Corrado Sfacteria VIVA L`ITALIA! CENT`ANNI DI

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Corrado Sfacteria VIVA L`ITALIA! CENT`ANNI DI
Corrado Sfacteria
VIVA L’ITALIA! CENT’ANNI DI ORDINARIA CORRUZIONE
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA
romanzo
LibertàEdizioni
PARTE PRIMA
Quell’anno l’autunno era cominciato precocemente: un settembre piovoso e freddo seguiva ad un agosto dal sole
splendente i cui raggi penetravano profondamente sull’asfalto di catrame delle strade che diventava appiccicoso
quando il sole si trovava al culmine del suo giro, a mezzogiorno.
L’estate era finita e con essa le vacanze e bastava guardarsi attorno, dopo la pioggia, per capire che l’estate se
n’era andata. Già si sentiva nell’incedere dell’autunno, con un sole con meno calore, il tempo per i ragazzi di
ritornare a scuola: quel tempo che non sapevano sarebbe stato il migliore della loro vita.
Anche Corrado doveva tornare sul banco di scuola e si era alzato di buon’ora.
Aveva dormito poco pensando a quello che avrebbe trovato al ginnasio.
Quando era uscito di casa il cielo era tutto sereno ed il sole si alzava lentamente mentre illuminava rapidamente la
strada che conduceva a scuola.
Aveva raggiunto la via che costeggiava l’edificio scolastico e subito si rallegrò trovandosi affiancato da Salvatore
Travagliante che era stato suo compagno di scuola alle elementari.
“Eh, sì!” disse Salvatore, “adesso non abbiamo più il grembiule nero ed il fiocco rosso. Siamo studenti di
ginnasio!”
Si guardarono i vestiti che indossavano e sorrisero di un sottile compiacimento.
Non sapevano che sarebbero stati assieme, sui banchi, per otto anni, fino alla maturità classica.
Ed il momento più brutto lo avrebbero vissuto a causa della guerra, dei bombardamenti e della sconfitta.
La guerra li avrebbe costretti a custodire gelosamente l’unico vestito e l’unico paio di scarpe da utilizzare per la
scuola, per non sembrare degli straccioni.
Adesso, comunque, la loro età li portava a guardarsi intorno perché era la prima volta che imboccavano quella
strada che conduceva alla loro nuova scuola: i colori della città cominciavano a ravvivarsi e i due amici
accelerarono per paura di arrivare tardi.
Non era ancora arrivato l’uso dell’orologio da polso e gli studenti si regolavano con il sapore dell’aria del mattino
umido e fresco!
Salvatore e Corrado provavano la stessa sensazione nel ritrovarsi nella stessa classe della prima ginnasiale e si
chiesero quali sarebbero stati i nuovi parametri di riferimento.
Arrivati dinanzi alla scuola videro una folla di studenti fra i quali c’erano loro compagni delle elementari.
C’era Marletta che era vestito da balilla perché era orfano di un milite morto nella guerra d’Africa, e poi il
fascismo distribuiva gratuitamente le divise.
D’Argenio indossava una maglietta bianca su cui spiccava la scritta “GIL” in grande.
Probabilmente, fin da ragazzi, avevano imparato certi schemi comportamentali che erano tipici degli arrivisti
sotto ogni bandiera.
Fra i tanti studenti c’erano quelli vestiti con camicia, cravatta, giacca e pantaloni lunghi.
Sembravano dei professori ma erano studenti del terzo liceo.
Avevano i capelli tagliati corti perché erano avanguardisti ed il sabato sfilavano per le strade della città, con il
fucile, al rullo dei tamburi.
Da universitari molti di loro erano iscritti al “GUF” e si erano entusiasmati alla dichiarazione di guerra di
Mussolini: pochi poterono fare ritorno a casa, immolati nell’età più bella per sostenere quella parvenza di privilegi
che il fascismo blaterava di voler assicurare al popolo italiano mentre badava solo a puntellare un connubio
fascista-monarchico sulla base di chi fosse più maresciallo d’Italia.
Ma non erano certo questi i pensieri che potevano trovare spazio nella mente di un ragazzino.
Quando, in occasione del conferimento di un premio da parte del consolato tedesco agli studenti particolarmente
bravi nello studio del tedesco, dovette richiedere una divisa al responsabile della distribuzione ai ragazzi, gli
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indicò, nello scaffale, quella blu, da marinaretto, ma quello gli volle affibbiare quella di balilla moschettiere.
La mamma di Corrado colorò di blu i pantaloni per poterli utilizzare ma per la camicia nera non ci fu niente da
fare e servì solo come straccio per i vetri.
L’addetto alla distribuzione deve avere avvertito dove soffiava il vento: fece sparire tutte le divise da marinaretto
che, poi, finita la guerra, si potevano trovare adattate sui banconi degli ambulanti assieme alle camicie
confezionate con la tela dei paracadute.
Le divise da balilla, invece, erano state buttate via sulla strada e venivano raccolte dagli spazzini: qualcuno si sarà
arricchito anche con quegli stracci!
Il primo giorno di scuola iniziò con l’apertura del portone d’ingresso al trillare di un campanello.
I bidelli erano in camicia nera e, con cipiglio militaresco, smistarono gli studenti nelle rispettive aule.
Non mancavano di irrigidirsi davanti ai professori e davanti a quegli studenti di cui conoscevano i natali.
L’edificio della scuola aveva due ingressi, divisi per maschi e femmine, che si affacciavano su di una via poco
movimentata. Anche perché si preferiva costruire scatolette di lamierino da combattimento o vecchi ‘91 per
l’epopea dello sfascio e dell’arricchimento delle industrie prestate alla guerra.
L’edificio scolastico destinato a ginnasio-liceo era una costruzione solida di tre piani fuori terra ed un
seminterrato.
Lo stile si rifaceva alla tradizionale architettura formatasi alla fine dell’ottocento, severa, con avare aperture
arieggianti la caserma.
L’unico spazio libero era un cortile interno che serviva da palestra.
Non era consentito l’accesso quando nel cortile si recavano gli studenti dell’altra ala dell’edificio riservata agli
studenti dell’istituto industriale! Sembrava che il liceo-ginnasio fosse destinato ai futuri detentori del potere e che
bisognasse evitare confusione!
L’edificio sembrava progettato strategicamente apposta per una città del meridione e perciò, mentre si
realizzavano spessi muri divisori antiacustici, non era stato previsto l’impianto di riscaldamento o servizi igienici
progettati a scopo educativo.
Certamente l’edificio non rifletteva una progettazione classificabile immediatamente in un tipo predeterminato
per le esigenze e le attività delle persone cui era destinato e questo poteva significare che nello Stato unitario
trovava largo spazio una speculazione, anche a stampo mafioso, che consentisse modifiche di classificazione
urbanistica in grado di derogare alle norme antisismiche vincolanti per la città di Messina.
È da supporre che i progetti fossero stati elaborati da architetti che non avevano le stesse idee di quell’architetto
siciliano che, bloccato nella sua concezione progettuale di una Palermo capitale, aveva saputo ricavare dai
riverberi del quattrocento e dello stile normanno-moresco idee di livello internazionale, per una ricerca di uno
stile architettonico moderno come piattaforma per lo sviluppo della società.
È probabile che si è voluto risparmiare evitando le opere architettoniche nella edificazione di un edificio
scolastico; chissà se la carta canta ancora?
Alle storture del sistema e alle mire dello Stato fascista di immolare il sangue dei giovani per la grandezza della
Patria suppliva, per i giovani del liceo-ginnasio, la immaginazione alimentata dalla propaganda subdola del regime
ma, fortunatamente, anche dall’impegno nello studio dei testi scolastici.
Corrado e salvatore Travagliante furono interrogati simultaneamente dal professore di greco e nessuno dei due
sfigurò rispetto all’altro e tutt’e due riscossero l’elogio del professore.
Dal buon giorno si vede il mattino: Travagliante farà una splendida carriera ministeriale e manterrà sempre vivo il
rispetto per quei valori che rendono un uomo degno di questo nome.
Allora, tuttavia, la realtà esterna era ben diversa: la guerra si era accanita contro la città di Messina. La ferocia
degli alleati puntava solo ad un effetto psicologico e martellava con continui bombardamenti una città che, alla
fin dei conti, non aveva alcun peso strategico rilevante.
La città pativa la fame e non riusciva a rimuovere tutte le macerie ed i morti che tutti i giorni venivano ad
accrescersi per effetto di bombe micidiali anche se la città era stata costruita con tecniche antisismiche.
Ma che cosa giustificava queste distruzioni?
Una martellante propaganda fascista aveva creato il sicuro convincimento sulla legittimità del ricorso alla guerra
perché l’Italia aveva subito dei torti dopo la prima guerra mondiale che non aveva ricompensato adeguatamente il
contributo italiano alla vittoria contro le orde austro-germaniche.
La guerra sarebbe stata la giusta risposta alle sanzioni e tante amenità a consolazione del popolo dell’Impero!
Il sistema europeo del “balance of power” si era dissolto e la Società delle Nazioni pur avendo superato la
dottrina del “bellum iustum” vincolava, comunque, al consenso della comunità degli Stati la determinazione della
legittimità degli atti bellici internazionali.
Nessuno poteva immaginare che alcuni fisici avrebbero consentito l’utilizzo della energia nucleare a scopo
bellico.
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Questa rivoluzione tecnologica, comunque, consentirà di condizionare, con dei criteri distinguibili, una scelta
morale in grado di condannare la guerra come un crimine contro l’umanità.
Quando Corrado era al ginnasio, il diritto alla guerra veniva ricondotto, formalmente, a poche condizioni: la
dichiarazione di guerra doveva essere fatta dalla autorità legittima; doveva sussistere una giusta causa; il
belligerante doveva avere una retta intenzione; non vi era la possibilità di farsi giustizia con altri mezzi.
Una cosa era certa e consisteva nella implicita necessità di imporre un criterio vincolato ad una sola giustizia
obiettiva sostenuta dall’ideologia ritenuta più forte rispetto alle innocenze soggettive.
Ma c’erano innocenze soggettive o tutti coloro che esercitavano il potere ritenevano di essere titolari di una
ideologia che avrebbe realizzato prospettive di benessere al proprio popolo e alla umanità?
Come era conciliabile la loro ideologia con la Storia dei popoli?
L’Europa aveva vissuto i momenti tragici della Rivoluzione francese e il perpetuarsi del conflitto fra potere
temporale della Chiesa sovrastante il potere dei monarchi, pena la scomunica!
La rivoluzione in Russia era maturata sulla base di concezioni ideologiche che avrebbero dovuto liberare l’uomo
da Dio e dal bisogno!
L’equilibrio del mondo ha vacillato e nella confusione delle prospettive che si presentavano ai vari Stati hanno
trovato spazio ideologie totalitarie che garantivano la sopravvivenza di sistemi tradizionali capitalistici in
contrasto con ideologie totalitarie di accentramento nel partito comunista della gestione politica ed economica
dei popoli sovietizzati.
Il nazismo ed il fascismo sono stati l’antidoto meno efficace contro una ideologia aberrante come quella
sostenuta da una cultura slava e da dittature personali come quella di Stalin.
L’inclinazione del capitalismo di appoggiarsi al nazismo e al fascismo si è scontrata contro la necessità dei
dittatori fautori del nuovo ordine mondiale di offrire ai popoli da loro governati delle vittime sacrificali.
In Germania già Bismarck aveva iniziato una lotta antiebraica a matrice luterana, aveva rinunziato per l’eccessivo
peso culturale ed economico ebraico nell’organigramma prussiano.
Hitler ha ripreso la lotta contro l’ebraismo come sostegno alla sua ideologia di razza e di supremazia assoluta del
popolo tedesco.
La monarchia, in Italia, ha trovato in Mussolini l’alibi alla sua inefficienza e alla paura del comunismo. Che errore!
I comunisti italiani avrebbero difeso la monarchia meglio dei fascisti: bastava nominarli ministri! Ma avrebbero
combattuto per i russi o per i tedeschi?
Chissà! Forse…
Che visionario G.B. Vico!
Aveva creduto che lo Stato e tutte le sue istituzioni non sono una mera sovrastruttura ma rappresentano la forma
politica che la convivenza umana assume per consentire all’uomo la sua religiosità.
Che lo Stato sia un modo per dividersi meglio la torta da parte di gruppi di potere con gli occhi puntati verso la
fatica degli altri?
E la religiosità non si traduce nelle guerre?
Che stranezze! Chi governa vuole realizzare la libertà e costruisce i lager; vuole realizzare il benessere per tutti e
aumenta le tasse se si accorge che potrebbe essere acquisito; vuole fare la volontà di Dio e si nasconde dietro il
Crocefisso dichiarandosi ateo mentre concorda benefici al clero, per farsi riconoscere un’aureola di spiritualità
davanti agli occhi imbambolati del popolo!
Ma la guerra aveva provocato uno strano senso di sdegno nell’animo di Corrado non perché si rendesse conto di
che cosa significasse ma piuttosto perché si vedeva costretto, nell’età dello sviluppo, a patire la fame assieme ai
suoi famigliari e a tutte le persone oneste che non potevano comprare al mercato nero che la milizia fascista, con
la borsa, faceva finta di non vedere.
Tutte le mattine, andando a scuola, Corrado passava davanti alla panetteria e consumava una ciambella con la
crema.
All’indomani della dichiarazione di guerra che la radio aveva trasmesso con la voce tonante e ripetitiva di un
Mussolini ormai attore incallito e reso audace dalle paganizzanti parate naziste e dal piatto di patate e crauti di
autentico sapore guerriero, Corrado avvertì una strana sensazione di qualcosa che non prometteva niente di
buono.
Hitler aveva certamente capito la personalità di Mussolini e la fortuna che gli capitava di avere trovato un
assertore della supremazia della razza tedesca, al punto di utilizzare la lingua tedesca per parlare in Germania
come se fosse già la lingua internazionale destinata al mondo.
Gli italiani?
Non avevano neve sufficiente!
Eppure Hitler nel “Mein Kampf” era stato chiaro.
“Non si può condannare e maledire da lontano l’Inghilterra, l’Italia, etc. e poi non far niente contro quei briganti
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che venduti al nemico ci tolsero le armi, ci ruppero la colonna vertebrale, e ci vendettero per trenta denari il
Reich… […] non potendo stringere alleanza con l’Inghilterra, ladra delle nostre colonie, né con l’Italia, che ha
l’Alto Adige!”
Ma per Hitler, evidentemente, contava il fatto di avere trovato, in Italia, chi poteva realizzare i suoi piani e
continuava a disprezzare il popolo italiano mentre esaltava la guerra che l’Italia fascista operava contro le tre
maggiori forze ebree: il divieto della massoneria e delle sette, l’abolizione della stampa supernazionale e la
distruzione del marxismo internazionale, e di contro il rafforzamento dello Stato fascista avrebbero consentito,
nella logica della supremazia germanica, al fascismo di togliere ogni capacità decisionale al popolo italiano.
Secondo Hitler gli Stati europei erano in mano agli ebrei sia indirettamente con la democrazia mondiale, sia
direttamente grazie al bolscevismo russo.
“Ha preso nella sua rete il vecchio mondo e cerca di fare altrettanto col nuovo! La borsa americana è in mano
agli ebrei. Ogni anno controllano la produzione di 120 milioni di persone: solo pochi restano liberi a dispetto
degli ebrei.”
C’è da chiedersi se Mussolini avesse letto le farneticazioni di Hitler e avesse veramente capito in quale trappola si
sarebbe cacciato.
A Hitler interessava avere un dittatore che realizzasse i suoi obiettivi che principalmente riguardavano la
persecuzione degli ebrei e la supremazia delle sue idee portate fino alle estreme conseguenze.
Mussolini era il dittatore giusto perché aspirava al trono e solo Hitler glielo poteva asscurare: il dittatore
travicello!
Ma perché Hitler aveva preso il potere?
Parecchi fattori ed elementi non ben definiti vi ebbero un ruolo, oscure forze sotterranee derivanti dalle
condizioni nazionali e sociali tedesche ed europee che tuttavia non possono essere equiparate alla storia tedesca.
Il regime nazionalsocialista tedesco (1933-1945) fu caratterizzato da un veloce processo di soppressione e
coordinamento di tutte le forze e istituzioni politiche, sociali e culturali.
La presa di potere fu effettuata con successo nello spazio di cinque mesi, e molto più nettamente che non
nell’Italia fascista nell’arco di sei anni.
Hitler nel 1934 ottenne il completo appoggio dell’esercito dopo una sanguinosa purga del partito e delle
organizzazioni militari del partito, le SA.
Hitler divenne dittatore unico e questo fatto agiva da stimolo al culto della sua personalità fatto proprio da
Mussolini.
Posizioni ideologiche determinanti oltre la ricerca di una egemonia tedesca in Europa, condivise dall’Italia
fascista, furono il razzismo e l’antisemitismo.
Il prezzo pagato da questa ideologia fu altissimo: più di 6 milioni e mezzo di tedeschi uccisi, il doppio di
profughi.
Ma il bilancio europeo fu ancora più tragico: i nazisti sterminarono più di sei milioni di ebrei, la Francia ebbe
circa ottocentomila vittime, e la Gran Bretagna circa quattrocentomila, almeno venti milioni furono i morti in
Russia, quattro milioni e mezzo in Polonia.
Non meno tragica è stata la sorte riservata dal fascismo all’Italia.
Il 22 giugno 1941, in piena guerra mondiale, Hitler iniziava l’operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica.
Questo piano era stato tenuto nascosto a Mussolini per impedirgli di intervenire.
In due settimane dodici armate tedesche di tre milioni e cinquantamila uomini sfondavano lo schieramento
sovietico formato da quattro milioni e seicentomila uomini e stanziato su un fronte lungo 1600 chilometri dal
Baltico al Mar Nero.
Mussolini piuttosto che ragionare sulle batoste in Grecia ed in Africa e invece che pensare alla necessità di
rafforzare le truppe in Africa settentrionale insistette, dopo avere anche lui dichiarato la guerra all’URSS.
Gli alti comandi tedeschi al pari dei comandi militari italiani nutrivano una reciproca diffidenza.
Il 3 aprile 1941 il segretario degli esteri del reich Ernest von Weizsacker scriveva che “il miglior servizio che
potrà fare l’alleato italiano è di starsene fermo.”
Il Corpo di spedizione italiano in Russia, CSIR, dimostrò immediatamente di non essere all’altezza della
situazione sia come qualità che come quantità di armamenti e mezzi di trasporto: i carri armati erano inadeguati
alle caratteristiche rotabili, l’artiglieria era preda bellica austro-ungarica e i cannoni erano veterani della guerra
italo-turca e della prima guerra mondiale.
L’esercito russo, a sua volta, era ancora impreparato e orientato alla difesa ad oltranza.
Questo fatto rese possibile ad italiani e tedeschi di occupare Kiev e fare seicentomila prigionieri.
Ma la caduta di Kiev spinse l’Alto comando sovietico a decidere per una strategia del ripiegamento e nello stesso
tempo ad assalti inaspettati della disperata resistenza siberiana e dall’aiuto del terribile inverno russo.
Mussolini restava sordo ai continui rapporti del generale Messe: le truppe non avevano più viveri, mancavano di
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scarpe adeguate ed erano logorati nel fisico.
Nell’estate del ‘42 al CSIR si unirono altri due Corpi d’Armata: si costituiva l’ARMIR che appariva ancora più
disorganizzata ed inadeguata dello stesso CSIR.
Ancora una volta Messe parlò chiaro sulle sorti della guerra e ancora una volta Mussolini che disse:
“Caro Messe, al tavolo della pace peseranno assai più i 200 mila dell’Armata che i 60 mila del CSIR.”
Mussolini continuava a sognare e seguiva alla lettera le direttive del Führer.
Ed ecco arrivare alla ritirata di Russia quando le truppe furono attaccate da orde di sovietici.
Erano truppe scarsamente motorizzate e quelle alpine che avrebbero dovuto essere impiegate nelle montagne del
Caucaso furono attestate lungo il fiume Don a difendere un fronte di 270 km.
Quando tra il dicembre del 1942 ed il gennaio del 1943 si scatenò la grande offensiva dell’Armata rossa, i reparti
italiani furono investiti in pieno dall’urto degli attaccanti e inferiori per numero e per mezzi, non sostenuti
dall’arrivo di rinforzi, furono costretti in più punti a soccombere.
Mentre le divisioni di fanteria (Ravenna, Pasubio e Torino, a nord, Sforzesca e Celere a sud), poterono ritirarsi
entro i primi di gennaio, il corpo d’armata alpino (Julia, Tridentina e Cuneense) che aveva respinto tutti gli
attacchi sferrati nel suo settore, ricevette l’ordine di ripiegare solo il 15 gennaio 1943, quando era ormai
completamente accerchiato dai sovietici.
Dovette quindi aprirsi la strada della ritirata combattendo e marciare per centinaia di chilometri nelle terribili
condizioni climatiche dell’inverno russo.
Di 229.000 uomini inviati in Russia, 29.690 furono rimpatriati perché feriti o congelati.
Dei rimanenti, i superstiti furono solo 114.485. Mancarono all’appello 84.830 uomini di cui 10.030 furono
restituiti dall’URSS. Il totale delle perdite ammontò a 74.800 uomini.
Più i nostri arrancavano tra la neve ed il ghiaccio in una ritirata che sembrava non avere mai fine, più si sfinivano
nel fisico e nel morale, e agli incalzanti assalti sovietici da tergo, nulla potevano più opporre se non la fuga
disperata.
A metà gennaio avvenne sul Don lo sfondamento definitivo e anche il corpo d’armata alpino e la divisione
Vicenza, ultimi baluardi italiani ancora praticamente intatti, si sfasciarono.
Ma dovettero aspettare a lungo nelle loro posizioni perché l’ordine di ripiegamento, che doveva provenire
direttamente dagli alti comandi tedeschi, tardava.
Il corpo d’Armata alpino avrebbe potuto avere ben altra sorte se l’ordine di ritirata fosse stato impartito
tempestivamente, mettiamo la sera del quindici gennaio o anche del sedici: sarebbero bastate ventiquattro ore di
più.
È evidente che gli alti comandi tedeschi pensarono di rallentare ed intralciare l’avanzata dei sovietici lasciandosi
alle spalle, indietro di giornate di marcia, le divisioni italiane, due delle quali ancora fresche ed integre, ma
sprovviste di mezzi di trasporto veloci.
È dunque sicuro che coloro che soltanto il diciassette gennaio ordinarono agli alpini di iniziare la ritirata, non
potevano non essere consapevoli di emanare una sentenza di morte contro le decine di migliaia di uomini che
costituivano il meglio del corpo di spedizione italiano in Russia.
Nel dicembre del 1942, dopo diciotto mesi di silenzio, Mussolini si era rivolto al popolo italiano per pronunciare
quello che la stampa del regime definì uno “storico rapporto”.
Dopo un violento attacco a Roosevelt e a Churchill traccia un bilancio dei costi fino ad allora pagati dall’Italia nel
conflitto: parla di 40.000 caduti sui vari fronti, di 200 morti nei bombardamenti delle città, di alcune decine di
abitazioni distrutte, di 232.000 prigionieri e di 37.000 dispersi.
Ma come è stato possibile per il fascismo vivere e lottare in una atmosfera continua di crisi.
La subordinazione delle rivendicazioni sociali alle rivendicazioni nazionali appare come quello che sia stato lo
strumento più efficace per proporre alle masse la proroga dell’era del benessere imponendo la loro mobilitazione
permanente in una disciplina di tipo più bellico che militare.
Questa mobilitazione è il germe negativo del fascismo, il detonatore che prima o poi ne provocherà l’esplosione.
La coscienza della tragedia finale è presente nel sistema fascista anche nel momento dell’effimero trionfo etiopico
donde un senso di religiosità negativa.
Sempre di più si manifestava il solco fra il popolo italiano senza distinzioni di classi sociali ed il regime che
cominciava a sgretolarsi.
Certamente erano gli adulti ed in particolare gli ex combattenti della prima guerra mondiale quelli che si
rendevano conto del triste destino che sarebbe spettato alla loro Patria.
Nell’isolato dove abitava Corrado, molti si radunavano presso la portinaia ad ascoltare la radio.
La portinaia era l’unica a possederla visto che veniva ricompensata per i servigi di informatrice ai membri
dell’Ovra sulle opinioni dei singoli inquilini del condominio.
Attività che veniva ampiamente sfruttata pro o contro inquilini in base a simpatie, a mance, o antipatia per civile
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riservatezza.
Ironie della società! Una portiera semi-analfabeta consentiva all’appuntato che doveva chiedere informazioni di
decidere se una persona era abbastanza onesta, buona o cattiva rispetto ai parametri accettabili dalle convergenti
culture semianalfabetiche.
E questo ruolo continuò ad essere garantito alle portinerie e affini anche dopo la caduta del fascismo e la paura
del comunismo sovietico di Palmiro.
Pio XII nel messaggio natalizio del 1942 esortava a lavorare per la costruzione di un nuovo ordine sociale che
tenesse conto della necessità di difendere i diritti della persona e della libertà.
Era una netta presa di posizione in netto contrasto con le parole d’ordine del nazismo e del fascismo.
Ma non era chiaro quali dovessero essere i diritti della persona ed in che cosa dovesse consistere la libertà!
Che già Pio XII avesse impostato quale doveva essere la Costituzione della Nuova Italia?
Chiaroveggenza o temi politici sempre collaudati dalla matrice cristiana del perpetuarsi nella Fede?
All’atto della dichiarazione di guerra da parte del Duce dell’Impero oltre alla delusione di non poter accedere
all’acquisto di una radio per Corrado, adesso si aggiungeva la delusione di non vedere nella vetrina della
panetteria le solite ciambelle.
Il negozio del panettiere si trovava lungo la strada che Corrado doveva percorrere per andare a scuola e come al
solito Corrado entrò nel negozio convinto che le ciambelle fossero ancora da sfornare e ci rimase male quando,
avendone chiesta una al fornaio, si sentì rispondere che da quel giorno era tutto tesserato.
S’era dimenticato di dire che chi aveva quattrini avrebbe potuto comprarsi i soliti cannoli e babà ma non in
pasticceria.
Corrado non vide più niente in vetrina e finì con il non vedere più il fornaio che richiamato in marina fu uno dei
primi a morire a Punta Stilo.
I fornai fecero presto ad adeguarsi al tesseramento. Il pane non sapeva di niente e la farina aveva imparato a
viaggiare con altri ingredienti avidi di acqua.
La guerra fornì preziosi circuiti di arricchimento per coloro che, diversamente da Nino, il fornaio di Corrado,
erano riusciti ad evitare di finire nelle forze armate perché dovevano panificare.
La battaglia di punta Stilo venne chiamata dagli inglesi “battaglia della Calabria” e il comportamento dei marinai
italiani fu tenuto in altissima stima.
Inigo Campioni, comandante della flotta italiana, aveva scortato un convoglio in Cirenaica e Cunningham,
ammiraglio della flotta inglese, aveva deciso di intercettare ed impegnare in combattimento gli italiani mentre
facevano rotta per il rientro.
Supermarina era venuta a conoscenza che gli inglesi stavano procedendo in direzione delle coste calabre con
impudenza veramente riprovevole e quindi diede ordine a Campioni che affrontasse la flotta nemica vicino alle
coste italiane perché così avrebbe avuto il massimo appoggio dalla aviazione.
Tutta la notte le due formazioni navigarono, casualmente, verso il punto del fatale appuntamento.
I marinai tacevano e guardavano il cielo stellato e le luci ancora lontane della costa.
Il primo attacco, violentissimo, venne dagli aerosiluranti inglesi e si risolse con un lancio dei loro siluri che
riuscirono a colpire mortalmente solo un caccia.
Furono gli incrociatori Zara e Trieste ad avvicinarsi per primi al nemico e riuscirono a colpire l’incrociatore
inglese Neptune.
Ecco che cominciarono ad impegnarsi le corazzate, i giganti del mare, ed i loro spaventosi boati vennero uditi da
tutti gli abitanti della costa.
La corazzata Giulio Cesare venne colpita ma riuscì ad allontanarsi dal vivo della lotta, protetta da una cortina
fumogena.
Anche l’altra corazzata italiana, la Cavour, si allontanò perché rimasta sola poteva diventare facile preda delle tre
corazzate inglesi.
Sul mare era scesa una impenetrabile, pesante cortina di fumo grasso e nero nel quale gli avversari distinguevano
a fatica le proprie unità.
I cacciatorpediniere italiani si spinsero in avanti.
Era la prima volta nella storia delle battaglie navali che l’Italia e l’Inghilterra si scontravano con le loro flotte.
La successione dei fatti diventava frenetica perché ogni colpo di quelle formidabili navi poteva far saltare in aria
l’altra con tutto il suo equipaggio.
Gli inglesi disponevano anche di una portaerei la cui potenza di fuoco era inaudita e di notevole mobilità.
La flotta italiana era, comunque, in vantaggio di forza e di numero rispetto alla flotta avversaria e tuttavia la
battaglia rischiò di concludersi con un vero disastro per gli italiani che videro le loro unità attaccate dalla loro
stessa aviazione.
Erano le nove di sera ed il buio, nonostante la serata estiva del nove luglio 1940, era profondo: c’era foschia ed
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era impossibile scorgere con esattezza le navi sulle quali continuava a stendersi la cortina di fumo.
Le bombe furono sganciate ad intuito sulle navi che procedevano in quella bolgia.
Andare allo sbaraglio o allontanarsi per recuperare visibilità?
Per le due flotte rimaneva poco da scegliere.
La flotta inglese si allontanò e la flotta italiana che, ovviamente, sarebbe stata la più interessata a riproporre il
contatto, la imitò, per altra strada, diretta in Patria.
C’era stato un grande spreco di munizioni e soprattutto per i nostri marinai non avere potuto, in circostanze
favorevoli, prevalere sull’avversario.
“Non ci venne in soccorso neppure un caccia”, dirà l’ammiraglio Campioni nel periodo del processo, in altre
circostanze che lo portarono dinanzi al plotone d’esecuzione, “e pensare che Supermarina mi ha ordinato di
affrontare il nemico dinanzi alla Calabria per consentire alla nostra aviazione di farne una strage!”
L’ammiraglio Inigo Campioni fu l’ultimo governatore italiano del possedimento italiano delle isole Egee.
Nel Dodecaneso si occupò principalmente della condotta militare ma non potette attuare alcun disegno
offensivo perché lo stato delle forze italiane non lo consentiva.
In pratica solo l’Aeronautica effettuò bombardamenti ed aerosiluranti contro i convogli alleati.
Nei primi mesi del 1943 cominciarono ad affluire nell’isola di Rodi contingenti germanici che presto formarono
la divisione corazzata “Sturm Rodos”.
In realtà i tedeschi, comandati dal gen. Kleeman, stavano attuando il piano Achse, concepito da Hitler e dal suo
Stato Maggiore per neutralizzare l’Italia in caso di sua uscita dal conflitto.
Alle ore 19 dell’8 settembre 1943, il comunicato radio di Badoglio veniva captato anche a Rodi cogliendo
impreparati i vertici militari e le truppe.
Seppure con l’attenuante di essere abbandonato a se stesso e senza ordini chiari dal Comando supremo, l’analisi
psicologica delle azioni del governatore Campioni rivela che egli non fu sostenuto da una lucida e consapevole
visione degli eventi, dei rapporti di forza e della corretta valutazione dei rischi e delle opportunità.
Campioni si rese ai tedeschi.
Finì, il 24 maggio del 1944, assieme al contrammiraglio Mascherpa, che aveva difeso con determinazione la
piazzaforte di Lero contro i tedeschi, ed altri ufficiali davanti ad una corte composta da aderenti al ricostituito
partito fascista di Parma che li condannò alla fucilazione.
Agli ammiragli Campioni e Mascherpa, figure di notevole spessore morale che sostennero il processo e la
condanna a morte del regime di Salò con dignità ed onore, furono concesse le medaglie d’oro al Valore Militare.
Rifiutarono la benda e vollero guardare in faccia il plotone, composto da ragazzi di 17-18 anni, un istante prima
della scarica mortale gridarono “Viva l’Italia!”
Mascherpa riposa al Sacrario militare di Bari.
Erano tutti questi eventi che rimanevano lontani dalla quotidianità di ragazzi dell’età di Corrado anche se
cominciava a presentarsi un aspetto reale della guerra: la morte!
Corrado seppe della morte di Nino, il fornaio, qualche giorno dopo la battaglia di Punta Stilo.
Il retrobottega, che faceva da abitazione, era pieno di gente ed ognuno che passava scrollava il capo e diceva a
voce alta: “Povera Adelina! Il figlio che nascerà sarà senza padre!”
Gli amici le portavano qualcosa com’era l’uso: uova, frutta ed ogni cosa di cui potessero privarsi.
Il suocero era venuto con una gallina in mano. “Prendi, Adelina”, diceva, “che devi stare in forze per il figlio di
mio figlio. Avrei voluto trovarmi io al posto suo perché almeno non avrei fatto danno a nessuno.”
Adelina, seduta sul bordo del letto, con la faccia nelle mani, continuava a singhiozzare: si sentiva il cuore che le
sbatteva e voleva scappare dal petto. Aveva appena vent’anni ed era già vedova di guerra e in attesa di un figlio!
Era difficile consolarla ed anche Corrado, quando si trovò in quella stanza in cui era entrato incuriosito dal
vociare di tutta quella gente, non riuscì a dire neanche una parola e fece presto ad allontanarsi dopo avere
mormorato un saluto.
Dalle varie voci aveva appreso che Nino era imbarcato su di un caccia come meccanico fuochista.
Stava in caldaia, davanti al frontale, a controllare la pressione e gli altri due fuochisti spalavano carbone nei forni,
quando un siluro inglese, lanciato da un aereo, era entrato nel locale caldaia.
Lo avevano visto penetrare la paratia come fosse di cartone ed incastrarsi tra la pompa di alimentazione ed il
condensatore, tra spruzzi di acqua di mare e getti di vapore da una tubatura rotta.
Non era esploso e non sapevano cosa fare.
Erano terrorizzati dalla paura perché la gente di macchina oltre a soffrire il gran calore dei forni e la fatica di
spalare carbone, se la nave affondava, aveva poche possibilità di salvarsi: salire in coperta dal locale caldaia del
cacciatorpediniere significava aprire quattro porte stagne e risalire cinquanta gradini di ferro.
Era una paura diversa e peggiore di quella dei nocchieri di servizio in plancia o dei mitraglieri che almeno
vedevano l’aereo picchiare verso di loro.
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Già nella pancia della nave non si distinguevano i rumori delle cannonate amiche da quelle degli inglesi.
Nino e i due fuochisti guardavano a bocca aperta il siluro inesploso.
Poi videro sbucare dalla sentina due topi che si lanciarono verso la scaletta nel disperato tentativo di raggiungere
il ponte di coperta. I topi conoscono sempre in anticipo il momento in cui la nave affonda.
“Devono essersi sbagliati!” aveva detto un fuochista.
In quel momento esplose un siluro, questa volta nella attigua sala macchine.
Chiusero gli occhi e d’istinto li ripararono con le mani.
Uno dei fuochisti li riaprì sott’acqua, a trecento metri dal caccia che affondava spaccato in due, senza sapere
come fosse l’unico marinaio di macchina sopravvissuto.
Era andato a trovare Adelina che aveva voluto sapere tutti i particolari di quei momenti, la assaliva un’angoscia
nell’ascoltare ed ogni parola si spegneva solo con le lacrime.
Adelina non si risposò ed allevò da sola il figlio maschio chiamato con il nome del padre.
Il piccolo Nino cresceva robusto ed era scuro di pelle e di capelli come suo padre.
Corrado, quando l’incontrava, non riusciva a conciliare il concetto di morte con la guerra: tale concetto gli
riusciva astratto.
Probabilmente, pensava, il fornaio, finita la guerra, tornerà a casa.
“Ecco”, si diceva Corrado, “quando sarà finita la guerra, Nino vedrà suo figlio andargli incontro.”
Epicuro aveva sentenziato che quando c’è la morte noi non ci siamo, quando ci siamo noi, la morte non c’è. Se
Nino poteva vedere suo figlio non doveva essere morto!
Sartre considerava la morte come un puro fatto, come la nascita.
Essa viene a noi dall’esterno e ci trasforma in esteriorità.
In fondo essa non si distingue in alcun modo dalla nascita ed è l’identità della nascita e della morte che noi
chiamiamo fatticità.
La morte non concerne l’esistenza umana e se, in ogni caso, costituisce una possibilità esistenziale, sarebbe una
possibilità della impossibilità, affermava Heidegger.
Essa non offrirebbe niente da realizzare all’uomo e niente che possa essere come realtà attuale.
Ogni possibilità non è necessariamente la morte che diventa, perciò, la nullità possibile di ognuna e di tutte le
possibilità esistenziali, alle quali non poteva essere negata quella dell’incontro di Nino con Adelina e il figlio.
Ma la guerra non era solo morte!
Bisognava sopravvivere ed affidare la propria esistenza alle alterne fortune di un tagliando della tessera
annonaria.
Lunghe code cominciarono a formarsi davanti alle botteghe di generi alimentari.
Corrado andava a fare la spesa presso lo stesso negozio di prima della guerra.
Era di donna Flavia una vedova con un figlio.
Il negozio l’aveva ereditato dai genitori assieme al forno.
Il marito l’aveva lasciata per un’altra donna e non c’era giorno che donna Flavia non lo maledisse.
Conoscendola bene non si poteva biasimare la scelta di quel marito per una esistenza più libera dalla costante
ricerca di un profitto spesso disonesto al quale era stata educata donna Flavia da genitori che avevano fatto i
commercianti in una città distrutta dal terremoto.
Donna Flavia, prima della guerra, era piena di gentilezze formali che cedevano sempre più ad atteggiamenti di
arroganza man mano che la guerra andava avanti.
Il suo era diventato un atteggiamento prepotente e, spesso, tagliava qualche tagliando in più dalla tessera non
compensato dall’equivalente quantità di alimento correlato al tagliando.
Approfittava del fatto che era difficile fare gestire la tessera da un altro bottegaio anche perché essendo la sua
clientela formata da stipendiati riscuoteva a fine mese e ciò consentiva a donna Flavia di presentare un conto
manipolando sui prezzi per risultare sempre creditrice e vincolando la clientela al proprio credito.
Era estremamente difficile tenere il passo con la contabilità non solo perché la verifica delle oscillazioni del
calmiere dei prezzi tesserati poteva coinvolgere la milizia fascista ma anche perché le continue veglie dentro il
rifugio antiaereo non consentivano di mantenere una lucidità diversa da quella tesa a rifugiarsi al suono della
sirena.
La bottega di donna Flavia aveva l’ingresso principale su una strada principale che era diventata molto ampia da
quando era stato ricoperto il torrente che vi scorreva al centro.
I marciapiedi erano alberati e consentivano un agevole percorso pedonale.
Erano molti i negozi prospicienti lungo i marciapiedi e fra questi i più attivi erano quello del fruttivendolo e del
pescivendolo con annesse vasche del baccalà e dello stoccafisso.
Il negozio di donna Flavia, che era ubicato ad un angolo dell’edificio, aveva anche un ingresso secondario da una
piccola piazzetta dalla quale partiva una scalinata che conduceva verso la collina dove c’era, fra l’altro, anche il
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forno di donna Flavia.
Nei seminterrati del palazzo, molti locali servivano da deposito di derrate tipo zucchero e caffè che astuti
commercianti avevano provveduto ad accantonare, ai primi segnali del conflitto, per immetterle nel mercato
privato.
Altri locali ospitavano, con canone d’affitto senza luce e senza acqua, famiglie di senza tetto o di famiglie che
volevano sentirsi più al sicuro alloggiando vicino al ricovero antiaereo.
In uno di questi alloggi precari si erano installate una donna di mezz’età e una giovane appariscente che
presentava come sua figlia.
In tempo di guerra è facile arrivare a delle conclusioni maliziose in considerazione del fatto che certi
comportamenti si realizzano senza rispetto per la sensibilità degli altri per non definirla morale pubblica già
sacrificata sull’altare della guerra.
L’alloggio delle due donne, comunque, si prestava ad essere considerato equivoco in considerazione del fatto che
era abbastanza frequentato da persone diverse di sesso maschile.
Si era sparsa la voce che le due donne fossero dedite al mercato nero piuttosto che al meretricio.
Una volta che Corrado si trovò a passare davanti al negozio di donna Flavia, generalmente con la saracinesca
abbassata per riposo pomeridiano, vide che donna Flavia chiudeva la porta del negozio senza abbassare la
saracinesca ed usciva per recarsi, quasi furtivamente, nell’abitazione delle due donne. Subito dopo giungeva un
uomo che Corrado aveva già visto nel negozio: un napoletano, che prestava servizio militare nella sussistenza.
L’impressione di Corrado era stata di un probabile legame sentimentale di donna Flavia con quel napoletano ma
da certi discorsi smorzati Corrado aveva capito che donna Flavia si era messa anche in affari poco chiari con quel
napoletano.
Molto probabilmente l’impulso sessuale della vedova si era gradualmente esaurito dinanzi al pericolo di doverlo
associare definitivamente nel suo commercio di generi alimentari anche se sottratti alle forze armate.
Qualcosa deve essere accaduto visto che quella donna di mezz’età cominciò ad essere assidua nel negozio di
donna Flavia: scrutava con sufficienza quelli che acquistavano a credito e che, a suo dire, erano beneficiati dalla
bottegaia per il fatto stesso che aspettava la fine del mese per essere pagata.
È da ritenere che si fosse consolidata una società fra le due donne per smerciare zucchero e caffè rubato dai
sacchi ammucchiati a quintali dai commercianti all’ingrosso nei cantinati confinanti con l’alloggio della confidente
di donna Flavia.
Difficilmente avrebbero potuto accorgersi dell’ammanco data la grande ed enorme quantità di sacchi.
Le frequentazioni di donna Flavia presso l’alloggio della donna di mezz’età e di sua figlia erano divenute una
consuetudine e donna Flavia aveva preso l’abitudine di intrattenersi nel negozio anche di notte per essere vicina
al ricovero, come ci teneva a precisare, di tanto in tanto, rivolta a qualche cliente chiacchierone, ma a voce alta in
modo che la sentissero tutti.
Donna Flavia era rimasta scottata dalle faccende di cuore e sembrava avesse rinunziato alla vita amorosa a
vantaggio della attività commerciale.
Si era sposata giovanissima con un bell’uomo che l’aveva abbandonata con un figlio.
Donna Flavia aveva concentrato tutta la sua vita nell’ambizione di non badare a spese per crescere il figlio.
Il marito era morto, poco dopo averla abbandonata, di polmonite ma donna Flavia era convinta che il suo santo
protettore, Antonio, fosse intervenuto, in qualche modo, per esaudire le sue implorazioni: “Se non è mio… non
deve essere di nessuna!” Era stata esaudita.
“Sei ancora piena di risorse” le ripeteva Clelia, la donna di mezz’età esperta abbastanza nella adulazione
interessata, “non devi rinunciare!”
Donna Flavia cominciò a confidarsi con quella amica che aveva saputo coinvolgerla.
Rallentò le sue frequentazioni nell’alloggio di Clelia perché sua sorella era venuta ad abitare nel piano terra, nello
stesso edificio.
Il proprietario era un ingegnere che abitava nell’attico.
La sorella di donna Flavia aveva tre figlie ed avrebbe tanto desiderato che il figlio dell’ingegnere avesse
corteggiato una di esse, la più grande.
Faceva dei sacrifici per mantenerle agli studi ma non se ne faceva accorgere ed il loro comportamento era
improntato a tanta prosopopea degna di miglior causa.
Il marito aveva cominciato con un chiosco per la vendita e riparazione di penne stilografiche e accessori di
cartoleria.
La guerra gli aveva consentito di realizzare la sua ambizione di diventare proprietario di un vero negozio di
cartoleria e materiale per gli uffici.
Conosceva a perfezione i depositi dei grossisti di tali materiali ed approfittando della loro assenza dalla città per i
bombardamenti e del fatto che le saracinesche erano state divelte dalle vicine esplosioni, trasferì quanto più
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potette di materiale nel magazzino di sua sorella, nell’entroterra, e l’eccedenza da smerciare subito,
nell’abitazione.
Si riprometteva, man mano che saltava qualche saracinesca, che avrebbe riconsegnato tutto ai legittimi grossisti di
cui era cliente.
Alla fine della guerra i grossisti preferirono farsi indennizzare dallo Stato avanzando crediti per importi superiori
al reale valore della merce distrutta dalle bombe.
Ed il titolare del chiosco pensò bene di fare contratti con uffici pubblici e privati che avevano pressante bisogno
di materiale di cartoleria.
Aveva appena finito di arredare il negozio allestito in locali che aveva acquistato, con un appartamento per
abitazione, in un edificio ubicato nel viale principale della città quando, uscendo dal negozio, venne investito da
un’auto e morì sul colpo.
Donna Flavia parlando del cognato si commuoveva.
“La sorte avversa colpisce gli onesti”, diceva, “meno male che ha lasciato mia sorella e le tre figlie sistemate. Non
avesse comprato il palazzo dove c’è il negozio, adesso sarebbero in mezzo ad una strada o nell’alloggio di quel
rimbambito dell’ingegnere e di quell’antipatico di suo figlio. E vedeste che materiale di lusso in quel negozio e
com’è rifornito! Meno male che mia nipote ha preso dal padre! Ha avuto l’esclusiva della fornitura di timbri,
macchine da scrivere, materiale di cartolibreria e quant’altro per gli uffici del Comune. Si è iscritta anche ad un
partito politico e sono sicura che diventerà assessore!”
Per quanto la riguardava più direttamente, donna Flavia aveva rinunziato a legarsi con un altro uomo e tornò a
dormire nella casa in collina vicino al forno.
Nel negozio comparve un uomo sulla cinquantina, brizzolato, coi capelli lisci ed impomatati.
Era magrolino, di bassa statura, l’ossatura traspariva dall’esile pelle pallida, ravvivata da una peluria scarsa e nera
resa evidente dai peli che il rasoio non riusciva a radere.
Si chiamava Spampinato ed era stato primo commesso in un negozio di abbigliamento distrutto dalle bombe, nel
viale alberato.
I suoi gesti erano misurati e vestiva con eleganza anche se era sempre lo stesso abito.
Teneva fra le labbra una fogliolina di menta che, da tempo, doveva aver preso il posto della sigaretta.
Spampinato dava tono al negozio di donna Flavia: era cordiale con tutti e si dava da fare come se il negozio fosse
suo mentre godeva solo del vitto, che donna Flavia cucinava anche per lei nel retrobottega.
Povero Spampinato!
Chissà quali fantasie gli saranno passate per la testa! Avrà pensato è vedova… forse? Chissa?
Certamente donna Flavia non gli permetteva di interessarsi delle sue faccende personali ed evitava di leggere, nel
negozio, le lettere che riceveva dal figlio che studiava in un istituto fascista, a Roma.
Spampinato, comunque, non faceva mancare la sua collaborazione e si diede da fare per riuscire a rifornire il
negozio della pasta che altrimenti avrebbe preso la via della clandestinità se non fosse riuscito a prelevarla
direttamente dal pastificio che era rimasto privo di mezzi di trasporto.
Il pastificio aveva avuto già dei problemi quando il camionista era stato richiamato alle armi, così quando il
camion si era guastato e non si era trovato un meccanico che lo riparasse in tempo per la consegna della pasta ai
negozi.
A ciò si aggiunga che una volta era mancata la benzina e un’altra volta era stata affondata la nave con il carico di
farina.
Spampinato aveva rimediato un carretto e, facendosi aiutare da Corrado, era andato a caricare su quel carretto i
sacchi di pasta che spettavano ai tesserati di donna Flavia.
Un giorno Corrado non vide Spampinato nel negozio e donna Flavia, alla quale aveva chiesto notizie, gli disse
che era ammalato.
Passarono un paio di giorni e donna Flavia chiese a Corrado di portare un cestino con del cibo a Spampinato: gli
indicò la strada da percorrere e le caratteristiche dell’alloggio.
Era una villa, poco distante, i cui proprietari erano sfollati.
La villa era stata colpita dalle bombe e si era salvato solo un locale che i proprietari avevano dato come alloggio a
Spampinato perché sorvegliasse quello che era ancora rimasto ed ancora recuperabile.
Il giardino era pieno di macerie: a terra c’erano caschi di banane mature attaccati alla palma divelta.
Vicino al muro di cinta era rimasto un vano che, probabilmente, serviva per gli attrezzi del giardino.
La porta era stata fatta con delle tavole inchiodate alla bell’e meglio e da lì Corrado si sentì chiamare da
Spampinato che aveva sentito dei passi.
Spampinato era a letto pallido e con il viso scavato: fra le labbra aveva la sua fogliolina di menta.
“Donna Flavia le manda questo cestino”, disse Corrado cercando di mantenersi allegro.
“Si è degnata”, fece Spampinato, “dopo una settimana che le ho fatto sapere di essere ammalato. Non fosse stato
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per mio cugino che è stato il custode di questa villa e che mi sta assistendo, potevo anche morire che a donna
Flavia non sarebbe importato niente!”
“Hai visto Corrado”, continuò Spampinato con gli occhi lucidi dalla febbre, guardando il soffitto di tavole senza
intonaco che lasciavano filtrare la calda luce del sole del mezzogiorno, “io mi sono dato tanto da fare per il
negozio onestamente come se fosse stato mio, per rispetto della gente. In vita mia non avrei mai immaginato che
esistessero persone così aride, senza cuore come donna Flavia ed è inutile che mi vengano a dire che questo è il
commercio. Il commercio non c’entra: non specula sul peso, non truffa la gente!”
Corrado guardava Spampinato e non riusciva a capire perché donna Flavia si fosse disinteressata della condizione
così irreale eppure così tragicamente vera di una brava persona che l’aveva aiutata nel negozio in momenti di
vero bisogno per l’approvvigionamento dei generi alimentari.
Non potette fare a meno di commuoversi e di augurare al povero Spampinato una rapida guarigione.
Raccolse il casco di banane, lo lavò ad una fontanella che gocciolava ad un lato del giardino e lo ripose vicino al
letto di Spampinato che si era assopito.
Spampinato non tornò più da donna Flavia: era morto: povero Spampinato!
La guerra ed i bombardamenti, intanto, non accennavano a finire.
Le persone comminavano per strada come inebetite.
D’altra parte se si ragionava sull’accanimento degli alleati contro la città di Messina veniva da ritenere che c’era
un odio particolare contro i suoi abitanti per il fatto che avevano osannato il Duce ed i fascismo.
Da un punto di vista militare lo stretto era più per scappare dall’isola che non per fare arrivare rinforzi da
mandare in Africa separata dal Mediterraneo.
Si voleva fare sfoggio di aerei o accontentare qualche speculatore edilizio che voleva arricchirsi avendo fatto
esperienza con la ricostruzione dopo il terremoto?
La guerra continuava e gli anglo-americani non bombardavano solo nelle ore notturne ma facevano incursioni
nelle ore più imprevedibili tanto che parte della popolazione aveva scelto il ricovero antiaereo come propria casa
e solo i più temerari si allontanavano per il tempo sufficiente per cucinare qualcosa da portare ai propri famigliari
rimasti nel ricovero.
La galleria utilizzata da questa gente era lunga parecchi chilometri: a ciascun lato c’erano dei locali di più vani che
si succedevano ad intervalli regolari ad un lato della stessa.
Erano locali destinati a diverse utilizzazioni che andavano dalla ubicazione dei gruppi elettrogeni all’infermeria.
Era un rifugio abbastanza sicuro, a prova di bombe ma certamente molto vulnerabile rispetto alla necessita di
doversi assicurare la possibilità di sedersi su di una vera sedia piuttosto che sul pavimento del ricovero.
Ma quello che non poterono le bombe lo procurò l’utilizzo insensato di una sedia!
Proprio poco dopo l’ingresso della galleria, come era chiamato il ricovero, si ebbero duecento morti quando,
inciampando nella sedia che si portava dietro, un tale fu travolto da una calca di gente, stordita dal suono
continuo delle sirene d’allarme, che finì con lo schiacciarsi uno sull’altro fino a soffocare.
Era il terzo allarme che si succedeva nella mattinata. A brevi intervalli.
Durante il primo allarme, mentre correva con i suoi genitori verso il ricovero, poco distante dalla sua casa,
Corrado era stato colpito al capo da una piccola scheggia che era residuata alla esplosione di qualche proiettile
sparato dalla batteria contraerea disposta su una collina sovrastante proprio la zona del ricovero.
Era stato trattenuto nell’infermeria del ricovero in attesa del farmacista che fungeva da medico.
Si venne a trovare fra un accorrere di persone che chiedevano aiuto per quelli che si erano ammassati travolti
dalla calca.
Il farmacista era stato trattenuto all’ingresso e si sentì rabbrividire guardando quelle facce dal colorito bluastro,
con il collo gonfio e le palpebre che sporgevano come noci dagli occhi.
Aveva allertato la croce rossa per sgomberare l’ingresso da tutti quei cadaveri.
Man mano che si procedeva alla identificazione il medico dettava al milite: “Morte da immobilizzazione toracica.
Si rilevano ipostasi e colorito cianotico nel territorio tributario della vena cava superiore.”
Si scrissero duecento nominativi e sempre la stessa causa di morte.
Poi si udirono le sirene del cessato allarme e grida della gente “Hanno colpito le case di via Finzi! La cattedrale è
stata distrutta dalle bombe incendiarie! Abbiamo abbattuto una fortezza volante!”
La notizia più brutta fu quella che riguardava il crollo di un vecchio ricovero che non era stato ancora collaudato
ma che veniva utilizzato dagli abitanti della zona che erano troppo distanti dal ricovero principale e lo ritenevano
più sicuro delle loro abitazioni che risentivano ancora degli effetti del terremoto.
Nell’apprendere che era stato colpito quel rifugio, Corrado corse con la mente al forno di donna Flavia che si
trovava proprio lì vicino e, non rendendosi conto degli effetti reali della bomba sulle persone presenti nel
ricovero, si preoccupò per il forno.
Anche se tesserato e in quantità inadeguata, il pane rappresentava una risorsa alimentare indispensabile visto che
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tutto il resto non veniva distribuito regolarmente ed erano spariti anche i cereali destinati dai cocchieri ai loro
quadrupedi.
Qualcuno vedendo i sacchi di cicerchia destinata agli equini, ormai quasi spariti dalla circolazione, fece il conto e
dedusse che, in fin dei conti, se nutriva senza danno i cavalli, doveva fare meglio agli umani che l’avrebbero cotta.
Ben presto la cicerchia scomparve dal mercato: quando il negoziante, infatti, si rese conto della importanza della
sua cicerchia si premurò di immetterla nel mercato nero come cerale di lusso.
Fu la preoccupazione per il forno che spinse Corrado a correre verso il ricovero crollato.
Raggiunse via Finzi, dove c’era anche il forno di donna Flavia, e vide che dal fumaiolo del forno usciva il fumo
delle fascine che bruciavano per dare la temperatura in grado di cuocere l’impasto pesato per ogni panino
tesserato.
Accelerò il passo. “Cos’è successo?” chiese al fornaio con il poco fiato che gli era rimasto.
Il fornaio, che era intento a mettere altre fascine dentro al forno, gli disse che era stato colpito il ricovero che era
dall’altro lato della strada e, senza togliere gli occhi dalla bocca del forno, aggiunse che erano state colpite anche
due palazzine.
“Sembra ci siano stati molti morti! Ma visto che sei qua”, concluse, “fermati ad aspettare il pane, quando sforno,
così lo porti a donna Flavia.”
C’era da aspettare e Corrado volle andare a vedere la zona colpita dalle bombe: c’era molta confusione fra tutte
quelle macerie, i pianti, i militi dell’Unpa ed i soldati di una vicina caserma che scavavano per rimuovere le
macerie che ostruivano l’ingresso e parte del rifugio.
Man mano che si aprivano dei varchi, Corrado potette vedere dei cadaveri, qualche viso sfasciato ed un ventre
che lasciava scorgere la testolina di un feto che non era riuscito a respirare.
Si allontanò frastornato: era realtà o stava sognando?
Tornò in fretta dal fornaio che aveva già preparato il cesto con il pane e glielo caricò sulle spalle.
Non era un gran peso. L’odore del pane appena sfornato concentrò tutti i pensieri di Corrado.
La bottega di donna Flavia distava circa un chilometro da percorrere tutto in discesa lungo una scalinata che
faceva sobbalzare il cesto.
Corrado raggiunse in un baleno il negozio di donna Flavia: aveva cancellato quello strazio che aveva visto.
Non si rendeva conto di quanto si fosse depositato per sempre nel suo subconscio pronto ad emergere nel corso
della sua vita.
Donna Flavia era sola e stava accendendo un lumino dinanzi alla immagine del suo santo protettore.
A chi e a che cosa era collegata la sua supplica?
Non appena vide la cesta con il pane si rallegrò e “Bravo Corrado! Ti sei preoccupato di portare il pane”, disse,
accarezzandolo. “L’hai fatta di corsa, vero?” Era un modo per sincerarsi che non fosse stato possibile trovare il
tempo per mangiare qualche panino non tesserato.
Corrado annuì con il capo. Al momento non aveva capito ma non potette rispondere perché era rimasto senza
fiato dopo quella pericolosa corsa lungo la scoscesa e diseguale scalinata di pietre.
Aspettò che la bottegaia gli pesasse il pane per la sua famiglia ma donna Flavia era intenta a contare i panini e
tergiversava perché aveva già deciso di sfruttare la disponibilità di Corrado chiedendogli di consegnare il pane a
quei suoi clienti che al momento le tornavano utili.
“Bravo Corrado!”, riprese a dire, “fammi il piacere, come se tu fossi mio figlio, di portare il pane a quel
professore del primo piano di quest’isolato e all’avvocato del secondo. Li conosci, vero? Mi hanno chiesto di te
perché ti considerano un ragazzo perbene e generoso.”
Corrado prese i due pacchetti con il pane e corse subito a consegnarli per tornare al più presto per il proprio
pane.
Era lusingato che quelle due persone così importanti, molto istruite, avessero espresso degli apprezzamenti
lusinghieri nei suoi confronti, ma non era soddisfatto della perdita di tempo anche se ormai aveva capito che
sarebbe stato inutile ribellarsi perché donna Flavia l’avrebbe ricattato ritardando la consegna del proprio pane,
fino a che avesse ancora avuto bisogno di lui.
Ahi! Ahi! Donna Flavia!
Ma era solo lei a sfruttare i minori o ci si era messo di mezzo anche Mussolini?
La situazione, in città, diventava sempre più pesante: era difficile avere quella quantità minima di alimentazione
che impedisse quel continuo deperimento organico che lasciava trasparire le ossa.
Chi possedeva qualcosa che avesse valore, infatti, lo svendeva per acquistare generi alimentari.
Hitler e Mussolini avrebbero detto che gli aerei che sganciavano le bombe erano pilotati da ebrei!
Quanta speculazione!
Donna Flavia, in quel periodo, riuscì ad acquistare un grande appartamento sopra il negozio e si ripromise di
acquistare tutto il palazzo, approfittando delle difficoltà economiche dei proprietari.
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Aumentò di cinquanta grammi il peso che, con esperta maestria, riusciva a mettere sotto la carta quando pesava
le derrate alimentari.
Erano frequenti le proteste di chi, ad un controllo, a casa, riscontrava che il peso non era giusto.
“C’è tanta gente”, diceva donna Flavia, “che mangia o perde per strada quello che compra e per giunta ha delle
bilance non tarate come quelle dei commercianti.”
Poi, quando restava sola, aggiungeva olio nel bicchiere con lo stoppino acceso davanti all’immagine del santo e
supplicava: “Sant’Antonio, lo sai, gangrena nelle budella a questa gente!”
Per un paio di giorni non ci furono altre incursioni aeree. Poi come volessero divertirsi ripresero incessantemente
ed improvvisamente di giorno e di notte impedendo che arrivassero munizioni alle batterie antiaeree che
tacevano lasciandoli indisturbati a sorvolare la città indifesa.
Poi si sparse la notizia che il nemico era sbarcato a Cassibile per iniziare l’invasione di tutta la Sicilia.
Un’ala della palazzina dove abitava Corrado era stata occupata dal comando tappa.
Si vedeva un andirivieni di motociclette delle staffette militari e si coglieva nel loro comportamento che stava
succedendo qualcosa di molto drammatico.
In città c’erano ancora molte truppe tedesche bene armate, con la divisa che avevano quando erano andate in
Africa con Rommel. Le staffette italiane erano armate con un piccolo mitra che portavano di traverso, sul petto.
Ad un motociclista della Folgore che era arrivato al comando tappa Corrado chiese il nome dell’arma. “È un
mitra Beretta!” rispose il militare.
Dalle cucine del comando tappa arrivava l’odore della salsa che avrebbe condito la pastasciutta.
Dalle finestre a piano terra, spalancate, si potevano vedere grosse forme di parmigiano e pile di scatolette di carne
e bidoni di latte condensato.
Sembrava quasi che i militari delle retrovie, nella logica del regime, avessero bisogno di essere ingrassati per poter
sostituire con adeguata forza i commilitoni che sostenevano l’attacco nemico e, stante l’esperienza, avevano poca
probabilità di scampo e quindi bastavano le gallette!
A Corrado non passò minimamente per la mente che tutto quel ben di Dio, sottratto alla popolazione civile, non
sarebbe mai arrivato ai combattenti. Non sapeva di sussistenza ed altro.
Pensava che era giusto che i soldati che difendevano la Patria avessero almeno il diritto di morire a pancia piena,
avevano il diritto di consumare quel ragù che profumava stranamente di pace anche se erano di guerra i discorsi
che facevano i cucinieri che si attardavano, quando uscivano nel cortile, proprio sotto la camera di studio di
Corrado.
Erano discorsi poco entusiasmanti che compiangevano, visto che ormai era chiaro che la guerra era persa, quei
soldati che eroicamente avevano combattuto assieme ai camerati tedeschi contro il nemico.
“È stato più per onore di bandiera!” aveva detto uno dei cucinieri e l’altro aveva aggiunto che l’avversario era
troppo forte e che sarebbe stato meglio non affrontarlo in una guerra impossibile da vincere contro gli Stati Uniti
d’America.
Peccato che Mussolini non avesse imparato l’inglese invece del tedesco dei crucchi di Trento: avrebbe capito che
non si scherza coi capitalisti!
In Sicilia erano sbarcati dal mare e dal cielo!
La storia non aveva mai visto una invasione così imponente.
Ai tiri di appoggio ai mezzi da sbarco avevano aggiunto colpi di mano da parte di reparti speciali.
In quella metà di luglio del 1943 in cui il sole brucia e l’uva nei tralci diventa miele che incolla le mani di chi
raccoglie lo zibibbo, la colonna Ronco, nella piana di Solarino, in Sicilia, venne a trovarsi tra il fuoco di una
divisione britannica e quello di una divisione corazzata americana in avanzata nell’entroterra.
L’epilogo fu questione di ore per la preponderante forza nemica contro il 75° Rgt. della Divisione Napoli che,
oltretutto, aveva subito delle perdite durante la marcia di trasferimento.
Un sottotenente catanese, unico superstite della sua batteria, si era fatto servente del 75/18” in funzione
anticarro, sacrificando la sua giovane vita per proteggere la ritirata.
Non ebbe il tempo di vivere l’esperienza del “Regno del Sud” che aveva continuato a mandare le cartoline di
chiamata alle armi per le classi di leva attraverso i distretti militari.
Il colonnello Ronco, genovese, fu messo a capo dei distretti: non esitò a fare fucilare giovani siciliani che non si
presentarono perché convinti che la guerra, ormai, non riguardasse più la Sicilia occupata dagli angloamericani.
Mentre, anche in seguito dello sbarco a Cassibile, tedeschi ed italiani combattevano per contrastare l’invasione,
nella città di Messina, dove viveva Corrado, era difficile conoscere con precisione cosa avveniva nel lontano
territorio del siracusano.
Le sirene dell’allarme continuavano a tormentare la popolazione che doveva correre verso il ricovero per evitare
gli effetti del bombardamento da parte degli americani.
Durante uno degli ultimi allarmi, mentre Corrado ed i suoi famigliari correvano verso il ricovero, un rombo
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assordante li costrinse al alzare lo sguardo verso il cielo che rifletteva l’argenteo luccichio di un impressionante
numero di fortezze volanti, allineate come vagoni di un treno.
Il rombo diventava sempre più intenso mentre si succedevano nella scia di luce che lasciavano dietro di loro.
I militi della contraerea dovevano essere ammutoliti visto che non ebbero il coraggio di sparare neanche un colpo
che avrebbe fatto individuare la postazione.
Alcuni soldati tedeschi che giungevano verso il ricovero si addossarono d’istinto al muro di un edificio.
C’era paura o coraggio nei loro freddi occhi?
Era una bellissima giornata di sole e non venne più voglia di nascondersi sotto la volta affumicata di una galleria
ormai infestata da pulci e pidocchi in attesa della preda.
Molta gente era uscita da quella galleria e si era messa a guardare il cielo noncurante dei pericolosi raggi del sole.
Sembrava che tutti quegli aerei rassicurassero piuttosto che incutere ancora paura. Non avevano sganciato
bombe!
Nessuno si azzardava in commenti che potevano fare intervenire la polizia fascista.
Anche se poteva nascere il presentimento di una incognita che certamente non poteva essere più dolorosa di
quello che si stava vivendo, l’Italia era sempre in guerra contro i suoi nemici e Mussolini aveva garantito la
vittoria e il dominio del mondo.
Donna Flavia aveva smesso di mettere il peso sotto la carta specie quando arrivava un finanziere che abitava, in
affitto, in una casetta di donna Flavia vicina al forno.
Donna Flavia diventava pallida, si agitava ed aumentava l’olio nel bicchiere.
Un giorno, non appena il finanziere fu uscito dalla bottega con il suo pacco della spesa, donna Flavia commentò
mentre continuava a servire il cliente con cui aveva confidenza: “E pensare che erano vicini di casa! Ammazzare
per un paio di scarpe mentre c’è tanta gente che ruba ben altro!”
Donna Flavia girava la testa verso il Santo e dalla espressione si capiva quale fosse la sua supplica.
A guerra finita il finanziere venne trasferito e capitava che donna Flavia si lasciasse andare a raccontare il fatto del
finanziere.
“Gli alleati” diceva, “erano prossimi ad entrare in città.”
Erano stati trattenuti dalla caparbietà di un ufficiale che, da solo, con una mitragliatrice sbarrava il passaggio
dall’unica strada di accesso.
Il suo sacrificio fu inutile perché gli inglesi, dopo una ricognizione aerea che aveva riferito che si trattava di un
solo uomo a bloccarli, fecero presto a neutralizzarlo.
In quei pochi giorni che mancavano alla occupazione della città, si verificarono episodi di saccheggio di depositi
militari e privati da parte di individui non più trattenuti dalle forze dell’ordine che si erano ridotte di numero e,
oltretutto, non si azzardavano ad intervenire anche se era stato dichiarato il coprifuoco.
Non mancò il saccheggio dei vagoni ferroviari fermi nella stazione detta della piccola velocità anche se si
scorgeva del fumo proveniente da focolai d’incendio.
C’erano vagoni carichi di munizioni ma anche quelli con ogni ben di Dio: barattoli di burro, di carne, scatoloni di
gallette, sacchi di farina, di pasta, di riso e tanto vestiario militare.
Tutta roba che era destinata a sostenere le truppe italiane per contrastare gli invasori.
Gli aerei inglesi avevano bombardato le linee ferroviarie e i treni non avevano potuto proseguire per raggiungere
la città più vicina al fronte.
Nei pressi della stazione, ben distanti dagli effetti di una prevedibile esplosione dei vagoni carichi di esplosivi, si
erano appostati alcuni finanzieri.
Intimavano l’alt a chiunque transitasse in loro vicinanza e se si trattava di qualcuno che aveva prelevato
indebitamente, anche se a rischio della vita, scatolame e qualcosa di commestibile, procedevano al sequestro.
Proprio il giorno prima dell’arrivo degli alleati e della stessa esplosione dei vagoni, intimarono l’alt ad una donna
che proveniva, dall’altro lato della strada, di buona lena anche se con la fatica di reggere una sporta che doveva
essere abbastanza pesante.
Essendo sorda la donna, che oltretutto non li aveva visti perché erano abbastanza defilati rispetto all’altro lato
della strada, non si fermò e un finanziere, certo stressato dagli eventi, fece fuoco, fulminandola.
Era proprio il finanziere cliente di donna Flavia e quella donna era una sua vicina di casa.
Nella sporta c’erano delle scarpe militari oltre ad alcune scatole di burro.
Probabilmente la donna aveva pensato a suo figlio mentre si riforniva di quelle scarpe.
Quasi contemporaneamente allo sparo del finanziere si verificò l’esplosione dei vagoni con le munizioni.
Crollava il ponte della ferrovia e lo spostamento d’aria aveva costretto i finanzieri ad allontanarsi da quella zona
che, già da tempo, era stata evacuata dagli abitanti perché la maggior parte degli edifici era stata distrutta dalle
bombe anglo-americane.
Il finanziere venne a conoscenza della donna uccisa solo l’indomani quando sul posto venne inviata
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un’autoambulanza.
È da dire che rimase abbastanza scioccato e bastava guardarlo bene negli occhi per capire come su di essi fosse
sceso un velo di intima tristezza.
Aveva chiesto perdono al figlio della donna e si era prodigato per fargli trovare una sistemazione.
L’unica strada possibile era stata quella di trovargli un lavoro nelle cucine degli americani, visto che il ristorante
dove lavorava come garzone non era agibile per mancanza di generi alimentari.
Quel giovane aveva diciassette anni e finì con l’indossare la divisa dell’esercito italiano avendo ricevuto la
cartolina per il servizio di leva dal distretto militare ancora attivo in quella città della Sicilia liberata.
Lo colpì un tiratore tedesco mentre partecipava ad un assalto all’abbazia di Cassino.
Corrado sentì parlare di Cassino, per la prima volta, nel negozio di donna Flavia.
Era venuta a trovarla la fidanzata del figlio di donna Flavia.
Era proprio di Cassino dove il padre aveva un albergo che era stato colpito dai carri armati americani ma i muri
stavano ancora in piedi.
“L’albergo di mio padre è morto in piedi, come san Benedetto”, concludeva la giovane con un punto d’ironia,
dopo avere descritto i drammatici fatti di Cassino.
L’avanzata alleata in Sicilia aveva costretto i tedeschi ad imbarcarsi per la Calabria.
Nonostante le incursioni degli aerei inglesi riuscirono a raggiungere la costa senza perdite di uomini e di materiali:
era stata la perizia dei mezzi navali italiani a consentire loro la traversata.
Dalle coste calabre spararono con estrema precisione contro quegli edifici che gli alleati avevano scelto come
sede dei loro comandi, con tanto di bandiera…
Una scheggia di quei proiettili eternò il sonno di un poveretto che dormiva sui gradini antistanti l’ingresso di una
chiesa, quella della Madonna della Mercede.
I tedeschi proseguirono la loro ritirata per attestarsi su di un nuovo fronte che comprendeva anche Cassino e la
sua abbazia.
Nonostante l’armistizio siglato dal nuovo governo italiano con gli alleati, a Cassibile, i soldati italiani vennero
trattati da prigionieri di guerra e maltrattati per costringerli ad eseguire lavori stradali.
Con la riattivazione dei distretti militari, furono in parte congedati ed in parte trattenuti in servizio.
Il comando dei distretti spettò a quel colonnello genovese, Ronco, che aveva comandato il reggimento contro gli
inglesi a Solarino.
Per i giovani siciliani la guerra doveva considerarsi persa e finita.
Ma c’era sempre il re stavolta a sud e il comandante dei distretti non mancò di applicare il codice militare di
guerra adesso che l’Italia aveva dichiarato guerra agli ex camerati e alla Repubblica fascista di Mussolini, al Nord.
In Sicilia tutto era cominciato il tre luglio quando erano cominciati quei bombardamenti incessanti che avevano
distrutto migliaia di aerei negli aeroporti e avevano affondato quattro delle cinque navi traghetto che erano ferme
agli approdi.
Il mattino del diciannove luglio era stato bellissimo e tutti erano in stato d’allerta, pronti a respingere qualsiasi
attacco.
A mezzogiorno sorse un vento freddo, fuori stagione, di nord-ovest, che continuò ad accrescersi ed il mare era
diventato tanto grosso che nessuno avrebbe potuto azzardare uno sbarco.
I movimenti delle navi nemiche partite da Malta, da Bengasi, da Biserta e la concentrazione di militari angloamericani in Egitto avevano creato la convinzione che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia.
Il maltempo aveva fatto sfuggire la maggior parte dei convogli nemici all’avvistamento da parte dei ricognitori
italo-tedeschi.
Era stata la fase lunare sfavorevole che aveva convinto gli italiani, in allarme da molte notti, a ritenere che,
almeno quella notte, con quel tempo impossibile, lo sbarco non ci sarebbe stato.
Ma il maltempo si attenuò durante la notte e fu solo risacca quella che accolse le truppe di quell’impressionante
sbarco anfibio.
Gli apparecchi americani sganciarono troppo presto gli alianti con gli uomini avio-trasportati e molti di essi
annegarono in mare.
L’operazione di sbarco, tuttavia, procedette con rapidità.
La fine delle ostilità in Sicilia fu questione di circa un mese ancora.
L’otto settembre del 1943, alle ore diciannove, dalla radio di Roma, venne trasmesso l’annuncio del maresciallo
dell’impero, Badoglio, che era stato firmato l’armistizio.
Per le strade della città cominciarono ad ammucchiarsi divise fasciste buttate dalle finestre.
Non c’erano divise da marinaretto.
C’era ancora la GIL ma adesso distribuiva le divise da boy-scout e responsabile era sempre lo stesso di prima che
salutava con tre dita senza piegare troppo il braccio per non creare equivoci.
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Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, il 25 luglio 1943, Vittorio Emanuele fece arrestare Mussolini e mise al suo posto
il piemontese Badoglio.
Il re e Badoglio pensarono bene, per paura dei tedeschi, di lasciare Roma e, a bordo di una nave da guerra,
raggiunsero Brindisi nella zona già occupata dagli angloamericani.
Veniva riproposto l’assetto costituzionale del Regno d’Italia con capitale prima Brindisi e poi Salerno.
Da radio Bari, il 10 settembre, il re annunciava: “Per il supremo bene della patria che è stato sempre il mio primo
pensiero e lo scopo della ma vita, e nell’intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato
la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della capitale e per potere pienamente assolvere i miei doveri di
re, col governo e con le autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale.”
Era nato il Regno del Sud che dichiarava guerra alla Germania e relegata dagli alleati al semplice ruolo di
cobelligerante rendendo vane le speranze di sfuggire alle clausole di resa incondizionata dell’Italia: era il 13
ottobre 1943.
Al fronte, a fianco dei nuovi alleati, furono inviati i primi raggruppamenti dell’esercito regolare, anche con i
giovani della leva obbligatoria.
I soldati italiani schierati a fianco degli alleati saranno poi riuniti nel corpo italiano di liberazione (CLN).
In mano tedesca, con il rischio di essere fucilati come traditori, erano rimasti 700.000 soldati italiani che non
avevano voluto aderire alla repubblica sociale.
Era anche questo il motivo per cui in molte località del centro-nord d’Italia molti soldati combattevano o
avevano combattuto contro i tedeschi.
Nel nord, il lungo periodo di lotta clandestina e di organizzazione della resistenza armata aveva portato, da una
parte, ad alcune larghe correnti dell’antifascismo che guardavano allo Stato del Sud al governo di sei partiti,
costituitosi a Roma con la formula dell’unità nazionale pensando ad una restaurazione prefascista, ma, dall’altra
parte, ad altre correnti che volevano uno Stato nazionale fondato sulla negazione degli istituti politici sia fascisti
che prefascisti.
I comitati di Liberazione dovevano essere e funzionare come le cellule organiche di questa formazione politica.
Nel 1945, quindi, non si è conclusa la storia del fascismo recente ma anche di quello meno recente anzi lontano e
remoto ma presente in tutta la storia italiana: finisce la storia di una classe politica e non la storia d’Italia.
L’8-5-1946 Vittorio Emanuele III lascia il trono al Principe Umberto che lo può occupare solo dal 9-5-1946 al 26-1946.
Viene proclamata la Repubblica Italiana!
Il referendum aveva dato alla Repubblica questo responso: il 64,8% di voti favorevoli nell’Italia settentrionale, il
63,5% nella centrale, il 32.6 % nella meridionale, il 36% in quella insulare.
La Corona, all’atto della proclamazione dei risultati, accennò a resistenza, un gesto del Sud sarebbe bastato ad
annullare tutto lo sforzo compiuto, ma la Corona, pure appoggiata dall’esercito e dai circoli di corte, che
comprendeva anche elementi della magistratura centrale, non ebbe il coraggio di chiederlo e le popolazioni di
Napoli e di Sicilia non ebbero l’iniziativa di offrirlo.
Ma per Corrado, che viveva in quella città siciliana dello stretto che aveva di fronte un’Italia coinvolta in una
guerra fratricida e con un nemico ancora non ben definito, non era più possibile ricreare una qualsiasi normalità.
La presenza delle truppe di occupazione con le loro am-lire, la loro propensione al divertimento e alle donne
rendeva torbida l’atmosfera e manteneva un clima di avvilimento in quella società che cercava di salvare quei
valori che avevano resistito anche alla propaganda fascista.
Non era normalità assistere al ritorno dei soldati che erano stati internati nei campi di prigionia degli angloamericani che, da nuovi alleati, se ne sbarazzavano.
Indossavano una divisa color terra su cui spiccava una scritta in bianco “WP”, prigioniero di guerra.
Questa divisa, anche se senza la scritta, diventò quella dell’esercito italiano, quasi a ricordare che l’avevamo
meritata.
Corrado non rimpiangeva certo le inaccettabili fasce dei soldati ma non accettava quella divisa che non
apparteneva alla tradizione dell’esercito italiano.
Aveva visto suo padre con la divisa da ufficiale dell’esercito italiano e vi aveva colto tutto il significato di Nazione
e di Patria.
Si rendeva conto che il vestiario dei combattenti non poteva continuare ad essere quello dei soldati che avevano
conosciuto le trincee ma cercava di immaginarsi in divisa ed avrebbe dovuto fare capire che era alle armi come
italiano vestito con stoffa italiana senza poter essere confuso con gli altri.
Fantasticava pensando a come avrebbero dovuto essere le divise dei soldati europei.
Alla fine doveva convenire che è più importante dimostrare di saper fare il proprio dovere piuttosto che
nascondersi dietro un’uniforme e dei gradi che, spesso, gratificano i peggiori.
Avrebbe accettato la scelta del ministro della difesa, Tanassi, di scegliere un vestiario nuovo per i militari
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dell’esercito ma non ritenne di doverlo fare per paura di sollevare una indagine per eventuali nuovi problemi di
interessi da aggiungere a quelli sbarcati dagli aerei.
Aveva vissuto gli episodi di violenza che si manifestavano nella sua città e sentiva dai vari commenti non più
soggetti a censura che i partiti cercavano consensi anche sobillando le classi sociali più emarginate non badando
alle conseguenze sul disordine sociale che avrebbe colpito il ceto medio che era stato l’unico ad avere sofferto
durante la guerra mentre gli emarginati si erano dati al mercato nero e al contrabbando delle sigarette d’accordo
con gli alleati.
Il disordine sociale trovava sfogo nel saccheggio dei magazzini di alimentari e continue scorribande nelle
proprietà private. Protagonisti erano sempre gli stessi individui che abitavano in precisi rioni della città.
Certamente avevano molte caratteristiche in comune con quei soldati americani che s’imbarcavano per la
Calabria e nell’attesa giocavano a dadi.
Riusciva difficile credere che cittadini semi-analfabeti avessero acquistata tanta padronanza dell’americano da
intendersi perfettamente.
Non si poteva fare a meno di considerare che una emarginazione sociale è premeditata per escludere dal profitto
e dalla esistenza dignitosa senza tener conto che, spesso, l’emarginato è più intelligente di chi lo emargina. La
società diventerebbe più ricca se rifiutasse qualsiasi emarginazione in base a pregiudizi di classe!
Corrado, un giorno, assistette all’assalto di un magazzino proprio vicino a casa sua.
Un gruppo di persone, uomini e donne, aveva divelto la saracinesca e si era sparsa nei locali dove erano
ammucchiati in grande quantità generi alimentari: cominciarono a riempirsi la borsa di ogni cosa da consumare,
spinti dalla fame, e che difficilmente avrebbero potuto comprare.
L’abolizione della tessera annonaria aveva fatto salire alle stelle i prezzi degli alimentari senza che gli
amministratori del Comune, probabilmente consigliati dai soliti ignoti, avessero tenuto conto del potere di
acquisto di tutti.
Questo, tuttavia, non giustificava il saccheggio anche se occorreva tener presente che nessuno aveva insegnato al
popolo come protestare.
Per il governo l’unica strada possibile era quella di impedire che avvenissero saccheggi e violenze!
Arrivarono le camionette della celere: era la prima volta che la polizia entrava in funzione con decisione dopo
una stasi per colpa degli alleati che minacciava una epurazione per coloro che avevano collaborato
eccessivamente con il regime.
Evidentemente la polizia nel suo insieme aveva fatto solo il proprio dovere come avviene in tutte le polizie del
mondo e diventò impellente il loro intervento per l’ordine pubblico.
Un gruppo di celerini cominciò a fare sfollare i locali, riuscì ad effettuare pochi sequestri perché i più avevano
raggiunto in fretta le loro abitazioni, nelle vicinanze, trasportando la merce anche con dei carrettini.
Nei locali erano rimasti i più violenti che furono neutralizzati dalle manganellate e messi in fuga da una raffica di
mitra Beretta sparata in aria.
Era stato un altro siciliano, il ministro Scelba, a capire che era importante ristabilire un ordine per impedire che
nell’isola con la scusa del comunismo la lotta di classe potesse diventare guerra civile.
Una valvola di sfogo era anche il movimento separatista che essendo interclassista unificava sotto comuni
prospettive ed interessi.
Rimane il fatto che dopo quell’intervento della polizia cessarono tutti gli episodi di saccheggio.
Alcuni, spavaldamente, presero a canticchiare “Bandiera rossa” e a minacciare “Ha da venì baffone!”
I prezzi rimasero alti e ai saccheggi subentrarono gli scioperi e i caroselli della celere dove erano stati arruolati
poliziotti di diversa estrazione sociale.
I partiti facevano una continua propaganda e, almeno all’apparenza, i contrasti fra di loro erano difficili da
superare così come la divisione tra il comunismo e la democrazia.
La casa del fascio aveva cambiato nome ed era diventata la sede della federazione comunista con un suo federale.
Erano esposte molte bandiere rosse perché, con le elezioni, l’Italia aveva fatto del partito comunista il più
importante del mondo occidentale.
Era importante perché si sosteneva con diverse posizioni politiche che trovavano, però, una coerenza nella
determinazione di fare anche dell’Italia un paese satellite dell’URSS a sistema totalitario marxista comunista e
nella esaltazione della figura di Stalin.
Il PCI faceva parte della internazionale comunista e contemporaneamente era una componente importante del
sistema politico italiano che non aveva possibilità di assumere una precisa posizione a difesa della civiltà
occidentale perché gli eventi legati alla lotta di Liberazione avevano creato nelle masse italiane il convincimento
che il loro avvenire avrebbe trovato un migliore futuro nella attuazione della elaborazione socio-economica
formulata seguendo le direttive del regime sovietico.
Figura importante del PCI era il segretario Togliatti che, tatticamente, aveva introdotto un comportamento
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pragmatico per mitigare davanti all’opinione pubblica fatti come quelli dell’Ungheria e altri episodi di violenza
della Unione Sovietica che, sfortunatamente per il PCI, si verificavano in concomitanza con le elezioni politiche
in Italia.
Togliatti s’era visto costretto a prendere posizione a favore del MEC giustificando questa anomala posizione
politica dichiarando che i comunisti avrebbero indirizzato la sua attività verso una più rapida omogeneità con i
paesi dell’Est.
Si diceva che il PCI venisse a godere dell’import-export dell’Italia con l’Unione sovietica per la intermediazione
obbligatoria che era garantita al partito comunista.
Questo, tuttavia, sembrava non distogliesse il PCI dal rafforzare “gruppi di interesse economico-finanziario del
sistema italiano” consentendo, in nome del marxismo, l’appoggio alla speculazione dei capitalisti italiani in
collaborazione con i paesi del blocco comunista.
Era il grande abbraccio fra gli industriali capitalisti e il partito comunista che così inseriva i suoi quadri
nell’ambito del potere reale con la prospettive di governare l’Italia, pur mantenendo l’aspetto formale della
conflittualità.
Per mantenere il controllo della classe lavoratrice del Nord il partito comunista fomentava il loro dissidio con gli
immigrati o lavoratori del Sud. In grande risalto venivano messi i sacrifici che gli operai veri delle fabbriche del
Nord, salvate dalla furia nazista, dovevano affrontare per convivere con la impreparazione e la fame degli operai
assunti “dal padrone” nelle fabbriche del Nord.
A questo tipo di discriminazione faceva riscontro la scelta dei meridionali di ricongiungersi con i loro parenti nel
continente americano o di emigrare in altri paesi europei come il Belgio, la Francia, e la Germania non
comunista. Potevano accettare le incomprensioni di paesi stranieri ma non alle insolenze di operai italiani in
Italia.
Il contributo di questi lavoratori meridionali al benessere americano, alla ripresa economica della Germania
riscattata dal razzismo nazista, al realizzarsi del libero mercato e della libera circolazione degli uomini in una
comunità di Stati europei non lasciava dubbi che si sarebbero modificati i rapporti fra democrazia del mondo
occidentale e comunismo.
Il Nord aveva vissuto il lungo periodo della lotta clandestina e di organizzazione della resistenza armata.
Cominciava a disfarsi la tela dell’ultimo atto del dramma sanguinoso del fascismo.
Nel 1945 è la fine, il crollo spaventoso del fascismo ma non del popolo italiano che, dal 1945 al 1948, riprende la
sua via e recupera la sua storia e la sua vera identità politica che prende il sopravvento con il pluripartitismo
democratico, anche se bisognava stare in guardia da quei gruppi di attivisti che sempre ricercano in tutto il
mondo di instaurare o restaurare regimi di forza e d’autorità, regimi tendenzialmente assoluti.
Dopo il 1945, è il lavoro produttivo, tenace e quasi anonimo che si porta al primo piano e domanda che la classe
politica, nella misura in cui le sarà possibile, non ostacoli, non comprometta, non disperda i frutti di questo
lavoro. Non si è conclusa solo la storia del fascismo ma anche dell’antifascismo, comincia la storia dell’unità
d’Italia e dell’Europa.
Il 13 giugno del 1946, con la partenza del luogotenente-re si chiude il problema istituzionale.
Il Paese si era presentato diviso, qualcuno dice spezzato in due, fra Nord e Sud, per cui è necessario richiedere al
patriottismo del Sud ancora un riconoscimento della superiore volontà del Nord.
All’atto della proclamazione dei risultati del referendum, un gesto del Sud sarebbe bastato ad annullare tutto lo
sforzo compiuto ma per il Sud era prioritaria l’unità dell’Italia.
L’Italia è una Repubblica: il 25 luglio 1946 ha luogo l’apertura dell’Assemblea Costituente.
Per riprendere i fatti dell’immediato dopoguerra vissuti da Corrado è da dire che gli avvenimenti erano
strettamente collegati con la presenza dei militari alleati.
La fine del settembre 1943 era stata caratterizzata da giornate abbastanza piovose.
Mancava poco all’alba quando Corrado, steso sul letto, aprì gli occhi svegliato dallo stridore di cicale che si
radunavano sulla collinetta erbosa a monte dell’isolato dove abitava la famiglia di Corrado: faceva caldo e l’afa
impedì a Corrado di riprendere sonno. Si alzò con la bocca amara e non volendo fare rumore decise di salire sul
terrazzo dove c’era una fontanella di acqua sempre fresca.
Poteva vedere gran parte della città fino al mare. I raggi del sole facevano capolino dalla cimosa con varie
sfumature sfuggenti verso il cielo dove si ricongiungevano creando un accecante chiarore.
Un vociare di gente attrasse la sua attenzione e vide che dei gruppi si dirigevano verso il viale che conduceva al
porto.
Decise di uscire perché la sua curiosità era troppo motivata dalle esperienze di confusione della folla vissute in
quei periodi. Raggiunse la folla che cominciava a disporsi sui due lati del viale per assistere, anch’essa curiosa o
dubbiosa, all’imbarco delle truppe alleate che dovevano continuare la guerra contro i tedeschi.
Sembrava una festa tanto era lo spettacolo offerto dai carri armati, dalle jeep, i camion e quei soldati dalle più
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svariate sfumature di colore della pelle e delle divise.
Era un fragoroso succedersi di rumori accompagnato dal suono delle cornamuse scozzesi e dall’impennarsi degli
aerei che sorvolavano i convogli a bassa quota.
Corrado si ritrovò accanto ad una jeep che si era fermata in attesa che ritornassero le navi per un altro imbarco. I
militari della jeep avevano il cappello come quello di Tom Mix ma con la falda piegata e, forse, si accorsero dello
stupore che Corrado non riuscì a nascondere.
Uno dei soldati si mise a ridere e, toccando con la mano il cappello “Australia”, disse.
Alcuni italiani stavano commentando la guerra che li aspettava contro i tedeschi e Corrado non potette fare a
meno di vedersi davanti agli occhi quei due soldati tedeschi, quasi ragazzi, con due pesantissimi zaini che,
essendo rimasti staccati dai loro commilitoni, l’avevano fermato chiedendogli la strada per Catania.
Corrado si affiancò ai due soldati per accompagnarli e volle caricarsi sulle spalle parte del materiale che
appesantiva quel giovane biondo con gli occhi azzurri con cui aveva cominciato a parlare in tedesco per verificare
se era giusto quello che aveva imparato a scuola.
Appena si furono allontanati dal centro della città, pieno di macerie, dovettero proteggersi dietro un muro dalle
ultime raffiche di un caccia inglese che probabilmente aveva sbagliato rotta.
Era sera quando, finalmente, riuscirono a raggiungere il centro di raccolta di quelle truppe tedesche che avevano
una tartaruga disegnata sui camion mimetizzati e disposti sotto i cipressi, davanti ad un cimitero.
Fecero salire in fretta gli ultimi due ritardatari e salutarono Corrado agitando le mani fino a che riuscirono a
vederlo.
Corrado fece ritorno a casa contento di avere imparato qualche nuovo vocabolo tedesco: si riprometteva di
verificare nel vocabolario il termine Wehrmacht.
Adesso c’erano quei due australiani che sembravano turisti o comparse cinematografiche: avevano calzoncini
corti di tela coloniale, e una camicia dello stesso colore, aperta a lasciare il petto scoperto.
Il cappello era trattenuto al mento da un sottogola di cuoio e i capelli erano lunghi, folti di colore rossiccio.
Corrado conosceva un frate che aveva i capelli dello stesso colore e la barba lunga che si imbeveva di vino
quando, a malincuore, donna Flavia glielo versava in un bicchiere, come elemosina.
Quel ricordo del frate fece venire in mente a Corrado che doveva andare da donna Flavia per prendere il pane.
Salutò con le poche parole d’inglese che aveva cominciato a studiare a scuola al posto del tedesco.
Le gente cominciò ad allontanarsi e a fare dei commenti che Corrado cercava di capire.
“Speriamo”, diceva uno, “che questi alleati vadano via dalla Sicilia. Costano troppo!”
“Vanno a combattere a Montecassino”, diceva un altro, “anche l’esercito italiano combatte contro i tedeschi!
Non ci capisco più niente. Meno male che da noi la guerra è finita! I tedeschi sono sempre forti e dicono che
Hitler ha l’arma segreta pere vincere la guerra.”
Corrado si allontanò e corse verso il negozio del pane.
“Dove se stato?” gli chiese donna Flavia. “È venuto tuo fratello a prendere il pane ed era preoccupato!”
Nel sentire che era stato ad assistere alla partenza di tutti quei militari, donna Flavia esclamò: “Meno male che
mio figlio è riuscito a tornare a casa. Ha lasciato Cassino appena in tempo. Mi hanno detto che per Cassino è
partito anche il figlio della donna ammazzata dal finanziere.”
E, rivolgendosi ad alcune donne che erano vicine al bancone, continuò: “Era un suo vicino di casa.”
E donna Flavia ricominciò con il racconto del finanziere che era diventato il suo chiodo fisso.
Corrado aveva visto spesso quel finanziere, grassoccio, con il viso sempre corrucciato, entrare nel negozio di
donna Flavia.
Ritirava il suo pacco della spesa quasi senza parlare.
Donna Flavia non si azzardava a mettere un benché piccolo peso sotto la carta e, mentre pesava, si sbiancava in
volto. Si accertava, ogni volta, che ci fosse sufficiente olio nel bicchiere con il lumino per il suo santo protettore,
la cui immagine era riposta in una nicchia della parete, a destra. Alla fine del bancone.
Donna Flavia adesso era diventata ricca: il direttore dell’ufficio postale le portava i buoni direttamente nella
bottega e il figlio si recava spesso in banca.
Donna Flavia non aveva più paura del finanziere e non aveva più bisogno dell’olio per il santo.
Il suo margine di guadagno era aumentato specie adesso che il negozio poteva smerciare una infinità di prodotti e
diverse qualità di pane e di pasta, di formaggi e salumi e quant’ altro commerciabile dal suo negozio di alimentari
e salumeria.
Una nuova paura, però, adesso la tormentava: quella dei ladri che potevano essere stuzzicati dall’incasso che la
sera era ancora nel negozio, in attesa di farlo versare dal figlio, in banca, l’indomani mattina.
Donna Flavia, perciò, aveva ripreso l’abitudine di restare la notte nel negozio.
Aveva paura di fare la strada a piedi lungo la scalinata verso la casa dove c’era anche il forno.
Corrado, comunque, non se la sentì di riascoltare ancora una volta la storia del finanziere e non tanto perché non
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provasse pena per quella donna ammazzata, che conosceva, e per il finanziere, quanto perché temeva i
rimproveri di sua madre.
Corrado si era rattristato quando venne a sapere che il figlio della Peppina, la donna ammazzata, era caduto,
combattendo a Montecassino.
A casa si prese i rimproveri di sua madre perché aveva fatto tardi pur sapendo che suo fratello doveva andare
all’università dove frequentava la facoltà di medicina.
Le disse che aveva perso tempo perché aveva voluto assistere all’imbarco degli alleati ma capì che sua madre non
voleva sentire più parlare di guerra: aveva una famiglia da portare avanti e la ricostruzione costringeva ad enormi
sacrifici tutti coloro che dovevano fare affidamento solo su uno stipendio statale, da insegnante elementare.
Mancavano pochi giorni alla riapertura della scuola: nell’animo di Corrado si agitava il bisogno di ricercare una
identità più consapevole dei nuovi bisogni che la fine della guerra metteva in luce, di volta in volta.
L’ultimo anno di liceo lo aveva portato a frequentare due suoi compagni di scuola, Lillo e Lorenzo.
Li trovava quasi sempre assieme perché i loro genitori gestivano attività commerciali in locali confinanti: uno
commerciava in cereali all’ingrosso e l’altro gestiva un bar che, com’era logico, costituiva il loro punto di incontro
con Corrado e con soddisfazione di Lorenzo.
Corrado stava vivendo un periodo di disorientamento che derivava dal contrasto fra le esigenze imposte dalla
guerra e le nuove condizioni legate alla necessità della ricostruzione e di una vita all’aria aperta.
Quando era con i suoi compagni di liceo dimenticava le angosce vissute nel negozio di donna Flavia e provava
una eccitante sensazione di benessere quando era seduto, all’aperto, ad uno dei tavoli, con gli ombrelloni, disposti
sotto gli alberi dell’ampio spiazzo in concessione al bar della famiglia di Lorenzo, ma che spesso vedeva
quest’ultimo impegnato a dare una mano al banco e alla cassa.
Un pomeriggio, mentre aspettava al banco l’ordinazione, entrarono due marinai della “HMS” cioè inglesi, che gli
chiesero, in modo eloquente, se poteva offrire loro una birra.
Corrado si stupì della richiesta perché era condizionato dall’esito della guerra e, quindi, della sua posizione di
nemico che aveva perso la guerra ma non gli sembrò vero di pagare le due birre anche se questo significava per
lui restare senza una lira.
Si sentì, stranamente, come sollevato da un incubo: “Finalmente la guerra era finita!” Era gioiosamente qualcuno
a casa sua!
Quando gli inglesi ebbero finito di bere e se ne furono andati con il loro “Thank you!” Lorenzo lo sgridò: “Ma
sei matto”, gli disse, “buttare così i soldi per due inglesi ubriachi!”
Ma Corrado era con la testa ad altri pensieri.
Tanta gente si era arricchita praticando il mercato nero in società con gli americani e gli inglesi: avevano le
cantine piene di sacchi di farina bianca, di caffè, di corned beef e di ogni altro ben di Dio.
Niente sfuggiva alla speculazione che creava solidi vincoli fra occupanti ed occupati.
I cittadini più ossequiati erano anche quelli che avevano affittato le loro case ai gestori dei bordelli.
Fra i più in vista dei proprietari di appartamenti c’era l’avvocato Giuffone.
Alto, snello, vestito con eleganza anglosassone che comprendeva anche l’affusolato ombrello, l’avvocato era di
casa nell’ufficio di un colonnello inglese che dirigeva i servizi logistico-amministrativi delle forze di occupazione
e l’utilizzo delle am-lire.
Il colonnello aveva a cuore il benessere ricreativo dei soldati e, pertanto, su consiglio dell’avvocato, fece requisire
una delle più belle piazze della città anche se periferica, che era stata ricca di verde prima delle bombe.
In tempi rapidi, acquisita definitivamente l’area, venne costruito un cinema ricco di architettura d’avanguardia e
un centro residenziale con negozi ed appartamenti di lusso.
Abbondavano i commendatori per l’avvenuto snellimento delle pratiche da parte dei nuovi ministeri.
Il colonnello inglese rientrò in patria e dovette prendere atto di essere stato sconfitto da quell’avvocato che, con
un’astuzia giuridica, l’aveva estromesso da ogni pretesa riguardo quelle che erano diventate solo e sue proprietà.
Un giorno, Corrado lesse su di un giornale la sentenza di un pretore in merito ad una causa patrocinata
dall’avvocato contro il portiere di uno stabile nella zona residenziale.
Era stato licenziato perché salutava i commendatori con il pugno chiuso.
Il pretore sentenziò che il licenziamento era ben motivato.
Corrado si convinse che era meglio parteggiare per la Democrazia Cristiana, anche se non riusciva a coglierne in
pieno il significato capiva che manteneva valido il segno della croce che lo accomunava alla parte della
cittadinanza con cui si identificava. Prese la tessera della Democrazia Cristiana in una sezione vicino a casa sua,
nei locali dei salesiani.
Era evidente che non essendo il segno della croce un modo pratico per salutare e potendo ogni altra forma di
saluto prestarsi ad equivoco fino a rasentare l’apologia del nazi-fascismo cercò di limitare il suo saluto ad un
cenno del capo. Chissà perché venne considerato superbo!
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In quel periodo stava ottenendo un certo successo il movimento fondato dal giornalista Guglielmo Giannini,
“L’uomo qualunque”, probabilmente finanziato per togliere voti alle sinistre.
Corrado aveva letto una commedia scritta da Giannini sull’emigrazione italiana in America e ne aveva condiviso
il contenuto.
Non ritenne, però, di approvare la scelta fatta dal movimento di mettere in lista il cameriere del bar di Lorenzo.
Certamente Corrado non aveva capito che alla base delle campagne elettorali il ruolo più importante era la
scenografia indipendentemente dalla qualità dello scenografo e dell’interprete.
Nel caso del cameriere del bar di Lorenzo, Blandina, era chiara la motivazione: un candidato “qualunque” poteva
sproloquiare contro l’avversario ed il suo linguaggio avrebbe trovato più consenso che non un difficile discorso
politico.
Blandina aveva i piedi piatti e suscitava l’ilarità dei clienti del bar per il suo modo di camminare quando portava il
vassoio con le ordinazioni e lo deponeva sul tavolino facendolo roteare.
Quando fece il suo discorso, nella piazza proprio di fronte al bar di Lorenzo, si radunò una numerosa folla,
probabilmente motivata dalla distribuzione gratuita di pacchi di spaghetti, che applaudiva ad ogni frase
abbastanza umoristica uscita dalla penna di Giannini ma che Blandina non mancava di storpiare.
Mancando il consenso del Partito Liberale e della Democrazia Cristiana, il candidato dell’uomo qualunque, pur
riportando un buon piazzamento, non venne eletto.
Al suo posto però, fu eletto un altro cameriere indottrinato e attivista del Partito Comunista dopo avere disertato
dalle brigate nere. Era comunista anche il padrone del bar che aveva ottenuto uno spazio ben più grande di
quello del bar di Lorenzo.
I tavolini dei due ber erano quasi vicini e si distinguevano solo per la foggia ed il colore degli ombrelloni: verdi
quelli del bar di Lorenzo e rossi quelli del comunista!
I clienti del bar dove lavorava Blandina avevano preso l’abitudine, durante la campagna elettorale, di chiamarlo,
scherzosamente, onorevole e capitava, allora, che il cameriere di fede comunista, al momento opportuno
indirizzasse gesti intimidatori verso Blandina.
Il povero cameriere qualunquista se la vide brutta un pomeriggio che doveva eseguire l’ordinazione che un prete
aveva fatto per sé e la sua avvenente ospite.
Mentre stava per deporre il vassoio, Blandina fu distratto dalla chiamata abbastanza sonora di un cliente vicino
che, oltretutto, gli usava l’appellativo di onorevole: la distrazione di Blandina provocò il versamento di acqua
contenuta in una caraffa che, come d’uso, veniva servita con i gelati, in questo caso “schiumoni”. Blandina aveva
salvato i gelati ma non riuscì ad evitare che l’acqua si versasse sulla tonaca del prete che, d’istinto, gli mollò un
severo ceffone mentre gli urlava: “Disgraziato, pensa al tuo lavoro invece di fare l’uomo qualunque!”
La donna rideva con evidente malignità mentre Blandina si sprofondava in mille scuse, e chinandosi a baciare
quella santa mano.
La caraffa di vetro non aveva subito danni ma Blandina dovette comunque servire una nuova caraffa di acqua: la
ripose sul tavolino mentre il prete e la donna affondavano i loro cucchiaini nel gelato e fecero finta di non
accorgersene.
Lo stesso fece Lorenzo che aveva assistito alla scena.
“Meglio far finta di niente”, disse a Corrado che in quel momento gli era vicino, “ha ragione di essere arrabbiato.
Hai visto che pezzo d’uomo? Suo zio era il barone Avala, quello con tutte quelle tenute a Firculiana e con la
fabbrica di essenza di bergamotto. Una vera fortuna!”
Il barone non aveva figli ed il prete era l’unico nipote: gli avrebbe lasciato tutto, aveva promesso alla sorella, se il
nipote si fosse fatto prete. La sorella aveva mandato il figlio in seminario ed era diventato prete.
Aveva ottant’anni, ormai, il barone, e il nipote già pregustava le prospettive che gli garantiva l’eredità.
Nessuno poteva immaginare che avrebbe messo incinta la giovane cameriera che era entrata al suo servizio in
sostituzione della precedente morta di vecchiaia.
E pensare che era stata la madre del prete a procurargli quella brava ragazza, timorata di Dio, educata dalle suore.
Così all’inaspettato figlio del barone e alla giovane moglie era andata tutta la proprietà.
Al prete era rimasta la tonaca e la sua sete di maschio: “Ma non è certo dell’acqua che ha bisogno!”
Il barone protrasse la sua vita fino ai novantacinque anni e, guarda caso, scelse proprio il nipote per l’estrema
unzione!
PARTE SECONDA
Nella città, dove erano ancora visibili gli effetti dei bombardamenti angloamericani, la vita, comunque cominciava
a risvegliarsi e, soprattutto, era evidente la voglia di una ricostruzione degli edifici ridotti a macerie. Gli sfollati,
intanto, cominciavano a lasciare liberi i seminterrati che venivano immediatamente occupati dai senzatetto.
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L’edifico dove abitava Corrado era stato risparmiato dalle bombe.
A differenza delle trasgressioni della edificazione post bellica, era stato costruito rispettando le norme
antisismiche post terremoto.
Nell’appartamento di fronte a quello di Corrado era venuta ad abitare una maestra con i suoi tre figli.
Il marito era un marittimo catanese e lo si era visto solo per un paio di giorni fino a quando, certamente a motivo
del suo lavoro, aveva dovuto allontanarsi per un lungo periodo di tempo che lo aveva fatto dimenticare. Dei tre
figli della maestra Parosi due erano femmine.
Erano tracagnotte e scure di capelli con un incarnato olivastro a stento ravvivato dal lieve rossore delle guance
pienotte. Il ragazzo era un tipo sfuggente, di scarse parole, ed anche lui era di carnagione scura con capelli lisci e
nerissimi. Stentava ad allungarsi, dopo la pubertà, e si notava il contrasto fra le gambe ancora corte e il tronco e
l’addome che si allargava indeciso.
La vita della famiglia Parosi scorreva in una atmosfera di riservatezza e non suscitava motivi di interesse in grado
di stimolare rapporti di amicizia con gli altri inquilini e lo stesso Corrado si trovava in imbarazzo quando gli
capitava di trovarsi di fronte alla maestra e ai suoi figli.
Accennava ad un saluto con il capo non aspettandosi certamente di essere ricambiato.
Le figlie sembravano educande del collegio femminile “Buon Pastore” della città la cui fama di severa educazione
cristiana rassicurava quelli che potevano permettersi il lusso di pagare la retta.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che, furtivamente, di sera, si intrattenevano con due giovani dell’isolato le
cui giornate trascorrevano monotone e venivano realizzate solo corteggiando le ragazze.
Luigi e Mario erano sempre eleganti e profumati, con le scarpe sempre lucide a forza di sputi.
Non avevano niente da fare perché aspettavano di compiere i diciotto anni per arruolarsi nella polizia.
Dopo la licenza elementare non erano riusciti ad andare oltre probabilmente per una maggiore inclinazione verso
l’altro sesso ritenendosi sufficientemente dotati.
Avevano la certezza che sarebbero finiti nella polizia sia perché un loro fratello poliziotto era stato ucciso dalle
bande di Tito e buttato nelle foibe sia perché avevano uno zio maresciallo al ministero, proprio nell’ufficio
arruolamenti.
Cercavano, quindi, di rendere meno monotona l’attesa impegnandosi in gratificanti esperienze amorose.
Le figlie della maestra non erano restate indifferenti al corteggiamento dei due esperti nell’arte amatoria che
godevano anche del vantaggio di ricevere favori in piccoli aiuti economici oltre che in natura.
L’esplodere dell’istinto sessuale, spesso, è la premessa di esperienze che segnano per tutta la vita ma, sicuramente,
i due giovani avevano prospettive che li rendevano cauti per non pregiudicare un avvenire nella capitale.
Per Corrado, che frequentava il penultimo anno di liceo, le prospettive non erano chiare e tutto si compendiava
nella possibilità che l’impegno scolastico venisse premiato dalla società.
Un giorno, rientrando a casa dalla scuola, fu sorpreso da un chiacchierio che proveniva dal salotto: la porta del
salotto era rimasta aperta e, mentre passava per raggiungere la sua stanza da studio per riporre i libri, si sentì
chiamare da sua sorella che lo aveva visto.
La maestra Parosi aveva dato ospitalità alla direttrice della sua scuola che era stata trasferita in città da un paese
turistico della riviera che era diventato sede del comando militare alleato.
La direttrice era sposata con un medico calabrese che esercitava in una frazione di quel paese: aveva due figlie.
Una tresca con un ufficiale di marina americano di stanza al comando in quel paese, le consentì, per seguire
quell’ufficiale anche in città, di essere nominata direttrice su richiesta degli americani, e di trasferirsi anch’essa in
città. Le due figlie avrebbero frequentato le magistrali.
La nuova direttrice aveva concordato un reciproco sostegno con la maestra Parosi che aveva intenzione di
trasferirsi al nord per fare frequentare al figlio la facoltà d’ingegneria.
Tutto ciò si tradusse in un trasferimento in un alloggio sempre statale della maestra Parosi in una sede di suo
gradimento e alla assegnazione del suo appartamento sempre statale alla bene introdotta direttrice.
Ma era solo merito degli americani che gestivano i carichi delle Liberty o si trattava di legami duraturi con le
alcove fasciste?
Molte cose si vennero a sapere con il tempo. Non mancava l’arte del saper vivere alla direttrice visto che fece
venire a far visita alla famiglia, nella nuova casa, il marito medico così che nessuno potesse dubitare che la sua
fosse una famiglia che viveva in piena armonia e che solo l’alta missione di medico del marito e la sua funzione di
direttrice costringeva a sacrificarsi.
In realtà il medico aveva già una nuova amante che gli aveva dato un figlio maschio e dopo avere interpretato la
parte del grande clinico arrivando e ripartendo con una delle carrozzelle che parcheggiavano davanti alla stazione
ferroviaria, non si fece più vedere.
Durante la loro convivenza nello stesso appartamento, la maestra e la direttrice erano senza i rispettivi mariti e
mentre il mare teneva lontano dalla curiosità il marito della maestra, si cominciò a commentare l’assenza di quello
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della direttrice che non si era più visto, neanche per salvare le apparenze.
Anche gli angloamericani avevano lasciato la città e l’isola.
La direttrice veniva accompagnata spesso da una persona abbastanza corpulenta che veniva presentata come il
segretario della scuola.
Nel salotto c’erano proprio le figlie della direttrice che erano venute a salutare la mamma e le sorelle di Corrado.
Carmela, la più grande, era una biondina graziosa i cui capelli fin sulle spalle dove si piegavano con una dolce
curva verso il collo. La carnagione chiara e gli occhi azzurri rischiarono alla mente di Corrado l’immagine della
donna tanto gentile ed onesta declamata dall’Alighieri.
L’altra sorella era scura di carnagione e di capelli. La prima aveva preso le caratteristiche della madre, bionda e
longilinea, mentre la sorella più piccola aveva caratteristiche del padre tipiche dell’eredità greca della Calabria.
La differenza era notevole e si poteva perfino dubitare che fossero figlie dello stesso padre.
Carmela aveva sedici anni e frequentava il secondo anno delle magistrali.
Dalla discussione con Corrado l’argomento cadde sulle difficoltà che incontrava nel latino e chiese a Corrado che
frequentava il liceo classico se poteva darle qualche aiuto.
Corrado era diventato rosso in viso e la rassicurò dichiarandosi completamente disponibile.
“Verrò oggi pomeriggio, alle quattro”, disse Carmela, “se per te va bene.”
Corrado annuì e, visto che era ripreso il discorso delle due ragazze con le sue sorelle, si allontanò, dopo avere
salutato. Si rifugiò nella sua stanza: aveva il cuore in tumulto e sentiva il sangue scorrergli avvampandogli il viso:
non aveva mai provato una simile sensazione quando si era trovato di fronte a qualche ragazza. Adesso sentiva
come se una forza incontrollabile lo spingesse a concentrare ogni suo sentimento verso quella ragazza.
Chissà forse aveva provato lo stesso sentimento quel poeta della scuola siciliana quando aveva scritto i versi che
Corrado aveva letto nel testo di letteratura italiana:
“Non so se sapete como v’amo a bon core.
ca son sì vergognoso
ch’eo pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.”
Corrado si rendeva conto che difficilmente avrebbe potuto dichiarare il suo amore a Carmela sia per l’età sia per
gli impegni scolastici: avrebbe aspettato?
L’attesa del pomeriggio fu piena di trepidazione e quando la ragazza arrivò con il libro di latino, Corrado avrebbe
voluto manifestare la sua felicità e confessarle il suo amore ed, invece, assunse un’aria professionale e si impegnò
con serietà nella traduzione di quel brano del “De bello gallico”.
Questo impegno non era ricambiato da un pari interesse da parte di Carmela che, certamente deve avere
compreso quale sentimento aveva suscitato nell’animo di Corrado, e maliziosamente cercava di indurlo ad un
discorso fatto di parole dolci. Ma Corrado coglieva negli occhi di Carmela una dolcezza che lo emozionava al
punto che non se la sentiva di illudersi di essere ricambiato nel momento che avesse confessato quale
turbamento lei avesse provocato.
Corrado non si rendeva conto di essere un bel ragazzo, dal viso maschio e dal fisico prestante.
Lunghe ciglia davano risalto agli occhi vellutati e bruni mentre le sopracciglia ben disegnate sembravano fossero
state dipinte.
Molte ragazze gli avevano messo gli occhi addosso ma Corrado non aveva mai considerato questo aspetto della
femminilità e neanche adesso riusciva a capire le intenzioni di Carmela.
Finita la traduzione si salutarono con l’intesa che, in caso di bisogno, Carmela avrebbe potuto contare sull’aiuto
di Corrado.
Era un estremo disagio che tratteneva Corrado che era legato ancora agli effetti della guerra; era vestito con un
paio di pantaloni della divisa di balilla che sua madre aveva colorato di blu, come facevano tante famiglie, ed una
camicia bianca ricavata da un lenzuolo ed ai piedi calzava un paio di scarpe dei soldati americani che venivano
venduti al mercato della roba usata. Erano in sette fra fratelli e sorelle e c’era poco da scialare con un solo
stipendio da insegnante di suo padre.
Fino a quel momento non si era sentito affatto a disagio perché, oltretutto, il suo abbigliamento aveva molto in
comune con quello della maggior parte dei suoi compagni di scuola.
Ma si sentiva sminuito davanti agli occhi di Carmela che era ben vestita e con un bel paio di scarpe.
Prima della guerra anche lui aveva delle belle scarpe sempre lucide ed un bel vestito con giacca e pantaloni corti.
Era, forse, il più elegante della sua classe, guardando le fotografie fatte a scuola, perché sua madre era orgogliosa
di vedere i suoi figli sempre in ordine anche nel vestire.
Quali cambiamenti aveva prodotto la guerra!
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I concetti espressi nel libro, da qualche filosofo, gli riuscivano incomprensibili rispetto alla realtà che aveva
vissuto e che gli stava intorno.
Non riusciva a cogliere nessun ottimismo nella interpretazione della storia delle età espressa da Vico.
Il concetto antropologico caratteristico di ogni età ed in grado di far coincidere il momento storico con il
prevalere di una particolare facoltà umana sulle altre gli sembrava inconciliabile con la dittatura nazifascista che
aveva voluto la guerra perché secondo questa interpretazione gli uomini prima sentono senza avvertire, poi
avvertono con animo perturbato e commosso e finalmente riflettono con mente pura.
“Allora”, si chiedeva Corrado, “io in che epoca sto vivendo? Non è certo quella in cui la natura umana è
intelligente, benigna, modesta e ragionevole. Non è quella eroica, nobile e saggia. Ed allora?”
Si consolava al pensiero che non aveva ancora raggiunto lo stato fisico della virilità in grado di consentirgli, come
sentenziava il Comte, di assistere ad un ricompattarsi della società dinanzi ai suoi principi fondamentali costituiti
dalla coscienza, dalla ragione e dal dovere.
E poi, si poteva sempre seguire i consigli di Fichte liberando l’istinto e ribellandosi contro l’autorità!
Il problema poteva essere quello relativo al modo in cui liberare l’istinto ma non era questo che doveva
affrontare Corrado quel mattino di aprile in cui la primavera esplodeva con forza e riempiva della sua luce e del
suo profumo tutta l’aria.
I pensieri di Corrado erano rivolti al latte ed al caffè della colazione: il caffè era inesistente perché era sostituito
dal surrogato ed il latte era sicuramente annacquato.
Prima della guerra il pecoraio bussava alla porta della casa di Corrado e travasava un latte denso nella bottiglia
che la madre di Corrado aveva preparato.
Don Filippo, il pecoraio, era tutto premuroso e gentile. Era ancora inevasa la pratica della sterilizzazione che la
madre di Corrado non mancava di effettuare facendo bollire sempre il latte per evitare il ripetersi della febbre di
Malta che aveva colpito molte persone che abitavano vicino alle stalle dei pecorai ubicati quasi al centro della
città.
Scoppiata la guerra don Filippo non si fece più vedere: aveva intrapreso il mercato nero di vario genere ed il latte
lo forniva ai tedeschi di stanza nella città.
Finita la guerra si era costruita una grande villa, al suo paese in provincia, ed i figli avevano aperto diverse
macellerie, in città: macellavano il loro bestiame.
Nonostante questi pensieri, Corrado uscì di casa di buon umore e ripeteva fra sé e sé quei versi del canto del
Purgatorio che aveva dovuto imparare a memoria, come aveva voluto il professore d’italiano.
Camminava svelto come a voler essere il primo ad essere interrogato ma dovette rallentare perché dietro Carmela
che stava percorrendo quel tratto di strada obbligato prima di imboccare quello per la sua scuola. Le si trovò
affiancato e sorpresi si salutarono accennando ad un complice sorriso: era ancora presto e Corrado pensò di fare
visitare a Carmela una chiesa che era vicino alla scuola di Carmela e alla quale lei non aveva mai fatto attenzione:
c’era un dipinto di Antonello di Messina!
Entrarono ed, anche se in fetta, Corrado le illustrò le caratteristiche del quadro così come gli erano state fornite
da suo padre che spesso lo portava con sé e gli faceva visitare i luoghi e le chiese più importanti di quella città.
Corrado non immaginava che il destino lo avrebbe portato lontano dalla sua terra!
In quel momento era come in estasi e non si stancava di guardare quella ragazza che già immaginava come la sua
innamorata.
Fecero in fretta a salutarsi ed ognuno si allontanò per andare in direzioni diverse verso le rispettive scuole.
Addosso, Corrado si sentiva ancora il profumo d’incenso che li aveva accolti in quella Chiesa e negli occhi
conservava ancora la visione della Madonna dipinta da Antonello che aveva assimilato anche la tecnica pittorica
dei fiamminghi.
L’indomani Corrado non vide la ragazza: aveva preparato delle belle frasi, responsabili, da adulto: appena
conclusi gli studi le avrebbe chiesto di sposarlo. Voleva dichiararle che il suo era un vero amore, pulito, unico.
Non riusciva a capire il motivo che le aveva impedito di aspettarlo eppure l’aveva vista uscire di casa e si era
affrettato per raggiungerla, ma era sparita e l’unica spiegazione possibile poteva essere desunta dalla scelta di
Carmela di non incontrarlo e, per questo, si era incamminata per una stradina che sboccava in una strada diversa
da quella che doveva percorrere Corrado e che, comunque, congiungeva con l’istituto delle Magistrali.
“Ma perché tutto questo?” si chiese Corrado, senza riuscire a darsi una chiara risposta.
Il pomeriggio Corrado lo passò seduto alla sua scrivania la cui finestra sporgeva di fronte a quella del salotto della
ragazza.
Non la vide ma provò una certa emozione ascoltando, suonate da Carmela che aveva cominciato a prendere
lezioni di pianoforte, le note di “Tristezza” di Chopin.
“Allora non gli sono indifferente…” si rincuorò.
Anche nei giorni successivi Carmela non si fece vedere e Corrado non ritenne di trascurare i suoi impegni
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scolastici per seguirla in quel nuovo percorso anche perché non avrebbe fatto altro che danneggiare anche la
ragazza.
Ma Carmela non mancava di suonare la stessa musica proprio quando Corrado si sedeva alla sua scrivania. Era
solo una coincidenza o lei poteva, scostando la tenda senza essere vista, intravederlo?
Nella stanza di Corrado c’era un quadro che aveva come soggetto la serenata che un menestrello faceva per
conto di un innamorato ad una dama del trecento.
Corrado aveva partecipato con Andrea, un ragazzo suo amico che abitava nello stesso isolato, a delle recite
nell’oratorio dei salesiani e aveva visto che Andrea se la cavava con una canzone napoletana che parlava d’amore
e quindi gli chiese se poteva cantarla assieme a lui, una sera, sotto la finestra di Carmela.
La serenata ebbe luogo ma durò poco per le proteste del piano sovrastante quello di Carmela e che poi era quello
dei genitori di Andrea.
L’indomani Corrado aspettò che Carmela uscisse di casa per andare a scuola: erano dirimpettai e Corrado poteva
benissimo vederla attraverso lo spioncino della porta.
Aspettò che si allontanasse dall’isolato e accelerò il passo per raggiungerla ma Carmela aveva già imboccato
quella stradina che avrebbe allontanato Corrado dalla sua scuola e questo non se lo poteva permettere visto che
erano gli ultimi giorni del secondo liceo.
Dopo appena una settimana dalla chiusura delle scuole Carmela e la sorella partirono per una vacanza in un
paesino della Calabria dai nonni paterni che avevano un negozio di generi alimentari.
La sorella minore di Carmela aveva ereditato, con suo rincrescimento, tutte le caratteristiche del padre: basso di
statura, stempiato, cercava di nascondere la calvizie tirando verso la fronte i pochi capelli lisci che gli crescevano
sulla nuca. Vestiva con una certa eleganza ma i suoi vestiti sapevano di antico mentre le scarpe erano ricoperte da
ghette di un velluto stinto senza alcun senso.
Quella volta che era arrivato per farsi vedere assieme alla direttrice e alle figlie, era stato presentato alla famiglia di
Corrado come segno di buon vicinato. “Mio marito, il dottor Siligni!” ripeteva la direttrice.
Volle che anche Corrado lo conoscesse e nel presentarlo al marito disse: “Corrado è stato promosso al terzo
liceo. Certamente si iscriverà alla facoltà di medicina, come suo fratello maggiore”, e mentre parlava accarezzava i
capelli neri e ricci di Corrado, che si sentiva intimorito mentre il dottore commentava: “Ah,sì! Bravo!”
Il padre di Carmela aveva imposto la sua figura di medico impegnato indefessamente nella cura dei circa
quattrocento agricoltori della sua condotta, paganti perché privi di assistenza mutualistica.
Alla riapertura delle scuole la direttrice e le figlie ritornarono e Carmela riprese a frequentare le sorelle di
Corrado. Continuò a suonare Chopin e ad evitare di incontrarsi con lui quando andava a scuola.
Corrado era sicuro che il comportamento della ragazza fosse dovuto ad una educazione che si fondava sulle
regole in uso in una certa mentalità ormai superata ma che per alcuni, specie vissuti nei paesi, era intesa ad evitare
chiacchiere e situazioni compromettenti.
Per Corrado si avvicinavano gli esami di licenza liceale, di maturità!
Era la prima volta, dopo la fine della guerra, che veniva introdotto l’esame di Stato e l’obbligo di sostenerlo nelle
materie di tutti i tre anni di liceo!
C’erano stati scioperi degli studenti ma senza risultato.
Alcuni studenti, addentro alle cose della scuola e della società della raccomandazione, avevano sostenuto l’esame
di licenza già mentre frequentavano il secondo liceo ed erano stati i loro stessi professori a dichiarali maturi.
Qualcuno di loro aveva avuto l’impudenza di fare visita ai suoi ex compagni del secondo liceo mostrando quella
meschinità propria degli ignoranti, visto che si facevano vedere proprio da quei compagni che potevano giudicarli
meglio dei foraggiati professori.
Meschinità di cui Corrado avrebbe constatato la costante presenza in molti atteggiamenti interpersonali.
Adesso anche per lui potevano aprirsi le porte dell’Università!
Quando passava davanti a quell’edificio avvertiva un senso di soggezione: era un edificio grandioso, con viali
alberati, protetto da alte cancellate di ferro che erano state rifatte dopo la guerra perché quelle di prima erano
state divelte per farne ferro per la Patria.
Dinanzi al portone principale c’erano due custodi dalle lunghe palandrane azzurre ed il bavero rosso. Avevano
un cappello degli stessi coloro con la scritta “Studiorum Universitas”.
Percorrevano seri e severi il corridoio dell’ingresso e fermavano chiunque, alla loro vista esperta, non avesse
diritto di accesso.
Destò una certa ilarità la notizia che avrebbero dovuto sostenere gli esami di licenza elementare, dopo più di
vent’anni di servizio perché sapevano appena fare la loro firma.
Nessuno della commissione volle assumersi la responsabilità di negare l’attestato di licenza elementare a due
insigni custodi ai locali e ai giardini dell’Università!
La circostanza mise a nudo la lunga lista di quanti occupavano posti di prestigio per i quali era prevista la laurea
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ma che i partiti avevano riservato a partigiani o perseguitati politici senza degnarsi, almeno, di fare approvare una
apposita legge che mettesse i favoriti al riparo da ricatti… politici.
Il fratello di Corrado era prossimo alla laurea in medicina. Stava ore ed ore a studiare con alcuni suoi colleghi ed
andava alle esercitazioni in ospedale.
Corrado lo ammirava e pensava che gli sarebbe piaciuto seguirne l’esempio.
Adesso, tuttavia, si contentava di studiare per la licenza liceale e a continuare a fare la spesa che sua madre
ordinava a donna Flavia.
La guerra ne aveva fatto una commerciante abbastanza ricca e possidente. Aveva un ragazzino che le sbrigava le
varie commissioni. Stava molto attenta quando se ne serviva perché aveva dovuto sostenere un duro scontro con
il padre di quel ragazzino che contestava un utilizzo che non rientrava nei patti verbali della retribuzione. Donna
Flavia aveva trovato pane per i suoi denti e a niente sarebbe servito l’olio per Sant’Antonio!
Davanti ai clienti, quando c’era Corrado, parlava dei tempi duri della guerra, della bomba che era caduta, senza
esplodere, davanti al negozio e dei sacrifici che aveva dovuto sostenere per racimolare quei viveri tesserati che
doveva distribuire, obbligatoriamente, ai clienti per non farli morire di fame.
Sapeva che difficilmente Corrado l’avrebbe contestata: non era nel suo carattere.
Un giorno donna Flavia prese Corrado in disparte, proprio davanti al lumino che ardeva davanti al santo, e gli
disse: “Stai attento, Corrado! Tanti bravi ragazzi si rovinano per femminucce vanitose e perfide… lascia perdere
la figlia della direttrice, è una stupida!”
Corrado trasalì perché non aveva parlato con nessuno del suo sentimento.
Non saranno sfuggiti i suoi maldestri tentativi di incontrare Carmela mentre andava a scuola?
Entrambi dovevano passare davanti al negozio di donna Flavia prima che Carmela ricorresse alla stradina che
iniziava proprio dalla scalinata che conduceva al forno di donna Flavia, ma che si trovava prima dell’isolato dove
era ubicato il negozio.
Possibile, si chiedeva Corrado, che si possa leggere così facilmente nella testa della gente? Ebbe quasi paura e
non mancò di domandarsi se per caso l’interesse di donna Flavia non fosse sostenuto dal fatto che in quel
periodo Corrado, che era molto bravo in greco, aiutava la nipote di donna Flavia che faceva il secondo liceo ed
aveva bisogno di un sostegno in quella materia.
Corrado veniva ricompensato con l’invito a cena dopo le lezioni che giovavano molto alla ragazza, facendola
apprezzare dal suo professore, al liceo.
Non l’aveva mai sfiorato l’idea che, sfumato l’interesse del figlio dell’ingegnere, si fosse svegliato un interesse
proprio nei suoi confronti che, purtroppo, troppo preso dalla attrazione sentimentale verso Carmela, trascurava
l’attenzione di ragazze con la testa sulle spalle e con sana intelligenza.
Non pensò più a quanto gli aveva detto donna Flavia fino a quando non incontrò un suo amico che frequentava
la facoltà di farmacia e stava proprio uscendo dal portone principale dell’Università prospiciente la via che
Corrado era solito percorrere per raggiungere il viale dove c’era il bar di Lorenzo.
Sajeva, il suo amico, dopo i soliti convenevoli relativi allo stato di salute dei reciproci famigliari, gli chiese notizie
sui prossimi esami di maturità ed il discorso di Corrado cadde sul fatto che da probabile futura matricola avrebbe
potuto accedere nei locali dell’Università altrimenti vietati a chi non è iscritto alle facoltà universitarie.
“Macchè divieto!” rise Sajeva! “Sapessi quanti strani soggetti che vogliono suggestionare qualche ragazza
spacciandosi per universitari e quante coppiette, la sera, nei viali sotto gli alberi e sui prati! Alle lezioni, poi,
possono assistere anche persone che non sono studenti universitari. A proposito sai chi ho visto ieri sera? La
figlia della direttrice! Quella bionda slavata che abita di fronte a casa tua. Carmela o Pupa come diavolo si chiama!
Era una indecenza! Abbracciata, stesa sul prato, con quell’Andrea che abita nel tuo stesso isolato. Non potevo
fare a meno di riconoscerli visto che li ho conosciuti per le tante volte che sono venuto a casa tua.”
Corrado sentì una morsa al cuore ma il suo orgoglio lo tenne sveglio e “Carmela? Pupa? La conosco appena.”
farfugliò.
“Come, la conosci appena? Ma se era sempre dalle tue sorelle! Ho capito hai preso una cottarella!”
Corrado ci tenne a chiarire che in testa aveva solo i prossimi esami di Stato.
Si salutarono ripromettendosi di rivedersi.
S’era fatto tardi e Corrado s’avviò verso casa. Nell’istante in cui stava percorrendo il vialetto che conduceva al
portone del suo condominio si trovò di fronte proprio Andrea che stava uscendo: non riuscì a controllarsi, lo
cinse ai fianchi e con mossa fulminea lo gettò a terra e dopo avergli bloccato le braccia con le sue ginocchia, lo
guardò minaccioso in faccia: Andrea era terrorizzato ancor più vedendo i pugni di Corrado che gli sfioravano la
faccia: “Dovrei romperti il muso”, gli gridò Corrado, “sei un miserabile traditore, fai schifo!”
“Ma è una leggera! Altro che Pupa! È una vacca! Una ninfomane, sulla bocca di tutti. Dovresti ringraziarmi
perché ti ho aperto gli occhi. Non ci merita. Lei cerca un cornuto che se la porti a letto, ma uno sistemato che la
sposi!”
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Andrea si sforzava di non mostrare la sua paura ma puzzava troppo per non capire che se l’era fatta addosso
anche per le sonore flatulenze.
Corrado si alzò e lo lasciò andare.
Non voleva sporcarsi le mani con quel giovane privo di rispetto per i sentimenti degli altri e quindi capace di
qualsiasi azione disonorevole, anche di calunniare una ragazza…
Andrea si mise a correre, impacciato dai suoi pantaloni, e cominciò a profferire frasi minacciose che si persero
nell’aria: erano le minacce di un vigliacco!
Certamente il mattino successivo non doveva essere il momento più favorevole della giornata di Corrado ed,
infatti, proprio quel mattino, uscendo per andare a scuola, venne fermato da un uomo alto e massiccio.
“Sei Corrado?” gli chiese brusco e senza attendere la risposta “io sono il cugino di Andrea”, continuò,
guardandolo con aria di volerlo commiserare, “io sono un pugile medio-massimo e solo con un dito potrei farti
vedere le stelle del firmamento: perché hai aggredito mio cugino? Come hai fatto? Mi aveva fatto credere che eri
grande e forte ed invece sei un ragazzino meno robusto di Andrea. Che coniglio, mio cugino!”
Corrado cercava di spiegare i fatti ma quello non volle sentire neanche una parola e “Vai via”, gli disse
perentorio, indicandogli la strada e aggiungendo: “Picchialo, se ti capita sotto, altrimenti non impara la lezione!”
Corrado non se lo fece ripetere due volte perché non voleva arrivare tardi a scuola per colpa di un pugile di cui
non aveva mai sentito parlare.
Si ricordava che Virgilio, nell’Eneide, aveva descritto una gara di pugilato e l’uso dei “cesti”, che erano strisce di
cuoio guarnite di piccole borchie di piombo per aumentare la violenza dei colpi, anche da parte di Ercole nella
olimpiade del 688 a.C.
Il pugilato era stato tenuto in grande onore dai romani e la legge Aquilia prevedeva il risarcimento dei danni
esentando per altro il pugile che avesse senza premeditazione ucciso un avversario in gara dalla imputazione di
colpevolezza.
Corrado venne a sapere, poi, che il cugino di Andrea si chiamava Roberto Conio ed era stato campione dei pesi
medi prima di passare a quello dei medio-massimi, senza fortuna.
Non bisogna credere che un titolo sportivo di campione avesse fatto impressione a Corrado che, oltretutto, non
s’intendeva di pugilato. In realtà il pugilato non gli piaceva affatto e provava commiserazione per chiunque lo
praticasse. “Che razza di difesa? Farsi rompere il naso!”
Era questa la considerazione che era portato a fare istintivamente.
Aveva l’intima convinzione di potersi difendere con la lotta greco-romana ed aveva imparato la tecnica per
mettere al tappeto chiunque l’avesse sfidato, indipendentemente dal peso.
Non aveva fatto mai a pugni, neanche in palestra dove aveva visto due amici battersi coi guantoni ed uno di loro,
prestissimo, mise fuori combattimento l’altro e gli ammaccò irrimediabilmente il naso!
Questo fatto accrebbe l’antipatia di Corrado per il pugilato. Il cugino di Andrea non gli procurò, perciò, alcuna
emozione se non quella di augurargli il minor numero di pugni, sul naso, durante la sua aggressività.
Per Andrea non c’era bisogno di pugni perché il suo naso era inconsueto in quanto a dorso oscillante.
Corrado, comunque, aveva deciso di cancellare dalla sua mente l’immagine di Carmela.
Era lui, adesso, che evitava tutte le occasioni che potevano consentirgli di incontrarla.
Cambiò la stanza dove studiare per non essere coinvolto nella tristezza di Chopin.
Carmela si vantava con le sue amiche che era oggetto di una corte spietata da parte di Corrado e lui doveva
spiegare ad ogni nuovo spasimante di Carmela, forse informato della lotta sostenuta da Andrea, che di Carmela a
lui non importava proprio niente.
Presa la licenza liceale, Corrado si iscrisse alla facoltà di medicina.
Andrea si fidanzò con la figlia unica di un negoziante di profumi in modo da mettere a frutto il suo diploma di
ragioniere.
Il pugile, suo cugino, aveva aperto un bar, “Sport e pugilato”, dove Corrado qualche volta entrava per consumare
un caffè.
Carmela aveva preso il diploma di maestra e la madre le fece, subito, avere il posto nella sua stessa scuola.
Aveva conosciuto un maestro che faceva delle supplenze: era anche lui calabrese, dello stesso paese del padre di
Carmela. Era stato chiamato alla leva e una volta sottotenente si era raffermato non avendo vinto il concorso per
l’insegnamento come maestro.
Assegnato, a Palermo, in una caserma dove nessuno desiderava di andare a finire, riuscì a passare nei ruoli
speciali, anche per le pressioni della direttrice e di qualche cosca calabrese.
Finì con lo sposare Carmela che ormai subiva il fascino della divisa che doveva garantire, a suo dire, un
collegamento ad una vera virilità.
I genitori di Corrado vollero che andasse con loro a portare il regalo di nozze: non erano molti quelli disposti su
di un tavolo proprio vicino al pianoforte e il più bello e costoso era proprio quello dei genitori di Corrado.
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Corrado provò una forte emozione e tra sé e sé ripeté i versi del poeta: “Ahi come mal mi governasti amore!
Perché seco dovea sì dolce affetto recar tanto desio, tanto dolore?”
In realtà commiserava quel militare anche se l’eventuale o sicura cornificazione gli avrebbero consentito di fare
qualche passo avanti nella carriera nell’esercito italiano reduce da una guerra perduta e senza la monarchia da
sostenere.
Le vicissitudini che hanno caratterizzato la vita politica proprio nel palermitano non possono fare a meno di far
dubitare che quel calabrese militare abbia compreso che il suo compito era anche quello di difendere le istituzioni
che garantiscono il funzionamento e la vita democratica dello Stato nonché la salvaguardia dell’ordine pubblico e
della stabilità interna.
Non è detto che a questi compiti si siano sentite responsabilizzate anche altre unità operative delle forze armate e
la successiva esperienza di Corrado come ufficiale medico negli alpini non ha mancato di porgli numerosi
interrogativi.
C’è da chiedersi come mai un maestro viene inquadrato come militare alle armi e non come militare che oltre al
normale addestramento militare debba contemporaneamente provvedere a corsi accelerati di alfabetizzazione dei
cittadini che, sfuggiti all’obbligo scolastico primario, vengono comunque reclutati nelle forze armate anche se per
esserlo non debbono essere analfabeti!
Certamente sarebbe stato un provvedimento a garanzia del recepimento da parte dei responsabili del comando di
recepimento del dettato Costituzionale quello di congedare tutti quegli ufficiali collegati direttamente o
indirettamente alla milizia fascista o che non avevano adempiuto al loro giuramento di sacrificare la vita per la
Patria, combattendo.
C’era troppo da pulire e le scelte dei partiti non erano certamente quelle di una pulizia che avrebbe coinvolto
parenti ed amici.
Un forte contrasto si manifestava fra la condizione della vita della popolazione e quella dei liberatori o di
disoccupati che sceglievano la pagnotta militare pronti ad accodarsi ai nuovi padroni.
La caduta del fascismo ed il ritorno trionfalistico della partitocrazia modificavano i rapporti di classe e non
esisteva più una cultura comune con valori comuni ma tante culture e tanti valori in base alle strategie dei partiti
per detenere un potere che non era più fascista di nome ma che ne ricalcava le ambizioni.
Il Partito Comunista perseguiva degli obiettivi totalitari mistificati dalla definizione di partito della classe
lavoratrice che doveva consentire solo agli esponenti del PCI, quali suoi legittimi rappresentanti, di assumere le
responsabilità del potere dello Stato comunista.
La logica strategica poteva compendiarsi col bell’assioma che: “Tanto peggiori condizioni di vita per gli italiani e
per le sue istituzioni si sarebbero potute realizzare con la corruzione e l’ostruzionismo pragmatico ad ogni
iniziativa di crescita diverse da quelle perorate dal Partito Comunista e dai suoi quadri di attivisti indottrinati
tanto più presto, scardinato lo Stato di diritto, i proletari di tutto il mondo avrebbero potuto unirsi trasferendo i
capitali nella disponibilità della gerarchia filosovietica.”
Ma questa strategia serviva soltanto per consentire ai vertici del Partito Comunista di assumere posizioni
personali forti all’interno del sistema partitico che, ormai, libero da sudditanze monarchiche o da ferree regole
democratiche poteva gestire senza controllo l’apparato statale fermo alla organizzazione fascista e orientato a
favorire solo in funzione delle liberalità dei partiti.
L’Italia, in effetti, viveva fin dai primi giorni del dopoguerra con la sensazione di una crisi inevitabile del sistema
democratico formulato nel dettato Costituzionale per l’evidente preponderanza della cultura comunista sotto la
quale militavano non solo tutti i sindacati operai ma molti intellettuali inseriti nei quadri del partito per essere
distribuiti nelle varie assemblee e dirigenze delle istituzioni nazionali e locali per fare da suggeritori agli operai in
maniera che questi ultimi acquistassero prestigio dinanzi alla opinione pubblica.
Gli intellettuali pregustavano la loro ricompensa in termini di carriera nel settore pubblico per l’ormai
compromesso con le componenti cattoliche di base che cominciavano a manifestare inclinazione verso un
marxismo leninismo fondato anche sui principi cristiani.
Alla fine questo assurdo connubio mistificato esteriormente da orientamenti sia a favore degli USA da parte dei
partiti di destra e filosovietici da parte dei partiti di sinistra consentiva una certa stabilità al sistema politico
italiano. Tale sistema produceva una classe politica privilegiata e parassitaria i cui interessi erano gestiti dalla
violenza delle correnti interne ai partiti in funzione della distribuzione dei posti di potere da assegnare a ciascun
notabile in un rapporto di interdipendenza con i posti spettanti a ciascun notabile di ciascun partito in barba alle
promesse elettorali e al controllo della gestione finanziaria dei centri di spesa assegnati ai notabili.
Dove pescare quattrini? Tutti d’accordo nel realizzare una politica dei redditi che era fatta propria dal Partito
Comunista e manlevava la Democrazia Cristiana e i partiti di estrema destra ma che faceva esultare i lavoratori
dalla cultura marxista: “Il mio è mio ed il tuo è anche mio!”
La esasperata localizzazione degli interessi metteva a nudo intrecci mafiosi e intrecci con movimenti rivoluzionari
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armati che agivano senza andare oltre certi obiettivi a carattere di esaltazione ideologica.
Cominciava a delinearsi una lacerazione del tessuto nazionale ed una disgregazione delle esperienze storiche
vissute dai cittadini che onoravano il nome d’Italia.
La crisi d’identità e di legittimità era perseguita dai partiti di sinistra per accentuare la conflittualità non solo fra i
vari gruppi sociali ma anche fra la violenza degli attivisti dei partiti e le istituzioni dello Stato.
La disgregazione avrebbe fatto del partito comunista l’unico garante dell’ordine e della attuazione della
Costituzione adattata alla necessità di cooperazione con l’est comunista europeo.
Molti amici di Corrado avevano scelto la via dell’emigrazione verso paesi di sicura stabilità democratica, o di
garanzia di lavoro non vincolato alla tessera di un partito.
Rosario, un coltivatore di agrumi di un paese arroccato sui monti peloritani che Corrado aveva conosciuto
quando era venuto in città per dei documenti, era passato a chiedere informazioni a suo padre che era in buoni
rapporti con Pellegrino il padre di Rosario, con cui aveva collaborato in occasione della inaugurazione del
movimento ai caduti in combattimento, nella prima guerra mondiale.
Pellegrino era emigrato con la famiglia in America ma era voluto rientrare in Italia fidandosi delle promesse del
fascismo a favore dei contadini.
Due dei suoi figli erano rimasti in America: erano diventati cittadini americani. Rosario era nato dopo il rientro
del padre dall’America.
Alla morte dei genitori, Rosario aveva cercato di riuscire a vivere con i prodotti del terreno lasciatogli da suo
padre ma la politica del governo era quella di lasciar fare ai sindacati democristiani che, nel caso di Rosario,
devono aver pensato che era meglio costringere i piccoli proprietari a disfarsi del loro terreno a favore di
possidenti più facoltosi.
Nessuno sapeva coltivare le arance meglio di Rosario!
Rosario venne in città e, non conoscendo dove fosse il consolato, chiese aiuto al padre di Corrado che lo
accompagnò rendendo più celeri le pratiche per l’espatrio.
Raggiunse i fratelli in America: erano diventati ricchi, proprietari di una grande fattoria con vaste estensioni di
vigneti e diverse altre colture comprese le arance.
Dopo alcuni anni, a casa di Corrado, si presentarono due bei giovanotti che parlavano a stento il siciliano: erano i
due figli di Rosario che avevano voluto visitare il paese del padre che non si era dimenticato dei genitori di
Corrado e aveva chiesto ai due figli di andare a salutarli: erano studenti delle superiori e avrebbero proseguito gli
studi fino al diploma universitario in agraria.
Anche Corrado pensava che piuttosto che stare senza far niente nella sua città avrebbe scelto la strada della
emigrazione in qualsiasi parte del mondo. Gli studi universitari comunque proseguivano.
Aveva cominciato a capire che difficilmente avrebbe potuto esercitare la professione nella sua città che, come
sede universitaria, concentrava un numero considerevole di studenti provenienti da vari paesi del sud e del nord:
molti di loro avevano cospicue risorse finanziarie da immobili e terreni e l’ambizione di esercitare in città e di
accedere ad incarichi universitari.
Il fratello di Corrado era stato chiamato per il servizio militare e come ufficiale medico gli era stato vietato di
poter svolgere il servizio in Sicilia. Era la prima fregatura che sarebbe stata evidenziata con il senno del poi e della
mancanza di questo senno si facevano forti gli strateghi degli inciuci dell’organigramma militare già a partire dagli
uffici di leva presso i Comuni a componente partitica e politica pronti ad avvalersi della esuberanza numerica.
All’inizio, quando aveva scelto di intraprendere gli studi nella facoltà di medicina, Corrado si era reso conto che i
suoi professori in materie scientifiche, probabilmente seguendo direttive ministeriali, non si erano affatto
interessati per renderne partecipi gli studenti e, quindi, era necessario allenarsi ad un nuovo linguaggio ed ad un
nuovo modo di pensare che lasciasse nel subconscio tutte le enfasi classicheggianti del latino e del greco.
Bisognava riempire un grande vuoto!
Quando usciva di casa gli capitava di scrutare il volto di qualche coetaneo nella speranza che fosse quello di
qualche suo compagno di scuola e quando capitava che s’incontrasse realmente con qualcuno di essi era come se
fossero trascorsi millenni tanto erano diversi i loro discorsi rispetto a quelli vissuti assieme sui banchi di scuola.
Eppure erano stati seduti sui banchi gomito a gomito.
Volevano dimenticare la scuola per potersi identificare con la futura professione che avrebbero potuto
intraprendere con una laurea che apriva diverse prospettive come quella in giurisprudenza.
Parlavano della importanza dei partiti e della opportunità offerta dalle associazioni cattoliche.
Criticavano il fatto che il rettore, liberale, avesse fatto costruire, per il genero, un grandioso albergo sul
lungomare e che avesse creato un clima politico troppo di parte.
Da questi incontri saltuari Corrado aveva ricavato la sensazione che correvano tempi cattivi per chi non poteva
coniugare un serio studio per superare gli esami, visto che non godeva di raccomandazioni, con la partecipazione
attiva alla vita dei partiti o di associazioni.
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Ingenuamente non si rendeva conto che appartenendo a queste strutture molti esami potevano diventare solo
una formalità. Pensava che, specie nel meridione, solo la n’drangheta, la mafia, il sistema partitico e la massoneria
erano in grado di condizionare qualsiasi docente e di sistemare parenti e soci lungo le infinite vie del Signore.
Le prospettive per i suoi compagni di scuola che, a maggioranza, avevano scelto una facoltà quale quella di
giurisprudenza con una durata ridotta di studi e con aspetti sociali pratici si manifestava nei discorsi che facevano
e che erano tali da mettere a disagio le possibilità interlocutorie di Corrado impegnato in formula di Arneth o in
rattus norvergicus.
I suoi compagni erano protesi ad una immediata sistemazione in settori organizzati della vita pubblica diversi
dalla organizzazione del settore sanitario, lasciato senza un assetto istituzionale in grado di controllarne
l’efficienza e la corretta gestione del personale umano, anche se vi erano state enunciazioni programmatiche sulla
base del dettato della nuova Costituzione della Repubblica che avrebbero dovuto fissare nuove regole nella
assegnazione dei posti per garantire la salute dei cittadini sottraendoli alla discrezionalità delle rappresentanze
partitiche di tutti i colori all’interno degli enti mutualistici gestiti in funzione degli assicurati, che, certamente,
perseguivano una politica di risparmio della spesa sanitaria per avere sufficienti risorse finanziarie da poter
stornare, nell’eventualità, ad altri settori produttivi a carattere operaio o contadino a seconda della consistenza
numerica ai fini elettorali.
Comunque si era diffusa una campagna a favore di De Gasperi e della Democrazia Cristiana alla quale veniva
attribuito il merito di avere ridotto il tasso di disoccupazione, anche favorendo una nuova emigrazione nella
Germania e in Belgio.
Il mercato cominciava ad assicurare un livello adeguato alla domanda globale e lo Stato adempiva ai propri
impegni ampliandoli e comprendendovi il pieno impiego e la stabilità del processo economico.
Determinante era stata l’emissione di titoli di Stato con tassi abbastanza alti da allettare i grossi capitali che
diventando creditori potevano condizionare le scelte politiche dei partiti.
Era comprensibile che vi sarebbe stato un ribaltamento dei valori sociali e che avrebbero acquistato una
superiorità coloro che, anche per profitti di guerra, adesso venivano premiati con lo sviluppo ulteriore del loro
reddito ed un rafforzamento dei legami politici ed economici con i rappresentanti qualificati di tutti i partiti.
Un giorno a Corrado capitò di incontrare un suo compagno di scuola, Mivacci, che, grazie anche alla sua
indubbia preparazione ed intelligenza, era riuscito a farsi assumere in Regione pur continuando gli studi di
giurisprudenza che avrebbe, poi, concluso con ottimi voti.
Mivacci si dichiarava soddisfatto della sua scelta anche perché, diversamente dagli studenti di medicina, non era
obbligatoria la frequenza. “E poi, nel mio lavoro apprendo molte delle nozioni che servono per gli esami. Faccio
pratica della teoria descritta nei libri e per giunta mi pagano!” disse Mivacci.
“Ma per il sevizio militare?” gli chiese Corrado che dalla prima volta che era dovuto andare al distretto militare,
per la chiamata di leva, viveva come un incubo la possibilità che il dovere-diritto a prestare servizio per la Patria
non gli consentisse di concludere i suoi studi fino alla laurea.
Non voleva fare la fine di quel maestro che aveva sposato Carmela o, addirittura, ritrovarsi soldato agli ordini di
un probabile cornuto.
Spesso questo pensiero lo avviliva al punto che meditava di non rinnovare più la domanda di rinvio e togliere
questa spada di Damocle pronta a rovinargli la vita.
Ma si metteva in fila, in segreteria, e ritirava il certificato da presentare al distretto.
Anche se suo padre era stato un valoroso ufficiale combattente nella guerra del 15-18, ragazzo del ‘99 Corrado
sentiva un certo distacco dalle divise che si succedevano mentre presentava il suo rinvio.
Era probabilmente una premonizione della realtà che avrebbe vissuto da ufficiale medico in una caserma degli
alpini.
Comunque adesso aspettava che Mivacci, che era stato sempre sincero e che si era messo a ridere rispondesse
alla sua domanda.
“Ci sono mille modi per non finire fra i militari”, esclamò, “io non lo farò di certo.”
“Sono stato dichiarato indispensabile per l’ufficio in regione ed ho già il congedo illimitato. Appena laureato
cerca di trovare un buco in ospedale o in una condotta che trovi un cattedratico o un Sindaco che ti dichiari
indispensabile o che ti metta fra i nominativi esentati per esuberanza di leva.”
Ma cerca di rispettare i tempi altrimenti ti fanno fare il militare per il gusto perverso di poter comandare e gestirti
a modo loro con i soldi dello Stato.”
Corrado lo ringraziò per i consigli e restarono d’accordo, salutandosi, che al momento opportuno gli avrebbe
chiesto ancora qualche chiarimento procedurale ma non ebbero più modo d’incontrarsi per la voglia di Mivacci
di fare carriera pur operando in una regione ed in una capitale quale Palermo che viveva una particolare
situazione che non lasciava spazio a libertà individuali.
Corrado aveva letto alcuni libri di Pitrè riguardanti alcuni fatti storici della Sicilia.
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Si leggeva che uno della congrega dei “Beati Paoli” aveva preso parte alla rivolta contro Druetto e gli altri
francesi che erano stati costretti a lasciare la Sicilia: erano i Vespri siciliani!”
Ma adesso i beati erano diventati santi e assolvevano a colpi di lupara!
Corrado provava una certa soddisfazione pensando che avendo scelto di fare il medico non avrebbe odiato
nessuno e, come ripeteva don Pino, avrebbe esercitato una missione come quella dei preti.
Don Pino si era iscritto anche lui alla facoltà di medicina per poter curare il corpo oltre che lo spirito.
Aveva la sua brava parrocchia e tanto tempo libero. Aveva cominciato a fare l’agopunturista e si era costruita una
certa reputazione fino al punto di essere considerato un taumaturgo capace di scaccciare il diavolo che era, a suo
dire, la causa prima di tutti i mali.
“Se vuoi bene al tuo prossimo”, diceva, “devi alleviare le sue sofferenze e non importa se per farlo devi fare
l’omeopata con dosi scalari di soluzione fisiologica o con placebo zuccherati che rendono la gente felice.”
Corrado cominciava a temere un confronto con questo modo di intendere la scienza medica e non poteva fare a
meno di considerare che sarebbe stato difficile far capire che non è tanto l’abitudine di farsi togliere i calli ed i
denti dal barbiere che deve destare preoccupazione ma la circostanza che per valorizzare questa attività gli stessi
barbieri si tassino a favore di un onorevole che fa approvare una sua proposta di legge che attribuisce la qualifica
di “podologo” a chiunque per un certo periodo di tempo abbia tolto calli.
E non mancò quell’onorevole che diventò benemerito della comunità dei frati che si erano impratichiti nella
estrazione dei denti. Divenne un’opera pia per assistenza sanitaria ai bisognosi, con l’aiuto di Dio, e della riforma
sanitaria ospedale generale.
Succedeva anche che diventasse ministro della sanità un incompetente ed allora non restava che trattenere il fiato
senza trascurare di raccomandarsi a Sant’Antonio che tanto bene aveva fatto a donna Flavia.
PARTE TERZA
Era prossimo il Natale e Corrado decise che lo avrebbe trascorso in casa della sorella, in Alto Adige a Brunico,
dove il cognato era stato trasferito dopo la soppressione, in Sicilia, di una sede del genio militare dove svolgeva la
sua attività nel ruolo dei ragionieri-geometri civili.
Corrado, dopo un lungo viaggio in treno, raggiunse il Tirolo e rimase incantato dall’inconsueto panorama della
neve che rendeva tutto fiabesco ed emozionante: le alte cime innevate dei monti, superbi, e la foresta di alberi
che s’inerpicava sulle loro pareti trattenendo a stento la neve che spingeva a valle, lo fecero sentire come
schiacciato da una forza della natura che non aveva mai conosciuta.
Non riusciva a credere che suo padre, ragazzo del ‘99, era stato mandato, dal profondo Sud, a combattere su quei
monti, su quei baluardi innevati che s’erano arrossati con il sangue dei caduti dell’una e dell’altra parte.
Era prigioniero della stupefatta ammirazione che provava per coloro che vivevano in quei luoghi così diversi
dagli estesi campi di grano, assolati, della sua Sicilia, dal verde degli agrumeti che spandevano il loro profumo
fino al mare.
Adesso erano le montagne che lo dominavano: le ripide pareti, grigie e rossiccie, mostravano stratificazioni e
fratture che si esprimevano in profondi dirupi, in spuntoni, in guglie che neanche la neve ed il bosco delle falde
riusciva a rendere meno impressionanti.
Erano rocce calcaree quelle delle Alpi dolomitiche ed anche li c’era stato il mare come l’aveva descritto il geologo
francese Dolomieu da cui avevano preso la denominazione.
Il Natale lo trascorse in Val Badia, ospite, assieme ai suoi parenti, di Gertrude, una altoatesina dall’aspetto
piuttosto piacente che insegnava nella stessa scuola elementare nella quale anche la sorella di Corrado aveva
avuto l’incarico.
La madre di Gertrude era una donna grassoccia che portava un paio di occhiali a molla, senz’orlo; il padre era un
uomo massiccio ben proporzionato, con mani robuste.
Ogni tanto, a sentire i discorsi dei suoi ospiti, scoppiava a ridere ed esclamava: “Mein Gott! Mein Gott!”
Si poteva essere certi che aveva ben capito anche se limitava il suo italiano a favore del tedesco.
Gertrude aveva guance lisce e delle labbra mature, voluttuosa di forme, aveva, però, l’accenno ad una linea
morbida sotto il mento che indicava che avrebbe finito per prendere la tozza pienezza della madre.
Abitavano in un maso che si raggiungeva con la funivia: era una bella costruzione con il piano terra in muratura,
intonacata di bianco e la parte superiore in legno con il tetto di scandole lignee, a due spioventi, sotto il quale
c’era la facciata, munita di ballatoi aperti.
Corrado collegò quei tronchi squadrati, legati a doppio incastro, con la disponibilità di legname offerto dai folti
boschi che costituivano una importante risorsa economica per l’Alto Adige.
Il maso era stato ereditato dal padre di Gertrude che era il primogenito per la legge del maso chiuso e i suoi due
fratelli avevano preferito emigrare in Australia.
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Era stato il padre di Gertrude ad accogliere gli ospiti di sua figlia.
Socchiuso il cancello del giardino il padre di Gertrude li accompagnò attraverso filari di viti addormentati nel
terreno innevato. Una galleria di legno, all’altezza del primo piano del maso, ombreggiava le mura esterne che
abbracciavano il giardino ed il cortile.
Le tavole della galleria scricchiolavano e già queste tavole e poi alcuni pavimenti di legno rosso, un po’ consunte,
contribuirono a creare una sensazione di antico.
Entrando si avvertiva un odore di letame che continuava fin nella cucina, adiacente.
Furono fatti entrare in una stanza tutta rivestita di legno: c’erano vecchi cassettoni dipinti con fiori rossi ed una
grande stufa di terracotta da cui proveniva un caldo tepore: era sormontata da un baldacchino dipinto.
L’odore di quella stanza “Stube” era estraneo a Corrado, molto diverso dai nascondigli della sua infanzia e gli
suscitava un sentimento di duplice natura da italiano e da forestiero.
L’Italia era indubbiamente anche in quel luogo ma era una Patria che aveva dimenticato il suo meridione a
vantaggio di una cultura che si esprimeva, in particolare, con quelle popolazioni che, nel bene o nel male,
avevano convissuto con l’impero austro-ungarico.
Probabilmente la presenza degli alpini poteva sembrare, ai tirolesi, quella di truppe di occupazione e di rivincita
razziale dopo anni di commistione più o meno servile con l’impero.
E questa impressione fu mantenuta da Corrado anche quando si trovò a convivere con ufficiali degli alpini che
vivacchiavano in una caserma altoatesina.
Era stata intitolata ad un generale che incredulo che venisse colpito dai franchi tiratori austriaci ogni fante che
continuasse il percorso su di un sentiero, volle sincerasi del motivo che esponeva a tale rischio forse fidando nel
suo grado ma non riuscì a suggestionare il tiratore.
Al generale incauto furono riservate solenni onoranze funebri ed il Re ordinò che nessun generale operasse in
prima linea. L’onore spettava ai fanti, in particolare se meridionali!
Adesso, comunque, si trovava nella stanza con la “stube” dove era stato allestito l’albero di natale e la tavola
imbandita che era disposta ad angolo con i sedili, fissi come una panca, ai due lati.
I genitori di Gertrude erano molto gentili e Corrado provò ad esprimersi nel suo tedesco scolastico.
Il padrone di casa volle fare assaggiare il suo vino.
Aveva ricavato delle terrazze lungo il pendio, disponendo dei muretti di pietra a secco a sostegno della terra dove
aveva piantato i vitigni che si appoggiavano su sostegni di legno, in ottima posizione rispetto al calore del sole.
Ai piedi del pendio, in riva ad un lago, scorreva la strada ferroviaria per il Brennero e sul lato opposto dello
specchio d’acqua i massicci alpini apparivano ora offuscati ora nitidi man mano che la nebbia si alzava dal bosco.
Corrado collegò questi sostegni di legno ai grandi alberi che aveva visto, dal treno, in Campania, i cui rami, da
albero ad albero, sostenevano, come una grande rete, i tralci delle viti ricche di grappoli.
Certamente capiva che il vino prodotto in Tirolo doveva avere molti estimatori specie per la bassa gradazione e
delle particolari caratteristiche organolettiche gradite agli altoatesini e non mancò di complimentarsi con la
maestria di vignaiolo del padre di Gertrude che aveva voluto fargli vedere qualche vigneto.
Rientrò volentieri al caldo della “stube” perché fuori faceva abbastanza freddo.
A mezzanotte Gertrude mise il disco di “Stille nacht” e tutti ascoltarono, in silenzio, quella nenia natalizia.
Le luci dell’albero di Natale erano tutte accese e creavano una atmosfera molto suggestiva. Corrado non era
abituato all’albero di Natale perché a casa sua veniva preparato il presepe seguendo la tradizione francescana.
Chissà perché nell’albero di Natale vedeva il ripetersi di quelle divinità pagane dei boschi che Carlo Magno
cercava di estirpare dal cuore delle tribù germaniche, con continue spedizioni punitive e di conversione al
cristianesimo.
Il presepe lo allestiva il padre di Corrado che cominciava molto in anticipo perché modellava con la creta tutti i
protagonisti della nascita del bambino Gesù.
Realizzava ogni particolare e il presepe esprimeva una atmosfera sacra e coinvolgente.
A mezzanotte, poi, venivano due pastori veri, abruzzesi, a suonare con le “ciaramelle” e quella notte di Natale si
arricchiva con le note di “Tu scendi dalle stelle…!”
Adesso l’atmosfera era completamente diversa e dopo avere cenato e brindato venne il momento di accomiatarsi:
erano le due di notte e fu il padre di Gertrude che li accompagnò fino alla stazione.
Corrado batteva i denti per il freddo e fece presto a prendere sonno sotto il caldo materasso di piume.
Uscì nel tardo pomeriggio e s’incamminò verso il Waldheim indicato da una segnaletica stradale.
Stava camminando sul marciapiedi lungo la strada che dal ponte di ferro, sul fiume, portava verso il bosco.
E già rallentava per fermarsi a guardare le vetrine nei negozi accanto alla “Sparkasse”, quand’ecco vide Gertrude
che gli veniva incontro.
Lei non pareva nemmeno sorpresa e lo guardò come se sempre avesse saputo prima di lui stesso che si sarebbero
incontrati. Gli venne accanto e cominciò a parlare con quella sfumatura gutturale del tedesco, animatamente.
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“Ancora stamattina pensavo se ti saresti fermato ancora un paio di giorni.”
“Partirò fra due giorni”, le rispose Corrado.
Camminarono uno dietro l’altra, lungo il marciapiedi affollato e Gertrude, voltandosi, “Mi accompagni?” gli
chiese. Corrado le si avvicinò adesso che il marciapiedi era libero e si slargava verso una piazzetta, dalla quale
proveniva una musica le cui note parlavano d’amore deformato dalle scariche elettriche o dalle puntine del
giradischi.
Raggiunsero il locale da cui proveniva la musica.
Fu Gertrude ad entrare per prima e salì rapidamente lungo i gradini che portavano al piano superiore, la sala da
ballo.
Sembrava di casa e stava per varcare la soglia di quella sala quando si volse verso Corrado che l’aveva seguita. I
loro occhi, quasi allo stesso livello e la mano di Corrado volteggiò rapida verso l’ascella di lei che gli prese il polso
mentre l’altra mano tentò ancora e lei trattenne anche quella nella sua mano morbida.
Si guardarono nel profondo degli occhi, lei con la bocca dischiusa e le macchie di rossetto che si scurivano
lentamente sulla sua faccia.
“Ricordi come ti guardavo al nostro primo incontro?” disse lei.
Alle loro spalle la musica batteva ritmica, monotona, evocativa, piena di fruscio di piedi, del voluttuoso isterismo
dei muscoli che scaldavano il profumo della carne, del sangue.
“Non hai capito che sono venuta a cercarti? Ti aspettavo!” disse lei con le labbra che appena si muovevano.
Nella stretta di lui, le mani di Gertrude fecero l’atto di aggrapparsi al cappotto di Corrado ma con le punte delle
dita, a distanza.
Lentamente egli la stava facendo voltare con la testa verso di lui.
“Voglio vedere se ne hai il coraggio”, esclamò lei sorridendo, “se osi!”
La mano di Corrado si appoggiò sul collo di lei, le dita calde e leggere le sfiorarono la pelle e lei offrì le sue labbra
per un rapido bacio.
Entrarono nella sala e, dopo avere consegnato i cappotti in guardaroba, si sedettero ad un tavolo. Poi ballarono e
lei poteva capire di avere suscitato il desiderio di lei in Corrado.
Oltre la sua spalla, però, Gertrude si guardava rapidamente intorno per la sala, i suoi occhi andando rapidamente
da una faccia all’altra dei ballerini e degli avventori.
Oltre una bassa arcata, in una sala attigua, un gruppo di quattro uomini se ne stava intorno ad un tavolo
ingombro di boccali di birra. Lei si piegò due tre volte, di qua e di là, cercando di individuare qualcuno nel
gruppo: uno di loro stava fumando un sigaro e tutta la parte inferiore del suo volto sembrava seminata di denti di
grosse dimensioni. Quando Gertrude ne incontrò lo sguardo, costrinse Corrado a girarsi così da voltare le spalle
al gruppo, e adoperandosi in modo da avvicinarsi alla porta.
Ancora una volta il suo sguardo andò da una faccia all’altra del pubblico.
Guardò ancora gli uomini seduti al tavolo: due di questi si erano alzati e si stavano avvicinando ma Gertrude
trascinò Corrado più distante, sempre voltando loro le spalle.
I due uomini si fermarono e tentarono di girarle intorno ed ancora una volta lei spinse Corrado, di spalle, verso
di loro. I due uomini lasciarono la sala e lei cominciò a ridere con voce acuta. “Cos’hai?” domandò Corrado
spazientito. “Vuoi dirmi una buona volta il perché di tutti questi volteggi? Di che cosa hai paura?”
Lei cercava di dirgli qualcosa ma la sua bocca era come congelata.
Era come cercar di raccogliere uno spillo con le dita intirizzite. Lei cercò la mano di Corrado e “ Fammi bere”,
gli disse sottovoce. Si sedettero ad un tavolino che era poco distante da quello dove era ancora seduto l’uomo
che era ancora intento a fumare il sigaro: un gomito sulla tavola mentre l’altro sedeva tutto impettito, con il
boccale di birra poggiato sul tavolo e una mano infilata sotto le strisce di cuoio che sostenevano i pantaloni di
camoscio. La camicia in tessuto pesante, a quadri, era tutta abbottonata sul petto e faceva luccicare il metallo
disegnato dei bottoni a forma di edelweiss.
Gertrude si accorse di avere un bicchiere in mano e bevve inghiottendo a fatica e, poi, sempre con il bicchiere in
mano, si voltò e restò fissa a guardare un tale ritto sulla porta, in divisa di vigile del fuoco.
Aveva tutta l’aria di un generale e si guardava intorno per la sala sino a che non vide Gertrude che se ne stava
seduta con il bicchiere in mano e Corrado, di spalle.
I due seduti all’altro tavolo non si erano mossi.
La musica riprese a suonare e quel tale stava ancora osservando di quasi la testa più in alto di ogni altro che aveva
ripreso a ballare.
“Vieni” sussurrò Gertrude all’orecchio di Corrado, “siamo entrati per ballare, balliamo!”
Prima volle bere ancora, quel tale era scomparso.
Lei si muoveva con gesti languidi e rigidi insieme, gli occhi bene aperti ma che non vedevano, per un po’ con il
corpo che seguiva la musica ma senza udirne il motivo.
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L’orchestra stava suonando la stessa musica di quando erano entrati nella sala e Gertrude sentì lunghe onde
voluttuose passarle per tutto il corpo che si strinse a Corrado sentendo il desiderio sommergerla, onda dopo
onda, frammisto alla musica e all’odore della sua stessa carne.
Corrado si lasciò coinvolgere fino a che Gertrude lo prese per mano e attraversò la sala a passi rapidi e
guardinghi verso la porta mentre i ballerini roteavano intorno in una miriade di onde luminose.
Il tavolo in cui erano stati seduti i due uomini era deserto, ma lei non vi lanciò nemmeno un’occhiata.
Infilò il corridoio ed un cameriere le si affrettò incontro: “Un salottino riservato?” chiese con aria complice.
Li introdusse in una stanza con un divano, un tavolo, un vaso di fiori e due sedie.
Ordinarono della birra e Corrado chiese al cameriere di portargli il conto.
Aggiunse il “trinkengeld” come era usanza. Il cameriere disse qualche frase a Gertrude ma era un dialetto che
Corrado non riuscì a capire.
Rimasti soli, Gertrude si sedette sul divano, le braccia tese verso Corrado.
I suoi occhi cominciarono a farsi sempre più azzurri e cominciò a rivolgersi a Corrado con una voce dolcissima
che sapeva d’amore e di desiderio “Liebe mich, Corrado” ed il suo corpo s’inarcava lentamente all’indietro come
di fronte ad una offerta d’amore.
Quando Corrado la toccò, Gertrude scattò stringendolo fra le sue braccia, le labbra tumide e rosse pronte ad un
bacio. Con le anche che si scacciavano contro di lui, la bocca che si protendeva avida verso la sua, Gertrude
cominciò a parlare: “Hai visto quel vigile del fuoco? È Günther! È un terrorista per l’indipendenza del Tirolo e
odia gli italiani, è stato il mio fidanzato ma io l’ho lasciato. Gli ho detto che non mi piacciono i terroristi che
uccidono carabinieri e fanno saltare i tralicci. Voleva che nascondessi la dinamite per gli attentati ma io non odio
nessuno. È colpa mia, forse, se mi sento attratta da te e ti desidero?”
Le protese ancora la bocca trascinando la testa di Corrado in basso, con un gemito.
Corrado sollevò la faccia e la guardò negli occhi: “Lo sapevi che sarebbe venuto nella sala da ballo?” le chiese.
“Cosa? Gli ho detto che non doveva più rivedermi. Lo hanno informato i suoi amici terroristi, quei due che sono
usciti. Non devi preoccuparti, anche se Günther è grande e grosso non è neanche un uomo senza la divisa da
pompiere e la dinamite. Io mi sono innamorata di te!” e nel dire questo cominciò a strofinarsi ancora di più
contro il corpo di Corrado mormorando frasi d’amore.
Corrado la strinse a sé mentre lei continuava ad abbandonarsi in una specie di voluttuosa attesa, nel desiderio di
essere amata.
Quando uscirono dalla stanzetta erano ancora ebbri d’amore e, avviandosi per il corridoio, si lasciarono andare
alla promessa che il loro amore sarebbe continuato anche se Corrado doveva tornare in Sicilia per continuare i
suoi studi.
Andarono verso la porta della sala da ballo da cui non proveniva più alcuna musica.
Erano stati tolti alcuni tavolini che si ammucchiavano in un angolo, mentre altri erano stati accostati fino a farne
uno solo molto lungo su cui era stesa una tovaglia con lo stemma asburgico dell’aquila con due teste sormontata
dalla corona del sacro romano impero.
Le cortine delle finestre erano state tirate e ne filtrava una luce densa, color salmone.
Dietro questi tavoli c’era la piattaforma dell’orchestra.
I camerieri disponevano di nuovo i tavoli ammucchiati nella sala ed andavano e venivano coprendoli con tovaglie
candide e ponendovi vasi di fiori e bandierine con la scritta “Südtiroler Volkspartei”.
Günther e i suoi amici si aggiravano fra i tavoli e si intrattenevano con quelli che arrivavano al momento che
entravano e prendevano posto mentre i camerieri venivano con boccali di birra.
Si muovevano con riserbo militaresco e la scena si era fatta viva con aria marziale e dalle voci rauche, un tantino
febbrili. Entrava gente di continuo. Gli uomini in costume tirolese mentre le donne più giovani portavano abiti
dai colori vivaci, sciarpe e cappelli dalle larghe falde e le più anziane in tinte scure, più sobrie con delle sottovesti
ricamate che sporgevano dall’orlo della gonna ampia.
All’arrivo di alcuni vigili del fuoco con altri dai grandi cappelli arricchiti con penne di gallo cedrone, la gente si
avvicinò clamorosa circondando il tavolo con lo stemma imperiale mentre i nuovi arrivati vi si avvicinavano.
L’orchestra cominciò a suonare la marcia di Radetzskj e tutti stettero fermi, in piedi.
Gertrude prese la mano di Corrado e con lui si diresse verso l’uscita: la strada era tutta illuminata e il passaggio di
una macchina che rompeva il silenzio della città addormenta li riportò alla realtà.
Si affrettarono verso le rispettive destinazioni giurandosi di continuare ad amarsi.
PARTE QUARTA
Corrado non ebbe modo di rivedere Gertrude perché aveva deciso di ripartire l’indomani pensando che se fosse
rimasto ancora qualche giorno in più difficilmente avrebbe potuto rinunciare al suo amore per Gertrude. Non
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voleva e non poteva rischiare di cambiare vita e mentalità.
Nella sua città lo attendeva l’impegno con gli studi universitari e la parentesi tirolese finì con l’affievolirsi anche
se nel suo intimo, inconsapevole, continuava a covare il desiderio di rivedere quei posti e Gertrude.
Venne a sapere che era morta donna Flavia e sentì che si era portato via un periodo della sua fanciullezza
dominato dalla guerra e dal terrore.
Donna Flavia non era destinata a vivere da ricca! Aveva fatto murare una cassaforte vicino alla nicchia riservata
alla immagine del suo Sant’Antonio, nella parete alla sua destra, alla fine del bancone.
Vi custodiva documenti delle poste e delle banche e solo il denaro della giornata.
Aveva fatto blindare le saracinesche in un eccesso di prudenza perché era ossessionata dalla paura dei ladri.
Aveva ripreso a dormire nel negozio. Una notte sentì dei rumori che la costrinsero a scendere dal letto e ad
avvicinarsi alla saracinesca: tese l’orecchio e un forte rumore proveniente dall’esterno la terrorizzò tanto da
provocarle un infarto e la morte.
Il rumore era quello dei nuovi mezzi della nettezza urbana data in appalto ad una impresa che provvedeva alla
compattazione durante la raccolta.
La popolazione non era stata avvertita e i mezzi erano molto rumorosi, tanto più che il servizio veniva svolto alle
prime luci dell’alba. Non c’erano ancora normative contro i rumori!
I vigili del fuoco chiamati dal figlio di donna Flavia che era passato per ritirare il denaro da depositare in banca e
che temeva fosse successo qualcosa alla madre che non aveva, perciò, azionato il comando posto all’interno per
alzare la saracinesca, faticarono con la fiamma ossidrica per scardinare la saracinesca e la trovarono con le mani
ustionate, proprio lì dietro.
Il figlio di donna Flavia vendette il negozio perché faceva l’ufficiale giudiziario e non riteneva dignitoso mettersi
dietro un bancone da bottegaio. Regolarmente riscuoteva l’affitto da parte degli inquilini degli appartamenti
acquistati dalla bottegaia e vedeva crescere il capitale in posta ed in banca.
Il nuovo proprietario rinnovò i locali, mise un’insegna luminosa che abbagliava con la sua scritta a grandi lettere
“Salumeria” di colore rosso vivo.
La scaffalatura era tutta metallica ed era stata tolta la grossa giara con l’olio dove erano annegati dei grossi ratti
che donna Flavia aveva fatto presto a gettare nel secchio della spazzatura ma continuando a vendere quell’olio
perché non poteva sciupare quel dono della natura.
Corrado aveva assistito a quella pesca ma non si era reso conto che non sarebbe stato lecito continuare a vendere
quell’olio: era rimasto tanto impressionato alla vista di quei ratti che considerava giusto che venissero buttati nella
spazzatura.
Adesso l’olio non veniva venduto sfuso ma era confezionato in bottiglie di vetro trasparenti.
Per il pane c’era un banco a parte e una commessa con un camice e una cuffia bianca che non riusciva a coprirle
tutti i capelli. Anche il salumiere con il faccione rubicondo indossava un camice bianco, allacciato dietro come
quello dei chirurghi, e sorrideva ogni volta che faceva scorrere i salumi, nell’affettatrice elettrica.
Il negozio era frequentato più che altro dalle cameriere e solo qualche volta arrivavano con la borsa assieme alla
loro padrona che, evidentemente, voleva scegliere il meglio.
L’odore dei formaggi e dei salumi inseguiva i passanti fino alla pescheria, all’altro angolo del palazzo, scendendo
per la stessa strada.
Corrado ricordava il camice nero che indossava donna Flavia, di tessuto lucido che sembrava seta ed il colorito
giallognolo della faccia dove anche il rosso delle labbra sottili era appena accennato e faceva trasparire, a
malapena, un opaco biancore dei denti.
Adesso non c’era più la guerra e il tesseramento. La madre di Corrado ordinava la spesa per telefono ad un
negoziante di sua fiducia che provvedeva personalmente a recapitargliela. Era uno dei tanti modi per resistere alla
concorrenza. Non bastava essere rubicondi!
Anche alcune contadine andavano, come prima della guerra, nella casa di Corrado per vendere le uova fresche,
ricotta e verdura selvatiche oltre che alcune primizie dei loro terreni.
Erano in confidenza con la madre di Corrado e s’intrattenevano con lei per confidarsi parlando dei loro
problemi, del marito, dei figli.
Poi c’era don Ninai che passava a vendere frutta e ortaggi con un carretto trainato da un asino che si fermava
preciso sotto la finestra e ragliava fino a che la madre di Corrado non calava il cesto da riempire.
Don Ninai passava anche prima della guerra ma, poi, l’avevano richiamato e per sua disgrazia, diceva, era subito
caduto prigioniero ed era stato rinchiuso in un campo di concentramento in Kenia.
Era diventato magro, ma appena rimpatriato e ripresa la sua attività di ambulante era subito ingrassato. Si
lamentava con la madre di Corrado che era stanco. “Non vedo l’ora che i miei figli si sistemino” diceva, “ma
come faccio a trasmettere la mia licenza di ambulante? Il Comune continua a rilasciare licenze e ci obbliga a farci
la guerra fra di noi e non è facile guardarsi da veri delinquenti che ti minacciano con il coltello se ti azzardi a
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passare per la strada che si sono assegnata a loro piacimento. Il guadagno è poco e le tasse ci mangiano quel poco
che potremmo risparmiare. Meno male che io ho la mia clientela affezionata. In tutto duemila lire”, concludeva,
dando il segnale, con un leggero strattone, perché venisse tirato su il cesto con le carnose melanzane, i freschi
peperoni e la succosa cosca di pomodori.
L’asino aspettava che don Ninai cominciasse a gridare: “Melanzane!, peperoni! Che bei pomodori!” e si avviava
con lo stesso passo del padrone che gli stava accanto, con una mano alle redini ed un’altra appoggiata al carretto.
Corrado, intanto, proseguiva i suoi studi.
L’ambizione non gli mancava ma non poteva nascondere i suoi sentimenti di disapprovazione nei confronti dei
suoi ex compagni di liceo che come lui si erano iscritti alla facoltà di medicina.
A costoro, quasi tutti figli di famiglie denarose, non perdonava i loro modi che dimostravano la loro inferiorità di
spirito. Nel disapprovare persone che si disprezzano per il loro egoismo, si rivela una passione che avvelena una
intera esistenza. Il carattere di Corrado, orientato all’altruismo, era diventato tale che non pensava minimamente
che gli potessero essere amici ed ogni giorno di più si schierava a favore di colleghi che provenivano dalla
Calabria. Purtroppo anche se erano giovani e intelligenti erano pieni di una ambizione diversa e più
comprensibile rispetto a quella di coloro che vivevano in quella sede universitaria, con la famiglia.
Corrado decise che era meglio realizzare la propria individualità.
In realtà è solo da parte di un suo compagno di scuola, orfano di un medico, che sentì una inaspettata solidarietà
e dei consigli generosi in prossimità della laurea.
E il suo destino si sarebbe realizzato in tempi più brevi nella sua città se non fosse rimasto vittima del servizio di
leva obbligatorio.
Il suo compagno di scuola gli aveva fatto conoscere, inoltre, dei colleghi figli di medici e anche loro laureandi con
cui Corrado sentiva una forte affinità culturale e sociale.
Gli esami di licenza liceale avevano spezzato legami con i suoi compagni di cui era amico.
Erano stati costretti a ripetere l’anno: barbara del fallimento scuola!
Adesso il servizio militare avrebbe impedito a Corrado di sentirsi protetto dalla generosità dei suoi colleghi.
L’ultimo anno di Università impegnò tutte le energie di Corrado.
Si era appena laureato e già riceveva la convocazione per sottostare al servizio militare: tre mesi o più a Firenze
passarono in fretta. Era stato prevalente un addestramento militare affidato ad un sergente e che faceva
rimpiangere l’insegnante di ginnastica che, ufficiale dell’esercito richiamato durante la guerra, era stato suo
insegnante al ginnasio e al liceo.
Le nozioni teoriche apprese dagli insegnanti alla scuola di sanità militare non erano di nessuna utilità perché non
avrebbero potuto essere applicate da ufficiali di complemento ed erano prive di un minimo di pratica che
chiarisse la tortuosità del testo di medicina legale redatto dallo stesso insegnante che come ufficiale medico di
carriera faceva parte di commissioni superiori e non si era chiesto a quale livello avrebbero dovuto operare quei
giovani freschi di studi di ben altra natura anche se anch’essi più teorici che pratici per motivi legati alle scelte
politiche.
Corrado venne inviato in Alto Adige.
Il primo approccio, assieme a colleghi destinati a quel Comiliter, era stato molto deludente riguardo alla futura
convivenza con i rappresentanti delle forze armate.
Era stato chiesto da colui che decideva delle destinazioni se c’era qualcuno che conoscesse l’inglese e Corrado fu
pronto a dire che conosceva l’inglese scritto e parlato ma fu scelto un altro, facendo capire che era tutta una
messa in scena e questo fatto fu avvalorato dal fatto che un suo collega calabrese non voleva minimamente essere
assegnato in Alto Adige e se ne perse la traccia.
Con la scusa della gavetta, nella tappa intermedia, sfumò quanto aveva ricevuto come trasferta.
Alla fine raggiunse la caserma dove doveva prendere servizio.
La caserma era in un paesino che al di là di un fiume e della pianura guardava le montagne al confine con
l’Austria. Era un panorama che Corrado conosceva e gli fece venire in mente che l’aveva visto dal maso del padre
di Gertrude. Per un momento si sentì come a casa anche se il suo stato di militare non gli avrebbe consentito
facilmente di recarsi a Bolzano dove c’era la sorella e dove suo cognato poteva farlo trasferire se la sua
raccomandazione non avrebbe significato di dover avallare scelte poco raccomandabili di qualche comandante o
di qualche appaltante, contrarie alla sua integrità morale e al suo servizio in Supermarina.
Il primo giorno, Corrado, di buon mattino, dovette correre in una stanza con il soffitto ed il pavimento di legno,
perché il calzolaio del battaglione, un civile, si era appena impiccato.
Il corpo del suicida, un uomo di circa sessant’anni, abbastanza magro, era completamente sospeso ad una delle
travi che facevano da soffitto della stanza. Una corda, con punto di sospensione alla nuca, aveva agito da cingolo
direttamente sul collo e si era arrestato contro la parte inferiore della mandibola.
La lingua era protrusa assieme alla protesi dentaria. Uno sgabello era stato rovesciato orizzontalmente poco
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distante dai piedi dell’impiccato.
Corrado tentò manovre di rianimazione, dopo averlo liberato dal cappio e dalla dentiera, fatto tirare giù e
distendere sul pavimento. Si ricordò dello schema A-B-C (vie aeree, pervietà respiro-circolazione).
Mise una mano sotto il collo e l’altra sopra il capo del calzolaio, sollevò quindi il collo ed estese la testa in modo
tale che il mento puntasse verso l’alto. Disse al suo infermiere di mantenere in quella posizione la testa del
calzolaio, per impedire la retro posizione della lingua, di pinzare le narici con il pollice e l’indice e dopo avere
inspirato profondamente serrare la sua bocca su quella del calzolaio e soffiare fino a quando non sentisse i
polmoni espandersi e la gabbia toracica sollevarsi. Doveva soffiare profondamente per quattro volte di seguito in
rapida successione e poi due volte ogni cinque massaggi che lui avrebbe fatto al cuore del calzolaio.
Dopo queste rapide istruzioni, Corrado poggiò il palmo della mano con la porzione carpale sulla metà inferiore
dello sterno e l’altra mano sopra alla prima, diede delle spinte intermittenti in avanti mantenendo tese le proprie
braccia ed usando il peso della parte superiore del corpo per esercitare una pressione adeguata per circa un
secondo, mantenne ancora le mani sullo sterno al momento in cui toglieva la pressione e continuò a ripetere
questo ciclo con regolarità e l’infermiere, il bravo Mancassola, insufflava due volte ogni cinque massaggi.
Dopo circa un quarto d’ora dall’inizio di queste manovre non si apprezzava alcun polso carotideo e le pupille
erano sempre dilatate. Negativa la prova dello specchio.
La tecnica bocca a bocca o della ventilazione con aria espirata era diventata la più praticata.
Come ultima ratio, Corrado iniettò direttamente nel cuore cinque millilitri di adrenalina e cercò, inutilmente, di
somministrare endovena del bicarbonato di sodio all’otto per cento.
Gli occhi del calzolaio erano diventati opachi e non c’era più alcun dubbio che non c’era niente da fare, ormai
non era assolutamente possibile il ritorno alla vita perché l’impiccato era clinicamente morto.
Era fatalmente scomparso il classico tripode della formula di Bichat: circolazione-respirazione-innervazione.
Per il resto della giornata Corrado non fece altro che pensare a quell’impiccato e questo pensiero gli provocava
una angoscia tale che tutto quello che vedeva gli sembrava brutto e triste.
Si ricordava di avere letto un libro di Dino Buzzati Traverso “Il deserto dei tartari” e si stupiva come adesso quel
libro riuscisse a creargli la stessa atmosfera di timore. A poca distanza dalla caserma c’era il confine austriaco e la
morte innaturale del calzolaio si associava alla immagine di un’orda nemica pronta ad invadere. Una fascinosa
malinconia avvolgeva la mente di Corrado ed il paesaggio delle Alpi dolomitiche che lo avevano inebriato
quando, per la prima volta, aveva visitato il Tirolo, adesso gli sembrava arido di rocce desertiche prive di qualsiasi
forza simbolica.
L’indomani Corrado dovette recarsi dal pretore il cui ufficio era a Monguelfo distante alcuni chilometri.
Esperite le modalità di medicina legale e definito ogni particolare riguardo quell’impiccato, Corrado decise di
visitare quel paese che era sede di un altro battaglione del reggimento comandato da un certo Tessitore. Decise di
recarsi alla stazione. Il treno avrebbe tardato ad arrivare e pensò di consumare un caffè al bar della stazione.
Seduta ad un tavolo c’era Gertrude! Si senti imbarazzato ma, poi, ripresosi dallo stupore, le si avvicinò: era come
se non si fossero mai allontanati l’uno dall’altra.
Gertrude insegnava a Monguelfo ed aspettava il treno per la Val Badia.
Era ancora libera. Decisero che si sarebbero rivisti.
Gli avrebbe telefonato lei, in caserma, avvisandolo nel momento che sarebbe andata a trovarlo a S.Candido.
L’arrivo del treno li separò di nuovo.
Corrado aveva recuperato il suo spirito e il riaffiorare del suo rapporto con Gertrude gli allontanò dalla mente la
visione avvilente dell’impiccato. Si stupiva che il comandante del reggimento, Tessitore, non si fosse premurato a
chiedere qualche informazione sulle circostanze del ritrovamento di quel cadavere. Da confidenze di qualcuno
dei suoi infermieri aveva appreso che quella caserma era intitolata ad un generale che durante la prima guerra
mondiale aveva ordinato ad alcuni alpini di procedere lungo un tratto esposto al nemico. Ad ogni alpino che
passava faceva seguito lo sparo di un cecchino che non gli lasciava scampo.
Visto che era impossibile procedere, quel generale voleva dare un’occhiata per vedere come stanare il cecchino.
Ma aveva fidato troppo nel suo grado ed il cecchino lo fece fuori. Si vociferava che fosse stato qualche alpino a
toglierlo di mezzo. Al generale furono tributati onori a Roma e dedicate alcune caserme e strade: il re decretò che
nessun generale avrebbe dovuto esporsi in prima linea.
Corrado ebbe modo di considerare che l’inesperienza consente a dei comandanti di abusare del loro grado
mostrando che non rispecchia la loro intelligenza. Tessitore valutava in base ai centimetri delle gambe e non al
volume della materia grigia. Forse rapportava tutti alla sua carriera che non aveva avuto bisogno di misurarsi con
studi universitari.
Il referendum a favore della repubblica avrebbe dovuto mandare in congedo o spostare ad altri uffici tutti quegli
ufficiali che avevano iniziato la loro carriera in periodo fascista e che come tali continuavano ad agire in spregio
al dettato Costituzionale. Il nome di Tessitore richiamava alla memoria di Corrado quello di un Vincenzo
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Tessitore vice comandante della quarta divisione Camicie nere 3 gennaio.
Il comandante era un certo Traditi. Forse era ancora la guerra di Etiopia che dominava l’enfasi militare e non la
umiliante condotta a sostegno del fascismo.
Non era stato preso in considerazione nella riorganizzazione delle forze armate dopo l’esperienza del regno del
sud che conservare l’organigramma di ufficiali che avevano vissuto eventi in contrasto con i vari giuramenti e
che, quindi, nel loro inconscio psichico avevano automatismi psichici che conservavano i ricordi fuori dal campo
della coscienza. L’unica soddisfazione di Tessitore sembrava che consistesse nel rifarsi con quelli che non ne
stuzzicavano la vanità. Certamente non aveva rispetto dei regolamenti e dei diritti altrui. Che brutta figura!
peccato che ci fosse la leva obbligatoria che costringeva molti giovani a vivere anche in caserme alla Tessitore.
Costui aveva dimenticato che l’Italia ripudiava la guerra e che finita la naja quei giovani non avrebbero più voluto
parlare della loro penosa esperienza anche se sfilate ed altro accuratamente organizzate da chi poteva ritrarre un
beneficio finanziario e di prestigio di casta potevano far credere ad una loro inesistente nostalgia se non per un
periodo della loro giovinezza sciupato per consentire ad un apparato screditato dalla sconfitta di riabilitarsi con
gli abusi.
Tessitore aveva sostenuto l’utilità della aviazione alpina e giovani vite erano state sacrificate come quella del
romano Prandoni, che per volare sulle Alpi aveva dovuto pilotare il “Piper” di tela e legno, in disuso da parte
degli alleati, e precipitava sfracellandosi in val Casies per il prevedibile ma non evitabile vuoto d’aria!
Quando divenne chiaro che non era quello l’aereo che poteva far nascere l’aviazione alpina, nessuno, si può
supporre, valutò se Tessitore avesse fatto scelte appropriate o se ci fosse stata una maggiore attenzione da parte
dell’aeronautica. Chi forniva i Piper?
Erano un regalo perché ritenuti pericolosi dagli anglo-americani?
Chissà, forse quel comandante soffriva di incontinenza emotiva ed eccessiva labilità caratterizzata dalla perdita di
una vera partecipazione affettiva agli eventi da una dipendenza alcoolica senza poter escludere l’effetto di certe
droghe, che circolavano, in un certo periodo, anche in ambienti militari.
E la sensazione che alcuni ufficiali congedanti potessero farne uso si manifestò quando, trincerandosi dietro il
cameratismo, con la complicità di un collega medico pugliese che si guardò bene dall’opporsi alla bravata se non
altro per rispetto ad Ippocrate a lui sconosciuto, decisero di prelevare Corrado dal suo letto, in canottiera e
mutande, e trascinarlo a viva forza al centro del paese dove lo incatenarono ad un palo della luce con
l’impossibilità di slegarsi.
Veri criminali degni del reggimento e della indifferenza del comandante del battaglione che, attraverso questa
violenza, voleva far capire che la sanità militare non contava un bel niente rispetto alla disponibilità concessa agli
ufficiali d’arma di vite umane: togliendo la dignità a quel medico si erigeva ad autorità superiore in grado di
umiliare chiunque, era lui l’onnipotente che poteva decidere anche in campo sanitario: era arbitro di vita e di
morte fisica o morale!
Faceva un freddo cane e mancò poco che Corrado perdesse i sensi.
Quei vigliacchi, criminali, si erano allontanati ed erano andati a dormire.
Gente che passava, vedendo quello spettacolo, si premurò per liberare quel disgraziato chiedendogli cosa avesse
mai fatto per essere trattato in quel modo.
Corrado era frastornato. Si avviò verso la caserma ma la sentinella, in garitta, non lo fece entrare: in mutande e
canottiera non entra nessuno!
Quei disgraziati gli avevano dato l’ordine di non farlo passare.
Corrado fece il giro della caserma ed individuato un passaggio con la vegetazione erbosa abbastanza alta
cominciò a strisciare sul terreno, c’era la santa Barbara e una sentinella. Ma Corrado fu abbastanza prudente e
riuscì a raggiungere il suo letto, in infermeria.
Il suo collega dormiva saporitamente
Non avrebbe potuto più sperare che Corrado lo tenesse in considerazione così come ogni altro ufficiale degli
alpini. Ma che razza di canaglie vengono fatti diventare i giovani che, nella vita civile, si erano sempre comportati
onestamente e civilmente.
Cosa vogliono dimostrare questi comandanti? Hanno solo carne da macellare? Ma che Italia e che patria
difendono?
Non mancò di capire che con questi metodi si voleva dimostrare che l’unica autorità militare che contava era un
comandante, anche se tale comando esautorava ogni altra autorità resa tale da nomina del presidente della
Repubblica.
Corrado capiva di essere capitato in un reggimento malamente organizzato tant’è che, poi, la Tridentina venne
sciolta. Forse era stata trascurata una seria vigilanza ministeriale per la sua particolare presenza in un ambiente
dominato dalla continua opposizione della popolazione tirolese per la quale il continuo trionfalismo degli alpini
per avere vinto, con l’aiuto degli alleati che avevano defenestrato il Cadorna, la guerra 15-18, era una continua
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provocazione che portava ad attentati specie contro i monumenti agli alpini come a Brunico.
Era invisa anche la presenza di forze alpine rappresentate da lombardi, veneti e trentini che erano stati sudditi
dell’impero austro-ungarico e che sembravano forze d’occupazione simili a quelle fasciste che avevano costretto
all’esodo i tirolesi dissidenti. Non erano ancora chiare le intenzioni dell’Italia anche se veniva portato avanti
l’accordo De Gasperi-Grüber.
Corrado era convinto che se il Ministero della Difesa avesse mandato i militari settentrionali al Sud e i
meridionali in Alto Adige avrebbe potuto realizzarsi una pacifica convivenza fra le parti per la diversa cultura dei
meridionali non inquinata da un passato di rancore verso truppe di fanteria alpina che venivano fatte identificare
come i veri artefici di una vittoria costata vite umane alle famiglie ancora presenti in Tirolo.
Ma il peggio del peggio della vita militare di Corrado doveva ancora realizzarsi.
Venne inviato, come ufficiale medico, al campo reclute. Nessuno gli aveva detto che poteva inviare un infermiere
o farsi accompagnare e che poteva comprarsi una tenda per stare comodo.
Fu costretto a dormire sotto un telo steso fra due bassi spuntoni di roccia e su della paglia.
Bisognava entrarci carponi.
Provò vergogna per l’esercito italiano e l’assoluto disprezzo per la sanità militare.
Forse il disprezzo derivava dal fatto che questa sanità militare era tenuta in considerazione solo quando era utile a
certi scopi ma non quando era rappresentata da un inerme sottotenente su cui scaricare la massima bile. Il
capitano era un certo Pesavento e si era attrezzato con una bella tenda munita di tutti i comfort disposta su di
uno spiazzo pianeggiante da dove dominava tutto il campo.
Le reclute erano ammucchiate sotto tendoni, con giacigli di paglia: peggio dei muli che foraggiavano in nitide
stalle, in caserma. L’unico momento in cui Corrado vedeva la compagnia riunita era il momento in cui, all’alba,
dovevano partire per la solita marcia.
Tutta l’attività di quegli ufficiali degli alpini era di aumentare le loro entrate con le indennità varie e fra queste la
più remunerativa era quella dipendente dalla marcia lungo sentieri agevoli della montagna fino ad una radura
dove mettere la legna sotto il pentolone e cucinare per la truppa. Corrado doveva provvedere a sue spese e non
sospettò mai che Pesavento fosse un abile calcolatore sul metodo di investire in borsa e di investire sulle reclute.
Certamente non conosceva il significato di medicina legale, del significato di certificato e di referto medico e del
rispetto che doveva, lui raffermato perché privo di prospettive con un suoi diploma di ragioniere, ad un laureato
inquadrato nella sanità militare.
Illusione di Corrado che la sanità militare si interessasse della dignità e dell’aggiornamento degli ufficiali di
complemento.
Si guardavano bene dall’istruire sulle procedure da seguire in caso di abusi da parte degli ufficiali d’arma nei
confronti della truppa i militari. Forse temevano che, aprendo gli occhi, gli ufficiali medici, igienisti, potessero far
chiudere caserme in condizioni poco adatte a educare per un ritorno costruttivo alla vita civile.
Durante la marcia il posto che spettava a Corrado era in coda, da solo, mentre i suoi infermieri in numero tale
che veniva il sospetto fossero tutti raccomandati dalle famiglie ad un capitano che aveva fatto carriera in quella
caserma senza mai poter essere trasferito e che, come può succedere solo in certi ambienti, era diventato il
padrone dell’infermeria.
L’unico vero infermiere era Mancassola di Lonigo. Senza di lui quella infermeria avrebbe chiuso.
I letti di quella infermeria erano occupati dagli infermieri di competenza del capitano, che aveva sposato una
tirolese del posto ed assieme a lei gestiva un negozio di calzature.
Fra questi c’era un laureando in medicina. Trattato come un privilegiato anche da Corrado suscitò l’invidia di
qualche infermiere e Corrado dovette intervenire chiedendo al prossimo collega di farsi vedere qualche volta.
Corrado riteneva che quel suo collega fosse stato danneggiato da un richiamo che teneva conto di un limite di età
per concludere un ciclo di studi universitari di particolare difficoltà come quelli di medicina.
E si interessò, per evitare ingiustificate lamentele, perché quel laureando venisse trasferito nella città dove doveva
completare i suoi studi.
Non c’era ancora l’obiezione di coscienza!
Al campo reclute un cuciniere ligure, Lupo, faceva da factotum. La mattina svegliava Corrado per la marcia. Una
brodaglia scura sostituiva il caffè ma serviva per scaldarsi.
Un pomeriggio lupo gli consegnò l’elenco di alpini che volevano marcare visita. Due di questi avevano delle
piaghe alla regione malleolare ed i piedi gonfi. Prescrisse due giorni di riposo.
L’indomani Corrado non venne svegliato per unirsi alla marcia: uscendo da sotto la tenda, si meravigliò per il
silenzio irreale che avvolgeva il campo deserto. Lupo gli venne incontro.
“Ma dov’è la compagnia?” chiese, “e gli alpini a riposo?”
“Il capitano Pesavento li ha costretti a mettersi in marcia, a colpi di frusta, e mi ha ordinato di non svegliarla. Ma
non lo sa”, continuò mentre metteva legna sotto un pentolone fissato su due grossi massi ed al gancio di un palo
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di ferro infisso nel terreno, “che Pesavento comanda a colpi di frusta? Usa i metodi del CAR alpino dove ha
cominciato la sua carriera, l’è un bellinun!”
Corrado si avvicinò al fuoco dove la legna messa da Lupo cominciava ad ardere sprigionando un profumo di
resina aromatica. L’acqua del pentolone prese presto a bollire. Lupo riempì due tazzine, vi mise una ditata di
un’erba secca che era in un barattolo e dello zucchero. Sapeva di tè. Lo bevvero in silenzio.
Corrado ricordandosi i momenti passati, durante la guerra, dentro il ricovero senza cibo né acqua pensò che era
fortunato se poteva bere quella calda bevanda ma nello stesso tempo ebbe a chiedersi: “Che ci sto a fare io, qui?”
Nel primo pomeriggio la compagnia rientrò e gli alpini si dispersero sotto le tende.
Il capitano Pesavento circondato da tre sottotenenti d’arma se ne stava intorno al tavolo disposto sulla radura
sopraelevata: Lupo aveva portato dei bicchieri ed una bottiglia di cognac che veniva fornito dalla farmacia
militare di Firenze.
“Dottore, venga a bere un cognacchino con noi!” lo invitò Pesavento.
Ma Corrado rifiutò. “Preferisco” rispose, “che lo bevano i tre alpini che avevo messo a riposo. Io rientro in
caserma dove potrò essere più utile.”
Si era illuso che Tessitore difendesse i suoi alpini, ma nella sua ingenuità Corrado non aveva capito che per
quell’ambiente era meno che niente visto che poteva fare solo da capo espiatorio: la giustizia militare
difficilmente avrebbe difeso un militare di leva e poi, come arrivarci da una condizione irreale di isolamento?
D’altra parte chi gli avrebbe dato ragione? Se già era la vita civile piena di imbrogli e sfruttamenti figurarsi cosa
doveva essere un ambiente militare che già con l’Unione militare, a Firenze, aveva trovato facile riservarsi una
fetta di un futuro stipendio vendendo camicie militari e cappelli da sottotenenti di sanità a storditi allievi
intorpiditi dal vino al bromuro e avviati disciplinarmente nei locali di quella agenzia di affari senza, peraltro,
capire quale sarebbe stato il loro destino.
Continuava a manifestarsi la tradizione nobiliare della organizzazione militare piemontese solo che ai titoli
venivano sostituiti i quattrini e la loro disponibilità comunque acquisita.
Queste riflessioni ronzavano nella mente di Corrado mentre si avviava verso la stazione ferroviaria.
Doveva percorrere una ventina di chilometri e la raggiunse che era già scuro, percorrendo viottoli di terra battuta
scivolosi.
La sala d’attesa era illuminata da una fioca lampadina e non c’era nessuno ad eccezione di un uomo infagottato
che, addormentato su una panca, la testa appoggiata sull’avambraccio ripiegato, russava tranquillamente. Il treno
arrivò mentre Corrado era intento a passeggiare avanti ed indietro lungo i binari ingombri di neve. L’uomo che
dormiva, svegliatosi, salì sul treno: aveva la giubba tutta sgualcita.
Corrado lo seguì nella carrozza affollata. Il treno si mosse: ritmava la sua corsa, si fermava, sussultava.
L’uomo che era salito con lui cominciò a parlare a voce alta. “È tutta colpa dei meridionali”, diceva, “se qui, nel
Trentino, i tirolesi ci trattano male. Non hanno voglia di lavorare e pensano solo alle ragazze.”
Continuava ad agitarsi mentre diceva che i meridionali sono tutti mafiosi.
Qualcuno che sonnecchiava si svegliò per il vociare dell’uomo, ammiccò con occhi spenti in cui la personalità si
spegneva con lente e opache ondate segrete.
Corrado si ricordò dell’apprezzamento che Gertrude aveva espresso nei confronti dei trentini quando avevano
affrontato, casualmente, un discorso sul rischio che potessero manifestarsi dissapori a causa di diversità di matrici
culturali. “I trentini sono dei bastardi”, aveva sentenziato Gertrude, “a seconda della convenienza sono austriaci
o italiani! Parecchi di loro erano tiratori scelti contro gli italiani nella guerra 15-18 anche se la maggioranza era
stata prima sul fronte russo, per paura di improbabili diserzioni. A villa Giusti per firmare la resa era stato inviato
proprio un ufficiale trentino che aveva combattuto contro l’Italia. Ed era trentino quel cadetto che aveva portato
alla impiccagione di Cesare Battisti!”
Corrado volle zittire quel ciarlatano anche se aveva capito il suo stato di ebbrezza: era ciucco!
“Io sono meridionale”, disse serio, “e lei dice stupidaggini!”
Quel tale lo guardò stupefatto e sempre ad alta voce, biascicando, manifestò la sua meraviglia che un meridionale
potesse essere anche con il cappello degli alpini.
Poi vide il fregio e “Ma lei è della sanità, dei servizi. Adesso si spiega. Anche l’ingegnere dell’impresa dove
lavoravo era un meridionale ma ha dovuto cedere la sua attività ad una società trentina ed è tornato in Puglia!”
Intanto il treno s’era fermato e Corrado scese seguito dall’uomo che voleva offrirgli da bere.
Ma Corrado non accettò perché aveva visto arrivare il trenino locale che lo avrebbe portato a destinazione, in
caserma.
Ragionava sul fatto che tanti ingenui si lasciano plagiare dai luoghi comuni per essere strumento di chi vuole
arricchirsi alle loro spalle, sfruttando il peggiore degli istinti elevato a razzismo.
Trovò una sistemazione su una vettura con i sedili di legno, appaiati.
Cominciava ad albeggiare ed un turista suonava un organetto mentre Corrado procedeva scavalcando gli sci che
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erano disposti nel corridoio in uno sciogliersi di neve che evaporava al caldo della vettura.
Trovò posto vicino ad un altro viaggiatore. Si era appena seduto che quel viaggiatore, dagli strani baffetti
quadrati, cominciava a fumare un sigaro puzzolente, costringendo Corrado ad alzarsi e a procedere oltre.
Alla prima fermata del trenino la folla che aspettava era composta per la maggior parte di giovani con scarponi e
gli sci appoggiati sulle spalle. Indossavano giubbotti dai colori sgargianti.
C’erano delle ragazze con abiti dai piccoli fiori dipinti simili ad identici fiori artificiali, attorno ai quali corressero
caprioli irrequieti.
Erano gli stessi costumi che Corrado aveva visto a Brunico nella sala da ballo dove l’aveva invitato Gertrude.
Accorsero tutti verso le vetture allegramente, parlando e ridendo. Spingendo a spallate da parte la gente più
anziana, con lieta durezza. Sulla vettura dove c’era Corrado spostarono avanti ed indietro gli schienali per
sistemare gli sci a loro piacimento. Qualcuno di loro rivolse un saluto a Corrado, scusandosi.
Due ragazze si sedettero insieme di fronte a Corrado, togliendosi i larghi cappelli scuri con i nastri di vario
colore, svolazzanti e ravvivandosi con le teste accostate.
Una di loro chiese a Corrado se prestava servizio a S.Candido: l’avevano visto perché abitava proprio sopra
l’albergo con bar “Orso grigio” dove lui si era recato più volte essendo la meta preferita dagli ufficiali della
caserma “Cantore”.
Si capiva che non avrebbero respinto la sua amicizia.
Si scambiarono qualche frase in tedesco che Corrado parlava discretamente.
La loro conversazione fu interrotta dall’arrivo del controllore che si veniva insinuando in mezzo a tutta quella
gioventù con una voce invitante: “Biglietti signori, prego favorire i biglietti!”
Per un istante rimase invischiato in mezzo ai giovani che, imbottiti com’erano degli indumenti sportivi,
faticavano a trovare il biglietto e si alzavano e si abbassavano tanto che il berretto nero con la papalina rossa del
controllore spariva e riappariva come un semaforo.
Spazientito, il controllore si allontanò da quel gruppo di sciatori e continuò con la sua cantilena: “Biglietti!”
Prese quello di Corrado e delle due ragazze e li annullò, punzonandoli.
Si rivolse a due giovani che avevano preso posto dietro al sedile di Corrado.
“Ha già visto il mio”, disse uno, “i nostri biglietti li avete già annullati”, dissero simultaneamente.
“Abbiamo cambiato posto, provate a ricordare!”
Corrado aveva afferrato il significato delle parole dei due giovani nonostante fossero state pronunciate in uno
stretto dialetto, probabilmente veneto.
Il controllore si allontanò.
“Oggi voglio provare a scendere dalla prima pista”, disse uno dei giovani.
“Io non decido mai prima” rispose l’altro, “debbo prima controllare.”
Corrado ripensò a quelli che aveva visto con gli sci nella sua città: andavano a sciare in qualche località della
Calabria, dei Peloritani o sull’Etna.
Non potevano reggere il confronto con questi giovani che affollavano la vettura con la quale stava per
raggiungere la caserma.
Non avrebbero dovuto superare alcun trauma psicologico e confrontarsi con un ambiente diverso dal loro.
Che senso avrebbe avuto un servizio militare negli alpini se non quello di lasciarli a casa loro protetti dalle loro
parentele e dai comuni interessi.
Finalmente il treno arrivò alla stazione e Corrado scese dalla vettura assieme a quella turba di sciatori.
Occupando il marciapiedi in tutta la sua larghezza le due ragazze bighellonano facendo ondeggiare l’ampia
gonna. Aspettarono che Corrado le raggiungesse ed insieme proseguirono verso il paese.
La caserma era agli inizi della strada che conduceva in paese e si salutarono con il solito “Aufwiedersehen” poco
probabile dal concretizzarsi in un piccolo paese poco espansivo con i militari troppo numerosi.
Corrado proseguì verso la caserma, su di una altura. Un viottolo si dipartiva attraverso una vasta zona boscosa
oltre la quale, in un verde paesaggio si stagliava un grande edificio di pietra grigia circondato da un alto recinto
sormontato da rotoli di filo spinato. L’edificio doveva essere stato utilizzato come caserma austriaca prima che
finisse nella disponibilità degli alpini.
Il viottolo si allargava e mentre da un lato si sperdeva nel bosco, dall’altro lo fiancheggiava un recinto dal quale
era stata ricavata una breccia per il cancello di ferro, ai cui lati erano le garitte delle sentinelle.
Un fossato piuttosto profondo segnava il limite del muro e crescevano grandi alberi, in quel fossato: se ne
vedevano le cime lungo l’orlo.
Corrado entrò e si diresse verso il piccolo fabbricato destinato all’infermeria.
Si ritrovò a salire i pochi gradini e si ritrovò nella stanza immersa nel bianco dei sei letti dove riposavano
Mancassola, Turrina ed il Moretto, di fronte ed a lato la sua stanza.
Senza far rumore entrò nella sua stanza. Uno dei due letti occupato dal suo collega era vuoto e tale sarebbe
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rimasto, inspiegabilmente, per tutto il periodo dell’ulteriore servizio. Aveva a disposizione la sua autovettura e la
sua disponibilità derivante dalla masseria in Puglia l’avrà messo in condizioni privilegiate.
Misteri della naja?
Corrado si sdraiò sul suo letto ma non riuscì a riposare: giacque rigido come se fosse ancora sotto quel telo
rasente il terreno dove un capitano pesava il vento e contava quanto doveva prendere per il suo capo estivo…
Corrado aveva capito che per non farsi rovinare da quell’ambiente dove Tessitore selezionava i medici in base
all’altezza e se praticavano qualche sport senza verificare se l’interpellato avesse barato o meno, doveva badare a
conservare e a difendere il rispetto di se stesso anche se questo significava estraniarsi dagli altri fino a che fosse
durata la sua forzata convivenza.
Trovava paradossale la sua condizione e proprio dal lato i cui principi erano contrari ai suoi provava come se
avesse in sé due distinte persone, una delle quali abitava, come militare, un mondo che non gli apparteneva, un
mondo senza realtà.
Ma l’altra persona, quella che abitava nel suo mondo reale, intendeva fare il suo dovere non meno bene, come
medico, e certamente meglio degli altri anche se, prima di lui, avevano capito l’importanza della ipocrisia e della
adulazione.
Purtroppo solo con il tempo Corrado avrebbe capito che la società è intessuta di percorsi variegati che
difficilmente premiano la modestia di chi rispetta gli altri ma premiano chi è capace di prevaricare perché è questa
la vera dote di chi vuole esercitare un insindacabile potere in tutti gli ambiti sociali.
Ma per prevaricare bisogna impararne le regole e riuscire ad entrare nel giusto circuito che storicamente fa
sempre capo ai partiti politici ed al loro organigramma.
Se Tessitore era stato, realmente, imparentato con il vice comandante delle camicie nere nessuno poteva
contestargli il diritto di poter prevaricare.
Corrado riprese, in caserma, il suo lavoro. Era stato chiamato a visitare il figlio di un ufficiale che abitava in una
bella palazzina destinata agli ufficiali; era affetto da una tonsillite che si risolse in pochi giorni.
Gli capitò di essere chiamato a visitare in camerata un alpino.
Da più giorni soffriva di stitichezza e non riusciva ad urinare bene. Aveva mangiato poco perché gli era venuta
nausea che attribuì alla mortadella del rancio. Poi c’era un dolore che da un punto si era diffuso a tutto l’addome:
era cominciato con uno strano dolore sopportabile ma che, poi, era aumentato tanto da fargli sentire i muscoli
contratti ed il dolore che si approfondiva sotto di essi. Voleva vomitare ma non riusciva a farlo e cominciava a
sudare. Poi il dolore si era localizzato vicino alla gamba destra, persistente, continuo e gli aumentava ad ogni
movimento o se tentava di respirare più profondamente.
Corrado gli misurò la temperatura; aveva 38°C, poi cominciò a palpare il quadrante distante dal punto doloroso:
l’addome non era trattabile. C’era dolore e reazione di difesa al punto di Mc Burney ed era presente il segno dello
psoas. Era fin troppo evidente che si trattava di appendicite acuta con reazione peritoneale. Corrado richiese
l’autoambulanza che provvide al trasporto per un ricovero urgente in ospedale.
L’alpino guarì perfettamente e dopo un periodo di convalescenza gli arrivò il foglio di congedo.
Questo Corrado lo seppe dall’infermiere Mancassola che conosceva quell’alpino perché di un paese del vicentino.
Era difficile abituarsi alla caserma e Corrado riprese le sue abitudini da studente; usciva solo per prendere un
caffè. Tappa obbligata era il bar dell’Orso grigio in quanto altri locali erano affollati dai numerosi alpini che
affollavano quel paese e spendevano in bevande alcoliche ogni loro quattrino.
L’albergo era stato dato in gestione, dal proprietario tirolese, ad un ex ufficiale napoletano degli alpini che era
rimasto a S.Candido anche dopo il congedo per avere sposato una donna del luogo.
Corrado era seduto al tavolo di quel bar quando entrò Tessitore. C’era molta gente e Corrado ritenne di ricordare
che fosse previsto dal regolamento di disciplina che non aveva l’obbligo, in un locale pubblico, di doversi alzare.
Tessitore urlando come un forsennato lo aggredì: “Non saluta il suo comandante?”
Accanto aveva il solito capitano veterano in quella caserma, a fargli da falso testimone.
Corrado si alzò e si mise sull’attenti: “Comandi!” esclamò.
Sentiva gli occhi degli altri avventori su di lui ma non ci fece caso perché se avessero dovuto giudicare
onestamente avrebbero dovuto considerare come un gran cafone quel colonnello che con il suo fare metteva in
ridicolo l’esercito italiano rappresentato da un esemplare poco encomiabile.
“Si rechi subito a Villabassa con il sergente di Catania e rientri stanotte con il battaglione Bassano.”
Corrado eseguì l’ordine e con il sergente di Catania raggiunse Villabassa ed il battaglione che era radunato,
assieme agli altri del reggimento, in una radura delle cime dolomitiche e si preparava per la marcia notturna. Il
sergente di Catania si preparava a congedarsi perché era intenzionato a passare nel corpo dei vigili urbani nella
sua città. Corrado lo aveva visitato, una volta, perché aveva un arrossamento al collo come se qualcuno avesse
voluto strozzarlo; era stato l’aiutante di battaglia a stringergli le mani al collo durante una discussione fra loro
due. Corrado capì che sarebbe stato inutile fare sporgere una denuncia perché quell’aiutante di battaglia era
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proprietario del terreno, a Dobbiaco, che veniva utilizzato dai piper della aviazione alpina programmata dal
Tessitore e difficilmente ci sarebbe stato qualcuno degli altri gradi a spendere anche uno spicciolo per quel
sergente di Catania.
Ancora una volta Corrado si chiedeva se in guerra si moriva per mano del nemico o di quelli che come Pesavento
suscitavano vendetta per i colpi di frusta o per colpa di aiutanti di battaglia che mostravano il loro valore
strozzando i subalterni.
Forse con il tempo avrebbe capito che il diavolo non è così brutto come gli era stato dipinto ma adesso doveva
raggiungere quei battaglioni ed era calato un buio spaventoso. I conducenti dei muli avevano acceso le lanterne:
si distribuivano fra di loro cognac e barre di cioccolato.
Un alpino aveva accusato crampi ai muscoli delle gambe ed un capitano ordinò a Corrado di occuparsene.
Corrado, il sergente e l’alpino che sembrava avere riacquistato l’agilità iniziarono la discesa a valle ma c’era il
rischio di finire in un crepaccio se avessero proceduto: Corrado intravide un fienile e visto che c’era sufficiente
spazio ed il pavimento di legno preferì farvi trascorrere la notte.
Dormirono accostati con le giacche a vento come cuscino. Al primo chiarore dell’alba si incamminarono verso la
stazione. Accompagnarono l’alpino alla caserma del battaglione Bolzano di Monguelfo, dove era in forza,
consegnandolo all’ufficiale di picchetto con la richiesta di visita medica da parte dell’ufficiale medico che non era
ancora presente. Era evidente che quell’alpino aveva simulato un malessere o che gli fosse stato comandato di
simularlo perché il capitano aveva intenzione di usare la frusta durante la marcia e non voleva testimoni medici.
Il sergente e Corrado presero il treno per S.Candido. Non c’era tempo per una visita a Gertrude.
La vita della caserma riprese senza senso.
Un giorno Corrado fu chiamato per visitare, nella sua stanza, il capitano Pesavento.
Corrado esaminò il corpo massiccio e forte del capitano che essendo molto alto aveva la schiena curva.
La testa larga e l’eccessiva crescita della mandibola, protrusa, gli davano un aspetto grossolano.
Il torace era piatto e stretto ad angolo ottuso con un addome svasato.
Gli arti superiori erano corti e tozzi a differenza degli inferiori lunghi e muscolosi.
L’aspetto del fisico di Pesavento richiamò alla memoria di Corrado una riproduzione fotografica di una forma
attenuata di un acromegalia che aveva visto nel libro di endocrinologia del Pende.
“Fuga di growth hormone”, pensò e non invidiò la statura di Pesavento.
Corrado lo visitò e riscontrò un inizio di bronchite; l’infermeria abbondava di penicillina e di fiale di guaiacolo e
non ci fu bisogno di ricorrere alla farmacia del paese.
Dopo un paio di giorni Pesavento, sfebbrato e senza tosse, sentendosi meglio, decise di farsi ricoverare in
ospedale militare per farsi aprire la pratica del riconoscimento della malattia come causata dal servizio.
Corrado scrisse il suo referto relativo alla patologia riscontrata e alla terapia somministrata.
Quando si rividero Pesavento volle farsi fotografare con Corrado in senso di gratitudine e per non averlo
chiamato in causa, davanti a Tessitore, per il suo comportamento nei confronti di quegli alpini presi a frustate.
Lui aveva ottenuto il riconoscimento della causa di servizio che si assommava ad altre cause di servizio che
potevano essergli utili per essere destinato ad un servizio senza marce.
Se Corrado fosse stato informato dei suoi diritti avrebbe senz’altro chiesto il trasferimento, dopo i sei mesi di
servizio in quella caserma, in una sede più a misura di un giovane laureato non ancora strutturato, ma ai
comandanti che si erano succeduti, in gran fretta, in quel battaglione faceva comodo un medico sempre presente
e pronto a sostituire anche i colleghi di altre caserme vicine, senza alcun compenso.
Quel tipo di esercito sembrava gestito apposta per rovinare la gioventù piuttosto che migliorarne le qualità.
Ma quali erano la qualità migliori?
Certamente non quelle di Pesavento.
Era riuscito a fare avere l’incarico di insegnante agli alpini analfabeti e ad una giovane maestra con cui
intratteneva rapporti amorosi.
Questo Corrado lo venne a sapere da Gertrude che un venerdì, tramite il centralino della caserma, l’aveva
chiamato in infermeria per informarlo che domenica lei sarebbe venuta a S.Candido, con la sua macchina.
L’avrebbe aspettato verso mezzogiorno in quello spiazzo di sosta di fronte la caserma, lungo la linea ferroviaria,
prima del passaggio a livello.
Per Corrado questa era una gradita sorpresa che l’avrebbe staccato da una routine da alienati mentali.
In quel paese c’erano solo alberghi e bettole! Si sentiva ancora la puzza delle trincee e l’infestazione da pidocchi.
Quella domenica con Gertrude sembrò un ritorno alla vita!
Gertrude volle andare in chiesa per la messa: veniva recitata in tedesco nella chiesa dei frati, vicino alla stazione.
Gertrude guidava benissimo quel maggiolino grigio e insieme decisero, dopo la messa, di pranzare a Sesto, una
località poco distante.
Consumarono “wiener schnitzel”, con contorno di patate e del buon vino di Appiano.
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Erano i primi giorni di settembre e già cominciava a nevicare.
La macchina di Gertrude aveva le gomme antineve e pensarono di fare un salto a Brunico dove era cominciata la
loro storia d’amore.
Arrivati, si sistemarono in un “Gasthaus” e Corrado telefonò a Mancassola, in infermeria, comunicandogli il
numero di telefono della locanda dove poterlo chiamare per ogni eventualità: sarebbe rientrato l’indomani
mattina.
Gertrude sistemò la macchina nel garage dello stesso Gasthaus ed uscirono.
La locandina del cinema li invitò ad entrare: era un film divertente.
Prima di ritirarsi nella loro stanza consumarono dei würstel e bevvero della birra scura.
Era una strana sensazione quella che provarono trovandosi uniti sotto la stessa coperta.
Quale sarebbe stato il loro destino? Sarebbe rimasto solo un ricordo legato al desiderio che nasceva dalla loro
giovinezza?
Corrado non dubitava dell’amore di Gertrude ma capiva che la sua precarietà non gli poteva consentire di
assumere impegni immediati.
Ne discussero, Gertrude si trovò d’accordo: avrebbe aspettato.
Incidentalmente il discorso cadde sul suo lavoro di maestra e sull’esito di una sua domanda per insegnare in
quella caserma di S.Candido dove c’erano anche degli alpini tirolesi che non conoscevano l’italiano. L’incarico era
stato dato ad un maestra amica di un capitano, Pesavento.
Il bilinguismo consentiva l’arruolamento di cittadini italiani di lingua tedesca che non erano obbligati a conoscere
l’italiano!
Si svegliarono di buon’ora e Getrude volle accompagnarlo, con la sua auto, a S.Candido.
Erano appena le otto e fecero un salto all’Orso grigio per una prima colazione.
Il distacco era inevitabile e promisero di farlo durare il meno possibile.
Ma era proprio quel maggiolino che si allontanava lentamente scorrendo sulla neve che cominciava ad
accumularsi in attesa dello spazzaneve.
Corrado rientrò in caserma, alle nove sarebbero cominciate le visite mediche per gli alpini che l’avevano richiesta.
Difficilmente sarebbero stati bisognosi di cura: la visita medica era la ricerca di qualcuno cui avrebbero potuto
ricorrere in caso di vero bisogno. Un approccio umano che Corrado non poteva disattendere con un giudizio di
abile al servizio che avrebbe comportato una sanzione disciplinare.
Uno o due giorni di riposo, forse, potevano rincuorare un alpino che cercava solo solidarietà umana.
Era questa la differenza fra Tessitore e Corrado!
Il rientro in caserma aveva riportato Corrado alla sua quotidianità e reso meno vivo il momento trascorso con
Gertrude. Dipendeva da lui definire il loro rapporto.
L’indomani mattina fu svegliato concitatamente dal suo infermiere: “Presto dottore, c’è stata una slavina in val
Fiscalina. Il camion dei soccorsi è già pronto e aspettano solo lei.”
Corrado fu pronto in un lampo e prese lo zainetto con medicine e materiale di pronto soccorso che Mancassola
gli aveva preparato.
Evidentemente non poteva contare su una dotazione di pallone respiratorio o di apparecchio respiratorio a
pressione intermittente e non era pensabile un eventuale ricovero in ospedale in quanto nessuno disponeva di
polmone d’acciaio o cabina respiratoria.
Nella logica della sanità militare bisognava arrangiarsi in una eventuale logica da attuare, in guerra.
Bisognava in qualche modo valorizzare i cappellani militari!
Corrado sapeva che quando sulle Alpi comincia a cadere la prima neve è il ritorno di un incubo: le valanghe, la
terribile morte bianca.
Esse possono comparire senza preavviso e seppellire interi battaglioni sotto milioni di tonnellate di neve.
Non ci vuole molto a provocare una valanga e quando le condizioni sono adatte, il più leggero peso che si
aggiunge alle masse in equilibrio instabile su di un pendio, come un po’ di neve che cade da un albero, dà l’avvio
allo slittamento.
Basta un piccolo rumore, basta il passo di uno sciatore.
Sotto la neve erano finiti gli alpini del battaglione Bolzano.
Il camion su cui era salito Corrado raggiunse rapidamente la località della slavina.
Dovette fermarsi ad un certo punto dove la neve non ne consentiva il transito: gli alpini e Corrado scesero
E si aprirono la pista battendo con gli sci. Arrivarono. Molti alpini si erano liberati da soli e stavano tentando di
recuperare il loro equipaggiamento. Qualcuno che accusava difficoltà respiratorie fu soccorso da Corrado.
Qualcuno era ancora sotto la neve ed era difficile individuarli perché il capitano non li aveva fatti legare con la
corda manilla, quella rossa che usano i marinai perché galleggia e arrossa anche la neve.
Si cominciò a saggiare la massa di neve con lunghe aste di ferro.
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Vennero recuperati tutti ma per tre di loro non c’era niente da fare.
Corrado credette di riconoscere in uno di essi il cameriere che aveva conosciuto nella sala da ballo di Brunico.
Seppe che si chiamava Peclaner ma non era di Brunico.
Procedettero al rientro facendo scivolare le tre barcacce sulla neve.
Giunsero al camion. Ad aspettarli c’era Tessitore con un tenente medico sardo che si era riaffermato.
Il tenente sardo chiese ragguagli a Corrado e concordò con lui che alcuni degli alpini più provati venissero fatti
riposare nella infermeria di S.Candido più vicina al luogo della disgrazia.
Scialbo ed impersonale l’atteggiamento di Tessitore: come se la faccenda non lo riguardasse.
Forse avrebbe voluto contare più morti o non contarne nessuno?
Certamente non si preoccupava del fatto che quel battaglione era stato messo in marcia senza assistenza medica
o infermieristica. I morti dovevano servire per valorizzare il sacrificio del colonnello in quel contesto di
montagna che, probabilmente, potevano fare aggiungere indennità di rischio di morte sotto le slavine.
L’indomani un giornalista era andato ad intervistare Corrado che non volle rilasciare dichiarazioni.
Cosa avrebbe dovuto dire? Non spettava a lui giudicare ma non s’illudeva sull’esito di una improbabile inchiesta.
Da parte di chi? Si muore per la Patria!
Ma cosa pensare di Tessitore che non aveva prevenuto, con disposizioni al capitano, la possibilità che quel
battaglione potesse finire sotto una valanga, in quelle condizioni atmosferiche? Eppure c’erano stati dei segnali di
avvertimento, smottamenti in val Fiscalina, segnalati da alcuni valligiani e sciatori, che avrebbero dovuto
sconsigliare quella inutile marcia.
Corrado pensava a quei morti e si consolava con l’analisi psicologica dei comportamenti.
La serie individuale dei valori morali, ragionava, corrisponde alla parte cosciente del superego.
Questo come determinante psichico ha delle componenti derivanti da tendenze auto perseveranti istintive in cui
la fa da padrone, nascosta nell’inconscio, la ricerca del piacere, di cui riempire senza controllo il proprio
serbatoio. Nel momento in cui l’ego, cioè la parte cosciente della psiche, che corrisponde alla coscienza, non è in
grado di riconoscere la realtà, è difficile che l’individuo si renda conto dei suoi difetti e dei suoi limiti. Perché
dobbiamo cercare di giudicare gli altri, concluse, se conosciamo solo in parte i nostri difetti?
Ma questa conclusione non lo soddisfaceva perché l’avrebbe obbligato a non esprimere pesanti giudizi su
Tessitore e sulla mensa eufemisticamente chiamata degli ufficiali.
Aveva già classificato quel Tessitore fra gli individui da dimenticare e di poco conto nell’ambito delle persone da
poter giudicare senza un senso di malessere.
Per quanto si sforzasse di cogliere delle motivazioni che gli consentissero di accettare il suo rapporto con
quell’ambiente militare, forse unico nell’ambito delle forze armate, non riusciva ad accettarne uno che
giustificasse la sua convivenza obbligatoria con certe figure di ufficiali.
Forse la loro permanenza in quei posti li aveva estraniati dalla società civile ed avevano appagato il loro
isolamento creandosi spazi di potere e di profitti sfruttando da un lato l’ingenuità dei novizi e dall’altro la
gestione finanziaria delle loro attribuzioni.
Il veterinario gestiva la mensa ufficiale: seguiva con estrema attenzione il consumo del parmigiano e non
smetteva di raccomandarne un uso moderato. Tendeva al massimo risparmio per poter stornare qualcosa nella
sua tasca.
Era noto che il parmigiano abbondava nel magazzino viveri per la truppa e così sacchi di pasta e confezioni di
spaghetti.
Il tenente Gurna, l’aiutante del colonnello e addetto alla contabilità, non andava mai alla mensa ufficiali.
Ordinava la pasta ai cucinieri e si faceva portare nel suo ufficio piatti di pasta al ragù, spesse bistecche di carne,
pagnotte appena sfornate, frutta, dolci dello spaccio ed il vino.
Si era arrogato il diritto di procedere all’abbuffata… per dovere di ufficio.
Aveva una predilezione per la polenta ed usei che lui stesso si procurava girando per la caserma con la carabina e
tirandoli giù dalle grondaie e dagli alberi della caserma.
Li faceva cucinare dal cuoco di Vicenza e si chiudeva, in cucina, con il veterinario, riempiendosi la pancia.
Corrado vedeva qualche alpino uscire dalla caserma con un cesto pieno di roba da cucinare: dove andava?
Aveva preferito rinunziare a seguirlo: la cosa non aveva carattere medico!
I mesi passavano e l’inverno stava per finire: si avvertiva la primavera ed il primo sciogliersi della neve che, nelle
strade di S.Candido, diventava fanghiglia.
Corrado doveva prestare servizio per un contingente di alpini che dovevano esercitarsi al tiro con i mortai.
Non ci furono molte esercitazioni perché bisognava risparmiare.
Il tenente di Bressanone che comandava il contingente aveva scelto il terreno per rizzare le tende del campo.
Era ancora buio quando quei soldati si svegliarono: solo la luce grigia diffusa delle stelle penetrava per le fessure
delle tende. Respinsero le coperte e si alzarono, si fecero sulla soglia delle tende a guardare fuori.
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A levante le stelle cominciavano ad impallidire ed il vento soffiava leggero sui rami degli alberi che univano il
loro fruscio al mormorio dell’acqua di un torrente che scorreva ad un lato della radura dove era stato disposto il
campo.
Davanti ad una tenda ardeva un piccolo fuoco attorno al quale si muovevano alcuni fanti alpini e tendevano le
mani alla fiamma per scaldarsele.
Lentamente l’accampamento cominciò a ritornare in vita.
Corrado consumò con gli alpini un sorso di un qualcosa di caldo che sapeva di caffè e salì con loro sul camion: le
mani sprofondate nelle tasche dei cappotti.
L’alba cominciava a delinearsi ma con fatica e con poca luce: il camion si avviò.
Il tenente che era su di una jeep si voltò a sinistra ed il camion lo seguì: c’era un cartello che indicava una zona
militare.
Si addentrarono nella strada sterrata e si fermarono in una radura.
Gli alpini scesero dal camion e si disposero in fila attendendo gli ordini del tenente mentre Corrado si teneva
distante con il suo zainetto di pronto soccorso.
Il tenente ordinò ai caporali di disporre dei piccoli gruppi di tre alpini per volta che vennero muniti di un mortaio
ciascuno, istruiti dal caporale sul loro uso e pronti a sparare.
In breve tutti gli alpini di quel contingente, una quarantina, finirono di sparare il loro colpo di mortaio.
Forse avevano accoppato qualche capriolo che era stato visto saltellare nella vicinanza delle sagome.
Sapevano benissimo come fare a scovarlo. I cucinieri avevano preparato un calderone per il rancio che avrebbero
consumato dopo i tiri. Un paio di alpini si allontanarono e tornarono con uno zaino che porsero ai cucinieri: era
carne di capriolo che avrebbe arricchito il rancio. Si sentiva lo sbriciolio sulla legna che ardeva sotto il calderone e
l’odore dell’olio che bruciava.
Il tenente si era allontanato con la sua jeep per consumare il pranzo in un vicino ristorante come era sua
abitudine.
Quando fu di ritorno gli alpini erano già pronti per il rientro. Non c’era più la fiamma sotto il calderone ormai
freddo.
Nessuno si era ferito e Corrado non aveva dovuto intervenire.
Salirono sul camion preceduti dalla jeep del tenente.
Era sorto un forte vento di ponente ed un alpino che era vicino a Corrado attaccò il discorso.
“Dalle mie parti, a Bardolino, un vento così avrebbe portato la pioggia. Ma mi sembra troppo freddo per
piovere.”
“Pensi che oggi avremo la pioggia?” gli chiese Corrado.
“Non si può dire” fece l’alpino, “in montagna non è come in riva al Garda, non c’è regola! Credo che neanche
chi è nato in questi posti e ci ha passato tutta la vita saprebbe dirlo.”
Corrado lanciò un’occhiata alle montagne a ponente, sormontate da nuvoloni grigi sospinti dal vento.
“Quelle nuvole là sembrano davvero piene di pioggia”, disse.
“Non si può dire”, commentò l’alpino.
I nuvoloni invadevano il cielo marciando contro il sole. Il vento trascinava nuvole pesanti la cui ombra scivolava
a valle. C’era un lontano silenzio che indicava l’attesa generale del primo brontolio del tuono.
Il camion si avviò verso lo stradone che conduceva al campo.
Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere mentre il camion raggiungeva lo spiazzo del campo dove erano
rizzate le tende.
Gli alpini scesero dal camion e corsero sotto le tende mentre la pioggia cominciava ad infittire.
Anche Corrado entrò sotto la sua tenda che aveva voluto con due teli e dei pali bene infissi nel Terreno e,
intorno, dei solchi per lo scolo dell’acqua.
Sentì che il tenente dava degli ordini: “Raccogliete tutti i rami secchi che potete trovare. Avremo bisogno di stare
al caldo.”
“Speriamo che non piova dentro le tende”, pensarono gli alpini.
Ora la pioggia correva a torrenti, tamburellando violentemente sulle tende mentre gli alpini portavano la legna
che colava acqua come i loro cappelli e le giacche a vento.
Rimasero tutti sotto le tende perché adesso diluviava.
La sera calò presto e se ne stavano ammassati e digiuni ad ascoltare il rumore della pioggia che continuava a
cadere con un ritmo uniforme e costante.
E al principio la terra riuscì a succhiarla avidamente fino a che non risultò satura.
Allora, dappertutto, si formarono pozze. Ben presto l’acqua del torrente che scorreva vicino alla radura del
campo straripò fendendo gli alberi e indebolendo le loro radici.
La piaggia ad un tratto cessò. Nel campo restò l’acqua a riflettere il grigio del cielo e si sentiva lo scorrere
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dell’acqua nel torrente. La radura del campo era tutta una pozzanghera ed il livello dell’acqua nel torrente
cresceva minacciosamente. Nel campo, vicino al torrente, c’erano delle baracche di legno dove erano state
depositate le munizioni ed i viveri. Alle due estremità della radura, il torrente rasentava un lato e se ne allontanava
formando un’ansa.
Il tenente ordinò agli alpini di portare sul camion i viveri e le munizioni, di smontare il campo e salire tutti sul
camion. Fecero giusto in tempo: l’acqua era salita di dieci centimetri e mentre salivano sul camion udirono, a
monte, uno schianto. La luce di una torcia in mano al tenente mostrò un grosso albero che era crollato e la
corrente non tardò a svellerlo dalle sue radici per trascinarlo a valle. Il tronco si incagliò con i rami contro la
sponda opposta e si dispose trasversalmente al torrente, col piede appoggiato al punto più debole del torrente
che sarebbe tracimato.
Gli alpini fecero in fretta ad andare via prima che il torrente allagasse tutto il campo.
Anche se la pioggia era cessata le nuvole erano ancora compatte e le acque del torrente correvano rapide
trasportando rami e tronchi.
Il fango davanti alle ruote della jeep e del camion rese necessario che alcuni alpini mettessero delle fronde davanti
alle ruote in modo che potessero mordere il terreno.
Partirono e raggiunsero la caserma.
Il tenente aveva avvisato il comando con la sua radiolina ed erano tutti svegli. Faticarono un bel po’ per asciugare
quegli alpini inzuppati e ristorarli con delle bevande calde che sapevano di caffè.
Qualche alpino più provato finì in infermeria a fare compagnia a Mancassola che aveva le chiavi e l’esclusiva del
cognac e del cioccolato fornito dal servizio farmaceutico di Firenze.
PARTE SESTA
Per diciotto mesi Corrado aveva indossato una divisa militare che gli aveva fatto capire quanto diversa fosse la
realtà di una organizzazione dello Stato che, enfaticamente, voleva fondarsi su valori elevati quali la difesa della
Patria, anche a costo della vita.
Probabilmente a questo scopo tendeva l’annullamento della personalità di coloro che faticosamente l’avevano
costruita con lo studio ed i sacrifici affrontati per raggiungere un traguardo che quel mondo militare voleva
costruire secondo i suoi interessi.
Eppure la Costituzione aveva formulato altri obblighi per le forze armate, alpini compresi.
Obblighi che, ad approfondimento più sereno, non hanno niente a che vedere con la Patria ma piuttosto con una
dipendenza da un sistema partitico fondato sui valori unitari della Resistenza, e la Resistenza aveva visto gli alpini
schierati gli uni contro gli altri e lo spirito unitario tardava a venire.
L’unico ricordo che continuava a legare Corrado alla caserma di S.Candido era quel tenente Prandoni che gli se
era dimostrato amico e gli aveva dato una sua fotografia.
Nessuno si sarebbe ricordato del tenente Prandoni!
Finalmente era arrivato il congedo.
Per un momento Corrado capì che gli si sarebbe presentata la difficoltà di un inizio reso più difficile dalla
mancanza di un vero esercizio professionale ed anzi di un inaridimento intellettuale per l’assoluta mancanza di
collegamento con l’assistenza sanitaria da parte dell’infermeria presidiaria o con ospedali civili. Sotto il profilo
dell’obbligo della sanità militare di impedire che venisse rovinato un giovane laureato si potrebbero usare attributi
tanto più pesanti quanto più dipendenti da circuiti predisposti per elevare i pupilli e schiavizzare anche al di sotto
del lavascale in un ospedale regionale laureati medici che avrebbero potuto dare fastidio perché con le mani
pulite.
La tentazione di continuare a indossare una divisa che l’aveva plagiato per diciotto mesi durò poche ore. Restare
sotto le armi sarebbe stato un atto di vigliaccheria.
Doveva ritrovare se stesso.
Adesso si sentiva goffo con i vestiti civili.
Quanto più si avvicinava alla sua terra tanto più si accentuava il distacco da quell’ambente che l’aveva sfruttato
senza neanche ringraziarlo.
Non erano stati pagati neanche i contributi all’Enpas come se un servizio sanitario reso da un medico militare dei
ruoli della sanità militare fosse stato solo una finzione figurativa.
I suoi compagni di viaggio, sul treno, parlavano di pressione fiscale, di mazzette, di politica.
Ad ogni loro commento seguivano esempi pratici che inducevano Corrado a collegare con le metodiche delle
tangenti, dei peculati e quant’altro possibili sistemi di corruzione nella gestione dei fondi per le caserme, i
reggimenti. I corpi d’armata.
Se nella vita civile in pratica si creano certi sistemi di appalti pubblici, di licenze commerciali e di quanto nella
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disponibilità delle pubbliche amministrazioni perché dovrebbe essere diversamente nell’ambito delle
amministrazioni in divisa?
Non ritenne che ci fossero gli estremi della corruzione quando, assieme al comandante del battaglione, era
andato a verificare, lui astemio, solo con l’assaggio organolettico, la qualità del vino da acquistare per la truppa.
Aveva accettato il panino con la mortadella.
Chissà! Forse continuando a fare il militare avrebbe rifiutato il panino e richiesti esami qualitativi del vino.
L’avrebbe chiesto per la carne ed ogni alimento, quali- e quantitativo.
Ma come sarebbe finita?
Finalmente arrivò alla stazione della sua città: dal non irredento Tirolo al Sud conquistato dal Piemonte! Scese dal
treno confuso ed assonnato. Lasciò la valigia al deposito bagagli e si avviò a piedi verso casa.
Prese la strada principale: era più lunga ma lui voleva camminare e respirare l’aria che l’aveva fatto crescere. Era
notte e come sempre le cose avevano perso il loro aspetto reale e gli sembrava di oltrepassare case ed alberi che
aveva visto piantare, finita la guerra.
La strada s’internava verso la collina. I fari di un’automobile proiettavano la loro luce abbagliante e qual bagliore
gli fece vedere l’isolato, sulla sua sinistra, dove c’era la casa dei suoi genitori.
Rifletté sulla particolare condizione che doveva essersi presentata a suo padre, ragazzo del ‘99, che, tornando dal
fronte, dal Carso, dove aveva combattuto come ufficiale, ritrovava deserta la sua casa perché il padre e la madre
erano deceduti a causa della “Spagnola”.
Si fermò un momento. Decise di fare il giro dell’isolato per vederlo sotto i raggi della luna, da un’altura, lì dietro,
dove da ragazzo giocava alla guerra coi suoi coetanei.
La luna batteva sulle finestre e sulle lucide foglie delle piante nei balconi con uno splendore fantastico.
Una finestra, quella dello studio di suo padre, era illuminata.
Chi avesse voluto scrutare nella intimità dell’anima dei genitori di Corrado avrebbe colto con meraviglia le
inspiegabili forze dell’istinto che avevano tenuto svegli il padre e la madre di Corrado perché sentivano che
sarebbe arrivato!
Qualsiasi cosa si dica è sempre una bella cosa quando la mattina, allo svegliarsi nella propria stanzetta, si avverte
il buon odore del caffè che tua madre ha preparato.
Il fatto più interessante era che per colazione c’era un nuovo tipo di pane: certe rosette fini, morbide e croccanti.
Ma Corrado temeva che quest’incanto si sarebbe interrotto.
Nella sua città si erano sistemati i suoi colleghi che avevano evitato il servizio militare e che lo stesso giro che li
aveva fatti esentare era stato pronto a metterli al posto giusto e per quelli che avevano fatto il militare si era
provveduto con il matrimonio giusto.
Ma non era questa la strada che Corrado voleva percorrere: aveva un’altra risorsa nella solidarietà di suo fratello
che esercitava la professione di medico in una città del nord e che l’avrebbe accolto volentieri.
I suoi genitori non erano stati troppo entusiasti della scelta di Corrado ma avevano altri quattro figli da
mantenere agli studi e a Corrado, per evitare di gravare sui suoi genitori e i suoi fratelli, sembrò che la scelta di
farsi consigliare da suo fratello fosse la migliore.
Non era ancora iscritto all’ordine dei medici della sua città e suo fratello lo presentò al presidente dell’ordine
dove anche lui era iscritto e dove Corrado provvide ad iscriversi per poter esercitare la professione.
Dopo circa due mesi di inattività era sul procinto di lasciare quella città e di preparasi per qualche concorso
quando gli fu chiesto di sostituire un collega malato in presenza di una epidemia di influenza in una zona di
montagna, innevata.
Corrado si prodigò nel migliore dei modi e provvide anche alla vaccinazione dei bambini nelle scuole.
Era una sensazione strana quella di Corrado: riviveva l’atmosfera alpina ma in una dimensione diversa da quella
militare: adesso era un medico.
Finita questa esperienza gli capitò l’offerta di un interinato in una condotta medica il cui titolare aveva assunto un
incarico presso un ente mutualistico.
Era una condotta in zona disagiata con strade sterrate, fangose e senza servizi di alcun genere.
Il fatto di essere meridionale aveva fatto desistere l’amministrazione del consorzio intercomunale dall’assegnargli
l’alloggio del Comune lasciato libero dall’ex condotto. Qualcuno voleva fare venire un proprio parente medico
che, tuttavia, si teneva ben distante perché non aveva voglia di sacrificarsi in una condotta disagiata.
Questa condotta era distante dalla città dove abitava suo fratello e per Corrado fu giocoforza trovare una
sistemazione affittando una stanza nella casa di una anziana vedova che aveva due figli di cui la femmina era
sposata ed abitava in un altro Comune mentre il maschio doveva ancora decidere la sua occupazione.
Ma in quella frazione non c’era dove andare a consumare un pasto e Corrado non aveva l’uso della cucina presso
la vedova ed anche l’avesse avuto non avrebbe potuto cucinare perché pressato dalle visite per il ripetersi di
epidemie influenzali.
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Corrado aveva preso l’abitudine di consumare il pasto presso una locanda in un comune vicino.
Un giorno, si era ai primi di giugno, la signora Accardo, la vedova, aveva avuto un colpo ed era stramazzata sul
pavimento. Corrado era subito accorso e le aveva prestato le prime cure.
In serata recuperò i sensi ma non l’uso del braccio e della gamba destra.
Alcuni giorni dopo, un mattino, Corrado stava per uscire quando qualcuno venne a bussare alla porta della sua
stanza.
Una ragazza in camicetta rosa e grembiule nero s’inquadrò nel vano.
“Vengo per fare la stanza. Sono Maria, la nipote della signora Accardo.”
Lo disse col volto in fiamme ma con un sorriso punto impacciato.
La ragazza spiegò che sarebbe rimasta poco tempo per accudire la nonna inferma e sostituirla nelle mansioni, a
sfaccendare.
Maria aveva ventidue anni.
Corrado la evitava quando si trovava con lei che rifaceva la stanza senza, per questo, non fornirle rassicuranti
ragguagli sulla salute della nonna che, sebbene lentamente, si rimetteva e ogni giorno l’appetito era migliore.
Maria era piccola di statura e grassottella, l’elasticità con cui si muoveva tradiva la sua inclinazione per il ballo.
Quando rideva, guardava Corrado senza ombra d’impaccio.
Un visino sveglio, un naso piccino, due labbra fresche un po’ tumide, occhi di porcellana ed intorno alla fronte
uno spumeggiare di capelli che non erano biondi ma color canapa.
Cominciò a intrattenersi ogni giorno di più a chiacchierare.
Poi si presentò con un albo zeppo di fotografie: assieme a quelle scattate insieme ai suoi parenti ce n’erano alcune
che la ritraevano, in allegra brigata, con altre ragazze e dei militari.
La ragazza si lasciò andare a delle confidenze e ciò che raccontava era punto per punto confermato da particolari
che non potevano essere inventati e che testimoniavano della veridicità del racconto; eppure quando le gote le si
accendevano e la voce si addolciva, si sarebbe detto ch’essa inventasse, prendeva l’aria di chi tenta di riferire un
sogno.
A parlare, poi, delle serate trascorse in discoteca, il ritrovo dei giovani e delle ragazze del suo paese, trepidava di
gioia.
“A mezzanotte andavamo a cena e poi ci squagliavamo folleggiando al buio” e nel dirlo rideva.
Diceva che a volte a ballare venivano dei militari ed uno di loro, un sergente, sapeva ballare molto bene e lei
accettava volentieri di essere invitata da lui.
A giudicare dalle parole di commentò che accompagnò al nominarlo, la ragazza doveva essere stata in confidenza
con lui.
“Ah, è stato così romantico! Aveva comprato il gelato e… ma qui si interruppe con uno scoppio inaspettato di
risa e non volle più proseguire.
Ora diceva che Luigi, il sergente, era innamorato di lei, ora ne parlava come di uno che non voleva più vedere.
Corrado riuscì a capire che Maria aveva trovato lavoro in un albergo del paese ed il proprietario che era rimasto
vedovo le aveva proposto di sposarlo.
Maria giudicava troppi venti anni di differenza e preferiva tergiversare per non perdere il posto.
Una sera che aveva fatto entrare Luigi nella sua stanza, l’albergatore se ne accorse e Luigi invece che chiarire le
sue intenzioni preferì scappare in camicia e calzini.
Maria scoppiò in pianto ma si riprese subito dal suo turbamento proprio mentre la nonna zoppicante bussava alla
porta della stanza di Corrado: veniva a fare la sua sorpresa a Maria con una lettera di Luigi.
Le aveva scritto e le chiedeva di sposarlo.
Entro la settimana lo avrebbe raggiunto: ormai la nonna era autosufficiente e per le faccende più pesanti avrebbe
potuto provvedere il figlio.
L’indomani della partenza di Maria, Corrado trovò sul comodino della sua stanza un involto: erano dei pasticcini
di crema fasciati con la stagnola e piegata una letterina color malva: “Verrà al mio matrimonio? Le manderò la
partecipazione. Grazie, Maria.”
Nel pomeriggio il campanello dell’ingresso squillò così a lungo che Corrado trasalì.
Pensò che la signora Accardo alla quale aveva permesso di poter fare una passeggiata avesse avuto una ricaduta e
s’aspettava di veder arrivare il figlio per chiedere aiuto.
Ma era un uomo che aveva suonato.
“Presto! Una disgrazia. Un bambino è finito sotto un carretto! È successo nella frazione Ceci.”
“Morto?” chiese Corrado, senza neanche domandarsi di che bambino si trattasse.
“Se non è andato, è lì”, mormorò l’altro.
Corrado prese la borsa del pronto soccorso che teneva sempre a portata di mano e si avviò velocemente.
La vettura, guidata dall’uomo, uscì dall’abitato e cominciò a inerpicarsi per i tornanti che portavano in quella
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frazione isolata in montagna.
Ancora Corrado non era riuscito a districare nelle confuse spiegazioni dell’uomo cosa con esattezza fosse
avvenuto. L’infortunato era il nipote di quell’uomo che aveva l’abitudine, ogni giorno, di andargli incontro.
Che stavolta, non vedendolo arrivare, si fosse arrischiato ad attraversare la strada?
Fatto sta che un carretto, in discesa, l’aveva investito e travolto.
L’uomo fermò la macchina in un piccolo spiazzo e fece segno a Corrado di seguirlo.
Scesero per un ripido acciottolato, fra vecchie case affumicate.
Varcarono la soglia dell’ultima di quelle case. Attraversarono una specie di guardaroba che un armadio a muro
riempiva d’un tanfo di legno ammuffito, poi due stanze basse, pavimentate a mattoni, semibuie, dove si
soffocava, per quanto vi si aprissero due finestre che davano su un cortile.
Corrado dovette scansare, girandole intorno, una tavola rotonda, coperta di tela cerata nerastra e imbandita di
quattro piatti. Qui l’uomo aprì un uscio, entrò in una stanza meglio rischiarata ed appena lì si accasciò,
balbettando “Mariuccio, Mariuccio…”
“Carlo!” Lo rimproverò secca una voce.
Sulle prime Corrado distinse solo il letto poi scorse la donna che aveva parlato: il biondo della chioma, la fronte
ed il seno che la vestaglia non riusciva a coprire completamente splendevano al chiarore della luce che penetrava
dalla finestra.
Il viso del bambino, rovesciato sul cuscino, si indovinava tra i capelli repressi.
Corrado avanzò verso il letto e cominciò ad aprire a forbiciate le vesti insanguinate della vittima.
“Vive?” domandò Carlo.
“Sì”, disse Corrado. Il polso si percepiva appena.
Corrado alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo ansioso della giovane bionda.
“Signora”, propose, “non sarebbe meglio trasportare il bambino in ospedale?”
“Lo so che abbiamo l’aria di essere ignoranti ma anche se lo siamo non vogliamo finire nelle mani di medici che
fanno solo politica come quelli dell’ospedale più vicino.”
Corrado non aveva mai fatto politica: riteneva che un medico dovesse starsene lontano perché non avrebbe
potuto curare secondo scienza e coscienza.
Avrebbe dovuto scegliere ma non servirsi della politica di parte, con un partito o senza, per acquistare prestigio e
clientela anche se si era molto ridotto il tempo dedicato alla diagnosi e cura.
La politica consentiva al medico politico di delegare all’infermiere, senza diploma, la compilazione delle ricette, e
l’infermiere era affidabile perché la clientela lo chiamava “Dottore”.
L’infermiere sostituiva il medico in tutto e per tutto: la legislazione sanitaria non poteva avere valore perché…
fascista.
Corrado preferì, sul momento, non imporsi ma per non venir meno al suo dovere di medico, si tolse la giacca, si
rimboccò sopra i gomiti le maniche della camicia, quindi venne ad inginocchiarsi presso la sponda del letto.
Raramente a Corrado capitava di riflettere senza cominciare al tempo stesso di agire, tanto ripugnava alla sua
natura indugiarsi anche se non sbagliarsi gli premeva altrettanto quanto non intervenire coraggiosamente subito.
Aiutato dalla giovane bionda che tremava, finì di liberare del tutto dai vestiti il corpo del bambino, che si mostrò
finalmente nella sua nudità, esangue quasi cereo.
Il carretto deve averlo investito con estrema violenza tanto il corpo era coperto di ecchimosi e come se non
bastasse una striscia scura segnava la coscia dall’anca al ginocchio.
“È la gamba destra”, disse Carlo. Il piede destro era torto all’indietro e la gamba insanguinata appariva sformata e
più corta dell’altra.
“Frattura del femore?” Corrado rifletteva. “Lo strato di prostrazione in cui si trova non si spiega con questo
solo”, si disse, “c’è dell’altro; ma che cosa?”
Palpò la rotula e quindi lentamente risalì con le dita lungo la coscia ed ecco sulla parte interna della gamba,
qualche centimetro più su del ginocchio, spiccare da una ferita che quasi non si vedeva uno zampillo di sangue.
“La femorale? Un chirurgo?”, si chiese, “Ma in ospedale non arriverebbe vivo, chi allora? Io! Perché no? Non
resta altro da fare!”
In un lampo prese il laccio emostatico e lo legò stretto all’inizio della coscia.
“Vediamo! Un tavolo? Quello che ho visto entrando, bene, ecco la sala operatoria.”
In un attimo il tavolo fu pronto ed anche una buona illuminazione con una lampada.
Seguito da Carlo entrò nella camera da letto. “Lo prendo su io, lei regga la gamba”, disse a Carlo.
Passate le braccia sotto le reni del bambino che emise un fievole gemito, lo sollevò di peso, lo trasportò sul
tavolo, tolse il paralume dall’abat-jour e precisò alla donna bionda come doveva tenere la lampada per illuminare
meglio quell’area della gamba dove c’era sangue.
Prese la borsa dei ferri e disse a Carlo di tirare fuori ogni cosa e di disporre tutto sulla credenza.
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Prese una bottiglietta di cloroformio ed una garza.
“Bene. Lei si metta qui e tenga questa” disse alla bionda dandole la bottiglietta, “quando le farò segno ne versi
qualche goccia sulla garza che metterò sul viso di Mariuccio.”
Corrado bagnò la garza con cloroformio e la dispose sul naso del bambino che aspirò più volte.
Corrado prese dalla credenza la bottiglietta di tintura di iodio e la strofinò sulle sue mani.
Dispose delle compresse di garza intorno alla gamba per delimitare il campo operatorio.
“Qualche goccia di cloroformio”, chiese alla bionda, “così, bene.”
Osservò attentamente la piccola coscia gonfia, inghiotti la saliva e prese il bisturi: incise.
“Asciughi” disse a Carlo, curvo vicino a lui.
E tra sé: “Com’è magro! Si arriva subito all’osso. Toh, che Mariuccio russa! Bene. Sbrighiamoci. I divaricatori
ora.” Tolse il cotone sporco di sangue e divaricò la ferita.
Disse a Carlo di tenere in quella posizione i divaricatori: poteva fidarsi.” Adesso la sonda: eccola. Nel canale di
Hunter. Allacciatura, zac!”
Si sentiva addosso una gran calma. Non era il bambino che lo preoccupava né la morte in agguato, ma rifletteva
sulla allacciatura femorale nel canale degli adduttori.
“Proprio così”, ripeteva fra sé, “canalis addottorius e sub sartorio o canale di Hunter è l’intervallo intramuscolare
sulla fascia mediale del terzo medio della coscia che contiene i vasi femorali ed il nervo safeno. Sì! L’allacciatura
deve essere per forza corretta. L’arteria è lesa a livello del focolaio di frattura. La punta dell’osso l’ha lacerata.
Eppure non ne aveva molto di sangue da perdere questo bambino!”
Gli lanciò un’occhiata:
“Uhm! Sbrighiamoci. Una pinzetta. Bene, un’altra, ecco.”
Ruppe il tubetto della seta, ne sfilò la piccola matassa, eseguì una allacciatura presso ogni pinza.
“La circolazione collaterale basta… a questa età specialmente.”
Tese l’orecchio e impallidì. “Diavolo!” disse a mezza voce. Il bambino non respirava più.
Scostò bruscamente la donna, strappò le compresse dal viso del bambino e si mise ad auscultargli il cuore e il
torace. “Sì, sì, respira ancora”, mormorò.
Prese il polso ma era così precipitoso che rinunciò a contarne i battiti.
Tolse le pinze, fece una fasciatura e tolse il laccio. Prese due fialette e fece una puntura di olio canforato e una di
caffeina.
“Maledizione”, borbottò. Di minuto in minuto il viso del bambino si sbiancava sempre più, moriva.
Tra le labbra semiaperte due capelli attorcigliati, lievi lievi, ogni tanto palpitavano: respirava ancora.
“Dell’acqua calda”, ordinò. “Presto, da intiepidire il plasma.”
Innestò il tubo al flacone che era stato immerso nell’acqua calda e introdusse l’ago nella vena.
La donna sosteneva alto il flacone.
Dieci minuti trascorsero in completo silenzio. Le palpebre aggrottate, il respiro sospeso.
La soluzione continuava a passare, Corrado avvertì che il polso tendeva a ritornare anche se non riusciva a
contarne i battiti.
Tra le labbra esangui i capelli continuavano ad ondeggiare, anzi, o s’ingannava, la respirazione un po’ riprendeva.
Non c’era che da aspettare, aspettare pazientemente.
Un minuto più tardi un nuovo sospiro, questo quasi distinto.
“A che punto siamo?”
“Il flacone è quasi vuoto.”
Il polso ritornava: centoventi battiti.
Un immenso sollievo invadeva tutti quanti.
Tolse l’ago dalla vena e tamponò con cotone.
A questo punto il bambino fu percorso da un brivido.
Corrado si fece aiutare da Carlo per rimettere a letto il bambino mentre la donna riempiva di acqua calda una
bottiglia, l’avvolgeva in un asciugamano e la metteva vicino ai piedi del bambino.
Alla bella e meglio venne improvvisato un estensorio facendo passare una cordicella fra le sbarre del letto di
ferro. La gamba tenuta sollevata dal perso di un piccolo ferro da stiro.
La donna chiese se poteva rimettere nella borsa i ferri di Corrado, dopo averli lavati.
Corrado ringraziò e precisò che il bambino doveva essere portato in ospedale: un ospedale pediatrico nel
capoluogo della regione.
Bisognava telefonare alla Croce Rossa per l’autoambulanza.
Se ne interessò Carlo e dopo circa tre ore si sentì la sirena dell’autoambulanza che arrivava.
“Bravo, Mariuccio! Benissimo!” disse Corrado, dopo aver contato cento battiti del polso.
“Di bene in meglio!” E guardando la donna: “Questa volta credo proprio che l’abbiamo spuntata. È stata brava,
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signora. È la madre, lei?”
“Io, sì! Mio marito è morto. Lavorava nelle cave di porfido nel Trentino. Io sono trentina. Meno male che c’è
Carlo, mio cognato, ad aiutarci.”
Carlo volle portare la borsa di Corrado mentre seguivano quei militi della Croce Rossa che avevano sistemato
Mariuccio su di una barella nella stessa posizione in cui l’avevano visto, sul letto.
Carlo voleva pagarlo ma Corrado non volle alcun compenso.
Aveva capito che l’esperienza che aveva vissuto l’aveva già ampiamente compensato dal risultato.
Ma non era possibile fare il medico in quelle condizioni di assoluta apatia delle autorità verso l’assistenza sanitaria
che veniva scaricata sulla coscienza di un medico condotto in un consorzio che doveva essere solo un
intermediario a favore del vicino ospedale o dei medici legati alla politica.
Era giocoforza, per sopravvivere, ricorrere a quella specialità verso la quale era stato indirizzato da suo fratello e
cioè l’odontoiatria, che non turbava gli equilibri degli interessi dei medici del posto che chiamavano Ippocrate
come testimoni della loro scienza e Mammona della loro tasca.
Corrado non poteva sospettare che alla apatia degli amministratori locali interessati solo al mattone e alla sua resa
faceva riscontro una apatia ancora più negligente da parte dello Stato che creava una giungla per consentire una
gestione degli interessi in funzione dei più furbi o della violazione delle stesse disposizioni di legge che avrebbe
dovuto fare applicare da quelli che aveva chiamato a tutelarle.
È evidente che, a ragion veduta, dinanzi ad una criminalità organizzata o a forze eversive di varia natura lo Stato
finisce con il doversi impegnare per stroncare i pericoli maggiori ma il fatto è che creando vittime fra coloro che
vorrebbero ordine e il rispetto dei loro diritti si rafforza quella stessa criminalità che lo Stato voleva combattere
perché chi opera violando anche articoli meno repressivi del codice penale non potrà mai guardare allo Stato
come suo referente, perché starà sempre in guardia e tenderà a violare ogni altra norma che sappia di Stato e di
diritto.
Corrado s’illudeva che la sua specializzazione potesse consentirgli un esercizio professionale autonomo. Ignorava
che di tutte le attività mediche, l’odontoiatria era quella meno tutelata dallo Stato perché avrebbe implicato
interventi a livello di camere di commercio che gestivano a livello d’impresa gli esercenti arti ausiliarie della
professione medica e cioè equiparati ad infermieri generici che non potevano compiere alcuna manovra cruenta o
incruenta in presenza od in concorso del medico che incorreva nel reato di esercizio abusivo punito dal codice
penale, laboratori-imprese dai nomi più fantasiosi come “clinica del sorriso” o “clinica dentale” in cui
esercitavano la professione odontoiatrica le figure più disparate non solo prive di diplomi ma anche prive di
conoscenze anche se apprese fin da ragazzini in un laboratorio con un titolare che da abusivo era diventato
abilitato dalla sanatoria del 1938 del fascismo che doveva premiare i suoi sostenitori presenti alla marcia su
Roma.
Un sistema di fornitori di attrezzature e materiali, presidi medici e medicinali per anestesia a livello nazionale ed
internazionale realizzava enormi profitti vendendo sia ad odontotecnici onesti e preparati che agli abusivi
sfuggendo al fisco e mettendoli in condizione di non risultare come esercenti l’arte ausiliaria. L’iscrizione come
impresa non poteva d’altra parte essere configurata come odontotecnica in carenza del titolo rilasciato dagli
appositi istituti professionali.
Come capire la stortura del sistema se i sindaci e quanti avrebbero dovuto vigilare se ne infischiavano con il
tacito consenso del governo partitico che contava i voti senza badare al loro odore.
Anche certi ospedali utilizzavano queste figure anche per fare quadrare i bilanci delle mutue interne.
Nell’ambito militare, poi, non doveva essere raro che qualche ufficiale dentista dell’ospedale militare facesse
eseguire manufatti a odontotecnici od abusivi a carico dell’ospedale e per clientela privata e, addirittura, ordinasse
loro di recapitargli il lavoro nel proprio studio.
Un medico odontoiatra ingenuo, quindi, era il referente meno apprezzabile rispetto a cooperative di laboratori
che trovavano facilmente prestanomi particolarmente fra i medici condotti-ufficiali sanitari o di qualsiasi
disciplina inclusi i cosiddetti generici per assimilarli alla base infermieristica.
C’era la legge del mercato a dominare ma probabilmente in una forma troppo impregnata di malcostume e
ignoranza del popolo.
E i dentisti che contavano erano quelli che consentivano a finti odontotecnici di esercitare abusivamente l’attività
di odontoiatria sia nei loro studi privati che nelle strutture pubbliche.
Ma tutto questo era ancora lontano dalla esperienza di Corrado.
Adesso doveva risolvere il problema della sua permanenza o meno in quel consorzio sanitario.
In uno dei comuni del consorzio c’era una pensione: non aveva servizi igienici e non c’era l’acqua nelle stanze.
Ma la padrona, oltre che avere una stanza libera, sapeva cucinare ed aveva il negozio di alimentari.
Corrado fu obbligato a cercare alloggio in quella pensione.
Metteva a frutto quello che aveva studiato sui libri e sapeva curare le persone che cominciarono a volergli bene e
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ad apprezzarlo.
Non poteva dimenticare il disinteresse di quella amministrazione che, oltretutto, non gli pagava i contributi
previdenziali e tramite il portavoce del presidente della Coldiretti democristiana mirava ad uno sfruttamento della
sua professionalità per scopi di tesseramento, fissando delle tariffe da fame per paura delle associazioni del
partito comunista.
Corrado essendo venuto a conoscenza della presenza di un grande ospedale nella zona, avrebbe accettato di
chiudersi in questo ospedale. L’ordine dei medici si era guardato bene da illustrargli la situazione sanitaria del
territorio dove doveva esercitare.
L’università si guardava bene dall’educare sulle possibilità di lavoro nell’ambito medico.
Addirittura mentre un allievo infermiere era istruito ed utilizzato per praticare terapia iniettiva, flebo, salassi,
cateterismi e quant’altro che metteva immediatamente a frutto presso qualche cliente privato che era stato
ricoverato in ospedale e l’aveva visto in opera, il testo che lo studente in medicina doveva studiare precisava che
nessuna manovra, diversa dalla redazione della anamnesi, poteva essere compiuta dallo studente in medicina
perché avrebbe dovuto rispondere di esercizio abusivo della professione medica in quanto non abilitato.
Corrado era andato a parlare con un direttore sanitario ma gli era stata imposta una procedura che lo aveva
disorientato; doveva prima parlare con il primario per avere il consenso.
Tutto a voce e poi? Era evidente un antimeridionalismo nella frase di quel direttore: “Noi piemontesi abbiamo
conquistato il Sud!”
Corrado subiva la sua condizione di meridionale perché veniva assimilato a quei meridionali immigrati proprio in
quel territorio che si accontentavano dei lavori più umili, analfabeti sfruttati da altri analfabeti.
Quando negli anni Corrado si verrà a trovare nella stessa direzione sanitaria dovrà prendere atto che, in effetti,
quella era la prassi comune se la direzione sanitaria non voleva meridionali senza consistenti risorse finanziarie o
forti appoggi di cattedratici che dovevano sistemare loro allievi per toglierseli di torno.
La direzione sanitaria in mano ad un piemontese avrebbe telefonato a qualsiasi primario con cui era già stata
concordata una prassi scoraggiante che cominciava con una lunga attesa prima di essere ricevuto.
Altro che giuramento d’Ippocrate!
Che fare? Ormai Corrado si era specializzato in odontoiatra e sarebbe stato sciocco rinunziare ad esercitarla.
Avrebbe potuto mettersi assieme a suo fratello, in città.
Ma suo fratello era sposato e il cognato, senza altre prospettive, si era recato presso un parente, in Francia, che
aveva un laboratorio e gli aveva insegnato qualche tecnica di lavorazione elementare.
Questa circostanza rendeva problematica una associazione con suo fratello che faceva eseguire manufatti al
laboratorio che il cognato gestiva assieme ad un altro.
E poi suo fratello meditava, come poi ha fatto, di ritornare in Sicilia.
Se lo avesse deciso prima che Corrado decidesse di aprirsi un modesto studio tutto sarebbe stato diverso.
Già le prime difficoltà si presentarono quando Corrado decise di affittare un locale: un medico in regola con la
legge venne visto come un pericolo per quanti ormai esercitavano indisturbati da abusivi e venivano difesi dalle
varie parentele e dai trascorsi politici di membri della loro famiglia nelle organizzazioni antifasciste o ritenuti
dentisti perché durante la permanenza di militari italiani in quella zona, durante la guerra, avevano praticato
estrazioni dentarie anche ai civili con l’assenso del colonnello.
Nessuno voleva inimicarsi questi abusivi e per Corrado diventò impossibile trovare un locale idoneo: dovette
contentarsi di un quarto piano, senza ascensore.
Corrado non faceva il conto della particolare situazione socio-politica della sanità in Italia.
L’assistenza faceva capo ad enti mutualistici che erogavano prestazioni previdenziali ed assistenziali a favore di
determinate categorie di lavoratori che erano rappresentate nei consigli di amministrazione.
Erano rappresentanti sindacali e partitici orientati a concentrare l’assistenza in pochi medici, derogando dal limite
di scelte. Difficile connotare questi sistemi mutualistici!
Invece che indirizzare i giovani medici verso un inserimento nel sistema sanitario si tendeva ad escluderli se privi
di quegli appoggi politici che li rendevano asserviti ad un sistema.
L’esercizio della odontoiatria si presentò subito problematico sotto l’aspetto della legislazione sanitaria.
Lo Stato faceva finta di non accorgersi che tale attività veniva esercitata da un numero eccessivo di odontotecnici
con diploma e di un ancor più numeroso novero di soggetti privi di qualsiasi titolo di studio e che erano stati… a
bottega. Nonostante che l’odontoiatria fosse una disciplina medica facente parte delle materie obbligatorie per
conseguire la laurea in medicina e chirurgia, i sindaci, gli ospedali, i medici condotti e cittadini utenti non
facevano distinzione fra legalità ed illegalità.
Se sapevano togliere i denti anche i barbieri, vecchi cerusici nel profondo sud e nord, erano qualificati dai partiti e
dai cittadini: dottori dentisti.
Corrado sapeva togliere i denti e la piccola chirurgia diventò il suo pane.
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Dopo arriverà qualcuno che dotato di acume politico inserirà nei bilanci regionali anche uscite per prestazioni
odontoiatriche ed ortodontiche inserendosi nel mercato sia delle forniture che dei voti.
L’odontoiatria diventerà una laurea quinquennale non facente parte della laurea in medicina e chirurgia.
La professione esercitata sarà quella di odontoiatra ma, stranamente, viene pubblicizzata come laurea in
odontoiatria e protesi dentale.
Limitazioni all’esercizio di tale attività per non invadere il campo medico non verranno prese neanche in
considerazione ed anzi all’odontoiatra viene attribuita la qualifica di medico ma diverso dal medico veterinario.
L’attività di Corrado aveva un aspetto non trascurabile: era libera.
Libero anche di fare la fame visto che pur essendo l’abusivismo un reato perseguibile d’ufficio in base a C.P.
dovevano esserci particolari veline che dissuadevano i tutori della legge: sindaci in prima fila, come autorità
sanitaria locale dall’intervenire.
Altro che elenchi degli esercenti e deposito con vidimazione dei titoli.
Era un fastidio per i comuni e per i tanti sanitari senza fissa dimora che disattendevano l’Ige e Vanoni.
L’ingenuità di Corrado era tale che non avrebbe potuto considerare accettabile se la sua professione avesse
dovuto farsi forte di una collocazione nell’ambito di qualche partito.
Ecco che quel senso morale da cui si riteneva totalmente affrancato dopo il servizio militare, ecco che, mentre
meno se lo aspettava, se lo ritrovava davanti!
E non già nascosto e come confinato in qualche piega del subcosciente ma bene in vista, in primo piano, proprio
al centro delle sue scelte professionali.
PARTE SETTIMA
Prima di lasciare quel consorzio in zona disagiata e quella pensione dalla atmosfera opprimente, Corrado volle
salutare la signora Accardo con cui era rimasto in buoni rapporti.
Il discorso cadde sull’ ambiente che Corrado avrebbe dovuto frequentare in quel paese in riva al mare.
“Non so se lei ha osservato”, cominciò la signora Accardo, “il comportamento di certi individui per i quali esiste
un solo denominatore comune che li caratterizza ed è l’angelica disponibilità che ostentano e non lasciano
trasparire alcuna insofferenza. Molto spesso questo è l’atteggiamento degli ipocriti e nasconde una sfrenata
ambizione. Il sindaco del paese dove lei si trasferisce appartiene a questa categoria. L’unica cosa positiva in quel
paese è che vengono turisti da altre parti dell’Italia e dall’estero e, visto che lei parla diverse lingue, potranno
avere bisogno di lei. Questo sindaco Osmesi è figlio di un farmacista che era giunto in quel paese, ancora poco
sviluppato, in periodo fascista. Si ricordano ancora del suo arrivo, in orbace.”
Corrado dovette faticare un bel po’ per organizzare nella sua mente il racconto della signora Accardo, che,
peraltro, era ricco di sfumature dialettali di non facile comprensione.
Comunque questo può essere il senso del racconto: il farmacista era sceso dalla carrozza di coda proveniente dal
capoluogo con una valigia di fibra vulcanizzata.
Piccolo di statura, le spalle larghe, gli arti superiori della stessa lunghezza degli inferiori, la faccia di fauno con
bozze frontali prominenti sembrava il biblico Leghista.
Chiunque, uomo o donna, gli avrebbe dato più dei quarant’anni bollati del suo atto di nascita.
Il podestà aveva mandato il messo comunale a riceverlo perché gli era stato raccomandato dal federale.
Il messo comunale era soprannominato, chi sa per quale accidente, Cacova, ed il nomignolo gli tornava bene ed
egli ne era tanto convinto da preferirlo al suo cognome, Curcuruto, anche a lui ostico ed incomprensibile. Si era
messo il berretto d’ordinanza con un vistoso emblema del Comune: il grande masso che c’era sullo stradone!
Cacova rivolse al dottore il rituale “Signuria” e caricatosi la valigia lo seguì verso l’uscita dalla stazione che era
molto distante dal paese e bisognava percorrere una strada non ancora asfaltata in piena campagna.
Il mulo che Cacova aveva legato ad una stanga, là fuori, non aveva pararocchi: all’avvicinarsi di Osmesi emise un
raglio e lo prolungò oltre l’usato accordandolo con il fischiettio della locomotiva che riprendeva la corsa fra
pareti di muri sgretolanti.
Il dottore montò con magistrale saltello in arcione, atteggiandosi a cattedratica gravità nella ricerca di una
comoda positura e, quando Cacova ebbe imbracato da par suo la valigia per caricarsela sulle spalle, diè di sprone
alla cavalcatura che si avviò lungo il margine dello stradone, i cui monticelli di breccia uguali ed equidistanti erano
destinati a commemorare la fatica dello schiacciasassi.
Una candida nuvola, ingrossandosi con lento dipanio, evocava ad Osmesi l’immagine del suo duce in sella al suo
bel cavallo, nella tenuta della Camilluccia, apparecchiato per la gran parata della storia.
La primaverile baldanza del sole si tuffava nel verde dei pochi alberi piantati lungo lo stradone e scorrendo per i
rami penetrava fin dentro le radici.
Osmesi, che amava definire il mal di bardella non meno insidioso del mal di mare, vagheggiava ora le lusinghe
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della carriera di unico farmacista nel paese, che era stato chiamato Litosi a causa del gran masso che era stato
impossibile rimuovere.
Ma Osmesi avvertiva che l’andatura del mulo, in contrasto con i suoi elevati pensieri, gonfiava il languore del suo
stomaco addensandovi ingrati vapori che aprendosi il varco giù per i borbottanti intestini, gli stappavano via con
inusitata frequenza.
Lui e Cacova attraversarono senza inciampi il greto del torrente Marela, a qualche miglio dal paese e si diressero a
manca, in direzione di un grande abete, verso l’imbocco di una stradina che conduceva al paese.
Sulla muriccia, contrassegnata da una croce, in memoria delle anime disperate che appesero il fardello dei loro
guai ad un ramo forcaiolo che nessuno osava tagliare forse per la suggestione che ne derivava alla mente dei
passanti, sedevano con padre Mozzetta, parroco di Litosi, due giovanotti suoi fedelissimi coadiutori: mentre il
parroco si asciugava la fronte con un fazzoletto grande come una tovaglia d’altare, i due giovanotti
succhiellavano a vicenda da una capace borraccia vin da messa, con sobrietà e compunzione quasi fratesche.
“Viva il Duce!” gridò uno dei due giovanotti alla vista dell’orbace di Osmesi.
Era il barbiere colui che gridava perché voleva conservare la sua attività nel paese come guaritore e cavadenti.
A questa accoglienza Osmesi rispose con un saluto romano che per poco non lo disarcionò.
E la sua soddisfazione, a dispetto del bruciore che gli irritava le natiche, aumentò ancora di più quando lo stesso
barbiere gli offrì da bere.
Osmesi, che era tormentato dall’arsura, accettò entusiasticamente l’offerta del camerata, colse a volo la borraccia
e bevette per due, facendo finta di non accorgersi delle occhiate imploranti di Cacova.
Don Mozzetta e l’altro giovanotto, compiaciuti, scesero dalla muriccia e si incamminarono con il barbiere ed
Osmesi, che era sceso dal mulo, verso il paese.
Il levita, aggiustandosi attorno al collo il suo fazzolettone come per sottoporsi alla rasatura della barba e al rasoio
del barbiere, intonò il primo versetto di un inno che esaltava la fede inconcussa nel Santo Patrono e le
innumerevoli grazie lucrate dai devoti che si erano insistentemente raccomandati, con opere di bene, al
taumaturgico potere della sua intercessione.
“E così sia” recitò la voce alta di Osmesi che cominciava a barcollare per il vino, “evviva il concordato firmato
dal nostro duce!”
“Eia, eia, alalà!” gridarono tutti in coro, Cacova ed il raglio del suo mulo compreso.
“Caro farmacista”, disse don Mozzetta afferrando Osmesi per il braccio libero perché l’altro era trattenuto dal
barbiere, “il farmacista è come il prete: ognuno di noi dispensa medicine!”
Il barbiere annuiva e continuò a farlo così a lungo che poi, per parecchi giorni, gli fece male il collo.
La maggior parte del tempo Osmesi la passava per studiare le proprietà delle erbe di Litosi.
C’era tanta varietà che si poteva aprire una erboristeria.
Si fece aiutare dal barbiere e riuscì a fare dei decotti e delle soluzioni che ebbero subito largo consumo.
C’era un’erba che da sempre godeva di reputazione come antiodontalgico.
Osmesi ne fece un concentrato che agiva immediatamente se deposto sul dente cariato con un piccolo batuffolo
di cotone.
Il barbiere utilizzò una lavanda che sgrassava i capelli ed un profumo dal potere afrodisiaco e maschio.
Anche lui faceva buoni affari.
Il nome di Osmesi cominciò ad essere conosciuto e non c’era adunata del sabato che non lo vedesse in orbace
con il pugnale alla cintola.
Sempre presente alle funzioni religiose assieme alle autorità cittadine con la camicia nera.
Il podestà gli aveva indicato quale fosse il terreno più adatto per costruirsi una bella villa ed Osmesi non dovette
sostenere eccessive spese perché pensò bene di sposare la ricca ereditiera che era padrona anche di quel terreno.
Ebbe un solo figlio che allevò nel culto del fascismo. Morì prima ancora di vederne lo sfascio ma dopo la moglie.
Il figlio era diventato medico ma aveva dedicato la maggior parte del suo tempo al GUF e aveva goduto dei
vantaggi della conquista dell’Impero.
Dopo varie vicende, alla caduta del fascismo, per cui era dovuto scappare da Litosi perché aveva mandato in
Germania per rastrellamento forzato alcuni cittadini di Litosi, da lui, come medico di fiducia dei tedeschi,
dichiarati idonei a lavoro in Germania, campi di sterminio compresi, riuscì a rientrare a Litosi, attraverso accordi
con i comunisti e con i notabili locali.
Fu eletto sindaco! Con un altro medico del posto, prese accordo con le mutue che allora gestivano la sanità
pubblica, e si divisero i mutuati anche in base agli orientamenti politici degli assistiti: la destra a me e la sinistra a
te. Per la condotta diedero incarico ad un terzo medico che praticava l’ostetricia, proteggeva l’abusivismo e
riscuoteva lo stipendio di condotto, mai reperibile, e di ufficiale sanitario anche dal comune capoluogo di quel
consorzio che aveva creato tanti disagi all’ingenuo Corrado.
Non potevano manifestarsi invidie perché mentre per gli impiegati comunali che avrebbero votato Osmesi figlio
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per tutta la vita aveva fatto costruire sul lungomare una elegante palazzina con appartamenti di loro proprietà ed
in particolare spazioso quello del geometra comunale, altrettante e più numerose palazzine erano state costruite
come case popolari riscattate a costi irrisori.
Ma la politica del voto dall’edilizia non mancava di premiare imprese che elevavano piani in base ad un equivoco
piano di fabbricazione: prevalentemente terze case per forestieri di altre provincie e alberghi con finanziamenti
elaborati a sostegno del turismo.
Rivoli di finanziamenti e di agevolazioni che non prendevano in considerazione le difficoltà di un giovane che
doveva iniziare una attività in questo contesto dove ormai contavano i voti di massa e non le singole
individualità. Nessuno poteva immaginare che non era mafia ma che ne poteva assumere i connotati!
Il racconto della signora Accardo era stato abbastanza colorito e a Corrado non restò altro da fare che
ringraziare. Evidentemente qualsiasi libera attività espone a dei rischi che diventano tanto più gravi quanto più si
cerca l’inserimento in un ambiente estraneo con interessi ben consolidati e tutelati dalla consuetudine locale fatta
assurgere a norma di legge.
Il fatto stesso di vivere adesso a Litosi consentiva a Corrado di venire a conoscenza di alcuni commenti anche
solo quando andava a farsi la barba o i capelli dall’unico barbiere di Litosi, che non disdegnava di sparlare del
medico Osmesi per far dimenticare il suo passato fascista.
Adesso il barbiere era tutto per un nuovo farmacista di tendenze socialiste ma lo lasciava intendere, senza
esporsi. “Mussolini non era stato socialista?” diceva.
Corrado venne a sapere che Osmesi si sarebbe ritirato dalla politica e che la Democrazia Cristiana si preparava a
prendere possesso del Comune.
Si era rafforzata per la presenza di un immigrato meridionale da sempre presidente della Azione Cattolica prima
al suo paese Butternia e poi a Litosi.
Era molto legato alla Chiesa ed assiduo della parrocchia e del vescovo.
Cattairo vantava di avere una guida spirituale che lo guidava per le vie del Signore e della fede.
Durante la guerra si era trovato a Litosi e tornando in Sicilia non si era ritrovato in quel territorio collinare dove
vivevano i suoi genitori che allevavano ovini.
Aveva capito che Litosi gli offriva maggiori possibilità di Butternia per avviare una attività turistica anche
partendo come affittacamere. Non trascurava la possibilità, con il tempo, di avviare anche lungo la costa di
Butternia ma, dopo la guerra, c’era troppa miseria a Butternia perché le terre erano state trascurate ed era scarsa
la produzione di grano, carrube, olive e la viticultura che erano caratteristica della zona oltre l’allevamento degli
ovini e bovini. In effetti i suo comune era piccolo: non superava i tremila abitanti.
A Litosi aveva frequentato una ragazza e le aveva scritto.
Aveva saputo che aveva rotto il fidanzamento ed era libera.
Cattario sapeva che la ragazza era molto ricca e non ci pensò due volte a ritornare a Litosi e sposarsela.
Poteva iniziare la sua attività alberghiera che prometteva bene visto che i tedeschi della repubblica di Bonn
avevano scelto quelle località di mare per il loro turismo di massa e Litosi era una delle mete preferite.
In breve tempo Cattario costruì sul lungomare un lussuoso albergo con l’uso esclusivo della spiaggia.
La decisione di Osmesi non era stata accolta favorevolmente da quelli dell’edilizia ma Cattario fece presto a
rassicurali: egli non avrebbe deciso niente senza il consenso dei sostenitori di Osmesi e della Democrazia
Cristiana. Avrebbe garantito anche gli interessi dei democristiani di altre correnti del partito (certamente senza
mettere in luce i suoi!).
La sua tattica era quella di mostrasi umile e senza pretese di grandezza; lo interpellavano per nome e tutti si
sentivano autorizzati a trattarlo come uno che non poteva dire di no: era un meridionale ricco di religiosità e
protetto dalla Madonna che lui sempre invocava.
Corrado aveva maturato un rancore nei confronti della politica rappresentata dai partiti di Litosi che si erano
chiusi a riccio per paura che oltre agli ingenui analfabeti che Cattario aveva fatto affluire a Litosi iscritti alla
Democrazia Cristiana per rafforzarlo e da lui sistemati come inservienti nel locale ospedale o come netturbini o
custodi del cimitero, addetti ai caselli autostradali (sistemandoli, comunque, con il sostegno degli onorevoli della
sua corrente), Cattario potesse usare la sua tattica adulatrice e spesso intimidatrice nei confronti di Corrado.
Ma Cattario vedeva un nemico in Corrado che era un laureato mentre lui, oltre alla Madonna, a san Rocco,
patrono di Butternia, e all’unico figlio che gli aveva generato la ricca ma insipida moglie, aveva solo la licenza
elementare che non gli aveva impedito di sviluppare una grande furbizia.
Temeva Corrado e il suo timore aumentò quando Corrado, disgustato dell’egoismo dei partiti liberale e
democristiano padroni di Litosi accettò di candidarsi, da indipendente, con il Partito Comunista.
Cattario cominciò a calunniarlo e ad invitare i meridionali a non votarlo e a boicottarlo perché solo lui poteva
garantirli: lui apparteneva al partito che governava l’Italia ed aveva i canali giusti per ottenere favori e soldi.
Cattario aveva, fin da subito, cercato di farlo emarginare dai suoi conterranei di Butternia diffondendo voci
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calunniose sul suo conto e per evitargli pretese diceva che era un “camaleonte” che si era messo in politica per i
suoi interessi.
Evidentemente il Partito Comunista non aveva trovato candidati che avessero un qualche titolo di studio diverso
dalla licenza elementare e avevano insistito presso Corrado che, da ingenuo, aveva creduto che lo avessero
cercato perché a conoscenza dei suoi sacrifici affrontati in quel consorzio disagiato gestito dai democristiani. Era,
invece, una tattica dei comunisti locali che metteva in lista qualcuno che potesse raccogliere una manciata di voti
per fare eleggere, in ogni caso, un iscritto al partito ossequiente della sua disciplina.
Corrado aveva accettato la candidatura perché voleva fare questa esperienza: non sapeva niente di comunismo o
di Marx o Gramsci. Non era stato questo il suo campo di studio.
Riteneva che alla carica di consigliere comunale venissero scelti cittadini dotati di istruzione in grado di svolgere
la funzione in seno ad un consiglio comunale, istruendosi. Ignorava che anche l’obbligo di sapere leggere e
scrivere non entrasse nella logica dei partiti. La scelta era orientata sulla base di una disciplina obbediente alle
direttive dei capi ed il no ed il sì diventavano un obbligo anche se non si era capito un accidente di quello che si
votava.
C’era una sorta di tacita immunità per tutti i vizi formali e sostanziali ed una assoluta disattenzione sulle uscite
come sulle entrate. Certamente era meglio del fascismo che spendeva per la guerra.
Adesso i partiti spendevano per la loro pancia anche se per farlo dovevano spremere le meningi e la tasca dei
cittadini attuando la politica della maggioranza d’accordo con l’opposizione nell’alternarsi come garantisti prima
delle elezioni e vessatori poi… per colpa sempre della maggioranza.
Corrado s’illudeva che avrebbe potuto richiamare gli amministratori al rispetto della legalità e del rispetto dei
diritti e dei doveri uguali per tutti nel caso fosse stato eletto.
Si ritrovò in consiglio comunale, da indipendente, con sindaco Osmesi di destra con la Democrazia Cristiana di
centro destra.
Fu subito evidente che Corrado intendeva portare avanti una cultura amministrativa elaborata attraverso
l’applicazione di quanto previsto da decreti e regolamenti.
Tutto ciò era una minaccia per una consuetudine amministrativa che prescindeva da qualsiasi norma giuridica e
che lasciava al segretario comunale di redigere gli atti secondo la forma prevista e accettata dalla GPA.
I più disorientati erano i due rappresentati del Partito Comunista che, come da prassi, avevano concordato, in
segreto, in riunione con la giunta, la loro posizione e il relativo scambio di vantaggi relativamente a posti di
lavoro, appalti, consulenze e quant’altro mentre, adesso, si trovavano, nel loro gruppo, un indipendente…
moralista.
Cattario aveva afferrato la situazione e siccome era vice sindaco aveva capito che poteva manovrare per dare alla
Democrazia Cristiana e quindi a lui la poltrona di sindaco.
Ormai a Roma c’era il centro-sinistra: si trattava di patteggiare con il Partito Comunista perché gli cedessero quel
consigliere ingombro con il quale poteva raggiungere la metà più uno dei voti per fare una nuova maggioranza di
centro-sinistra.
Cattario vantava una lunga esperienza parrocchiale incentrata, specialmente, nella raccolta delle elemosine
durante le liturgie. Partecipava a tutte le processioni e a tutti i funerali delle persone decedute nel paese e
nell’ospedale.
Era stato eletto presidente della Croce Rossa locale, presidente dell’associazione albergatori e dell’ECA.
Era diventato cavaliere. Si sentiva ispirato dal suo santo protettore tanto che aveva l’abitudine di intercalare nel
discorso frasi mistiche ed implorazioni alla Madonna.
Vestiva con eleganza vagamente signorile ma era decisamente brutto: il naso grosso spiccava sulla faccia rotonda
che si infossava sul torace per mancanza del collo.
Nel suo albergo aveva assunto alcuni compaesani fidati e utilizzava anche degli handicappati, in grado di svolgere
lavori elementari che gli venivano inviati da una comunità gestita dalla moglie di un democristiano che aveva
continuato a finanziarla anche dopo che era diventato assessore alla sanità della appena varata amministrazione
regionale.
In quel successivo periodo uno scandalo aveva coinvolto questo assessore. Pare il corruttore avesse patteggiato la
pena ma finì che non c’erano stati i corrotti.
Comunque nel periodo antecedente la delega alle regioni ordinarie, Cattario poteva contare su di una
maggioranza anche se risicata nella sezione della Democrazia Cristiana la cui corrente era maggioritaria anche in
provincia.
L’elezione a sindaco di Osmesi non aveva attenuato il suo fervore religioso: “Io”, diceva nelle riunioni della
sezione, “ho dovuto affrontare molte spese per la campagna elettorale, anche quelle per i miei amici di partito,
ma non mi lamento. Sono contento di essere stato eletto in consiglio comunale come capogruppo per cui non
mancherò, per prima cosa, di condurre una campagna contro la bestemmia. È ora di finirla con quei comunisti
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che bestemmiano in pubblico! È inutile che giustifichino il loro comportamento perché sfruttati dai padroni! I
miei dipendenti non bestemmiano e la domenica vanno tutti a messa.”
Cattario aveva imparato, al suo paese, tattiche vagamente allusive ma tremendamente intimidatorie che
richiamavano l’attenzione del suo interlocutore alla particolare prudenza che bisogna osservare per non fare del
male alla propria famiglia.
Una sera, nella riunione dell’assemblea della sezione DC, si decise a compiere il gran passo.
Cominciò a dire, con linguaggio vago ed impreciso, che non si poteva fare a meno di considerare che la
Democrazia Cristiana si era alleata con i socialisti e che anche a Litosi si era presentata la necessità di formare una
nuova maggioranza.
Aveva già concordato con gli esponenti delle altre correnti presenti nella sezione ed in particolare un avvocato ed
un economo in un ente pubblico, già comunista, la loro fetta di amministrazione e di manovra, ma, in presenza
dell’assemblea, dove c’erano anche suoi fidati iscritti ad altri partiti, dovette atteggiare il viso a grande
commozione per dare l’annuncio che una grave disgrazia aveva colpito la Democrazia Cristiana: in un incidente
d’auto era morto il neo eletto segretario provinciale!
Fece un attimo di pausa ed abbassò la testa come dovesse lottare contro la struggente commozione e… “un
valoroso architetto, componente della commissione edilizia” proseguì, girando lo sguardo tutt’intorno, “chi
terminerà i lavori di ristrutturazione del centro storico e della passeggiata a mare di Litosi?”
Fece un’altra pausa e con voce stanca volle chiedere scusa a tutta l’assemblea perché, anche a nome di tutta la
sezione, aveva spedito telegrammi di condoglianze alla vedova e al nuovo segretario provinciale.
Tutti fecero commenti di approvazione e Vallino, già partigiano comunista che sognava di diventare primo
cittadino fosse anche di un minuscolo Comune beninteso in espansione edilizia, fossero anche le case Fanfani,
non seppe resistere e corse ad abbracciarlo seguito da quelli ai quali Cattario aveva garantito assessorati
importanti e presidenze nelle giuste commissioni o posti gestiti dalla Democrazia Cristiana.
Cattario ci teneva ad informare l’assemblea che il nuovo segretario provinciale era stato incaricato di fare alleanze
di centro sinistra in tutti i Comuni dove sarebbe stato possibile.
Anche Litosi doveva realizzare questa nuova maggioranza. Rassicurò che nessun cambiamento ci sarebbe stato
nella assegnazione degli assessorati e che Vallila avrebbe continuato ad essere assessore alle finanze.
Ciò rincuorò ancora di più l’economo che inneggiò a Cattario sindaco: nessuno avrebbe messo il naso sui bilanci
che, ormai da decenni, nessun revisore si era azzardato a verificare.
Finita l’assemblea e giunto a casa, Vallila si attaccò al telefono e telefonò all’avvocato Ninnina: “Non si elegge a
sindaco un tipo mafioso come Cattario!” tuonò tanto che il legale sentì rintronare il proprio timpano, “Una
simile avventura con un meridionale baciapile sarebbe una umiliazione per la nostra lunga militanza nella
democrazia locale.”
Nannina gli rispose in tono conciliante: “Hai ragione! Mi sarebbe sembrato più giusto che… se proprio
dobbiamo fare il centro sinistra, avremmo dovuto discorrere più a lungo… Ma, sì, cara, arrivo subito. Scusa
Vallila ma queste mogli!”
Nannina non poteva certo confessargli che lui sarebbe stato non solo il capogruppo ma il vero legale per le
controversie del Comune e consulente esclusivo per gli aspetti legali degli appalti o opere pubbliche.
Ma che proprio Vallila lo ritenesse così sprovveduto che non sapesse della sua richiesta di vedersi garantito
riguardo ai libri contabili dell’Istituto per disabili dove faceva l’economo per meriti di partito.
Eppure entrambi erano stati partigiani!
Chi non poteva restare indifferente a quanto gli stava capitando sotto il naso era Osmesi.
Sulle prime non voleva sentire di far sedere Cattario sulla sua poltrona ma i notabili della cittadina lo convinsero
ad accondiscendere perché Cattario avrebbe fatto sparire tutte le pratiche compromettenti ed aveva garantito che
non avrebbe preso alcuna decisione senza consultare loro e principalmente lo stesso Osmesi.
Per convincerlo ancora di più assunsero l’impegno di farlo eleggere anche con i voti del centro-sinistra come
senatore alle ormai prossime elezioni nazionali.
Osmesi ricercava da lungo tempo la poltrona di senatore e si decise, con riserva, di accettare che formalmente
Cattario diventasse sindaco. Certamente non voleva confrontarsi con quell’imbecille e pur restando come
consigliere avrebbe, poi, optato per la carica di senatore.
Cattario aveva preso l’abitudine di recarsi giornalmente nello studio di Corrado con la scusa di salutarlo e per
offrirgli la sua amicizia.
Trattandosi di un conterraneo anche se due provincie siciliane di cultura e tradizioni diversissime a Corrado non
sembrava educato liberasene e dovette adattarsi a questa strana invadenza in nome di una solidarietà pelosa ma
che non poteva essere rifiutata per la contemporanea presenza in consiglio comunale.
Con il centro-sinistra Cattario divenne sindaco e raggiunse il quorum per l’accordo con il Partito Comunista di
fare entrare in giunta il loro consigliere indipendente: Corrado!
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Ma proprio perché indipendente Corrado volle che la Democrazia Cristiana inserisse nel programma delle opere
pubbliche da realizzare sia il riordino del servizio di nettezza urbana che la costruzione dell’edificio delle scuole
medie o d’obbligo.
Corrado aveva presentato questo programma alla popolazione quando si era candidato e si riteneva vincolato a
realizzarlo qualora ne avesse avuto la possibilità.
Il centro sinistra inserì questi punti nel programma e Corrado accettò l’assessorato alla sanità pubblica e alla
pubblica istruzione.
Già alla prima riunione di giunta fu chiaro che Corrado non poteva accettare che Vallila si opponesse a che
venisse fatta pagare l’occupazione del suolo pubblico ad un suo parente: in giunta era arrivata la pratica a parte
dell’esattore che chiedeva alla giunta di intervenire.
Vallila lo aveva aggredito in malo modo minacciandolo anche fisicamente.
Per ottenere un riordino della nettezza urbana il cui trasporto avveniva in camion all’aperto e lo smaltimento in
discariche inquinanti la falda acquifera, aveva dovuto pretendere non solo la risoluzione del contratto con
l’impresa inadempiente perché priva di mezzi adatti al servizio ma aveva dovuto fare una segnalazione al
ministero della sanità.
Era solo l’inizio del centro sinistra e Cattario e Carrina, l’assessore ai LLPP e edilizia privata pensavano che
gradualmente avrebbero potuto portare Corrado nel loro alveo.
Un fatto aveva fatto maturare in Corrado la convinzione che se quella era la politica lui non poteva accettarla
come scelta di vita.
Cattario aveva riempito Litosi dei suoi compaesani, gente che era vissuta di stenti sui magri profitti di un pezzo di
terra strappata alla collina ed adesso aveva tutto il litorale di Litosi su cui sostare e guardare ad un orizzonte più
rassicurante.
Fino a che erano rimasti sulle loro colline erano stati contadini e pecorai e l’industria li aveva lasciati intatti.
Ed ecco che, dopo avere venduto ad una società messa su da parenti di Cattario si ritrovavano a Litosi con lo
stipendio fisso e con l’assegnazione dell’alloggio delle case popolari.
Litosi godeva del miracolo economico e l’afflusso turistico creava spazio alle attività più direttamente legate a
questo settore. Si aprivano le pizzerie, si gestivano camere da dare in affitto, venivano messe a frutto esperienze
lavorative dei meridionali nelle panetterie, negli stabilimenti balneari.
La popolazione di Litosi tendeva a diventare cosmopolita anche se quelli del posto si associavano in una
organizzazione pronta a rivendicare la primogenitura rieleggendo Osmesi e tutto il consiglio comunale di pura
etnia locale.
I comunisti si sentivano come derubati della loro influenza sulla “classe lavoratrice” perché a Litosi
cominciavano a sparire gli operai con cui fare la rivoluzione proletaria.
Alcuni, e specialmente i commercianti, cominciarono a pensare che l’aumento della popolazione avrebbe
migliorato i loro affari.
Le quotazioni di Cattario salivano: aveva visto da che parte veniva il vento e aveva pensato che doveva essere un
uomo della Chiesa.
Adesso aveva accesso a quei canali riservati del potere democristiano e cattolico in grado di fare a meno della
burocrazia.
Aveva insediato alcuni suoi parenti nei posti più vicini agli uffici importanti in maniera da poter essere informato
in anticipo su quello che poteva essere deciso da quegli enti pubblici.
Aveva fatto presto a capire che la politica gli poteva consentire di costruirsi una posizione che assomigliasse alla
sua anima e a sfruttare, con molta astuzia, i peccati dei notabili della politica, che trascorrevano alcuni giorni lieti
nel suo albergo.
Le cameriere ed i camerieri erano del suo paese e non disdegnavano di origliare o di spiare opportunamente se si
fossero manifestate deviazioni oltre ai tradimenti…
L’ironia era che Cattario poteva esibire anche la cartolina di ringraziamento da parte di questi illustri
rappresentanti delle istituzioni. Da cavaliere era diventato commendatore!
Adesso, in quelle riunioni di giunta, faceva valere il suo titolo onorifico e stuzzicava la vanità dei presenti facendo
balenare la possibilità che, grazie alle sue aderenze, poteva fare arrivare titoli onorifici anche ai componenti della
sua giunta che avessero limitato la richiesta di chiarimenti limitandosi, invece, a votare in modo da non dovere
perdere tempo inutile.
Ma Osmesi non era stato da meno! Si era mostrato avvilito quando aveva dovuto lasciare la sua poltrona di
sindaco: “A me”, aveva dichiarato in consiglio, “non interessa la carriera politica. Ho pianto perché per tutti
questi anni io ho fatto il Sindaco per amore della mia città, dove sono nato sacrificando anche la mia
professione.” In realtà s’era costruito alcuni palazzi e erano i mutuati a soffrire della sua assenza come medico.
Ma Osmesi era un grande politico!
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“Io non voglio fare il senatore!” continuò a dire, “Io voglio fare l’interesse di tutti quelli che vivono a Litosi,
anche di quelli che sono venuti dal sud, gli amici di Cattario. In particolare”, urlò mentre l’uditorio si faceva
attento, “certamente da senatore farà costruire il nuovo campo sportivo, farà ridurre le tasse perché, ormai, la
popolazione non ha veri lavoratori qualificati se si escludono i cittadini di Litosi da più generazioni. Sono questi,
in verità, che è gente onesta, grande lavoratrice.”
Osmesi aveva fatto affluire nella sala riservata al pubblico molti suoi sostenitori e al momento in cui Osmesi
elogiava i cittadini di Litosi cominciarono ad applaudire e ad inneggiare ad Osmesi senatore.
Ed Omesi si diede da fare a stringere le mani a destra e a manca. C’era anche la sua amante. Una bella donna alla
quale Osmesi aveva comprato un bel bar che veniva gestito dai suoi figli.
Aveva cominciato la relazione quando era suggestionato dall’enfasi della virilità fascista ed era continuata anche
dopo che lui si era sposato con una donna del sud che l’aveva ospitato quando era dovuto scappare da Litosi.
Il discorso di Osmesi aveva infiammato gli animi e Cattario propose di sospendere la seduta: si spostarono tutti a
brindare nel bar del dancing di proprietà del Comune.
La scelta di Osmesi di candidarsi come senatore aveva convinto Cattario e l’assessore socialista che Osmesi
avrebbe avuto bisogno del loro sostegno e decisero che era arrivato il momento giusto per aumentare il rilascio
di licenze edilizie e di rifare l’asfalto alle strade che servivano le loro ville.
Si parlava di tangenti.
Furono due dipendenti comunali ad essere pescati con le mani nel sacco ma non si azzardarono a coinvolgere
politici od amministratori. Trascorso un certo periodo furono riammessi nel loro impiego.
“Solo i socialisti”, diceva Carinna, “possono scongiurare che vengano rilasciate licenze edilizie di favore. Per
questo abbiamo accettato di assumere la presidenza della commissione edilizia. Basta con i vincoli militari!”
Cattario lo guardava ammirato per come presentava la speculazione che d’accordo stavano realizzando nella zona
panoramica dove nessuno fino a quel momento aveva potuto costruire perché soggetta a vincolo per la presenza
di un radar.
E poteva contare sull’appoggio interessato del compagno comunista Balletta premiato con lavori a cottimo in
una impresa di fiducia del comune.
Balletta aveva preso la parola, in un consiglio comunale, e cominciò con voce intimidatoria: “Noi comunisti
difendiamo gli interessi dei lavoratori! Vogliamo sapere tutto quanto volete fare nel campo dell’edilizia pubblica.
A noi interessa sapere che intenzioni avete riguardo alle opere parrocchiali. La nostra richiesta esige una risposta
perché noi siamo del Partito Comunista che rispettano i compagni socialisti ma non i loro alleati democristiani.
Anche i comunisti hanno validi architetti e geometri ma questi difendono gli interessi di tutti gli operai che
lavorano nelle imprese, danno lavoro a tutti coloro che senza noi comunisti che li difendono verrebbero lasciati a
casa o in cassa integrazione. Non si può mettere mano all’edilizia senza tener conto che noi vi controlliamo, per
impedire l’accesso alla classe operaia comunista.”
Balletta si fermò perché avrebbe dovuto dire che in giunta i comunisti avevano ottenuto che i progetti per certe
opere venissero fatti da un architetto comunista che godeva della fiducia del partito.
Cominciò a cercare un foglietto che gli era stato scritto dal responsabile degli enti locali per leggerlo in quella
riunione consigliare ma non riusciva a trovarlo. Sospettò glielo avesse sottratto Carinna in quella seduta di giunta
la sera prima, ma il sospetto gli sparì nel momento in cui si ricordò di averlo fatto leggere alla sorella anche lei
attivista comunista, dipendente della azienda autonoma del turismo del Comune e di esserselo fatto spiegare.
Balletta voleva dire ancora qualcosa ma le parole gli si impastarono in bocca, ed allora Cattario lo trasse
d’impaccio per impedirgli di declamare il fatidico: “Noi comunisti, partito dei lavoratori!”
Cattario si alzò dalla sua comoda poltrona e con quella voce appresa in parrocchia che sapeva tanto di omelia:
“Caro consigliere Balletta” esordì, “lei non può ricordarsi le macerie di Litosi dopo i bombardamenti. È troppo
giovane! Vi ricordate colleghi ed amici i nostri padri della grande guerra e com’era la città di Litosi dopo il 1945?
Io sono persuaso che dietro le licenze edilizie rilasciate dal sindaco Osmesi c’era la disoccupazione degli operai
comunisti. Come oggi invece grazie alla democrazia non vediamo più muratori comunisti disoccupati e vecchi
impotenti e bambini denutriti nelle braccia delle madri con il seno asciutto. La Democrazia Cristiana non si è
tirata indietro davanti alle richieste legittime dei lavoratori rappresentati dal Partito Comunista.”
Poteva continuare più a lungo citando il parere scritto di un onorevole della sua corrente ma fu preceduto da
Carinna che, alzatosi di scatto, con voce minacciosa come quando faceva il partigiano e facendo gesti plateali ad
imitazione di antichi dittatori: “A noi”, disse, “a noi non importa se dovremo difenderci da accuse giuridiche,
abbiamo fatto la resistenza e liberato l’Italia. Ma non possiamo tollerare le accuse morali ed io ci tengo a dire che,
nonostante le insinuazioni per quanto riguarda l’edilizia stiamo preparando un PRG (piano regolatore generale)
per impedire che vengano sollevate ingiuste accuse di irregolarità dovute a mancanza di strumenti urbanistici.
Bucalossi sta varando una legge apposita con l’approvazione del Partito Comunista. Noi facciamo le leggi giuste
Non dimentichiamo che voi comunisti avete amministrato questa città dopo la liberazione e che non si sono
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verificati mai casi di tangenti, dico mai da allora ad oggi. Chiunque vuole fare delle insinuazioni offende la
democrazia e non è un buon comunista e prima o poi il PCI lo capisce, caro Balletta.”
La foga oratoria di Carinna aveva travolto l’uditorio che cominciò ad applaudire mentre inneggiava: “Viva Litosi!
Viva i lavoratori!”
La seduta consiliare si sciolse e tutti finirono nel bar-dancing di proprietà del Comune, il cui gestore già faceva il
conto di quanto avrebbe incassato, tolta la percentuale spettante a chi di dovere.
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