evidenziare il rapporto
che la proposta morale di alcuni manuali italiani ha potuto avere con la pneumatologia nel post-Concilio.
In primo luogo si è cercato di ricordare le indicazioni pneumatologiche del Concilio Vaticano II, per poi ricostruire il contesto
sociale ed ecclesiale degli anni ’70 e ’80, insieme ai piani pastorali CEI ed i convegni ecclesiali di Roma (1976) e Loreto (1985),
ed infine si è tentato di delineare il cammino di alcuni movimenti ecclesiali e della teologia morale fondamentale in Italia.
In secondo luogo sono stati analizzati i manuali, evidenziando le
linee portanti di ciascuna opera e il loro possibile rapporto con
la pneumatologia ripercorrendo le categorie fondamentali della
vita morale.
Il lavoro si conclude con un bilancio di quanto è emerso nel lavoro analitico dei manuali e tentando di delineare alcune indicazioni di prospettiva.
PETROSINO, Luigi (Italia - c.ss.r.): La catechesi morale missionaria redentorista nel Mezzogiorno d’Italia a metà ottocento. 4 aprile 2000; Moderatore: Prof. Sabatino Majorano
E’ una ricerca storico-catechetico-morale sulle istituzioni delle
Missioni Redentoriste a metà Ottocento. Nei primi due capitoli,
l’autore si sofferma sui contesti socio-culturale ed ecclesiale-pastorale del periodo trattato. Nel terzo, su “I redentoristi e la Missione alfonsiana”, riporta “la comune opinione favorevole” dell’apostolato missionario redentorista. Nei capitoli quarto e quinto,
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basandosi su numerosi manoscritti dell’epoca, lo stesso sottolinea quali sono state le preoccupazioni fondamentali di una tale
catechesi rimasta sostanzialmente fedele al Tridentino e per
quanto riguarda, in modo particolare, il Sacramento della Penitenza, interpretando però in maniera “benigna” le indicazioni
della Sessione XXII. Infine, l’autore lamenta la mancanza di
creatività e la conseguente ripetitività che si riscontrerà a partire dalle vicende dell’Unità d’Italia in poi.
POZNIC, Andres Marko (Slovenia - diocesi di Ljubljana): Un futuro para la nación en la Unión Europea. Una propuesta ético-moral. - 1 giugno 2000; Moderatore: Prof. Martin McKeever
La tesis propone a la nación como materia relevante del estudio
moral. 1) Con una breve reseña en “clave nación” justificamos la
importancia del tema. 2) Con la ayuda de la sociología intentamos comprendere mejor la conplejidad y dimensiones del fenómeno “nación”. 3) A continuación esbozamos una propuesta
teológico-moral sobre el tema. Exponemos en especial la participación de la nación en la formación de la identidad de individuo y la sociedad. 4) Analizamos las relaciones institucionales
en la Unión Europea desde la óptica de la nación.
RANIERO, Lorenzo (Italia - o.f.m.): Gesù Cristo è il fondamento
della morale per ogni uomo? Analisi e confronto con alcuni
laici in Italia. - 10 marzo 2000; Moderatore: Prof. Réal Tremblay
La ricerca intende mostrare come la fondazione cristologica della teologia morale cattolica tocchi l’intimo essere di ogni uomo
creato sulla terra e di conseguenza risulti essere un’offerta legittima e fondata anche per coloro che in Italia sono gli esponenti
del laicismo liberale. La proposta che la teologia fa ai non credenti si innesta all’interno della loro ricerca di fondazione dell’etica, e in essa nel mai assopito desiderio di approdare ad un
qualche valore morale ultimo e definitivo che conduca l’indagine dei laici alla quiete fondativa. L’analisi del pensiero morale di
alcuni esponenti laici italiani in ordine alla questione della fondazione ultima dell’agire morale, intende evidenziare come an-
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che in essi, sia pur in varie forme non sempre esplicite, si celi
una insopprimibile sete di assoluto, preparando in tal maniera il
terreno alla proposta di una teologia morale fondata sul mistero
di Cristo.
REHMAT, Indrias (Pakistan - diocesi di Faisalabad): Christian
Marriage and Family in Modern Pakistan: The Challenge of
Pastoral Care in a Muslim Society. - 16 febbraio 2000; Moderatore: Prof. Seán Cannon
Marriage and family are the most basic institutions of society as
well as of the Church. But, everywhere they are troubled by
various problems like polygamy, the plague of divorce, so called
free love and similar blemishes. Furthermore married love is too
often dishonoured by selfishness, hedonism and unlawful
contraceptives. Besides, the economic, social, psychological and
civil climate of today has a severely disturbing effect on family
life. In this research the author has focused on Pakistani
Christian marriage and families, analysing its strengths and
weaknesses in the given context and has tried to find a pastoral
remedy to help out and deepen the Christian vision of marriage
among the Christian youth and married in modern Pakistan.
SAVARIMUTHU, Gaspar (India - diocesi di Kumbakonam): The
Doctrine of non-Violence according to Jayaprakash Narayan:
for a Comprehensive socially changed Society - 10 dicembre
1999; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
Jayaprakash Narayan was a follower of Mahatma Gandhi and a
true Satyagrahi. Keeping the principle of Non-violence of
Gandhi and socialist values, Narayan evolved his doctrine of
Non-violence of the brave, consisting of human, spiritual and
moral values. Peace is the vital and essential element of his doctrine. Liberty, equality, fraternity, justice, love and the common
good are the goals of his doctrine. This research presents a positive and critical account of Narayan’s thought, comparing it with
the social teaching of the Catholic Church. On the basis of the research proposals are offered for a concrete programme.
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SMITH, Anthony Joseph (U.S.A. - c.ss.r.): AIDS and the Ethics of
Mercy. An Analysis of Moral Theology’s Response to the Aids
Epidemic. - 19 maggio 2000; Moderatore: Prof. Terrence
Kennedy
The thesis examines the response of moral theology to the AIDS
epidemic in the English-speaking world, and argues that an
“ethic of mercy”, drawn from both traditional and feminist sources, can better embrace the complex ethical difficulties presented by the epidemic.
SNIGIER, Arkadiusz (Polonia - diocesi di Elblag): La giustizia
sociale: dimensione fondamentale del mondo contemporaneo
nell’insegnamento di Giovanni Paolo II degli anni 1978-1995.
- 12 novembre 1999; Moderatore: Prof.ssa Nella Filippi
Un tema di grande attualità e complessità, di dimensione mondiale, è al centro di questa tesi dottorale. Attraverso l’analisi dei
documenti e della pastorale del Pontefice, l’autore illustra che
cosa il Santo Padre intende per giustizia sociale: è una virtù morale, un diritto inalienabile della persona umana, che ha come
oggetto il bene comune. Ha inoltre carattere dinamico ed è strettamente legata alla carità ed alla pace. L’autore espone poi la via
indicata dal Pontefice per l’attuazione della giustizia sociale. Sia
la società civile sia la Chiesa sono chiamate alla costruzione di
una società più giusta.
SUJOKO, Albertus (Indonesia - m.s.c.): Personalist Method in
Moral Theology. Critique and Further Development of the
Thought of Louis Janssens and Bernard Häring. - 29 ottobre
1999; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
The personalist method of moral argument holds that morality
in the true sense of the word deals with the human person rather
than human actions. Only the human person can be moral. The
document of Vatican II, Optatam Totius in no. 16 teaches that the
presentation of moral theology should shed more light upon the
exalted vocation of the faithful in Christ. And Gaudium et spes 51
points out that the objective criterion of morality must be drawn
from the nature of the human person and human action. These
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are the foundations of personalist moral theology, which focuses
on the human person rather than on the human action in itself.
TRACY, Joseph A. (U.S.A. - diocesi di Philadelphia): The Challenge
to Catholic Morality from a Postmodern Culture of Consumption
as manifested particularly in the United States of America. - 30
maggio 2000; Moderatore: Prof. Stephen Rehrauer
The omnipresence of consumerist attitudes and lifestyles is evident in the developed world and particularly in the U.S.A. These
contribute to the formation of a culture of consumption increasingly focused on commodities and acquisition. This dissertation
studies the phenomenon of consumer culture in the United States,
its origins and development, and the moral and theological significance of inordinate consumption. Using concepts from Catholic
social teaching, it attemps to raise consciousness about the potential moral dangers of unrestrained consumer spending by critiquing the American culture of consumption and by examining its
impact on personal dignity, community, and human solidarity.
VALLATE, Mathew (India - diocesi di Bhopal): “The Inner Voice”.
A Study of Conscience in Bernard Häring and Mahatma
Gandhi. - 4 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian Johnstone
This comparative study examines the concept of conscience in
Häring and Gandhi. It argues that conscience, more than a faculty of will or intellect, is the reaction of the whole person. Despite belonging to two different traditions, there are more elements of convergence than divergence in their understanding of
conscience. If incorporated into the Catholic Moral tradition, it
can enrich its understanding of conscience.
WOO, Jae Myung (Corea del Sud - s.j.): Genetic Privacy Balanced
with the Good of the Community in the Use of Genetic Information by a Third Party: An Analysis in the Light of Catholic
Moral Principles. - 24 maggio 2000; Moderatore: Prof. Brian
Johnstone
The use of genetic information generated by the Human Genome Project is a complicated issue since it raises the conflict
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between genetic privacy and the good of the community. The justification of each party is partially flawed. The purpose of this
dissertation is to reach a balance between genetic privacy and
the good of the community. Here I argue for my own notion of
“freedom with” a balance between genetic privacy and the good
of the community. I argue that a person’s right to privacy is a
foundational principle, but is not necessarily an absolute right
since each person is always a moral self who achieves his or her
own ends only in relationship with others.
8.2. Dottori proclamati
Durante l’anno accademico 1999-2000 i 29 studenti di seguito indicati, ai quali è stato conferito il titolo di dottore in teologia con specializzazione in teologia morale, hanno pubblicato,
alcuni in versione integrale, la loro tesi dottorale:
AUDU, Mathew, A Smaller Family Size, the Alleged Solution to the
Predicaments of Poverty and Hunger in Developing Countries
(A Moral Evaluation of the Arguments For and Against). (Excerpta) Roma 1999, 234 pp.
AWIRIA OZITILE, Pax, Thomas Aquinas’s Teaching on Just Price. A Theological Reading of Summa Theologiae II-II, q.77.
(Excerpta) Roma 2000, 187 pp.
BOWA KATETA, Grégoire, Le mal zaïrois. Essai d’une étude
comparative. (Excerpta) Roma 2000, 233 pp.
BULEYA, George, The Concrete Human Condition: A Privileged
Locus for Moral Truth. The Implications of Gaudium et spes
4-10 (the Expositio introductoria) in Shaping Moral Proposals. (Excerpta) Roma 1999, 156 pp.
DANKA, Sami, L’uomo immagine e somiglianza di Dio secondo
Narsai di Nisibi. (Excerpta) Roma 1999, 182 pp.
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ETTIEN, Narcisse Kakou, Des exigences éthiques, préalables à un
développement authentique. Réflexions à partir du cas du
Sahel. (Excerpta) Roma 1999, 226 pp.
FISCHETTI, Eugenio, La libertà religiosa, fondamento dei diritti
umani nel Magistero di Giovanni Paolo II (1978-1995). (Excerpta) Roma 1999, 169 pp.
FOLTYN, Piotr, L’uomo nel matrimonio come marito e padre secondo il magistero universale della Chiesa, 1878-1995. (Excerpta) Roma 2000, 116 pp.
HERNANDEZ MEDRANO, Rodolfo, La Solidaridad como Exigencia Etica de Promocion Humana en las ONGs de Derechos Humanos en Mexico. Una Reflexion Desde la IV Conferencia del
Episcopado Latinoamericano. (Excerpta) Roma 1999, 269 pp.
KAITHARATHOTTIYIL, Lukose, Somatic Cell Gene Therapy.
Scientific and Ethical Aspects. (Excerpta) Roma 2000, 140 pp.
KANAPKA, Algirdas, L’interdipendenza tra l’amicizia cristiana e
il perdono accordato ed accolto secondo l’insegnamento di
Paolo VI. (Excerpta) Roma 2000, 132 pp.
KARUTA, Wenceslas, La sacramentalité de la famille. Données
théologiques fondamentales pour une redécouverte de l’identité de la famille. Conséquences pour la réflexion de l’Eglise.
(Excerpta) Roma 1999, 143 pp.
MARRONE, Domenico, Il messaggio morale cristiano nel magistero episcopale di Mons. Antonio Bello (1935-1993). Roma
2000, 251 pp.
MBUMBA N., Bonaventure, La théologie politique selon J.M. Aubert. Jalons pour un engagement socio-politique du chrétien
africain. (Excerpta). Roma 1999, 177 pp.
MRIGHWA, Novatus Silvery, The Pastoral Diocesan Synod as an
Instrument of New Evangelization and Moral Renewal. Roma
1999, 239 pp.
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NSAMBI-e-MBULA B., Jean-B., La conscience morale comme
fondement de la dignité humaine dans la société congolaise.
Approche contextuelle et élucidative de l’ethos négro-africain.
Roma 2000, 321 pp.
NTABANA, Augustine, Respect, Protection and Promotion of
Fundamental Civil and Political Rights and Freedoms: A Moral Theological Study of Uganda since 1962-1999 in the Light
of Some Selected Social Encyclicals. (Excerpta) Roma 2000,
148 pp.
OSORIO SIERRA, Rosa Adela, Kuñaité en Abia Yala. Una
Aproximación Moral a la Obra de Waman Puma. (Excerpta)
Roma 1999, 76 pp.
PANZETTA, Angelo, La legge naturale e la legge della grazia nel secolo XVIII. La riflessione di Pasquale Magli. (Excerpta) Martina Franca 2000, 92 pp.
ROSARIO, Manuel A. G. do, Discernimento dos sinais dos tempos e consciência moral, a partir do magistério da Conferência episcopal Portuguesa (1974-1995). Porto 1999, 360 pp.
SIMONE, Giannicola Maria, Lo Spirito Santo radice del rinnovamento della vita cristiana. Il contributo di Paolo VI alla
svolta pneumatologica del Concilio Vaticano II. (Excerpta)
Milano 2000, 144 pp.
SMITH, Anthony Joseph, AIDS and the Ethics of Mercy. An
Analysis of Moral Theology’s Response to the Aids Epidemic.
(Excerpta). Roma 2000, 109 pp.
SNIGIER, Arkadiusz, La giustizia sociale: dimensione fondamentale del mondo contemporaneo nell’insegnamento di Giovanni Paolo II degli anni 1978-1995. (Excerpta) Roma 1999,
109 pp.
SUJOKO, Albertus, Personalist Method in Moral Theology. Critique and Further Development of the Thought of Louis Janssens and Bernard Häring. (Excerpta) Roma 1999, 141 pp.
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TRACY, Joseph A., The Challenge to Catholic Morality from a Postmodern Culture of Consumption: as manifested particularly in
the United States of America. (Excerpta) Roma 2000, 224 pp.
VALLATE, Mathew, “The Inner Voice”. A Study of Conscience in
Bernard Häring and Mahatma Gandhi. (Excerpta) Roma
2000, 92 pp.
VERRE, Leonardo, L’etica del risveglio nell’opera drammatica di
Gabriel Marcel. (Excerpta) Rome 2000, 96 pp.
WOO, Jae Myung, Genetic Privacy Balanced with the Good of the
Community in the Use of Genetic Information by a Third
Party: An Analysis in the Light of Catholic Moral Principles.(Excerpta) Roma 2000, 89 pp.
ZAPALA, Janusz, La configurazione a Cristo Buon Pastore fondamento e fulcro della vita sacerdotale alla luce dell’esortazione post-sinodale PASTORES DABO VOBIS. (Excerpta) Roma
1999, 309 pp.
8.3. Licenza in teologia morale
Nel corso dell’anno accademico 1999-2000, 47 studenti hanno ottenuto la licenza in teologia morale:
ADUSE-POKU, Joseph (Ghana - diocesi di Sunyani): “Mercy” as
the Interior Form of Agape: The Moral Implications, especially in Matthew’s Gospel.
BARRIONUEVO, Jorge Marcelo (Argentina - diocesi di Tucuman): Conceptos antropológicos sobre la vida humana. Análisis sobre la concepción de la vida humana en la “Declaración
Universal sobre el genoma humano” a la luz de “Evangelium
vitae”.
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BISHAY, Khaled Ayad (Egitto – diocesi di Sohag): Il grave difetto di discrezione di giudizio come capo d’incapacità matrimoniale secondo i CIC can. 1095 §2 – CCEO can. 118 §2
CALVARUSO, Francesco (Italia – o.f.m.conv.): Il discernimento
vocazionale di sequela di Cristo nei messaggi di Giovanni
Paolo II in occasione delle giornate mondiali di preghiera per
le vocazioni.
CEBALLOS DAVILA, Adolfo León (Colombia - diocesi di Santa
Fe): La familia primera responsable de la formación del sentido moral.
CISNEROS FIGUEROA, Cristobal (Messico – diocesi di Guzman): La parroquia espacio donde el cristiano discerne su vocación.
COMENSOLI, Peter A. (Australia - diocesi di Wollongong):
Practical Reasonableness in the Writings of John Finnis.
D’AURIA, Renato (Italia – diocesi di Termoli): La formazione
della coscienza degli adulti: analisi del catechismo degli adulti. “La verità vi farà liberi”.
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DANIELLE GROS
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CHRONICLE / CRÓNICA
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DANIELLE GROS
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SCIUTO, Domenico (Italia - diocesi di Catania): “Sequela Crucis”
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SEKO, Roman (Slovacchia - diocesi di Banska): L’opzione fondamentale come obbedienza della fede nel personalismo di
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di Gandhi dal punto di vista della morale cattolica.
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CHRONICLE / CRÓNICA
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ZEIKAN, Vasilij (Ucraina - diocesi di Mukachevo): Il problema
del peccato nell’opera “La colonna e il fondamento della verità”
di Pavel Florenskij.
DANIELLE GROS
Segretaria Generale
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Reviews / Recensiones
*
Álvarez Verdes, Lorenzo, Caminar en el Espíritu. El pensamiento
ético de S. Pablo. Roma: Editiones Academiae Alphonsianae
2000, 544 p.
Nos encontramos ante una magna obra sobre la ética del Nuevo
Testamento, más concretamente sobre la ética paulina. En ella se
remansa gran parte del acreditado saber que el autor ha desplegado
a lo largo de varias décadas en la investigación, en la docencia, en
congresos, en misceláneas y en otras formas de actuación correspondientes a su especialidad bíblica. En beneficio principalmente de
los estudiosos de la Biblia y de la Teología moral, recoge ahora estudios previamente publicados, si bien “todos estos estudios han sido
revisados y oportunamente actualizados” (p. 20). La amplitud cronológica de esa inicial procedencia no constituye un inconveniente
sino una ventaja, ya que nos describe, en cierta medida, la historia de
los intereses temáticos y de los métodos por los que ha pasado la biografía intelectual del autor. Por lo demás, los capítulos están de tal
modo trabados que configuran un libro perfectamente unitario en
temática, en metodología y en orientación.
No soy yo competente para analizar esta obra desde el punto de
vista de las ciencias bíblicas; habrá quienes lo hagan en esta misma
revista o en otros ámbitos de expresión de la comunidad científica.
Mi perspectiva es la de un teólogo moralista sistemático, es decir, de
alguien que pretende tomar en serio la orientación del Concilio
Vaticano II, al pedir que la Biblia sea “como el alma de toda la teología” (DV, 24) y, más concretamente, que la teología moral “se ali-
* Las obras están ordenadas según el orden alfabético. / The works are
arranged in alphabetical order.
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REVIEWS
/ RECENSIONES
mente en mayor grado con la doctrina de la Sagrada Escritura” (OT,
16). De hecho esta “lectura” desde la Teología moral sistemática no
supone forzar los objetivos de la presente obra. Sin dejar de servirse
del utillaje más crítico y más actual de las ciencias bíblicas, el autor
mantiene una preocupación constante por lanzar puentes hacia la
reflexión teológico-moral sistemática. Esta preocupación se advierte,
sobre todo, en la propuesta de una hermenéutica bíblica que hable a
las preguntas éticas de la situación presente (cf. p. 81).
La orientación general de la presente obra se sitúa, a mi modo
de ver, dentro de dos grandes opciones que constituyen, al mismo
tiempo, dos grandes méritos. Por una parte, hay un dato bibliográfico impresionante por su amplitud y por el uso que de él se hace. En
cada uno de los temas tratados se expone, se analiza y se pondera la
bibliografía correspondiente; en esta labor, que otros abandonan por
pereza o por incompetencia, se advierte una gran maestría en cuyo
origen hay que situar no sólo el conocimiento de idiomas sino también la experiencia en la docencia académica de carácter internacional. Al moralista sistemático le serán de gran ayuda las lúcidas y ponderadas panorámicas que se ofrecen sobre el estado de la cuestión en
determinados temas de la moral bíblica. La segunda opción se refiere a la elaboración personal de la cuestión analizada. El autor no se
reduce a repetir el pensamiento de otros, sino que ofrece su propia
visión; en este sentido, la obra tiene un gran potencial de carácter
creativo y hace avanzar las propuestas existentes. Por lo general, en
la propuesta que hace el autor pocos dejarán de reconocer una gran
dosis de creatividad, de coherencia bíblica, y capacidad dialogante y
transformadora en relación con la situación actual. No falta tampoco la sensibilidad hacia la causa liberadora de los más pobres.
En el espacio disponible para esta recensión es imposible recoger todo el amplio contenido que ofrece la obra. Aludiré únicamente
a los aspectos temáticos más sobresalientes y de mayor interés para
el moralista sistemático.
El libro se organiza en dos partes. La primera se refiere a la ética
neotestamentaria en general y aborda, en tres capítulos, las cuestiones fundamentales del método y de la hermenéutica (pp. 23-127). La
segunda analiza, a lo largo de catorce capítulos, la temática más
importante de la ética paulina (pp. 129-513), dividida en tres bloques: el imperativo cristiano, la proyección social del imperativo cristiano, la soteriología cristiana en relación con la ética. La obra se
completa con una conclusión general, con el índice de autores, con
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/ RECENSIONES
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el índice de citas bíblicas y con el índice general. El conjunto resulta
armónico y corresponde a las exigencias de una obra de gran calado
científico.
En la primera parte se ofrecen tres elementos valiosos para el
conocimiento de la moral neotestamentaria y para una impostación
bíblica de la moral cristiana por parte del teólogo sistemático. El primero es una visión panorámica sobre los estudios actuales acerca de
la ética neotestamentaria (c. 1); el segundo consiste en una original
exposición sobre la hermenéutica aplicable a la ética bíblica en el
contexto de la cultura actual (c. 2); el tercero se concreta en el análisis del método sociológico en cuanto tal y de su aplicación al estudio
de la ética bíblica (c. 3). Las cien apretadas páginas que componen
esta primera parte pueden muy bien ser consideradas como un libro
autónomo de iniciación a las cuestiones básicas de la ética bíblica.
Del conjunto de la primera parte quiero resaltar algunas aportaciones que, a mi juicio, han de ser retenidas como decisivamente
orientadoras para el trabajo teológico-moral de hoy. En primer lugar,
es de agradecer al autor su probado convencimiento acerca de la
importancia del mensaje ético de la Biblia; sin negar su carácter fundamentalmente religioso, la Sagrada Escritura es también para la
ética cristiana la “norma normans” (p. 77) y, en cuanto tal, el referente decisivo para todo discurso teológico-moral. En este contexto
hay que entender la afirmación de que “no debemos olvidar que el
mensaje bíblico es ante todo un discurso ético” (p. 26).
La consideración de la Biblia como referente normativo para la
ética cristiana no cae en las tentaciones del simplismo ingenuo, del
fácil concordismo y, mucho menos, del acrítico fundamentalismo.
Son dignas de lectura reposada y de atenta reflexión las páginas que
dedica el autor a la articulación del dato bíblico con la relectura de la
tradición, una relectura que en muchas ocasiones está ya operando
en el mismo texto bíblico (pp. 62-67). Esta comprensión integradora
(en auténtico y no vicioso “círculo hermenéutico”) de la normatividad del texto bíblico corresponde, según acertadamente prueba el
autor, a la más genuina interpretación eclesial de la Revelación y a
las exigencias de la hermenéutica actual (pp. 77-78).
Partiendo de los presupuestos anotados, el autor se lanza al estudio del problema hermenéutico en relación con la ética bíblica, objeto del capítulo 2. Considero estas veinte páginas como las más profundas y originales de la primera parte del libro (pp. 61-88). Para el
autor “la labor hermenéutica se presenta como la coronación de los
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/ RECENSIONES
esfuerzos realizados en los demás niveles” (p. 87). No es posible
reproducir aquí ni siquiera el esquema de esa propuesta hermenéutica; me permito indicar al lector una apretada síntesis en las pp. 8788. La aportación más decisiva del autor a la hermenéutica de la
ética bíblica es haber enfatizado la importancia del “recurso a la elaboración analógico-metafórica” (pp. 81-86). Desde esa cima del proceso hermenéutico, se puede afirmar que “la Biblia ofrece algo más
importante que las simples soluciones concretas (...): la Biblia proporciona el saber y el poder usar la inteligencia (noûs) renovada para
poder discernir (dokimázein) lo que en cada caso concreto es exigencia
de la voluntad de Dios, e. d., lo bueno y lo perfecto (Rom 12, 2; cf. 2
Cor 3, 6)” (p. 87-88).
Como base de la hermenéutica está el método. El autor dedica un
capítulo entero (el 3) a la exposición y valoración de los métodos de
carácter sociológico. Aunque dependiente de las investigaciones de
los estudiosos norteamericanos, se trata de una aportación valiosa en
sí misma y también merecedora de elogio por ser de las primeras síntesis en el panorama de la exégesis europea. Los métodos sociológicos son particularmente funcionales para el estudio de determinados
temas de moral neotestamentaria, en los que la relación individuogrupo adquiere una importancia especial. El autor sabe utilizarlos
adecuadamente en varios capítulos de la segunda parte de la obra (cf.
capítulos 11, 12 y 13). Sin embargo, no se excluye el uso de otros
métodos, de los que se hace una sucinta exposición y una acertada
valoración (pp. 91-95). Expresamente se afirma: “la ética del N. T.
deberá arrancar de una investigación que combine en forma adecuada los métodos crítico-literarios, que permiten identificar la sucesión de estratos a nivel textual, con el método sociológico-histórico
que permite avalar la sucesión ‘literaria’ con la evolución ‘sociológica’ del grupo que ha vivido, configurado y transmitido los textos del
N. T.” (p. 60). El autor tampoco olvida el método estructuralista (p.
93-94), del que se sirve de forma expresa en otros capítulos de la
segunda parte, al analizar el sentido ético de la “justicia” en Rom 6
(c. 8) y los modelos soteriológicos del N. T. (c. 16). Recopilando cuanto se dice sobre el método (y los métodos) a usar en la ética bíblica,
el moralista sistemático tiene a su alcance la exposición y la valoración que precisa para una cuestión de tanta trascendencia como es
la lectura del contenido ético presente y operante en la Sagrada
Escritura.
El conjunto de cuestiones básicas, a las que estamos aludiendo,
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/ RECENSIONES
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no las trata el autor en monólogo abstracto sino en diálogo con las
más conspicuas propuestas de ética bíblica que existen actualmente.
También en este aspecto el moralista sistemático recibe una notable
aportación, ya que puede contrastar y acrecentar su propia información con la valoración de un experto en estudios bíblicos. Es, sobre
todo, en el capítulo primero (pp. 25-60) donde el autor ofrece un
vasto panorama de las producciones actuales sobre ética bíblica. Para
hacer la presentación de las obras, el autor utiliza dos tipos de parrilla: el criterio de la organización del material ético de la Biblia y el
criterio de la hermenéutica utilizada para leer ese contenido ético; la
segunda metodología es más valiosa, ya que baraja claves hermenéuticas tan importantes como: la capacidad de actualización del
mensaje bíblico, la propuesta de la especificidad de la ética neotestamentaria, su dimensión cristológico-escatológica. La valoración
que el autor hace de las principales obras dedicadas a la exposición
de la ética neotestamentaria es iluminadora. Por ejemplo, es crítico
ante la estructuración sistemática de C. Spicq y de K. H. Schelke y
ante la forma de entender la posible (o imposible) actualización del
mensaje bíblico propuesta por L. A. Marshall, J. L. Holden, y J. T.
Sanders; sabe descubrir lo valioso de las propuestas de W. Marxen y
de R. B. Hays aunque no comparte del todo el modo de comprender
la ética bíblica en su conjunto; se muestra receptivo ante estudios
como los de H. Halter y R. Dillmann, que se concentran sobre el análisis de la especificidad cristiana de la ética neotestamentaria; con
reservas desde la perspectiva del método y de la hermenéutica, valora positivamente las obras de S. Schulz y de E. Lohse. La valoración
más positiva -no podía ser de otro modo- la reciben las síntesis del
protestante W. Schrage y del católico R. Schnackenburg. En la primera critica el empleo “del material de los evangelios sinópticos sin
una adecuada atención a la crítica histórica” así como la debilidad
hermenéutica de la ética joanea; pero “a pesar de todo, es justo reconocer que la obra de Schrage, por la densidad de contenido, la claridad de exposición y el equilibrio de sus juicios, es en la actualidad el
manual más completo y mejor estructurado de la ética bíblica” (p.
49). Parecidas “debilidades” ve en el manual de R. Schnackenburg y
similar alabanza le tributa en su conjunto: “nos encontramos ante
una ‘ética del N. T.’ que es sin duda la más completa en el campo
católico y que legítimamente se puede parangonar con la de W.
Schrage. Hay en ella un inmenso material y un esfuerzo hermenéutico grande por combinar la pluralidad (de ahí el recurso al método
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histórico-crítico) con la unidad (cf. la centralidad dada al ethos del
Reino y a la radicación teológica del imperativo cristiano). Este
esfuerzo hermenéutico se prolonga en la voluntad de actualización
del ethos del N. T. en el cuadro de la problemática moral de nuestros
días” (p. 54).
En la segunda parte, cuatro veces más extensa que la primera, el
autor se centra en la ética paulina. No en vano el título de la obra
reproduce un texto básico de Pablo (Gál 5, 25) y el subtítulo alude
expresamente al “pensamiento ético de S. Pablo”.
A nadie se le escapa la importancia de la ética paulina. “Entre los
escritos del N. T. S. Pablo es sin duda quien nos ha dejado una exposición del mensaje cristiano más elaborada sea desde el punto de
vista doctrinal que desde el de su proyección pragmática. Sin que
ello signifique que el apóstol haya construido un sistema orgánico de
moral” (p. 132). Llevado de este criterio, el autor no traza un esquema formal sobre la ética paulina. Sin embargo, si se descuentan los
capítulos dedicados al carisma del apóstol (c. 10) y a la resurrección
de Cristo (c.17), los aspectos tratados en los restantes capítulos de la
segunda parte aluden a puntos esenciales de la ética paulina y pueden ser estructurados dentro de un esquema orgánico de la misma:
fundamentación, categorías éticas, aplicaciones concretas. Hago
unas breves alusiones a cada uno de los tres grupos.
La fundamentación de la ética paulina es expuesta mediante la
estructura dialéctica del binomio indicativo-imperativo (pp.131156). Desde el trabajo de tesis doctoral, el autor es un acreditado
conocedor y expositor tanto de las diversas interpretaciones dadas a
esta peculiaridad, lingüística y semántica, del pensamiento paulino
como de la función que ella posee para fundamentar la ética cristiana. Para Pablo la ética no es algo autónomo sino la consecuencia de
la transformación operada por la fe y significada mediante los ritos,
singularmente el Bautismo. El tema del indicativo-imperativo (capítulo 4) es completado y desarrollado en otros dos capítulos ulteriores: sobre el sentido ético de la justicia en Rom 6 (capítulo 8) y sobre
los modelos soteriológicos (capítulo 16). Quizás podría haberse pensado en una “refundición” de la temática de los tres capítulos y construir una fundamentación de la ética cristiana según Pablo. Desde
esa opción se podría haber aligerado el capítulo cuarto, no adelantando (pp. 143-151) la temática que será desarrollada más adelante
de forma amplia (razón, conciencia, ley de Cristo).
Acabo de aludir a las tres categorías éticas que configuran, según
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Pablo, el modo de realizar el discernimiento ético cristiano. A cada
una de ellas le dedica el autor un capítulo expreso. Es novedosa la
elección y es original el tratamiento de la categoría de “razón humana” en cuanto criterio de discernimiento ético en Pablo (“la ley de la
mente”: Rom 7, 23). Su estudio (c. 5) constituye una filigrana de análisis exegéticos combinada con referencias al mundo religioso-cultural hebreo y helenista, dando como resultado una presentación vigorosa y original del pensamiento paulino. La Teología moral sistemática no ha incorporado suficientemente esta categoría paulina,
habiéndose limitado al factor del “discernimiento” (dokimázein) (factor que el autor estudia en relación con la razón o noûs: pp. 175-180).
La categoría paulina de la “conciencia” ha sido asumida suficientemente por la reflexión teológico-moral sistemática, dado que existen
desde hace tiempo estudios exegéticos fácilmente asequibles. No por
ello deja de tener interés la síntesis que ofrece el autor en el c. 6. En
este estudio son de destacar las referencias al contexto cultural en
que se mueve el pensamiento de Pablo (pp. 190-195) y los análisis
precisos y minuciosos de los principales textos paulinos en referencia a situaciones éticas concretas; es original la relación de la syneídesis paulina con la especificidad de la ética cristiana (p. 217-219).
Como en relación al tema de la “razón” (pp. 182-184), también aquí
hay un excursus sobre el tema de la “conciencia” en los escritos
posteriores a Pablo (219-222). La tercera categoría ética paulina
estudiada es la de la “ennomía crística” (1 Cor 9, 21) o “ley de Cristo
(Gál 6, 2), un principio que expresa una doble dimensión del obrar
ético cristiano: la liberación de la ley exterior y la incorporación en
la forma de vida de Cristo. La exposición del tema se concreta en un
análisis minucioso y lúcido de los textos citados y del contexto en
que tales categorías aparecen. Del análisis el autor deduce una orientación original para el planteamiento de la ética cristiana: el “principio de flexibilidad ética” (pp. 349-351).
A partir de la fundamentación en el indicativo cristiano y
mediante el uso de las categorías mencionadas, el autor estudia una
serie de temas morales concretos. No podemos hacer otra cosa que
enumerarlos, animando a los moralistas sistemáticos a que acudan a
la lectura de estos estudios para tener una exacta información sobre
el pensamiento paulino en relación con: carisma y moral (c. 9), la
solidaridad cristiana (c. 11), la “casa” en cuanto ámbito de valores
éticos (c. 12), la ética de la familia (c. 13), indisolubilidad y divorcio
en el matrimonio (c. 14), la ética de la paz (c. 15).
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A la valía del contenido de la obra recensionada hay que sumar
otras cualidades formales a las que nos tiene acostumbrados el
autor. Es de destacar: la claridad en la exposición, la maestría en la
organización, el dominio tanto del análisis como de la síntesis; a este
respecto, son de alabar los encabezamientos de los temas así como
las valiosos resúmenes al final de casi todos los capítulos. Dada su
prolongada permanencia en Roma, no es de extrañar la presencia de
algunas expresiones un tanto “extranjeras” al léxico castellano, como
“Iluminismo” en lugar de Ilustración, “avalación” en lugar de aval,
“distanciación” en lugar de distanciamiento, “conglobante” en lugar
de englobante, “provocatorio” en lugar de provocativo.
La obra está incluida, como n. 12, en la colección de
“Quaestiones Morales” que edita la Academia Alfonsiana de Roma;
en este caso, la obra y la colección mutuamente se prestigian.
Confiamos que la Academia Alfonsiana pueda seguir ofreciéndonos
productos tan valiosos como hasta hora. Y del autor de la presente
obra esperamos nuevos estudios que se mantengan y, si dado fuere,
superen la alta cota alcanzada en este libro que aquí presentamos.
MARCIANO VIDAL C.SS.R.
Bruch, Richard, Person und Menschenwürde. Ethik im lehrgeschichtlichen Rückblick. Münster: LIT Verlag 1998, 120 p. (Studien der
Moraltheologie. Abteilung Beihefte, 3).
In moral theology, as in other branches of learning, the seemingly most self-evident terms often mask a range of problems and complexities. An excellent example of this phenomenon is the term
“human dignity” (Menschenwürde). It would be difficult to find a
contemporary study of social ethics which does not make appeal at
some point to this idea, while in official Catholic teaching it is often
the conceptual corner-stone upon which ethical argument is constructed. It is therefore understandable that the term has come to be
taken for granted and seems at first sight to be in no need of elucidation. Yet a host of questions arises when one tries to explain
human dignity more systematically and critically: what is the basis
of this dignity?, is it innate or acquired? can it be damaged or
destroyed? is it universal?, is it a specifically christian conviction?
what are the ethical corollaries of this belief and how do these corol-
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/ RECENSIONES
585
laries relate to other key ethical categories such as freedom, conscience, sin and virtue?
The primary contribution of this collection of essays by Richard
Bruch is to explore and analyze such conceptual intricacies. As the
subtitle of the work indicates, he does so by narrating the evolution
of the idea of human dignity in historical terms and explaining its
increasingly important role in theological and ethical reflection. The
historical dimension is primarily treated in the first two essays while
the others take up a number of correlative themes such as natural
law, the ideal of fraternity and the relationship between the natural
and the supernatural.
Consciously employing broad historical swoops, the first two
essays explore the background, origins and development of the idea
human dignity in the Bible, Stoicism, the Fathers, Scholasticism
(Bernard and Thomas) and the modern period (Kant, Sailer, Schenkl
and others). Bruch shows a marked ability to marshall historical
detail and create a readable, synthetic version of how such a key idea
develops. Given the amount of ground he covers within 50 pages, this
section inevitably takes on an almost lexical quality, but thanks to a
certain thematic unity never becomes tedious or superficial. The
value of such an overview is that it helps one to understand that the
way human dignity is understood depends very much on the broader
theological, philosophical and anthropological vision of each cultural context. Thus the Patristic preoccupation with the consequences
of human sinfulnes and the early 19th century “inflation” (54) of
dignity both need to be understood in terms of the current cultural
milieu. Within the physical limits of this work Bruch cannot attend
closely to these historical circumstances, but he does manage to sketch out the play of theoretical and ideological forces which shape the
understandng of each period.
It would be unfair to this work, however, to see it as a merely
historical narration of the evolution of ethical and theological concepts. As he tells the story of how human dignity comes to be so central to ethical thought, Bruch touches, almost en passant, upon many
questions of a more fundamental and systematic nature. This is particularly true in the remaining essays in which specific themes are
studied. These remain historical studies but include illuminating
comment on the implications of the various positions for ethical and
theological theory. In the essay on Natural Law in Thomas, for
instance, Bruch is determined to refute, by means of detailed textual
586
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argument, any misreading which would claim that Thomas ascribed
to the human being an autonomy to the point of making him\her the
maker of the law, rather than the one who discovers through reason
a law which is given by God. Bruch´s argument here is balanced, prudent and convincing in that he manages to recognize the legitimate
creativity of human reason without being swept away by the modern
enthusiasm for human autonomy. The study of the idea of fraternity
provides an interesting point of comparison with the idea of dignity,
not least because of the ethical implications that this idea has in different contexts, including that of Christian communities. Here again
one notes the value of Bruch´s method in that it brings out the
influences of such diverse historical circumstances as flourishing
monasticism, the Reformation, the French revolution and socialism
on a term such as fraternity. Without such historical awareness,
there is a danger of assuming that the term is univocal in meaning
and the product of a single culture. While thematically the last essay
on the relationship between the natural and supernatural is
something of an appendix, it is both in itself informative and stimulating, and has at least a tangential relevance to the central theme of
human dignity in an ethical and theological perspective.
From the point of view of moral theology the main interest of
this work lies in the way in which it manages to elucidate the idea of
human dignity (the idea of person is not explicitly treated in any
detail) through a conscise presentation of historical sources, some of
which are not well known. The overall effect is to understand better
the way in which the idea of human dignity is tied into other ethical
ideas. The book ends rather abruptly with the essay on the natural
and the supernatural. A general conclusion which attempted to
incorporate the main results of the historical studies for moral theology would have been appreciated. Indeed, these essays are so stimulating and the argument so topical that the theme merits a more
monographical study - Bruch´s historical knowledge and theological
competence undoubtedly equip him admiraby for such an undertaking.
MARTIN MCKEEVER C.Ss.R.
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/ RECENSIONES
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Carlotti, Paolo, Etica cristiana, società ed economia. Roma: LAS
2000, 169 p. (Biblioteca di Scienze Religiose, 158).
Those not professionally engaged in the sector of theology
usually referred to as “the social doctrine of the Church” sometimes
cast a jealous eye in the direction of those who are. The reason lies
in the abundance of Magisterial documentation in this sector, some
of a notable quality. The presumption is that it must be “easy” to
teach in this sector: rich sources, solid teaching and little public
controversy compared to other theological areas. CARLOTTI’S recent
book is a reminder that the impression is deceptive. In the book one
finds various nomenclatures for this theological sector: besides “the
social doctrine of the Church”, he refers to “Christian ethics of the
economic life”, “social ethics” and “catholic social teaching”. In a
recent survey on the teaching of the social doctrine of the Church in
Europe one finds the rather astounding figure of 46 different titles
given in various Universities to courses in this general area (Atti del
Convegno su L’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa in
Europa, Città del Vaticano, 1997. Milano: Università Cattolica del
Sacro Cuore, pubblicazione gratuita, 1998, at 37). CARLOTTI’S work is
best interpreted against this background.
The book has three sections: Christian ethics and society in two
chapters, Christian ethics and the economy in two chapters, and
some specific themes, again in two chapters. The material is not new,
being a re-working of previously published essays. Despite the
disparate origin of the chapters the book coheres well, mainly due to
a consistency of methodology. CARLOTTI outlines this at 10: starting
from empirical facts, he tries to draw out the moral significance of
these facts before giving a theological evaluation. This method is
most clear in Chapter One when he analyses the sociological theory
of Peter Berger (15-38) and in Chapter Four in his analysis of the
world of finance (95-119). CARLOTTI, by following a consistent
methodology, takes seriously the challenge first articulated by the
Magisterium in Solicitudo rei socialis, 41 and repeated in Centesimus
annus, 55 and Evangelium vitae, 10: catholic social doctrine belongs
to the science of theology, and particularly that of moral theology.
This, indeed, is the theme specifically treated in Chapter 5 (127-139).
But what does such a formal affirmation mean and why was it
necessary to re-iterate a rather obvious fact? The answers lie in the
developments since 1891. The manualists persisted with a tract on
588
REVIEWS
/ RECENSIONES
De iustitia et iure while the Magisterium, with varying success,
addressed concrete historical social questions: the method of the
manualists continued along an abstracted casuistic track, while the
Magisterial method became increasingly practico-historical. The
result, in rather crude terms, was a Magisterial body of teaching that
had no clear theological locus and a manualist corpus of norms that
had little relevance to the res novae.
CARLOTTI does not claim to have solved this problem as it remains
“un compito da svolgere” (139). His effort is nonetheless noteworthy,
not so much for its originality, but for a consistent effort to set the
parameters of a solution. Clearly, everything depends on what one
means by ‘theology’ or ‘moral theology’ if one is going to say that
catholic social doctrine belongs to these disciplines. Returning to the
methodology employed (noted in paragraph two above) I would
highlight the following points as the central ones in CARLOTTI’S effort
to establish catholic social doctrine as part of (moral) theology. The
most obvious factor is his insistence on the anthropological question
as the fundamental one (confer 65, 83, 93, 145). I understand
CARLOTTI to mean this in a precise way. Given that his methodology
starts with empirical facts, he consistently points out how some of
these undeniable facts (pluralism, a post-industrial society, the
ecumenical imperative) force the contemporary human person to
reassess what it means to be a responsible agent in a ‘new’ type of
society. From this empirically-based anthropology follows a second
point, linked to the second point of his general methodology (see,
again, paragraph two above). The cognitive implications of a
contemporary anthropology demand a fresh epistemological way of
defining morality: historically conscious (40), committed to social
tolerance (57), respectful of the autonomy of sciences like economics
while retaining a skepticism about their method of arguing through
instrumental reason (94 and following) and, in the most general of
terms, favouring an ethics of responsibility (46). The theological
interpretation of these anthropological and epistemological data is a
restatement of the systematic and christological points familiar to us
from the Encyclicals of Pope John Paul II.
This book marks an advance in the theological discussion of the
relationship between christian ethics, society and economy. Too
many books of this genre are little more than popularised versions of
what is already known from Papal Encyclicals. It is to the merit of
CARLOTTI that he identifies the problem as one of theological method
REVIEWS
/ RECENSIONES
589
rather than the more limited one of interpreting magisterial
documents in isolation. His range of reading is impressive (ABBÀ,
FUCHS, J. AND E., HABERMAS, LÉVINAS, MACINTYRE, MARITAIN, RAWLS,
RICOEUR, TAYLOR, SEN AMARTYA, TOSO, WEBER etc.) and well integrated
into the text. The question remains, however: is the method
employed in this book the one that will solve the question of the
theological status of catholic social doctrine? I am not so convinced.
Re-reading a classic like H. DE LUBAC’S Catholicism – A Study of
Dogma in Relation to the Corporate Destiny of Mankind (English
Edition, 1950) makes me cautious about the apparently empirical
starting point of CARLOTTI’S methodology. I would prefer the following
steps in establishing the theological nature of catholic social
doctrine: (a) the historical nature of Christianity, (b) the worldly
dimension of the Church, (c) the autonomy of the human sciences
and (d) the call to responsible discipleship in society as the task of
the Christian. That is certainly not DE LUBAC’S scheme, nor is it meant
to be a programme for immediate study. It is a generic idea and it is
due to the work of CARLOTTI, innovative without being a breakthrough book, that one can begin to imagine such future steps.
RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.
Colom, E., Rodríguez Luño, Angel, Scelti in Cristo per essere santi.
Elementi di Teologia Morale Fondamentale. Roma: Apollinare
Studi 1999, 396 p. (Sussidi di Teologia).
Le noyau dur du présent ouvrage est de démontrer comment la
régénération ontologique de l’homme dans le Christ (1e partie) se
manifeste moralement comme un passage des vices aux vertus chrétiennes. Tandis que le fondement de cette régénération (perçue, dans
la ligne de l’ouvrage, comme “possession initiale des vertus théologales et des vertus morales infuses”) reste, à mon sens, sous-développé (j’y reviendrai), “le passage des vices aux vertus” est étudié à
fond.
D’allégeance thomiste explicitement déclarée (p. 317), les
auteurs passent au fil d’une analyse précise comme une opération de
chirurgien tout ce qui a trait à l’agir moral vertueux ouvert sur la béatitude constitutif de la réponse à l’appel de Dieu à la sainteté inscrit
dans l’identification au Christ. Ils s’arrêtent d’abord aux conditions
590
REVIEWS
/ RECENSIONES
de possibilité de cette réponse, les “principes (d’action) naturels et
surnaturels” qui recouvrent pratiquement l’anthropologie morale
comprenant tour à tour la nature, la structure et l’évaluation de l’action morale, les passions et les sentiments, les vertus morales et les
dons de l’Esprit-Saint, la liberté chrétienne et la grâce (2e partie). Ils
parlent ensuite des “points de référence normatifs” qui balisent cette
réponse comme la loi (conçue dans le contexte de la doctrine des vertus), la conscience morale, la conversion inversion du péché (3e partie).
On doit savoir gré aux auteurs d’avoir passé en revue des
données classiques de la morale fondamentale en les purifiant de
toutes les excroissances au nom de l’essentiel et en les mettant à jour,
compte tenu des récentes interventions du Magistère, du progrès de
la réflexion théologique et des sensibilités nouvelles de notre temps.
Il résulte de tout cela que les étudiants pour qui ce livre-manuel a été
d’abord écrit pourront en tirer profit. Mais jusqu’à un certain point.
En effet, ni les interventions du Magistère, ni les progrès de la
théologie, ni les sensibilités du monde présent n’ont été compris à
fond et organiquement intégrés. Je me réfère ici particulièrement à
la conception que les auteurs se font de la personne du Christ et du
rôle qu’ils lui attribuent dans la définition de l’homme sujet de l’agir
moral. En dernière analyse, ce n’est pas d’abord la personne de Jésus
en son mystère pascal qui détermine leurs réflexions sur l’identité de
l’homme (cf. GS 22, 1), mais la philosophie grecque christianisée par
la suite par l’ajout de données évangéliques. J’illustre ma pensée avec
un exemple choisi parmi bien d’autres. La tension vers la fin ultime
donnant sur le bonheur ne relève pas pour le théologien chrétien du
constat de l’existence d’une telle tension dans les facultés humaines,
mais du fait que l’homme est créé par le Christ Oméga qui l’attire
vers lui comme à sa perfection. Si la tension issue de cette attraction
christique ne s’oppose pas aux observations du philosophe (le surnaturel ne nie pas la nature), elle les dépasse en dévoilant le pourquoi
définitif de cette tension et en la revêtant d’une consistance nouvelle
qui a son impact sur la théologie morale. À partir d’elle en effet, comment concevoir les traits essentiels de la morale chrétienne comme
une performance de l’homme ordonnée à son accomplissement béatifiant? En régime chrétien, la réalisation ou la gloire de l’homme,
c’est de disparaître devant Dieu, entendons de faire briller dans le
monde la gloire du Père qui resplendit sur la face du Fils mort et ressuscité (cf. 2 Co 3, 18; 4, 4; Mt 5, 14-16; Ph 2, 15; etc). C’est grâce à
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/ RECENSIONES
591
cette priorité donnée à Dieu que l’homme se trouve et qu’il devient
capable d’attirer l’attention de l’homme post-moderne (→ la “nouvelle évangélisation”) fatigué de ses performances qui génèrent l’ennui
et le scepticisme. Qu’on n’aille pas me rabâcher que de telles
réflexions et d’autres semblables dont témoignent des milliers de
pages écrites récemment par des moralistes de pointe n’appartiennent pas à la théologie morale. On pourrait penser que c’est l’avis des
auteurs de cet ouvrage puisque l’essentiel de la contribution de ces
théologiens brille par son absence (pour un contrôle rapide, voir la
liste des auteurs cités). Si c’était vraiment le cas, il faudrait le déplorer.
A la fin de l’introduction de leur ouvrage, les auteurs écrivent:
“Ci auguriamo che la nostra fatica possa essere di qualche utilità per
i lettori, e che i suggerimenti e le giuste critiche dei colleghi ci consentano di migliorare ulteriormente il servizio che con questo libro
abbiamo inteso offrire” (p. 8). C’est dans l’esprit souhaité par ces
auteurs qu’est formulée ma critique. Espérons qu’elle sera comprise
comme telle et qu’elle contribuera à conférer à cet ouvrage éventuellement refondu un visage plus profondément christique et, par là,
plus interpellant pour l’homme d’aujourd’hui plus que jamais
assoiffé de “Vérité”.
RÉAL TREMBLAY C.SS.R.
Doglio, Claudio (a cura di), Cristo Omega e Alfa. Genova: Marietti
S.p.A. 1999, 492 p. (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Sezione di Genova).
Con ocasión del Jubileo del 2000 un grupo de Profesores de la
Facultad Teológica de Italia Septentrional (sección de Génova) ha
abordado diversos aspectos de la persona de Cristo, que le configuran como principio (alfa) y como fin, sentido y meta (omega) para el
hombre de nuestro tiempo. La acentuación de este segundo aspecto
es lo que ha movido al editor a invertir los términos de la expresión
apocalíptica, dando al libro el título de Cristo omega y alfa.
Aunque la obra no ofrezca una estructuración formal de carácter general, los artículos se van sucediendo siguiendo un hilo bastante lógico. Se parte, del Antiguo Testamento, con un estudio de
Roberto Fornara sobre el concepto de lo “nuevo” (17-66), y otro de
592
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/ RECENSIONES
Sandro P. Carbone sobre la proyección escatológico-mesiánica del
libro de Job (67-91). En el marco del N.T., Claudio Doglio aborda el
estudio de la Apocalipsis de S. Juan, que el autor entiende más que
como descripción del tiempo final, como profecía cristiana sobre el
sentido de la vida (91-140). Sigue un estudio de Ruggero Dalla Mutta
sobre la presencia de la fórmula “Cristo alfa y omega” en el uso litúrgico (142-152). Giuseppe Cavalli, por su parte, estudia la importante
aportación de la Patrística a la reflexión teológico-pastoral sobre la
centralidad de Cristo en la vida del cristiano (153-194). Toman a continuación la palabra los representantes de la reflexión teológica.
Francesco Moraglia estudia la figura de Cristo como centro y clave
hermenéutica de la historia (195-230). Giuseppe Torre, siguiendo las
huellas de la evolución de la fe y de la reflexión teológica de las primeras comunidades cristianas, pone de relieve la línea ascendente de
la cristología: de la experiencia del Cristo resucitado, mediador único
de los hombres, se habría llegado a la contemplación de Cristo como
centro de la creación. Cristo es la meta porque ha sido el principio
(231-276). El estudio de Giuseppe Noberasco (277-324), de corte filosófico, toma como punto de referencia la escatología del novecientos. Es una excelente aportación al esclarecimiento de la dimensión
histórica de la revelación de la verdad de Dios en Cristo.
Siguen otros cuatro artículos que estudian la centralidad de
Cristo en diversos ámbitos concretos: en la eclesiología (Gianfranco
Calabrese, p. 325-390), en la moral (Angelo Bellon, 391-430), en el
estudio de la sexualidad (Marco Doldi, (p. 431-470), y en la ciencia
canónica (Guido Marini, p. 471-490).
En el momento de valorar la obra desde un punto de vista científico, nos encontramos con la lógica dificultad que nace de la pluralidad de autores y de temas tratados. Queremos resaltar el interés que
en la línea del argumento general del libro representan algunos estudios, como el de G. Torre, en el que se pone de relieve la interrelación
entre soteriología y protología. Nos parece muy acertada la distinción entre el nivel “genético-gnoseológico” y el orden “históricoontológico”.(231ss.), que permite estructurar una cristología “ascendente” sin renunciar a un discurso intratrinitario. Para el autor,
ambos niveles se reclaman y se complementan. A nivel de “discurso”
juzgamos bíblicamente fundada tal complementariedad. Queda, sin
embargo, sin tratar en forma adecuada en qué grado el nivel del
discurso (especialmente el bíblico) permite identificar una precisa
ontología. Creemos, por ejemplo, que las expresiones cristológicas
REVIEWS
/ RECENSIONES
593
paulinas dejen un espacio muy amplio para la discusión en este
campo. De ahí la necesaria cautela ante ciertas expresiones que no
tienen suficientemente en cuenta esta distinción de niveles, como
cuando el autor considera la elevación de Cristo en la resurrección
como simple “retorno” a su posición ontológico-protológica: “Il centro del nostro discorso è che il Crocifisso Risorto nel pervenire alla
sua altissima elevazione postpasquale, in realtà è ritornato alla gloria
che aveva da sempre presso il Padre” (p. 246). Tal idea de “retorno”
creemos cuadre poco con el texto clásico paulino de Rom 1-4.
Otra colaboración que nos ha parecido excelente es la de G.
Noberasco (Gesù Cristo e la verità dell’uomo). El autor sitúa el centro
del problema de la escatología en la correcta combinación de historicidad y definitividad (323). Antes de exponer su interpretación del
problema, hace un análisis detenido de las dos propuestas teológicas
que han despertado mayor interés en los últimos tiempos: la teología
de la esperanza de J. Moltmann (con su correspondiente crítica de la
explicación barthiana) y la escatología de E. Jüngel. En la explicación moltmaniana, el autor pone de relieve la incapacidad de la
misma para valorar la historia en cuanto tal y, por tanto, el carácter
verdaderamente revelador del presente, por cuanto éste, según
Moltmann, adquiere su valor salvífico solamente del futuro, con el
cual la historia presente estaría en una necesaria tensión dialéctica.
De aquí se deduciría la dimensión esencialmente ética de la escatología: el “eschaton” indicaría al hombre el sentido que debe imponer
a su transformación de la historia (292). Tal explicación, en opinión
de G. Noberasco, pondría de relieve la dimensión negativa de la
historia (a través de la categoría de incompletez: mancanza) sin
lograr explicar el empeño de verdad que todo instante de la historia
comporta (294). De la explicación de Jüngel, Noberasco acepta la
validez de su crítica tanto a la teología de Barth como a la de
Moltmann, autores que según Jüngel terminarían por caer en las
mismas reducciones. Así, no obstante, el contraste aparente, ambos
coincidirían en privilegiar la “realidad” sobre la “posibilidad” (en el
caso de Moltmann, el aun-no sería de hecho un aun-no de realidad
(298), que, en definitiva, llegará a ser tal por la acción del hombre
desde la historia (299). Esta última circunstancia pone en entredicho
la dimensión teológica de la esperanza. Para evitar cualquiere tipo de
reducción practicista de la escatología, Jüngel retoma la doctrina de
la creación: es Dios mismo quien desde el principio salva a la creación de la “nada” y la llena de “posibilidad” (300). Dios es plenitud de
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la historia no sólo en cuanto anuncio de algo meramente futuro, sino
en cuanto permite al hombre asumir integralmente el proyecto de su
vida, preservándola, ya desde “ahora” de la amenza de la nada (302).
Esta sería, según Jüngel, la auténtica interpretación de la presencia
ya operativa del Reino, cuya dinámica escatológica habría encontrado la expresión máxima en la resurrección de Jesús (superación real
y presente de la angustia de la muerte). Al presentar el evento escatológico como algo que se ha realizado verdaderamente en la historia, Jüngel proclama, frente a Moltman y frente al dualismo de la
metafísica, la positividad y la unidad de la historia. La tesis de
Noberasco retoma algunos elementos de la propuesta de Jüngel,
como el de la positividad de la historia entendida como “posibilidad”, pero trata de corregir el aspecto de “pasividad” y de “exterioridad” con que el sujeto histórico quedaría frente a la gratuidad de la
oferta divina. La pasividad y la pertinente interrupción de la historia,
introducidas por la irrupción del evento escatológico, más que proclamar la irrelevancia del proyecto humano, pondrían de manifiesto
su verdad definitiva y su trascendente unidad (320).
Los restantes estudios ofrecen también numerosos puntos de
interés. En algunos casos, sin embargo, hubiera sido de desear un
tratamiento más nuclear del argumento, como en el caso de “la belleza moral de Cristo como principio inspirador de la moral cristiana”
(391ss.). Creo que S. Pablo, por ejemplo, ofrezca elementos mucho
más importantes sobre el tema. Algo semejante pudiéramos decir de
la presentación de la Iglesia bajo el lema ”tra il seme e l’albero”
(325ss.). En otros casos, hubiéramos deseado un más amplio recurso a la bibliografía científica existente, como en el caso del estudio
de lo “nuevo” en el A.T. (17-66) o de la “actividad legislativa de Jesús”
(471-490).
Tornando a la reflexión inicial, no es fácil una valoración unitaria de una obra compleja, como la presente, como tampoco es fácil
al editor, en el momento de emprender su edición, poder contar con
aportaciones del mismo calado científico. En todo caso, creemos que
la publicación de la obra ha sido un proyecto meritorio, ya que en él
se han podido dar cita estudios que, desde diversas angulaciones,
ayudan al hombre de hoy a comprender la centralidad de la figura de
Cristo
LORENZO ALVAREZ VERDES
REVIEWS
/ RECENSIONES
595
Durrwell, François-Xavier, Aux sources de l’apostolat. L’apôtre et
l’eucharistie. Paris/Montréal: Médiapaul 1999, 102 p. (Thabor).
Dans le présent opuscule, l’auteur nous propose une réflexion
approfondie sur les rapports de l’apostolat à l’eucharistie qui vient
combler un vide laissé dans son ouvrage Le mystère pascal source de
l’apostolat (1970). Qui connaît bien la pensée durrwellienne y trouvera peu de nouveautés. L’auteur y reprend à toute fin pratique quelques thèses majeures formulées et développées surtout en ses derniers grands ouvrages pour expliciter et illustrer des intuitions sur le
binôme en cause déjà présentes, pour la plupart, en son livre désormais classique: L’Eucharistie, sacrement pascal.
Ce constat n’entend pas mettre en cause la densité théologique et
spirituelle de ce petit livre. Car qui le lira avec attention y trouvera à
coup sûr une nourriture abondante et stimulante pour l’intelligence
et le cœur. De ce point de vue, le P. Durrwell a eu raison de nous offrir
ce fruit mûr de sa mission de théologien de la résurrection, fruit particulièrement de saison en cette année jubilaire consacrée à la contemplation de la présence du Kyrios par le truchement de cette sublime “invention” de son amour pro nobis qu’est l’Eucharistie.
RÉAL TREMBLAY C.SS.R.
Dwyer, Judith A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints in the
Catholic Tradition. Washington, D. C.: Georgetown University
Press 2000, xiv + 210 p.
This book is a collection of ten essays that seek to “…demonstrate both the richness and the vitality of the Catholic theological
tradition.” (p. vii). Six of its authors are professors of Villanova
University who have contributed to the renewed emphasis on ethics
in that university’s undergraduate curriculum. The other four are
Catholic theologians from other universities who offer promising
perspectives on the way that future ethical reflection within the
Catholic tradition should go. As the editor states in her general
Introduction, “[t]he text… deliberately attempts to present not only
foundational issues but also the practical implications of analyzing
contemporary issues from the vision and values embraced by the
Catholic community” (p. vii). The essays are well-written and well-
596
REVIEWS
/ RECENSIONES
researched. Taken together, they succeed in demonstrating the
variety of ethical viewpoints that need to be taken into account in
any in-depth discussion of the Catholic tradition.
The contributions also cover a wide range of topics. In chapter one
(“Scriptural Sources,” pp. 1-25), Paul Danove examines the strengths
and weaknesses of the fundamentalist and historical critical
approaches to Biblical interpretation. In chapter two (“Christian
Anthropology and Ethics,” pp. 27-51), Michael J. Scanlon examines the
ethical implications of the various understandings of human existence
in the Christian tradition and discusses their relevance for the
postmodern era. In chapter three (“Turn to the Heavens and the Earth:
Retrieval of the Cosmos in Theology,” pp. 53-69), Elizabeth A. Johnson
discusses the need for a “cosmological turn” in North American
theology and its need for the intellectual and moral integrity of
theology. In chapter four (“Reverence for Human Life,” pp. 71-98),
James J. McCartney examines the key principles that have guided the
Catholic tradition in its reverence for human life in all of its
dimensions: the biological, psychosocial, ethical, and spiritual. In
chapter five (“The Prophetic Role of Feminist Bioethics,” pp. 100-12),
Marie J. Giblin criticizes current approaches to bioethics, outlines six
characteristics of a feminist approach, and proposes two tasks for
future developments in the field. In chapter six (“Sexuality and
Intimacy,” pp. 113-28), William Werpehowski points out the strengths
and weaknesses of both the “traditional” and the “revisionist”
understandings of marital love, sexuality, and reproduction. In chapter
seven (“Responsibilities Within the Family,” pp. 129-47), SarahVaughan Brakman discusses the role of the family in the Christian
tradition with special emphasis on the responsibilities and obligations
that adult children have toward their parents. In chapter eight (“The
Evolving Teaching on Peace Within Roman Catholic Hierarchical
Thought,” pp. 149-61), Judith A. Dwyer examines the development of
Roman Catholic magisterial thought on the concept of peace in the
modern world. In chapter nine (“The Dignity of Work and Economic
Concerns,” pp. 163-78), Sally J. Scholz articulates a Christian ethical
stance on the nature, rights, and obligations that pertain to the issue of
work. In chapter ten (“Is Tolerance Enough? The Catholic University
and the Common Good,” pp. 179-95), David J. Hollenbach argues that
the Catholic university must not “tolerate” the cultural pluralism of the
postmodern era, but engage it with an intellectual and social solidarity
rooted in a concern for justice and the common good.
REVIEWS
/ RECENSIONES
597
Taken together, the essays are engaging and live up to a high
scholarly standard. The editor has done an excellent job in bringing
together Catholic scholars from a variety of disciplines who have
reflected seriously on the ethical implications of their work and their
relevance for the Catholic moral theological and philosophical tradition. The book’s greatest strengths are its capacity to emphasize the
great amount of diversity within the Catholic moral tradition and its
implicit plea that such diversity can be critically engaged to provide
creative solutions to the problems facing us today. Its greatest weakness lies in the lack of a unifying thematic thread that would tie one
article to another and allow for summary findings at the end.
Although some may say that such a weakness is endemic to scholarly
collections of this sort, this reviewer holds that the volume would
have been greatly improved if the editor had found someone to provide a strong concluding essay that critically discussed the findings
of the previous authors. In doing, so the volume might have succeeded not only in uncovering a variety of ethical viewpoints within the
Catholic tradition, but also in examining how they interacted with
one another on a wide range of issues. This criticism aside, the book
is a valuable contribution to the study of the Catholic moral tradition. It is rare to find so many essays of high philosophical and theological quality in a single volume.
DENNIS J. BILLY, C.SS.R.
Fabri Dos Anjos, Márcio, (organizador), Teologia aberta ao futur.
Sâo Paulo (Brasil): Publicaçôes Soter-Loyola 1997, 261 p.
La obra Teologia aberta ao futur, cuya introducción hace Márcio
Fabri Dos Anjos, reune la participación de 15 colaboraciones de
autores diversos que en su momento fueron relaciones presentadas
en el congreso organizado por SOTER (Sociedade de Teologia e
Ciências da Religião) en torno al tema “Teología e Novos
Paradigmas” (8-12 Julio, 1996).
A los autores de las distintas colaboraciones les fueron planteadas tres cuestiones: 1. Ia emergencia de nuevos paradigmas en las
ciencias, 2. Ia emergencia de nuevos paradigmas en teología y 3. Ia
práctica de la teología con unos nuevos paradigmas. Estas colaboraciones, en general son breves, 10 a 20 pp. y alguna cubre más de 30.
598
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/ RECENSIONES
Tres de los primeros temas, que se centran sobre ‘paradigma y
epistemología’ (pp. 21-97), fueron expuestos por M. Araújo de
Oliveira, H. Assmann y E. R. Cruz, respectivamente. Otros dos estudios asumen, por caminos distintos, el tema de la relación entre la
convicción profunda de la fe y la experiencia religiosa de nuestra
vida, a cargo de M. C. Bingemer y L. C. Susin
“Os desafíos dos novos paradigmas para a prática teológica”, tema
desarrollado por Antonio J. de Almeida, propone dos aspectos: la
exigencia de la teología de acompañar a la iglesia en la misión de
construir la justicia y la paz y el desafío del quehacer teológico que hace
frente a una diversidad de cuestiones y modalidades de la teología.
La línea de reflexión llevada adelante por la mujer es hoy manifestación patente del intento de buscar nuevos paradigmas. En esta
dirección Teologia aberta ao futur recoge dos colaboraciones: una de
Luisa Tomita sobre “a teologia feminista no contexto de novos paradigmas” y otra de Margarida Brandâo sobre “Género e experiência
das mulheres”.
Benedito Ferraro en “Teologia en tempos de crise” se pone
delante una serie de interrogantes que plantea la crisis a la práctica teológica y al quehacer teológico. José Comblin en “Notas sobre
as tarefas de una teologia da libertaçâo no final do século XX” se
pregunta por los paradigmas de una teología de la liberación. Hugo
Assmann con “Um ponto cego do pensamento cristâo?” recoge las
críticas de los ecologistas y el impacto que éstas hacen en el campo
eclesial y teológico. Los dos últimos ensayos, de Antonio Moser y de
Alfonso García Rubio, respectivamente, nos proponen una visión
de conjunto sobre la incidencia de los nuevos paradigmas en el
quehacer teológico.
En el fondo de todas las contribuciones está latente, sea implícita o explícitamente, el tema de los nuevos paradigmas, pues la teología que está en crisis busca otro u otros paradigmas para expresarse en esta nueva época, porque el paradigma tradicional de que se
sirvió no tiene validez hoy. De ahí que Carlos Palacio haga referencia
a “o fim de una era teologica” (p. 89) que no es otra que “essa longa
convivência da teologia com a razâo ocidental”.
Pero esto no significa que la alternativa sea el abandono de la
razón, sino que también la teología debe hacer su propia autocrítica;
dicho de otro modo: la razón teológica debe demostrar qué es la
razón y qué es la teología, o sea, que es un saber sensato, y por tanto
que es racional; ni puro sentimiento ni mera experiencia ciega.
REVIEWS
/ RECENSIONES
599
Un elemento que está contribuyendo al cambio de paradigma es
la participación de la mujer en el campo teológico; de aquí se deduce que una nueva teología no se hará sin el diálogo fecundo entre
hombres y mujeres (p. 164). La teología deberá liberarse de los paradigmas tradicionales. A ello apuntan las varias colaboraciones que
señalan cómo el diálogo con las ciencias humanas constituya un verdadero desafío para la teología si ésta quiere ser considerada como
ciencia, si quiere tener un puesto significativo entre las ciencias y si
quiere dar a éstas una contribución válida para el momento presente y para el futuro.
Se trata entonces de buscar el paradigma válido para hacer teología hoy, para que así pueda cumplir mejor su tarea. El término
‘paradigma’ sustituye hoy el de método, patrón, tendencia, orientación o modelo. Los diversos colaboradores de Teologia aberta ao futur
apuntan en la dirección de subrayar la necesidad de un nuevo esquema en el campo de la teología, simple u ontológico, histórico o complejo, unos y otros comportan sus respectivos límites. Moser alude a
un paradigma ‘holístico’ que, como lo indica el vocablo, pretende
sugerir una cosmovisión que abraza diversas realidades (p. 217) y
que tiene la ventaja de ser flexible y abierto, y de integrar los paradigmas anteriores.
“O paradigma da teologia da libertação” es el que aparece aplicado con preferencia particular por dos razones: los teólogos expositores son brasileños y la teología de la liberación tuvo allí su origen
(p. 224). Las notas de pié de página revelan que en su gran mayoría
la literatura de base es brasileña. De todas las contribuciones, las que
más directamente tocan el tema del paradigma en teología, son las
de Antonio Moser y Carlos Palacio.
Teologia aberta ao futur se cierra con la reflexión de Alfonso
García Rubio, “Prática da teologia em novos paradigmas”, la más
extensa de todas (pp. 223-261) que integra el aporte de las demás en
una cosmovisión única. En la medida en que la teología trabaje con
un paradigma englobante necesitará cada vez más la ayuda de las
ciencias con las que el teólogo no estaba familiarizado.
Teologia aberta ao futur no es fácil de comprender a una primera
lectura a causa de las categorías técnicas que emplea. Es a partir de
la última colaboración - “Práctica da teologia em novos paradigmas”
- como se puede entender mejor. Su lectura puede recomendarse a
personas de un nivel académico suficiente que capacite para estar a
la altura de un lenguaje interdisciplinar. De otra parte, esta obra toca
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un tema que está hoy en el centro de la reflexión teológica por lo que
se refiere a la categoría de ‘paradigma’, que la literatura teológica
actual está interesada en exponer, profundizar y aprovechar.
J. SILVIO BOTERO GIRALDO, CSSR.
Frattallone, Raimondo, L’educazione sessuale. Interrogativi e risposte alle domande di senso sull’amore. Messina: Istituto Teologico
S. Tommaso 1999, 254 p. (Cultura e vita 3).
Tra i tanti libri riguardanti l’educazione sessuale, questo nuovo
testo si ritaglia uno spazio preciso e significativo. Incrociando gli
interrogativi, anche più duri, che salgono dalla realtà quotidiana, con
la proposta chiara e articolata dei significati e dei valori, che sono in
gioco, riesce a delineare una proposta pedagogica globale. In essa i
dati delle scienze umane sono messi costantemente in rapporto con
le prospettive della fede cristiana, in una visione dinamica e costruttiva, che insiste sulla «pienezza di significato». L’ampia bibliografia,
riportata al termine e arricchita con alcune note orientative nei
riguardi dei testi ritenuti più importanti, dà ulteriore valore a un
testo che è già prezioso per il procedere chiaro.
Mirando a tracciare un approccio organico, il libro si sofferma
innanzitutto su «la natura, gli obiettivi e le modalità principali dell’educazione morale» (parte I). La prospettiva è quella personalistica
che si propone di «formare l’educando alla piena espansione della
sua libertà e alla capacità di instaurare relazioni interpersonali che
maturino la condivisione di valori autenticamente umani» e opta per
il metodo del «dialogo educativo e progressivo» (p. 73).
Alla luce dell’unità del processo formativo, si approfondiscono
poi le dimensioni specifiche di quella sessuale (parte II): a livello sia
di contenuti (valori, atteggiamenti etici, comportamenti, norme) sia
di modalità (silenzio, ingiunzione normativa, istruzione).
L’insistenza è sulla necessità di un progetto educativo organico che
sappia comporre «istruzione intellettuale graduale», «allenamento
della volontà» e «verifica dei risultati ottenuti» (p. 103).
Questa visione globale viene ulteriormente specificata alla luce
delle sfide della cultura odierna (parte III). Accanto ai fattori di crisi
(rivoluzione sessuale degli anni Sessanta-Settanta, desacralizzazio-
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ne, perdita di senso), si pone in risalto lo sforzo per una ricomprensione personalista, a livello sia educativo che teologico.
Si arriva così al cuore della proposta educativa del libro (parte
IV: «Le tappe ideali dell’educazione sessuale»). Vengono sottolineate
tre tappe fondamentali: quella della «identità sessuale individuale»,
quella della «identità sessuale espressa nel rapporto interpersonale
io-tu» e quella «in cui l’identità sessuale si proietta verso il noi». Per
ognuna di queste tappe si approfondiscono gli interventi educativi
per quanto concerne sia le forme normali di espressione dell’identità
sessuale, sia le manifestazioni non normali della stessa. Senza mai
perdere di vista le prospettive fondamentali e ispirative, il discorso
acquista, in questa parte, quella ulteriore concretezza che è indispensabile a chi vuole effettivamente aiutare gli educatori.
L’ultima parte del libro è dedicata agli agenti dell’educazione
sessuale, sottolineando il ruolo della famiglia, della scuola e della
comunità ecclesiale, ma ricordando al tempo stesso l’importanza dei
«pari» e il compito della società civile.
Si tratta di un testo che riesce a tracciare un quadro corretto e
informato delle diverse problematiche. Soprattutto però è un testo
che invita a riflettere con chiarezza metodologica. La capacità dell’autore di portare il discorso a livello pratico, senza mai perdere la
preoccupazione per la corretta impostazione fondamentale, ne fa un
valido strumento a livello non solo di studio organico, ma anche di
impegno formativo concreto.
S. MAJORANO C.SS.R.
Gerardi, Renzo, Alla sequela di Gesù. Etica della beatitudini, doni
dello Spirito, virtù. Bologna: Centro editoriale dehoniano 1998,
161 p.
La vita morale dell’uomo, come quella spirituale, è “camminare
nella legge del Signore”. Allora “beato l’uomo di integra condotta”,
che “si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno
e notte” e “trova grande gioia nei suoi comandamenti”. Ma le “beatitudini” della Prima Alleanza – secondo R.Gerardi – “non si preoccupano tanto di descrivere la felicità cui si richiamano” perché “la loro
attenzione è attratta piuttosto dalle vie che conducono a questa felicità”. Gerardi sollevando la sua riflessione sulla vita morale e spiri-
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tuale del cristiano, uomo della Nuova Alleanza, (da qui il titolo Alla
sequela di Gesù), ha voluto “collegare insieme beatitudini, virtù, doni
dello Spirto Santo, grazia di Dio nella nuova legge” (da qui il sottotitolo Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù) come gioiosa
risposta alla chiamata di Gesù, modello e maestro (Introduzione).
Nel capitolo I R.Gerardi elabora e presenta una base metodologico-dottrinale della sequela di Gesù in chiave di “via-camminare”.
Gesù Cristo non soltanto illumina e completa la Prima Alleanza
espressa nel decalogo, ma soprattutto rivela la piena dignità umana
e la perfezione alla quale l’uomo è chiamato. Nel suo donarsi fino
alla croce, Gesù insegna la via del dono totale di sé, come l’unica via
per comprendersi e realizzarsi. Seguire Gesù Cristo non consiste solo
nel riconoscerlo come modello da imitare, oppure come maestro del
quale si ammirano gli insegnamenti morali, ma nel sapere che egli ci
chiede di condividere la sua vita, fino alla identificazione con lui. Il
cristiano, attraverso il battesimo, è configurato a Cristo nel Mistero
Pasquale, sicché seguire Gesù è il fondamento essenziale e originale
della morale cristiana. Gesù Cristo è Persona viva, presente e determinante nell’oggi della storia di ognuno: è la Via da percorrere per
avere la Vita ed essere nella Verità. In Cristo-Via-Verità-Vita il cristiano trova la risposta personale come pienezza del dono totale a
Dio e la forza di coesione che dà senso e unità a tutta la sua esistenza. In questa prospettiva, Gerardi presenta la morale cristiana come
l’inveramento della nuova ed eterna alleanza che Gesù attua con la
propria morte e risurrezione, e perciò essa è fondata sulla realizzazione della comunione personale dell’uomo con Dio. La scelta di
seguire Gesù trova la sua prima e fondamentale esplicitazione nel
vivere la fede, la speranza e la carità, che abilitano il cristiano ad
attuare nel suo agire la partecipazione alla vita trinitaria, ricevuta in
dono dallo Spirito. La beatitudine piena della comunione totale e
definitiva con Dio Trino ed Unico si prepara e si realizza nella vita
vissuta secondo le beatitudini, e per questo ad ogni beatitudine è collegata una promessa di raggiungere la felicità.
Mentre proclama le beatitudini, Gesù di Nazaret le vive: egli è il
povero, il mite, il misericordioso, il giusto, ossia il perseguitato. Gesù
Cristo è il prototipo dell’uomo nuovo descritto nelle beatitudini. Da
queste promesse si può trarre, allora, la forza e l’ispirazione per l’esperienza personale della sequela (le virtù). Prima di essere scelta dell’uomo, la beatitudine è dono dello Spirito che anima e guida l’esistenza cristiana. La prima nuova beatitudine non può non essere che
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per Maria: beata per la fede. La Madre di Gesù è modello del credente che, con fiducia e generosità, risponde alla parola che Dio gli ha
rivolto. Nell’ascolto e nell’obbedienza Maria è l’icona non soltanto per
ogni cristiano ma per la Chiesa universale, perché il cammino alla
sequela di Gesù Cristo non è individuale. La risposta alla chiamata è
sì personale, ma viene compiuta e si inserisce in un popolo. La Chiesa
è “popolo in cammino” perché viene da Dio e cammina verso Dio.
I seguenti otto capitoli sono l’applicazione concreta e pratica
dello schema beatitudini-doni dello Spirito-virtù, nella prospettiva
dinamica della sequela di Gesù. Ad esempio, i “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3) con il dono dello Spirito del timore di Dio (per diventare “poveri in spirito”) sono chiamati a vivere la fede (Capitolo II); i
“Beati i perseguitati per causa della giustizia” (Mt 5,10), a cui viene
dato in dono il regno dei cieli, sono chiamati a vivere la fortezza
(Capitolo IX). Le beatitudini proclamate da Gesù sono – secondo
R.Gerardi - i frutti più perfetti delle virtù e dei doni, il culmine della
vita cristiana, il coronamento della presenza e dell’opera dello
Spirito Santo nei credenti, anticipata pregustazione della felicità
eterna – la vita con Dio. Questa impostazione è una novità metodologica in quanto collega tre prospettive di solito considerate a sé
stanti. Beatitudini-doni dello Spirito-virtù fondono la prospettiva
etica con quella spirituale e nel medesimo tempo delineano un itineraio interiore personale e comunitario alla sequela di Gesù. Il libro
scrittto con stile chiaro ed essenziale invita il lettore-credente non
soltanto alla lettura, ma soprattutto ad approfondire la sua vita cristiana e a viverla giornalmente come la via alla sequela di Cristo, sua
guida, suo modello e suo maestro, nello Spirito Santo verso il Padre.
EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.
Hoose, Bernard (ed.), Christian Ethics. An Introduction. London:
Cassell 1998, 337 p.
The pattern of moral theology (or Christian ethics, as this book
prefers) over the last forty years has followed a particular route,
clearer of course with hindsight. The manuals reigned in an absolutist
manner in 1960. Their collapse, broadly speaking from 1965 onwards,
was as total as that of analogous absolutisms. In their place came a
plethora of hastily written books, often in paperback, and these were
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the standard fare for about ten years. Few of these have lasting
significance. This is not meant to disparage the good-willed authors
who strove mightily to provide some material for hard-pressed
professors, not to mention students eager to have a reference-book:
the fundamental questions raised by the Council were too fresh to be
digested in an enduring form. A third phase is discernible from the
early 1970’s. In the wake of Humanae vitae the norms question came
to the fore, and there was a period, lasting about ten years, of notable
writing on this and related issues. The debate became polarised
(autonomy ethics/faith ethics, traditional principles/ revisionism)
and, increasingly, too in-house for those outside the circle to
understand what was being debated. The needs of ministry in the first
place, and education in the second place, forced a change in the late
1980’s and early 1990’s. Once more ethicists and moral theologians
became interested in the fundamental questions of the whole field of
moral theology, and many of them wrote coherent accounts of their
particular methodological approach to moral theology.
The names indicate that this was a trend that crossed linguistic
barriers and particular theological perspectives. A random selection
confirms this. G. Grisez and C. Curran: R. García de Haro and M.
Vidal; G. Angelini and C. Zuccaro; B. Ashley and R. Gula; S. Pinckaers
and J.-L. Bruguès; J. Römelt and C. H. Peschke; T. Kennedy and K.W. Merks. Two things are to be noted about this trend. During the
1990’s these authors, among many other notables, have written
coherent accounts of the moral life with a view to offering a tool for
theological reflection. They are not ‘manuals’ in the sense of what
prevailed in 1960. But they seem to me to confront the ministerial
and educational void left by the demise, in a five-year period, of a
system of moral theology that had a 250 year old pedigree to sustain
it. The other notable fact is rather obvious. There is a variety of
approaches being offered in this field.
The book edited by HOOSE is part of this trend, but with an
important nuance. It is not a presentation by one author, but by 19
authors who collaborate in writing a book of 22 chapters. Three of
the authors (SELLING, HOOSE AND GULA) are doubly represented. The
aim is succinctly put at xi: “Clearly worded introductions to the
various elements of Christian ethics are not many in number. This
volume is an attempt to improve matters”. I think the number of
introductions may be more numerous than the editor suggests. But
this book does offer a novelty in that theologians who are noted
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experts in their particular field offer succinct introductions to
particular questions. The book, for me, would be better qualified as
a clearly worded introduction to the thought of important Christian
ethicists writing on particular questions. And expert they are: T.
DEIDUM, P. HANNON, G. J. HUGHES, J. F. KEENAN, K. T. KELLY, K. LEBACQZ,
and V. MCNAMARA have, for instance, all written substantial books on
the topics which they present in a more summary form here.
The book has two sections, one of 10 Chapters on “Basic
Christian Ethics” and one of 12 Chapters on “Applied Ethics”. The
first section is reasonably comprehensive in its treatment of the
fundamental questions (Bible, Natural Law, Authority, Norms,
Virtue, Conscience, Person etc.). The second section, inevitably, is
more selective, for reasons of space. Though I found all the Chapters
of a good scholarly quality, not all meet the editor’s desire for clear
wording. The person reading this work as a first introduction to
Christian ethics will need some guidance.
I would classify the book as representing those moral
theologians who wish to retrieve the tradition to face new challenges.
This task of retrieval is a noble one, and not easy. How do you deal
with natural law or virtue (traditional ideas) in view of the challenge
of feminist ethics or hypnosis (not so traditional ideas for Christian
ethics)? HOOSE has gathered a formidable array of scholars to face
this challenge. Though I am suggesting that the ‘retrievalist’ thread is
the important one in the book, and gives it a sufficient consistency, it
is clear that not all the authors are of one mind on the approach to
moral theology. It would have been valuable, I believe, if there had
been a concluding Chapter to bring the strains of the book together,
if only to clarify the questions that need further study or that would
be challenged by those not happy with this retrievalist approach.
This book could be at its most valuable as a source for a serious
under-graduate seminar in Christian ethics. It provokes thought, and
leaves questions to be studied by an inquiring mind.
RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.
Jones, Frederick M., ed., Alphonsus de Liguori: Selected Writings.
New York/Mahwah, N. J.: Paulist Press 1999, xiii + 423 p. (The
Classics of Western Spirituality) [With the collaboration of
Brendan McConvery, Raphael Gallagher, Terrence J. Moran, and
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Martin McKeever. With the consultation of Sean O’Riordan and
Carl Hoegerl. With a Preface by Sean O’Riordan].
The Classics of Western Spirituality series published by Paulist
Press has, for years, provided quality English language anthologies
of the great spiritual masters. The present volume dedicated to the
writings of Alphonsus de Liguori (1696-1787) is no exception.
Frederick M. Jones, the editor of this fine collection and the author
of the first original life in English of the saint, has done a masterful
job in coordinating the work of a devoted (and highly competent)
team of Redemptorist translators. In keeping with the goals of the
series, the intention of this team was to produce a single volume that
would make the writings of this great Doctor of the Church and founder of the Redemptorists more accessible to today’s English-speaking
audience. In doing so, they have managed to convey a sense of the
saint’s complex character yet single-minded devotion to the great
truths of the Gospel message.
Although they would not meet the stringent standards of a critical edition (and were never intended as such), the translations are
accurate, consistent in style, and pleasant to read. They are a long
way from the archaic syntax of the Centenary Edition of Alphonsus’
ascetical writings edited by Eugene Grimm from 1886-1897 and
which, until now, was the major access English readers had to the
works of Alphonsus. For this reason alone, the volume represents a
major contribution to the English-language scholarship on the
renowned “Saint of Bourbon Naples” and will, in time, surely
become the primary point of contact for English readers interested
in his writings.
The volume has many other commendable qualities. Its Preface
and General Introduction set the tone for the volume and place
Alphonsus historically in the spiritual, intellectual, and cultural climate of his day. Valuable editorial introductions to each selection,
helpful notes that explain otherwise obscure references and allusions
in the text, and a sizeable amount of helpful reference material guide
the reader through this representative selection from Alphonsus’
rather substantial literary output. The selections themselves are categorized under seven sub-headings: (1) Spiritual Writings, (2)
Spiritual Direction, (3) Devotional Writings, (4) Prayer, (5) Moral
Theology, (6) Advice for Priests Who Minister to Those Condemned
to Death, and (7) Letters. These, in turn, are supplemented by a chron-
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ological list of Alphonsus’ writings, a select bibliography, a general
index, and a detailed Scripture index. It bears noting that some of the
entries have never before appeared in English translation.
Beyond this general appreciation of the volume, three particular
observations come to mind. In the first place, this reviewer was
impressed that the work of five different translators displayed such a
cohesive literary style. He could detect no major shifts in language or
syntax and was often struck by the creative ways they found to translate difficult Italian phrases. With one exception (to be explained
later), this reviewer was also happy with the selections from
Alphonsus’ writings chosen for the anthology. Even though the sheer
weight and quality of Alphonsus’ literary output made the choice of
entries for this volume extremely difficult, the editor and his collaborators have succeeded in presenting a highly accurate portrayal of
the saint’s wide-ranging concerns as a pastor, theologian, and spiritual writer. Finally, this reviewer was encouraged to see a representative selection of Alphonsus moral writings included in a volume
explicitly dedicated to his spirituality. In recent years, Alphonsus’
title of patron saint of confessors and moral theologians has greatly
overshadowed the role he played as one of the preeminent spiritual
authors of his day. The placement of his moral writings in a volume
such as this should help to retrieve some of this lost perspective and
work to keep alive his reputation as a major voice in the Church’s spiritual tradition. This inclusion is also in keeping with the current
theological interest in the dialogue and ongoing interaction between
the spiritual and moral dimensions of human existence.
As far as the volume’s shortcomings are concerned, this reviewer
was surprised that some of the entries do not make specific reference to the Latin or Italian editions upon which they were based. He
was also disappointed that from the thousands of letters available for
inclusion in this anthology, the editor decided to open the book’s epistolary section with Alphonsus’ scathing critique of Sister Maria
Celeste Crostarosa (1696-1755). This mystic and visionary, whose
revelations were instrumental in the founding of the Redemptorist
and Redemptoristine orders, is a significant figure in the history of
Christian spirituality in her own right and deserves to be represented
with editorial circumspection. In choosing to include this particular
letter in the volume, the editor has consciously inserted himself into
(and seemingly taken sides in) an ongoing debate over Crostarosa’s
role in the shaping of the spirituality of the two religious institutes.
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/ RECENSIONES
For this reason, the volume will unfortunately be received by some
of its readers as partisan in nature and ultimately counterproductive
to the goals it was seeking to attain. On another note, the inclusion
of a selection of Alphonsus’ moral writings in the volume aside, this
reviewer found little dealing with the saint’s actual understanding of
the interaction between the moral and spiritual dimensions of life.
Such a relevant connection could easily have been made in the
General Introduction or at appropriate moments in the Editor’s
Notes. The volume, one might add, is hampered by a small but
potent number of typographical faux pas that impede the reader’s
appreciation of some of Alphonsus’ better known statements (e.g.,
“…whoever does in the Congregation…” instead of “…whoever dies
in the Congregation…,” p. 359).
It is virtually impossible to produce “the perfect book.” These
minor shortcomings confirm this popular editorial premise and
point to areas where the editor and his team of translators might
have honed their skills in order to produce an even better work. Be
that as it may, their work remains an extremely valuable addition to
the field of Alphonsian studies. Anthologies (and especially anthologies in translation) are works of interpretation. In this reviewer’s
judgment, the interpretation of Alphonsus rendered by the editor
and his team of translators is accurate, attractive, relevant, and surprisingly comprehensive. They are to be commended for providing
English readers with a first rate and highly readable collection of
selected writings from one of the most popular (and prolific) spiritual authors in the Christian tradition.
DENNIS J. BILLY, C.SS.R.
Keenan, James F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS Prevention.
New York/London: Continuum 2000, 351 p.
James F. Keenan, Professor of Christian Ethics at the Jesuit
Weston School of Theology in Cambridge, Mass., has brought
together in one volume thirty five contributions from catholic moral
theologians around the world on the ethical dilemmas of HIV/AIDS
prevention. Assisted by his Jesuit colleague at Weston, Jon D. Fuller
M.D., and Lisa Sowle Cahill of neighbouring Boston College, this
considerable work also includes a Conclusion from Kevin Kelly of
REVIEWS
/ RECENSIONES
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England. The editorial team helped solicit contributions from as far
afield as Brazil and Australia, Bangladesh and Costa Rica, the inner
cities of America as well as the low income housing projects of
Edinburgh, Scotland. In a Foreword to this international compendium, Keenan explains that the project sets out “to address the problematic that certain moral positions adopted by church personnel
are at odds with some relatively effective HIV prevention measures
favored by Catholic health workers involved in the pandemic.” (p.
13). Specifically, the moral liceity of HIV prevention methods in
general, and condom distribution and clean needle exchange programs in particular.
The book is divided into two parts. The first presents twenty-six
case studies from around the world, highlighting the complexities of
HIV prevention especially in different cultural contexts. These include difficult cases from first nation communities in northern Canada
(M. Miller), women and childrens’ risk of infection in places as diverse as Egypt (N. Michel), Latin America (O. Rojas), Haiti (P. Farmer
& D. Walton) or contemporary Italy (M. Faggioni). Analysis of cases
of needle exchange programs in settings as far apart as Puerto Rico
and Australia also serve to underscore the sheer pandemic nature
and enormity of AIDS throughout the world. There is a strong educational thrust to many of the cases presented, with situations outlined often in the context of college or classroom, hospitals or medical
schools. The cases, clustered under such chapter headings as the
marginalized, cultural difference, inequity and education, cooperation and counsel, reveal some of the complex ethical difficulties that
HIV issues of prevention can provoke. While international in scope,
there are no cases from China or data from the former Soviet Union,
and only one contribution from South Africa (S. Bate) where HIV
has escalated to devastating and tragic proportions.
The second part of the book moves away from the case study and
commentary method to address some fundamental moral issues for
HIV prevention in longer essay form. Contributors here include R.
Burggraeve, E. McDonagh and K. Kelly, three catholic moralists who
have written extensively on AIDS and its problems previous to this
collection. Burggraeve suggests that an interim ethic of growth and
of mercy be offered to young people in a time of AIDS. McDonagh,
who coined the term, “Theology in a Time of AIDS” points up the
centrality of a model of “Kingdom values” in establishing an ethic
that more credibly meets the moral complexity of AIDS. Kevin Kelly
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concludes that a more positive, person-centered sexual ethic in keeping with the rich meaning of the moral tradition outlined by M.
Vidal and R. Gallagher in this section might better serve the millions
of people impacted by the virus. Significantly, almost all of the contributors would admit of the moral liciety of the use of condoms in
preventing the spread of HIV and in promoting clean needle exchange programs for the drug addicted.
Important though such medically indicated proposals may be in
reducing the transmission of HIV, any discussion of the ethics of
AIDS prevention cannot be concentrated on the theological cul de sac
of the condom alone. Rather, certain recurring realities also emerge
in these pages that affect the success or failure of AIDS reduction in
the world. These realities include the continued subordination of
women in society, religious ‘discomfort’ with AIDS issues, widespread homophobia and indifference to the plight of millions on the
part of the developed world, and the enormous vulnerability that
women and children still experience with continued risk of infection.
These issues are where the real ethics of prevention start. Keenan, in
bringing together such diverse contributions in both case study and
theological reflection on AIDS, has done a remarkable service for the
pastoral life of the Church, while the various case responses collected here reveal the richness and the subtlety of the catholic moral tradition trying to respond - if somewhat late in the day - to the greatest moral and medical crisis of the twentieth century.
TONY SMITH, C.SS.R.
López, Teodoro, Mancio y Batolomé Medina: Tratado sobre la usura
y los cambios. Pamplona: Eunsa (Ediciones Universidad de
Navarra, S.A.) 1998, 188 p.
El libro se coloca en la serie de estudios, que intentan extraer del
fondo de los archivos, escritos de incalculable valor histórico, que
nos permiten entrar en contacto con las grandes figuras del pensamiento de los siglos pasados. Teodoro López, Profesor de Teología
Moral de la Universidad de Navarra, nos ofrece en la presente obra
la posibilidad de acercarnos a dos grandes teólogos moralistas de la
famosa Escuela de Salamanca: Mancio y Bartolomé de Medina, a
través de las lecciones que estos grandes teólogos dictaron en el
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/ RECENSIONES
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curso 1566-1567 en la cátedra de Prima de la universidad salmantina. Se trata del comentario a la cuestión 78 de la Summa Theologica,
que tiene como tema central la usura.
El autor no pretende ofrecer obras inéditas salidas directamente
de la pluma de los citados autores, sino la transcripción de textos
que, en forma de apuntes de clase, elaboraban los alumnos para preparar sus exámenes. Las notas trataban de recoger con “fidelidad” las
lecciones del Profesor, siendo a veces corregidas por el Profesor
mismo. El texto aquí presentado forma parte del Códice 1853 de la
Biblioteca de la Universidad de Coimbra. La determinación de la
parte del texto que corresponde respectivamente a Mancio y a
Bartolomé de Medina resulta, en nuestro caso, relativamente fácil, ya
que en el margen del códice existe una indicación explícita, escrita
por los propios redactores, en la que se dice: “Hasta aquí el M.
Mancio; desde este artículo, el M. Medina”. Tal indicación se encuentra al final del art. 3. Ello significa que en el art. 4 comienzan las lecciones del Maestro Medina.
El carácter de “notas”, tomadas de oídas por los alumnos, hace
que el texto presente características peculiares, como la falta de puntuación correcta y de divisiones lógicas, citas incompletas o incluso
incorrectas tanto de autores como de la Biblia. T. López se ha sentido, por lo mismo, en la precisión de corregir y completar y de introducir algunas divisiones lógicas (27). Tarea no siempre fácil, sobre
todo en cuanto se refiere a las citas. A todo ello hay que añadir, como
indica el autor, la circunstancia de que, por el estado de deterioro del
manuscrito, se ha hecho necesario en más de un caso recurrir a
“conjeturas” de carácter personal. En estos casos, sin embargo, el
lector es oportunamente advertido. Los criterios concretos seguidos
en la edición del manuscrito son indicados en la p. 27. La edición del
texto del manuscrito, que representa el cuerpo central de la obra (p.
59-183), se hace en texto bilingüe (latino y español) colocado en páginas paralelas.
En las páginas primeras (9-58) el autor ofrece información sobre
la situación actual de los estudios en torno a la aportación de los teólogos de Salamanca y sobre la personalidad de los Profesores Cancio
y Bartolomé de Medina, así como una síntesis doctrinal sobre la
temática del texto editado.
Al informar sobre la situación de los estudios actuales (introducción), el autor hace notar el giro positivo que se ha producido en
los últimos decenios en la valoración de la aportación de los teólogos
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/ RECENSIONES
de la Escuela de Salamanca. Los autores recientes consideran en
cierto modo superada la tesis de M. Weber, que ve en la tendencia
calvinista en favor de la libertad individual y en la autodisciplina la
clave del progreso económico en el mundo protestante, mientras
atribuye a la actitud religiosa de la ortodoxia católica, autoritaria e
inflexible, la clave del retraso económico en el mundo católico. La
teoría weberiana, que ha tenido notable influjo en la marginación y
olvido de la aportación de los grandes teólogos de la Escuela de
Salamanca, no haría justicia, según los estudios recientes, a la atención y a la flexibilidad que frente a los problemas económicos manifestaron los grandes teólogos salmantinos. Hay que reconocer, ciertamente, que dichos autores afrontaban los problemas económicos,
no como cosa “a se” sino desde el punto de vista de la moral, como
muy acertadamente señala T. López: los teólogos de los siglos XVIXVII intentaban ante todo “formar la conciencia cristiana, en este
caso la conciencia de los agentes de la actividad económica, sobre
qué prácticas son justas y cuáles son injustas. El valor de referencia
es siempre el mismo: la justicia; el peligro que acecha a estas prácticas comerciales está bien identificado: la usura” (p. 12). A pesar de
todo y no obstante esta preocupación de fondo, se advierte en ellos
una marcada evolución hacia posturas cada vez más flexibles y cercanas a la realidad económica del tiempo.
T. López añade a continuación (p. 29-58) una síntesis doctrinal
de los temas abordados en el manuscrito. Este apartado, que consideramos muy oportuno, ayuda a colocar las opiniones de los autores
en el contexto de la amplia y a veces acalorada discusión de aquel
tiempo en torno al tema general de la usura y de las actividades
comerciales relacionadas de algún modo con el fenómeno de la
usura, como eran los “censos” y los “cambios”. En este contexto no
podía faltar una referencia explícita a los “Montes de Piedad”, sobre
cuya legitimidad moral Bartolomé de Medina mantiene, en general,
una postura crítica, en línea con la tradición de la escuela dominicana (particularmente de Cayetano y Soto). Su juicio sobre el tema
podría sintetizarse en el enunciado lacónico: “El Monte es usurario”,
juicio que trata de defender, no obstante la toma de posición definitiva sobre el caso por parte de los Concilios Lateranense Vº y Trento.
En opinión de B. de Medina, tal defensa, así como la consiguiente
pena de excomunión, alcanzarían solamente a aquellos capítulos que
no van contra la moral.
Sobre los “censos”, Bartolomé de Medina se muestra bastante
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comprensivo , exculpando “del vicio de la usura gran parte de las
prácticas mercantiles y crediticias realizadas bajo la figura de los
censos” (p. 40). Sobre el tema de los “cambios” su posición es muy
matizada. No obstante su afirmación de principio de que “el arte de
cambiar, si se considera en sí mismo, es peligroso y digno de censura”, reconoce que, “en las debidas circunstancias, puede ser cohonestado si se guardan las leyes ya de la justicia ya de la caridad” (cit. en
p. 44). Como se puede fácilmente advertir, T. López se limita en esta
síntesis a la exposición de la doctrina de los autores estudiados, sin
completar por su parte la perspectiva con el estudio personal de otras
fuentes, ni siquiera de las fuentes bíblicas del A.T., que estaban en la
base de la discusión moral sobre la usura, tanto por parte judía como
cristiana. Dado que la bibliografía sobre el argumento es relativamente abundante, el lector se hubiera esperado aquí una aportación
más sustanciosa del autor.
A la síntesis doctrinal sigue, como indicábamos más arriba, la
presentación bilingüe (latín y español) del texto del Códice 1853. La
obra se concluye con una bibliografía de carácter fundamental sobre
los temas estudiados.
Nuestro juicio sobre la obra de Teodoro López es positivo, no
obstante algunas limitaciones, como las que acabamos de señalar.
Poner al servicio de los estudiosos de la historia de la moral y de la
economía la aportación de los grandes Maestros de la Escuela de
Salamanca en materia de usura y de las diversas formas de actividad
comercial de su tiempo representa sin duda un esfuerzo digno de
todo encomio, aunque se trate de documentos “relativizados” por su
condición de “apuntes de clase”. En cuanto a los criterios adoptados
para la edición de la obra, habrá sin duda diversidad de pareceres,
como el mismo autor reconoce (p. 27). Podría evidentemente haberse optado por una reproducción exacta del texto latino original, completado con el correspondiente aparato crítico en el que podrían
insertarse las modificaciones y sugerencias pertinentes. El autor ha
preferido, sin embargo, llevar al propio texto latino las oportunas
variaciones gráficas y estructurales. Este procedimiento, que puede,
sin duda, suscitar un cierto desagrado entre los amantes de la crítica
textual, ofrece el reverso positivo de una más fácil utilización del
texto por parte de los lectores normales.
LORENZO ALVAREZ VERDES
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Merks, Karl-Wilhelm, Gott und die Moral, Theologische Ethik heute.
Münster: LIT Verlag 1998, 414 p. (Schriften des Instituts für
christliche Sozialwissenschaften 35).
As a German-born theologian working as professor of Theology
in Tilburg (Holland) for more than 20 years, Karl-Wilhelm Merks has
naturally published most of his work in Dutch. Looking back on his
career he muses “Nederlandica non leguntur” (10) and, encouraged
by some colleagues, sets about the arduous task of translating his
own work into German. The result is a substantial and handsome
volume of articles, essays and interventions on a range of ethical and
theological themes. In a brief review such as this it will clearly not be
possible to treat thematically the many issues, a number of them
controversial, raised in this study. The approach taken here will be to
outline briefly the contents of the book and then describe and discuss
Merks’ treatment of just two touchstone themes (autonomy and
modernity); it is hoped this will suffice to give at least a flavour of the
overall contents.
The first sentence of the Introduction, reproduced on the back
cover, (“The modern ideal of freedom does not stall even at the door of
the Catholic Church” - my translation-) announces the theme which
runs through the whole work: freedom. One way of construing the
contents of the book, in fact, is to think of the introduction and the
first section as a plaidoyer for a “morality of autonomy” (= autonome
Moral), the following sections as the application of this view of morality to specific ethical issues (obedience, moral evil, the normative
value of Sacred Scripture, human rights, cultural pluralism etc.) and
the epilogue as a theological\doctrinal reflection upon which Merks
rests his case. While any one piece can be read without any difficulty
in its own right, the collection moves thematically from a focus on
moral theory to a broader consideration of social and cultural issues.
From beginning to end it is the theme of freedom which dominates.
Having thus briefly described the structure of this work, we may
now consider briefly two of its recurring themes: autonomy and
modernity. With an insistence and a virulence which recall the
discourses of Ludovico Settembrini in Thomas Mann’s The Magic
Mountain, Merks expounds his convictions concerning freedom, particularly when viewed in theological perspective. His line of argument here is familiar to anyone who has followed the debate between
the proponents of an autonome Moral and the proponents of a
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Glaubensethik : given the pluralistic nature of modern, liberal culture and given the changed view of the world among christians living
in this culture, human morality is best understood as based on the
free, rational choice of the individual rather than on values and
norms derived “heteronomously” from religious teaching and tradition. As well as rehearsing the usual arguments used to defend this
position, Merks develops an interesting and more original argument
concerning the link between this view of morality and the classical
Thomistic version of natural law ( e.g. 24, 62). With considerable
plausibility, he argues that a morality of autonomy is the legitimate
inheritor of this tradition in that it seeks to understand the competence of reason in making moral law. While this debate has given way
today to other vexed questions, it remains of real historical and thematic interest to moral theology. This book is a useful articulation of
one side of the argument, paying surprisingly little attention to the
weighty arguments which have been brought against this position
over the last few decades (a representative of the Glaubensethik
school might take other texts of Aquinas and construct an equally
convincing case for the claim that reason discovers a law given by
God and that this is best unfolded and realized in the context of
faith).
The other theme which binds these different pieces, and which
is perhaps the best chiave di lettura for the volume, is the idea of
modernity. As a theologian Merks is particularly interested in the
way in which christian faith and morality can be articulated and
lived in the social context of modernity. His conclusion seems to be
that the christian should take on the key features of the modernist
mentality such as a sense of historicity, an appreciation of pluralism
and, of course, the priority of personal autonomy. He wishes to maintain that “the modern person” finds his or her way to God not primarily through traditional practices and convictions but through a
new found, healthy anthropocentrism. A major corollary of this position is the centrality of human rights in social discourse; a centrality
which the Church has only gradually and reluctantly come to recognize. Merks, by contrast, is confident that if only christians would
fully and wholeheartedly accept the principles of the French
Revolution (370) they could discover a new harmony between their
faith and modern culture, as well as undreamt of creative possibilities for themselves. All of this, he maintains, without abandoning the
essentials of the christian faith and the core values of christian mora-
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lity. On this score it is striking that apart from a few fleeting references the author does not feel the need to answer the lacerating criticism of modernity and modernist ethics which postmodernism has
been proposing. He seems equally impervious to a socio-political critique of modernity that is not born of reactionary nostalgia for the
ancien régime but of the conviction that aspects of modern culture
are inimical to the Gospel.
In making an evaluation of this work it is of course necessary to
remember the genre with which we are dealing: a redaction of separate pieces written over a period of twenty years. Each piece in its
own right represents an informed, readable and honest articulation
of the author’s views on a wide range of issues. Read as a unit, the
book can seem rather repetitive and excessively focussed on an argument which has lost much of its punch in the light of the postmodernist challenge, where the question is not whether we should
favour a faith ethic or an autonomy ethic but whether there is any
such thing as ethics in the first place!
MARTIN MCKEEVER C.SS.R.
Moreno Rejón, Francisco, Historia de la Teología Moral en América
Latina: Ensayos y materias. Lima: Cep 1994, 258 p.
F. Moreno Rejón es sacerdote redentorista que desde hace varios
años realiza su labor pastoral en el Perú. Es autor de varias obras,
entre ellas: Moral fundamental en la reflexión teológica desde América
Latina (1968-1984), Madrid 1986, Salvar la vida de los pobres: aportes
a la teología moral, Lima 1986, Moral Theology from the Poor. Moral
Challenge of the Theology of Liberation, Quezon City 1988.
Historia de la Teología Moral en América Latina reune siete
ensayos breves, entre 12 y 20 páginas. Está dividida en dos secciones:
ensayos y materiales para el estudio de la teología moral en América
Latina. La segunda sección incluye entre los materiales un amplio
elenco de 104 fichas bibliográficas de los autores y obras principales
de los siglos XVI y XVII que “interesan de modo particular al estudio
de la teología moral en América Latina” (pp. 139-172). A éstas añade
una antología de 23 textos básicos “que permiten tener conocimiento directo de algunas fuentes más significativas de la teología refe-
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rente a la problemática de las Indias” (pp. 173-226). Finalmente,
ofrece una amplia bibliografía dividida en 8 apartados.
Varios de los ensayos que aparecen en la primera sección fueron
publicados en un primer momento como artículos en revistas
españolas, peruanas y brasileñas mientras que los ensayos tercero y
cuarto (“Hecho, derecho y justicia” y “Primeros tratados teológicomorales contra la esclavitud”) eran inéditos.
El objetivo del autor es el de “dirigir una mirada de conjunto
sobre la problemática teológico-moral de las Indias y su reflejo en las
obras y autores del siglo XVI (p. 18). La obra tiene su mérito porque
“durante cuatro siglos prácticamente han sido escasas las publicaciones sobre teología, espritualidad y derecho canónico en nuestro
continente. La costumbre era utilizar los libros que nos venían de
España y escritos en latín, español y francés con traducción castellana” (p. 9), escribe José Dammert Bellido al hacer la presentación del
libro. Pero el objetivo no se centra solo en el pasado, anota Moreno
Rejón, sino que de acuerdo con Sto.Domingo “es la hora de divulgar
las grandes controversias teológicas y jurídicas que cuestionaron la
conquista y la colonización y sentaron las bases del derecho de gentes y del Derecho Internacional” (p. 18). En el prólogo comenta la
forma como fue madurando en su mente una tras otra las diversas
contribuciones que reune en este libro.
La obra, como es natural, tiene sus límites, lo afirma el propio
autor: “la escasísima atención prestada al siglo XVIII y por ende la
dificultad para hallar material propicio; constata el autor que entre
los autores fue poca la creatividad teológico-moral en Europa, y en
A. L. predominaba una teología que se limitaba a repetir las tesis
europeas vigentes” (p.14).
Moreno Rejón se propone dar una mirada sintética a la historia
de la moral en A. L. en los siglos XVI, XVII, XVIII y XIX junto con
una reflexión sobre una ética de la liberación, y como epílogo, la perspectiva ética de la liberación en A. L. en el umbral del año 2.000. Los
primeros cuatro ensayos se centran en la cuestión esclavista que toca
secundariamente el problema indigenista. Los tres últimos asumen
el tema de la teología latinoamericana en su aspecto típico de la liberación. Los siete ensayos aparecen unidos por un hilo histórico: la
evolución de la teología moral en un marco geográfico determinado,
tomando como aspectos centrales las cuestiones morales de la primera teología indiana, el pensamiento de una serie de personajes
representativos en torno al problema de la esclavitud y la génesis y
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desarrollo de la ética de la liberación hasta la IV. Conferencia del
Episcopado Latinoamericano en Sto. Domingo (1992).
En el fondo, el autor quiere hacer la crítica a “una teología concreta que llegó a América Latina con los conquistadores y misioneros pero que no puede estatificarse, pues se hace necesaria una teología permanentemente creativa y no meramente repetitiva (p. 19).
Este sentido creativo aparece pronto entre los misioneros que cuestionan aquella teología de la conquista. Una teología creativa tuvo
muy en cuenta que evangelizar no puede ser sinónimo de incorporar
las culturas nativas a la cultura dominante de los evangelizadores”.
Uno de los mejores momentos de la teología es “el giro copernicano” en el campo de la teología moral: se trata de juzgar la realidad
(esclavitud, guerra colonianista, discriminación racial) a la luz del
evangelio y no acomodar la ética a la realidad (p.59), como sucedía
en muchos autores que defendían la esclavitud “acomodando el derecho al hecho, la moral a los intereses” (p. 79), lo que lleva a Epifanio
de Moirans a preguntarse “qué teología es esta?”.
La teología moral en Latinoamérica alcanza un nivel notable de
desarrollo: “no solo muestra un crecimiento constante, sino que ha
logrado una consolidación y una madurez en la elaboración y expresión de sus propuestas” (p. 111), sea a nivel de las publicaciones como
en el campo de la investigación y la docencia, en tal forma que ya se
puede hablar de “la mayoría de edad de la teología en América
Latina”. (p. 112). Los siete ensayos se cierran con 12 pp. sobre “la perspectiva ética de América Latina en el umbral del año 2.000. Son unas
pocas páginas que contienen un breve examen (económico, político y
social) del contexto actual de la reflexión teológico-moral en América
Latina. Moreno Rejón cierra prácticamente su obra con la propuesta
de Sto. Domingo de “promover un nuevo orden económico, social y
político” sabiendo que “ello plantea la exigencia ética fundamental de
que ese nuevo orden se asiente sobre las bases de ‘una economía de la
solidaridad y de la participación” (p.134).
Historia de la teología moral en América Latina revela que Moreno
Rejón es un buen conocedor de esta historia; se siente a lo largo de
las páginas la empatía que lo une con América Latina. El lenguaje
sencillo y ágil hace la lectura de esta obra amena y aleccionadora.
J. SILVIO BOTERO GIRALDO, CSSR.
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Palumbieri, Sabino, L’uomo, questa meraviglia. Antropologia filosofica. Roma: Urbaniana University Press 1999, 414 p. (Manuali 3).
L’eterno interrogativo su chi è l’uomo si ripropone ai nostri giorni in termini ancora più pressanti. Lo sviluppo tecnico-scientifico,
infatti, non cessa di aprire ulteriori possibilità di intervento sull’uomo, arrivando alle stesse radici della sua vita. Si tratta però di possibilità che vediamo per lo più gestite in funzione del profitto. Una
seria e approfondita riflessione antropologica, che affronti con
coraggio le domande più decisive, si svela perciò indispensabile, se si
vuole evitare di cadere in una riduzione consumistica totale.
Orientarsi nell’attuale dibattito antropologico non è però cosa
facile a causa della molteplicità e diversità delle proposte. Occorre,
infatti, un attento discernimento per coglierne, mettendole in
costruttivo dialogo, gli elementi positivi. L’itinerario tracciato da
Sabino Palumbieri in questo suo ultimo libro, frutto di anni di ricerca e di insegnamento, costituisce un prezioso strumento per tale
orientamento.
Dettata dal convincimento che occorre ricominciare «dalla
ripresa profonda della propria identità, purché criticamente fondata», l’opera mira a «descrivere la fisionomia costitutiva» dell’uomo,
in maniera che possa meglio cogliersi che egli «non è una mera parte
misurabile del mondo, ma è un mondo mirabile a parte. Tutto, sempre, da ricostruire. Nella storia, come cantiere. Nella speranza, ogni
giorno rinascente» (p. 23).
Il senso critico, con il quale vengono vagliate le maggiori affermazioni antropologiche – sia del pensiero classico sia della riflessione
contemporanea –, è arricchito da una chiara prospettiva testimoniale:
la vita, essendo dinamismo, «esige un senso direzionale. Il significato
della vita non è un problema accademico, ma vitale» (p. 63).
Le scelte metodologiche, operate dall’autore, sono di stampo
fenomenologico, «non nel senso idealistico, come in Hegel, e neppure nel senso essenzialistico eidetico, come in Husserl, ma piuttosto in
quello descrittivo heideggeriano, o descrittivo ontologico come in
Edith Stein» (p. 55). I capitoli iniziali sono di carattere introduttorio:
contestualizzata e motivata la riflessione (cap. I), l’autore si preoccupa di precisare la domanda antropologica come «domanda fondamentale» (cap. 2). Può così presentare e giustificare le scelte metodologiche (cap. 3) e ripercorrere, evidenziando il filo rosso ad esse
sotteso, le tappe della riflessione antropologica (cap. 4).
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La costituzione esistenziale dell’uomo viene approfondita nelle
tre fondamentali strutture fenomenologiche: l’in-sé, il per-sé e il peraltri. Esse vengono così specificate: «L’in-sé è la dimensione dell’essere ravvolto, per dir così, nel suo spazio. Il per-sé connota l’essere in
quanto si coglie presso di sé, capace di prendere le distanze da sé, in
quanto tensionale dell’al di là di sé. Il per-altri connota l’essere in
quanto tendente all’altro-da-sé, simmetrico a sé, o al totalmente Altro
da sé. Possiamo anche considerare queste tre dimensioni come tre
movimenti metafisici dell’essere uomo in tre direzioni: il primo verso
il sé; il secondo a partire dal sé; il terzo verso l’altro da sé» (p. 63).
La prima struttura o dimensione viene approfondita attraverso
la riflessione sulla corporeità, in quanto esperienza (cap. 5) e linguaggio (cap. 6), e sulla vitalità sottolineando la «meraviglia e salto
qualitativo» propri della vita dell’uomo (cap. 7).
Lo studio della seconda (il per-sé) indica nella complessità del
conoscere la base di partenza (cap. 8), ponendone poi in risalto la fondamentale dimensione metasensitiva (cap. 9), che rende ogni uomo
ricercatore della verità (cap. 10) e trova nell’autocoscienza il «centro»
e lo «snodo» (cap. 11). Il successivo approfondimento della volontà, in
quanto culmine della intenzionalità (cap. 12), apre sulla libertà,
«punto cruciale» di ogni antropologia (cap. 13): la considerazione del
suo collocarsi tra verità e limite (cap. 14), porta a cogliere nell’assiologia il «riferimento» e al tempo stesso il «rifornimento» (cap. 15).
Il per-altri, inteso come «co-essere, pro-essere, in-essere», viene
infine enucleato mediante la riflessione sulla socialità come dimensione imprescindibile (cap. 16), da attuare alla luce della bipolarità e
dell’incontro, che mettono in primo piano il volto dell’altro (cap. 17),
e la giusta valorizzazione del sentimento (cap. 18).
Da questo rapido sguardo emergono, oltre la ricchezza dei contenuti, la chiarezza e la gradualità del percorso antropologico proposto dal libro. Le suddivisioni dei capitoli rendono ancora più evidenti i singoli passi. E questo senza mai cadere in aridi schematismi scolastici, pur essendo pensato come manuale. Il linguaggio resta sempre vivo e coinvolgente; a volte anzi il taglio evocativo che lo caratterizza rischia di renderlo troppo difficile, soprattutto per chi è agli
inizi dello studio dell’antropologia. Ma forse è un rischio inevitabile
per chiunque voglia fare antropologia amando l’uomo e per fare
amare l’uomo.
SABATINO MAJORANO C.SS.R.
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Raponi, Sante, Alla Scuola dei Padri. Tra cristologia, antropologia e
comportamento morale. Alcuni Saggi. Roma: Editiones Accademiae Alphonsianae 1999, 316 p. (Quaestiones Morales 11).
L’Accademia Alfonsiana di Roma ha introdotto un’usanza degna
di essere imitata da altri Centri teologici dell’Urbe e dell’Orbe. Si tratta della “raccolta” dei principali studi dei Professori emeriti o in fase
di pienezza accademica; questi lavori, essendo sparsi in riviste o in
pubblicazioni collettive, non sono facilmente reperibili.
La Raccolta che presentiamo riguarda il professore emerito
Sante Raponi, di formazione biblica e con una lunga docenza di
morale patristica. I numerosi alunni che ne hanno frequentato i corsi
hanno potuto sperimentare non solo l’accoglienza fraterna e l’eleganza umana di p. Raponi, ma hanno potuto anche godere e beneficiare delle sue molteplici conoscenze della cultura classica grecoromana, del pensiero biblico e della primitiva letteratura cristiana.
Quest’ampia e profonda preparazione classica, biblica e patristica
costituisce la trama sulla quale vengono intessuti, con fili d’oro, i
disegni che compongono l’insieme della tappezzeria dell’opera.
L’Autore non pretende fare una sintesi o un manuale di morale
patristica. Nella situazione attuale degli studi è difficile avanzare una
proposta sistematica sull’insieme del pensiero morale patristico. Il
periodo considerato è molto vasto – sei o sette secoli – e lo spessore
del pensiero è talmente denso e variegato, sia dal punto di vista diacronico che sincronico, da rendere difficile una sintesi unitaria. Il
Raponi è cosciente dell’esistenza e della peculiarità di varie “tradizioni” nella patristica. Non ne trascura nessuna. Conosce la prevalenza esercitata dalla tradizione “alessandrina” sul cristianesimo
posteriore; senza trascurare quest’ultima né la tradizione orientale
(siriaca, ecc.), egli preferisce incentrare la sua attenzione sulla tradizione “asiatica”, ritenuta più vicina all’universo biblico e più conforme alla cultura attuale segnata dal personalismo.
I sei contributi che compongo il volume hanno come obiettivo
comune l’articolazione tra cristologia, antropologia e morale nel pensiero patristico. Si tratta di una messa a fuoco altamente significativa che deve essere tenuta in grande considerazione quando si parla
della morale cristiana primitiva. Di fatto, questa non è altro che l’esplicitazione (morale) del dinamismo del soggetto cristiano (antropologia), il quale è tale perché è una creatura nuova in Cristo (cristologia). Il Raponi allude ad altre prospettive, come la trinitaria e la
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sacramentale, ma le sue preferenze sono di carattere antropologico –
cristologico.
Questi i temi concreti: la verità della vita morale cristiana secondo gli apologisti del secondo secolo; la categoria antropologica di
immagine e sommiglianza nel pensiero patristico; le tentazioni del cristiano alla luce del Cristo tentato, come appare nell’esegesi dei Padri;
l’uso del decalogo nell’esposizione della morale cristiana; il cristocentrismo etico negli scritti dei cosiddetti Padri Apostolici; la pienezza
portata da Cristo secondo sant’Ireneo. La semplice ennunciazione dei
temi è significativa dell’ampio arco di opere prese in considerazione,
dell’oggettiva importanza degli argomenti, e dei contributi che questi
studi possono offrire per l’impostazione della morale attuale.
Tra i temi considerati, uno spicca in modo particolare, sia per la
sua estensione che per il suo valore: quello dedicato alla categoria di
immagine/somiglianza nell’antropologia dei Padri. Lo considero un
capolavoro all’interno della produzione che conosco su questa decisiva questione della teologia patristica. Qui si trova il migliore Raponi:
colui che conosce e valuta la bibliografia esistente sul tema; che si
confronta con i testi direttamente, in un corpo a corpo degno del
migliore atleta; che sa leggere il pensiero patristico sullo sfondo della
cultura greca e delle referenze bibliche; che sa distinguere tra le differenti tradizioni patristiche per precisare e arricchire la dottrina
comune; che è capace di proporre una sintesi personale partendo da
analisi dettagliate e minuziose. Nella teologia attuale si utilizza frequentemente – e penso con profitto – la categoria antropologioca di
immagine e somiglianza come fondamento della morale cristiana. A
tale scopo sarebbe bene tener presente il contributo di S. Raponi, perché le proposte siano fondate nella più genuina Tradizione cristiana.
Non mi resta che felicitarmi col prof. Raponi per questa raccolta di studi e attendere altri frutti maturi dalla sua ampia e profonda
preparazione classica, biblica e patristica.
MARCIANO VIDAL C.SS.R.
Russo, Giovanni (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita
nascente e pediatrica. Torino: Editrice Elle Di Ci 1999, 541 p.
(Collana «Evangelium vitae» 6).
L’ambivalenza dei progressi biomedici mette in gioco le nostre
convinzioni più profonde; le interpretazioni oscillano tra speranza e
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paura: speranza di una liberazione da pesanti fardelli, paura di una
violenza fatta alla nostra umanità. Le tecniche della procreazione
assistita si configurano come una procreazione senza sessualità, contrariamente alla contraccezione che è sessualità senza procreazione
ed anche alla prostituzione che è sessualità senza amore. Ma che
cosa è la sessualità? Una ampia risposta a questa domanda fondamentale la troviamo nel libro di G.Russo intitolato Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica che qui presentiamo.
Il libro è frutto della collaborazione di specialisti impegnati sul
campo della sessualità e della bioetica. Gli argomenti trattati sono
tutti di estremo interesse ed attualità. Dopo una introduzione di
G.Russo su Origini della sessuologia e antichi costumi sessuali (da cui
possiamo apprendere che molti ambiti della sessuologia di oggi derivano dalla cultura greca), vengono analizzate – dallo stesso autore –
Le dimensioni biomediche della sessualità (fisiologia del sesso
maschile e femminile). Seguono I linguaggi della corporeità (abbraccio, carezza, bacio, piacere; il pudore e la sessuallità nell’unitotalità
della persona). G.Gatti esamina la Psicologia e sessualità in prospettiva morale (approccio pulsionale, evolutivo, relazionale per arrivare
alla psicologia e all’etica dell’amore). S.Palumbieri studia
l’Antropologia e filosofia della sessualità (aperta all’amore interpersonale e alla trascendenza), mentre R.Pegoraro approfondisce i
Fondamenti biblico-teologici della sessualità (a partire dai testi
dall’Antico e Nuovo Testamento per arrivare all’analisi del matrimonio e della famiglia nella storia della communità di fede), e Teodora
Rossi Bioetica e questione femminile (vissute, vedute e presentate criticamente da parte della donna). G.Russo e Tiziana Forzano mettono
in relievo alcuni dei più scottanti Problemi di bioetica sessuale (l’autoerotismo, l’omosessualità, il transessualismo, i rapporti prematrimoniali, il sesso deviato e le nuove pratiche sadomaso). Nel capitolo
8 G.Russo analizza il sempre più preoccupante e drammaticamente
attuale problema della Pedofilia e abuso sessuale dei bambini (dal
punto di vista biblico, storico, sociologico, psicologico, pedagogico e
legislativo). Seguono Clinica degli stati intersessuali (G.Romero), Il
trapianto di gonadi (M.P.Faggioni), La procreazione responsabile e
Fedeltà coniugale e divorzio (R.Frattallone), Tecnologie riproduttive,
procreatica e ingegneria genetica (S.Leone), La clonazione di soggetti
umani (G.Russo) e infine, Bioetica in pediatria (G.R.Burgio).
La lettura del volume, interessante, stimolante e arricchente,
porta a constatare che tutti gli autori – dall’ orientamento chiara-
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mente cristiano – concordano nel vedere, analizzare e presentare la
sessualità come un problema antropologico che trova adeguata soluzione nel “paradigma dell’amore interpersonale”. La sessualità
umana si esprime nell’essere uomo e donna che, nella mutua attrazione e nel vicendevole completamento, diventano veramente tali. La
sessualità, infatti, si realizza soltanto nella autenticità e pienezza dell’amore, cioè nel dono totale di sé. Gli argomenti elaborati nel libro
mostrano che senza questa prospettiva la sessualità umana rimane
genitalità, violenza, strumento per il proprio egoismo (G.Russo). Le
ricchezze bio-psico-spirituali della sessualità umana si presentano
come energie nel segno dell’ambivalenza. Possono diventare o forze
autodistruttive, deprimenti e motivi di degrado umano, ovvero forze
autocostruttive ed elementi, nonché motivi, di promozione propria e
della comunità intera (S.Palumbieri).
Non soltanto la sessualità umana, ma tutta la bioetica - che studia dal punto di vista morale la vita umana nel suo nascere, crescere
e morire – evidenzia la necesssità di riferirsi prima di ogni fase applicativa al significato semantico della persona, cioè alla verità della sua
natura e identità. Per la complessa valutazione di certe proposte tecnoscientifiche la bioetica non può che assumere l’inviolabilità della
persona umana integrale. L’etica della vita umana, infatti, suppone,
come fondamento, l’antropologia integrale e, come capitolo essenziale, l’antropologia della sessualità con le sue implicanze ed esigenze.
Il volume curato da G.Russo fa parte di una voce, forse minoritaria, ma forte, consapevole e deliberata contro la neutralità della
sessualità umana e della bioetica come scienza; una voce unanime
contro la riduzione antropologica della vita e della sessualità umana.
Il lettore di questo libro, di fronte a una casistica che minaccia il
valore dell’umanità, della famiglia e della persona, come sono i risultati concreti e pratici della scienza e della sessualità applicata senza
l’uomo, cioè senza la morale, è invitato a ripensare e ad approfondire il suo essere-agire umano sapendo che dietro ogni comportamento o intervento ci deve essere la ricerca di senso di ogni persona.
EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.
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Schwaiger, Clemens, Wie glücklich ist der Mensch? Zur Aufnahme
und Verarbeitung antiker Glückstheorien bei Thomas von Aquin.
München: Don Bosco Verlag 1999, 26 p. (Benediktbeurer
Hochschulschriften, Band 13).
In the slip-stream of the Encyclical Fides et ratio (1998) there has
been a flurry of articles on the relationship between philosophy and
theology, some of them quite banal in content. This slight volume,
though not in any way a response to the Encyclical, is exemplary in
its treatment of a philosophical problem that has crucial theological
implications. The central issue treated is the meaning of human
happiness. Starting with a comment on the different views of the
Athenian political thinker SOLON (640-588 B.C.) and the Lydian King
CROESUS (560-546 B.C.), which centered on the interpretation of
eutychia (prosperity as a result of good luck) and eudaimonia
(prosperity as a result of personal happiness), SCHWAIGER notes how
the different emphases have persisted in various languages, for
instance in the difference between fortuna and vita beata. The interest
of the author is in the thought of ST. THOMAS AQUINAS on the question,
but to reach this point SCHWAIGER, in a first move, examines the
Aristotelian commentary on the question. For the author, this
commentary is insufficient because of the lack of a proper distinction
between the fragility of goodness, in its worldly form, and the stability
of goodness, in its non-worldly form. The genius of the solution of
AQUINAS lies in his ability to see how felicitas can be both beatitudo
perfecta and beatitudo imperfecta. Clearly, for AQUINAS it is the former
type of happiness which counts most. The insight of the work of
SCHWAIGER is his exposition of how AQUINAS comes to explain this. The
philosophical problem is enduring because of its complex simplicity:
how can the human person have a happiness that is, literally, end-less
seeing that human life is end-bound by the fact of death? Logically,
therefore, endless happiness cannot be linked to earthly realities so
we enter into a discourse on the relationship between this world and
utopia (in its classic meaning of an imaginary no-place of perfect
happiness). Though he is not the first to note the point, SCHWAIGER
explains the source for the classic resolution of how the human
search for happiness-without-end fails because of our placing this
search within a world of goods that are earth-bound and, therefore,
not-without-end. The key source for the Thomistic solution is the De
consolatione philosophiae of BOETHIUS, who is in some ways the last of
626
REVIEWS
/ RECENSIONES
the Romans (he lived from 480 to 524 A.D.) both in the manner of his
political life and death as well as his intellectual training. The author
comments that the Thomistic reliance on BOETHIUS for this question
has not been much noted (page 24, note 17). This was confirmed for
me in some authoritative commentaries, not mentioned in this book:
B. DAVIS and J. P. TORRELL give little attention to the source in their
excellent reference works, and though it appears a trifle more in the
classic works of M. D. CHENU and J. A. WEISHEIPL the attention given to
the Boethian influence on AQUINAS has ceded somewhat because of the
emphasis on Aristotelian sources. The thesis of this short book is that
BOETHIUS advances the Aristotelian discussion of the SOLON – CROESUS
debate by seeing that happiness is the status bonorum omnium
congregatione perfectus which cannot, on the basis of BOETHIUS’ own
tragic life and death, be based on a this-worldly experience. The merit
of the book under discussion here is to remind contemporary readers
of this possible lacuna in our interpretation of a crucial author
(AQUINAS) on a question of enduring importance. Though this work is
too slight to make a major impact I judge it to have three merits for
ethicists and moral theologians. It can remind us of the importance
of the series of the “Benediktbeurer Hochschulschriften”, now in its
14th volume: the series is more a series of monographs than books,
but precious none the less. A second merit is that it demonstrates how
intellectually superior, and more honest, it is to deal with texts and
their development than write exhortatory articles about the
importance of philosophy for theological discourse. The most
enduring contribution is an implicit one. The question of happiness
is as old as the dispute between SOLON and CROESUS and as
contemporary as a debate between an exponent of a common-good
philosophy confronting a defender of the so-called new economy as
the bearer of the happiness we all seek. For anyone wishing to have a
useful dialogue on the enduring question of happiness with those
who may not necessarily share a Christian view of life this brief book
has treasures belied by its size. It could lead the reader to more
substantial works, such as M. Nussbaum’s The Fragility of Goodness
(1986) which is not mentioned in the book under review but may be
accessible to English readers.
RAPHAEL GALLAGHER C.SS.R.
REVIEWS
/ RECENSIONES
627
Spiteris, Yannis, Salvezza e peccato nella tradizione orientale.
Bologna: Edizioni Dehoniane 1999, 282 p. (Nuovi saggi teologici 47).
En s’inspirant d’une homélie d’Origène sur la Genèse, Spiteris
termine son ouvrage en ces termes: “L’ascèse est comparée (par
Origène) au long et patient travail de la restauration d’une peinture.
Pour rejoindre l’image primitive d’un tableau, on a besoin d’enlever
les dépôts, les couleurs étrangères. Ainsi en est-il de l’image de Dieu
en nous. En dépit de son péché, l’homme ne peut pas détruire cette
image; ses mauvaises actions créent plutôt la superposition d’autres
images: l’image du terrestre se superpose à celle du céleste (le Christ
en nous). Avec l’aide de Dieu et moyennant l’ascèse, il faut éliminer
l’horrible image du terrestre pour libérer la splendeur du Christ”
(257). Cette paraphrase de la pensée du grand Alexandrin constitue
le résumé de ce livre qui se présente à toute fin pratique comme une
somme abrégée de la sotériologie de l’Orthodoxie gréco-russe.
Donnant la parole aux meilleurs théologiens anciens et modernes de
ces Églises de même qu’aux Pères orientaux qui les inspirent, l’auteur
traite tour à tour de la structure trinitaire de l’histoire du salut, de la
divinisation de l’homme intégral, cœur de ce dessein salvifique, de la
structure christologique et de la dimension pneumatologique du
“projet” de Dieu, du péché comme refus de la communion avec le
divin, de l’œuvre restauratrice du Christ, du rôle de Marie, de l’appropriation de la grâce moyennant les sacrements et enfin du rôle de
l’homme dans l’œuvre de son salut.
L’exposé (pourvu en finale d’un index analytique) est limpide et
riche de renseignements. Les notes sont abondantes et stimulantes.
Le contenu donne à penser, mais il n’est pas toujours convaincant.
On l’aurait en effet souvent désiré plus systématique et moins répétitif. On l’aurait aussi désiré moins ingénu eu égard au fait que bien
des données théologiques présentées ici comme des nouveautés par
rapport à la théologie occidentale font non seulement partie intégrante de cette théologie (presque sans exception pour celle des dernières décennies), mais encore sont dépassées par elle. On a l’impression que pour mieux mettre en relief l’originalité de la théologie
orthodoxe, le point de comparaison est réduit à ce que les occidentaux pensaient il y a des années. Je signale par exemple la théorie de
la “théologie juridique” empruntée plus au moins à tort à s. Anselme
de Cantorbéry (voir en l’occurrence les travaux importants de Michel
628
REVIEWS
/ RECENSIONES
Corbin) et présenté comme caractéristique essentielle et toujours
actuelle de la théologie occidentale. Les recherches récentes de
Bernard Sesboüé sur la sotériologie chrétienne (non mentionnées
par l’auteur) ont montré de façon indubitable que ce modèle a bel et
bien rendu l’âme dans la théologie occidentale contemporaine. On
aurait enfin désiré plus de précisions sur certaines affirmations théologiques de très grande portée. Pour faire bref, j’en relève une d’importance majeure pour toute saine théologie de quelque allégeance
qu’elle soit.
En se référant à s. Maxime le Confesseur, l’auteur écrit: “Bien
que l’incarnation soit liée à la divinisation de l’homme, elle ne
dépend pas dans le projet de Dieu de cette dernière; elle n’est pas un
simple instrument en vue de la divinisation de la nature humaine. Au
contraire. C’est l’homme qui, avec tout l’univers, est créé pour pouvoir rendre possible l’incarnation du Verbe” (p. 85). Je ne sais pas si
Maxime le Confesseur, si soucieux de sauvegarder l’identité de l’homme au sein même de son union avec Dieu, entérinerait ce commentaire de sa pensée. Je m’explique. S’il est vrai de dire que le Verbe/Fils
incarné a priorité sur l’homme au plan de la réalisation du plan de
Dieu en faveur de l’homme (le “vers le Christ” paulinien), n’y a-t-il
pas aussi une priorité de l’homme sur le Christ au plan de la conception de ce même projet (la divinisation cause finale de l’incarnation).
Autrement dit, si par l’amour libre et imprévisible de Dieu en faveur
de l’homme le Fils incarné est essentiellement “pro-existant”, ne fautil pas concéder à l’homme une certaine préséance? Si ce n’était pas le
cas ou si l’on concevait l’homme (et son univers) uniquement comme
condition de possibilité de l’incarnation, qu’en serait-il de la consistance propre de l’homme devant Dieu? Au grand dam d’une donnée
majeure de l’anthropologie de Maxime, ne tomberait-on pas par là
dans les travers de la “concentration christologique” du premier K.
Barth par exemple?
Même si d’autres questions de ce genre pourraient être posées, la
valeur déjà signalée de ce volume reste entière. Espérons que de
nombreux lecteurs, y compris les moralistes, sauront en profiter.
RÉAL TREMBLAY C.SS.R.
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/ RECENSIONES
629
Zuccaro, Cataldo, La vita umana nella riflessione etica. Brescia:
Editrice Queriniana 2000, 352 p.
L’applicazione delle nuove tecnologie alla medicina chiama l’etica a modificare la riflessione tradizionale e ad applicarsi anzitutto ai
problemi di fondo della vita umana. Tendezialmente, secondo
C.Zuccaro, essa diventa etica applicata, favorendo un nuovo ritorno
della casistica. La vita umana nella riflessione etica si propone, come
obiettivo particolare, di far emergere i nodi di fondo che spesso vengono tacitamente presupposti o ignorati nella discussione dei capitoli centrali dell’etica della vita. Zuccaro nella sua riflessione filosofico-teologica cerca di cogliere “ora l’insufficienza di alcune argomentazioni, ora alcuni aspetti dimenticati, ora la necessità di riaffermare prospettive già condivise” (Prefazione). Il suo metodo di analizzare e presentare gli argomenti (alcuni dei quali già pubblicati in forma
di articoli) consiste nella problematizzazione degli aspetti presi in
esame e nel tentativo di esporli in una lettura antropologica (la persona come essere bisognoso dell’atteggiamento accogliente e curante da parte dell’altro, il pianto dirotto del neonato, il rantolo cadenzato del morente), seguita dall’interpretazione etica e proiettata in
chiave teologica, che viene sottolineata, in conclusione di ogni capitolo, in un’icona presa dal vangelo.
Il volume di C.Zuccaro si struttura in sei capitoli, che prendono
in esame questioni fondamentali dell’etica della vita. Il primo capitolo offre il quadro di riferimento generale delle attuali concezioni
del vivere, dal suo nascere al morire, non dentro l’ambito di competenza della bioetecnologia applicata, ma dentro il terreno del quotidiano vissuto. Gli atteggiamenti oggi comunementi diffusi nei confronti della vita-morte sono espressi nelle visioni antropologiche soggiacenti: il miraggio dell’onnipotenza dell’uomo (homo potens), la
paura della morte che tradisce in fondo la paura della vita (homo
pavidus), l’uomo che contempla se stesso per sfuggire agli altri e che
rifiuta la morte (homo narcissus). La vera risposta alla qualità della
vita è la santità della vita umana data, come dono da accogliere
responsabilmente, dal Creatore e vissuta da Gesù come kénosis
(L’icona di Cristo, Homo Novus). Nei capitoli successivi l’autore si
addentra nelle nozioni di tempo (come rapporto con lo stesso
Infinito – il kairòs in tensione verso l’éschaton), corpo umano (come
autentico momento epifanico della persona, occasione e possibilità
di incontro), nascita, salute, malattia e morte, cercando di compren-
630
REVIEWS
/ RECENSIONES
derle nella concreta applicazione ad alcuni casi particolari (aborto,
clonazione, trapianto da cadavere, eutanasia o suicidio).
Dopo la lettura del volume mi sembra di constatare che i sei
capitoli, che avrebbero dovuto prendere in esame i problemi fondamentali della vita umana, in realtà non sono stati discussi in modo
esaustivo, come del resto segnala l’autore stesso nella prefazione; egli
infatti ha voluto indicare un metodo di riflessione piuttosto che percorrere fino in fondo la strada intravista. È per questo “piuttosto” di
Zuccaro, secondo il mio parere che, rispetto al primo capitolo, i cinque capitoli successivi siano una negazione dell’intenzione - annunciata nel I Capitolo (di riferimento generale) - di analizzare le attuali concezioni del vivere dentro il terreno del quotidiano vissuto. Il linguaggio bello e sofisticato (spesso preso da altri autori) tradisce in
verità la distanza e la lontananza dall’ospedale, dal letto del paziente
in fase terminale o del morente (come dire paura dell’homo pavidus).
Inoltre, la chiave metodologico-epistemica centrata sulla persona
intesa come essere del bisogno mi sembra un fondamento artificiale
non organicamente correlato, in quanto la riflessione risultante dalla
volontà di salvare un insieme di articoli, non impedisce a C.Zuccaro
di cadere, paradossalmente, nella parzialità e nella casistica. Ad
“appesantire la lettura” non è tanto la mancanza di precisione tecnica nel descrivere le nozioni mediche implicate nella discussione –
mancanza confessata del resto dall’autore stesso – bensì la frequenza sproporzionata delle auto-citazioni (Zuccaro da Zuccaro).
EDMUND KOWALSKI, C.SS.R.
631
Books Received / Libros recibidos
ARCHIDIOCESI DI GENOVA. UFFICIO SCOLASTICO. M. Doldi, M. Picozzi (a
cura di), Introduzione alla bioetica. Leumann (Torino): Elle Di Ci
2000, 95 p. [Con presentazione di S. E. Card. D. Tettamanzi,
Arcivescovo di Genova].
BEESTERMÖLLER, GERHARD, JUSTENHOVEN, HEINZ-GERHARD (Hrsg.),
Friedensethik im Spätmittelalter. Theologie im Ringen um die gottgegebene
Ordnung.
Stuttgart/Berlin/Köln:
Verlag
W.
Kohlhammer 1999, 100 p. (Beiträge zur Friedensethik 30).
BOMBACI, NUNZIO, Una vita, una testimonianza: Emmanuel Mounier.
Messina: Armando Siciliano 1999, 367 p.
CARLOTTI, PAOLO, Etica cristiana, società ed economia. Roma: LAS
2000, 169 p. (Biblioteca di Scienze Religiose 158).
COLOMBO, ALESSANDRO (a cura di), Primo catalogo dei documenti sociali dei vescovi italiani (1991-1997). Milano: Università Cattolica
del Sacro Cuore. Centro di ricerche per lo studio della dottrina
sociale della Chiesa 1999, 279 p. (Quaderni 7).
DOGLIO, CLAUDIO (a cura di), Cristo Omega e Alfa. Genova: Marietti
S.p.A. 1999, 492 p. (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Sezione di Genova).
DWYER, JUDITH A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints in the
Catholic Tradition. Washington, D. C.: Georgetown University
Press 2000, xiv + 210 p.
FLECHA, JOSÉ ROMÁN (ed.), 50 aniversario de la declaración de los derechos humanos. Inauguración de la cátedra “Cardenal Ernesto
Ruffini” (Salamanca, 10 de diciembre de 1998). Salamanca:
Universidad Pontificia de Salamanca 1999, 76 p. (Cátedra
Cardenal Ernesto Ruffini 2).
FRATTALLONE, RAIMONDO, L’educazione sessuale. Interrogativi e risposte
alle domande di senso sull’amore. Messina: Istituto Teologico S.
Tommaso 1999, 254 p. (Cultura e vita 3).
GAINO, ANDREA, Esistenza cristiana. Il pensiero teologico di Juan Alfaro
e la sua rilevanza morale. Roma: Editrice Pontificia Università
Gregoriana 1999, 340 p. (Tesi Gregoriana. Serie Teologia 54).
632
BOOKS RECEIVED
/ LIBROS RECIBIDOS
HOOSE, BERNARD (ed.), Christian Ethics. An Introduction. London:
Cassell 1998, 337 p.
KEATING, JAMES (ed.), Spirituality and Moral Theology. Essays from a
Pastoral Perspective. New York/Mahwah, N. J.: Paulist Press
2000, 153 p.
KEENAN, JAMES F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS Prevention.
New York/London: Continuum 2000, 351 p.
LOBO HERNÁNDEZ, ERICK, “Para que deis fruto, y vuestro fruto permanezca” (Jn 15, 16). Documentación moral de la Iglesia (EnMo).
Heredia, C. R.: Litografia Morales 1999, 460 p.
MCINERNY, RALPH M. S. L. Brock (a cura di), F. Di Blasi (trad.),
L’analogia in Tommaso d’Aquino. Roma: Armando Editore 1999,
188 p. (Studi di filosofia).
MARET, MICHEL, L’euthanasie. Alternative sociale et enjeux pour l’éthique chrétienne. Saint-Maurice: Éditions Saint-Augustin 2000,
383 p.
MERKS, KARL-WILHELM, Hacia una ética de la fe. Moral y Autonomía
(Curso de Teología Moral) = Tópicos ’90. Cuaderno de Estudios 9
(Diciembre 1999), 187 p. [Centro ecumenico Diego de Medellin].
MONTI, EROS, Alle fonti della solidarietà. La nozione di solidarietà nella
dottrina sociale della Chiesa. Milano: Glossa 1999, 532 p.
(Dissertatio. Series romana 25) [Presentazione di Ivan Fucek,
s.j.].
RUFFINI, ERNESTO. J. R. Flecha (a cura di), Fe cristiana y sociedad.
Salamanca: Universidad Pontificia de Salamanca 1998, 197 p.
(Cátedra Cardenal Ernesto Ruffini 1).
RUSSO, GIOVANNI (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica. Torino: Elle Di Ci 1999, 541 p. (Collana
“Evangelium vitae” 6).
SCHUMACHER, BERNARD N., Une philosophie de l’espérance. La pensée de
Josef Pieper dans le contexte du débat contemporain sur l’espérance. Fribourg, Suisse/Paris: Éditions universitaires de
Fribourg/Éditions du Cerf 2000, 281 p. (Études d’éthique chrétienne / Studien zur theologischen Ethik 86).
SCHWAIGER, CLEMENS, Wie glücklich ist der Mensch?: Zur Aufnahme und
Verarbeitung antiker Glückstheorien bei Thomas von Aquin.
München: Don Bosco Verlag 1999, 26 p. (Benediktbeurer
Hochschulschriften 13).
THEOLOGISCHE FAKULTÄT DER UNIVERSITÄT LUZERN. E. Christen,
W. Kirchschläger (Hrsg.), Erlöst durch Jesus Christus:
BOOKS RECEIVED
/ LIBROS RECIBIDOS
633
Soteriologie im Kontext. Freiburg, Schweiz: Paulusverlag 2000,
146 p. (Theologische Berichte 23).
TUPINI, GIORGIO, Morale e ritardi cattolici. Ragione, istinto, etiche di
turno. Roma: Gangemi 2000, 127 p. (Secolo XXI. Saggistica e
Progetti 2).
VIEIRA SILVA, RAFAEL, De Babel a Pentecostes. Um itinerário ético para a
informação planetária. Aparecida, SP, Brasil: Editora Santuário
1999, 220 p. (Coleção teológica 3).
ZUCCARO, CATALDO, La vita umana nella riflessione etica. Brescia:
Editrice Queriniana 2000, 352 p. (Giornale di teologia 269).
635
INDEX OF VOLUME XXXVIII 2000
ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII 2000
ARTICLES / ARTÍCULOS
BILLY, D. J., Models and Multivalence: On the Interaction
between Spirituality and Moral Theology . . . . . . . .
BOTERO GIRALDO, J. S., El ‘fracaso conyugal’ en una nueva
perspectiva. Breve reflexión teológica para nuestros
tiempos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FAGGIONI, M. P., La sfida del riduzionismo tecnoscientifico al progetto uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GALLAGHER, R., The Alphonsian Tradition in the Light of
Consueverunt omni tempore. The Theological
Significance of an Ecclesial Event . . . . . . . . . . . . . .
GILBERT, P., Le pardon dans la culture contemporaine . .
HAJDUK, R., Therapeutische Beichtpraxis. Eine Rückbesinnung auf die Rolle des Beichtvaters nach dem
Buch Praxis Confessarii von Heiligen Alfons Maria
de Liguori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
JÉRUMANIS, A.-M., Le défi de l’espérance aux espérances
intramondaines. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MAJORANO, S., Il confessore, pastore ideale nelle opere di
sant’Alfonso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MCKEEVER, M., Tempi, testi, tradizioni: riflessioni conclusive [al convegno “La morale alfonsiana…”]. . . .
MCKEEVER, M., The Use of Human Rights Discourse as a
Category
of
Ethical
Argumentation
in
Contemporary Culture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MERKS, K.-W., Tradition und moralische Wahrheit. Eine
Antwort an Brian V. Johnstone . . . . . . . . . . . . . . . . .
MÜNK, H. J., Sustainable Development as a Task of the
State. Ethical Aspects of Political-Legal Realisation
RAMOSE, M. B., Only the Sovereign May Declare War and
NATO as well. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
45
141
437
297
405
5
475
321
511
103
265
217
197
636
INDEX OF VOLUME XXXVIII
/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII
REHRAUER, S. T., The Injustice of Justice and the Justice
of Injustice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
TORCHIA, J., St. Augustine’s Critique of the Adiaphora: A
Key Component of his Rebuttal of Stoic Ethics . . .
TREMBLAY, R., “Hors de moi, vous ne pouvez rien faire”
(Jn 15, 5). À propos du fondement ultime de la
morale chrétienne. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
TREMBLAY, R., Le pain rompu à manger et le vin versé à
boire, visage du Crucifié ressuscité dans le temps de
l’Église. Dans le sillage de Lc 24, 13-35. . . . . . . . . . .
VIDAL, M., Rasgos innovadores en la moral de san
Alfonso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VIDAL, M., La Trinidad: origen y meta de la moral cristiana. En las huellas de San Agustín y de San
Buenaventura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONCERNING / A PROPÓSITO DE FIDES ET RATIO
LAFFITTE, J., L’agir rationnel du croyant. L’apport de
l’encyclique Fides et ratio à la théologie morale . . . .
EVENT / EVENTO
HIDBER, B., La morale alfonsiana: strumento ermeneutico per una risposta alle sfide di ieri e di oggi?
Presentazione, scopo e struttura del Convegno . . . .
TOBIN, J. W., Saluto ai partecipanti [al convegno “La
morale alfonsiana…”]. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CHRONICLE / CRÓNICA
GROS, D., Accademia Alfonsiana: Cronaca relativa all’anno accademico 1999-2000 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
REVIEWS / RECENSIONES
ÁLVAREZ VERDES, L., Caminar en el Espíritu. El pensamiento ético de S. Pablo (M. Vidal) . . . . . . . . . . . . .
BRUCH, R., Person und Menschenwürde. Ethik im lehrgeschichtlichen Rückblick (M. McKeever) . . . . . . . . . .
CARLOTTI, P., Etica cristiana, società ed economia (R.
Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
COLOM, E., RODRÍGUEZ LUÑO, A., Scelti in Cristo per essere
santi. Elementi di Teologia Morale Fondamentale
(R. Tremblay) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
229
165
381
127
347
67
523
291
287
541
577
584
587
589
INDEX OF VOLUME XXXVIII
/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII
DOGLIO, C. (a cura di), Cristo Omega e Alfa (L. Álvarez Verdes). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
DURRWELL, F.-X., Aux sources de l’apostolat. L’apôtre et
l’eucharistie (R. Tremblay). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
DWYER, J. A. (ed.), Vision and Values: Ethical Viewpoints
in the Catholic Tradition (D. J. Billy) . . . . . . . . . . . .
FABRI DOS ANJOS, M. (organizador), Teologia aberta ao
futur (J. S. Botero Giraldo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FRATTALLONE, R., L’educazione sessuale. Interrogativi e
risposte alle domande di senso sull’amore (S.
Majorano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GERARDI, R., Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini,
doni dello Spirito, virtù (E. Kowalski) . . . . . . . . . . .
HOOSE, B. (ed.), Christian Ethics. An Introduction (R.
Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
JONES, F. M. (ed.), Alphonsus de Liguori: Selected
Writings (D. J. Billy) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
KEENAN, J. F. (ed.), Catholic Ethicists on HIV/AIDS
Prevention (T. Smith) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LÓPEZ, T., Mancio y Bartolomé Medina: Tratado sobre la
usura y los cambios (L. Álvarez Verdes) . . . . . . . . . .
MERKS, K.-W., Gott und die Moral, Theologische Ethik
heute (M. McKeever) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MORENO REJÓN, F., Historia de la Teología Moral en
América Latina: Ensayos y materias (J. S.
Botero Giraldo). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
PALUMBIERI, S., L’uomo, questa meraviglia. Antropologia
filosofica (S. Majorano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RAPONI, S., Alla scuola dei Padri. Tra cristologia, antropologia e comportamento morale. Alcuni saggi (M.
Vidal) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RUSSO, G. (a cura di), Bioetica della sessualità, della vita
nascente e pediatrica (E. Kowalski) . . . . . . . . . . . . .
SCHWAIGER, C., Wie glücklich ist der Mensch? Zur
Aufnahme und Verarbeitung antiker Glückstheorien
bei Thomas von Aquin (R. Gallagher). . . . . . . . . . . .
SPITERIS, Y., Salvezza e peccato nella tradizione orientale
(R. Tremblay) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ZUCCARO, C., La vita umana nella riflessione etica (E.
Kowalski) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
637
591
595
595
597
600
601
603
605
608
610
614
616
619
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629
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/ ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII
BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS . . . . . . . . . .
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INDEX OF VOLUME XXXVIII /
ÍNDICE DEL VOLUMEN XXXVIII . . . . . . . . . . . . . . . . .
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