Zeusi Anno 1 n. 2

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Zeusi Anno 1 n. 2
L I N G U A G G I
C O N T E M P O R A N E I
D I
S E M P R E
DELL’ ABITARE
L I N G U A G G I
C O N T E M P O R A N E I
D I
S E M P R E
DELL’ABITARE
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Anno I - N. 2
Proprietà letteraria riservata
Registrazione presso il Tribunale
di Napoli n° 32 del 9/7/2015
ISBN ----
L I N G U A G G I
C O N T E M P O R A N E I
D I
S E M P R E
Rivista semestrale
dell’Istituto di
Storia dell’Arte
Accademia di
Belle Arti di Napoli
Presidente
Paolo Ricci
Direttore
Giuseppe Gaeta
Direttore
Marco Di Capua
Vicedirettori
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Marco Rinaldi
Caporedattori
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Comitato di redazione
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Pier Luigi Ciapparelli
Giulia Cosmo
Gabriella Dalesio
Stefano de Stefano
Rosella Gallo
Viviana Gravano
Caludio Malice
Monica Torrusio
Andrea Zanella
I saggi pubblicati sono stati sottoposti
a valutazione di studiosi specialisti della
materia, scelti dalla redazione secondo
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Antonio Carnevale
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Andrea Viliani
Gli autori dei saggi pubblicati rimangono a
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delle immagini che non è stato possibile
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Art Director
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pp. 12-15 © Studio Azzurro
pp. 19, 21-23, 28 © Aniello Barone.
Autorizzazione per la riproduzione
delle immagini concessa
dall’Ufficio per i Beni Ecclesiastici
della Diocesi di Napoli
p. 31 tratta dal catalogo Gordon MattaClark, IVAM, Valencia, 1992-1993, Musée
Cantini, Marseille, 1993, Serpentine
Gallery London, 1993, p. 196
p. 33 © Grec - Christian Boltanski – 1972
pp. 52-53 © Ela Bialkowska
p. 56 © Libero De Cunzo
pp. 60-61 © Gianni Ghidini
pp. 79, 81, IV di copertina © Olivo Barbieri
p. 88 L’opera da tre soldi © Fabio Donato
p. 96 © Luigi Spina
pp. 98-99 © Photo Graphics Mexico
pp. 104-107 © Roberto Piloni
p. 117 © AFI/SR:(AFI: Archivio
Fondazione INDA)
pp. 121-123 © Stefano Cerio
p. 124 (ritratto Gea Casolaro) © Terasia
Panagrosso
p. 125 (ritratto Libero De Cunzo) ©
Mariasole De Cunzo
p. 126 (ritratto Francesco Jodice) © Sara
Gentile
p. 126 (ritratto Crhistian Leperino) ©
Maria Corbi
p. 127 (ritratto Renato Lori) © Gilda
Valenza
p. 127 (ritratto Giorgio Ortona) ©
Edoardo Loliva
p. 128 (ritratto Studio Azzurro) ©
Elisabetta Catalano
In IV di copertina:
Olivo Barbieri
Hong Kong, Cina, 1996
courtesy Yancey Richardson Gallery New York
Francesco Jodice, Dubai, 2009
68/ Guglielmo
Gigliotti
Cosmico Klein
74/ Marco
Di Capua
Tutte le palazzine
del mondo
Incontro con
Giorgio Ortona
78/ Lea Mattarella
Fotografare
l’altra metà
Incontro con Olivo
Barbieri
6/ Editoriale
17/ Claudio
Malice
Abitare il miracolo
Il Cardinale, il Santo
e l’Antico: spunti
per una (ri)lettura
del Succorpo di San
Gennaro
29/ Viviana
Gravano
Quartet. La casa
insicura dell'arte
42/ Diego
Del Pozzo
(Farsi) abitare tra
reale e virtuale al
tempo dei nuovi
media
54/ Fosco
Maraini
da Segreto Tibet,
1951
55/ Elio Pecora
Via dei Lucchesi 26
82/ Gea Casolaro
To feel at home
84/ Sabina
de Gregori
Titina Maselli
cittadina di se
stessa
57/ Maurizio
de Giovanni
La città da
lontano
87/ Renato Lori
Dentro lo spazio
scenico
62/ Angelo
Carotenuto
Un salone così
grande
92/ Andrea Zanella
In giro per bordelli,
tra arte, cinema,
letteratura
100/ Antonio
Carnevale
Il vero e il falso di
Vila-Matas
108/ Monica
Torrusio
Le parole e le
case
115/ Fina Serena
Barbagallo
Voci senza tempo
Il Teatro greco di
Siracusa
Fina Serena Barbagallo
Olivo Barbieri
Antonio Carnevale
Angelo Carotenuto
Gea Casolaro
Stefano Cerio
Enrica D’Aguanno
Libero De Cunzo
Maurizio de Giovanni
Sabina de Gregori
Diego Del Pozzo
Marco Di Capua
Carlos Garaicoa
Guglielmo Gigliotti
Viviana Gravano
Francesco Jodice
Christian Leperino
Renato Lori
Claudio Malice
Fosco Maraini
Lea Mattarella
Maziar Mokhtari
Giorgio Ortona
Elio Pecora
Pasquale Pennacchio
Roberto Piloni
Bernardo Siciliano
Studio Azzurro
Monica Torrusio
Andrea Zanella
16 51 67 97 124
STORIE
SCRITTURE
VISIONI
IDEE
AUTORI
E
ditoriale/
6/ 7
Eccoci allora, di nuovo imprudenti e generosi vista la grandiosità del tema – uno di
quelli che scegliamo perché risveglino più
linguaggi possibili – al primo di un doppio
numero di «Zeusi» dedicato all’Abitare.
Progettato per una rivista che in fondo,
deliberatamente, rappresenta il nostro
luogo, davvero il nostro abitare creativo e
intellettuale, quello sul quale fare atterrare
e ospitare la mente e dove, stando in equilibrio per quel che si può, poter poggiare i
piedi. Vuol dire – partiamo almeno da una
certezza – ritrovarsi su un frammento di
mondo elastico, sensibilissimo, benché di
poche decine di centimetri quadrati, che
simile a un’antenna parabolica intercetti
parecchi segnali, a varie altezze e su diverse onde di frequenza. Sulle pagine che
vi proponiamo scorrono brevi pensieri e
lunghe riflessioni, intuizioni, visioni, timori, soglie, scene e folti cortei di figure (che,
com’è nello stile di «Zeusi», appaiono liberi
da ogni commento, testi silenziosamente
autosufficienti). Tutto stabilisce, ogni volta, la nostra posizione attuale, il cerchietto
rosso: amico, lettore «tu sei qui». Indicando magari anche direzioni, qualche rotta,
una via d’uscita.
Com’era fin da subito nelle intenzioni, leggerete e vedrete svolgere il tema caleidoscopicamente, ascoltando molte voci,
meno, per ora, quella di uno specifico discorso architettonico. Ho detto per ora,
perché nel prossimo numero la nostra
sfera di interessi includerà con pertinenza
anche questo elemento, ma qui ci piaceva
sviluppare una narrazione plurale, profondamente estetica ed esistenziale, e non
prevedibilmente specialistica, sull’abitare.
Si direbbe che ci abbiamo girato intorno.
Così, «Zeusi», ben piazzato al centro di un
denso sistema di interferenze – e con lui
noi, migranti delle idee e delle immagini –
continua a fare il suo mestiere di esploratore, perlustrando gli spazi, le stanze e le
città che ci sono concessi, che dobbiamo
vivere, attraversare, ostile solo a quel disabitato che non equivale mai a un desiderio
di purezza ma altro non è se non il posto
insignificante dove la cultura, la cura, la conoscenza non possono entrare.
Cinema, teatro, saggistica, pittura, scultura, fotografia, letteratura generano flash,
tutto un fitto promemoria di pensieri e di
sguardi, trame retrospettive, scandagli introspettivi. La strada è segnata, conduce
fino a giugno, quando torneremo con la
seconda tappa di questa “pulsante” – è già
tantissimo che si riesca a far lampeggiare
qualche idea – ricognizione, ancora alla ricerca di quel «segno spirituale», ha detto
Orhan Pamuk, uno che se ne intende, «che
una città lascia dentro di noi».
MDC
Francesco Jodice, Osaka, 2008
Francesco Jodice, Hong Kong, 2012
Studio Azzurro, CAMPO CONTROCAMPO #03, 2015, dittico, (Italia, Pompei // Italia, Biella, Cittadellarte), Courtesy Galleria Paola Verrengia
Studio Azzurro, CAMPO CONTROCAMPO #20, 2015, dittico, (Italia, Mantova, Palazzo Te // Italia, Torino, Officine Grandi Riparazioni),
Courtesy Galleria Paola Verrengia
S
torie/
Claudio Malice Abitare il miracolo /
Viviana Gravano Quartet. La casa insicura
dell’arte / Diego Del Pozzo (Farsi) abitare tra
reale e virtuale al tempo dei nuovi media
Abitare il miracolo
Il Cardinale, il Santo e l’Antico: spunti per una (ri)lettura del Succorpo
di San Gennaro
Claudio Malice
«Quei segni di paganesimo misti a simboli
cristiani» (Gennaro Aspreno Galante, Guida
sacra della città di Napoli, 1872)
Creusa:
«Atena donò a costui, com’egli nacque, […]
due gocce del sangue di Medusa […] L’una
[dal potere] mortale, e l’altra salutifero»
(Euripide, Ione)
Non sappiamo se Aby Warburg – l’eccentrico padre spirituale della moderna
iconologia – durante il suo breve soggiorno napoletano del 1929 1 ebbe modo
di vedere il cosiddetto Succorpo 2 di San
1
Aby Warburg (1866-1929) – presente per l’ultima volta in Italia al termine della sua travagliata
parabola esistenziale tra novembre 1928 e giugno
1929 – soggiornò a Napoli nel maggio del 1929,
come attestano le lapidarie annotazioni di un suo
taccuino conservato al Warburg Institut Archive
di Londra [Inv. 121.1.1]. Il tagebuch contiene alcune illuminanti osservazioni dello studioso tedesco sulla decorazione marmorea della cappella di
Andrea Carafa, conte di Santa Severina, presso la
Basilica di San Domenico Maggiore (datata 1508),
che presenta significativi punti di contatto con
l’ipogeo ianuariano di cui tratteremo. Sul taccuino vedi: Aby Warburg, Giordano Bruno (edited by
Maurizio Ghelardi and Giovanna Targia), «Cassirer
Studies», I, 2008, pp. 15-58; Riccardo Naldi, Fabio
Speranza, Aby Warburg, Giordano Bruno and the
chapel of Andrea Carafa di Santa Severina in San
Domenico Maggiore, «Cassirer Studies», I, 2008,
pp. 173-185.
2
Il termine “succorpo” è utilizzato già all’inizio del ’500 da fra Bernardino Siculo (vedi nota
9) per indicare una struttura ipogea posta al di
Gennaro, ma è probabile che, se avesse
avuto il tempo di studiarlo, anche fugacemente, avrebbe colto vari spunti per una
lettura del complesso progetto iconologico che ci appare, ancora oggi per molti
versi, sfuggente. Infatti, sebbene sull’argomento esista una copiosa bibliografia 3,
va rilevato che gli studi moderni si sono
occupati per molto tempo più dell’aspetto
attribuzionistico e filologico della confessio ianuariana (interrogandosi sulla reale
identità dell’autore del progetto architettonico 4, sulla definizione e distinzione desotto dell’altare maggiore per ospitare le reliquie
del santo patrono di Napoli. Nell’architettura paleocristiana una cripta con tali caratteristiche
veniva chiamata “confessio”. L’etimologia del
termine non è del tutto chiara, ma sembra che
sia da mettere in relazione con il fatto che fosse
una struttura posta al di sotto del “corpus ecclesiae” (cfr. Franco Strazzullo, Quinto centenario
della traslazione delle ossa di San Gennaro da
Montevergine a Napoli.1497-1997, ESI, Napoli
1996, p. 78).
3
Per un approndimento bibliografico relativo al
Succorpo di San Gennaro (fino al 2007) si rinvia al
saggio: Claudio Malice, Il cardinale Oliviero Carafa
e il ‘Tractato’ di fra Bernardino Siculo, Imago Artis,
Napoli 2007.
4
La tradizionale indicazione del nome di Tommaso
Malvito da Como (che appare già nelle fonti del XVI
secolo, a partire da fra Bernardino [1503-05]) è
stata messa in dubbio da molti studiosi nel ’900 in
favore di una personalità di primo livello estranea
all’ambiente partenopeo come Donato Bramante
(vedi Arnaldo Bruschi, Bramante architetto,
Laterza, Roma-Bari 1969, pp. 826-827, nota 10;
Roberto Pane, Architettura e Urbanistica a Napoli,
«Storia di Napoli», ESI, Napoli 1974, vol. IV, pp. 401-
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S T O R I E
gli scultori intervenuti nella realizzazione
della decorazione marmorea 5 e, infine, sul
controverso nome dell’artefice della sta408; Id., Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Ed.
Comunità, Milano 1975-77, vol. 2, pp.103-116;
Id, Bramante e il succorpo del duomo di Napoli,
«Napoli Nobilissima», IIIa serie, n. 23, 1984, p. 221;
Roberto Di Stefano, Tommaso Malvito: struttura e
forma nel Succorpo del Duomo di Napoli, in Scritti in
onore di Roberto Pane, Istituto di Storia dell’Architettura dell’Università, Napoli 1972, pp. 275-288;
Ferdinando Bologna, Napoli e le rotte mediterranee
della pittura, Società Napoletana di Storia Patria,
Napoli 1977, p. 234) – che fu chiamato a Roma
proprio dal cardinale Oliviero Carafa – o Giuliano da
Sangallo (vedi Daniela Del Pesco, Oliviero Carafa e
il Succorpo di San Gennaro nel Duomo di Napoli,
in Francesco Paolo Di Teodoro (a cura di), Donato
Bramante, ricerche, proposte, riletture, Accademia
Raffaello, Urbino 2001, pp. 143-205; Ead., Oliviero
Carafa ed il programma iconografico del Succorpo
di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in F. Abbate
(a cura di), Ottant’anni di un Maestro: omaggio
a Ferdinando Bologna, Paparo, Napoli 2006, pp.
203-222).
5
Vedi Riccardo Carafa, Il Succorpo di San
Gennaro, «Napoli Nobilissima», vol. I, fasc. I, 1892,
pp. 11-14; Alfonso Miola, Il Succorpo di S.Gennaro
descritto da un frate del Quattrocento, «Napoli
Nobilissima», vol. VI, fasc. XI, 1897, pp. 161-166 e
fasc. XII pp. 180-188; Antonio Muñoz, Studi sulla
scultura napoletana del Rinascimento, «Bollettino
d’Arte», anno III, fasc.1/2 e 3 (gen./feb. e marzo
1909), pp. 55-73 e pp. 87-10; Ottavio Morisani,
Saggi sulla scultura napoletana del Cinquecento,
R. Deputazione Napoletana di Storia Patria,
Napoli 1941; Gennaro Borrelli, Un gruppo di maestri scultori nella Cappella del Succorpo di San
Gennaro nel Duomo, «Asprenas», anno XI (1964),
n. 2-3, pp. 182-192; Franco Strazzullo, Il Cardinale
Oliviero Carafa mecenate del Rinascimento, «Atti
dell’Accademia Pontaniana», XIV, 1965, pp. 139160; Id., La cappella Carafa del Duomo di Napoli
in un poemetto del primo cinquecento, «Napoli
Nobilissima», vol. V, fasc. II, marzo-apr. 1966, pp.
59-71; Id., Quinto centenario cit., 1997; Francesco
Abbate, Le sculture del ‘Succorpo’ di San Gennaro e
i rapporti Napoli-Roma tra Quattro e Cinquecento,
«Bollettino d’Arte», VIa serie, 11, luglio-sett.
1981, pp. 89-108; Id., La scultura napoletana del
Cinquecento, Donzelli ed., Roma 1992, pp. 49-66;
Riccardo Naldi, Andrea Ferrucci. Marmi gentili tra
la Toscana e Napoli, Electa, Napoli 2002, pp. 62,
170, 180-181; Pierluigi Leone de Castris, Studi su
Gian Cristoforo Romano, Paparo, Napoli 2010, pp.
111-140.
18 / 19
tua che ritrae il munifico committente 6)
che del significato iconologico complessivo del progetto, affrontato solo in tempi
relativamente recenti, a partire dall’ancor
oggi fondamentale saggio di Diana Norman del 1986 7.
Centrale eppure nascosto, l’ipogeo ianuariano posto al di sotto dell’altare maggiore
della Cattedrale di Napoli, sin dal tempo
della sua complessa realizzazione (durata
circa un decennio, dal 1497 al 1506-8) 8 ha
Gustavo Frizzoni (Arte italiana del Rinascimento.
Saggi critici, Fratelli Dumolard ed., Milano 1891, p.
57) e Antonio Muñoz (Studi sulla scultura cit., 1909)
riferivano la statua di Oliviero a Tommaso Malvito;
Francesco Abbate (Le sculture del ‘Succorpo’ cit.,
1981; Id., La scultura napoletana cit., 1992) a
“Scultore romano (?)”; Daniela Del Pesco (Oliviero
Carafa e il Succorpo cit., 2001) a Guido Mazzoni;
Riccardo Naldi (Andrea Ferrucci cit., 2002, nota 39
p. 62), dubitativamente, a Gian Cristoforo Romano;
Francesco Caglioti (La scultura del ’400 e dei primi
due decenni del ’500 in Calabria, in S. Valtieri (a cura
di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, Gangemi, Roma 2002, pp. 1019-1020; Id.,
Due Virtù marmoree del primo ’500 napoletane emigrate a Lawrence, Kansas: i Carafa di Santa Severina
e lo scultore Cesare Quaranta per S. Domenico
Maggiore, «Mitteilungen des Kunsthistorischen
Institutes in Florenz», XLVIII, 2004, pp. 333-358) a
Cesare Quaranta, attribuzione condivisa di recente
anche da Pierluigi Leone de Castris (Studi su Gian
Cristoforo Romano cit., p. 116).
7
Oltre allo studio di Diana Norman (The Succorpo
in the cathedral of Naples: ‘empress of all chapels’,
«Zeitschrift für Kunstgeschichte», 49, 1986, pp.
323-355) vanno ricordati i contributi più recenti
di Daniela Del Pesco (Oliviero Carafa e il Succorpo
di San Gennaro cit. 2001; Ead., Oliviero Carafa ed
il programma iconografico cit., 2006), di Anghela
Dreszen (Oliviero Carafa committente ‘all’antica’
nel Succorpo del Duomo di Napoli, «Römische
Historische Mitteilungen», 46, band, 2004, pp.
165-200) e di Bianca De Divitiis (Architettura
e committenza nella Napoli del Quattrocento,
Marsilio, Venezia 2007). Rinvio, infine, al mio studio
(dalle cui premesse parte il presente contributo), Il
cardinale Oliviero Carafa cit.
8
La data d’inizio dei lavori risale all’ottobre 1497
e la loro conclusione al 1508, come riporta una
fonte attendibile: Giuliano Passero, Giornali (a cura
di V. M. Altobelli), Napoli, 1785, pp. 117-118: «Allo
I° di ottubro 1497 che fo martedì se incomenzai
a fabbricare lo soccorpo dell’Archiepscopato de
Napoli quale è stato a complire per fino all’anno
6
Tommaso Malvito
e bottega
Interno del Succorpo
di S. Gennaro con
la statua-ritratto di
Oliviero Carafa
(attribuita a Cesare
Quaranta),
NAPOLI, Cattedrale
attirato l’attenzione dei contemporanei
che non mancarono di metterne in evidenza la magnificenza («imperatrice de
tucte le cappelle» la definì il frate francescano Bernardino Siculo 9 in un poemetto in ottave dei primi anni del ’500 in cui
viene offerta la prima accurata descrizione dell’opera non ancora conclusa),
ma al tempo stesso la presenza di numerosi riferimenti iconografici astrologici e classici in odore di paganesimo che
la rendevano eccezionale nel panorama
contemporaneo (tanto che ancora nel XIX
secolo Gennaro Aspreno Galante ne stigmatizzava i «segni di paganesimo misti a
simboli cristiani») 10. Molti di questi ele1508 che sono undici anni». Tuttavia nel 1506 era
già avvenuta la consacrazione con la collocazione
in situ delle reliquie del santo, come attestano le
fonti (Camillo Tutini, Memorie della Vita Miracoli,
e Culto di San Gianuario Martire…, Napoli 1633,
p. 87) e l’iscrizione (MDVI) riportata sull’architrave del Sacrarium. In realtà si continuò a lavorare
anche dopo il 1508, come dimostra il sarcofago
bronzeo realizzato per ospitare le ossa del santo
che reca la data 1511 («DIVO IANUARIO SACRUM
MDXI»), che è anche l’anno di morte del cardinale
Oliviero Carafa. Alcuni studiosi (Francesco Caglioti,
La scultura del ’400 cit. 2002, p. 1020; Id., Due
Virtù cit., p. 353; Leone de Castris, Studi su Gian
Cristoforo Romano cit., nota 21 p. 136) non escludono, poi, che la stessa statua del committente
possa essere stata realizzata anche dopo la morte
di Oliviero.
9
Fra Bernardino Siculo alias frate Bernardino
Renda da Patti – come ha dimostrato di recente Nadia Ciampaglia (La Vita di S. Gennaro di fra
Bernardino Siculo alias Bernardino de Renda de
Pactis siciliano (parte I), «Contributi di Filologia
dell’Italia Mediana», XXII (2008), pp. 77-158; Ead.,
La Vita di S. Gennaro… Glossario, «Contributi
di Filologia dell’Italia Mediana», XXV (2011), pp.
5-111) – è l’autore del poemetto encomiastico
anepigrafo in ottave scritto ai primi del ’500 (tra
il 1503 e il 1505 e, comunque, sicuramente prima
del 1508, anno di completamento del Succorpo)
e dedicato a Oliviero Carafa, pervenutoci in un’unica copia manoscritta conservata alla Biblioteca
Nazionale di Napoli (ms. V.A. 12 Branc.) che contiene alle cc. 40r-51r (Hic loquitur de lo Succorpo) una
delle prime descrizioni dell’ipogeo ianuariano.
10
Cfr. Gennaro Aspreno Galante, Guida Sacra della città di Napoli, Napoli 1872, pp. 18-19.
menti – come i quattro carri trionfali con
il Sole, la Luna, Mercurio e Giove descritti
dalle fonti cinque e seicentesche (vedi fra
Bernardino, De Lellis e Celano) 11 – non
sono più visibili in quanto furono rimossi alla metà del XVIII secolo in seguito
al “restauro” iconoclasta dell’architetto
Paolo Posi, commissionato dal cardinale
Spinelli, che trasformò e stravolse irriVedi: fra Bernardino Siculo (ms. V.A. 12 Branc., f.
42 r): «Li quattro carri triumphali / ce stanno ancor
scolpiti et ben ornati / del Sol et Luna multo magistrali, / Mercurio con Jovis attillati»; Carlo De Lellis,
Aggiunta alla Napoli Sacra del D’Engenio (a cura di
F. Aceto), Fiorentino, Napoli, 1977, tomo I, pp. 4849 (f. 17 v del ms.): «Ne’ lati delle gradi per le quali
si discende in esso sono i quattro carri trionfali del
Sole, della Luna, di Mercurio e di Giove»; Carlo Celano,
Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di
Napoli, Napoli 1692, p. 198: «finissimi intagli d’arabeschi, e di figure picciole ne’ lati, e in quello da parte
dell’Evangelo, vi si vede il carro del Sole con diversi
segni del Zodiaco, e fra questi il segno dei Gemini, che
sono due giovani abbracciati insieme».
11
S T O R I E
/
Z
mediabilmente la zona presbiteriale del
duomo partenopeo 12.
Nel 1480, durante i lavori di ristrutturazione del santuario di Montevergine, promossi
dal cardinale Giovanni d’Aragona, furono
casualmente ritrovate, al di sotto dell’altare maggiore della chiesa, le reliquie di San
Gennaro 13. E dieci anni dopo, il 27 gennaio
del 1490, il sovrano aragonese Ferdinando I
inviava una missiva al cardinale Oliviero Carafa nella quale lo invitava, essendo stato
«retrovato lo corpo de quello qua [S. Gennaro] in la montagna di Monte Vergine», a
intercedere presso il pontefice per «farlo
venire et unirlo con la dicta sua testa [et
il sangue del Glorioso Santo Ianuario]» che
«è in questa Città» [id est: Napoli], rammentandogli «quanto lo nome de quello
sia venerato da questo populo» 14. Da quel
momento Oliviero darà inizio a una lunga e
complessa azione di mediazione per ottenere la traslazione delle ritrovate spoglie
del santo da Montevergine a Napoli 15 il cui
esito positivo diventerà uno straordinario strumento di autocelebrazione presso
la claudicante corte aragonese e di affermazione sociale del proprio clan familiare,
i Carafa della Stadera, nei confronti della
nobiltà di seggio partenopea e di tutta l’aristocrazia del Regno 16. Questa «sorta di
12
Cfr. Franco Strazzullo, Le vicende dell’abside
del Duomo di Napoli, in Studi in onore di Domenico
Mallardo, Fiorentino, Napoli 1957, pp. 147-182.
13
Le aveva portate qui nel XII secolo il sovrano
normanno Guglielmo I dopo averle sottratte alla
cattedrale di Benevento (la cosiddetta terza traslazione). Nascoste in un luogo sicuro del santuario avellinese per preservarle da eventuali scorrerie, col passare del tempo, paradossalmente, se ne
perse la memoria.
14
Cfr. Strazzullo, Quinto centenario cit., nota 2,
p. 23.
15
Questa complessa “operazione diplomatica”
giungerà a buon fine solo nel gennaio 1497, con
l’autorizzazione ottenuta da papa Alessandro
VI, e culminerà, appunto, nella edificazione del
Succorpo (i cui lavori inizieranno già nell’ottobre
dello stesso anno).
16
Sui rapporti tra il mecenatismo della nobiltà di
seggio napoletana e il culto di S. Gennaro (in par-
20 / 21
privatizzazione del culto dell’immagine di
grande devozione cittadina, posta così sotto il controllo della loro famiglia» – come
ha ben evidenziato Bianca De Divitiis 17 –
era stata inaugurata quasi tre decenni prima, intorno al 1470, da Diomede Carafa (zio
di Oliviero) in occasione della costruzione
del proprio monumento funebre (a cui seguirà l’edificazione intorno al 1490 dell’avello gemello destinato al fratello maggiore
di Diomede, Francesco, voluto e finanziato
dal figlio di quest’ultimo, Oliviero) all’interno del cosiddetto Cappellone del Crocifisso
nella basilica di San Domenico Maggiore, ai
lati del famoso crocifisso miracoloso, il dipinto su tavola del XIII sec. che – secondo la
tradizione – avrebbe parlato a S. Tommaso
d’Aquino 18 (dal quale il cardinale si vantava
di discendere).
Quasi un “affare di famiglia” fu il recupero e il trasporto delle reliquie del Santo
(la cosiddetta quarta traslazione) che,
nelle descrizioni coeve, assume in alcuni
momenti tratti tragicomici (per non dire
grotteschi) per le legittime resistenze dei
monaci del santuario avellinese: la delegazione incaricata dell’operazione era infatti capitanata dall’arcivescovo di Napoli
Alessandro Carafa 19 (secondo Aldimari
gemello del cardinale) e da Ettore 20 Conte
di Ruvo (fratello minore di Oliviero). Rifletticolare in relazione al Succorpo e, soprattutto,
alla Cappella del Tesoro) si veda il recente contributo: Helen Hills, The Neapolitan Seggi as Patrons
of Religious Architecture: Urban Holiness and the
Treasury Chapel of San Gennaro, in G. Heidemann
e T. Michalsky (hrsg.), Ordnungen des sozialen
Raumes. Die Quartieri, Sestieri und Seggi in den
frühneuzeitlichen Städten Italiens, Reimer, Berlin,
2012, pp. 159-187.
17
Cfr. De Divitiis, Architettura e committenza cit.,
p. 159.
18
Ivi, pp. 142 e ss.
19
Su Alessandro Carafa vedi Biagio Aldimari,
Historia genealogica della famiglia Carafa, Napoli
1691, vol. III, pp. 28-33; nonché il profilo biografico
di Francesco Petrucci (cfr. ad vocem, «Dizionario
Biografico degli Italiani», vol. XIX [1976]).
20
Su Ettore Carafa vedi Aldimari, Historia genealogica cit., vol. III, pp. 43-47.
Gian Cristoforo
Romano (?)
Tondo-ritratto di
sinistra della scarsella,
raffigurante un
membro della famiglia
Carafa (Ettore?)
NAPOLI, Cattedrale,
Succorpo di San
Gennaro
tendo sul ruolo svolto a vario titolo dai tre
fratelli nella quarta traslazione e sul fatto
che il Succorpo è, tra le tante cose, anche l’epilogo di un’operazione “politica” di
autocelebrazione (personale e del proprio
casato) 21, mi sembra molto probabile che
i due tondi-ritratto che si fronteggiano
specularmente sulle lunette laterali della
scarsella (spesso totalmente ignorati dagli studiosi, anche perché non facilmente
visibili) 22 raffigurino proprio i due fratelli
del cardinale napoletano: nel tondo di sinistra (per chi guarda l’altare), sembrerebbe rappresentato Ettore 23, in quello
Oltre a Bianca De Divitiis (Architettura e committenza cit., pp. 169-181) vedi anche: Norman,
The Succorpo cit.; Dreszen, Oliviero Carafa committente cit.; Del Pesco, Oliviero Carafa ed il programma iconografico cit., 2006.
22
Tra i rari studiosi che ne fanno menzione vanno ricordati: 1) Roberto Pane (Architettura e urbanistica a Napoli del Rinascimento, «Storia di
Napoli», vol. IV, [1974], p. 397), che ne proponeva
l’identificazione con stretti congiunti di Oliviero
che gli erano premorti, ovvero il fratello Alessandro
[+1503] (identificato nel tondo di sinistra) e il nipote [Giovan] Bernardino [+1505] (identificato in
quello di destra); 2) Strazzullo (Quinto centenario
cit., p. 90), che parlava genericamente di «due
personaggi sepolti o da seppellire nella cappella»; 3); Leone de Castris (Studi su Gian Cristoforo
Romano cit., pp. 111-140 [vedi in particolare p.
124]), infine, che parlava di «due inediti [SIC!] ritratti di profilo nei lunettoni, verosimilmente […] di
due esponenti di casa Carafa», riconducendone il
disegno a Gian Cristoforo Romano e la realizzazione alla bottega dei Malvito (nel saggio è presente
la riproduzione del tondo-ritratto di destra [fig.
113 a p. 123]).
23
Tuttavia Ettore, nel 1511, sei anni prima di
morire, commissionò un monumento funebre nel
Cappellone del Crocifisso in S. Domenico Maggiore,
dove fu effettivamente sepolto nel 1517. La lastra
tombale presente nel Succorpo è relativa, invece,
ad un suo omonimo discendente, Ettore Carafa
Duca d’Andria, vissuto nel XVIII sec. e morto nel
1764. È questa, infatti, la corretta lettura della
data riportata sulla suddetta lastra, interpretata
in modo errato sia da Franco Strazzullo, Quinto
centenario cit., p. 91 (che la leggeva 1864) che
dalla Anghela Dreszen Oliviero Carafa committente cit., p. 200 nota 67 (che la leggeva 1464);
lo conferma un manoscritto conservato pres21
di destra, Alessandro. Se, come in molti
oggi pensano (Norman, Del Pesco, De Divitiis ecc.), la collocazione originaria della
statua raffigurante il cardinale Oliviero 24
era realmente a ridosso della cattedra
vescovile marmorea, rivolta verso l’altare-reliquario 25 (sul lato opposto, cioè, rispetto alla posizione attuale, modificata
in seguito al restauro del 1964) – quindi
in corrispondenza dei due tondi-ritratto
della scarsella –, in origine il messaggio
celebrativo dei tre fratelli (Oliviero, Alessandro ed Ettore) e del clan familiare che
aveva concretamente riportato a Napoli le
reliquie del santo patrono doveva essere
so la Biblioteca Comunale di Andria (cfr. Giovanni
Pastore, Memoria dall’origine, erezione, e stato
della colleggiata [sic] parrocchiale chiesa di S.
Nicola della città di Andria, s.d. [ma post 1787]):
«In questi mesi appunto, e propriamente nel dì 14
maggio 1764 mancò di vita il Sig.r Duca d’Andria D.
Ettore Carafa, che seppellito fu nella tomba gentilizia, eretta nel Soccorpo di S. Gennaro dentro l’Arcivescovil Chiesa […]» (f. 64 v).
24
Riferita tradizionalmente dalle fonti inizialmente a Tommaso Malvito e, successivamente addirittura a Michelangelo Buonarroti, è stata attribuita
di recente da Francesco Caglioti, in modo convincente, allo scultore napoletano Cesare Quaranta,
con una datazione presunta tra il 1509 e il 1513
(La scultura del ’400 cit., 2002, pp. 1019-1020; Id.,
Due Virtù cit., 2004, pp. 333-358).
25
In questa posizione veniva descritta da
D’Engenio Caracciolo nel XVII secolo: «Nel maggior
Altar di questa Chiesa [id est: nel Succorpo] riposa
il corpo del santissimo Gianuario con grandissima
venerazione, dietro del quale è collocata la statua
del dett’Oliviero tant’al naturale, che par che spiri» (cfr. Cesare D’Engenio Caracciolo, Napoli Sacra,
Napoli, 1623, pp. 5-8).
Z
/
S T O R I E
Tommaso Malvito
e bottega
Rilievo dell'architrave
del secondo altare di
sinistra raffigurante un
thiasos
marino (Nettuno,
Anfitrite e un amorino)
NAPOLI, Cattedrale,
Succorpo di San
Gennaro
ancora più esplicito di quanto non lo sia
oggi 26.
Il Succorpo, quindi, può essere considerato «l’epilogo della lunga strategia messa in
atto dai Carafa per dare corpo alla pubblica
magnificenza, sia edificando magnificamente, che assumendo il controllo di culti
cittadini» 27.
Al tempo stesso cappella gentilizia della famiglia Carafa della Stadera 28 e reliquiario
26
Una conferma indiretta a questa ipotesi
proviene da una preziosa informazione fornita dall’Aldimari: il 17 giugno 1516 il Marchese di
Montesarchio Giovan Vincenzo Carafa – erede di
Ettore – sottoscrisse un atto notarile in cui s’impegnava a sostenere economicamente i costi per
la celebrazione annuale all’interno del Succorpo
di tre messe in suffragio dell’anima di Oliviero (il
20 gennaio), di Alessandro (il 31 luglio) e di Ettore
(che nel 1516, in realtà, era ancora in vita), secondo quanto stabilito nel legato testamentario di
quest’ultimo. Vedi Aldimari, Historia genealogica
cit., vol. III, p. 33.
27
Cfr. De Divitiis, Architettura e committenza cit.,
p. 171.
28
I discendenti del cardinale Oliviero Carafa ne
conservavano almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso lo iuspatronato (cfr. Strazzullo, Quinto
centenario cit., nota 10, p. 39). Diana Norman
(The Succorpo cit.) – poi seguita da altri (Dreszen,
Oliviero Carafa committente cit.; Del Pesco,
Oliviero Carafa ed il programma iconografico cit.;
De Divitiis, Architettura e committenza cit.) – è
stata la prima studiosa che ha sottolineato l’importanza di questa duplice natura (privata e pubblica) del Succorpo.
22 / 23
destinato ad accogliere le ritrovate spoglie
del patrono della città e di altri sei “padri”
della Chiesa napoletana 29, il suo progetto
è strettamente legato alla complessa figura del munifico committente (che investì
una cifra esorbitante per il tempo, che le
fonti coeve indicano tra i 10.000 e i 15.000
ducati), il cardinale Oliviero Carafa (14301511) 30, la cui effigie marmorea – realizzata
secondo Caglioti da Cesare Quaranta probabilmente tra il 1509 e il 1513 31 – ancora
oggi domina gli algidi interni del Succorpo.
Personaggio ricco potente e colto, raffinato
mecenate (Filippino Lippi, Bramante, Peru29
Ad Agrippino, Attanasio, Aspreno, Severo,
Eufebio e Agnello – secondo le fonti coeve – dovevano essere dedicati i piccoli altari laterali del
Succorpo.
30
Sul personaggio c’è una copiosa bibliografia.
Oltre alle importanti pagine dedicategli dall’Aldimari (Historia genealogica cit., vol. III, pp. 8-27),
si vedano in particolare il sintetico ma puntuale
profilo tracciato da Franca Petrucci (cfr. ad vocem, «DBI», vol. XIX [1976], pp. 588-596), ma
anche Strazzullo, Il Cardinale Oliviero Carafa
mecenate cit., pp. 139-160; Romeo De Maio,
Savonarola e la Curia Romana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1969; Diana Norman,
Cardinal of Naples and Cardinal in Rome: The
Patronage of Oliviero Carafa, in M. Hollingsworth
e C. M. Richardson (eds.), The Possessions of a
Cardinal: Politics, Piety, and Art, 1450-1700,
Pennsylvania State Univ. Press, University Park,
Pa., 2009, pp. 77-91.
31
Vedi nota 24.
Tommaso Malvito
e bottega
Rilievi dei pennacchi
con la raffigurazione di
personaggi mitologici:
Nettuno,
Diana, Marte (o Perseo)
e Persefone
NAPOLI, Cattedrale,
Succorpo di San
Gennaro
gino, Raffaello sono alcuni dei nomi degli
artisti con cui entrò in contatto) e amico di
Lorenzo il Magnifico, “il Cardinale di Napoli” (come è spesso chiamato nelle fonti del
tempo) solo alcuni anni prima della realizzazione del Succorpo (i cui lavori iniziarono
nell’ottobre del 1497), nel 1488 aveva commissionato a Filippino Lippi gli affreschi della propria cappella nella chiesa romana di S.
Maria sopra Minerva, che furono completati
intorno al 1493 32. Come hanno dimostrato
già dagli anni ’60 del secolo scorso gli studi
di Carlo Bertelli 33 e, più di recente, quelli di
Gail Geiger 34, di Anne Reynolds 35 e di Enrico
Parlato 36, fu molto importante il contributo
32
Vedi le note seguenti.
Carlo Bertelli, Filippino Lippi riscoperto, «Il
Veltro», anno VII (1963), 1, pp. 55-65; Id., Appunti
sugli affreschi nella Cappella Carafa alla Minerva,
«Archivum Fratrum Praedicatorum», vol. XXXV,
1965, pp. 115-130.
34
Gail L. Geiger, Filippino Lippi’s Carafa ‘Annunciation’:
Theology, Artistic Convention, and Patronage, «The Art
Bulletin», vol. 63, n. 1 (1981), pp. 62-75.
35
Anne Reynolds, The private and public emblems
of Cardinal Oliviero Carafa, «Bibliothèque d’humanisme et renaissance», 45, 1983, pp. 273-284.
36
Enrico Parlato, La decorazione della cappella
Carafa: allegoria ed emblematica negli affreschi di
Filippino Lippi alla Minerva, in S. Danesi Squarzina (a
33
dato da Oliviero nell’elaborazione del complesso messaggio iconografico, in cui risulta
evidente la volontà del committente 37 – che
si fece raffigurare in ginocchio da Filippino Lippi nell’affresco centrale, accanto alla
Vergine e a S. Tommaso d’Aquino, ovvero
nella stessa posa (definita di “adorazione
perpetua”), in cui sarà immortalato alcuni anni dopo nell’ipogeo napoletano 38 – di
cura di), Roma, centro ideale della cultura dell’Antico
nei secoli XV e XVI, Electa, Milano 1989, pp. 169-184.
37
Id., Cultura antiquaria e committenza di Oliviero
Carafa. Un documento e un’ipotesi sulla Villa del
Quirinale, «Studi romani», anno XXXVIII, nn. 3-4,
luglio-dic. 1990, pp. 269-280.
38
Il modello della statua del cardinale napoletano è
stato spesso ricercato in un prototipo scultoreo. A mio
parere, invece, esso va quasi certamente individuato
in un precedente pittorico che doveva essere molto
familiare a Oliviero, ovvero il ritratto di Sisto IV della
Rovere del non più esistente affresco dell’Assunzione
della Vergine, realizzato dal Perugino intorno al 1480
sulla parete di fondo della Cappella Sistina, oggi documentato dal disegno di derivazione, attribuito alla
bottega del Perugino o del Pintoricchio, conservato
presso l’Albertina di Vienna [inv. 4861] (vedi anche Del
Pesco, Oliviero Carafa cit., 2006, p. 211 e fig. 12 a p.
222). Anche il Pintoricchio si rifarà al medesimo precedente iconografico, intorno al 1492-94, per rappresentare Alessandro VI nell’affresco della Resurrezione
di Cristo negli appartamenti Borgia in Vaticano.
S T O R I E
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Z
creare una sorta di rebus iconografico in
cui sono frequenti rinvii eruditi alla cultura
classica ma anche alla cultura criptica che
è alla base del Polifilo e in cui compaiono
anche alcuni “geroglifici” umanistici (come
li definì Carlo Bertelli), simili a quelli suggeriti alcuni anni dopo da Annio da Viterbo per
la decorazione degli appartamenti di papa
Alessandro VI Borgia 39. Anne Reynolds nel
1985 40 – seguita qualche anno dopo da Enrico Parlato 41 – ha evidenziato che la cultura
“antiquaria” di Oliviero si palesò non solo nel
mero collezionismo ma anche nella protezione dei principali umanisti del tempo (tra
cui Pomponio Leto) e nella promozione di
eventi come quello che si svolgeva durante
la festa in onore di San Marco, il 25 aprile,
che avrebbe dato inizio, poi, alle cosiddette
“Pasquinate” 42. Si trattava, in origine, di una
sorta di certamen poetico a tema – prevalentemente in latino – in cui dominava una
contrastante commistione tra sacro e profano, tra antichità classica (tra i temi noti
scelti annualmente dal cardinale: Saturno, Giove, Minerva, Apollo, Marte, Mercurio,
Bacco o Nettuno [dal 1501 al 1507]; Arpocrate [1508]; Giano [1509], Ercole e l’idra
[1510]) 43 e religione cristiana (a partire dalla
stessa data scelta per il certamen, che coincideva con la festa di San Marco). Le poesie
venivano appese alla scultura ellenistica (al
tempo ritenuta una raffigurazione mutila di
Ercole, ma identificata quasi unanimemente
negli studi moderni con il soggetto classico di Menelao e Patroclo) 44 – rinvenuta nel
1501 45 nei pressi dell’attuale Palazzo Braschi (dove, al tempo, sorgeva la dimora del
cardinale Carafa) – che veniva “vestita” di
volta in volta in base al tema scelto da Oli-
39
Di “geroglifici” umanistici parlavano, ad esempio, Carlo Bertelli (Filippino Lippi cit., 1963, pp. 6263; Id., Appunti sugli affreschi cit., 1965, p. 121 e
note 24-25) e Maurizio Calvesi (Fonti dei geroglifici
del Polifilo. Un confronto con la Cappella Carafa, in
S. Colonna (a cura di), Roma nella svolta tra ’400 e
’500. Atti del Convegno Internazionale di Studi, De
Luca, Roma 2004, pp. 481-498). Sull’argomento
si veda anche lo studio pionieristico: Karl Giehlow,
Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento (a cura di
M. Ghelardi e S. Müller), Aragno Ed., Torino 2004
[ed. orig.in tedesco, Vienna-Lipsia, 1915].
40
Cfr. Anne Reynolds, Cardinal Oliviero Carafa
and the early Cinquecento tradition of the feast of
Pasquino, «Humanistica Lovaniensia (Journal of
neo-latin studies)», vol. XXXIV, 1985, pp. 178-208.
La studiosa è tornata successivamente sull’argomento in più occasioni; vedi in particolare Ead., Il
cardinale Oliviero Carafa e l’umanesimo a Roma, in
F.C. Ricci (a cura di), Il Cristianesimo fonte perenne
di ispirazione per le arti, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2004, pp. 309-327.
41
Cfr. Parlato, Cultura antiquaria cit., 1990, pp.
269-280.
42
Sull’originario significato di Pasquino e delle
“Pasquinate” nei primi decenni del ’500, oltre alle
importanti annotazioni di Anne Reynolds (Cardinal
Oliviero Carafa and cit., 1985; Ead., Il cardinale
Oliviero Carafa e l’umanesimo cit., 2004) e ai cenni
di Enrico Parlato (Cultura antiquaria cit., 1990), si
veda l’ancor oggi fondamentale saggio: Domenico
Gnoli, Storia di Pasquino, «Nuova antologia di
scienze lettere ed arti», IIIa serie, vol. XXV, 1890, pp.
24 / 25
51-57 e 275-296. Gnoli fu il primo studioso a ricostruire storicamente la vera natura del fenomeno
che – a partire dalla sua creazione, ad opera del
cardinale Oliviero Carafa, almeno fino alla metà del
XVI secolo – fu essenzialmente umanistico-letteraria e per nulla popolare. Egli dimostrò, inoltre, che in origine l’elemento satirico delle poesie
affisse alla statua, pur presente, era abbastanza
marginale, mentre era prevalente quello encomiastico e celebrativo della Curia romana (in particolare nei confronti di cardinali e pontefici). Il celebre
carattere d’invettiva popolare e anticlericale della
“statua parlante”, comunemente attribuito alle
“Pasquinate” – tanto celebrato nell’800 dal Belli
e plasticamente rievocato nella produzione cinematografica di Luigi Magni –, andò gradualmente
affermandosi solo in seguito, fino a diventare l’elemento essenziale del fenomeno.
43
Cfr. Gnoli, Storia cit., 1890, pp. 51-57 e 275296 (in particolare pp. 275-276).
44
Cfr. Giuseppe Lugli, Osservazioni sul gruppo di Menelao e Patroclo volgarmente detto il
Pasquino, «Bollettino d’Arte», anno IX serie I, num.
V (nov. 1929), pp. 207-225; si veda anche la voce
Pasquino di Paolo Moreno, «Enciclopedia dell’Arte
Antica», 1996, vol. V, p. 985.
45
Sulla statua rinvenuta nei pressi del suo palazzo romano vicino a Piazza Navona e divenuta poi
nota come Pasquillo (o Pasquino), Oliviero fece
incidere la seguente iscrizione (ricordata anche
dall’Aldimari, Historia genealogica cit., vol. III, p.
19): «OLIVERII CARAFAE BENEFICIUM HIC SUM /
ANNO SALUTIS MDI».
viero Carafa e, dopo il 1511, dai cardinali che
gli subentrarono come protettori-mecenati
di Pasquino; una di queste effimere metamorfosi è documentata da una xilografia del
1511 che raffigura Pasquino “vestito” a lutto
per la morte del cardinale Carafa 46. Una selezione di questi versi venne pubblicata dal
1509, con cadenza annuale, sotto il titolo di
Carmina ad Pasquillum 47.
La presenza nel Succorpo di elementi tratti
dalla mitologia pagana (di cui alcuni molto
importanti di cui si dirà a breve, stranamente sfuggiti del tutto, fino a oggi, agli studiosi
che si sono occupati dell’argomento) induce
a pensare che un simile paradigma sia stato
utilizzato dal cardinale Oliviero anche nell’elaborazione di un messaggio iconografico
alquanto complesso (e, probabilmente, intenzionalmente criptico). Non è un caso che
la decorazione delle bianche pareti marmoree sia stata letta (talvolta anche da chi ha
tentato di fornire un’interpretazione iconologica di altre parti dell’ipogeo ianuariano)
poco più che un mero esercizio di stile della
nutrita bottega di scultori e scalpellini diretti dallo scultore comasco Tommaso Malvito:
46
La trasformazione della statua nel soggetto
scelto di anno in anno per Pasquino era affidata,
alcuni giorni prima della festa di S. Marco, ad «un
pittore a ciò chiamato [che] le dava per solito, colla
mistura di sacro e profano comune a quel tempo,
la forma di un’antica divinità, fatta di cartapesta
colorata e di panni» (cfr. Gnoli, Storia cit., 1890, p.
58).
La xilografia di Pasquino vestito a lutto, pubblicata da Mazzocchi nell’edizione dei Carmina
ad Pasquillum del 1511, è riprodotta anche in
Reynolds, Il cardinale Oliviero Carafa cit., 2004, p.
311; Parlato, Cultura antiquaria cit., 1990, tav. XLI.
47
Le celebrazioni dei primi otto anni della festa,
che vanno dal 1501 – anno del rinvenimento della
statua – al 1508, non furono seguite dalla pubblicazione delle poesie dedicate a Pasquino. La prima
edizione a stampa dei “Carmina ad Pasquillum” –
curata inizialmente da Iacopo Mazzocchi – risale,
infatti, al 1509 e sarà continuata in seguito, con
cadenza regolare, per vari anni ancora (sono note
le edizioni per gli anni: 1509-18, 1520, 1521, 1523,
1525-26 e 1536). Cfr. Reynolds, Cardinal Oliviero
Carafa cit., 1985, pp. 178-208 (vedi in particolare
nota 33, p. 185).
«le pareti rappresentano solo un sistema
di articolazione architettonica con nicchie
piatte e paraste a rilievo», ha scritto la
Dreszen nel 2004 48. Più o meno sulla stessa linea si collocava già l’osservazione della
Norman che notava la quasi totale assenza
o rarità sulle pareti della cripta di elementi
esplicitamente cristiani (tra le rare eccezioni un Cristo dei dolori e il Pellicano che nutre
i figli del proprio corpo) o di espliciti riferimenti a episodi della vita e/o del martirio di
S. Gennaro, che – secondo la studiosa – potrebbe essere spiegata con la reale presenza nel Succorpo delle reliquie del santo che,
con la loro corporeità, avrebbero reso pleonastico e ridondante ogni ulteriore esplicito
richiamo al martire beneventano 49.
In realtà, oltre ai riferimenti astrologici ricordati dalle fonti non più visibili e agli importanti “geroglifici” delle due lastre poste
ai lati della cattedra marmorea dietro l’altare (brillantemente decodificati dalla Norman come Prudentia e Sapientia) 50, i riferimenti iconografici classici sono ancora oggi
numerosi e non si limitano alle panoplie e ai
metamorfici candelabri zoo e antropomorfi
della decorazione a grottesca. Le presenze
iconografiche “pagane” più frequenti sembrano ruotare intorno alla raffigurazione di
arpie-sfingi e, soprattutto, di divinità marine (tritoni, nereidi, ippocampi ecc.), che nel
mondo classico erano messe in relazione
con il transito dalla vita alla morte e per
questo di frequente presenti tra le decorazioni scultoree dei sarcofagi romani d’età
imperiale.
Infatti, a coronamento del primo e del se48
Cfr. Dreszen, Oliviero Carafa committente cit.,
p. 188: «In questa cappella, il messaggio iconografico è spostato dalle pareti al soffitto, che è il
vero e proprio campo iconografico, mentre le pareti rappresentano solo un sistema di articolazione architettonica con nicchie piatte e paraste a
rilievo».
49
Cfr. Norman, The Succorpo in the cathedral of
Naples cit., 1986, p. 352.
50
Ivi, p. 347 e ss., figg. 22 e 23. Vedi riproduzione
anche in Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo
Romano cit., figg. 118 e 119, p. 126.
S T O R I E
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condo altare della parete di sinistra dell’ipogeo, due architravi contengono la rappresentazione di un thiasos marino (un corteo
nuziale) il cui asse di simmetria è rappresentato dal blasone dei Carafa sormontato
dal cappello cardinalizio. Nel primo caso si
tratta di nereidi che cavalcano, nude, due
tritoni; nel secondo caso, il thiasos marino è composto da tre figure (a sinistra una
maschile e, a destra, un’altra femminile con
accanto un bambino), giustapposte, che
solcano le onde del mare su due carri trainati da quattro ippocampi: si tratta, in modo
evidente, di Nettuno e di Anfitrite (accompagnata da un amorino).
E sempre Nettuno 51 – questa volta però
munito dell’inconfondibile tridente (sebbene parzialmente mutilo) disteso su un flutto mentre gli saltano accanto due delfini
– ricompare in modo ancora più esplicito in
uno dei quattro pennacchi definiti dall’intersezione della volta delle absidi poste ai lati
della scarsella con il soffitto a cassettoni 52.
Gli altri tre pennacchi raffigurano, in modo
inequivocabile, altrettante divinità pagane
la cui presenza – anche questa mai notata
prima – pone interessanti interrogativi a cui
si cercherà di dare risposta. È possibile riconoscere, quindi, procedendo da sinistra verso destra: 1) l’appena menzionata figura di
Nettuno/Poseidone; 2) Diana/Artemide, seduta su una sorta di sgabello, che è intenta
a estrarre con la destra una freccia dalla faretra, mentre con l’altra mano regge l’arco;
al suo fianco sono rappresentati una face e
due fiori; 3) Marte/Ares (o Perseo?) 53, sedu51
Per quanto mi è dato sapere, l’unico studioso
che fino a oggi abbia fatto cenno a una raffigurazione di Nettuno nel Succorpo –seppure in modo
fugace e senza specificarne la collocazione – è
stato Antonio Muñoz (Studi sulla scultura napoletana cit., p. 88).
52
Gli altri due pennacchi triangolari che si formano in corrispondenza dell’intersezione della
scarsella con il soffitto del Succorpo rappresentano due tritoni alati muniti di puntuti tridenti rivolti
verso il basso.
53
Sebbene questa figura marziale ricordi nella
postura l’Ares Ludovisi (rinvenuto, tuttavia, solo nel
’600), non è improbabile che rappresenti, invece,
26 / 27
to di 3/4 sopra uno sgabello, in abiti militari,
che con la destra regge il bastone di comando, poggiando l’altra mano su un fianco; accanto sono rappresentati uno scudo con la
testa di Medusa e un ramo di ulivo (chiaro
riferimento al nome del cardinale); 4) Proserpina/Persefone, divinità ctonia regina
degli inferi, seduta, che regge con la mano
sinistra il bastone di Asclepio (il bastone simile al caduceo che poteva ridare la vita ai
morti); alla sua sinistra è raffigurato un fascio con tre spighe di grano (attributo della
dea allusivo alla sua duplice natura, solare e
ctonia, e all’alternarsi delle stagioni e della
vita sulla morte).
La presenza insistita di divinità e di esseri marini (Nettuno, Anfitrite, nereidi, tritoni,
ippocampi, delfini ecc.), potrebbe essere,
inoltre, ricondotta ad altre due motivazioni. La prima di carattere autocelebrativo:
è probabile che si sia voluto presentare –
come era già avvenuto nella cappella romana del cardinale 54 – un erudito rinvio ai
successi militari ottenuti da Oliviero che, in
qualità di ammiraglio, aveva guidato la flotta pontificia nel 1472 nella crociata contro
i Turchi, riportando una memorabile vittoria
su Setalia, città dell’Asia Minore 55. La seconda motivazione, invece, potrebbe essere una colta metafora collegata al santo
beneventano: l’esplicita rappresentazione
di Nettuno in almeno due punti distinti del
Succorpo è forse un raffinato rinvio all’aspetto pubblico dell’ipogeo come reliquiario delle spoglie di S. Gennaro che viene
richiamato indirettamente, se si rammenta
che il principale attributo di Nettuno/Poseidone era Ennosìgaios ovvero «scuotitore
un eroe semidivino, Perseo. La rappresentazione
del volto della Gorgone sullo scudo raffigurato accanto indurrebbe a propendere per questa seconda ipotesi.
54
Cfr. Bertelli, Filippino Lippi cit., 1963.
55
Vedi la biografia di Oliviero di Franca Petrucci
(cfr. ad vocem, «DBI», vol. 19, p. 589). L’impresa
navale fu narrata da Pietro Ursuleo in un ms. della Bibl. Apostolica Vaticana (ms. Ottob. lat. 1938
cc. 1-8).
della terra» 56. I terremoti, infatti, secondo
la mitologia classica, erano generati dalla
divinità marina che scuoteva la terra con il
suo tridente. È utile ricordare che tra i poteri
miracolosi attribuiti a S. Gennaro, per i quali
veniva principalmente invocato dal popolo,
vi era appunto quello di interrompere terremoti (ed eruzioni).
La presenza di Artemide/Diana, invece, può
essere spiegata considerando che questa
divinità pagana era frequentemente identificata con Selene e collegata al «ciclo della
fecondità femminile, animale e anche vegetale. Più in generale il suo ruolo è quello di
dea della fecondità, come Ecate, con cui è
spesso identificata […] [che] ha il potere sia
di far morire […] sia di far nascere» 57.
Di un significato analogo – ancora più esplicito – sembra essere latrice la figurina di
Persefone, il cui mito era collegato al mondo ctonio e al passaggio ciclico dalla vita
alla morte. Il bastone di Esculapio che la
divinità pagana regge, esalta ulteriormente
questo significato e, in modo forse non casuale, rinvia al mito di Perseo e Medusa che,
come vedremo, potrebbe avere una certa
rilevanza per l’interpretazione di un messaggio iconografico generale che ci sembra
di aver individuato.
Infatti, se la figura maschile presente nel
secondo pennacchio di sinistra è realmente
da identificare con Marte, il rinvio più immediato sembra essere quello ai successi militari che il cardinale napoletano (il cui nome
è richiamato dal ramo di olivo che compare
all’estrema destra del pennacchio triangolare), come si diceva, ottenne quando nel
1472 fu a capo della flotta pontificia. Se
56
Cfr. ad vocem Poseidone, «Dizionario della
Civiltà Classica», Milano, 1993, vol. II, pp. 1494-95.
57
Cfr. ad vocem Artemide, «DCC», vol. I, p. 467.
Va osservato che in uno dei rilievi degli altari laterali sul lato destro dell’ipogeo è presente una figura femminile da identificare probabilmente con
Ecate, in piedi, nuda, sorretta da due esseri infernali antropomorfi dalle zampe caprine (vedi riproduzione in Muñoz, Studi sulla scultura napoletana
cit., fig. 12 p. 70).
invece, come sarei più propenso a credere,
questa figura è da identificare con Perseo
(come porta a pensare la presenza della testa di Medusa sullo scudo), si profila un’ipotesi ermeneutica più complessa ma molto
interessante. Il semidio argivo era legato a
varie imprese, tra cui quella della decapitazione di Medusa richiamata nel rilievo dello
scudo. L’eroe racchiuse il capo della Gorgone dentro una bisaccia e raccolse il sangue
sgorgato dal collo reciso: questo sangue
aveva proprietà eccezionali poiché quello
colato dalle vene del lato destro era in grado
di restituire la vita ai defunti, mentre quello
uscito dal lato sinistro era mortifero. Questa variante del mito di Medusa è indirettamente richiamata in una famosa tragedia
di Euripide, lo Ione, in cui vengono ricordate
le doti taumaturgiche e quelle tanaturgiche
del sangue della Gorgone delle quali Creusa
tenta di servirsi – senza poi riuscirvi – per
uccidere il figlio Ione 58.
Va ricordato che nel 1509 il cardinale Carafa predisponeva il suo testamento nel quale
dichiarava di voler essere sepolto, alla sua
morte, dapprima nella cappella romana in S.
Maria sopra Minerva e che, successivamente,
le sue spoglie fossero trasferite definitivamente «sine ponpa» nella sua seconda cappella alla cattedrale napoletana, «ubi corpus
et sanguis Beati Ianuarii requiescit» 59. Le
ampolle con il sangue miracoloso di S. Gennaro, quindi, si trovavano nel Succorpo certamente dal 1509 (dove erano state traslate
forse già dal 1506, insieme alle altre reliquie
del Santo) e vi rimasero per vari anni ancora,
anche se non molti, per volontà del potente
58
Euripide, Ione, BUR, Milano 2009, vv. 10031009. Vedi anche il saggio introduttivo di Maria
Serena Mirto, pp. 5-62 (in particolare p. 17).
59
Cfr. Strazzullo, Il Cardinale Oliviero Carafa cit.,
pp. 148-152: «…Corpus autem relinquo et mando
tradi ecclesiastice sepulture et presens deponi intra cappellam meam beate Marie et beati Thome
Aquinatis super Minervam… ac deinde transferendum Neapolim ac sepelliendum in catedrali ecclesia in alia cappella mea ubi corpus et sanguis beati
Ianuarii requiescit tumulo mihi moderate et sine
ponpa facto».
Tommaso Malvito
e bottega
Rilievo dell'intradosso
dell'architrave del
secondo altare di
sinistra raffigurante
la testa di Medusa
NAPOLI, Cattedrale,
Succorpo di San
Gennaro
cardinale. Infatti non c’erano probabilmente
più già nel 1534, in quanto la bolla pontificia
di Paolo III di riconferma dello iuspatronato ai
Carafa non ne fa esplicito riferimento. Di certo erano state rimosse dall’ipogeo nel 1542,
come attesta la visita pastorale di Francesco Carafa che le descrive nuovamente nella
torre di destra della Cattedrale, insieme al
Tesoro del Santo (dove rimarranno fino alla
realizzazione, nel XVII secolo, della Cappella
del Tesoro di S. Gennaro) 60.
Considerando che oltre alla già ricordata
ipotetica identificazione di Perseo, sono
numerosi i riferimenti diretti o indiretti a
Medusa e al suo mito presenti nella cripta
di S. Gennaro 61, ritengo che sia tutt’altro
che peregrino pensare che il colto cardinale – probabilmente anche su suggerimento della nutrita cerchia di eruditi
umanisti che lo affiancava – conoscendo
questa versione del mito (magari proprio
attraverso la tragedia euripidea appena
ricordata), abbia voluto fare un colto parallelo tra le doti taumaturgiche del mitico sangue di Medusa e quelle miracolose
attribuite al sangue di S. Gennaro, le cui
60
Cfr. Strazzullo, Quinto centenario cit., 1996, pp.
85-87.
61
Tra i primi l’esplicita raffigurazione della
Gorgone in due “mascheroni” (vedi qui figura 8 e in
Muñoz, Studi sulla scultura napoletana cit., fig.10
p. 68); tra i secondi la probabile raffigurazione di
Cetus e di Pegaso e Andromeda in alcuni piccoli
rilievi laterali a fianco della scala di sinistra.
28 / 29
ampolle erano fisicamente presenti nel
Succorpo 62.
In definitiva, sebbene alcuni particolari iconografici del Succorpo non siano ancora del
tutto chiari, sembra evidente che il focus iconologico di tutta la decorazione è nel caelum
dell’ipogeo ianuariano. Questo, infatti, costituito da un soffitto di 18 cassettoni figurati
di esplicito contenuto religioso 63 – secondo
la tradizionale simbologia gerarchica Alto/
Basso – cristianizza il contenuto in gran parte “pagano” del registro inferiore, restituendogli il valore di una sofisticata e colta prefigurazione allegorica del messaggio cristiano.
Quest’ultimo consiste nell’esaltazione della
sacralità delle reliquie dei martiri (a partire da
Gennaro, il santo taumaturgo protettore della
città), suggerendo come sottotesto, in ultima
istanza, una linea di continuità (e, quindi, di
legittimazione) che parte dalla Chiesa Trionfante del soffitto e, attraverso le reliquie di
Gennaro (che nelle intenzioni di Oliviero dovevano includere probabilmente anche le “miracolose” ampolle di sangue), e degli altri padri della Chiesa napoletana (che nel progetto
iniziale ricordato dalle fonti dovevano essere
collocate negli altari laterali della confessio)
arriva ai successori della sede arcivescovile della città, rappresentati simbolicamente
dalla cattedra marmorea della scarsella e,
in effigie, dal ritratto marmoreo in scala naturale del cardinale (e arcivescovo di Napoli),
raffigurato in orazione perpetua delle spoglie
del Santo beneventano.
62
Il fenomeno della liquefazione è storicamente
attestato per la prima volta almeno a partire dal
XIV secolo. Vedi: Chronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396, in forma Diarii, ex
inedito codice Ottoboniano Vaticano cura et studio
Iosephi De Blasiis, Napoli, 1887.
63
I 18 tondi clipeati raffigurano: la Vergine col
bambino; i quattro Evangelisti; i quattro Padri della
Chiesa (Gregorio, Agostino, Ambrogio e Girolamo),
i santi Pietro e Paolo; i sette patroni della Chiesa
di Napoli (Severo, Aspreno, Agnello, Agrippino
Attanasio, Eusebio e Gennaro). Per la distribuzione delle menzionate figure e una planimetria
del Succorpo vedi lo schema riportato da Franco
Strazzullo (Quinto centenario cit., pp. 80 e 81).
Quartet. La casa insicura
dell’arte
Viviana Gravano
«Non c’è dubbio. Questa è la mia casa/ qui
avvengo, qui/ mi inganno immensamente./
Questa è la mia casa ferma nel tempo./ Arriva l’autunno e mi difende,/ la primavera e
mi condanna./ Ho milioni di ospiti/ che ridono e che mangiano,/ s’accoppiano e dormono,/ giocano e pensano./ milioni di ospiti che
si annoiano,/ che hanno incubi e attacchi di
nervi./ Non c’è dubbio. Questa è la mia casa./
Tutti i cani e i campanili/ ci passano di fronte./ Ma la mia casa è sferzata dai fulmini/ e
un giorno si spaccherà in due./ E io non saprò dove ripararmi/ perché tutte le sue porte
danno fuori dal mondo». (Mario Benedetti,
Questa è la mia casa)
La casa nella cultura occidentale corrisponde
in maniera pressoché inequivocabile al luogo
della famiglia, della sicurezza, dell’intimità e
alla sfera del privato. L’immaginario legato a
questo spazio produce sovente iconografie
rassicuranti, che la disegnano come il rifugio,
la zona franca nella quale chiudersi per sfuggire ai pericoli esterni.
Gaston Bachelard, filosofo della scienza e
della poesia, che ha dedicato ampio spazio al
significato epistemologico della casa, nel suo
saggio La poetica dello spazio cita un brano di Jung dove lo psicanalista per spiegare
come immaginare l’animo umano lo descrive
appunto come un’abitazione:
Dobbiamo porci di fronte allo spaccato di un
edificio e fornirne una spiegazione: il piano
superiore è stato costruito nel XIX secolo,
il pianterreno è del XVI secolo ed un esa-
me più minuzioso della costruzione mostra
che essa è stata innalzata su una torre del II
secolo. Nella cantina scopriamo fondamenta romane e sotto la cantina si trova una
grotta sul cui suolo si scoprono, nello strato
superiore, utensili di selce e, negli strati più
profondi, resti di fauna glaciale. Questa potrebbe essere, all’incirca, la struttura della
nostra anima 1.
Lo stesso Bachelard poco oltre disegna
la casa come il luogo simbolo del corpo
umano:
Non solo i nostri ricordi, ma anche le nostre
dimenticanze sono «alloggiate», il nostro
inconscio è «alloggiato», la nostra anima è
una dimora e, ricordandoci delle «case» e
delle «camere», noi impariamo a «dimorare» in noi stessi. Le immagini della casa (ce
ne accorgiamo fin da questo momento) procedono nei due sensi; esse sono in noi così
come noi siamo in esse 2.
Partendo da questo presupposto la dimora è
insieme il luogo delle nostre più profonde radici identitarie e culturali e, allo stesso tempo,
è il territorio inesplorato delle nostre angosce
e delle nostre più nascoste incertezze.
1
Carl Gustav Jung, Psicologia analitica, cit. tratto
dal saggio intitolato: Il condizionamento terrestre
dell’anima, in Gaston Bachelard, La poetica dello
spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 27-28 (ed. orig. La
poétique de l’espace, Presses Universitaires de
France, Paris 1957).
2
Bachelard, La poetica cit., p. 28.
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Immaginare la casa come il luogo dell’insicurezza, o addirittura della paura, è il fil
rouge che lega alcune opere visuali contemporanee, ciascuna peculiarmente diversa, ma tutte accomunate dalla messa
in discussione della dimora come simbolo
dell’intimità inviolabile e della solidità. La
scelta è volutamente caduta su due coppie
di artisti, gli uni attivi dagli anni Settanta,
gli altri dai Novanta, proprio per mettere a
confronto le leggere variazioni di sfumatura
che questo approccio al tema ha declinato
nel tempo. Si noterà anche una sostanziale
differenza da un punto di vista sia estetico
che tecnico, proprio per indicare ancora la
trasversalità di una visione che discute una
certezza “storica” del pensiero occidentale.
Nel 1972 l’artista francese Christian Boltanski realizza il film cortometraggio Essai de
reconstitution des 46 jours qui précédèrent
la mort de Françoise Guiniou 3. Nel film si seguono gli ultimi 46 giorni di vita di una giovane donna, madre di due bambini: Martine,
la piccolina all’incirca di poco più di un anno
e Jean, il maschio di circa 7 anni. Il film inizia mostrando il condominio popolare in cui
la giovane mamma vive e nella prima scena
si vede lei che, tenendo in braccio la bimba,
va a prendere a scuola il più grande, che appare felice di vederla. Ciascuna sequenza è
intervallata da un cartello numerato che indica la nuova scena e il passare del tempo.
La famigliola felice, per tutto il film sempre
senza padre, arriva a casa, e già la mamma
compie un gesto che ci appare inquietante:
invece di inchiavare semplicemente la porta
di ingresso la sbarra mettendo dei legni inchiodati di traverso. Una voce fuori campo
fredda e inespressiva, come in un documentario, accompagna descrivendolo in maniera
pedissequa tutto il breve racconto cinematografico, e legge ciascun cartello che enuncia la sequenza dei fatti. Mano a mano la
3
1972, bianco e nero, 16 mm; durata 18'; riprese: Bob Swaim; Montaggio: Ody Ross; Sceneggiatura: Christian Boltanski; Collezione Forum des
images, Paris.
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donna inizia a vivere con i due bimbi in questa casa chiusa, con le finestre serrate e le
tende tirate. All’inizio la famiglia fa la sua vita:
i bimbi giocano, mangiano tutti e tre insieme,
Martine fa il bagnetto, si festeggia il compleanno di Jean, la mamma confeziona a mano
una bambola per Martine. La sola cosa che
appare chiara è che nessuno di loro esce più
dalla casa, e il solo contatto che lo spettatore percepisce con l’esterno è la voce off che
descrive, senza però che li si possa sentire, i
rumori esterni alla casa. Si fa cenno ai suoni
che provengono dalla strada, o a quelli dei vicini, e a quelli dei passanti per le scale. Quando Jean inizia a voler uscire la mamma reagisce in modo violento e lo dissuade, ma solo
con i gesti, perché il film è completamente
muto, a parte la voce narrante. Pian piano
inizia a scarseggiare il cibo, finché finisce
del tutto, e Françoise, seduta a terra, rovista
nell’immondizia che ormai invade la cucina.
La prima a morire di inedia è Martine, nel suo
lettino. Poi la stessa mamma si abbandona
sul letto, rifiuta i tentativi di farla reagire di
Jean, e si lascia morire, riversa a pancia in giù
senza nemmeno girarsi a guardare il bambino che la scuote. Il cortometraggio finisce
con Jean a terra, sudicio, solo, che mastica
la carta da parati che ha appena staccato dal
muro della casa.
Un’immagine terrificante, di una crudezza
spaventosa che si mostra in maniera fredda, glaciale, come guardare dei pesci morire
lentamente in un acquario da dietro al vetro
senza poter fare nulla per salvarli. Boltanski
racconta di una famiglia normale, qualsiasi, di una madre felice, di due bei bambini,
di una casa certo semplice fin quasi povera,
ma ben tenuta. Ma proprio quella assoluta
normalità, quel disegno non perfetto ma
“giusto” è la trappola mortale che lentamente uccide Françoise e i suoi figli. Il terrore
dell’esterno che arriva solo come suono, le
porte e le finestre sbarrate, sono l’estrema
metafora di quella casa/famiglia che chiude, rinserra, delimita lo spazio privato come
salvifico. Boltanski non dà nessun giudizio,
non ci induce mai a pietà, non cambia mai
Gordon Matta-Clark
Splitting
1974, fotografia
bianco e nero
courtesy Gordon
Matta-Clark Trust,
New York
il tono della voce, non indugia in inquadrature troppo ravvicinate o retoriche, racconta quasi come un investigatore addetto a
documentare a distanza un crimine. Non si
tratta di provare pena, e persino l’orrore è
come mitigato dalla freddezza di un bianco
e nero impietoso, è la semplice constatazione del rischio, certo persino mortale, di
vedere il nucleo familiare e l’involucro che la
ospita, cioè la casa, non come un ambiente
poroso ma come un limite invalicabile, auto-imposto dalla paura. Sembra chiaro che
la proposizione di Boltanski è metaforica, la
si potrebbe allargare, dalla casa al palazzo,
dal palazzo al quartiere, alle città con le dispute cittadine, e alle regioni e così via fino
agli Stati e quindi ai nazionalismi. L’ottusità di vedere il limite, la frontiera, il confine,
come una barriera “contro” gli altri, “in difesa da”, non può che portare all’auto-implosione, a una lenta morte autarchica. Non a
caso Boltanski sceglie solo una madre con
due figli: perché l’iconografia che si va a polverizzare diviene culturalmente ancora più
deflagrante, visto che la figura della madre
è quella per eccellenza della protezione,
della salvazione. Madre e casa sono un binomio indissolubile per la cultura familiare
occidentale, dunque una madre che uccide i
propri figli chiudendoli nella sua stessa casa
è un gesto di insopportabile insensatezza
per lo spettatore. Anche l’ultima scena in cui
Françoise è sul letto, riversa, e Jean cerca
di farla reagire ma lei lo scaccia malamente e si lascia morire, è un’anti-iconografia
mariana: la madre non accoglie ma scaccia
il figlio, gli porge le spalle invece del grembo, e non prova a salvarlo, ma anzi se ne va
lasciandolo morire da solo. Tutte le azioni di
Françoise che precedono la fine drammatica sono gentili, premurose, ogni sua azione
è per i bambini. Dunque Boltanski non ci
parla della follia che coglie nell’attimo, non
ci racconta di un gesto estremo fuori dalla
regola, ma ci parla della lenta agonia di chi
ripete per convenzione gesti che rassicurano, che curano, che chiudono e alla fine
soffocano. La casa di Françoise, con porte e
finestre chiuse, non respira più, e persino la
scelta del film muto allude all’impossibilità
di esprimersi, di parlare.
Splitting di Gordon Matta-Clark, pur restando
nel contesto dell’immagine della casa come
luogo della paura e dell’incertezza inverte totalmente il paradigma visivo proposto
da Boltanski. L’opera, realizzata nel 1974 in
una casa al 332 di Humphrey Street, a New
York, messa a disposizione da Holly Salomon, si trovava in un’area che doveva essere
demolita per fare posto a una nuova urbanizzazione e, prima di smantellare la casa,
comprata come investimento immobiliare, il
noto collezionista dà la possibilità all’artista
di farne un’opera. Splitting è forse il lavoro
più completo di Matta-Clark, sicuramente il
più emblematico della sua filosofia. Gordon
prende la casa dei Salomon e pratica da solo,
a mano, con un trapano, un’apertura zenitale, realizzata attraverso una fessura larga 2
centimetri che la attraversa da parte a parte,
che taglia esattamente a metà la casa dal
tetto alla sua base. Poi con dei cric idraulici,
come quelli che si usano per i Tir di grandi
stazze, fa in modo che la casa di apra, senza
però cadere o cedere. In sostanza l’edificio
resta intatto ma aperto da un lungo taglio
controllato che permette di vedere al suo
interno e che, dall’interno, appare come una
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Ulla von Brandenburg
Singspiel (Songplay)
2009, film 16 mm
bianco e nero, sonoro,
14’34”
courtesy dell’artista
e della galleria Art:
Concept, Paris
grande lama di luce che separa in due parti
simmetriche la casa, dal tetto al piano terra. Fino a quel momento Gordon aveva quasi
sempre lavorato in aree abbandonate con
edifici dismessi, con Splitting finalmente non
è più un clandestino a bordo, e questo non
solo non lo preoccupa, ma nemmeno cambia il senso del suo intervento. A chi gli chiedeva se lui pensasse che la sua architettura
potesse essere anche applicata a situazioni destinate a durare nel tempo, e a essere
utilizzate realmente, quotidianamente, più di
una volta ha risposto che lui avrebbe lavorato
volentieri anche in quella direzione, se gliene
fosse stata data la possibilità. Questo testimonia come il suo non fosse un linguaggio
legato solo alla decostruzione, o all’utopia
irrealizzabile, ma semmai più a una costante
rimessa in discussione delle strutture portanti dell’abitare e del costruire. Splitting è
ancora più interessante e divertente nella
sua assurda ironia, perché è una casa in piena regola, con la forma classica della villetta
americana. Quando Matta-Clark entra vi trova
ancora oggetti della gente che l’aveva abitata, andata via con una certa urgenza perché
sfrattata. La vista all’interno mostra la stessa
fessura che, da un certo punto di vista, diventa luce pura attraverso lo spiraglio che disegna il profilo della casa, e dall’altro ne mostra
lo scheletro strutturale. Ed ecco che si concretizza sotto i nostri occhi una sublimazione della materia in luce a cui Matta-Clark fa
spesso riferimento. Guardando le immagini in
bianco e nero dell’interno, si percepisce una
doppia possibilità di penetrazione data al nostro corpo e alla nostra mente: da un lato si
può attraversare la casa da parte a parte e,
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mettendosi di profilo, si può immaginare di
passare, come un filo sottile, nella fessura;
dall’altra, la riproduzione fotografica dell’opera permette un viaggio tridimensionale
diverso, che trova il suo apice nel fotocollage
dove la casa si divarica ancora più radicalmente, e mostra una metà totalmente nuda,
aperta all’intrusione del nostro sguardo. Il
luogo del privato per eccellenza, quello nel
quale si chiude il segreto dell’esistenza di
ciascuno, viene aperto e mostrato senza pudore: i brandelli della carta da parati, il pavimento macchiato, con la macchina del gas
che si intravede sul fondo, con il corrimano
ancora caldo di qualcuno che lo ha percorso
con il palmo della sua mano. Tutte le regole
sono violate: le regole della stabilità architettonica e le regole della solidità familiare.
Quella fenditura di luce così mistica, così zen
nella sua assolutezza, della larghezza giusta,
non più e non meno di quello che necessita,
taglia però di fatto a metà il luogo dell’unità
indivisibile: la casa. Horace Salomon in un’intervista a proposito di Splitting dice:
Dopo la realizzazione del taglio, mi sentivo
nervoso a stare in casa; pensavo che potesse
cadere in qualsiasi momento. Non mi piaceva affatto stare là, ma nonostante questo mi
incantava molto l’esterno e mi piaceva contemplarla 4.
La sua reazione è significativa: un senso di
fascinazione mista a paura che, se può apparire come una normale paura del crollo,
testimonia anche di quel continuo senso di
ansia che i lavori di Matta-Clark infondono
in chi guarda, sempre unito a una attrazione
irresistibile. Per questo lavoro Matta-Clark
riceve molte contestazioni dagli architetti,
finalmente toccati nel loro punto più vitale:
l’abitazione. Qualcuno gli scrive che lui «infrangeva la santità e la dignità degli edifici in
4
Gordon Matta-Clark, cat. mostra, Internationaal
Cultureel Centrum, Antwerpen 1977, riportata in
Gordon Matta-Clark, cat. mostra, IVAM Centre Julio
Gonzáles, Valencia 1993, p. 194.
Christian Boltanski
Essai de reconstitution
des 46 jours qui
précédèrent la mort de
Françoise Guiniou
1971, film 16 mm,
bianco e nero, sonoro,
18’
collezione Forum des
images, Paris
rovina interrompendo la loro naturale transizione verso la rovina e la demolizione» 5.
Santità e dignità che vengono interrotte
dall’apertura, dalla profanazione dell’integrità. L’edificio, nella sua interezza, può essere abbattuto, demolito, reso polvere, ma
non tagliato perché questo è un inaccettabile sacrilegio della sua impenetrabilità,
della sua verginale intoccabilità, che lo deve
accompagnare fino alla morte, che lo vedrà
ripiegarsi su se stesso, ma non aprirsi. Continua così a tornare il legame casa-corpo,
e si parla di dignità e santità come riferiti a
un essere vivente, e si invoca una “naturale
transizione”, un po’ come un malato terminale che va lasciato morire in pace. In un’intervista con Liza Bear, Matta-Clark chiarisce
molti punti delle sue intenzioni su Splitting.
Alla questione sulla possibile usabilità e funzionalità del luogo dopo il suo intervento,
Matta-Clark risponde:
Però io lo penso ora come per sempre in ogni
caso potenzialmente funzionale. Non c’è ragione per cui uno non potrebbe vivere in questo luogo. Infatti, mi interesserebbe molto
trasportate tagli come questo in luoghi veramente utilizzabili o abitati. Cambierebbe la
percezione per un certo tempo e sicuramente
modificherebbe in buona misura il concetto
di privato 6.
L’idea che i tagli, le fessure, siano possibili
anche in situazioni assolutamente vivibili e abitabili, non è una fantasia ingenua o
innocente, è l’idea di affermare una nuova
visione di apertura, che possa e sappia rimettere in discussione il significato stesso dell’abitare. È innegabile che interventi
come Splitting siano nati con la precisa
intenzione di ridiscutere, più concettualmente che realmente, un dato luogo, ma la
concezione applicata all’intervento ha invece una valenza assolutamente sociale ed
esplicita: rimettere in gioco l’idea di priva5
6
Ivi, p. 195.
Ivi, p. 204.
to. Matta-Clark insiste più volte nel dire che
a lui non interessa fare scultura applicata
all’architettura, in quel rapporto decorativo
che spesso è intercorso appunto tra modellazione dello spazio e costruzione, ma piuttosto «fare scultura attraverso l’architettura» 7. L’apertura delle pareti rappresenta per
lui la possibilità di mostrare la complessità
delle strutture: lo appassiona far vedere
come dietro l’apparente piattezza e unicità
del muro si nasconda una struttura complessa, metaforicamente stratificata, come
è la vita, come sono i luoghi e chi li abita.
Ancora nell’intervista con Liza Bear l’artista
dice esplicitamente:
Comunque, mi piacerebbe molto praticare dei
tagli così in un luogo ancora abitato o utilizzato. Questo cambierebbe temporaneamente la
nostra maniera di percepirlo, e certo modificherebbe la nostra concezione di intimità 8.
Visitando la Biennale di Venezia del 2001,
ai Giardini, il Padiglione tedesco appariva
come chiuso, e, al posto della sua maestosa entrata retorica, realizzata in epoca
nazista, si accedeva attraverso una piccola
porta. Appena entrati ci si trovava non in una
grande sala espositiva, come conoscendo
quel padiglione ci si poteva aspettare, ma
subito ai piedi di una lunga e stretta scala
7
Ibid.
Splitting the Humphrey Street Building, un entratien avec Gordon Matta-Clark par Liza Bèar, 2125 mai 1974, in Gordon Matta-Clark Entretiens,
Éditions Lutanie, Paris 2011, p. 14 (traduzione del
redattore).
8
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interna, di quelle tipiche delle case del nord
Europa, come ad esempio quelle tedesche.
Salendo la scala, con una sensazione molto
forte di essere in un luogo privato e non più
in un museo, ci si trovava ad attraversare
una serie di stanze collocate una dentro
l’altra, piuttosto oscure e abbastanza soffocanti. Il lavoro “esposto” era Totes Haus
ur dell’artista tedesco Gregor Schneider. Le
diverse sale erano state ricostruite in loco,
portando centinaia di tonnellate di materiali presi dalla sua casa natale a Rheydt.
Schneider da anni lavora con questa prassi
di costruire vere e proprie case, con accesso diretto da un’entrata normale per i visitatori, però sempre in spazi pubblici come
musei o gallerie. Le sue case sono sempre
sospese tra squallore e paura, non hanno
mai tracce di violenza o altre immagini evidenti, ma lasciano sempre la netta sensazione che qualcuno sia appena andato via,
che qualcosa sia appena accaduto. L’effetto
spiazzante principale è già dato dal modo
di accedere alla casa, che avviene appunto andando in un museo, dove l’abitazione
viene letteralmente trasportata, con tutti
i suoi oggetti, in uno spazio normalmente non destinato alla vita normale e quotidiana, che simboleggia per noi un luogo
pubblico e piuttosto intoccabile. A Venezia,
in una delle prime sale, c’era una stanzina
con un materasso a terra e una piccola finestra, con tende a rullo abbassate da cui
appena filtrava una luce, e poi un ripostiglio
sporco con una coperta semplicemente
macchiata. E poi una stanza con le pareti
come pronte a essere ricoperte ma ancora
con l’isolante di piombo a vista: una camera
che non si capiva se era stata sventrata per
cercare qualcosa nelle pareti o se doveva
ancora essere finita. Schneider stesso dice
che lui non vuole infondere nello spettatore nessun particolare sentimento, che se
lo spazio incute paura è perché il visitatore
porta con sé le proprie paure in quel luogo.
Ma in un’intervista per la rivista «Parkett»
dice anche: «Naturalmente io non so bene.
Qualcuno potrebbe aprire la porta sbagliata
34 / 35
nel momento sbagliato e fare un tuffo nel
vuoto» 9. Entrare così improvvisamente in
una casa, accedendovi da un museo che
non ci apparirebbe come uno spazio famigliare, ci dovrebbe rassicurare, ci dovrebbe
far sentire in un luogo più intimo, più vicino
a noi. Invece quella strana casa tortuosa,
labirintica, nella quale spesso ci sembra
di girare a vuoto e di tornare nella stessa
stanza – perché Schneider ripete alcuni
singoli oggetti in diverse stanze – quella
casa ci dà la vertigine, ci fa mancare l’aria.
L’intimità esposta ci inquieta. Togliere il nostro “rifugio” dal suo luogo abituale e porlo
in uno spazio dove tutti lo violano per forza
perché diviene “oggetto” ci tocca nel nostro
profondo, ci fa sentire nudi.
Per capire la radicalità di Schneider accenno solo a un altro suo lavoro del 2004,
prodotto da Artangel di Londra, dal titolo
Die Familie Schneider. Il lavoro si svolgeva
in due appartamenti al numero 14 e 16 di
Walden Street a Londra. I visitatori dovevano salire a coppie, ciascuno riceveva le
chiavi di una delle due case e doveva da
solo aprire la porta e entrare. Nella casa tre
performer compivano in tre stanze diverse
queste azioni: nella prima stanza una donna lavava piatti senza mai fermarsi; nella
seconda un bambino, lì fermo, era avvolto in una busta di plastica; nella terza un
uomo, sotto la doccia, si masturbava da
solo. Una volta visitata la prima casa i due
visitatori si dovevano scambiare le chiavi, e
visitare l’altra casa che presentava la stessa identica scena, con apparentemente gli
stessi performer, perché Schneider aveva
lavorato con tre coppie di attori gemelli
identici. Le case erano classiche case popolari, da piccola borghesia, con uno spazio
abbastanza ristretto e claustrofobico e una
cantina buia e stretta. Quello che stordisce
è il fatto che il lavoro si chiami La famiglia Schneider, cioè che porti il nome della
stessa famiglia dell’artista. In realtà que9
Ulrich Loock, Gregor Schneider. The dead House
Ur, «Parkett», n. 63, 2002, p. 143.
sto lavoro manifesta la perfetta coerenza
dell’artista tedesco che lavora sull’oscurità
e la problematicità dei nuclei familiari chiusi negli spazi claustrofobici della cultura
occidentale, ben rappresentati proprio dalla casa come guscio, come luogo ottuso,
come espressione identitaria fissa e poco
porosa. La “famiglia Schneider” potrebbe
vivere e di fatto vive nella Totes Haus ur
di Venezia. La casa racchiude, nasconde,
occulta ogni nostra “deviazione” e mostra
solo la sua facciata.
Ancora alla Biennale di Venezia, nel 2009,
l’artista tedesca basata a Parigi, Ulla von
Brandenburg presenta Singspiel. Una sorta
di piccolo labirinto fatto di teli colorati, tesi
su strutture leggere, conduce a un video,
anch’esso proiettato su una stoffa morbida
blu. Nel video, tutto girato nella nota Villa
Savoye costruita per l’omonima famiglia
da Le Corbusier alla fine degli anni Venti, la
telecamera viaggia nei corridoi, nelle stanze, tra i pilotis e sulla terrazza in una piano
sequenza continuo. Un sorta di lunghissima soggettiva di un visitatore invisibile che
in ogni stanza incontra un membro della
famiglia, intento a fare un’azione sempre
molto semplice come: cercare un nastro fra
tanti aggrovigliati, girarsi una lunga sciarpa
intorno al collo o mettersi le mollette per
tirarsi su i capelli. Ciascuno svolge la sua
azione in totale solitudine, in ambienti quasi completamente vuoti, con pochissimi
mobili, in quella sintetica essenzialità che
è delle case moderniste. Solo in una scena, in terrazza, quattro persone giocano a
carte, ma ben presto si capisce che ognuna
compie sempre la stessa sequenza di gesti.
Nessun movimento, nessun accadimento
ha mai nulla di terribile o di inquietante, ma
l’isolamento, la ripetizione, e la ripresa che
passa lentamente ma senza mai fermarsi,
come spiando, lasciano una singolare sensazione di angoscia. Un’angoscia gelida che
si muove a suo agio in quella casa asettica.
La casa di Le Corbusier, progettata come
la dimora ideale, e ora museo nazionale,
sembra come intonsa, mai vissuta, mai
abitata, ma è in realtà un teatro di quelle
brevi e compite azioni solipsiste, che danno
una sensazione di falsità e di incomunicabilità. Poi la lunga carrellata, tutta in rigoroso silenzio e in un ancor più rigoroso bianco
e nero, arriva in una stanza da pranzo nella
quale, attorno a un tavolo, tutti i personaggi
visti sin qui sono riuniti a colazione. Mangiano insieme una torta, si porgono educatamente delle tazze da tè. All’improvviso un
ragazzo inizia a cantare ma con una voce
femminile che palesemente non è la sua, e
lentamente tutte le persone a tavola cantano, tutte con la stessa voce. Intonano un
Singspiel, un genere musicale tedesco nato
nel XVIII secolo in Germania e Austria, che
prevede parti cantate e parti recitate, e si
rifà a generi popolari simili all’operetta o
all’opera buffa. La cosa interessante è che
nel Singspiel in genere le parti cantate sono
quelle più sentimentali, dove viene fuori la
parte emotiva della storia. La famiglia di
Villa Savoye canta, tutta con questa estraniante voce femminile: mette in scena, nel
momento della riunione, una sorta di piccola pantomima recitata. Il tempo del rito
collettivo corrisponde alla recita, al vero e
proprio teatro. E il contrasto più forte è nel
sentire una famiglia alto borghese, fredda e controllata, cantare un’aria popolare,
romantica. Di nuovo non accade nulla di
eclatante, tutto sembra terribilmente normale, ma la voce fuori sintonia con i corpi,
e il ricordo delle stesse figure sole e senza
relazione dell’inizio del film, danno alla famiglia l’aspetto di una sorta di grande mise
en scène. Non a caso l’ultima scena del video mostra un piccolo teatrino improvvisato, fatto solo di una tenda come sipario per
nascondere la scena, davanti al quale tutta
la famiglia si siede per assistere a un’ulteriore sequenza dell’opera cantata. A colazione, così come davanti alla performance
teatrale, tutti sono seduti su sgabelli piccoli, che danno una sensazione d’instabilità e
di precarietà.
La famiglia borghese si guarda recitare se
stessa nel giardino della sua casa perfetta.
L’UNHCR, Agenzia delle Nazioni
Unite per i Rifugiati, rivela, secondo i dati raccolti nel 2014, che
nel mondo sono circa 60 milioni i
migranti forzati: persone che sono
state obbligate a scappare dalla
propria casa o costrette a lasciare
il loro territorio a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani.
Ogni giorno milioni di queste
persone in fuga trovano rifugio
nei campi profughi, insediamenti
nei quali possono risiedere e ricevere in maniera centralizzata protezione, assistenza umanitaria ed
altri servizi dal governo ospitante e/o dagli operatori umanitari.
I campi profughi si differenziano in
funzione del contesto emergenziale.
I campi possono essere progettati
ex novo, quindi edificati su della
re cosi l’incolumità dei rifugiati.
In generale la pianificazione e organizzazione fisica del campo dovrebbe partire dal più piccolo dei
moduli: la singola unità familiare.
E’ indispensabile, fin da subito,
considerare i bisogni delle famiglie: la distanza dall’acqua o delle
latrine, le relazioni con gli altri
membri della comunità, tradizioni costruttive e usanze culturali.
E’ necessario sviluppare prima il
layout comunitario e poi passare alle problematiche legate alla
struttura complessiva.
Dimensioni del campo
I manuali dell’UNHCR prescrivono, nella fase di dimensionamento
del campo, una superficie minima
di 45 metri quadri per persona.
Questa quota deve includere gli
20,000 persone x 45 m² =
900,000 m² = 90 ettari (ad
esempio un sito dalle dimensioni di 900 m x 1000 m).
terra concessa dal governo, o creati
spontaneamente dagli stessi rifugiati. In entrambi i casi esistono
delle strategie di pianificazione e
gestione alle quali tecnici, architetti ed operatori umanitari devono
attenersi.
Pianificazione
In fase di pianificazione, le decisioni iniziali sul posizionamento del
campo sono stabilite dalla mutua
partecipazione del governo e delle
autorità locali.
Un approccio partecipativo è
necessario per evitare problematiche relative alla sicurezza, che
potrebbero insorgere, ad esempio, a causa di contrasti con le
popolazioni limitrofe, e garanti-
spazi necessari per le strade, sentieri pedonali, strutture scolastiche,
impianti igienici, sicurezza, amministrazione, stoccaggio di acqua
e cibo, distribuzione, mercati e i
terreni per i ricoveri.
Questo valore si riduce a 30 metri
quadri per persona se i servizi comuni possono essere forniti attraverso strutture già esistenti o strutture addizionali esterne.
Nella fase di dimensionamento i
tecnici devono anche prevedere
futuri ed eventuali incrementi demografici, ascrivibili a fattori naturali e/o a nuovi arrivi.
Se, a causa di quest’ultimi, la superficie minima non può essere
più garantita, le conseguenze di
una più alta densità abitativa devo-
Pasquale Pennacchio, Come costruire un campo profughi, 2015
no poter essere mitigate con azioni
strategiche opportune. In generale
i campi non dovrebbero mai ospitare più di 20000 persone.
La dimensione di un campo di
20000 persone è stimata attraverso la seguente relazione:
20,000 persone x 45 m² = 900,000
m² = 90 ettari (ad esempio un sito
dalle dimensioni di 900 x 1000 m).
Accessibilità
Per quanto concerne questo dato,
il sito deve possedere un requisito
indispensabile: accessibilità e prossimità alle fonti di rifornimento
primarie (cibo, combustibile per
cucinare e materiali da costruzione). Desiderabile è anche la
prossimità ai servizi nazionali, in
particolar modo ai servizi sanitari.
Naturalmente vantaggiosa risulterebbe la scelta di un sito attiguo ad
una città, a patto che non ci siano
tensioni tra gli abitanti del posto
ed i rifugiati.
Tipologie di Ricoveri
I ricoveri familiari vanno preferiti
agli alloggi comunitari perché forniscono privacy, comfort psicologico e sicurezza emozionale. Essi
provvedono anche alla sicurezza
delle persone e dei propri beni ed
aiutano a preservare o ricostruire
l’unità familiare.
In situazioni di emergenza il modo
migliore per affrontare il problema
degli alloggi è quello di adottare
materiali e modalità costruttive
che normalmente sono già in uso
presso i rifugiati o le popolazioni
del posto. Solo quando la quantità di materiale necessario non
può essere ottenuta localmente va
importata nel paese. Sono favorite
le strutture più semplici, e i materiali dovrebbero essere rispettosi dell’ambiente e ottenuti in
maniera sostenibile. All’inizio di
un’emergenza andrebbero forniti
i materiali necessari affinché i rifugiati possano costruire il proprio
ricovero, cercando di utilizzare degli standard minimi di abitabilità.
Nei climi caldi e tropicali lo standard è di 3,5 m² per
persona, escludendo la cucina (si presume che le attività
di cucina avvengano all’aperto); e da 4,5 a 5,5 m² per
persona nei climi più freddi o in ambienti urbani, includendo la cucina e il bagno.
Teli di plastica
In molte operazioni di soccorso, sopratutto nelle fasi
iniziali, il telo di plastica rimane il componente più importante per la velocità e facilità di impiego.
La raccolta del legno, usato come sostegno per i teli di
plastica, può danneggiare l’ambiente se effettuata nelle
foreste circostanti. È percio importante che il materiale
per il sostegno dei teli sia fornito dalle organizzazioni
umanitarie.
Tende
Le tende posso essere utili ed appropriate, ad esempio, quando i materiali del posto sono disponibili solo su base stagionale o non disponibili affatto.
La vita media di una tenda di tela dipende dalla qualità
della manifattura, il tempo di stoccaggio prima dell’effettivo utilizzo, le condizioni climatiche e la cura che ne
hanno i suoi abitanti.
In generale le tende sono difficili da riscaldare e non
provvedono un sufficiente isolamento termico.
Sebbene inadeguate come ricovero nei climi freddi, in
mancanza di alternative, possono comunque salvare
vite ed essere una soluzione temporanea prima che più
appropriati ricoveri vengano eretti.
Se richieste, coperte supplementari e teli di plastica
posso aiutare ad aumentare la ritenzione di calore.
Infrastrutture
1 rubinetto dell’acqua per
1 latrina
1 centro sanitario
1 ospedale
1 scuola
4 punti distribuzione
1 mercato
1 centro di nutrizione
2 bidoni rifiuti
per
per
per
per
per
per
per
per
1 comunità
(80 – 100 persone)
1 famiglia (6 – 10 persone)
1 sito (20,000 persone)
10 siti (200,000 persone)
1 settore (5,000 persone)
1 sito (20,000 persone)
1 sito (20,000 persone)
1 sito (20,000 persone)
1 comunità
(80 – 100 persone)
Acqua
Per quanto concerne la fruizione dell’acqua, il campo
dovrebbe essere dotato di almeno un punto di distribuzione ogni 80 - 100 persone. Dove possibile, la distanza
massima tra un’abitazione e il punto di distribuzione
non dovrebbe superare i 100 metri.
In condizioni d’emergenza il quantitativo minimo d’acqua distribuito dovrebbe essere almeno di 7 litri al giorno per persona. Questo quantitativo va incrementato a
20 litri non appena le condizioni si normalizzano, in
modo che la popolazione possa avere abbastanza acqua
per cucinare, l’igiene personale, lavare piatti ed i vestiti.
Servizi igienici
Se l’approvvigionamento d’acqua è il fattore principale
nella scelta del sito, i requisiti igienico sanitari ne dettano la disposizione urbanistica. Un’alta densità abitativa
associata a dei cattivi servizi igienici rappresentano una
minaccia alla salute e alla sicurezza dei rifugiati. Questo
connubbio è tipico dei campi nati spontaneamente. In questo ultimo caso, l’organizzazione e realizzazione dei servizi igienico-sanitari
basilari dovrebbe avvenire prima dell’eventuale
trasferimento dei rifugiati.
Latrine
Per tutti i siti, nuovi e riorganizzati, l’obiettivo
dovrebbe essere quello di avere una latrina per
famiglia.
Solo se la latrina rimane sotto il controllo e la
manutenzione di un unico gruppo familiare si
può garantire uno standard igienico a lungo
termine.
La collocazione ideale della latrina è nel lotto
familiare e quanto più distante possibile dalla tenda. Se ciò non è possibile, l’alternativa è
quella di assegnare la latrina a gruppi di famiglie e per un massimo di 20 persone.
Esigenze alimentari e nutrizionali
Ad ogni rifugiato deve essere garantito un apporto medio giornaliero di 2100 calorie.
Ogni membro della popolazione, indipendentemente dall’età e dal sesso, deve ricevere esattamente la stessa porzione di cibo.
Il quantitativo di cibo deve essere bilanciato da
un punto di vista nutrizionale ed essere adatto
al consumo da parte dei bambini ed altri individui a rischio.
L’obiettivo deve essere fornire il cibo preservando i costumi alimentari tradizionali.
Il paniere alimentare dovrebbe comprendere:
un alimento di base (cereali), una fonte di
energia addizionale (oli e grassi), una fonte
di proteine (legumi, carne, pesce), sale iodato e possibilmente condimenti (ad esempio
spezie). Inoltre del cibo fresco per l’apporto
di micronutrienti. Il livello di grasso presente
nella razione dovrebbe fornire almeno il 17%
dell’apporto energetico, mentre la parte proteica il 10-12% del totale.
Condizioni climatiche, malattie e altri rischi
Le aree di insediamento dovrebbero essere libere dai principali fattori ambientali di
rischio per la salute, come la malaria, oncocercosi (cecità del fiume), schistosomiasi, o
mosca tse-tse. Spesso i campi sorgono in aree
soggette a tempesti di sabbia o polveri. Per
evitare che fra i rifugiati possono insorgere
malattie respiratore è doveroso dotare i rifugi
di opportune protezione per il vento.
Considerazioni ambientali
Il luogo dove sorge il campo, la sua struttura
urbana, l’uso delle risorse locali (combustibile
e materiale da costruzione) possono avere un
impatto negativo sull’ambiente.
I danni ambientali più gravi avvengono principalmente nelle fase iniziale di un’emergenza.
Questi danni possono avere ripercussioni sanitarie, sociali ed economiche per i rifugiati e
le popolazioni locali.
Al fine di salvaguardare l’ambiente e quindi il
benessere dei rifugiati e delle popolazioni locali, vanno adottate le seguenti misure:
Selezione del sito: evitare siti vicino ad aree
protette. Il sito deve essere collocato ad almeno una giornata di cammino dall’area protetta
o riserva più vicina.
Preparazione del sito: cercare di preservare il
più possibile il suolo e la vegetazione esistente.
Layout del campo: il layout (in particolare
quello delle strade) dovrebbe seguire le curve di livello del terreno. Questa scelta riduce
l’erosione del suolo ed evita la creazioni di
pericolosi smottamenti. Un layout del sito,
che incoraggia un modo di vivere comunitario, salvaguardia anche l’ambiente all’interno
della comunità.
Design dei rifugi (risparmio energetico attraverso l’isolamento termico): nei climi freddi,
con delle lunghe stagioni invernali dove è necessario un riscaldamento continuo, l’adozione di misure di risparmio energetico passivo,
come l’isolamento termico delle pareti, del
soffitto e del pavimento, può portare ad un
risparmio significativo di combustibile.
Rifugi e combustibile: è di cruciale importanza sin dall’inizio della costruzione dell’insediamento gestire e controllare l’uso delle risorse
naturali locali. Utilizzare materiali locali per
soddisfare i bisogni iniziali, come il legno per
la costruzioni e per il fuoco, può rivelarsi particolarmente distruttivo; per questo la raccolta
di tali materiali va gestita attentamente, e /o
vietata fornendo delle fonti alternative.
(Farsi) abitare tra reale
e virtuale al tempo dei nuovi
media
Z
/
S T O R I E
Diego Del Pozzo
«Sentivo che stavo vacillando sull’orlo.
Voltai gli occhi»
(Edgar Allan Poe) 1
«Le immagini vedono con gli occhi che le
vedono»
(José Saramago) 2
«Credi sia aria quella che respiri ora?»
(Morpheus a Neo nel film Matrix)
Quello mediatico è il nuovo ambiente sociale e culturale nel quale, ormai già da qualche anno, gli esseri umani vivono le proprie
quotidianità. I media, infatti, oggi vanno
concepiti come luoghi, territori dell’abitare
umano, sempre più ubiqui 3 e invasivi nei
confronti di quasi tutti gli spazi della vita
di ogni giorno; autentiche interfacce esperienziali che contribuiscono a ricollocare
le persone per la maggior parte del loro
tempo in ambienti massicciamente “mediatizzati”. Tali nuovi spazi dell’esperienza
hanno ridefinito, in modo forse imprevedibile ma inevitabile, il concetto stesso di
abitare, rendendolo a sua volta più fluido
e inafferrabile, rispetto al passato anche
recente, e rimodulandolo su coordinate
spazio-temporali oscillanti, di continuo,
1
Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo, in Racconti, Garzanti, Milano 1972, p. 133.
2
José Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996,
p. 305.
3
Cfr. Mike Featherstone, Ubiquitous Media: An Introduction, in «Theory, Culture & Society», v. 26, n.
2-3, March-May 2009, pp. 1-22.
42 / 43
tra differenti piani del reale, sempre meno
distinguibili tra di loro. E i nuovi media digitali e informatizzati, in particolar modo i
social network e il Web 2.0 e 3.0 (la nuova
frontiera del cosiddetto Web semantico,
grazie al quale i sistemi automatici possono interagire con l’uomo e con l’ambiente
in modo evoluto 4), continuano a spingere
tali processi alle estreme conseguenze, a
causa della loro natura immersiva che quasi obbliga il fruitore ad abitarli piuttosto che
semplicemente utilizzarli, per poterli sperimentare su se stesso in maniera completa
e soddisfacente.
La piena soddisfazione nel rapporto tra l’uomo contemporaneo e i nuovi media, infatti,
scaturisce prevalentemente dalla forte interattività di tali strumenti di decodifica del
reale e dalla loro capacità di creare “mondi
altri”, all’interno dei quali poter trascende-
4
Questo nuovo paradigma è anche detto Internet
of Things (IoT, in italiano “Internet delle cose”), a
indicare la stretta integrazione tra il mondo virtuale delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione e quello reale delle cose. L’Internet of Things è un’infrastruttura di rete globale
e dinamica con capacità di auto-configurazione
derivanti da protocolli di comunicazione standard
e interoperabili, per dotare gli oggetti fisici e virtuali di identità, attributi fisici, personalità virtuale,
attraverso interfacce intelligenti perfettamente
integrate all’interno della rete info-telematica. Le
informazioni smetteranno di viaggiare attraverso
gli schermi dei computer o degli smartphone, per
farlo attraverso gli oggetti, grazie a sensori che li
faranno “crescere” perfezionandone di volta in volta le funzioni (smart objects).
re, per pochi minuti o per parecchie ore, i
propri limiti fisici: mondi virtuali in grado di
coinvolgere contemporaneamente più di
un senso, in modo immersivo, sinestetico,
tecnologico, interattivo. «La “realtà virtuale” – scrive Derrick de Kerckhove – aggiunge
il tatto alla vista e all’udito ed è tanto vicina
a “drogare” il sistema nervoso umano come
nessuna tecnologia lo è mai stata. Con la
realtà virtuale noi proiettiamo letteralmente la nostra coscienza al di fuori del nostro
corpo e la vediamo obiettivamente, forse
per la prima volta» 5. Da questo punto di vista, la rivoluzione contemporanea esplosa
con l’avvento di Internet è imparagonabile
a qualsiasi salto culturale precedente nella storia dell’evoluzione dei media. E, in tal
senso, Second Life 6 o Facebook, per citare
solo due esempi possibili tra i tanti, rispondono esattamente alle medesime logiche
di abitabilità e partecipazione. «Internet è
un camaleonte, il primo mezzo di comunicazione che all’occorrenza può diventare
uno qualunque degli altri media, ma anche
tutti insieme perché è fatta di testi, audio
e video. […] Non è semplicemente interattiva, ma è di per sé partecipativa: non
risponde soltanto ai comandi dell’utente,
ma lo stimola e lo spinge a contribuire, a
commentare e quindi a entrare in questo
nuovo mondo. Inoltre Internet è immersiva,
qualcosa in cui tuffarsi e scavare a fondo
per placare la propria sete di conoscenza di
qualunque argomento» 7.
5
Derrick de Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna 1992, pp. 22-23.
6
Ambiente tridimensionale virtuale creato nel
2002 dalla società americana Linden Lab, accessibile dal 2003 e frequentato da oltre dieci milioni
di utenti nel 2008, l’anno della sua massima diffusione. Nel mondo simulato di Second Life si agisce
liberamente attraverso un proprio avatar digitale.
Più che un semplice gioco di ruolo on line, è un vero
e proprio spazio abitativo costruito dagli utenti, i
quali possono realizzarvi oggetti di qualsiasi tipo,
sviluppare una propria storia, condividere emozioni, persino fare affari.
7
Frank Rose, Immersi nelle storie. Il mestiere di
raccontare nell’era di Internet, Codice Edizioni, Torino 2013, p. XII.
L’ambiente mediatico, come qualsiasi altro, richiede una profonda adattabilità da
parte di coloro che intendono abitarlo, influenzandone al tempo stesso i comportamenti e persino le percezioni. Già nel 1968,
molto prima del boom di Internet, Marshall
McLuhan nota che: «[…] tutti i media ci
investono interamente. Sono talmente penetranti nelle loro conseguenze personali,
politiche, economiche, estetiche, psicologiche, morali, etiche e sociali da non lasciare alcuna parte di noi intatta, vergine,
immutata. Il medium è il massaggio. Ogni
interpretazione della trasformazione sociale e culturale è impossibile senza una
conoscenza del modo in cui i media funzionano da ambienti» 8.
E a proposito di ambienti, da abitare virtualmente e dai quali farsi abitare, nel 1982
la Disney produce un innovativo film di fantascienza intitolato Tron, diretto da Steven
Lisberger e interpretato da Jeff Bridges e
Bruce Boxleitner. Al di là delle ingenuità del
caso (ma trattasi di un film per ragazzi),
l’operazione è all’avanguardia rispetto alla
propria epoca, poiché Tron è la prima produzione kolossal di una major hollywoodiana a utilizzare effetti speciali in 3D computer graphics in maniera estesa (con oltre 15
minuti interamente generati al computer) 9
e, soprattutto, a proporre una trama ambientata quasi del tutto nella realtà virtuale. Lo stile visivo unico e inconfondibile, ha
reso il film, nel corso degli anni, un vero e
proprio oggetto di culto. Qui, però, a interessare è sia il modo innovativo col quale è
visualizzato il mondo virtuale, sia la scelta
stessa di costruire un intero film intorno
a personaggi che abitano tale ambiente
generato al computer, descritto come un
8
Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Il medium è il
massaggio. Un inventario di effetti, Feltrinelli, Milano 1968, p. 26.
9
Prima c’erano stati, per singole sequenze, il
primo Star Wars (1977) di George Lucas, Superman (1978) di Richard Donner e Star Trek II: L’ira
di Khan (1982) di Nicholas Meyer. Sull’argomento,
cfr. Cristian Uva, Cinema digitale. Teorie e pratiche,
Firenze, Le Lettere, 2012.
S T O R I E
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Z
universo dotato di proprie leggi e arricchito
da luoghi e caratteristiche assolutamente
peculiari, con tanto di tiranno digitale (il
Master Control Program) a governarlo con
pugno di ferro prima di essere detronizzato
dai protagonisti.
Addirittura, nel sequel Tron: Legacy, diretto
da Joseph Kosinski nel 2010, il concetto di
abitabilità della realtà virtuale è esplorato
ancora più in profondità, anche stavolta con
notevoli ingenuità narrative ma grande fascino visivo. Ciò che importa, però, è come i
realizzatori facciano evolvere l’universo virtuale chiamato la “Rete”, nell’arco di tempo
coperto dalle trame dei due film. Infatti, tra
la prima missione all’interno del computer
da parte del geniale creatore di videogiochi
Kevin Flynn (Jeff Bridges) e quella di suo figlio, l’hacker Sam (Garrett Hedlund), la vita
va avanti in questo particolarissimo mondo, “al di là dello specchio” (o, meglio, dello
schermo), con nuovi abitanti che prendono
il posto di quelli vecchi, costruzioni digitali edificate in territori prima inesplorati, un
nuovo tiranno che gestisce il potere, addirittura la stupefacente comparsa di una
serie di “algoritmi isomorfi”, dotati di un
Dna digitale e sviluppatisi in modo autonomo nella Rete attraverso un processo paragonabile a quello dell’evoluzione biologica.
Quello visualizzato nei due Tron, dunque, è
un autentico “media-mondo”, direttamente interfacciato con quello reale attraverso
Internet, come raccontato con ingenuità e
semplificazioni in Tron: Legacy. Ed è innegabile che proprio l’avvento del Web abbia
prodotto un decisivo passo in avanti lungo
la strada della definitiva trasformazione dei
media in “media-mondo” 10: veri e propri
ambienti sociali e culturali, che invitano a
entrare al loro interno e ad abitarvi, dando
vita a una dimensione esterna all’essere
umano, fortemente interattiva e dotata di
una “intelligenza connettiva” che si estrinseca nella “messa in rete” del cervello indi10
Cfr. Giovanni Boccia Artieri, I media-mondo.
Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea,
Meltemi, Roma 2004.
44 / 45
viduale con le tecnologie e la cultura che lo
circondano 11 (e lungo tali direttrici di senso
è tracciato il percorso che conduce dritto al
Web semantico).
La ridefinizione del concetto stesso di “abitare”, nella relazione in itinere con i nuovi
media digitali, ha nel mutato rapporto tra
spettatore-fruitore e schermo un suo elemento decisivo. «Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi,
ma anche il “vedere attraverso” tipico della
prospettiva rinascimentale e frutto di una
strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla
promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico» 12. Così, il fruitore
prova la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo, di poter abitare al suo interno ed esercitare un
controllo sulla realtà alla quale lo schermo
stesso gli consente di accedere. Tale sensazione è ulteriormente rafforzata dal fatto
che gli schermi tattili dei quali sono dotati
la maggior parte degli strumenti di comunicazione contemporanei permettono di
dar vita a una sorta di fusione tra tali strumenti e il corpo umano. «Con la riproduzione tecnica e più ancora con lo sviluppo delle
tecnologie contemporanee, non sono più la
mano, la postura, il portamento a essere
importanti: il dito che sfiora in permanenza schermi di ogni tipo è oggi staccato dal
corpo e dagli altri sensi» 13.
Tale nuova sensorialità soft, derivante dalla
reiterata interazione con i touch screens,
provoca il superamento della barriera fisica tra l’osservatore e la scena che, per
esempio, il tradizionale schermo del cinema ancora rappresentava e che, invece, gli
schermi elettronici e interattivi dei media
11
Cfr. Derrick de Kerckhove, L’intelligenza connettiva. L’avvento della Web Society, De Laurentis
Multimedia, Roma 1997.
12
Vanni Codeluppi, I media siamo noi. La società
trasformata dai mezzi di comunicazione, Franco
Angeli, Milano 2014, p. 38.
13
Nicole Aubert, Claudine Haroche (a cura di),
Farsi vedere. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti, Firenze 2013, pp. 55-56.
Matrix
1999, scritto e diretto
da Lana e Andy
Wachowski
contemporanei immersivi mandano definitivamente in frantumi, producendo un
effetto di fusione con corpo e sensi dello
spettatore. Questi, infatti, è ormai irresistibilmente attratto all’interno dello schermo, che non opera più come una tradizionale scena spettacolare, bensì come il suo
esatto contrario, annullando la distanza tra
spettacolo rappresentato al suo interno e
soggetto impegnato nell’atto di guardare.
E, in un simile scenario epistemologico, si
consuma il passaggio epocale dal guardare i nuovi media all’abitare in essi e al farsi
abitare da essi.
Come spesso accade, dinamiche di questo
tipo sono anticipate dalle visioni di artisti capaci di preconizzare ciò che sarebbe
diventato realtà soltanto diversi anni più
tardi. È il caso del regista canadese David Cronenberg, che nel 1983 realizza una
sorta di trattato di teoria dei mass media
mascherato da film di fantascienza. S’intitola Videodrome ed è un apologo cupo e disturbante sulle mutazioni psicofisiche degli
esseri umani a confronto con un ambiente
mediatico sempre più invasivo e, ormai, alle
soglie di trasformazioni epocali (si tratta,
peraltro, di un tema ricorrente nella sua filmografia). L’attenzione di Cronenberg, nel
film, si concentra sul più vecchio tra i nuovi
media (o il più nuovo tra i vecchi), cioè la televisione, ma in alcune sequenze il cineasta
– allievo di Marshall McLuhan (suo profes-
sore all’università di Toronto, omaggiato col
personaggio del guru-filosofo Brian O’Blivion) – visualizza addirittura un casco per
la realtà virtuale insospettabilmente simile
ai prototipi di Oculus Rift oggi in piena fase
di sviluppo 14.
Alla virtual reality, poi, Cronenberg dedica
nel 1998 l’altrettanto inquietante eXistenZ,
nel quale i confini tra reale e virtuale sono
assolutamente indistinguibili e il corpo
umano diventa, oltre che schermo, addirittura console per videogame fatta di carne.
Si tratta di quella “nuova carne” che l’autore canadese teorizza proprio in Videodrome
e che, ibridando organico e inorganico, si
mostra in tutta la sua malata inquietudine
in sequenze entrate di diritto nella storia
del cinema, per esempio quella nella quale il protagonista Max Renn (interpretato
dall’ottimo James Woods) penetra letteralmente all’interno dello schermo catodico,
quasi come in un rapporto sessuale in stato
di ipnosi; oppure l’altra che vede lo stesso
personaggio frustare con perversa eccitazione una televisione ansimante di piacere.
Il media-mondo, dunque, vive sui due lati di
14
Sviluppato da Palmer Luckey attraverso la sua
società Oculus VR (acquistata da Facebook a marzo 2014), Oculus Rift è un sistema per la realtà virtuale completamente immersivo, in quanto strutturato come Hmd, head-mounted display, cioè uno
schermo Lcd da indossare sul viso, con bassa latenza e ampio campo di visuale.
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uno schermo touch ante litteram ed è dominato da “corpi” abitati da video-parassiti
e abitanti l’unica “realtà” davvero possibile:
«Lo schermo televisivo – si dice nel film –
è ormai l’unico vero occhio dell’uomo e fa
oramai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che la televisione è la realtà. E la realtà è meno della televisione». Videodrome è un film che, seppur
penalizzato da risultati deludenti al box
office, influenza in maniera profonda l’immaginario collettivo e ispira interessanti riletture successive del rapporto tra Natura e
Cultura, ambiente naturale e ambiente mediatico, nuove forme dell’abitare il proprio
corpo e i nuovi media, peraltro in un periodo storico come gli anni Ottanta-Novanta
attraversato da enormi mutamenti in tali
ambiti, dovuti alla sempre più veloce evoluzione tecnologica.
Proprio la filmografia di David Cronenberg
è emblematica di tali mutamenti e rovesciamenti di prospettiva. «Ogni suo film è
l’identificazione – scrive lo storico del cinema Gianni Canova – di un ibrido generato
dalla tecnologicizzazione dei corpi e dalla
corporeizzazione della tecnica» 15. Oltre al
seminale Videodrome, Canova cita ulteriori
esempi: La mosca (1986), con capsule per
il teletrasporto che sembrano ovaie metalliche o cavità uterine elettroniche; Inseparabili (1988), con gli attrezzi ginecologici,
quasi fallici, dei gemelli Mantle; Il pasto
nudo (1991), con macchine da scrivere visualizzate come ripugnanti insetti logorroici; Crash (1996), nel quale il metallo delle
automobili rappresenta l’estremo oggetto
di desiderio per corpi ormai afflitti da una
cronica incapacità di godere.
I corpi sono sempre meno percepibili come
dati di natura e sempre più come progetti, o
come artefatti. Non sono più qualcosa che
si eredita, bensì qualcosa che si costruisce.
Tatuaggi, trucchi, fusioni molecolari gene-
tiche, mutazioni virali: più che un essere, il
corpo è un divenire. È pieno di orifizi e protuberanze: cioè di varchi o ponti attraverso
cui il corpo stesso invoca a sé il mondo o si
protende verso di esso. Per confondervisi o
mescolarvisi, per rompere o confondere la
compattezza dei propri confini 16.
Per dirla con Mario Perniola, insomma, i
corpi postmoderni, irrimediabilmente mutati in modo da abitare efficacemente i
media-mondo contemporanei, sono «cose
che sentono» 17.
Nel 1998, Cronenberg gira eXistenZ e porta
alle estreme conseguenze la sua riflessione sulle mutazioni che i media causano alla
psiche e alle fisicità degli esseri umani, ma
anche al nuovo ambiente ibrido reale-virtuale nel quale essi inevitabilmente abitano. Così, attraverso la spiazzante parabola
fantastico-avventurosa della creatrice di
videogiochi Allegra Geller (Jennifer Jason
Leigh), il regista canadese evidenzia come,
per l’homo sapiens a cavallo tra secondo e
terzo millennio, lungo un percorso destinato a trasformarlo in homo cyber, il corpo appaia – riprendendo una definizione di
Mark Dery – «un’appendice vestigiale non
più necessaria» 18. Nel film, infatti, Allegra
fugge da coloro che la vogliono morta, attraversando continuamente i confini tra
ambienti reali e virtuali, fino a renderli indistinguibili tra loro, incarnando nella sua
esperienza l’incertezza ontologica nella
quale le nuove tecnologie digitali hanno
catapultato l’uomo contemporaneo. Reale
e virtuale, in eXistenZ, sono fusi tra loro in
un unico ambiente nel quale i personaggi
abitano senza discrimine alcuno. Al tempo stesso, in questa atmosfera di continua
incertezza sensoriale, la mutazione dell’organico in tecnorganico è completata, con i
corpi dei protagonisti penetrati da connet16
Ibid., p. 147.
Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p. 9.
18
Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture di fine
millennio, Feltrinelli, Milano 1997, p. 274.
17
15
Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi
della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani,
Milano 2000, pp. 146-147.
46 / 47
tori simili a cordoni ombelicali, da inserire nel midollo della spina dorsale per poter attivare gli schifosi, mollicci e pulsanti
gamepad che servono per giocare in una
realtà virtuale ormai indistinguibile dal
mondo reale.
Per sfruttare fino in fondo le possibilità relazionali, comunicazionali e percettive che
le nuove tecnologie gli offrono, il corpo ha
bisogno di fare a meno di sé (o di farsi altro da sé): deve rinunciare (o crede di dover
rinunciare) alla propria fisicità nell’illusione
di poter trascendere i suoi limiti oggettivi
(corporali, appunto) 19.
Di fronte a tutto ciò, dunque, le coordinate
della riproducibilità del reale (e dell’irreale) mutano per sempre, lungo una traiettoria di senso che dal classico Simulacres
et simulation (1980) di Jean Baudrillard 20
conduce alle cinevisioni sintetico-digitali
di Matrix (1999) dei Wachowski Brothers o
dell’immersivo Avatar (2009) di James Cameron 21. In questi anni, i confini tra reale
e virtuale diventano quasi impercettibili e
le intuizioni di un autore di fantascienza
come Philip K. Dick acquisiscono una straordinaria centralità a livello di immaginario
globale 22. Anzi, col senno di poi – cioè dopo
19
Canova, L’alieno e il pipistrello cit., p. 139.
Per Baudrillard, il simulacro è un significante
al quale non corrisponde nessun significato. Può
essere una parola, un concetto, un’immagine che
vive di per sé, simula la realtà ma non la rappresenta. Cfr. Jean Baudrillard, Simulacres et simulation,
Éditions Galilée, Paris 1980 (nuova ed. it. Simulacri
e Impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri
oggetti, PGreco, Milano 2009).
21
In ambito di nuovi media, l’avatar è la rappresentazione grafica di un utente in un determinato ambiente digitale. Tale rappresentazione può
essere di due tipi: con immagini bidimensionali,
generalmente abbinate a un nickname, per identificare un utente all’interno di un social network;
con immagini tridimensionali, immerse in mondi
tridimensionali (dai games online a piattaforme
come Second Life), per permettere all’utente di
attraversarli e interagire con essi.
22
Philip Kindred Dick nasce a Chicago il 16 dicembre 1928 e muore il 2 marzo 1982 a Santa Ana in
20
aver conosciuto il cyberpunk, la reality tv,
vent’anni di fantacinema hollywoodiano,
i territori immateriali di Internet e della
realtà virtuale, le campagne mediatiche
di tanti esponenti politici contemporanei – è possibile considerare Dick come lo
scrittore che, a partire dalla sua originale
e provocatoria visione della fantascienza,
ha segnato indelebilmente l’immaginario
di fine Novecento e inizio terzo millennio.
I temi centrali dei suoi libri (“Cos’è Reale?”, “Cos’è Umano?”) influenzano pesantemente buona parte del cinema fantastico hollywoodiano dalla metà degli anni
Ottanta a oggi. I film tratti direttamente
dalle sue storie non sono tantissimi: oltre
a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, vanno ricordati almeno Atto di forza (1990) di
Paul Verhoeven e il suo remake Total Recall
(2012) di Len Wiseman, Screamers – Urla
dallo spazio (1995) di Christian Duguay,
Minority Report (2002) di Steven Spielberg,
Impostor (2002) di Gary Fleder, Paycheck
(2003) di John Woo, A Scanner Darkly – Un
oscuro scrutare (2006) di Richard Linklater.
California, pochi mesi prima dell’uscita del film che
avrebbe potuto dargli fama e sicurezza economica,
Blade Runner di Ridley Scott, tratto dal suo romanzo
del 1968 Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
e distribuito negli Stati Uniti il 25 giugno 1982. Il
successo di Blade Runner procura alle opere di Dick
una nuova fortuna critica ed enormi attenzioni da
parte di Hollywood. Negli anni, poi, gli viene riconosciuto il ruolo di precursore delle correnti letterarie
postmoderne cyberpunk e avantpop, tanto che oggi
è ritenuto unanimemente uno tra i più importanti
e innovativi autori del genere fantascientifico e, più
in generale, uno tra i più influenti esponenti della
letteratura statunitense del secondo dopoguerra. Il
filo conduttore tematico dell’intera sua opera può
essere sintetizzato in un’unica, basilare domanda:
«Cos’è reale?». E nel suo inevitabile, spaventoso
corollario: «Cos’è umano?». Tra i suoi romanzi più
importanti, vanno citati almeno La svastica sul sole
(1962), I simulacri (1964), Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), Ubik (1969), Un oscuro scrutare
(1977), quasi tutti diventati film, come molti suoi altri. In Italia, le opere di Dick sono pubblicate dall’editore romano Fanucci, in un’apposita collana curata
da un esperto come Carlo Pagetti.
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L’ombra di Dick, però, s’allunga su molte altre opere recenti e, spesso, sulle intere filmografie di importanti cineasti contemporanei. Che dire, per esempio, di tanti film del
citato David Cronenberg? E un altro autore
che sembra aver studiato molto bene Dick è
Andrew Niccol, regista di Gattaca – La porta dell’universo (1997), S1m0ne (2002; il
titolo è l’abbreviazione di “Simulation One”,
a indicare una diva artificiale, sintesi della
donna perfetta), In Time (2011), nonché
sceneggiatore di The Truman Show (1998)
di Peter Weir. Altri film influenzati nel profondo dalle tematiche dei romanzi dickiani
sono, poi, Strange Days (1995) di Kathryn
Bigelow, L’esercito delle 12 scimmie (1995)
di Terry Gilliam (tratto dal cortometraggio sperimentale La jetée di Chris Marker),
Apri gli occhi (1997) di Alejandro Amenábar,
Memento (2000) e Inception (2010) di Christopher Nolan; ma anche le saghe di Alien
e Terminator. Per non parlare di due film
molto simili tra loro come Dark City (1998)
di Alex Proyas e, soprattutto, l’epocale Matrix. Nelle due opere, infatti, sono presentate realtà illusorie e artefatte, “abitate” da
personaggi deliberatamente tenuti all’oscuro riguardo all’artificialità delle proprie
esistenze, ma pronti a lottare contro i loro
stessi mondi, in seguito a un puro mutamento percettivo.
In particolare, nel sottovalutato Dark City
risulta pregnante l’opposizione tra processi
mentali derivanti da ricordi impiantati artificialmente ed esperienze pratiche che
contraddicono tali ricordi e generano confusione e impotenza. Scrive lo storico del
cinema Franco La Polla:
dall’action painting e da alcuni esponenti
della pop art (da Rauschenberg a Warhol)
doveva arrivare ad alcuni narratori postmoderni come per esempio Donald Barthelme (le cui affermazioni sul frammento
sono ben note), la nuova poetica dell’innesto fra organico e inorganico e le conseguenti, inevitabili considerazioni in ambito
filosofico ed etico 23.
Il fatto è che Dick più d’ogni altro autore del
genere ha avvertito, e con grande anticipo,
il mutamento che già stava fermentando
alla metà del secolo, il prossimo avvento della crisi dell’antropocentrismo (così
perfettamente osservato, teorizzato ed
anche narrativamente descritto da Alain
Robbe-Grillet proprio negli anni in cui Dick
si affacciava alla scrittura), la nuova episteme della frammentazione che, a partire
23
Franco La Polla, Philip K. Dick a Hollywood, ovvero: la quadratura del cerchio, in Id., P. Fitting, C.
Pagetti, G. Frasca, Philip K. Dick e il cinema, Fanucci, Roma 2002, p. 22.
24
Thomas Schatz, Conglomerate Hollywood.
Blockbuster, franchise e convergenza dei media, in
Federico Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2012,
p. 49.
25
Cfr. Geoff King, Spectacular Narratives. Hollywood in the Age of the Blockbuster, I. B. Tauris,
London 2000.
48 / 49
Con l’uscita di Matrix nelle sale cinematografiche di tutto il mondo cambia ogni cosa,
però, per quanto riguarda le modalità di riproduzione filmica del reale e del virtuale
e il rapporto tra questi ambienti e i fruitori
che vi si trovano sempre più immersi. Il film
di Andy e Larry (poi Lana, dopo il cambio
di sesso) Wachowski interpretato da Keanu
Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss e Hugo Weaving fa segnare uno
spartiacque tra un “prima” e un “dopo”,
peraltro a ridosso dell’epocale passaggio
dal secondo al terzo millennio (e Thomas
Schatz utilizza opportunamente, nel descrivere l’impatto del film, l’espressione
«spostamento sismico» 24). Sono gli anni
del boom dei kolossal hollywoodiani “d’autore”, soprattutto fantascientifici, capaci
di abbinare spettacolarità “high concept”
da blockbuster globale 25 a sguardo registico personale spesso accompagnato da riflessioni postmoderne sullo stato
dell’arte e sugli sviluppi futuri dei media,
in particolar modo per ciò che concerne
il loro rinnovato e sempre più centrale
ruolo nel mondo. E, a proposito di “high
concept”, è utile fare qui un inciso ricor-
Videodrome
1983, scritto e diretto
da David Cronenberg
dando quanto teorizzato, in un suo saggio
fondamentale, dallo studioso americano
Justin Wyatt, per il quale il prodotto-film
in questa nuova dimensione mediale assume una natura vistosamente “high
concept”, cioè tale da lasciarne emergere
immediatamente la dimensione produttiva, industriale e tecnologica accentuando
la propria superficie stilistica attraverso
la definizione di un look riconoscibile e
commercializzabile, utile – assieme a determinate modalità narrative transmediali
– a una sua replicabilità-serializzazione e,
più in generale, a un suo sfruttamento a
livello di marketing 26.
Matrix è il simbolo di tutto ciò. E può legittimamente essere considerato il primo
classico nonché cult-movie di quello che
Francesco Casetti chiama «Cinema due»
e altri studiosi «Post-cinema» o «Cinema
2.0» 27, quasi come una sorta di Casablanca dell’era convergente. Al pari del film di
Michael Curtiz del 1942, infatti, quello dei
Wachowski riesce a lavorare con grande
efficacia, furbizia e intelligenza sui cliché
narrativi e sui luoghi comuni del cinema e
della cultura popolare del suo tempo, per
26
Cfr. Justin Wyatt, High Concept. Movies and
Marketing in Hollywood, Texas University Press,
Austin 1994.
27
Cfr. Francesco Casetti, L’occhio del Novecento.
Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano
2005.
creare un effetto di déjà-vu e riconoscimento da parte dei fans, stimolando così
fenomeni di appropriazione e di partecipazione attiva da parte loro. Ne deriva un
franchise di enorme successo commerciale, che segna fortemente sia la storia
recente dell’industria dei media che quella
della cultura popolare ed è composto da
tre film (l’originale e i due Matrix Reloaded
e Matrix Revolutions del 2003), dai nove
cortometraggi di animazione Animatrix
(2003); e ancora, i videogiochi Enter the
Matrix (2003), The Matrix Online (2005) e
The Matrix: Path of Neo (2005); la serie a
fumetti The Matrix Comics, online e poi in
volume (2005); il ricchissimo sito Web e
tante altre propaggini transmediali.
Non è un caso, dunque, che proprio a Matrix, nel suo celebre libro Cultura convergente, il teorico Henry Jenkins dedichi un
ampio capitolo, definendolo il «perfetto
esempio di intrattenimento per l’era della
convergenza» 28. Con l’espressione «cultura convergente», Jenkins descrive un
modello nel quale vecchi e nuovi media
collidono, media popolari e delle corporation s’incrociano tra loro, e potere dei
produttori e dei consumatori interagiscono in forme imprevedibili. Elementi fondamentali di tale modello, culturale più che
tecnologico, sono la convergenza media28
Cfr. Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
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le, la cultura partecipativa e l’intelligenza
collettiva. Tipico della cultura convergente
è il transmedia storytelling, forma di narrazione che s’espande attraverso media
differenti, con ogni singolo testo che propone un contributo specifico e originale
all’interno di un universo narrativo ben più
ampio e complesso (lo Storyworld). Nel
modello ideale di transmedia storytelling,
i media coinvolti sono utilizzati al meglio
delle loro specificità e l’espansione della
narrazione e della diegesi avviene mediante una collaborazione attiva tra l’industria e i fruitori.
Col suo onnivoro impianto tematico, dunque, Matrix, si propone come autentico
film-mondo, perfetto per essere abitato
da utenti sempre più immersi nei flussi
transmediali delle narrazioni contemporanee, più che guardato dagli occhi dei tradizionali spettatori cinematografici. Matrix, infatti, non è più un semplice film, ma
un universo narrativo espanso da abitare e
nel quale immergere i propri sensi, come
in una sorta di realtà parallela metaforizzata in maniera inquietante e acutissima
dalla trama imbastita dai Wachowski 29. Il
topic fondamentale del film, ciò che ne costituisce il centro, è
[…] il tradizionale quesito filosofico sulla
consistenza ontologica della realtà e sulla
possibilità della sua conoscenza, aggiornato all’era della realtà virtuale. In questo
senso, il dubbio filosofico (già cartesiano)
che un’entità maligna abbia generato un
mondo illusorio (e sull’illusione si può risalire alla caverna platonica), si ibrida con la
riflessione teorica sulla natura dei simulacri e della simulazione, della produzione
di mondi virtuali e artificiali propria dell’età
delle immagini digitali 30.
All’epoca del «Cinema 2.0», dunque, lo
sguardo offre sempre minori certezze e
chiede continuamente soccorso agli altri
sensi (“guardare” col tatto e con l’udito?).
Il reale e il virtuale diventano ogni giorno meno distinguibili. Gli spazi mediatici e
quelli fisici fanno parte ormai di un unico
continuum 31. La miniaturizzazione e l’estrema portabilità dei dispositivi di riproduzione del mondo e quella degli schermi
che l’uomo sfiora compulsivamente rendono tali strumenti sempre più simili a protesi del corpo umano. Così, inevitabilmente,
abitare in questo nuovo ambiente sociale e
culturale coincide, di fatto, col farsi abitare
da media che mutano il loro stesso statuto,
poiché
[…] rinunciano a svolgere la loro tradizionale funzione di mediazione tra gli esseri
umani e la realtà per diventare dei protagonisti a pieno titolo della società. Degli attori
sociali potenti con i quali è necessario confrontarsi. I media, insomma, sono sempre
più simili a noi. I media siamo noi 32.
Più che abitare, oggi l’uomo si fa abitare. E i
corpi umani diventano gli schermi sui quali
i media incidono la propria matrice.
29
In un prossimo futuro, una semi-onnipotente intelligenza artificiale ha preso il controllo del mondo
e reso schiava la razza umana per utilizzarla come
propria fonte di energia. La realtà nella quale gli uomini-schiavi vivono, in stato di perenne incoscienza,
è una complessa simulazione informatica denominata Matrix, la Matrice, creata dalle macchine per
nascondere la verità al genere umano.
50 / 51
30
Giaime Alonge, Giulia Carluccio, Il cinema americano contemporaneo, Laterza, Bari-Roma 2015,
p. 179.
31
Cfr. Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo.
Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993.
32
Codeluppi, I media siamo noi cit., p. 9.
critture/
Fosco Maraini da Segreto Tibet, 1951 /
Elio Pecora Via dei Lucchesi 26 /
Maurizio de Giovanni La città da lontano /
Angelo Carotenuto Un salone così grande
Carlos Garaicoa, De como la tierra se quiere parecer al cielo II, 2005. Installazione metallo, luce artificiale, courtesy GALLERIA CONTINUA, San
Gimignano/ Beiijng/ Les Moulins/ La Habana
Carlos Garaicoa, De como la tierra se quiere parecer al cielo I, 2005. Olografie, fumo, luce, metallo, courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano/
Beiijng/ Les Moulins/ La Habana
da Segreto Tibet, 1951
Z
/
S C R I T T U R E
Fosco Maraini
Tuna, Dochen:
alcuni dei luoghi
più belli del mondo
Sull’aggettivo bello bisogna intendersi: se belli
sono soltanto giardini e Conche d’oro, colli e
ville, fontane e aiuole […] allora il Passo Tang,
lo sconfinato Piano dei Tre Fratelli (Tang Pün
Sum), i dintorni di Tuna, i laghi di Dochen, le
muraglie di ghiaccio dell’Imàlaia sono orribili.
La bellezza del Tibet è forte, elementare, sublime; non concede nulla; vorrei dire che non
perdona.
Ieri, in una tempesta e con la nebbia, abbiamo traversato il Passo Tang (4660 m); poi, appena scesi a nord, il cielo si è schiarito e per
tutto il giorno abbiamo percorso una pianura
deserta. Sassi, sassi, sassi, qualche filo d’erba; ed orizzonti. Da un lato, sovrano nei suoi
precipizi rossi coperti di ghiacci e di neve, il
Chomolhari. Dinanzi lontanissime montagne
di forme adunche. I colori erano pazzi: rosso,
giallo, ocra, arancione delle pietre, delle sabbie,
delle rocce; verdolino tenero delle erbe, dove i
ghiacciai scendevano più in basso; viola delle
ombre; azzurro delle lontananze e del cielo;
candore scintillante delle nevi. Poi vento, sempre, come infiniti capelli fluenti che ti carezzino
la faccia, le mani, il corpo, che ti mormorino e
cantino instancabili agli orecchi saghe dimenticate.
Tuna è il nome d’un gruppo di sei o sette case
all’orlo del cielo; si ha quasi paura di parlare;
i rumori dei muli che battono gli zoccoli sulle pietre, le voci degli uomini, tutto si perde
senza eco nell’immensità. Stamattina presto
54 / 55
le cime dell’Imàlaia, là di fronte a noi, erano
spettacolo da non potersi dimenticare. Ognuno sa quanto significhi, per una cosa bella,
l’isolarla; qualsiasi opera d’arte, soffocata tra
altre venti, si presenterà in maniera meno favorevole che non sola. Nelle Alpi le montagne
di vedono sempre da vicino, in folti gruppi. Qui
il Chomolhari si erge invece unico, magnifico,
imperiale, ai confini d’una pianura vastissima.
Da Tuna alle prime colline ci sono miglia e miglia di deserto arancione. Poi improvvisamente la terra s’incurva e si erge; qualche colle
giallo; i ghiacciai; e su, su, le pareti supreme,
rosse, con scintillanti cornici di neve. I colossi
sono circondati di spazio e respiro senza limiti.
Due degli spettacoli più grandiosi della natura
– deserti e ghiacciai – sono qui a contatto. Il
deserto sale, fuoco e colore, a spegnersi sotto
il ghiacciaio; il ghiaccio scende, gelo e luce, a
ingioiellare le pietre. All’incontro un anello di
verde; l’acqua fa fiorire la solitudine.
Dochen – un giorno di cammino più a nord –
è un villaggio di pochissime case, alcune delle
quali sembrano fortezze. Fa freddo. Tira vento.
La solitudine penetra fin nelle stanze; la si sente fra le coperte, la notte; non è più negazione,
mancanza di: è cosa positiva; ha quasi voce e
faccia. Dochen si trova sulle rive del lago Rham.
Il Tibet è cosparso di molti e vasti laghi, oltre ad
essere paese di montagne altissime e deserti
sconfinati. Il Rham-tso è cielo liquido caduto
fra le pietre riarse. Oggi, percorrendone le rive, il
vento (cosa rara da queste parti) s’è calmato e
le montagne vi si riflettevano con straordinaria
limpidezza: sembrava di camminare sull’orlo
d’un abisso di luce.
Via dei Lucchesi 26
Elio Pecora
La grazia di restare, lo stupore
cauto della memoria, il desiderio
che si nutre di assenza,
il canto lieve che pure si chiude
in simmetrie remote,
il pensiero che accelera paure
per negarsi sul baratro e tornare
a un frutto, a una carezza,
la voce da cercarsi nella gola
e farne un segno e nel segno trovarsi,
il viaggio da compiersi, l’attesa
e sempre un’eludibile promessa.
L’ora che trascolora, la stagione
che s’inarca fra i rami e li disfoglia,
la stanza quieta, il vetro che rifrange
nuvole in corsa e fra le nubi ancora
una scaglia violetta:
come a un cenno s’accendono le luci
lungo le strade, sopra le terrazze,
inattesi silenzi dentro l’ansimo immenso.
Sonno, tiepido ventre, empireo immoto,
ma subito lo invadono fantasmi
che ripetono voglie e sviamenti,
risveglio dei mattini, incespicare
di piedi e mani dentro labirinti
di muri e di finestre,
fuggevole specchiarsi:
un’urgenza segreta li sommuove.
Nel cielo stretto nugoli di storni
disegnano e cancellano presagi.
Libero De Cunzo, da Salerno glocal city, 2009/2010
La città da lontano
Maurizio de Giovanni
A volte Ricciardi se ne andava in collina, a guardare la città.
Ci provava, a limitare il tempo libero all’essenziale. Ci provava, a fare in modo che il lavoro si
allargasse a ghermire con i suoi artigli insanguinati tutta la sua vita, per poter avere altro a
cui pensare, per poter distrarre la propria mente malata con la caccia a chi aveva messo altri
morti per la strada. Ci provava a sfinirsi per il doppio delle ore del normale turno di lavoro, per
poi poter tornare a casa e buttarsi sul letto in un profondo sonno senza incubi. Ci provava.
Ma a volte il tempo libero gli piombava addosso imprevisto e inconsapevole, e doveva fare i
conti con la propria solitudine. Era allora che provava a capire qualcosa di più di quella strana città in cui aveva deciso di lavorare, che non era sua e non lo sarebbe mai stata ma che,
stesa di fronte al mare, sapeva essere seducente e misteriosa e volgare e oscena e affascinante come la più bella delle donne, e la più sanguinaria delle criminali.
Lui era un cilentano di montagna. I panorami che si potevano trovare dalle sue parti erano
offerti dalla sola natura, privi di tracce dell’umanità che sfregia. Pecore, qualche pastore.
Case sparse sul tappeto verde della valle, in gruppi di tre, quattro. Il paese stretto attorno
al castello della sua famiglia, poche strade e qualche vicolo, e tutti che conoscevano tutti.
Quella città, invece, poteva essere vista in due modi diversi: dall’interno, immergendosi nei
vicoli dagli sguardi diffidenti, tra i bambini nudi che giocavano tra le galline, nei mercati
delle urla e dei canti e dei fischi, nei teatri di cappellini e cilindri e monocoli e bocchini; o
dall’esterno, arrampicandosi sulla cima di una delle due colline tra il pomeriggio e la sera,
immersi nell’odore dell’erba nuova e dei fiori, ascoltando canzoni indistinte e lontani motori
e seguendo con gli occhi le grandi navi che partivano per i tanti mondi lontani.
Erano due mondi diversi, pensava Ricciardi. O meglio, era la stessa realtà che si mostrava in
due modi diversi. Come una donna, vestita per il teatro o per le faccende domestiche.
Seduto sulla panchina a metà di via Posillipo, con un tappeto di mare e palazzi davanti,
Ricciardi fece un fuggevole sorriso. Una donna, ancora. Chissà cosa c’era dentro di lui che gli
faceva sempre pensare alla città come a una donna. Forse la consapevolezza della propria
incapacità di capirla a fondo, di penetrarne i processi mentali ed emotivi. Forse l’esserne affascinato e impaurito nello stesso tempo, attratto e respinto, incantato e terrorizzato. Forse
perché il suo lavoro l’aveva portato a osservarne la ferocia e l’aggressività immotivata, ma
anche l’incomparabile bellezza. Aveva un punto di vista privilegiato, che pagava affondando
la coscienza nel sangue e nella violenza che scorrevano per le strade.
Con le mani nelle tasche del soprabito e lo sguardo perduto nel vuoto, sorrise al pensiero che
quando girava per i vicoli con Maione o entrava nei bassi faceva di tutto per ricordare quello
che stava guardando adesso, mare e montagna e isole e penisola. Ora che si trovava di fronte a questo spettacolo, non poteva fare a meno di tornare con gli occhi della mente a quegli
anfratti bui, a quell’odore di aglio e maiali e sterco di cavallo, a quelle risate di bambini felici
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nonostante la fame. Il vestito buono e quello per tutti i giorni. La popolana e l’aristocratica.
Chissà perché, si chiese, si accalcano tutti a ridosso del mare. Chissà perché preferiscono
quei vicoli stretti e malsani, e quei palazzi alti e bui uno attaccato all’altro invece di allontanarsi sulle terre di boschi e sterpi incolte attorno alla città. Ripensò ai quartieri nuovi,
quelli che stavano sorgendo nei pressi dell’arrivo della funicolare nuova, alle masserie di
Antignano e dell’Arenella; ma aveva l’impressione che per chi ci andava a vivere fossero un
ripiego, la manifestazione in pietra di una sconfitta. Gli abitanti di quella città volevano stare
in riva al mare, il più possibile.
Strano, perché poi il mare veniva sostanzialmente ignorato. A parte i pescatori che lottavano per la vita contro gli elementi, in una silenziosa, perenne guerra in bilico tra la fame e la
fatica, raramente si andava al di là di una passeggiata nella brezza salata o dei giochi estivi
in spiaggia di giovanotti e ragazze che si sorridevano sperando in un invito per una serata
danzante.
Eppure i vicoli si arrampicavano di malavoglia verso la collina, diradando il proprio popolo
e l’intensità dei commerci man mano che ci si allontanava dall’acqua salmastra del porto.
Banalmente, rifletté Ricciardi, magari si trattava di soldi. Dell’opportunità di trovare lavori e
lavoretti a margine dello scarico delle merci dalle navi che andavano e venivano.
Ne risentivano ovviamente le case. Per la maggior parte della gente si trattava di un’unica
stanza, col focolare da un lato e la latrina dietro una tenda dall’altro, in mezzo un tavolo
attorno al quale ci si accalcava per mangiare forse una volta al giorno, e pagliericci a terra
o al massimo su quattro tavole, il cui sudicio interno intriso di vecchi umori si cambiava due
volte all’anno. Pagliericci sui quali si concepivano e si facevano nascere figli che raramente
arrivavano a compiere cinque anni, che crescevano nei rifiuti e che rifiuti mangiavano.
E negli stessi palazzi che al pianterreno avevano queste condizioni c’erano poi gli appartamenti degli impiegati, degli insegnanti, dei contabili che tentavano di coniugare un minimo
decoro con gli stipendi da fame. Abiti logori ma puliti e rivoltati più volte, bambini smunti e
dignitosi con vestiti da marinaio dismessi dai più grandi e le dita perennemente sporche
d’inchiostro. Famiglie impegnate a mostrare di non essere povere pur essendolo, capaci di
non mangiare pur di passeggiare la domenica per via Toledo sorridendo e salutando con un
cappello nuovo.
Nei piani alti poi c’erano quegli strani animali che costituivano il branco dell’aristocrazia.
Ricciardi, che pure per nome e sostanze avrebbe dovuto riconoscersi in quell’ambiente, lo
fuggiva come una pestilenza. Le ampie stanze l’una nell’altra, i soffitti affrescati, i salotti di
quattro, cinque colori diversi; le cappelle domestiche, con gli antichi reliquiari d’argento, le
icone di santi portati dalla Russia, gli altari in marmo che prendevano intere pareti; le enormi cucine, già popolate da eserciti di cucinieri e servi e ora tristemente abitate da vecchie
governanti piene di dolori.
L’aristocrazia era quella più menzognera. La crisi, il gioco, le donne belle e senza scrupoli
avevano fatto scempio di enormi patrimoni e antiche fortune. I velluti delle tende erano
scuriti dal fumo e dal sole, i tappeti persiani ridotti a sfoglie di carta velina attraverso le quali
si potevano distinguere le trame dei pavimenti, le sedute delle sedie di legno dorato che
lasciavano prendere aria alle imbottiture logore attraverso i buchi del deterioramento.
Certo, i ricchi c’erano. Ma paradossalmente erano quelli che nascondevano le ingenti sostanze derivanti dall’usura e dal malaffare. I nuovi ricchi, commercianti senza scrupoli, reggenti malavitosi, guappi violenti; che non si allontanavano dalle umili origini ma che sfruttavano senza scrupoli i vantaggi del lavoro altrui.
Ricciardi considerò quanto incidessero sul crimine le differenze tra quello che si mostrava e
quello che si aveva in realtà. E quanto bastasse, a volte, entrare nelle case per capire come
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stessero veramente le cose. Mentre davanti a lui il pomeriggio diventava sera e si andavano
accendendo le luci nella parte dei palazzi opposta al tramonto, il commissario rifletté sul
fatto che in poche altre parti del mondo il contatto fra tutti, l’incontrarsi e quindi lo scontrarsi fosse così ossessivamente frequente. Poveri e ricchi frequentavano le stesse strade, gli
stessi portoni. I custodi degli antichi palazzi annaffiavano le lussureggianti aiuole dei giardini nascosti, cercando di preservarne i fiori da bambini dispettosi e da giovanotti innamorati,
e dai balconcini grasse matrone borghesi mercanteggiavano ad alta voce con gli ambulanti,
tre o quattro piani più sotto, calando ad accordo raggiunto un paniere di vimini attaccato a
una corda per tirare su la merce.
Altrove, pensava Ricciardi, non era così. Nelle rare visite ad altre città che aveva fatto, perlopiù in gioventù per istruirsi e cercare di capire cosa volesse dalla propria vita, aveva assistito
a separazioni anche territoriali assai più nette tra le classi sociali. C’era il centro, frequentato
da carrozze con stemmi familiari e signore in pelliccia, e un progressivo degradare fino a
periferie buie e malfrequentate; qui invece il centro e la periferia si mescolavano come il
latte e il caffè dando, luogo a qualcosa che aveva dell’uno e dell’altro senza essere né l’uno
né l’altro.
L’interesse era reciproco. Servi a disposizione in larga quantità per i nobili, e grassi polli
da spennare per i delinquenti. Fiorivano ladri, borseggiatori, rapinatori a mano armata da
un coltello, in attesa nel buio e nelle ombre che passasse un portafogli gonfio all’interno
di qualche tasca. E poco importava se talvolta, troppo spesso in verità, si fosse costretti a
usarlo, quel coltello.
Questi contrasti stridenti rendevano l’intera città una terra di confine. I palazzi affacciavano
da un lato sulle strade nobili, dai bei negozi e dalle vetrine decorate, coi commessi in livrea
sull’attenti, pronti a ricevere in pompa magna i clienti; e dall’altro sul caotico intreccio di
vicoli e sentimenti, immersi in un perenne brusio fatto di dolore e amore, di fame e malattia,
di gioia e vita afferrata con le unghie e tenuta stretta come l’unica ricchezza possibile.
Dalla panchina sulla collina, Ricciardi osservò il buio che calava come una coperta stellata.
Il mare andava punteggiandosi di piccole luci, poste dai pescatori per attirare il pesce e segnalare la propria presenza alle altre barche. Una missione, una piccola battaglia per la vita.
Immaginò le donne, i figli dei pescatori in attesa nelle case del villaggio di Mergellina; la loro
attività di riparazione delle reti, nei piccoli cortili fuori alle strette abitazioni dominate dalla
riproduzione della Madonna della Catena con qualche fiore fresco in un vaso.
Riportò gli occhi sulla città, ormai illuminata nella notte. Una luce per finestra, un lampione
per ogni angolo di strada. Ogni luce rappresentava agli occhi della sua mente il confronto tra
le speranze e le disperazioni, tra la vita e la morte.
All’improvviso si chiese come sarebbe stata quella città dopo cent’anni. Se gli uomini avrebbero abbandonato quel luogo, lasciandolo di nuovo alla natura che ne avrebbe fatto il paradiso che era stato fin dalla notte dei tempi. O se invece le nuove generazioni avrebbero capito che la bellezza si deve coltivare, perché da sola non serve a nulla. O se sarebbe rimasto
tutto esattamente com’era, secondo il principio che l’umanità assomiglia a se stessa e nella
sostanza non cambierà mai.
Pensò oziosamente a quanti e quali di quei palazzi, di quelle stanze e di quelle luci sarebbero
esistite ancora; e quante di nuove ne sarebbero state accese. Se qualcosa sarebbe migliorata, se qualcosa sarebbe peggiorata.
Con un brivido, si alzò dalla panchina.
E a testa bassa prese la via di casa.
Bernardo Siciliano, Panic Attack: Dumbo, 2015, olio su tela, 200 x 240 cm
Bernardo Siciliano, Panic Attack, 2015, olio su tela, 240 x 200 cm
Un salone così grande
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Angelo Carotenuto
La prima volta che misi piede in casa sua, il professor Borraccia aveva lasciato sul fondo
di una ceneriera scorie di sigarette, saranno state almeno una dozzina. Pareva si fosse
divertito a sminuzzare in residui di polvere il suo vizio e a tenerlo parcheggiato chissà da
quante ore di proposito laggiù, a una profondità da cui esalava per noialtri un castigo senza
scrupoli. La seconda volta al fumo pareva essersi concesso perfino più generoso, e dalla
terza in poi non ne parliamo. Non si trattava di amnesia, questo mi fu presto chiaro: era una
cattiva abitudine. Lui accumulava rimasugli puzzolenti, a me toccava invece liquidarli. Non
c’era nulla che mi desse più fastidio. In quell’appartamento di via Labicana avrebbero potuto chiedermi di strigliare il pavimento in marmo fino a spaccarmi la schiena, di stirare una
giogaia di camicie, di preparare la cena per un corpo d’armata, di dare acqua alla Brighamia
insignis e all’Adenium Obesium, di lustrare vetri e tapparelle due volte a settimana – questo
e altro avrebbero potuto chiedermi, e io non avrei detto niente. Tutto compensava la vista
dal terrazzo, il parco del colle Oppio e oltre lo sguardo l’ombra del Colosseo; all’orizzonte opposto il campanile di Santa Maria Maggiore, settantacinque metri ficcati nel cielo di
Roma come la lancia nel costato di Cristo. Tutto accettavo e avrei accettato, tranne mettere
le mani in quella montagna di cenere accumulata senza un perché, al chiuso di un salone.
Sulla questione arrivammo in fretta a un confronto, io e il professore: il nostro mezzogiorno
di fuoco, sebbene del fuoco ci fossero soltanto spoglie, e mezzogiorno quel lunedì fosse
passato già da un pezzo. «Lei non la deve svuotare, Elena, la mia clessidra». Fu così che
me ne accorsi, non ci avevo fatto caso prima. Io ero irritata, lui divertito. Verniciata a polvere
di poliestere, arancione, ma da catalogo disponibile in altri tre colori, questa vaschetta in
alluminio alta quasi un metro e capace di contenere fino a tre chili di roba, con setaccio
amovibile e bordo in pvc alla base, era in realtà una clessidra. Potevi capovolgerla e vedere
la cenere nel suo percorso a ritroso, senza che peraltro lungo il tragitto all’indietro ci fosse
alcuna possibilità di cancellare gli effetti della nicotina dai polmoni. Il bel prodotto costava,
come scoprii più tardi, un paio di centinaia di euro. L’equivalente di una trentina d’ore della
mia fatica. «Lei non la deve svuotare, altrimenti mi toglie la magia e il gusto di vedere il
tempo che passa».
Sono sicuro che Elena a quel punto mi avrebbe volentieri augurato di passare un guaio, il
suo compito era più sacro, lei era lì per espellere gli avanzi quotidiani e i resti della mia vita
agiata, strofinare un panno e spruzzare un deodorante, altrimenti mia moglie e io cosa la
pagavamo a fare. Invece si trattenne dal replicare, la vidi gonfiarsi e poi tacere, non so se più
stupita o esasperata. Che quell’oggetto fosse stato partorito dalla mente del più creativo
designer yemenita del nostro tempo, lei lo ignorava in tutta franchezza e sospetto pure in
totale allegria. Veniva in casa nostra tre volte a settimana, nei giorni dispari, portatrice di
una specie di calore a me e mia moglie estraneo, come un’incarnazione dell’energia termica
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– ecco cos’era quella donna in un corpo ancora da ragazza; un’energia redistribuita in modo
tanto munifico da lasciarci martedì giovedì e sabato in uno stato di equilibrio completo.
Elena era una diminuzione di entropia. Faceva scivolare i suoi joule fra di noi e ci lasciava
con questo nuovo assetto da lei stabilito per le successive ventiquattr’ore. Entrava nel caos
e portava una tregua. Uscendo per andare in facoltà, sapendola impegnata a spolverare i
miei libri nello studio, riuscivo a sentirmi io stesso meno sporco, meno sudato, e se non
avessi timore di rendermi strambo direi finanche più felice. Mia moglie Giuliana cominciò
sin dall’inizio ad avvertire questa presenza in casa come un disturbo, forse annusando il
trambusto psicologico in cui Elena mi gettava; e col tempo sarebbe diventata sospettosa,
diffidente, ma gelosa no, gelosa non subito. Riprese per reazione perfino ad armeggiare
con costanza vicino a fuochi e fornelli, rimettendo mano a certi antichi manuali di ricette
impigriti sugli scaffali, centrando a dire il vero il solo obiettivo di far rimpiangere a ogni sformato di verdure la cucina di Elena, o in alternativa le consegne della rosticceria all’angolo.
La competizione fuori tempo massimo è il terreno sul quale scendiamo per renderci ridicoli.
Di lei, dico di lei come persona, sapevo poco. Che Elena avesse una quarantina d’anni e circa
venticinque meno di me, era palese. Sul resto regnava il mistero, aveva fatto la scelta di
sottrarsi a ogni confidenza. Veniva da Torre Maura, solo questo ci disse, una borgata dove
alle strade hanno dato i nomi degli uccelli; ci sono vie dedicate a passeri e fagiani, a cicogne
colombi e usignoli tutt’intorno al condominio in cui abito, una cinquantina di metri quadrati
a seicento euro al mese, tanto pago per salotto, cucina, camera e servizio. Sull’annuncio
c’era scritto appartamento finemente arredato, quando mai, non era vero, certe cose non
potrò permettermele eppure so apprezzarle. Per fortuna il 313 non passa molto distante,
scendo a Parlatore e da lì col numero 5 fino all’appartamento dei Borraccia saranno un’altra
quindicina di fermate. La storia della clessidra mi fece rabbia perché il professore di me, la
donna delle pulizie, poté pensare il falso. Dovette giudicarmi ingenua e sprovveduta, senza
immaginare che invece sapevo riconoscere nella sedia per gli ospiti in faggio colorato – una
tavola rossa e l’altra blu – la famosa Gerrit Rietveld disegnata nel ’14. Individuai lo spirito
di Charlotte Perriand nel tappeto in pura lana, lo spunto di Pierre Jeanneret nei moduli alle
pareti e le idee di Le Corbusier sia nella chaiselongue su cui il professore si sdraiava a leggere sia nel portmanteau in rovere all’ingresso, con i pomelli in massello tinto. Ma non glielo
dissi allora e non gliel’avrei detto mai. La mia laurea non so neanche dove sia, che fine ha
fatto, probabilmente non l’ho neppure ritirata. Era giovane, Borraccia, ancora un assistente
o forse all’epoca si diceva già ricercatore, quando mi diede un ventotto e mi firmò il libretto.
Per questo casa sua resta la mia preferita fra tutte quelle che giro e che lascio in ordine in
cambio di denaro. Perché mi ricorda cosa sognavo da ragazza.
Vado a servizio anche al Celio dalla famiglia Baffi, all’Aventino dai signori Caporetto, a san
Saba dai Cieri e dai Belardinelli. Arrivo, pulisco e scompaio. La regola che mi sono data è che
non si parla mai di me né della mia vita, io non ne vedo il bisogno, loro non ne hanno diritto.
Se non cominci a farlo, nessuno verrà a chiederti come campi. Ma la mia curiosità in questi
anni è cresciuta giorno per giorno, però Elena niente, non s’è mai aperta, non so chi vede,
come veste la sera, come passeggia nel buio. La sua capacità di tenere le abitudini private
sotto un manto di riserbo è straordinaria. Più si serrava, più avrei voluto violarla. C’è stato
un periodo in cui fantasticavo di seguirla per scoprire qualcosa in più di lei, ci sono andato
a tanto così, finché ho intuito che mi affascinava più l’idea dell’esecuzione. Aprivo gli occhi
e lei c’era, li chiudevo e non se ne andava. È stato quello il tempo in cui la sera mi ripiegavo
sul bordo del letto, desiderando che arrivasse l’indomani per fissare il buco della serratura
e aspettare il suono della chiave, sentirla infilarsi, scivolare in fondo alla toppa e poi eccola,
Elena, vederla finalmente riapparire, a figura intera, dentro casa mia. Solo una volta il pro-
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fessore mi ha detto: Elena, sappia che se lei volesse, potrebbe chiamarmi semplicemente
Mauro. Mi parve una stonatura, non so, una libertà eccessiva. Non seppi perdonarla. Così me
ne presi una anch’io.
Smisi di essere una visitatrice, la casa di via Labicana diventò mia.
Succedeva di tanto in tanto alla domenica, quando sapevo che i Borraccia andavano fuori
Roma, a volte da certi parenti di Salerno, in altri casi partivano per il week-end in Abruzzo,
dove da giovani amavano sciare e dove avevano conservato una seconda casa, dalle cui
finestre me li immaginavo guardare la neve sciogliersi senza che si sciogliesse fra loro due
il silenzio. Arrivavo nella casa vuota la mattina presto, così non avrei corso il rischio di essere
vista da un vicino o di incontrare qualcuno in ascensore. Dalla strada, come ultimo atto di
prudenza, sollevavo lo sguardo verso il balcone e le serrande chiuse, per avere la certezza
del terreno libero, la certezza che quei due fossero veramente altrove. L’agitazione dei primi
tempi lasciò il posto a un’impassibilità che spaventava me per prima. Mi sentivo sempre
più incolume, al riparo, calata dentro una percezione nuova, dentro giorni di festa che finalmente avevano un sapore. Era così bello che presto le domeniche cominciarono a non
bastarmi più. Anticipavo allora il culto al sabato sera e me ne restavo a dormire lì, portandomi dietro lo stretto necessario, più di frequente nulla, se non la mia schiena nuda, su cui lasciavo che strusciasse una delle camicie bianche del professore. Così ho finito per spendere
nella casa dei Borraccia un pomeriggio di Natale, un ponte d’inizio novembre, la mattina del
lunedì di Pasqua e certi passaggi della controra d’inizio agosto, quando mi sentivo investita
dalla missione di restituire libertà a quel luogo, e io stessa di afferrarne, prendendo il sole
in terrazza con il mio piccolo seno al vento. Una volta venni sorpresa dalla vecchia del terzo
piano mentre uscivo, lei tornava forse dalla messa vespertina, io inventai là per là una scusa,
dissi che avevo dimenticato di far trovare il latte fresco in frigo per il lunedì mattina. Solo un
giorno mi venne il dubbio che la signora Giuliana, chissà come, qualcosa avesse scoperto.
Con il marito in facoltà, affidandosi a un lungo giro di parole, si mise a fare riferimenti sul
valore della lealtà, la stima nelle persone, le conseguenze di una fiducia mal riposta. Fu solo
un sospetto il mio, non un timore. Infatti la reazione non fu smettere, la reazione fu alzare
il livello della sfida. Perciò una domenica dopo pranzo – doveva esserci qualche partita di
calcio importante perché le strade erano deserte e dei rumori s’avvertivano solo scintille –
una domenica dopo pranzo afferrai mia sorella, i suoi due gemelli e dissi: «Oggi vi porto a
vedere come sono le case dei ricchi».
Ce so’ cresciuto dentro casa dei Borraccia, mi colava ancora il fraffo e oggi sto al liceo. Mi’
zia ci insegnò a movece e senza lascia’ tracce, briciole e cozzi. Si stava belli attenti a rimett’apposto tutto, prima d’annassene. Nun ho saputo mai com’è che è cominciata questa
storia, nun gliel’ho chiesto, eravamo nell’età in cui si tiene la mano ai grandi, e la mano di mi’
zia era profumata, l’avrei seguita fino a chissà dove. Era lei che veniva a parla’ coi professori,
era lei a ripete che me voleva vede’ sderazzato, io dovevo esse l’orgoglio suo, non l’avrei
dovuta portà la caldarella. Mi’ madre era il tipo che se guardava attorno come se ogni vorta
fosse capitata dentro ‘na nuvola. Quando iniziarono le nostre domeniche da ricchi, s’acchittava a cocimelova co’ certe vesti pecionate, a lei je bastava solo de stennicchiasse sur
divano der professore, diceva A sta così quanto me sento ‘na reggina. I primi tempi pareva
d’esse in gita, d’essere annati come a un museo. Attenti qua, nun toccate là. Imparammo
a guardare da lontano certi quadri e a chiamarli litografie, conoscemmo la porta blindata
e scoprimmo la vasca idromassaggio. Avevano, i Borraccia, pure la cassaforte. È nascosta
dietro una delle cornici nel salone, riccontò mi’ zìa, pare che ci tengano chiusa una pistola;
una pistola domandò mi’ madre, non so se più eccitata o co’ la tremarella, una pistola certo
je ridisse mi’ zìa, e noi una pistola nun l’avevamo vista mai. Mi’ madre per più pulito dire ci
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ripeteva A regà guardate, guardate tutto, che qua se ‘mpara quarcosa pure dar tarallo der
cesso. E ogni pomeriggio era per noi l’America, s’arrivava a via Labicana e spuntava il 1492.
Col tempo mi’ zia prese a fidasse di più. C’erano sempre regole, ma più passava il tempo e
meno eravamo in visita: smettemmo d’essere turisti e cominciammo ad abitare. C’erano
libri a strafottere dentro quella casa, compreso l’atlante der monno più completo: Serbia e
Montenegro erano divise, il Kosovo aveva già un altro colore. Era il posto migliore pe’ studià.
Zia Elena, scoprii, ci aveva portato apposta. Ce ne stavamo ore coi quaderni aperti. Era come
vive dentro una piega, dove la realtà non ci avrebbe mai inseguito. Non c’era manco la televisione dai Borraccia, e all’inizio mi mandava in fissa il pensiero che il professore nun aveva
mai passato un pomeriggio insieme a Giletti. E manco su’ moje. Poi, la domenica, cominciammo a farne a meno pure noi.
Mi sono spesso domandato se Elena non andasse a sfogliare i miei libri per conoscere a sua
volta qualcosa di me. Ho la certezza che ogni tanto posasse le mani sui volumi – anche se
non ho mai capito quando – giacché nel prenderli e riporli non poteva conoscere certe logiche che uso per darmi un ordine, così una volta è capitato di trovare la prima edizione degli
Ossi di seppia di Montale un paio di posti più a sinistra del giusto. Ma era una debolezza che
lasciavo coltivasse. Mi piaceva fantasticare che Elena si fermasse a far carezze alle mie note
a margine, seguendone le linee di grafite con le dita, o che restasse a sgrufolare fra le pagine
i miei appunti, di desiderio piena, come una scrofa tra le carte sudicie. Provai a capire, e un libro glielo regalai. Non si sottrasse, non disse di no. E dopo le poesie di Caproni fu un saggio di
Prezzolini, il catalogo di una mostra su Pazienza, un’antologia di racconti curata da Tondelli,
tutto Elena accoglieva, i soli regali che da me accettasse, e io non smisi, non smisi mai, tutto
accoglievo e i libri accumulavo in casa di mia sorella, per i gemelli, perché potessero costruirsi una piccola oasi di sapere pure lì. Il professore s’era preso la licenza di ritenermi oggetto
della sua attenzione, io mi prendevo l’arbitrio di renderlo ridicolo a sua insaputa. La signora
Giuliana ricominciò a guardarmi male, certi discorsi divennero più frequenti, io facevo finta
di non capire, e nel frattempo era il mio quarto anno in casa loro. Nun se toccava niente
senza aver chiesto prima per favore, nulla si prendeva dal frigo, niente era a scrocco, se non
la felicità. Da piccoletti in quei duecento metri quadri si finiva pe’ giocà a nisconnarella, a mi’
sorella piaceva accecasse in corridoio, mentre io me ne restavo accucciato pure mezz’ora
dentro a n’angolo, in un qualunque posto quieto dove pensa’ all’affari mia, no’ come in mezzo
alla canizza che faceva la pipinara a Torre Maura. Più da barzotti, io già ci avevo sedici anni,
s’andava in veranda con le racchette di ping pong, a mandarci avanti e indietro una pallina
sopra il tavolo di legno verde: tanto, con le pareti insonorizzate, nessuno ci avrebbe mai
sentito. Il momento più magico di tutti era quando un tasto faceva scenne dar soffitto un
telo bianco, allora la casa dei Borraccia diventava un cinema, ‘na vorta se semo fatti pure
i popcorn e mi’ zìa se mise a strippà perché se sentiva puzza de frittura. In quella casa ce
so’ entrato come ‘no stramicione e ho imparato a guardare i film di Fellini, a capire l’arte di
Lichtenstein, a riconoscere le foto di Lee Miller.
Giuliana aveva sempre da ridire, scenate continue, i giorni pari erano l’inferno. Se mi vedeva
euforico, si faceva cupa: «Le hai fatto un altro dono?». Se ero di cattivo umore, sempre
Elena incolpava: «Stai così perché non c’è». Certe volte mi pareva di cogliere il suo profumo
sul collo delle camicie bianche, probabilmente s’impregnavano di lei stirandole. Il prezzo da
pagare per tutto questo brio senile era guardarsi a mente fredda e ritrovarsi assurdo. Lo fu
parecchio anche Giuliana, quando giunse a supporre che Elena entrasse in casa durante le
nostre assenze, straparlava, diceva che non aveva prove ma lo sentiva, perché ormai conosceva le posizioni degli oggetti meglio di lei, e le nostre stanze – come se le stanze avessero
un’anima – la trattavano alla nostra stregua. Vorrei toglierle le chiavi se sei d’accordo – mi
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propose una sera – lo ricordo bene, era un giovedì. È stato il primo istante in cui casa mia
ha smesso di sembrarmi un rifugio dal torto. E domenica mattina la chiave in tasca non
c’era più. L’ho cercata per tutto il giorno, da me, da mia sorella, in strada, sono tornata
sui miei passi, al bar, all’edicola, e di nuovo da me, temendo di averla lasciata chissà dove,
seccata dalla prospettiva di doverlo riferire ai Borraccia, specialmente alla signora, che mi
avrebbe cacciata, di sicuro. Di più mi faceva male la mia prima domenica dopo anni senza
Tana, come chiamavo l’appartamento che pulivo, rassettavo e nei giorni di festa mi godevo.
Considerai mille scenari, fumai un pacchetto intero, passai il mio pomeriggio con un telecomando. Finché verso le otto rientrò mio nipote, con un sorriso che mi parve criminale, la
chiave ce l’aveva lui, me la riconsegnò dicendo Grazie zi’, e dandomi un bacio che aveva un
odore da me dimenticato.
Che hai fatto, gli gridai, che te sei rubato, e corsi in strada come stavo per chiamare un taxi.
Niente m’ero rubato, per chi m’ha preso zia, a via Labicana ce volevo solo annà co’ Bice, ho
lasciato tutto in ordine, però non m’ha creduto. Bice al liceo fa parlà le statue tanto ch’è
bella, me stava a tuzzicà già dall’anno scorso, ma solo adesso s’è accorta di me, lei figlia
di un pezzo grosso ar ministero, ora che nell’intervallo le lascio poesie scritte sul diario, qui
tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. Starsene al
buio dietro via Candia andava bene per un fracoscio, ma questa doveva esse ‘na sera diversa, più solenne. Bice m’aveva chiesto Perché non trovi un posto dove andare, voglio fare
l’amore con te, e a me era venuto un lampo: C’è casa d’una zia, solo che alle sette se ne dovemo annà. Non le pareva vero tanto lusso quando alle tre si sfilò i panni di dosso, restando
fino alle sei nuda in mezzo a ritratti, a gouache, alla gigantografia dell’impronta digitale del
professore dipinta all’ingresso, sopra la parete, perché nelle case dei ricchi girano idee che
a noi non vengono. Abbiamo chiuso le tende e spento le lampade, ci siamo azzuppati sotto
la foto di una pianta di basilico messa a capoletto, ho stretto Bice e lei ha riso, ha riso e ha
detto I miei sul letto hanno attaccato la madonna. Poi per scappare prima che tornassero
i Borraccia, ho pure dimenticato nel salone l’astuccio col braccialetto che volevo regalarle,
altro che rubbà come diceva mi’ zia, e per scoprire cos’aveva combinato mio nipote con
il taxi sono arrivata di corsa, una ventina di minuti alle nove, con un presentimento. C’era
dovunque polizia, immaginai per fare il resoconto sul maltolto. Quando l’ascensore si fermò
al piano, un poliziotto mi bloccò sull’uscio. La voce del professore dall’interno fu il mio lasciapassare: È lei Elena, fatela entrare, è lei la donna sotto accusa. Il week-end dei Borraccia
era finito.
Dentro, sul divano dove mia sorella s’abbioccava, disteso stava un panno bianco, a coprire
il sonno più definitivo d’un altro corpo, sempre di donna avrei detto dalla mano curata che
pendeva verso il basso. Non volevo farle questo, Elena, bisbigliò il professore, non avrei voluta esporla così.
La cassaforte era aperta.
Giuliana riteneva che io avessi acquistato un oggetto per lei, Elena.
Un astuccio rosso. Un braccialetto.
Quando al rientro l’ha scorto sul tavolo di vetro, ha cominciato a urlare, ad accusare me e a
insultare lei, lei Elena conosceva Giuliana, sa quanto fosse cocciuta, parole irriferibili le stava
dedicando, inaccettabili, profondamente ingiuste, credetemi agenti, non l’ho comprato io il
bracciale, non era riservato alla signora, non ne so nulla, non so neppure com’è che sia finito
qui, in casa nostra, vero Elena, lo dica pure lei, non lo sappiamo com’è che sia finito in casa
nostra. Mi spiace che domani abbia tanto lavoro, tutto questo sangue da mandar via, un
salone così grande, non sarà semplice smacchiare, che pena doverle dare tanto incomodo.
La pistola, ancora calda, riposava lungo il marmo un tempo bianco. Quando lasciai casa dei
Borraccia, il professore era seduto sulla sedia degli ospiti, le gambe incrociate, la schiena
dritta. L’ultima volta l’ho visto lì. Ogni tanto dopo tutto questo tempo, quando sono di strada,
ancora alzo lo sguardo. La domenica mai, la domenica non ci passo.
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isioni/
Guglielmo Gigliotti Cosmico Klein /
Marco Di Capua Tutte le palazzine del mondo /
Lea Mattarella Fotografare l’altra metà /
Gea Casolaro To feel at home / Sabina
de Gregori Titina Maselli cittadina di se
stessa / Renato Lori Dentro lo spazio scenico /
Andrea Zanella In giro per bordelli, tra arte,
cinema, letteratura
Cosmico Klein
I progetti per l’architettura immateriale del pittore del blu
prevedevano edifici delimitati da getti d’aria compressa
e per tetto il cielo
Z
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V I S I O N I
Guglielmo Gigliotti
«L’Azur! L’Azur! L’Azur! L’Azur!»
Stéphane Mallarmé 1
Il capolavoro di Yves Klein (1928-1962) è il cielo. Aveva 18 anni quando, dopo lunga e acuta
osservazione dell’azzurro sulla sua testa, lo firmò. In seguito definì il cielo la sua prima e più
bella opera; senza tema di dubbio è il ready made più grande della storia dell’arte. La monocromia blu dei suoi dipinti è figlia di questa immedesimazione nello spazio infinito, questo
volo nel colore senza dimensioni, che è per Kandinskij il colore della calma, per Jung il colore
dell’inconscio, sicuramente è il colore del vuoto.
«Qualcosa che non è mai nato e mai morto» 2, questo era il blu per Yves Klein le Monochrome, come amava firmarsi: monocromo era infatti lui stesso. In questa identità di gesto
artistico ed essere sta la chiave di lettura della concezione kleiniana di abitazione.
Nel 1958 assieme all’architetto tedesco Werner Ruhnau, Klein realizzò progetti inerenti
quella che chiamava l’Architettura dell’aria, ovvero edifici delimitati da correnti d’aria compressa che usciva a potenti getti da solchi nel terreno. Sono architetture immateriali, dimore
trasparenti, abitate da chi, come Klein, percepiva il mondo come il suo atelier e l’universo
come materia prima dell’arte, e sicuramente, alla stregua di Pessoa, «come cella infinita in
cui sentirsi liberi» 3.
Klein non scherzava. L’Architettura dell’aria era un’utopia, ma una utopia vera, una possibilità oggettiva della mente espansa, una condizione della psiche quando è connessa con
l’ineffabile che ci circonda. E siccome non scherzava, quando Ruhnau gli fece notare che ci
sarebbero stati problemi tecnici per la realizzazione del tetto, lui non si scoraggiò, c’era il
cielo, tetto d’aria azzurra.
Yves Klein, fragile e forte come tutti i sognatori, o forse come tutti gli esseri umani, non riusciva a distinguere tra la sua arte e la sua vita: «Un uomo deve dipingere un unico capolavoro: se stesso in eterno», scrisse in un suo diario. La sua breve vita, conclusasi con un infarto
a 34 anni, fu esistenza densissima. Aveva fretta il giovane Yves, doveva dissolvere il proprio
ego nell’etere prima che lo facesse la natura col compiersi del suo destino terreno. Perdere
di gravità, levitare nell’aria è stato un suo sogno di bambino e un suo progetto da adulto.
1
Stéphane Mallarmé, L’Azur, in Poesie, Feltrinelli, Milano 2009, p. 34.
Tutte le citazioni da Yves Klein di questo articolo sono tratte da: Giuliano Martano, Yves Klein. Il mistero
ostentato, Edizioni Martano, Torino 1970.
3
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano 2000, p. 123.
2
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Il volo di Yves Klein,
nella fotografia
intitolata Il pittore dello
spazio salta nel vuoto,
1960
La fotografia del 1960 che lo immortala
sospeso in un salto da alto muro colpisce
in profondità la nostra coscienza, perché
l’aspirazione alla leggiadria alberga in
tutti, e il sogno del volo, il complesso di
Icaro, la volontà di emulare l’aria è parte
del nostro inconscio collettivo.
La didascalia della fotografia, una delle immagini simbolo dell’arte del ’900,
recita «Il pittore dello spazio salta nel
vuoto». Ecco, il primo grande pittore monocromo sistematico dell’arte moderna,
il cantore del blu, non parla di colore, ma
di spazio. Tanto che, sulla stessa pagina
del «Dimanche» dove apparve il salto nel
vuoto (la finta pagina di giornale da lui
creata, nel novembre del ’60, come opera a sé), compare anche la fotografia di
un suo monocromo blu, accompagnato
dalla scritta: «Lo spazio stesso».
Le superfici coperte uniformemente di
quella materia luminosa e avvolgente che è l’International Klein Blue (il cui
marchio fu depositato nel 1960 dall’artista presso l’Ufficio brevetti francese) sono pittura in
senso tecnico, ma non in senso concettuale, perché in verità sono memorie, traslate su tela,
del mare interiore dell’inconscio, in cui tuffare lo sguardo, sono cieli mentali in cui librarsi e
in cui edificare case di sola aria.
Quando qualcuno dava a Yves del pazzo, lui rideva. Gli amici più cari (Arman, Tinguely, Restany, sua moglie Rotraut Uecker), raccontano che rideva proprio tanto, perché pazzo per lui
era chi non sapeva riconoscere il carcere mentale in cui è rinchiuso l’uomo. E così rideva di
sé, di tutti, del mondo. E quando qualcun altro, più avveduto e informato, gli faceva notare
che lui era un seguace di Malevič, che il primo monocromo della storia, Quadrato bianco su
bianco, lo aveva dipinto nel 1917 4, lui rispondeva che era esattamente il contrario: lui era
addirittura un precursore di Malevič. Un folle? Sì, se follia è ritenere che è importante non
chi sia arrivato prima, ma più in profondità. Il blu, colore dello spazio totale, rovescia la storia
dell’arte e progredisce a ritroso, puntando vero l’origine, in quel punto della mente e dell’universo in cui coincidono spazio infinito e tempo infinito, Klein e Malevič, la vita e il volo. Ma
anche la vita e la morte.
Nel marzo del ’62, tre mesi prima di morire, Klein si fece fotografare dalla moglie Rotraut
(sorella dell’artista Günter Uecker), steso a terra e coperto da un monocromo d’oro (uno dei
suoi «Monogold») cosparso di rose, e titolò la fotografia Qui giace lo spazio. Lo spazio era
lui. Lo spazio è di chi è disposto a rinunciare a ogni separatezza e limitazione, per identificarsi con l’Uno.
Yves Klein era seguace del buddhismo zen e amava praticare la meditazione del respiro,
4
La storiografia è incerta sulla data corretta di questa fondamentale opera, non avendo mai l’autore
datato i suoi dipinti e facendoli oscillare nelle sue testimonianze scritte da un anno a un altro. Di qui,
l’opera in questione è da taluni storici dell’arte ascritta anche al 1918.
V I S I O N I
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Z
nella posizione del loto, soprattutto di notte, quando, preso da mille pensieri e visioni, non
riusciva a calmare il suo animo sovreccitato 5. Al buddhismo si era avvicinato già diciottenne,
nell’immediato secondo dopoguerra, con gli amici Arman e Claude Pascal, ma importante
fu anche la frequentazione del centro di judo Kodokan di Tokyo, durante il suo soggiorno
giapponese del 1952. In quanto buddhista, Klein sapeva che risultato finale di ogni pratica
artistica è l’opera interiore, che non va cercata ma trovata, immergendosi in se stesso 6. In
se stesso Klein scovò ipotesi di infinito. Come rappresentarle?
Il 28 aprile 1958, giorno del suo trentesimo compleanno, Klein tenne presso la Galleria Iris
Clert di Parigi una mostra all’incontrario, della durata di un solo pomeriggio: svuotò di mobili
la galleria, la tinteggiò di bianco e la titolò Le Vide. Non espose nulla, espose il nulla. Espose
il vuoto e permise ai visitatori di sentire la pienezza del proprio esserci, tanto che Albert Camus, sul libro delle firme, scrisse: «Con il vuoto, pieni poteri». Con questo vuoto ready made,
trovato da ciascuno liberatoriamente in se stesso, lo spazio della galleria diventava materia
prima dell’arte.
Il passaggio concettuale alle dimore d’aria è ora minimo, perché soprattutto connesso a
una questione di proporzioni: dalla galleria finita all’universo infinito. Un passaggio mediato
da un’altra esperienza kleiniana di an-arte, le Zone di sensibilità pittorica immateriale. Non
sono oggetti, ma puri concetti. Sono opere che Klein «realizzava», a partire dal 1958, solo
mediante visualizzazione interiore di suoi monocromi blu, in forma di vibrazione mentale
o, se si preferisce, di pittura immateriale. Le vendeva pure, queste non-opere, in cambio di
lingotti d’oro che in parte venivano polverizzati e aspersi nella Senna. Al compratore (tra cui
ci fu anche Dino Buzzati) rimaneva in mano solo una ricevuta, ma per poco. Impegno dell’acquirente era infatti di distruggere la ricevuta, e partecipare mentalmente all’esperienza di
un’arte interiore.
L’Architettura dell’aria è proprio questo, un’architettura interiore, di implicazione cosmica.
La sua componente utopica è sostanziale al suo esserci: deve essere un sogno collettivo,
una grande apertura che comprenda il tutto. Qualcuno lo chiama Dio, qualcuno non-io. In
entrambi i casi, una cosa molto seria, talmente tanto da scatenare in Klein, quando ne parlava, il riso liberatorio di cui sopra. Bastava in fondo poco per essere felici, bastava rinunciare
alle prerogative dell’io separante, e disporsi ad accogliere l’immensità della vita, senza sforzo, senza fare niente, neanche l’arte.
L’architettura invisibile è un punto di approdo della poetica del vuoto di Klein. Non progettò solo singoli «edifici», ma intere città. Suo compagno d’avventura fu, come detto, Werner Ruhnau (morto novantatreenne il 6 marzo del 2015), progettista, tra l’altro, del Teatro
dell’Opera di Gelsenkirchen, per il quale Klein realizzò, tra il ’57 e il ’59, quattro giganteschi
monocromi blu con rilievi di spugna, con basi di 20 metri e altezza fino a 7 metri. Nella cooperazione sul cantiere, nella convivialità del quotidiano, Klein inizia a parlargli dell’architettura fatta d’aria. Dirà in seguito Ruhnau: «Pensare in simili dimensioni utopiche allora era
concesso» 7. Fatto sta che l’architetto e il pittore dello spazio iniziano a lavorare insieme al
progetto, arrivando a stilare e a cofirmare nel 1958 il Manifesto per un’architettura dell’a5
La religiosità di Yves Klein era tuttavia, per quanto acuta, sincretica. La consonanza con pratiche e
teorie della mistica dell’Estremo Oriente non confliggevano, nel suo animo duttile e profondo, con una
aderenza, pure viscerale, a credo e credenze cristiane, a principiare dal suo culto per Santa Rita da
Cascia. Nella città umbra, sede del culto della «santa delle cause impossibili», l’artista francese si recò
quattro volte dal 1958 al 1962, in pellegrinaggi svolti per chiedere grazie, protezione, oltre che per portare ex-voto. Celebre l’ex voto costituito da un contenitore di plexiglass con scomparti per pigmento rosso,
pigmento blu e polvere d’oro.
6
Cfr. Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi, Milano 2002.
7
Noemi Smolik, Intervista a Werner Ruhnau, «Kunstforum International», n. 129, 1995, p. 392.
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Un monocromo di Yves
Klein del 1960
ria. In esso si legge, tra l’altro: «Il principio del
segreto, sempre presente nel nostro mondo, scompare in questa città bagnata dalla
luce e completamente aperta verso l’esterno. Una nuova atmosfera d’intimità prevale.
Gli abitanti sono nudi. La primitiva struttura
della famiglia patriarcale non esiste più. La
comunanza è perfetta, libera, individualista, impersonale. La principale attività degli
abitanti: il riposo» 8. È l’Eden. Lo dice chiaramente Yves Klein: «Il mio scopo originario era
rinnovare la leggenda del Paradiso perduto».
L’Architettura del Paradiso dissolve tutte le
barriere, perché in uno stato di armonia tutto è se stesso, in piena elementare serenità.
Nulla da nascondere, tutto è.
Gli strumenti per realizzarla, oltre la disponibilità al volo da fermi, sono, come detto,
pareti d’aria compressa, possibilmente calda, per tutelare dal freddo, ma anche con la
possibilità di sostituire i getti d’aria dal suolo con cascate d’acqua dall’alto: anche in questo
caso calda.
È interessante la convergenza, anche temporale, del visionarismo architettonico di Klein con
quello del filosofo e sognatore Gaston Bachelard, espressa, nello stesso 1958, nel suo libro
Poetica dello spazio: «La mia casa è […] diafana, ma non di vetro. Apparterebbe piuttosto
alla natura del vapore. I suoi muri si condensano e si allontanano secondo il mio desiderio.
Un’immensa casa cosmica si trova in potenza in ogni sogno di casa. […]. Una casa talmente dinamica che permette al poeta di abitare l’universo, o per dirla in altro modo, l’universo
viene ad abitare la casa» 9.
Abitare l’universo. Non è il destino dell’uomo e di tutto ciò che vive?
Storicamente l’Architettura dell’aria è opera pre-concettuale, un assaggio in chiave utopistica di tanta land art degli anni a venire. È arte di puro pensiero, quando l’essenza si specchia in un’assenza. I voli mentali di Klein anticipano quindi tanta arte concettuale, comportamentale e immateriale degli anni ’60 e ’70, stagione in cui l’arte non si vedeva più perché
era diventata tutto ed era andata ovunque. Pierre Restany definì il suo amico Yves «l’ultimo
profeta d’Europa». Eppure questo faro delle avanguardie aveva solo acceso una luce interiore. Si era preoccupato di riportare l’arte nella vita, realizzando quello che Duchamp, altro
profeta interiore, aveva definito «un’opera d’arte senza opera». Questa «opera» è la vita, o
meglio, secondo le parole di Klein, «la vita vera, che è arte assoluta». E ancora: «Per me la
pittura oggi non è più funzione dell’occhio, essa è funzione della sola cosa che non ci appartiene: la nostra VITA».
Yves Klein sapeva che sarebbe morto giovane, perché solo con la morte sarebbe diventato
come le sue opere invisibili, solo con la sua morte sarebbe diventato immateriale. Pochi
giorni prima di morire, il 6 giugno 1962, scrisse sul diario: «Ora voglio andare oltre l’arte,
ed entrare definitivamente nel vuoto. Voglio morire e voglio che si dica di me: ha vissuto,
perciò vive».
8
Pierre Restany, Yves Klein le Monochrome, Hachette, Parigi 1974, p. 231.
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 2006 (ed. orig. La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957).
9
Maziar Mokhtari, Former flour factory, 2013
Tutte le palazzine del mondo
Incontro con Giorgio Ortona
Z
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V I S I O N I
Marco Di Capua
Ortona, parlaci delle tue fonti, hai molte radici no?
Sai, sono attratto da una particolare luce del sud, forse proprio in virtù delle mie origini.
Infatti tocco cinque paesi del Mediterraneo: la Libia perché nato a Tripoli, Israele come
ebreo, l’Italia, e mia madre che era di ascendenza franco-tunisina. Da qui l’aggiunta del
cognome materno (Journo) quando siglo i miei lavori, anche se non parlo nessun’altra
lingua.
Nascere a Tripoli per me è stato, che so, come nascere a Cuba. Una questione di latitudine,
di colori, odori e profumi, come quello intenso del pane arabo appena sfornato, che ho
ricercato inutilmente per tutta la vita.
Che ricordi hai di Tripoli?
I più vividi riguardano quelle persiane in legno color verde acqua, ma anche le terrazze, e
in particolare la terrazza della mia casa d’infanzia che si affacciava sul lungomare e dove,
dall’alto, vedevo palme con le relative ombre, nette, molto nette, più nitide di quelle che ho
successivamente visto in Sicilia.
Questa sensazione l’ho rivissuta in pieno quando negli anni ’70 vidi per la prima volta un
catalogo di Antonio López García. Al posto delle palme, però, c’erano le palazzine di Madrid, ma per me era lo stesso.
Quei quadri e quei disegni erano come se li avessi eseguiti io: ero io. Un “io” che fino a quel
momento non pensavo di essere. Utilizzai López per pensare a una pittura che non fosse
più la sua, ma che immaginavo López non fosse più in grado di raggiungere, per esaustività. Ora toccava a me…
Lo hai conosciuto di persona vero?
Sì, il primo incontro è stato a Roma, all’Accademia di Spagna, nel 1996, a un mostra collettiva dei realisti spagnoli. Con lui c’erano María Moreno, Francisco López Hernández e
Isabel Quintanilla. Il giorno dell’inaugurazione López era inavvicinabile, troppa gente. La
mattina successiva, l’accademia era vuota, anzi c’era López con un giornalista del «Corriere della Sera» e basta. Finita l’intervista, mi ritrovai da solo con lui davanti a uno dei suoi
capolavori: Madrid sur. Era l’unico suo quadro esposto, ma accidenti bastava! I restanti 56
erano degli altri tre.
Lo interrogai a lungo sulla sua pittura e ciò che mi colpì, quando cercò di spiegarmi alcune
cose, fu il polpastrello del suo ditone da agricoltore toccare con violenza la superficie del
quadro, quasi a sporcarlo. Un quadro di inestimabile valore. Era López, e con quel gesto
capii molte cose…
Poi, l’anno dopo venni selezionato per un corso internazionale in Spagna, diretto proprio
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Giorgio Ortona
Le palazzine di San
Paolo del Brasile
2015
olio su tavola
36 x 82 cm
da lui e da qui iniziò un rapporto professionale per me estremamente fecondo, tanto che,
nel 2011, venni da lui stesso segnalato per partecipare alla Biennale di Venezia nel Padiglione Italia, curato da Vittorio Sgarbi.
Cosa significa per te essere un artista ebreo?
Mettiamola così: quando mi sveglio la mattina, non me lo ricordo mai, assomigliando un
po’, in questo, a Josif Brodskij. In effetti me ne ricordo, a volte, quando qualche squadra
israeliana di calcio (di solito il Maccabi di Tel Aviv) gioca in qualche coppa europea. Tifo
come un forsennato e in solitudine. La mia solitudine è forse quella stessa dell’ebreo che
ho scelto di essere, quello che vive ai margini, in un territorio di confine, di confine anche
nello stesso ambiente ebraico, dato che di religione non so quasi niente ed ho sempre rivendicato con forza la mia laicità. Isolato perfino all’interno della famiglia, e probabilmente anche in quello della pittura. Da adolescente ovviamente ne soffrivo, ma nella maturità
questo l’ho fatto diventare un mio punto di forza.
Hai studiato architettura e sei diventato il pittore delle palazzine romane, di certe periferie, che però non sono tanto periferiche, ma di mezzo centro, di mezza periferia…
Le palazzine che dipingo, ma che soprattutto disegno, (perché a me interessa più la forma dell’oggetto che non la sua pellicola cromatica) sono architetture degli anni ’60 e ’70,
quelle del boom economico e del periodo immediatamente successivo. Tor Bella Monaca
non mi ha mai interessato, a Corviale potrei pensarci.
Comunque hai ragione, la mia è una città di mezzo, semiperiferica. L’estremo, per me, è
demagogico, politicizzato, paradossalmente non reale, quasi fumettistico.
Riguardo al tema della “palazzina”, posso dire che è solo una coincidenza che quella che
prediligo esteticamente sia quella romana, ed è quindi un grande vantaggio il poterci vivere.
Le palazzine delle altre città italiane hanno caratteristiche differenti, e comunque ogni
luogo ha il proprio prototipo di costruzione. Quelle di Milano sono sicuramente differenti
da quelle torinesi, e quelle napoletane da quelle di Palermo. Mentre le “palazzine romane”
quasi sempre non superano i sette piani, e questo perché la Basilica di San Pietro deve
dominare lo skyline della città, quelle di Napoli e Palermo, ad esempio, raggiungono i dieci
piani o anche più. E già questo le fa assomigliare a delle figure allampanate, meno compatte, più squilibrate. A me non piacciono! L’equazione è questa: la palazzina romana sta
a un centometrista così come quella palermitana sta a un fondista.
Giorgio Ortona
Le palazzine di Kiev
2013
olio su tavola
40 x 102 cm
Ma qualunque città d’Italia e anche del mondo può avere in catalogo la palazzina perfetta
che coincide con il mio canone formale. Certo bisogna trovarla, e a me piace molto girare
per le città che non conosco, senza mappa.
Cioè? puoi spiegarci meglio?
Guarda, davvero cominciano a non bastarmi più le palazzine di Roma, in fondo quelle che
a me interessavano le ho forse dipinte tutte.
Ad Atene ne ho trovate molte, e sicuramente le città della Grecia sono un grande serbatoio. Così come quelle turche, abbastanza simili. La Francia non ne possiede, neanche
Marsiglia ad esempio, che si differenzia dalle altre città francesi, e poi è una città troppo
bianca, così come lo è Algeri, priva di colore. Del Maghreb trovo molto ricca Il Cairo, forse
anche perché megalopoli e, sono certo che, seppur nascosta, la “palazzina romana” là c’è!
E poi, le città dell’America latina, molto mediterranee: Buenos Aires o Santiago…
L’America del nord non ne ha. Sono tutte ville e villini, dove, escludendo le grandi metropoli, sembra di ricordare le “Cerveteri" e le “Ladispoli” nostrane, solo un po’ più patinate.
Ottima per me Tel Aviv, con il suo Bauhaus casereccio e un po’ dozzinale, ma stimolante da
disegnare. Oppure Bombay e Calcutta in India e certe città dell’ex Unione Sovietica come
ad esempio Kiev. Nel mondo ci sono le altre “Palazzine di Roma”. E non credo che rimarrò
sprovvisto di materiale per i prossimi anni.
C’è questo tuo modo di eseguire che costruisce l’immagine con precisione mentre al
tempo stesso la disfa, e la lascia nell’incompiuto…
Una volta scelto il soggetto, eseguo con esattezza la forma dell’oggetto, ed in questo
modo mi approprio di una sorta di astrazione assoluta. Ricerco l’astratto, non la realtà,
so che è un paradosso. Cerco l’astratto perché vorrei trovare la pittura allo stato puro. Mi
servo del reale per farne altro! Ecco perché una volta analizzata la forma, la distruggo, la
spengo, la ammutolisco, o addirittura la raddoppio o la triplico, e raddoppiandola è come
se la consegnassi al nulla.
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Giorgio Ortona
Le palazzine di Roma
2015
olio su tavola
58,5 x 62 cm
Fotografare l’altra metà
Incontro con Olivo Barbieri
Z
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V I S I O N I
Lea Mattarella
Olivo Barbieri, tra i grandi della fotografia, attraversa le città di tutto il mondo. Le guarda
soprattutto dall’alto, a volte con una messa a fuoco selettiva, altre con un’avventurosa
luce artificiale.
Cos’è per lei la città?
È quanto sta dentro, alle periferie, o alle borgate o agli slum. È, in Oriente, il più grande
esperimento mai tentato dall’umanità, per estensione, complessità, sostenibilità.
Com’è cambiato il suo punto di vista sul paesaggio urbano dai tempi del «Viaggio in Italia» (un pezzo di storia della fotografia condivisa con Luigi Ghirri) a oggi?
Allora apparentemente, forse illusoriamente, tutto sembrava collegato, anche se non c’erano Internet e i telefonini. Esistevano esplicitamente meno gerarchie. Ora tutto mi sembra meno universalmente condiviso, più codificato: “il bar dei cinesi”, “i negozi extralusso”.
Siamo molecole autosufficienti che non hanno necessità di comunicare fisicamente con
i luoghi e le persone.
L’illuminazione artificiale la aiuta a scoprire una città diversa da quella consueta?
Il mio interesse per l’illuminazione artificiale prende vita in due momenti, prima, istintivamente, all’uscita dal cinema dove vidi Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola.
Quando vidi la scena della foresta tropicale illuminata dai bengala, decisi che trovare immagini simili sarebbe stato quello che avrei fatto. Poi, razionalmente, studiando la storia
della fotografia mi resi conto che, stranamente, nessuno aveva mai fotografato le città di
notte a colori. L’illuminazione artificiale è l’altra metà del nostro tempo, appare circa negli
stessi anni in cui nasce la fotografia. Sono due elementi imprescindibili della modernità e
del nostro modo di vivere.
Spesso lei inquadra le città dall’alto, in che modo lavora?
Mi servo principalmente di elicotteri, raramente di piccoli aerei. Produco migliaia di immagini di cui ne conservo mediamente una dozzina, a volte meno. Ciò che mi interessa è
il racconto della forma della città/metropoli contemporanea.
È vero che non potendo riprendere Pechino da un elicottero ha deciso di fotografarne il
modello? Cosa significa il passaggio dal piccolo al monumentale e viceversa?
Si è vero. Nel 2008 non ottenni il permesso di sorvolare Pechino. La molla scattò quando
appresi che esisteva un enorme plastico in scala dove tutto il costruito era precisamente
rappresentato. Il passaggio dal piccolo al monumentale e viceversa è un esercizio fonda78 / 79
Olivo Barbieri
site specific_HOUSTON,
2012
courtesy Yancey
Richardson Gallery,
New York
mentale per capire. Rende possibile mettere in relazione forme, luoghi e concetti. Scoprire
nuovi significati, possibilità, errori.
Le è venuto mai desiderio di entrare con il suo obiettivo in uno di quegli edifici che inquadra da fuori, li vede mai come abitazioni e non come forme?
Ho fotografato l’interno di edifici pubblici come le chiese e i cinema negli anni Ottanta, poi
gli stadi, i tribunali e i centri commerciali negli anni Novanta, ma anche le normali abitazioni cinesi, quando non ne esisteva ancora un’iconografia fruibile.
Z
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V I S I O N I
Lei è molto attratto dall’Oriente, com’è nato questo interesse?
L’arte orientale mi ha sempre attratto molto, le stampe giapponesi, ma anche la statuaria
indiana. Avevo amici che studiavano cinese e vivevano in Cina. Vedendo le fotografie che
scattavano mi resi conto che stava accadendo qualcosa di epocale. Andai in Cina per la
prima volta nel giugno 1989, casualmente durante i fatti di Tienanmen. Evento tragico
che sancì il grande cambiamento, della Cina e forse degli equilibri del mondo. Da allora ci
sono ritornato quasi ogni anno. Ho accumulato un ponderoso archivio di immagini. Il mio
prossimo impegno sarà di raccogliere questi materiali in un unico progetto di libro e mostra. L’illuminazione artificiale è l’altra metà della vita, l’Oriente è l’altra metà del mondo.
Lei ha iniziato molto presto a fotografare a colori, in un momento in cui era prevalentemente il bianco e nero a essere considerato degno di uno “scatto artistico”. In questa
sua pionieristica scelta c’entra qualcosa il suo sguardo sulla metropoli?
A sedici anni, in una giornata piena di luce, in vacanza al mare mi annoiavo e sfogliando
delle riviste illustrate mi chiesi come mai non ci fossero immagini a colori di ciò che vedevo alzando gli occhi. Ebbi la certezza che la fotografia a colori sarebbe stata una delle arti
più importanti del secolo scorso.
Lei che ha girato tanto dove ha deciso di vivere?
Vivo a Carpi (Modena), a poche centinaia di metri dalla casa in cui fui partorito, che ora
non c’è più, perché demolita per fare spazio a una tangenziale. In realtà, forse vivo nei miei
pensieri.
E dove non vivrebbe mai di tutte le città che ha fotografato?
Forse Dubai, anche se mi attrae.
Qual è la sua città elettiva, il suo luogo dell’anima?
Ovunque. Tutte le città dopo una settimana mi restituiscono l’inquietudine di andare in un
altro luogo.
Olivo Barbieri
site specific_ISTANBUL
2011
courtesy Yancey
Richardson Gallery,
New York
Olivo Barbieri
site specific_SHANGHAI
2004
courtesy Yancey
Richardson Gallery,
New York
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To feel at home
Z
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V I S I O N I
Gea Casolaro
Nel 2002, l’artista Bernardo Giorgi invitò un gruppo di colleghi ad accompagnarlo nel suo
progetto Between Dresden & Prague per realizzare ognuno un proprio lavoro sull’idea di
frontiera, lungo il viaggio a più tappe tra queste due città.
Io misi a disposizione del pubblico dei fogli bianchi con una frase in tedesco o in ceco, di
descrivere l’esterno della propria abitazione con testi e/o disegni. In un secondo momento, con i fogli compilati, andai a cercare degli edifici che corrispondessero a quelle descrizioni in un paese dall’altra parte del confine, rispetto a quello dei singoli passanti. Così,
case descritte da abitanti tedeschi furono fotografate in Repubblica Ceca, e viceversa.
Perché che differenza c’è tra noi e le persone che si trovano dall’altra parte di un confine?
Di sicuro abbiamo tutti le stesse paure, le stesse necessità, lo stesso sollievo nel sentirci
finalmente a casa. Ovunque essa si trovi.
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Gea Casolaro
To feel at home
2002
opera partecipativa
carta, testi, disegni e
foto su forex
6 dittici 29 x 52 cm cad.
courtesy Gea Casolaro
e The Gallery Apart
Titina Maselli
cittadina di se stessa
Z
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V I S I O N I
Sabina de Gregori
Se c’è stata un’artista che ha fatto della città un luogo da abitare, questa è senz’altro
Titina Maselli.
Nata a Roma l’11 aprile del 1924 in una famiglia colta, creativa e intellettuale, Modesta
Maselli proveniva dalla borghesia illuminata: suo padre Ercole Maselli era un critico d’arte
legato agli ambienti della pittura romana degli anni Trenta e la madre Elena Labroca faceva
parte di una famiglia di musicisti imparentata con i Pirandello. La sua casa, in cui si respirava uno spirito democratico e sostanzialmente antifascista, era il luogo d’incontro dei grandi
protagonisti della più illustre cultura novecentesca, da Luigi Pirandello a Silvio D’Amico.
«A dipingere avevo cominciato presto, a undici anni. Mio padre Ercole era un critico d’arte
militante, ma a me non interessavano gli artisti di cui si occupava, la Scuola Romana, il
tonalismo, la metafisica. Quando a vent’anni cominciai ad andare in giro per la città per
catturarne le immagini, per me la Roma monumentale, barocca o imperiale non esisteva, non avevo nessuna passione per il paesaggio romano. Cercavo la città moderna, e
mi sembrava di scorgerla in un suo aspetto notturno e calcinoso» 1. Parlava così Titina
Maselli, che subito dopo la guerra usciva di notte con il suo cavalletto, aggirandosi in una
Roma fatta di detriti, povera e mortificata dalle bombe. Uno dei suoi luoghi prediletti era
piazza Fiume, nei pressi di Porta Pia, che ha raffigurato molte volte rendendola irriconoscibile. Era il suo archetipo di modernità, quello che per lei era la città.
Dopo il matrimonio con Toti Scialoja nel 1945, la Maselli tenne la sua prima mostra personale alla Galleria L’Obelisco. Era il 1948 e a presentarla in catalogo fu Corrado Alvaro che
ne sottolineava in modo convinto la grande forza innovativa: «[…] Ella ardisce di mettere
in un quadro un telefono, una macchina da scrivere, una di quelle cartacce che la notte
fanno un grumo bianco sull’asfalto della città. […] Titina Maselli affronta qualcosa di più
forte, la notte della città, delle strade desolate, dei dintorni delle stazioni, la massa degli
edifici moderni che certo involontariamente ma felicemente le si atteggiano in qualcosa
di già veduto, di antico. È a questo punto che il ricordo o la memoria e la cultura collocano
i suoi oggetti in un’altra atmosfera. È oggi ed è ieri» 2.
Già durante la sua formazione artistica aveva concentrato l’attenzione sul tema urbano in
tutti i suoi aspetti: tra i luoghi che amava rappresentare c’erano persino gli stadi.
L’attenzione di Titina non si concentrava sulla città monumentale, classica, bensì su
quella periferica, priva di identità, irriconoscibile. Per lei la natura non aveva alcun tipo
di interesse, si sentiva una cittadina moderna; in tutta la sua produzione non c’è un solo
1
La citazione è tratta da Elisabetta Rasy, Titina e i suoi esili, quel vizio del ritorno, «Corriere della Sera»,
a. XI, n. 14, Milano, 10 giugno 2004.
2
Corrado Alvaro, Titina Maselli, cat. mostra, Galleria L’Obelisco, ottobre-novembre 1948, Roma 1948.
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Titina Maselli 1985
riferimento a elementi naturalistici, ai paesaggi, alla campagna, al mare, alle montagne: a
malapena c’è spazio per il cielo, il più delle volte cupo, torvo, minaccioso, malinconico, un
grumo nero come un pugno nella notte.
Il suo spontaneo distacco dalle convenzioni si manifestava tanto nella scelta dei soggetti
quanto nella selezione dei materiali: spesso, ad esempio, per il nero si serviva della pece
presa dal carrozziere.
Come la Maselli, anche il suo fraterno amico Renzo Vespignani, con cui ha condiviso per
tutta la vita lavoro e amicizia, aveva lo sguardo concentrato sulla città marginale. In lui,
però, la rappresentazione della Roma periferica voleva denunciare una condizione umana
di squallore e povertà. La sua intendeva essere una pittura politica, caratterizzata da una
presa di coscienza forte e schierata a favore del proletariato. Quello di Vespignani era uno
sguardo realista che come scopo aveva quello di testimonianza e denuncia sociale. Tutto
questo a Titina non interessava affatto.
La Maselli è stata l’unica della sua generazione a raffigurare la città in modo dirompente,
appassionato e necessario, come se non esistessero altro tipo di iconografie che valesse
la pena dipingere. È stata anche significativamente diversa dalle generazioni precedenti.
Anche Scipione, per esempio, aveva una visione della città coraggiosa e stridente, ma il
suo stile risultava più angosciato e opprimente, parlava di tormenti, dèmoni interiori. Lì la
città non aveva niente della modernità, del cromatismo aspro e del dinamismo di quella
di Titina. I suoi colori scuri, pastosi e le forme tendenti allo sfaldamento, erano più vicini
all’espressionismo nord europeo che alle immagini acute e squillanti della Maselli, che
forse avrà guardato ai ponti di Joseph Stella e ai pugili di George Bellows.
Titina Maselli era lontana da qualsiasi movimento, non apparteneva a nessun gruppo pittorico, a nessuna corrente artistica. Era affascinata dalle forme che riproponevano gli
astrattisti ma la sua pittura non era astratta, è stata definita «la zia dei pop artist» ma da
loro era molto diversa, si sentiva lontana dai neorealisti e dai futuristi, anche se aveva il
senso del movimento e della dinamica: c’era in lei un potente desiderio di fare tabula rasa
della sapienza della pittura e delle cose già note a favore dell’icasticità.
L’idea della città moderna in Titina era molto più forte dell’attaccamento alla città dalle
coordinate geografiche.
Titina Maselli
Calciatore e grattacielo
1978
collezione privata
Per questo nel 1952, dopo la seconda mostra personale alla Galleria
Il Pincio e la sua presenza alla VI Quadriennale di Roma (1951), lasciò
tutto e si trasferì a New York.
La città statunitense le rivelò quanto poteva essere coinvolgente la veduta spoglia, quasi velenosa della metropoli. Sembrava che gli spazi,
gli ambienti e le luci invadessero gli orizzonti repressi, le fughe in profondità, i blocchi emergenti: era la città stessa che catturava. Come un
polipo con i suoi tentacoli, il paesaggio urbano faceva paura con i suoi
strapiombi di cemento e vetro, di rotaie, strade, automobili, fili dei tram,
camion e treni, luci al neon, immagini pubblicitarie. New York le offrì la
possibilità di portare al limite estremo le sue esperienze romane: ai palazzoni ottocenteschi si sostituirono i grattacieli e si ampliarono notevolmente le dimensioni dei suoi quadri fino a raggiungere i tre, quattro
metri. New York è stata l’apice dei suoi primi dieci anni di pittura.
Rimase negli Stati Uniti fino al 1955 dove fece due mostre alla Durlacher Gallery (1953, 1955) e si trasferì poi in Austria fino al 1958.
Durante questo periodo, New York continuava a vivere nella sua memoria e per tutta la sua vita Titina non ha mai smesso di riflettere
sull’esperienza americana, né di dipingerla. Aveva stravolto e acceso
la sua tavolozza, che era tornata arricchita e stimolata, con una nuova riflessione sul colore e sul suo valore compositivo, valorizzato da
una rinnovata gamma cromatica.
Dopo una grande delusione d’amore, nel 1970 si trasferì definitivamente a Parigi. Viveva a La Ruche, le residenze per artisti messe a
disposizione dal governo francese e amava andare ai marches aux puces, dove trovava
stoffe e oggetti dorati che incontravano il suo amore per le decorazioni bizantine e i mosaici. Fondamentale per la sua carriera è stato l’incontro con il regista teatrale Bernard
Sobel con cui ha lavorato a lungo, occupandosi di scene e costumi, fino al sodalizio determinante con Carlo Cecchi avvenuto nel 1989.
Fino alla sua morte Titina ha vissuto tra Roma e Parigi, città con le quali mantenne sempre
un legame viscerale, come New York, che continuava a vivere nella sua testa e nei suoi quadri. A Roma andò ad abitare a Trastevere solo perché le finestre della casa si affacciavano
sui mosaici della chiesa di Santa Maria in Trastevere. L’oro delle tessere bizantine rifletteva
la luce fin dentro il suo appartamento: voleva e poteva stare solo nella Roma che amava,
aveva bisogno del bello, mettersi alla finestra e poterlo vedere, sempre. Si disperò quando,
qualche anno dopo, crebbe un albero davanti alla finestra che copriva i mosaici.
Titina ha sempre posseduto una forte, chiara e personale visione della sua vita e del mondo, che unita al grande coraggio che la caratterizzava le ha permesso una grande libertà,
intima ed espressiva. Era un’artista e una donna sempre nel presente, capace di riconoscere la proiezione del sé ideale insito nella propria natura profonda e di rincorrerlo a
qualunque costo. L’onestà intellettuale della Maselli non le concedeva scampo, era l’unico
e il solo modo di vivere che conosceva, non c’era altra scelta. La proiezione di sé, unita
al desiderio e al tentativo di una compiutezza esistenziale, provocava un urto: il risultato,
non poco sofferto, era diventare pienamente ciò che si è. Le città che la Maselli ha abitato,
Roma, New York e Parigi sopra a tutte, sono state la casa del sé, hanno smesso di essere
geografia per diventare luogo dell’anima.
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Dentro lo spazio scenico
Renato Lori
Lo scenografo, ha la capacità di immaginare e far realizzare i luoghi in cui sono ambientate le
fantasie degli autori e dei registi. Tanto che lavori a uno spettacolo teatrale, a uno show televisivo o a un film, è lui che definisce come “abitare” lo spazio scenico.
Lo spazio scenico può avere caratteristiche differenti in base alle sue utilizzazioni.
In uno spettacolo teatrale può essere uno spazio pittorico, talvolta uno spazio fantastico
quindi non reale, a volte realistico; si può anche trattare di uno spazio reale, fatto di volumi
praticabili; addirittura può essere una ricostruzione realistica di un ambiente simile alla
realtà quotidiana.
Lo spazio scenico cinematografico è invece in genere realistico, spesso reale, anche perché raramente il cinema italiano si cimenta su territori fantastici o ricostruiti e spesso lo
scenografo deve solo limitarsi a trovare le location adatte ad ambientare il film. Solo sporadicamente c’è la possibilità di ricostruire ambienti o di modificare e ri-arredare le location.
Lo spazio della scenografia televisiva è sempre uno spazio reinventato: i programmi televisivi
(ovviamente escludo le fiction che, in pratica, sono cinema utilizzato in televisione) hanno sempre una scenografia “inventata”, un’ambientazione che non riproduce la realtà ma che inventa
delle spazialità adatte a ospitare un telegiornale, uno show cabarettistico, un programma di
approfondimento giornalistico eccetera.
Ogni scenografo ha un suo modo di lavorare. Per quanto mi riguarda, l’idea per una scenografia
mi può arrivare in vari modi. A volte leggendo il testo dello spettacolo, altre volte, leggendo le
note sul periodo storico in cui il lavoro è ambientato, a volte ancora anche sfogliando un libro di
fotografie che non c’entrano nulla con quello che sto preparando. In genere, prima di mettermi
a disegnare, dopo avere letto il testo e avere parlato con il regista, lascio passare qualche giorno
in cui mi limito solo a pensare a quello che è il lavoro da affrontare.
Spesso l’idea arriva mentre sei impegnato a ragionare su altre cose, mentre il cervello è libero
da condizionamenti.
Comunque vada, l’impostazione di una scena non può mai essere casuale o pretestuosa,
deve sempre avere delle solide giustificazioni. È molto importante che lo scenografo si innamori del testo e che non lo affronti solo con il “mestiere”.
Mi è capitato di lavorare con molti registi, ne citerò solo qualcuno: in teatro ho avuto modo
di collaborare con Mauro Bolognini, Toni Servillo, Ugo Gregoretti, Mario Santella, Tato Russo,
Mico Galdieri, incrociando sulla scena attori come Ugo Pagliai e Paola Gassman, Rosalia
Maggio, Silvio Orlando, Sergio Rubini, Carlo Buccirosso, Francesco Paolantoni, Antonio Casagrande, Lucio Allocca, Enzo Moscato, Lando Buzzanca; in cinema ho avuto il piacere di
lavorare, dapprima come assistente scenografo e arredatore, con Alfredo Giannetti (quasi
dimenticato premio Oscar per la sceneggiatura di Divorzio all’italiana) Francis Ford Coppola
nel Padrino – Parte III, Dario Argento, Gérard Oury, Neri Parenti, Nanni Loy; poi, come sce-
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Foto di scena del film
Scacco Pazzo con la
regia di Alessandro
Haber
L’opera da tre soldi con
la regia di Tato Russo
che ha inaugurato il
Teatro Bellini nel 1988
nografo, con Stefano Incerti, Maurizio Zaccaro, Alessandro Haber, Valerio Jalongo, Massimo
Martella, Nino Russo in film che si sono avvalsi di attori quali Al Pacino e Diane Keaton, Vittorio Caprioli e Marina Suma, Sergio Castellitto, Renato Carpentieri, Luisa Ranieri, Stefania
Sandrelli, Tony Musante, Stefania Rocca, Claudio Santamaria, Barbara De Rossi, Barbara
D’Urso, Arnoldo Foà, Virna Lisi, Giorgio Albertazzi, Gigi Proietti, Giancarlo Giannini, Mariano
Rigillo, Anna Bonaiuto, Regina Bianchi e tanti altri.
Generalmente i registi arrivano all’incontro con lo scenografo con un’idea già abbastanza
precisa della scenografia che vogliono per lo spettacolo o per il film che devono realizzare.
La scena, soprattutto in teatro, è una delle parti fondamentali della regia stessa e se il
regista non avesse la minima idea di come la vuole impostare, significherebbe che non ha
ancora chiaro quello che vuole mettere in scena. Mi è anche capitato di trovare registi che
hanno lasciato a me la scelta dell’invenzione scenografica, o che, pur avendo una loro idea,
dopo avere ascoltato le mie proposte, le hanno abbracciate con entusiasmo. Comunque
non tutti hanno la capacità di visualizzare lo spettacolo, soprattutto della scenografia, prima che venga allestita.
Spesso mi capita di chiudere gli occhi e di immaginare un momento dello spettacolo. Credo
che una delle maggiori capacità richieste a uno scenografo sia proprio quella di “visualizzare” in
anticipo le immagini che costituiranno i vari momenti della messinscena.
L’idea di un elemento della scena può quindi nascere da un’immagine, anche solo da una
sensazione. In alternativa si può partire dalla necessità di ottenere un preciso effetto in
scena e quindi si individua una soluzione tecnica ideale per risolvere il problema. Spesso si
è costretti a inventare soluzioni mai utilizzate prima. Le strade che portano alla scelta di un
materiale da usare in scena piuttosto che di un altro, sono fondamentalmente due: una è
data dalle sensazioni immaginate; l’altra è strettamente tecnica.
Di certo la scenografia non può mai essere solo un elemento decorativo dello spettacolo. Anche
nel caso in cui debba servire solo da sfondo (come in un recital, ad esempio) lo scenografo deve
cercare un’interazione, al limite anche solo di significati, con quello che accade davanti a essa o
con ciò che gli attori recitano. La scena “giusta” per uno spettacolo è quella che diventa insostituibile. Se lo si può fare anche senza la scena che abbiamo pensato, o con un’altra scena, vuol
dire che abbiamo sbagliato scenografia.
Oggi lo scenografo non dovrebbe mai partire da uno stile o da un’idea preconcetta su quale
sia il tipo di scenografia giusto da usare. C’è stato un periodo storico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in cui era necessario non fare più scenografie pittoriche e
illusionistiche, bensì volumetriche e create dalle luci come quelle di Adolphe Appia e Gordon
Craig. C’è stato un periodo in cui era indispensabile fare scenografie realistiche, che portassero in scena oggetti presi dalla realtà che mai si era visti in scena, come per il Théâtre-Libre
di André Antoine che, per rappresentare una macelleria, mise in scena veri quarti di bue. C’è
stato un periodo, con il teatro di Bertolt Brecht in cui era giusto, al fine di dichiarare la finzio88 / 89
Renato Lori
Bozzetto della
scenografia di David
Copperfield
regia di Toni Servillo
Foto di scena di Voci
della città di Toni
Servillo
ne dell’allestimento, scoprire i meccanismi dell’illusione utilizzando siparietti che lasciavano
gran parte dei cambiamenti visibili agli spettatori. Oggi tutto ciò è superato, l’atteggiamento
dello scenografo deve essere oltre le avanguardie, ogni spettacolo può usare qualunque tipo
di scenografia, purché sia giusta per quello che si vuole raccontare. Si può essere attuali e
all’avanguardia tanto utilizzando un fondale dipinto, o adoperando materiali di recupero tipo
ready-made; tanto immaginando una scenografia totalmente realistica accurata nei dettagli, così come immaginando una scenografia fatta di sole luci e proiezioni. Tutto può essere
utilizzato come citazione storica, anche una scenografia di fondali dipinti, l’importante è che
non si pensi che il fondale dipinto in prospettiva possa essere scambiato dagli spettatori per
una vera fuga di colonne.
Il mio modo di lavorare è in genere “professionale”. Credo che il lavoro dello scenografo
necessiti di grande serietà e di una lunga preparazione. Dopo avere letto il testo ed essermene fatto un’idea mia, parlo con il regista e cerco di capire le sue esigenze e il “taglio”
che vuole dare allo spettacolo. Se il suo modo di vedere lo spettacolo o il film non coincide
con la mia idea, cerco di spiegargli le mie proposte. Alla fine, in ogni caso, è il regista a decidere l’impostazione della messa in scena e tutti i collaboratori devono seguirlo. La fase
della vera e propria ideazione è preceduta sempre da un periodo di ricerca iconografica.
È sempre assolutamente indispensabile documentarsi sul periodo storico, sull’autore, e
visionare un gran numero di immagini, quadri e fotografie che possano suggerire delle
soluzioni.
È capitato più di una volta di sentirmi dire che una scena era inequivocabilmente stata fatta
da me, a volte anche nel caso di una scenografia per il cinema, che raramente può essere
molto caratterizzata. Evidentemente le peculiarità del mio modo di lavorare sono ben visibili.
Credo che gli elementi più riconoscibili nel mio lavoro siano l’uso del colore, quasi sempre
dominante, spesso caldo, in genere poco realistico; una forte presenza del segno grafico e
probabilmente uno sguardo un po’ ingenuo, quasi infantile sulle cose del mondo. In teatro
amo gli effetti semplici quelli che funzionano subito senza richiedere meccanismi complicati e farraginosi, e comunque, se necessari, è fondamentale che questi siano ben nascosti
e che non dichiarino la loro esistenza. Tutto deve risultare semplice e fluido. In cinema mi
piace che la scenografia abbia un carattere: che non sia anonima, che le case dei personaggi non siano degli “show room”, ma che rispecchino il carattere di chi ci vive raccontandone
la storia, che i colori siano forti e decisi e che diano uno sfondo che abbia sempre un carattere forte. Una volta un regista mi ha detto «questa casa è talmente esplicativa del carattere dei personaggi che potrei tagliare alcune battute della sceneggiatura». Credo di avere
imparato questo modo di lavorare in gran parte al fianco di scenografi e registi americani,
primo fra tutti Dean Tavoularis.
Fra la scenografia teatrale e quella cinematografica ci sono differenze tecniche anche grandi,
ma in definitiva lo scopo del nostro lavoro è sempre lo stesso: aiutare, attraverso l’ambienta-
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Z
zione, a raccontare la storia, a definire i personaggi, e aiutare il regista a rappresentare il suo
punto di vista sul racconto.
In proposito credo valga la pena di ricordare alcuni lavori che trovo particolarmente significativi nella mia carriera professionale. In teatro, molto interessanti, sono state per me le
due scene create per il Teatro Studio di Caserta, la compagnia di Toni Servillo prima della
fondazione di Teatri Uniti. La prima opera realizzata con Toni nel 1984, in piena “Nuova
Spettacolarità” fu il David Copperfield.
Per questo lavoro, che avrebbe debuttato al Teatro Argentina di Roma, Toni mi chiese una scenografia molto solida, molto realistica, in cui ambientare il suo spettacolo che di realistico non
aveva quasi nulla.
La scena era la camerata di un collegio inglese di epoca vittoriana, tutta rivestita di legno
con boiserie e caminetto. Sul lato sinistro tre lettini in fila uno dietro l’altro. Pensai di ispirarmi per la loro forma al letto di Little Nemo in Slumberland, il fumetto di Winsor McCay del
primo decennio del Novecento in cui un bambino fa dei viaggi fantastici volando con il suo
letto, mentre dorme e sogna. Mi sembrò quella la citazione migliore da utilizzare! L’arredamento della scena era leggermente più grande del normale, gli attori dovevano apparire
grandi come dei ragazzini rispetto ai mobili.
In questa scena solida, quasi massiccia, c’era un susseguirsi di “effetti”, di “apparizioni”:
Una mela gigantesca, un po’ magrittiana, veniva presa da un armadio, lo specchio appeso
sul fondo sopra il caminetto si apriva come per magia e lasciava apparire un roseto, un
trenino di legno attraversava il boccascena, i cassetti dei due mobili “in prima” si aprivano
e, più lunghi del normale, si rivelavano pieni di ghiaia ed erba, e due dei ragazzi iniziavano a
correrci dentro; un plastico che riproduceva l’ambiente veniva portato in scena e i tre giovani
lo osservavano, giganteschi rispetto alla riproduzione dello spazio che li conteneva, per poi
riapparire, in alto, al di sopra della vera scena, ma questa volta loro piccoli e la scena enorme
Avevo da un paio d’anni iniziato a lavorare anche per il cinema e la possibilità di ideare e progettare una scena così costruita e realistica capitò proprio a fagiolo!
L’anno successivo realizzammo Voci della città.
Questo spettacolo ebbe una gestazione piuttosto lunga e nelle mie cartelle ne ritrovo ben
tre versioni, completamente differenti l’una dall’altra, la prima si ispirava a immagini glamour: una grande bocca rossa femminile appariva in un limbo di luce bianca. In una seconda
versione sul bozzetto appare una Parigi un po’ fumettistica, una via di mezzo fra i quadri di
Utrillo e le linee di Wolinski.
Quella definitiva si ispirò ai disegni di Jean Cocteau. Il testo era liberamente tratto da La
voce umana di Cocteau e quindi mi sembrò utile utilizzare il suo segno come cifra stilistica. Il
punto di partenza più importante di tutto lo spettacolo era però che il protagonista del testo
era un cieco, un cieco che attraversava Parigi facendo suonare il suo pianino, e a quel pianino
c’erano attaccati alcuni disegni che evidentemente lui stesso vendeva. Erano il bozzetto della
scenografia ripetuto più volte, la Parigi rappresentata da un segno grafico leggero, sospeso in
aria, una Parigi immaginata da un cieco, appunto, che nulla aveva di realistico. Non so quanti
spettatori abbiano compreso l’assunto (alcuni critici di certo), ma l’idea era proprio questa.
Il disegno si arrampicava sulle quinte e man mano che andava verso l’alto le telette diventavano più trasparenti. In basso si partiva da una base armata in compensato, poi, man
mano che si saliva si passava alla tela e poi a più strati di tulle e in cima il tulle diventava
in singolo strato, leggero e trasparente, il segno nero spiccava poiché era realizzato con
del nastro nero cucito sulle quinte.
In questa scena già di fantasia si susseguivano una serie di effetti: nevicava in una cabina
telefonica, le lettere uscivano da una cassetta della posta, per essere lanciate verso l’alto,
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per poi ricadere in una sorta di fondale interamente fatto di buste, la casa dove abitava
la signora, con cui il cieco dialogava in silenzio, appariva grazie alla trasparenza della sua
facciata, che in alcuni momenti si ricopriva di stelle mentre tutta la scena diveniva blu
notte, così come, in un altro momento, da un negozio, due guanti si spostavano ad accarezzare l’immagine di Servillo riflessa in uno specchio semitrasparente applicato sulla
porta dello stesso.
Numerosissime erano le immagini che si susseguivano.
A differenza degli spettacoli inquadrabili nella “Nuova Spettacolarità”, realizzati in quel periodo a Napoli da Mario Martone con la compagnia “Falso Movimento”, in cui le immagini
erano al novanta per cento proiezioni di diapositive, i due spettacoli di Servillo erano fondati
su un susseguirsi di immagini ottenute attraverso “effetti” di scenografia.
Per il cinema uno dei film che mi ha maggiormente soddisfatto dal punto di vista della realizzazione scenografica è stato Scacco pazzo, del 2004, con la regia di Alessandro Haber.
Un film che prevedeva la ricostruzione, in teatro di posa, di un grande appartamento, cosa
piuttosto rara nel cinema italiano di oggi.
La vera preparazione del film, girato a Torino, con alcune location esterne e la ricostruzione
del grande appartamento negli studi di San Giorgio Canavese, iniziò solo (come purtroppo
spesso accade) quattro settimane prima dell’inizio delle riprese.
Avevo preparato piante, sezioni e un piccolo plastico a Napoli, comunicando con Haber via
telefono e via e-mail; ma la vera partenza del lavoro avvenne solo un mese prima del ciak
di inizio. Partendo per Torino passai a Roma da Haber per mostrargli il plastico della scena.
Alla fine delle riprese Haber mi ha detto: «Ti debbo confessare che quando ti ho visto partire per Torino pensavo che non ce l’avresti mai fatta a finire la Casa di Antonio in quattro
settimane».
In effetti l’andamento del lavoro fu del tutto anomalo, sebbene ben organizzato perché, al
contrario di quello che si fa normalmente, cioè cercare prima gli esterni e poi disegnare e
costruire gli interni raccordandoli alle location esterne trovate, incominciammo a costruire
prima e poi iniziai a cercare le location esterne, sperando di trovare un edificio che potesse
corrispondere a quello che avevamo realizzato in studio.
Per quel film, visto che la sceneggiatura veniva da un testo teatrale, decisi (in accordo con
Haber e la produzione) di puntare su di una ricostruzione in studio, certamente di tipo cinematografico, ma che nelle scelte coloristiche, nelle patine e nell’arredamento, strizzasse
l’occhio al teatro. Fu così che feci realizzare una casa con un forte carattere, carica di colori,
con carte da parati degli anni Settanta molto disegnate e scure, coperte da patine lugubri e
decise. Per la cucina e il bagno scelsi mattonelle dai colori molto decisi, che poi feci scurire
e sporcare in maniera perfino eccessiva. È un tipo di trattamento che spesso gli scenografi
cinematografici non utilizzano, per timore di osare scelte troppo forti e decise. Il risultato è
che spesso, a causa di questa mancanza di coraggio, le case, soprattutto quelle che vediamo nelle fiction, somigliano agli show-room dei negozi di arredamento. Il mio lavoro piacque
molto al regista e le mie scelte furono premiate con una candidatura ai Nastri D’argento
2004, premio assegnato dai critici cinematografici.
In fondo uno scenografo lavora soprattutto per questo.
In giro per bordelli, tra
arte, cinema, letteratura
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Andrea Zanella
In una serata d’inverno nella visionaria Romagna di Amarcord, si sente uno sferragliare di
ruote e rumore di zoccoli di cavalli al trotto, inizia la celebre musichetta di Nino Rota, i vitelloni
locali si agitano, la Gradisca, strizzata nel suo cappotto rosso, sospira sognante e i ragazzi
saltano per farsi vedere da quelle cinque signore in carrozza, tutta la città si volta, commenta,
ammira; alla fine della scena il narratore ferma la sua bicicletta, apre le braccia e ammicca…
era il passaggio atteso della nuova quindicina…
Per chi è nato dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso la “quindicina” è soltanto un’indicazione quantitativa, ma per gli italiani di sesso maschile che ancora verso la fine di quel decennio
erano in età adulta e non solo per loro, “quindicina” era una parola evocativa, che schiudeva
l’immaginazione a piaceri neanche tanto proibiti: le signorine che passavano in carrozza prestavano il loro servizio bisettimanale nel bordello locale per poi andare in un altro bordello in
un’altra città. A Rimini come a Roma, a Padova, a Venezia, a Milano o a Napoli e in tutte le città
dell’Italia continentale e insulare, la tradizione era la stessa – per legge – e soprattutto il passaggio della quindicina era un avvenimento tanto atteso quanto incisivo. Qualcuno adottava
un tono sdegnoso, ma le mogli borghesi sapevano bene che era meglio che i mariti andassero
a rinfrescare il loro desiderio al bordello piuttosto che avessero un’amante fissa che poteva
distruggere la quiete domestica o trascinare la famiglia nello scandalo. In fondo aveva ragione
Indro Montanelli, quando diceva che era proprio nei postriboli che i tre “puntelli” dell’edificio
nazionale italiano, fede, famiglia e patria, trovavano la più sicura garanzia.
Di antica istituzione, i bordelli, casini, postriboli, lupanari, case di tolleranza, case chiuse o in
qualsiasi altro modo si vogliano chiamare, sono sempre stati istituzioni importanti, ma il loro
periodo d’oro è stato negli ultimi cento anni della loro storia, in quel periodo che va dalla metà
del XIX secolo al secondo dopoguerra, quando in quasi tutta l’Europa vennero banditi. Altri
tempi, altre idee, altro modo di vivere la differenza tra i sessi, altro modo di vivere la sessualità,
la famiglia, la coppia: negli ultimi sessant’anni molte cose sono cambiate. Chiuse le case di
tolleranza, però, non è finita la prostituzione né sono finiti i bordelli come luoghi in cui avviene
lo scambio di favori sessuali in cambio di denaro. Chiamati saloni di massaggi o altro, i bordelli
esistono ancora, abusivamente, e la prostituzione e il suo sfruttamento pure.
Dal momento in cui ebbero una regolamentazione (e in Europa cominciò il Belgio nel 1844, per
controllare la recrudescenza della diffusione della sifilide), i bordelli ebbero uno statuto e una
esistenza certificata, trovando in alcuni quartieri della città la loro collocazione. A Parigi, quella
che fu la capitale occidentale di tutte le arti, compresa quella amatoria, nel XIX secolo erano
celebri il Palais Royal e la zona dei Grands Boulevards, in un perimetro che qualcuno ebbe l’idea di nominare le clitoris de Paris 1; a Londra erano famose le case di Soho, come La maison
1
Hervé Manéglier, Les artistes au bordel, Flammarion, Paris 1997, p. 22.
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Amarcord
1973
regia di Federico
Fellini
Blanche o quelle di Pall Mall o dei sobborghi, dove le varie Mrs Jenkins o le Miss Wilkinson di
turno offrivano minorenni 2. A Roma, le case erano in centro, nelle parallele e nelle traverse di via
del Corso e nelle strade vicino alla Stazione Termini: la più famosa per la bellezza delle ragazze
e per la clientela che la frequentava era «le Tre Venezie» a via Capo le Case, ma situazioni più
economiche si trovavano anche a Borgo Pio o al rione Monti 3. A Milano fu celebre la «maison» di via Fiori Chiari, dove fu tenutaria la Wanda di montanelliana memoria. A Napoli, dove
la prostituzione trovava alloggio soprattutto nei quartieri spagnoli e nel Borgo di Sant’Antonio
dall’epoca di Ferdinando di Borbone, «La Suprema» in salita di Sant’Anna di Palazzo era uno
dei casini più rinomati prima della legge Merlin 4.
L’articolo 5 del decreto Crispi del 29 marzo 1888 definiva case di prostituzione «quelle case
o piani di case, in tutto o in parte affittate a scopo di prostituzione, ancorché ciascuna meretrice viva isolatamente», mentre l’articolo 6 stabiliva che non potevano avere «che una
sola porta d’ingresso», e il 7 che non potevano aprirsi case «in prossimità di scuole ed altri
edifici destinati al culto, all’istruzione ed educazione, a caserme, ad asili d’infanzia o ad altri
luoghi di riunione di gioventù» e, secondo l’articolo 10, il proprietario dell’immobile doveva dichiarare che consentiva «l’uso della casa a scopo di prostituzione». Siccome l’adescamento
era perseguibile, non dovevano esserci insegne; eppure i bordelli erano riconoscibilissimi da
inferriate, balaustre e decorazioni plastiche fortemente allusive, che ancora oggi permettono
l’identificazione dell’antica destinazione d’uso di alcuni palazzi nei quartieri storici delle città.
Altre leggi, più volte modificate stabilivano i prezziari che variavano a seconda della clientela,
politici, professionisti, operai, studenti e militari.
Per quanto riguarda gli interni, il famoso divano rosso di Toulouse-Lautrec ha dato il via a
un’idea di bordello come un lussuoso salone con divani e tende in tessuti pesanti dai colori
forti, stucchi e dorature, ma non era sempre così, dipendeva da tanti fattori. In principio i
bordelli avevano una struttura simile – con un salone dove si teneva la cassa, le ragazze
sfilavano, e i perditempo «facevano flanella» e una zona riservata alle camere, spesso collocate a un piano superiore – la decorazione e l’arredamento cambiavano a seconda della
classe sociale di chi frequentava il luogo e al prezzo che si pagava. Se Toulouse-Lautrec
produsse qualche pannello decorativo per il Salon de la rue des Moulins, raramente la decorazione delle case era affidata a grandi artisti e non sempre i dipinti, che il più delle volte
raffiguravano donne nude, erano di qualità.
2
Paul Morand, Londres, Plon, Paris 1933, p. 108-110.
Claudio Colaiacomo, Roma perduta e dimenticata, Newton Compton, Roma 2013.
4
Sulla prostituzione a Napoli si veda Cinthya Rich, Paolo Izzo, Au bord de l’eau. Prostituzione e case
chiuse a Napoli da Carlo di Borbone alla Merlin, Stamperia del Valentino, Napoli 2008.
3
V I S I O N I
/
Z
Maryse Choisy, una giornalista francese che nel 1928 si fa passare per una cameriera di bordello
per condurre un’inchiesta sulla prostituzione a Parigi descrive il salone di una casa di tolleranza
come «un compromesso tra falso stile Direttorio e falso moderno. Un salone borghese. Viene di
cercare l’album con le fotografie di famiglia» 5. Ma spesso vi si trovavano oggetti che richiamavano chiaramente gli attributi sessuali maschili e femminili – appendiabiti e tavolini fallici, fontane e
tazze che ricordavano la vagina e i seni femminili –, o dipinti e quadretti ammiccanti, come quello
di una collezione privata che mostra il corposo deretano di una donnina che si inchina. Altri, più
all’avanguardia, diedero vita a un design specializzato non privo di una sua eleganza 6.
Sublimati dalla letteratura, dalla pittura e infine dal cinema, questi templi del piacere hanno
ispirato l’immaginario di molti e soprattutto fornito spunti per opere destinate a fare storia
come Les Demoiselles d’Avignon.
Se fino al Secondo Impero alla realtà dei bordelli si faceva solo allusione, dagli anni Sessanta
dell’Ottocento in poi, con l’opera grafica dei francesi Degas e Guys, quest’ultimo celebrato da
Baudelaire come peintre moderne e poi del belga Félicien Rops 7, il bordello diventa un soggetto
esplicito. Da allora, il tema si ritrova nell’opera di Bernard, Van Gogh, Forain, Munch, e soprattutto di Toulouse-Lautrec, che definiva il bordello come il laboratorio dell’artista e del quale
son celebri le varie riprese della rue des Moulins, fino ad arrivare a Picasso, Vallotton, Sickert,
Rippl-Rónai, Picabia, Van Dongen, Foujita, Hopper, Orozco, o i meno noti Żmurko (polacco), Kustodiev (russo), Szekely (ungherese), Reginald Marsh (americano) o Paul Cadmus (francese) 8.
L’arte figurativa italiana resta un po’ arretrata rispetto alla scelta di un soggetto così moderno, forse per puritanesimo e forse perché nella nazione, disunita fino al 1870, le leggi
unitarie arrivarono relativamente tardi rispetto al resto dell’Europa. Non che i bordelli mancassero, ma non era un soggetto da trattare esplicitamente. Non mancano tuttavia allusioni
ai rapporti adulterini, che spesso si esplicitano nell’ambiguità del rapporto artista/modella (è
vero che le prostitute, abituate a spogliarsi, erano delle brave modelle), e alle prostitute. La
Prostituta in terracotta di Arturo Martini, del 1913, è un monumento alla professione. Conversazione platonica un enigmatico dipinto del 1925 di Felice Casorati, dove un uomo vestito di
tutto punto dietro al corpo nudo di una donna dallo sguardo invitante, è emblematico del “si
fa ma non si dice” della cultura italiana di quegli anni.
La fotografia dell’inizio del XX secolo documenta la clientela e le pratiche del bordello, ma è il
cinema del secolo scorso che offre le migliori immagini sul tema, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, da A House is not A Home di Russel Rouse (1964), su una celebre casa di
tolleranza newyorchese, a Il più antico mestiere del mondo (1967), film a episodi diretti da
Bolognini, Autant-Lara, Godard e altri. Il bordello o la tenutaria assurgono a soggetto cinematografico protagonista in McCabe & Mrs. Miller di Robert Altman (1971), in Madame Claude
(1977), la celebre maitresse parigina di Just Jaeckin, in One Two Two – 122 rue de Provence di
Christian Gion dello stesso anno, o ancora in Escape to Athena (1979) di George P. Cosmatos
dove Claudia Cardinale interpreta il ruolo di una tenutaria impegnata nella resistenza greca.
Lo One-Two-Two della rue de Provence è anche il luogo dove è ambientata la serie a fumetti
Casino, pubblicata da Leone Frollo, curioso creativo italiano, tra il 1985 e il 1987.
5
Maryse Choisy, Un mois chez les filles, Stock, Paris 2015, p. 45.
Nicole Canet, Décors de bordels. Entre intimité et exubérance 1860-1946, Editions Nicole Canet, Paris
2011.
7
Niekke Bakker, Maison closes. Le bordel comme sujet moderne, in AA.VV, Splendeurs & misères –
Images de la prostitution 1850-1910, cat. de l’exposition, Paris, Musée d’Orsay 22 septembre 2015-17
janvier 2016 e Amsterdam, Van Gogh Museum 19 February-19 June 2016, Musée d’Orsay et Flammarion,
Paris 2015, p. 120-173.
8
Emmanuel Pernoud, Le Bordel en peinture. L’art contre le goût, Adam Biro, Paris 2001.
6
94 / 95
Manlio Giarrizzo
Pensione Bel Soggiorno
1947
olio su tela
Napoli, Galleria
dell'Accademia
di Belle Arti
Il bordello si offre come teatro di vicende politiche in Film d’amore e d’anarchia.
Ovvero “stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973),
scritto e diretto da Lina Wertmüller. Negli
stessi anni, da Telefoni bianchi (1976) di
Dino Risi a Che la festa cominci (1975) di
Bertrand Tavernier, tanto per citarne due,
le immagini dei bordelli al cinema non
mancano. Tra la filmografia recente sul
tema è sicuramente da citare L’Apollonide
– Souvenirs de la maison close (2011) di
Bertrand Bonello, più incentrato però sui
cerimoniali di queste istituzioni e sul destino delle ragazze che vi lavoravano.
Tra tutti, sono Federico Fellini e Tinto Brass a dare un immagine visionaria e nostalgica del
bordello. Il primo con Roma (1972) e poi con La città delle donne (1980) e il secondo con Salon
Kitty (1975) – storia di un bordello, frequentato dalle SS, che viene spostato dalla sua sede storica nel centro della città, in un edificio più moderno, attrezzato con strumenti per lo spionaggio, dove le prostitute sono delle giovani naziste – e poi con Paprika (1991), in cui una giovane
prostituta slava, redenta grazie a un ricco matrimonio, conclude la sua vicenda con la festa di
chiusura del bordello veneziano dove aveva iniziato la carriera.
Era il 20 febbraio 1958 e andava in vigore la legge Merlin che sanciva la chiusura delle
case di tolleranza.
Forgiata su modello della legge Richard adottata in Francia quasi dieci anni prima, la legge
Merlin si poneva alla fine di un percorso già iniziato nel 1948 dal ministro degli Interni Mario
Scelba che aveva smesso di rilasciare concessioni per l’apertura di nuove case. Nel 1955, poi,
l’Italia era faticosamente entrata a far parte delle Nazioni Unite e ciò implicava l’accettazione
di alcune clausole tra cui la convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e lo
sfruttamento della prostituzione. Per la consacrata istituzione del bordello non c’era scampo,
nonostante le levate di scudi di politici e intellettuali. La vita doveva cambiare, non solo per le
3000 impiegate dei 600 bordelli italiani che si trovarono senza lavoro, ma anche per quegli
edifici che erano stati adibiti all’onorato servizio. Cosa successe di quegli edifici, è ancora un
regista a raccontarcelo. Mauro Bolognini, in Arrangiatevi! (1959), narra la storia di un pedicure
(Peppino De Filippo) e delle sue vicissitudini da quando va ad abitare, con la famiglia, in un lussuoso palazzetto del centro con fontane e scalone, ornato di sculture: otto camere, tutte con
lavandino, e due salottini (quello polacco e quello cinese), tre bagni, accessori e telefono per
sole 10.000 lire al mese, «c’è solo un problema – dice l’untuoso mediatore Calamai (Vittorio
Caprioli) che si accompagna con Siberia (Franca Valeri) ex impiegata della maison. – No, non è
abitata dai fantasmi, è solo una questione di mentalità… queste case, una volta che le hanno
chiuse, cosa ne fanno, le buttano giù? Macché, le fittano, siate moderno – è una casa come
tutte le altre e la sora Gina la vole dà a ‘na famija per bene’ per ridaje un cachè all’ambiente»,
aggiunge Siberia. Il nonno (Totò) scoprendo delle decorazioni erotiche sotto la carta da parati
si ricorderà di essere stato in quella casa e sarà proprio lui a tenere un discorso memorabile al
piccolo pubblico che si era affollato davanti al portone vedendo la casa abitata e credendo nella
riapertura della Sora Gina: «E lo volete un consiglio, militari e civili, piantiamola con queste nostalgie! Oltre che incivile, è inutile! Oramai li hanno chiusi! A voi italiani è rimasto questo chiodo
fisso, qui. Toglietevelo! Oramai li hanno chiusi! Arrangiatevi!».
Christian Leperino, Preparazione di Landscape of Memory, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli 2012
IDEE
DE
Antonio Carnevale Il vero e il falso di Vila-Matas /
Monica Torrusio Le parole e le case /
Fina Serena Barbagallo Voci senza tempo
Christian Leperino, The Other_Myself, 2014, gesso, Collezione Museo MADRE Napoli (fasi di lavorazione)
Il vero e il falso di Vila-Matas
Z
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I D E E
Antonio Carnevale
Può esistere un esercizio di
critica d’arte fondato sulla
categoria dell’abitare? Un
esempio è Kassel non invita
alla logica, nuovo lavoro dello
scrittore spagnolo Enrique VilaMatas. Per qualcuno, l’unico
modo di fare critica d’arte, oggi,
è scrivere un’opera che abbia
lo stesso soggetto-oggetto
dell’opera stessa che intende
giudicare. Il lavoro di Vila-Matas
ne è un fulgido modello. Ma è
anche di più: è come quel tavolo
che secondo gli scienziati non
può stare fermo perché gli
atomi al suo interno spingono
in ogni direzione. Prendiamo
quel tavolo, allora. Mettiamolo
al centro del viaggio di VilaMatas: in un ristorante cinese
alla periferia di Kassel, in
Germania, perno esatto della
narrazione.
Tutto ha inizio con una
telefonata. Chus Martínez,
membro dello staff curatoriale
di Carolyn Christov-Bakargiev,
invita lo scrittore, per conto
della direttrice, a «far parte
di Documenta» nell’edizione
del 2012. L’invito non è a
scrivere un romanzo sulla
manifestazione. Bensì ad
abitare la rassegna, diventarne
una sorta d’installazione.
100 / 101
Vila-Matas si sarebbe dovuto
trasformare in un’opera d’arte
vivente. Avrebbe dovuto sostare
alcune ore della giornata,
per diverse settimane, in un
ristorante cinese alla periferia
di Kassel. Stare semplicemente
seduto a scrivere: questo gli
era chiesto, esattamente come
avrebbe fatto al tavolo di casa
propria, a Barcellona. Nessun
tema era specificato circa la
materia della sua scrittura. «In
sostanza, mi chiedevano solo
che scrivessi e, questo sì, che
cercassi di entrare in relazione
con chi faceva il suo ingresso
nel ristorante e voleva parlarmi,
perché dovevo sempre tenere
presente che “interconnettersi”
sarebbe stata una filosofia e
una raccomandazione molto
comune a Documenta 13».
Se quella telefonata d’invito
è l’avvio del romanzo, ciò che
segue non sarà però la cronaca
dell’esperienza di Vila-Matas
come opera d’arte vivente.
Lo scrittore “interconnesso”
agli avventori, l’“intellettualeinstallazione”, così com’era
stato immaginato da ChristovBakargiev, avrà, infatti, poca
fortuna: soltanto un avventore
si rivelerà interessato a
“interconnettersi”. Moltissima
fortuna avrà invece l’interazione
di Vila-Matas con l’intera città,
con le installazioni in mostra a
Documenta e con il pubblico di
queste. Lo scrittore si definirà
presto un «nuovo abitante di
Kassel». Di questo scriverà nel
suo romanzo pubblicato due
anni più tardi (e arrivato in Italia
per Feltrinelli 2015). L’opera
d’arte da giudicare sarà dunque
l’intera Kassel, città divenuta
arbitraria sineddoche dell’arte
contemporanea, meta di un
viaggio (non soltanto fisico) nel
dibattito corrente sul «declino
delle avanguardie».
Vila-Matas ha un modo sui
generis di raccontare i viaggi.
C’è sempre un personaggio,
nei suoi libri, che si muove
da un luogo all’altro, e che
racconta quanto gli accade
attorno. Non soltanto i fatti
avvenuti diventano materia
della narrazione, ma pure quelli
immaginati, che finiscono poi
col mischiarsi a impressioni,
ricordi, libri, sogni. In questo
viaggio a Kassel, le abituali
connessioni centrifughe si
fanno però centripete. Tutte
convergono verso un solo
bersaglio, a tradursi cioè
nel tentativo di rispondere
a un preciso quesito: «l’arte
contemporanea è un bluff o
una cosa seria?».
La domanda non è da poco, è di
quelle che si porrebbe oggi un
Socrate reloaded, come quello
che compare nei Dialoghi di
Platone. Vila-Matas si cimenta
da sé. E il suo bilancio sarà
positivo, dispensato senza
perplessità. Per Vila-Matas,
l’arte contemporanea (anche
quella più insondabile, oscura,
provocatoria) è cosa serissima,
infatti, e la risposta arriverà
cristallina in diversi punti
della narrazione. Spetterà al
lettore dargli ragione o torto,
caso per caso. Qui c’interessa
però un’altra faccenda: per
rispondere al suo dilemma, lo
scrittore considererà sovente
metafore inedite per la critica
d’arte, userà spesso, cioè,
i luoghi dell’abitare come
emblemi privilegiati della sua
riflessione critica.
Appena approdato a Kassel, per
esempio, scartato l’infruttuoso
ristorante cinese, Vila-Matas
comincia a pensare a un
luogo dove costruire la propria
«capanna per pensare». Non
gli basta essere lì. Gli serve
un luogo fisso che funga da
rifugio decentrato, deputato
alla riflessione. «Il mio modello
era Skjolden, scrive, il luogo in
cui Wittgenstein era riuscito
a isolarsi, a sentire la propria
voce e a confermare che si
poteva pensare meglio da lì
che non dalla cattedra».
Non è peregrino il riferimento
a Wittgenstein. La rassegna
di Documenta 13, infatti,
con il suo approccio
multidisciplinare, si offre
come momento eccentrico
dell’arte: non si rivolge agli
addetti ai lavori, non al
mercato, si afferma invece
come luogo di «idee, dialoghi
e narrazioni parallele», ovvero
di rapporti paritetici tra
discipline differenti, secondo
il noto approccio di Carolyn
Christov-Bakargiev. Ecco
perché Wittgenstein, allora.
Il filosofo tedesco è colui che
«aveva iniziato a rivolgersi
dalla capanna a coloro che
volevano iniziarsi a un nuovo
modo di vedere le cose e non
alla comunità scientifica,
né alla cittadinanza». Per il
filosofo, specifica Vila-Matas,
«pensare poteva arrivare a
essere un’impresa artistica. Il
suo ideale filosofico era stato
la ricerca di lucidità liberatrice,
di apertura della coscienza e
del mondo; non voleva offrire
verità, ma veridicità, esempi
e non ragionamenti, motivi e
non cause, frammenti e non
sistemi». C’è forse qualcosa
di più consonante con le
intenzioni curatoriali alla base
di Documenta 13?
Questo è soltanto uno dei
numerosi esempi di fitta
coincidenza tra il punto
di vista dello scrittore e
quello della curatrice. Nei
dialoghi, nei ricordi, nelle
riflessioni, persino nei sogni
di Vila-Matas esplodono,
sistematicamente, i temi
programmatici di Documenta
13. L’autore non manca di
specificare (lo fa spesso)
che nel suo peregrinare fra
le opere (nell’abitare la città)
ha sempre al suo fianco un
accompagnatore che lo guida
verso il senso dell’opera
che ha di fronte, o verso
l’intenzione dell’artista. Nella
sua «capanna» egli ricerca
poi informazioni online.
Non si tratta di espedienti
narrativi, non è questione di
rabboccare l’esperienza diretta
con elementi teorici. È invece
la spia di un tratto costante
nell’arte contemporanea:
divenuta inaccessibile al
pubblico senza che un
contributo informativo ne
fornisca chiavi d’ingresso. Non
è un caso, allora, l’insistenza
sul tema dell’incomunicabilità:
non in riferimento alle opere,
bensì alla sua esperienza
personale, ovvero biografica
e professionale. È impossibile
non cogliere un nesso
implicito con Documenta
nel (beckettiano) dialogo
immaginato dall’autore
con l’unico avventore del
ristorante cinese interessato a
“interconnettersi”, dove il tema
di «collasso e recupero» (tema
esplicito di Documenta 13)
conduce il discorso, come pure
fa nel brevissimo dialogo tra
Vila-Matas e Carolyn ChristovBakargiev, pur trasposto in
chiave di resoconto comico.
«Mi sembrò un dato ormai
assolutamente oggettivo che
ogni volta che l’incomunicabilità
si affacciava tra noi due, il nostro
rapporto collassava, per poi
riprendersi in modo immediato,
e viceversa, ed era come se
davvero il fatto di crollare e di
riprendersi potessero comporre
un’unica figura e condividere
perfettamente l’istante», scrive
ancora Vila-Matas, alludendo
al suo rapporto con un altro
personaggio del romanzo. «E
I D E E
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Z
così, parlando di una cosa e
dell’altra, in realtà speculando
filosoficamente o aspirando
a farlo – probabilmente
l’attività più essenziale dell’arte
contemporanea – il buio prese
a cadere su Kassel e tutto si
spense con la lentezza di un
martedì qualunque sulla Terra».
Il pensiero è arte, dunque,
per Vila-Matas: il concetto,
non la forma, ha preminenza
nell’«accadimento» artistico.
Le luci si accendono e si
spengono a Kassel, si entra
e si esce fra luoghi luminosi
e bui, illuminanti e oscuri.
Nella sua camera d’albergo
alla periferia della città, suo
wittgensteiniano rifugio, lo
scrittore si rende presto conto
che quella «capanna» (citata
27 volte in 254 pagine) è un
ideale luogo soprattutto per
«ritornare». «Non ci misi molto
ad accorgermi che sull’autobus,
a differenza di quanto avveniva
nel mio spazio di meditazione
nella capanna, pensare
risultava semplicemente
rilassante e contribuiva perfino
a far evaporare gran parte dei
fantasmi della notte insonne».
Bisognava cioè fare esperienza
della vita, della città, e dell’arte,
e solo dopo tornare a casa,
semmai, per metabolizzarne il
senso.
In questo viaggio divenuto
residenza, a colpire
maggiormente l’autore
saranno le installazioni/
ambienti: luoghi (ancora una
volta) in cui poter entrare
fisicamente, dove poter
stare, dove sperimentare il
proprio essere senziente. This
Variation, di Tino Sehgal, è
102 / 103
descritta come «uno spazio
nelle tenebre, un luogo
nascosto in cui una serie di
persone attendeva i visitatori
per avvicinarsi a loro e, se lo
ritenevano opportuno, cantare
canzoni e offrire l’esperienza
di vivere un’opera d’arte come
qualcosa di pienamente
sensoriale».
Sehgal – com’è noto –
rifiuta l’idea che l’arte abbia
un’espressione fisica. Della sua
opera non sarebbe rimasta
traccia nemmeno nel catalogo
di Documenta 13, lo stesso
artista aveva chiesto alla
direttrice di rispettare il suo
desiderio di essere invisibile.
«Duchamp allo stato puro,
pensai. E mi ricordai di
quella tenda sotto la quale
lavorò per tutta un’estate a
Cadaqués e che alla fine gli
servì per proteggersi dal sole
o, detto meglio, per installarsi
nell’ombra, il suo territorio
preferito. Dove si trovava ora
quella tenda?»
La stanza buia di Sehgal
sostituisce la «capanna per
pensare» di Wittgenstein (che
a sua volta aveva sostituito il
ristorante cinese) e diventa
«la tenda di Duchamp».
Sistematicamente, VilaMatas riflette sull’esperienza
personale (per lui teorica
quanto sensoriale) di «abitare
un luogo» (non importa se
chiuso come una stanza,
oppure aperto come un’intera
città): lo fa in rapporto alle
opere che incontra. Sono
oltre una ventina quelle che
descrive, fra Ryan Gander,
Lee Miller, Pedro Reyes, Pierre
Huyghe, Janet Cardiff, Tacita
Dean. Con un’avvertenza,
però. Nelle sue peregrinazioni
all’interno di Kassel, Vila-Matas
è sì un novello abitante di
Kassel, è sì un nuovo inquilino
di Documenta, ma è un ospite
dichiaratamente estraneo
all’arte contemporanea.
Sin dall’inizio del romanzo,
avverte il lettore del
carattere «profano» della
sua partecipazione. I
tentennamenti e l’imbarazzo
nell’accettare la proposta di
Chus Martínez, distribuiti sin
dalle prime pagine, mostrano
chiaramente che leggeremo
le impressioni di un «non
addetto» ai lavori.
Ciascuno, leggendo il romanzo,
potrà certo giudicare la validità
di questo sguardo «profano»,
come anche la qualità estetica
della sua narrazione. Comunque
la si pensi, però, Kassel
non invita alla logica è un
interessante esempio di critica
d’arte, pur sui generis, del tutto
innovativa. Lo è nel bene e nel
male. E lo è per almeno tre
motivi. Il romanzo è innanzitutto
un’opera che ha lo stesso
soggetto-oggetto dell’opera
stessa che intende giudicare.
E in questo senso è un testo
poetico che si pone come
estensione, in forma narrativa,
di un’idea critica-curatoriale.
Lo è nel metodo, perché lo
scrittore è un’opera integrante
di Documenta, e lo è ancor
più nel merito, poiché il suo
testo mostra costantemente
un’interpretazione simbolica
di Documenta in linea con le
intenzioni programmatiche
della direttrice. In secondo
luogo, il romanzo offre un
//
approccio critico e descrittivo
a una serie di opere in mostra,
fissandosi come prezioso
documento della letteratura
artistica. Infine, Kassel non
invita alla logica getta uno
sguardo sull’intero sistema
dell’arte contemporanea,
inserendosi all’interno del
dibattito corrente sul cosiddetto
«declino delle avanguardie».
Alla fine del romanzo, fra
incursioni nell’abitare,
camere d’albergo, «capanne
per pensare», tende
Il romanzo di
Vila-Matas è
l’estensione
in forma
narrativa
di un’idea
criticacuratoriale
duchampiane e decine
di visite in installazioni/
ambienti, l’inquilino Vila-Matas
somiglierà parecchio a quel suo
personaggio dal nome Synge:
un fantomatico «poeta che
alla fine del XIX secolo fece un
viaggio alle Isole Aran, sulla
costa occidentale dell’Irlanda».
Lì – si legge – Synge trascorse
alcuni periodi in un casale dove
un buco nel pavimento della
camera da letto gli consentiva
di ascoltare le conversazioni –
sempre tutte in gaelico – degli
abitanti dell’appartamento di
sotto.
«Per cinque estati», spiega
Vila-Matas, Synge «si
dedicò a origliare quelle
chiacchierate tra vicini, senza
capirci nulla perché non
sapeva nemmeno una parola
di quella lingua, convinto
comunque di comprendere
tutto perfettamente». Ma il
poeta «era talmente persuaso
di capire sempre ciò che
dicevano in gaelico che finì con
l’elaborare, grazie a quanto
aveva sentito e annotato, il suo
famoso libro di antropologia
sul pensiero e le abitudini dei
nativi di quel luogo remoto
d’Irlanda».
Avrà davvero inteso bene
ciò che ha origliato dai suoi
vicini anche il nostro Synge/
Vila-Matas, a Kassel? Una
cosa è certa: spiare i vicini
di casa è sempre un bel
match fra trasalimento e
incomunicabilità, due categorie
molto care a questo romanzo:
la prima è il fondamento di
ogni intenzione artistica, la
seconda è stata il dichiarato
filo conduttore di tutta
Documenta 13. L’invenzione di
Synge potrà sembrare (anche)
una freudiana excusatio non
petita, da parte di Vila-Matas.
Ma il bilancio per l’autore
non può che essere positivo.
La letteratura ha il raro
privilegio di poter mischiare
impunemente il vero e il falso.
E i conti, fatti così, tornano
sempre.
Roberto Piloni, Fresh Window # 12, 2015
Roberto Piloni, Fresh Windows, xxxxx, xxxxxx
Roberto Piloni, Fresh Window # 2, 2015
Roberto Piloni, Fresh Window # 7, 2015
Le parole e le case
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/
I D E E
Monica Torrusio
«Come veramente sia la città
sotto questo fitto involucro
di segni, cosa contenga o
nasconda, l’uomo esce da
Tamara senza averlo saputo.
Fuori s’estende la terra vuota
fino all’orizzonte, s’apre il cielo
dove corrono le nuvole. Nella
forma che il caso e il vento
danno alle nuvole l’uomo è già
intento a riconoscere figure:
un veliero, una mano, un
elefante…» 1.
Noi abitiamo la linea sottile
che marca il confine tra il
linguaggio e la natura. In
questo spazio esiguo abita il
senso dell’essere. «Il linguaggio
è la casa dell’essere» 2, diceva
Heidegger in un suo discorso
di presentazione dell’anno
accademico.
In un’intervista allo «Spiegel»,
Heidegger ribadisce il concetto:
«Il linguaggio è la casa
dell’essere […] l’uomo abita
poeticamente» 3. La casa può
1
Italo Calvino, Le città invisibili,
Einaudi, Torino 1972, p. 22.
2
Martin Heidegger, Unterwegs
zur Sprache, Günther Neske,
Pfullingen 1959 (trad. it. In
cammino verso il linguaggio,
Mursia, Milano 1973).
3
Maurizio Ferraris, Manifesto del
108 / 109
essere intesa come il naturale
prolungamento dell’essere,
come la custode della nostra
identità, come luogo dove non
si raccontano storie ma dove
esistiamo autenticamente al di
fuori di ogni maschera sociale.
La casa, costruita da abitudini,
oggetti, spazi famigliari, è il
luogo preciso dove l’essere
semplicemente è.
È l’inizio di quell’universo
dell’uomo che fa parte del suo
essere al mondo. Sentirsi a
casa è vivere la dimensione
in cui l’essere può abitare il
mondo, la natura seconda che
erige per uscire dal caos non
amministrabile. La domus
rappresenta il definitivo
allontanamento dall’eden
in cui regnava la simbiosi
con la natura e l’inizio del
percorso di dominazione che
ha portato l’uomo a piegare la
natura a propria immagine e
somiglianza. La celebrazione
biblica del verbo che è all’inizio
di tutto configura l’uomo creato
per dominare la natura e per
trasformare l’universo in mondo
dell’uomo. La nostra storia ha
inizio nello spazio misurabile
nuovo realismo, Laterza, Bari 2012, v.
nota di p. 14.
e nel tempo irreversibile
del verbo 4. Solo nella
configurazione linguistica del
mondo è possibile per l’uomo
esistere e sopravvivere. «Ciò
che è oggetto di conoscenza
e di discorso è già sempre
compreso nell’orizzonte del
linguaggio, che coincide con il
mondo» 5.
Ogni cosa al suo posto. Ogni
cosa in ordine. Ogni ente
utilizzabile e nominabile. La
casa è la natura dell’uomo
perché è spazio completamente
costruito. Rappresenta lo
spazio fisico e simbolico delle
certezze accumulate di ricordi
ed emozioni che danno corpo al
racconto della nostra identità.
Fuori rimane l’imponderabile,
l’inconoscibile, il caos
dell’indefinibile. Il fuori inteso non
solo come esterno naturale ma
come mistero dell’innominabile
che non può rientrare nel
elemento della conoscenza e
del linguaggio. Nella casa ogni
elemento ha un suo significato,
ogni cosa ha senso, ogni
4
cfr. Umberto Galimberti, Psiche e
techne, Feltrinelli, Milano 1999.
5
Josef Bleicher, L’Ermeneutica
contemporanea, Il Mulino, Bologna
1986, p. 144.
aspetto parla di noi. Nella casa ogni
situazione diventa racconto: «In
casa udiamo sbattere la porta, e non
udiamo mai sensazioni acustiche o
anche semplici rumori» 6.
La casa può essere allora considerata
la concretizzazione del principio
astratto del mondo linguistico
proprio dell’uomo e dell’esigenza
primaria dell’uomo di esistere prima
di tutto attraverso il procedimento di
astrazione e di mediazione linguistica:
«Chiudi gli occhi, e dal nero dei
caratteri di stampa si formeranno le
luci della città» 7.
È il nucleo da dove si può osservare
il mondo al riparo dallo straordinario
e dallo sconosciuto. Ma è proprio
questo spazio ordinario che può
essere considerato l’origine di
ogni possibilità di comprensione. A
partire dalla facilità di manovra data
dalla dimestichezza nel quotidiano
possiamo valicare i confini dell’ovvio
per veder trasparire la meraviglia
creata dalla nascita di un nuovo
senso: «La bellezza e l’arte hanno
mirabilmente svolto il compito di
far tralucere attraverso il sensibile
percezioni, emozioni, desideri,
idee e immagini dell’ulteriorità
intramondana, rinnovandone
le forme fruste, smuovendo,
disincagliando e decomponendo
i conglomerati del quotidiano
con l’introdurre un cuneo tra la
familiarità acquisita e il linguaggio
ancora da articolare» 8.
Nella casa si colma la separazione
tra vita e racconto, tra verità
6
Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La
Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 11-12.
7
Peter Handke, Il cinese del dolore,
Garzanti, Milano 1988, p. 9.
8
Remo Bodei, Le patrie sconosciute.
Emozioni ed esperienza estetica, in Tito
Magri (a cura di), Filosofia ed emozioni,
Feltrinelli, Milano 1999, p. 186.
e rappresentazione che la
contemporaneità aveva spalancato.
Nella contemporaneità, «le cose,
frammentariamente, per profili,
pezzi, scaglie si offrono, assai
parzialmente, alla rappresentazione.
Dalla loro inaccessibile riserva,
quest’ultima stacca, pezzo dopo
pezzo tenui elementi la cui unità
resta sempre saldata a quella
profondità […] prima vi saranno le
cose, con la loro organizzazione,
le loro nervature segrete, lo spazio
che le circonda, il tempo che le
produce; e poi la rappresentazione,
pura successione temporale, in
cui esse si annunciano sempre
parzialmente a una soggettività, a
una coscienza, allo sforzo singolo
d’una conoscenza, all’individuo
“psicologico” […]. L’essere stesso di
ciò che viene rappresentato cadrà
all’infuori della rappresentazione» 9.
Esiste però una differenza
sostanziale tra almeno due modi
di intendere la casa come mondo
dell’uomo: «I primitivi ritenevano
che il problema della casa fosse un
problema dell’uomo troppo indifeso,
troppo spaventato, troppo poco a
casa propria nella vastità del mondo,
e perciò in questa estensione
avevano ritagliato una porzione,
uno spazio, un territorio per creare
il proprio mondo non previsto dalla
natura, lasciando intatto tutto il
resto del mondo che non serviva allo
scopo» 10.
Il senso stesso dell’essere è invece
oggi costruire un mondo che si offra
nella sua totalità esclusivamente
come casa per l’uomo: «Oggi,
attribuendo al mondo, anzi
all’essere, il bisogno umano di una
casa, l’uomo assegna a se stesso,
quasi come missione metafisica
e quindi come dovere etico, quello
di tradurre il mondo in un mondo
per l’uomo, perché solo in questa
traduzione il mondo diventa leggibile
e in ogni sua parte sensato» 11.
Nella nostra epoca, in cui la
tecnologia ha preso il sopravvento
sulla vita reale, la casa non è più
solo il riparo dalle asperità della
natura ma diventa il luogo in cui
– tramite i media – si sgretola
la differenza tra “interno” ed
“esterno”: «Crollano così le pareti
di casa e quei muri perimetrali che
un tempo distinguevano l’interno
dall’esterno, e più in generale
l’interiorità dall’esteriorità. Se un
tempo la casa era l’“interno” dove si
esprimevano quei tratti di personalità
che occorreva contenere “fuori”,
all’“esterno”, e in cui si giocava
il proprio “nome” non sospeso e
cancellato dalla propria “funzione”,
se la casa era il “privato” che dava
spazio a quella libertà espressiva
che doveva tacere in “pubblico”, oggi,
per effetto della presenza massiccia
dei media, la casa diventa il luogo di
recezione del mondo esterno che, via
cavo, via telefono, via etere, avvicina il
“lontano e al tempo stesso allontana
il “vicino”, l’“intimo”, il “familiare”» 12.
Per riappropriarsi di una dimensione
esistenziale intima e autentica
sarà allora necessario recuperare
il dialogo come forma di scambio
creativo, come passaggio
fondamentale tra sé e l’altro
che implica il riconoscimento
della diversità dell’altro e una
partecipazione attiva nello scambio.
Il dialogo genuino non è mera
esposizione del sé, come invece
9
Michel Foucault, Le parole e le cose,
Rizzoli, Milano 1967, p. 259.
10
Galimberti, Psiche e techne cit., p.
635.
11
12
Ivi, p. 635.
Ivi, p. 638.
I D E E
/
Z
accade nei monologhi interattivi
che conservano di fatto solo
l’apparenza di comunicazione
reale: «Al monologo collettivo dei
media […] noi non vi prendiamo
parte, ma ne consumiamo
semplicemente le immagini.
Questa condizione che vale per
la televisione, vale, anche se
non sembra, per Internet, dove
il “consumo in comune” del
mezzo non equivale a una reale
“esperienza comune”. Ciò che
in Internet si scambia, infatti, è
pur sempre una realtà personale
che non diventa mai una realtà
condivisa, perché lo scambio ha
un andamento solipsistico, dove
un numero infinito di eremiti di
massa comunica le vedute del
mondo come appare dal loro
eremo» 13.
L’appartamento riflette sempre
più uno stato sociale più che
fisico poiché anche nei luoghi
pubblici ci si può “appartare”
su uno schermo di un qualsiasi
dispositivo elettronico e isolarsi
in un solipsismo collettivo.
Non è raro assistere a riunioni
di gruppo – specialmente tra
le nuove generazioni ma non
solo – in cui la convivialità
si disgrega in silenziose
singolarità immerse ognuna
nel proprio tablet. In questa
nuova dimensione sintetica il
contatto con il prossimo non si
stabilisce più tramite il dialogo
con chi ci è vicino fisicamente
ma diventa il “collegamento” con
“l’altro altrove”. In tal modo il
mondo simulato diventa il nuovo
simulacro da preferire quasi
sempre al mondo reale: «Va
notata la stretta connessione tra
13
Ivi, p. 637.
110 / 111
eccesso di elementi spettacolari,
il cinismo dell’atteggiamento
disincantato ormai diffuso anche
tra i bambini, l’impermeabilità
alla sorpresa o alle emozioni
violente e la conseguente
indifferenza a distinguere tra
illusione e realtà» 14.
Lo spazio virtuale è diventato
uno spazio a cui si ha
continuamente accesso e in cui
si può in ogni momento disporre
di una qualsiasi esistenza,
interscambiabile e reiterabile
all’infinito.
I video e la televisione
promettono continuamente un
«[…] eterno presente colmo
di ansie di sopravvivenza e di
gratificazione[…] È un mondo
abitato da “sottoproletari dello
spirito”» 15. I media promuovono,
da parte dello spettatore, un
atteggiamento compulsivo che
alimenta il desiderio irrefrenabile
di appagamento continuo.
Ogni visione su uno schermo
– che sia un social network o
un videogioco – sollecita una
percezione del sé ubiquitaria,
dell’essere qui e altrove, ci abitua
a una deformazione delle nostre
categorie spazio-temporali
e di giudizio, assottigliando
contemporaneamente fino
a renderla quasi invisibile la
responsabilità nei confronti
dell’irreversibilità dell’esistenza.
L’appartamento si è trasformato
nel mezzo principale dell’uomo
per appartarsi, farsi da parte,
chiudersi al mondo esterno ma
anche – posizionandosi nella
dimensione del “realitysmo” 16
– esporsi continuamente senza
necessità di mostrarsi: «Tutti
gli spazi riservati in cui ritirarsi
sono eliminati in nome della
trasparenza. Vengono illuminati
e sfruttati. Il mondo diviene,
in questo modo, nudo e senza
pudore» 17.
L’“appartamento” è diventato
quindi il tempio dell’apartheid
volontario, ma spesso
inconsapevole, del soggetto.
L’appartarsi permette
l’espansione smisurata
dell’ego nel mondo tramite la
“connessione” in cui si marca il
territorio della propria esistenza
con i “tweets” e i “likes”.
La tecnologia collegata all’uso di
Internet non è più un semplice
mezzo protesico per aiutarci
a supplire alle nostre carenze
biologiche materiali o mentali,
ma si presenta come vera e
propria ipotesi alternativa dal
punto di vista esistenziale, in
cui ci è concesso di abitare
un mondo privo della “solida”
pesantezza dell’esistenza reale.
Nel mondo virtuale non si cade,
non si suda, non si muore.
Non si fatica, non si perde per
sempre. Alla dimensione virtuale
appartengono le caratteristiche
che l’uomo ha sempre attribuito
alla figura divina: onnipotenza,
onnipresenza, immutabilità,
eternità. Lo spazio virtuale è lo
spazio dell’atopia e dell’acronia.
Il linguaggio tecnologico ha
sostituito il mondo, ma in questo
mondo l’essere non è più di casa,
14
16
Christopher Lasch, La cultura del
narcisismo, Bompiani, Milano 1981,
p. 101.
15
Zygmunt Baumann, Vita liquida,
Laterza, Bari 2008, pp. XV-XVI.
Termine preso da Ferraris,
Manifesto del nuovo realismo cit.
17
Han Byung-Chul, La società della
trasparenza, Nottetempo, Roma
2014, p. 13.
non lo abita più: «Ora, tramite
i mezzi di comunicazione, il
mondo ci è fornito a casa […]
non più l’uomo che esplora il
mondo, ma il mondo che in
immagine si offre all’uomo,
proprio perché egli non lo
percorre, tanto meno lo abita» 18.
Soprattutto, in questo mondo
non c’è più nessun segreto
da scoprire, nessuna scelta
da operare, nessuna trama
da comprendere, nessuna
complessità da interpretare: «Il
mondo rappresentato è l’unico
mondo che il monologo collettivo
dei mass media ci concede di
abitare [… in questo mondo]
si riduce, fino ad annullarsi, lo
spazio della libertà e il bisogno di
interpretazione» 19.
La libertà, come poter essere
non ancora realizzato ma
potenzialmente e autenticamente
possibile, può essere recuperata
tramite il riappropriarsi dell’uomo
del proprio racconto, del proprio
ambiente, re-imparando a
riconoscere il mezzo tecnologico
per quello che è – un mero
oggetto funzionale – e non
18
Galimberti, Psiche e techne cit.,
p. 639.
19
Ivi, p. 636.
un surrogato esistenziale:
«Lasceremo entrare gli oggetti
della tecnica nella nostra vita
quotidiana e nello stesso tempo
li lasciamo fuori: li lasciamo
riposare in sé come cose, che
non sono nulla di assoluto
[…] tale atteggiamento del
contemporaneo dir di sì e dir
di no al mondo della tecnica
vorrei chiamarlo, con un’unica
parola: rilassamento, serenità
(Gelassenheit) verso le cose» 20.
TV show: Unidad de Habitación 21
sembra procedere proprio
in questa direzione. È
un’installazione di otto monitor
che proiettano immagini
di vita domestica di alcuni
appartamenti di un quartiere
popolare di Caracas, riflesse sullo
schermo spento di un televisore.
La classe media venezuelana
(ma potrebbe essere di qualsiasi
parte del mondo), con tutte le
sue forme di rituale sociale, viene
presentata come immagine
simbolo dell’umanità, come
20
Martin Heidegger, Gelassenheit,
Günther Neske, Pfullingen 1959, da
U. Galimberti, Heidegger, Jaspers
e il tramonto dell’Occidente, Il
Saggiatore, Milano 1996, p. 131.
21
Installazione di Mauricio Lupini
del 2002.
Mauricio Lupini
tv show: unidad de habitaciòn
(Caracas)
2012
installazione
rappresentazione di quella
“medietà” heideggeriana che non
è più vista per la sua mancanza
di coscienza autentica ma
come modello confortevole
e accettabile dell’esistenza,
un modello tramite il quale è
possibile il verificarsi del racconto
esistenziale.
Le scene che scorrono in TV
show sono quelle che rientrano
nell’inquadratura del televisore. Il
televisore spento testimonia “in
diretta” ciò che accade in quel
momento nella casa.
Lo schermo si fa buio e muto,
si mette in disparte lasciando
che siano i riflessi visivi e
sonori della vita famigliare
a essere i protagonisti. In
questo riflesso c’è però anche
una sorta di pudore che, pur
invadendo l’intimità della
famiglia, è come se ne volesse
evitare l’esposizione oscena
dell’autocelebrazione: ne sfuma
i contorni, ne tralascia i dettagli,
ne impedisce l’identificazione
precisa, ne suggerisce i toni
I D E E
/
Z
senza mai marcarli.
È bastato spegnere lo schermo
per riaccendere lo spazio
magico della narrazione in
cui le immagini si oppongono
strenuamente a ogni forma
di “alta definizione”. Emerge
dall’ombra quel senso di mistero
che ne dilata la potenzialità
evocativa. «L’eccesso di
positività, che domina la società
contemporanea, è una traccia
del fatto che in essa si è smarrita
la narrazione» 22.
Certe volte basta un
semplice gesto per cambiare
completamente dimensione.
E passare da una dimensione
razionale a una poetica in
cui si accende la scintilla
esaltante della meraviglia. Da
una comunicazione mediatica
a una realtà autentica. E così
il televisore, nel suo goffo
primitivismo tecnologico,
diventa emblema del concetto
di “mezzo”: il “mezzo”, che
condivide il campo semantico
con l’opera d’arte in quanto
entrambi frutto della costruzione
dell’uomo 23, smette di essere
oggetto funzionale e si offre
come tramite per un’apertura a
una verità più profonda 24.
«Ciò che si presenta come
naturale non è che l’abituale
di una lunga abitudine che ha
dimenticato il disabituale da
cui deriva. Quel disabituale ha
tuttavia, un giorno, colto l’uomo
22
Byung-Chul, La società della
trasparenza cit., p. 57.
23
«Il mezzo ha in comune con
l’opera d’arte il fatto di essere frutto
di un’attività umana», Heidegger,
Sentieri interrotti cit., p. 14.
24
«Ciò che nell’opera è in opera:
l’apertura dell’ente nel suo essere, il
farsi evento della verità», ivi, p. 23.
112 / 113
di sorpresa come qualcosa di
straordinario, ed ha riempito il
pensiero di meraviglia» 25.
Il pudore con il quale le immagini
si offrono al sentire più che
al vedere le fa aprire a una
suggestione intuitiva più che
a un’invadente affermazione.
Tramite la loro impalpabile
presenza varchiamo la soglia del
descritto per entrare in quella
del narrato. Il descritto è un
mondo spiegato che non veicola
di fatto alcuna maggiore verità:
«Più informazione o soltanto un
accumulo di informazioni non
producono di per sé una verità.
Manca loro una direzione, vale a
dire un senso» 26.
Oltretutto: «L’iper-informazione
e l’iper-comunicazione
dimostrano proprio la
mancanza di verità, anzi la
mancanza d’essere» 27.
Paradossalmente, in questa
continua profferta di informazioni
e di descrizioni attuata dai media:
«Le immagini cariche di valore di
esposizione non rivelano alcuna
complessità. Sono univoche,
cioè pornografiche. A esse
manca ogni opacità che sarebbe
prodotta da una riflessione […].
Così, la trasparenza, coincide con
un vuoto di senso» 28.
In quest’opera la casa possiede
invece la magia del racconto.
L’arte riporta a questa magia
in cui il pensiero riflessivo si
sostituisce all’immagine ostensiva
e pervasiva. La seduzione torna a
essere il legame più profondo tra
ciò che si può percepire e ciò che
25
Byung-Chul, La società della
trasparenza cit., p. 10.
26
Ivi, p. 20.
27
Ivi, p. 21.
28
Ivi, p. 28.
sfugge alla nostra comprensione
immediata ma che – proprio
in virtù della sua mancanza di
svelamento – ci avvicina alla
prossimità del piacere della
rivelazione.
Se il televisore è spento
smettiamo di essere
consumatori-consumati e ci
proiettiamo fuori dal format
preconfezionato. Il gesto di
spegnere il televisore diventa
simbolicamente un atto drastico
che si oppone a ogni genere di
condizionamento esistenziale.
A schermo spento l’uomo non è
più spettatore o attore osservato;
della sua identità rimane solo un
brusio di fondo, parole e forme di
cui si avverte la presenza senza
poterne comprendere la sostanza.
Le immagini annacquate
non concedono la messa a
fuoco; hanno una consistenza
liquida, lattiginosa, si fermano
prima di oltrepassare la soglia
dell’identificazione. Le figure
riflesse recuperano uno
spessore proprio nell’opacità
che ne impedisce l’ostentazione
pornografica: «La società esposta
è una società pornografica. Tutto
è rivolto all’esterno, svelato,
denudato, svestito ed esposto.
L’eccesso di esposizione fa di
ogni cosa un prodotto, che è
“votato, nudo, senza segreto, al
divoramento immediato”» 29.
I bagliori soffusi e il mormorio
di sottofondo sostituiscono il
clamore abbagliante del mondo
mediatico. La prevedibilità
genuina delle azioni domestiche
si oppone a ogni forma di
sensazionalismo.
Le figure eteree si muovono
29
Ivi, p. 25.
nelle attività domestiche con la
spontaneità del vivere quotidiano: una
mamma aiuta il figlio a fare i compiti,
qualcuno è al telefono, altri parlano in
corridoio. La vita nell’appartamento
procede spontanea producendo una
sequenza indistinta sulla superficie
specchiante. È il respiro della casa
cadenzato dalle occupazioni e dai
gesti ordinari dove l’esistenza scorre
in un ritmo organico. Il televisore
non è al centro dell’attenzione ma
al centro della scena domestica: si
offre come specchio poetizzante più
che deformante, perché riporta ogni
oggetto e ogni azione in un morbido
alternarsi di luci e di ombre.
Il paesaggio umano sfocato scorre
nel video in un pulsare ovattato
e indefinito come racconto di
un’esistenza “comune”, come
un occhio interiore che lascia
“intravedere” la vita.
L’opera non promette premi o mondi
migliori, non urla, non illude, non
possiede una trama accattivante,
non impone alcuna spiegazione. Si
limita a “riflettere”, e il soggetto della
sua riflessione (riflesso) è l’esistenza
nella sua natura più vera, l’ambiente
naturale dove l’uomo è a casa.
È però uno sguardo lucido sulla vita,
forse languido d’emozione rispetto al
comune destino. Osservatore acuto
ma in punta di piedi, il video spento
accende l’immagine della vita reale.
Solo un video. Spento e acceso sul
mondo. Ne viene fuori un racconto
opaco, opposto all’accecante
trasparenza della contemporaneità:
«La comunicazione trasparente,
che non ammette più nulla
d’indefinito, è oscena» 30.
È un racconto di presenza e assenza
dove non domina un elemento su un
altro ma dove, se si presta attenzione,
30
Ivi, p. 57.
si vede scorrere l’esistenza così
com’è. Diventa un luogo poetico dove
energia e materia confluiscono nel
creare la trama di una silenziosa
melodia che lascia emergere il corpo
grande dell’emozione.
In un attimo diventa la storia di
ognuno di noi: di quella parte di vita
non osservata, che non racconteremo
mai, che non è fatta di attimi salienti,
di imprese avventurose o eroiche,
ma che è lì per lì, nella sua unica e
possibile essenza. Una vita osservata
quando non ci sentiamo osservati e
ci muoviamo naturalmente all’interno
di quella che è la nostra dimensione
abituale. Lascia le cose come sono,
e le cose non sono mai in un modo
o nell’altro. Non sono né vere e né
false, non sono né belle e né brutte,
semplicemente sono.
L’opera sollecita uno sguardo
sfuggente, fugace, proiettato
sull’evanescenza delle immagini
riprodotte. È uno sguardo leggero,
incauto, distratto, anche troppo simile
alla grossolana frettolosità del nostro
concitato effimero quotidiano.
Si passa davanti senza quasi
accorgersi che il televisore sta
trasmettendo un video. In un certo
senso l’opera, per poter funzionare,
ci chiede di spostarci leggermente
per lasciare emergere ciò che è
presente ma non manifesto; richiama
l’interesse verso una dimensione
latente: «Ma perché chiamiamo
inaccessibile la situazione latente?
Perché in quanto latente non attira
l’attenzione. Può anche essere sotto
gli occhi eppure non è considerata» 31.
Il video, anzi, è come se ci suggerisse
di passare oltre, di non fermarci a
guardare; è come se desiderasse
la nostra distrazione, la nostra
inconsapevolezza, la nostra
mancanza di comprensione. Sembra
voglia chiederci di partecipare con
la nostra indifferenza. Il nostro ruolo
diventa allora attivo all’interno del
meccanismo dell’opera, perché è
l’opera stessa che ci invita a non
riflettere su noi stessi. L’opera
vuole passare “inosservata”. Forse
è proprio la distrazione l’essenza
stessa della messinscena. La
distrazione da sé rende possibile
l’attuarsi dell’esistenza non
narcisistica: «La sovraesposizione
a illusioni prefabbricate distrugge
rapidamente la loro efficacia
rappresentativa. La componente
illusoria del reale non produce,
come sarebbe prevedibile, una
intensificazione del senso della
realtà, ma genera, nei confronti della
realtà stessa, uno stato di allarmante
indifferenza […] l’erosione della
capacità di interessarsi a qualsiasi
cosa esterna a sé» 32.
Solo chi si ferma comunque può
rimanere sorpreso nell’accorgersi
che sullo schermo compaiono
immagini che non sono il riflesso
reale di chi passa ma la proiezione
dei riflessi di qualcun altro in un
altro luogo. Lo specchiare del
televisore spento ci “confonde”:
il nostro riflesso si sovrappone
al riflesso registrato, gioco di
riflessi e di spazi in cui non è certa
l’identità di nessuno e rimane solo
la noncuranza del “passaggio”.
La sovrapposizione rende quasi
impossibile la distinzione tra ciò che
è vero e ciò che è falso, tra sé e gli
altri, tra il qui e l’altrove.
La verità come svelamento
dell’essenza si allontana
31
Martin Heidegger, Vorträge und
Aufsätze, Günther Neske, Pfullingen
1964, da Galimberti, Heidegger, Jaspers
cit., p. 117.
32
Lasch, La cultura del narcisismo cit.,
p. 102.
Nella casa
2013
regia di François Ozon
definitivamente dal messaggio
dell’opera, che lascia invece
aperta la manifestazione
dell’esistenza mediata forse
come unica possibile verità
dell’uomo. È nell’immagine
mediata che si materializza
la sua sostanza. La verità non
risiede più nella spiegazione e
nella definizione dell’essenza
delle cose ma nell’opacità, nella
densità emozionale di ogni
possibile racconto.
Nel vedere distratto c’è
un’occasione di vero sentire.
Dove lo sguardo non viene
sollecitato è possibile
lasciar emergere una visione
puramente speculativa. La
vaghezza della visione chiama
il fruitore a una forzatura che
lo spinge ad ascoltare meglio,
a tornare a un passo indietro,
a chiedersi cosa c'è, forse, da
vedere e da capire. Un sussurro,
quasi impercettibile, che lo fa
114 / 115
accorgere che sta accadendo
qualcosa.
La «parola poetica non enuncia
ma e-voca […]. Il silenzio,
la parola poetica, il non
volere si profilano così come
possibilità alternative al calcolo,
all’enunciato, alla volontà di
potenza con cui l’Occidente,
nelle sue espressioni tecniche,
annuncia se stesso» 33.
All’arte ancora una volta rimane
il compito di porci a contatto
con il senso dell’esistenza,
con il suo racconto. Con
l’arte possiamo ritrovare il
gusto della partecipazione,
del dialogo comune, della
condivisione dell’esperienza
estetica. Nell’opera d’arte si
superano le differenze tra
realtà e immaginazione, tra
essenza e rappresentazione,
tra potenziale e fattuale,
e si verifica ogni volta
quell’evento che ci consente
di riappropriarci in maniera
33
Galimberti, Heidegger, Jaspers
cit., p. 130.
genuina del contatto diretto
con il nostro essere.
Il racconto è conferire una
direzione all’esistenza, che cessa
di essere giudicabile banale o
straordinaria, ma solo autentica.
L’autenticità è data dal racconto
stesso, che non mira a dire
tutto o il vero, ma a fornire un
mezzo di orientamento in cui sia
l’esistenza stessa a conquistare
un senso.
Nella scena finale del film Nella
casa 34, i due protagonisti,
Claude e Germain, sono seduti
a chiacchierare sulla panchina
di un parco. Osservano due
donne che parlano sul balcone
di una casa di fronte. Provano
a ipotizzare il contenuto del
dialogo visto che da così lontano
non possono sentire il suono
delle parole: uno di loro sostiene
che si tratta certamente di una
lite tra amanti, l’altro ribatte
che è invece sicuramente
una discussione tra sorelle
per un’eredità. A quel punto
Claude chiede a Germain: «Ma
ti importa molto che siano
due gemelle invece che due
lesbiche?». E Germain risponde:
«Non particolarmente...».
34
Nella casa è un film del 2013, del
regista François Ozon.
Voci senza tempo
Il Teatro greco di Siracusa
Fina Serena Barbagallo
«Testimone di che, dunque? Di
un mito. Quale mito?
Quello di un’intera città che
non ospitava solo spettacoli
eccezionali,
ma li viveva in proprio: non
tanto partecipandovi, ma
vivendoli.
[…] Imparai prestissimo che
gli spettacoli non si facevano a
Siracusa,
ma Siracusa viveva i suoi
spettacoli che di quella vita
erano l’espressione».
(Giuseppe Di Martino, Nel
teatro di Siracusa, 1993)
Silvio D’Amico, nella sua Storia
del teatro drammatico, definisce
il teatro come «la comunione
d’un pubblico con uno spettacolo
vivente» 1, pensato quindi per
una collettività. La riutilizzazione
dei teatri antichi – riportati
all’originaria funzione di spazio
aperto alle rappresentazioni
teatrali – consente la fusione del
bene architettonico con l’opera
messa in scena, creando un
luogo di aggregazione collettiva
che – come avviene nel Teatro
greco di Siracusa – ci coinvolge,
1
Silvio D’amico, Storia del teatro
drammatico, Garzanti, Milano 1939,
p. 16.
accomunandoci nel richiamo dei
miti classici e della cultura greca.
Questa cavea è la più grande
d’Occidente. Un monumentocontenitore di eventi che dal
1914 lo rinnovano e fanno
rivivere, rendendolo un centro
di unione e di appartenenza
per coloro che considerano
il teatro non solo un bene
culturale, ma anche un luogo
sociale che riscopre tradizioni
ritenute perdute. Riferendosi
agli avvenimenti delle tragedie
del teatro siracusano come
«coscienza collettiva della
città», Emanuele Giliberti scrive:
«[…] Il teatro greco, monumento
di sé a se stesso, è percepito
grazie al suo utilizzo specifico
come elemento pulsante di
vita e non come simulacro di
valori scomparsi. Quindi non
fascinosa rovina da contemplare
con stupore, in accordo con
il sentimento del pittoresco
che caratterizzò il sentire dei
viaggiatori del passato, ma
piuttosto forma artistica, che
nel confermare la sua funzione
supera la propria origine storica
per divenire contemporaneità» 2.
2
Emanuele Giliberti, Premessa, in E.
Giliberti, L. Faraci, La scena ritrovata.
Novanta anni di teatro antico a
Anche Ettore Zocaro, nel saggio
I teatri antichi, memoria del
futuro, evidenzia il loro rapporto
con le rappresentazioni
classiche: «[…] L’importanza
che il teatro ha avuto in passato
nel diffondersi un po’ ovunque
nell’erigere straordinari punti
di aggregazione del pubblico
in modo da rispondere alla
sua imprescindibile necessità
sociale e culturale. […] È grazie
al dramma greco che la gente
si ritrova nei teatri, concepiti
per “vedere”, orientati in genere
verso scenari aperti (il mare, una
vallata), oppure in direzione sudest affinché si potesse vedere il
sorgere del sole. Ed è grazie al
dramma greco che la gente di
oggi si ritrova più o meno negli
stessi luoghi» 3.
Tutto il Mediterraneo è
ricco di teatri all’aperto, che
vivono nella luce naturale e
che hanno avuto la forza di
perdurare nei secoli: strutture
architettonicamente quasi tutte
di forma semicircolare, ideate
con precisi criteri di visibilità e di
Siracusa, Arnaldo Lombardi, Siracusa
2003, p. 12.
3
Ettore Zocaro, I teatri antichi,
memoria del futuro, «Dioniso», n. 3,
2004, pp. 186-187.
I D E E
/
Z
acustica. Frutto principalmente
dell’età ellenistica, nei secoli
si sono diffusi in Europa e nel
Mediterraneo, mantenendo
inalterato il proprio ruolo
storico e archeologico, unito
alla necessità di essere
utilizzati, malgrado i numerosi
problemi di conservazione
che tuttora continuano a
presentarsi. Sono monumenti
che nonostante abbiano talora
subito decadenze, abbandoni
o razzie, una volta riscoperti
acquistano nuovo vigore nel
nostro tempo, ruderi portatori
di civiltà lontane. E, all’inizio del
terzo millennio, ospitano eventi
molteplici che interessano
archeologi, architetti, artisti,
registi, ricercatori, direttori di
musei, organizzatori di festival 4.
L’idea di rievocare il dramma
antico nei teatri all’aperto
non nasce a Siracusa, ma è
di Gabriele D’Annunzio che,
nel 1899, dopo aver assistito
a una rappresentazione delle
Eumenidi di Eschilo nel teatro
romano di Orange, pensò di
creare un teatro all’aperto
dai resti di un teatro antico
in provincia di Roma. Tale
visione dannunziana diventò
reale sul colle Temenite nel
1914, quanto il 16 aprile
si mise in scena la prima
rappresentazione classica
moderna nel Teatro greco
di Siracusa. Il testo scelto
fu Agamennone di Eschilo
e a dar vita all’evento fu il
lungimirante conte Mario
Tommaso Gargallo assieme
al Comitato generale per le
Rappresentazioni Classiche: le
4
Ivi, p. 187.
116 / 117
cronache del tempo narrano
di «una Siracusa “rinata” in
quei tre giorni di aprile, tanto
attesi» 5. I giornali italiani ed
esteri dell’epoca riferiscono
del grandissimo successo
di questo evento. Dopo aver
assistito a Edipo Re di Sofocle
nel teatro romano di Fiesole
nel 1911, il Gargallo aveva
capito, infatti, l’importanza
della tragedia antica nella
coscienza contemporanea e
la funzione sociale del ritorno
dei drammi classici proprio
sulla scena che li aveva ospitati
migliaia di anni prima. Oltre
al Gargallo, componente
del Comitato era il grecista
Ettore Romagnoli, di cui fu
significativo il contributo alle
traduzioni dei testi greci.
Egli definiva Siracusa la
«“giusta sede” non solo per
la presenza in questa città
del più grande teatro greco
dell’occidente, ma anche per il
suggestivo scenario naturale
che fa da sfondo a questo
famoso teatro all’aperto» 6.
Fu grazie al Comitato per le
Rappresentazioni Classiche
– primo nucleo di ciò che
poi diverrà l’INDA, Istituto
Nazionale del Dramma Antico
– che il progetto di riportare
in scena opere di quel genere
fu riproposto nel Teatro
greco di Siracusa. Questa
istituzione è fondamentale
per tracciare la storia degli
spettacoli classici in Italia ed
è indubbio che la rinascita
5
Giliberti, Faraci, La scena ritrovata
cit., pp. 15-18.
6
Giuseppe Puzzo, Gli spettacoli
classici a Siracusa 1914-1980, La
Domenica, Siracusa 1980, p. 8.
del dramma antico nel nostro
paese sia contemporanea alla
nascita dell’INDA. Le vicende
storiche dell’Istituto si legano
inoltre fortemente a quelle
della città e del Teatro greco:
una costante operosità ha
fatto guadagnare a questa
istituzione un riconoscimento
di assoluta competenza,
garanzia del carattere
eccellente degli spettacoli
classici siracusani e di
un’espressione d’arte che non
sembra temere tramonti.
Oltre a Fiesole nel 1911,
anche a Roma vi erano state
le prime sperimentazioni
sulle rappresentazioni
classiche, grazie al Comitato
dell’Esposizione per il
cinquantenario dell’Unità
Nazionale che inserì nei
festeggiamenti opere come
Baccanti e Ciclope di Euripide,
Le Nuvole di Aristofane. Altri
tentativi di far rivivere il mito
greco furono fatti a Padova,
Vicenza, Trieste e Milano. Fu
tuttavia Siracusa la città ad
avere il merito non solo di
aver concepito la rinascita
e il rifiorire degli spettacoli
classici, ma soprattutto di
aver riportato il dramma greco
a contatto con le persone
comuni. Le rappresentazioni
classiche non erano rivolte
a un pubblico d’élite, ma a
tutti 7. L’importanza di questi
spettacoli – e la loro riuscita –
stava proprio nell’aver riportato
il dramma antico vicino alla
gente, rendendolo nuovamente
popolare, come fu alla sua
origine.
7
Ibid.
Il ritorno agli spettacoli classici fu
interrotto per sei anni a causa della
prima guerra mondiale, ma il teatro
ritornò a essere fruito nel 1921
con Coefore di Eschilo che attrasse
a Siracusa migliaia di visitatori
stranieri. L’eccezionale affluenza
concretizzò le aspirazioni del conte
Gargallo che pensava gli spettacoli
come un avvenimento di respiro
nazionale e mondiale. Il successo
del ’21 si rinnovò nella primavera
successiva con Edipo Re di Sofocle
e Baccanti di Euripide, con scene di
Duilio Cambellotti, interpretazione
musicale di Giuseppe Mulè e
direzione artistica di Romagnoli:
«una messa in scena splendida»,
secondo la critica dell’epoca che
sottolineava: «non c’è al mondo
uno spettacolo che uguagli la
grandiosità delle rappresentazioni
classiche di Siracusa» 8, elogiando
la straordinarietà del luogo,
delle tragedie, della città e della
comunità. Nel ’24 fu la volta di
Sette a Tebe di Eschilo e Antigone
di Sofocle che ottennero ancora
un grande consenso dal pubblico
e dalla critica: i giornali dell’epoca
sottolinearono addirittura la fama
mondiale conquistata dal teatro di
Siracusa.
Il 1927 fu un anno importante per
l’INDA che, per il quinto ciclo di
rappresentazioni classiche, mise
in scena quattro lavori, al fine di
fornire un quadro completo delle
tre forme di arte drammatica:
tragedia, commedia e dramma
satiresco. A giorni alterni, in uno
venivano rappresentati Medea e il
Ciclope, entrambe di Euripide, e nel
successivo Le Nuvole di Aristofane e
I Satiri alla Caccia di Sofocle. Ancora
una volta il successo trovò un’eco
8
Ivi, p. 33.
unanime nella stampa nazionale ed
estera. «Il quinto ciclo sostengono
i critici dell’epoca, è destinato a
rimanere fra i più importanti nella
storia dell’Istituto Nazionale del
Dramma Antico» 9.
Gli anni Venti e Trenta furono
caratterizzati da numerose
iniziative e, con cadenza triennale,
si svolsero quattro cicli. In quegli
anni l’Istituto divenne statale e
la sede fu trasferita da Siracusa
a Roma: il regime fascista optò
per un maggior controllo al fine di
evitare «improvvisate organizzazioni
e speculazioni sugli spettacoli
all’aperto» 10. Per volere del Duce,
nel ’29 fu eletto presidente Biagio
Pace, deputato al Parlamento e
docente universitario di Archeologia
e Storia dell’arte classica. Si legge
nei documenti del tempo: «Il Duce,
scegliendo per questo posto di
comando e di responsabilità un
camerata, che innumerevoli motivi
intellettuali e sentimentali legano
alla città di Siracusa, ha mostrato
come il trasferimento dell’Istituto
Alcesti
1992
regia di Sandro Sequi, Teatro greco di
Siracusa
in Roma risponda ad una direttiva
del Regime e vuol rispettare la
posizione di privilegio che a Siracusa
deriva, per gli spettacoli classici,
dalla gloria antica e nuova del suo
Teatro» 11. Biagio Pace fu presidente
dell’INDA fino al 1944. Nonostante
le difficoltà economiche dovute alla
guerra, le rappresentazioni ripresero
nel ’48 12: desiderosa di ricominciare,
la città si fece trovare pronta per
un nuova avventura e per la prima
volta fu messa in scena l’intera
trilogia Orestea di Eschilo. La critica
del periodo rimarcò il vincolo dei
cittadini col teatro e le tragedie che
i siracusani consideravano proprie.
«[…] La riesumazione della tragedia
greca, nel superbo millenario
monumento che è il teatro
siracusano, è ormai divenuta un rito
che si ripete da oltre un trentennio
11
9
Ivi, p. 57.
10
Giliberti, Faraci, La scena ritrovata
cit., p. 36.
Ibid.
La cadenza degli spettacoli dal 1948
al 2000 è stata biennale, annuale dal
2001 a oggi.
12
I D E E
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Z
conquistando gli ambienti
intellettuali del mondo intero.
Le rappresentazioni, riportano
alla nostra e altrui ammirazione
una delle più vive espressioni
dell’arte ellenica, son valse a far
rivivere la tragedia greca, che
da secoli intristiva nel chiuso
delle biblioteche, al contatto
vivificante delle grandi masse
e nell’ambiente più genuino
per cui era nata» 13. Nel ’50,
durante la messa in scena di
Baccanti di Euripide e Persiani
di Eschilo, Salvatore Quasimodo
rilevò: «L’Istituto del Dramma
Antico, [...] pone oggi le
rappresentazioni siracusane su
un piano valido, cioè dà a quello
spazio di pietra millenaria un
valore di teatro» 14.
Dal 1952 a oggi le
rappresentazioni classiche
di Siracusa hanno tenuto un
ritmo serrato, coinvolgendo il
territorio circostante e l'intera
penisola; molti lavori sono
stati messi in scena anche
in altri teatri greci e romani,
o nei luoghi di particolare
suggestione archeologica quali
Ostia Antica, Pompei, Fiesole,
Gubbio, Benevento, Taormina,
Palazzolo Acreide, Tindari,
Paestum, Agrigento, Selinunte,
Segesta, Urbino, Vicenza. È
noto che il repertorio teatrale
antico di tragedie classiche
non è cospicuo, gli autori a
noi pervenuti sono Eschilo,
Sofocle, Euripide per la tragedia
e Aristofane per la commedia.
Le opere rimaste sono in tutto
32 e rappresentano una minima
parte delle 90 di Eschilo, delle
100 e più di Sofocle e delle 92
di Euripide. Su almeno 50 autori
e su almeno 1500 tragedie
soltanto tre autori e 32 tragedie
sono giunte a noi 15, essendosi
forse tramandate quelle che
ebbero più successo.
Il ’52 è un anno di cambiamenti
per l’Istituto, a partire dal
nuovo presidente, Antonino
Sammartano. Vengono
inoltre scelti due drammi mai
interpretati dai moderni, Troiane
di Euripide ed Edipo a Colono
di Sofocle, ritenuti poco adatti
alla rappresentazione da quanti
filologicamente intendevano
tali spettacoli. Al contrario
riscuotono un enorme successo,
grazie anche a due attori già
protagonisti di precedenti
tragedie e ai quali Siracusa è
affezionata: Salvo Randone e
Giovanna Scotto. Nel ’54 vanno
in scena Prometeo Incatenato
di Eschilo e Antigone di Sofocle.
Anche Prometeo era stato
ritenuto non rappresentabile, in
quanto troppo statico e perché
aveva come protagonisti soltanto
personaggi divini. Ma ancora
una volta le previsioni furono
capovolte e andò in scena uno
degli spettacoli più memorabili,
grazie anche all’interpretazione
di uno straordinario, giovane
Vittorio Gassman.
Negli anni Sessanta, Vittorio
Gassman ritorna a Siracusa
per la terza volta come regista
(insieme a Luciano Lucignani)
e come protagonista della
trilogia Orestiade, nella
traduzione di Pier Paolo Pasolini
che modernizza il testo di
Eschilo. Il successo si ripete
nel ’62 con Ecuba e Ione di
Euripide, rappresentata per
la prima volta, e nel ’64 con
Eracle e Andromaca, sempre
di Euripide, mai rappresentate
in Italia. Per Ecuba e Eracle
scende in campo un traduttore
d’eccellenza: Salvatore
Quasimodo. È un periodo
felice per una città sempre
in fermento che ospita, alle
premiazioni dell’Eschilo d’Oro,
anche Federico Fellini e Giulietta
Masina che consegnano
i riconoscimenti a Elena
Zareschi, Vittorio Gassman,
Carlo D’Angelo e alla memoria di
Ettore Romagnoli, colui che per
trent’anni aveva fatto la storia
del teatro siracusano. Ancora
positivo l’esito delle successive
tragedie del ’66 e del ’68, con gli
attori acclamati a ogni replica
dalla critica e dal pubblico.
Osservando foto d’epoca
colpisce il notevole concorso di
visitatori negli anni Settanta:
valida e attuale è la tragedia
greca, per usare le parole di
Giuseppe Puzzo, «capace, di
commuovere e conquistare
il pubblico con l’espressione
di un’arte e di una poesia che
superano i limiti del tempo
come tutti i capolavori del teatro
classico» 16. Il XXI ciclo, nel
1970, vede Elettra di Sofocle e
Ippolito di Euripide dirette da
una personalità di grande rilievo,
Franco Enriquez, al quale due
anni dopo verrà affidata una
13
Aldo Carratore, «La Sicilia», 10
aprile 1948.
14
Salvatore Quasimodo, «Tempo»,
Settimanale, 27 maggio 1950.
118 / 119
15
Nino Sammartano, Gli spettacoli
classici in Italia, «Dioniso», vol. XXII,
1-2, gennaio-aprile, 1959, p. 10.
16
Puzzo, Gli spettacoli classici cit.,
p. 225.
strepitosa Medea. Il ’72 è anche
l’anno di Edipo Re per la regia di
Alessandro Fersen: in entrambe si
impone l’interpretazione di Valeria
Moriconi, come prima attrice, di
Medea e Giocasta, «protagonista
appassionata e istintiva della
tragedia euripidea» 17. Sono però
anche gli anni delle contestazioni:
criticati sono i riferimenti
all’attualità, come gli accostamenti
alla guerra del Vietnam e alla
dittatura militare di Atene introdotti
da Giuseppe Di Martino (già nel ’62,
’64 e ’66 a Siracusa come regista e
nel ’58 come collaboratore di Guido
Salvini) nelle Troiane del ’74. I pareri
contrastanti riguardano soprattutto
l’inserimento di elementi politici
contemporanei nel dramma classico.
Nel ’76 all’INDA è nominato un nuovo
commissario, Giusto Monaco,
che introduce alcune novità di
rilievo: non più due opere ma tre, la
rappresentazione di una commedia
greca, Le Rane di Aristofane, l’esordio
di una commedia latina, Rudens di
Plauto, messa in scena nel vicino
anfiteatro romano. Fra le tragedie
viene scelta Edipo a Colono di
Sofocle. Il recupero dell’anfiteatro fu
considerato funzionale e allettante,
soprattutto in un momento in cui –
oltre a essere oberato da problemi
finanziari – l’Istituto rischiava di
chiudere in base alla legge n. 70
(Legge degli Enti Inutili).
Il 1978 – che sarebbe dovuto essere
l’ultimo anno di attività 18 dell’INDA – si
aprì invece con un gesto positivo del
Ministero che lo riconobbe «Ente
necessario ai fini dello sviluppo civile,
culturale e democratico del Paese».
Tra le motivazioni del Ministero, nel
17
Ivi, p. 235.
Giliberti, Faraci, La scena ritrovata
cit., p. 80.
valutare positivamente l’attività
dell’Istituto, vi furono: lo stretto
rapporto fra attività teatrale, studio
e ricerca; la scelta di un repertorio
antico che condensasse tragico e
comico; il rispetto e la valorizzazione
dei monumenti; le promozioni con
altri enti teatrali e, infine, una politica
fatta anche di prezzi accessibili,
sull’esempio dei cittadini dell’antica
Grecia che non pagavano per vedere
gli spettacoli. In quell’anno andarono
in scena Elena di Euripide, mai
rappresentata a Siracusa, e Coefore
di Eschilo, e vennero inoltre allestite
manifestazioni collaterali in altri
luoghi della città, come la chiesa
sconsacrata di San Giovannello
alla Giudecca, con Prometeo di
Andrea Baldini, tratto da Eschilo e
Robert Lowell, e il Messaggero di
Filippo Amoroso e Arnaldo Ninchi, in
collaborazione con Patrizia Barbera.
Si continuò con spettacoli come le
Baccanti di Luca Ronconi 19.
Gli anni Ottanta rappresentano
un periodo importante per l’INDA,
per la città e per il Teatro greco.
Per la prima volta gli spettacoli
furono prolungati per un mese
intero. Per la realizzazione dei
manifesti si chiamarono artisti di
fama che realizzarono significative
prove d’autore: Bruno Caruso,
Renato Guttuso, Salvatore Fiume,
Emilio Greco, Gaetano Tranchino,
Mimmo Paladino. Nell’82 i giorni
delle rappresentazioni classiche
aumentarono da 30 a 38 giorni,
e andarono in scena Supplici di
Eschilo e Ifigenia tra i Tauri di
Euripide. Della prima il pubblico
apprezzò gli elementi di carattere
esotico e orientaleggiante, della
seconda i motivi moderni inseriti
nella scena, come il gruppo di
archeologi, che introducevano una
scultura di Artemide in legno, o
la gru che, alla fine del dramma,
trasportava una gabbia metallica
con Atena all’interno.
I Novanta si aprirono con la scelta di
due giovani registi, Mario Martone e
Guido De Monticelli, ai quali furono
affidati Persiani di Eschilo ed Elettra
di Sofocle. Martone volle con sé
attori legati all’esperienza teatrale
“Falso Movimento”, tra cui Toni
Servillo, Antonio Neiwiller, Mariella
Lo Sardo, Remo Girone e Andrea
Renzi. Il pubblico siracusano restò
sorpreso dalla scelta di vedere i
microfoni alle guance degli attori,
abituato a sentirli con la sola
acustica della cavea. Contrastanti
furono i pareri su questa scelta,
ma non fu l’unico esperimento
del regista che, ad esempio, del
Messaggero fece ascoltare solo
la voce registrata da più punti
del teatro, una cantilena asiatica
realizzata da Franco Battiato e
Giusto Pio, creando un forte impatto
emotivo. Le successive tragedie
messe in scena nel ’92 furono Edipo
Re di Sofocle e Alcesti di Euripide.
Nel primo, non rappresentato da
vent’anni, il regista Giancarlo Sepe
mise in primo piano il dramma
famigliare accentuando i toni tragici,
con grande gradimento del pubblico.
Nel secondo, messo in scena a
Siracusa per la prima volta in quanto
ritenuto poco accessibile per i suoi
temi ambigui, il ruolo di Alcesti
fu affidato a Piera Degli Esposti
affiancata da Aldo Reggiani: l’attrice
fu addirittura paragonata alla Duse
per l’entusiasmo e l’intensità del
personaggio 20.
Il ’94 fu segnato dal ritorno di
tre rappresentazioni: Acarnesi
19
20
18
Ivi, p. 81.
Ivi, pp. 93-95.
I D E E
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Z
di Aristofane, Agamennone
e Prometeo di Eschilo. Per
celebrare gli ottant’anni
di attività l’Istituto scelse
di mettere in scena
l’Agamennone come nel 1914,
allestendo altresì una mostra
documentaria dei materiali
storici dell’INDA a Palazzo
Gargallo: un modo per rinsaldare
l’unione tra città e teatro.
Negli ultimi quindici anni il
teatro è stato abitato da 41
rappresentazioni, tra tragedie
e commedie; è stato luogo di
riso e di pianto; è stato simbolo
di sperimentazione e creazione
per registi e attori.
Certo, lo spazio scenico del
teatro di oggi è differente
da quello originario: non
solo nella struttura – che ha
subito delle modifiche sotto i
romani e numerose spoliazioni
durante i secoli – ma anche
nella reinterpretazione del
mito. Eppure come nell'antico
esso rimane un luogo vivo,
dove la collettività ritrova se
stessa, anche dibattendo
fatti attualissimi. Un esempio
concreto è dato dalle tragedie
andate in scena quest’anno,
Supplici di Eschilo, Ifigenia in
Aulide di Euripide, Medea di
Seneca, ridefinite la “Trilogia
del mare” in quanto in tutte è
ravvisato uno stretto rapporto
col mare e con i temi ad esso
legati: il diritto di asilo, i viaggi
della speranza, i sacrifici di
uomini e donne.
In particolare, spicca per
originalità la tragedia Supplici
di Eschilo, diretta e interpretata
da Moni Ovadia. Storia
universale e attualissima,
essa racconta di ribellione
120 / 121
alle imposizioni, di libertà e di
accoglienza. Tematiche care
al regista che, unitamente al
musicista Mario Incudine, ha
tradotto il testo greco in un
siciliano potente e ha inserito
nei dialoghi passi di greco
moderno, dando vita a un
insieme di tessiture musicali
meridionali e voci mediterranee
avvolgenti. Nella parte di un
cantastorie, Incudine dà inizio
al racconto con un «Vi cuntu»,
anticipando la storia in un
siciliano arioso e poetico, una
sorta di prologo che informa
il pubblico su quanto avverrà
sulla scena. La tragedia non
prevede il ruolo del cantastorie,
ma questo è suggerito dalla
tradizione siciliana, in cui i
cuntisti sono fondamentali
nella diffusione della cultura.
Il cantastorie ripensato da
Ovadia e Incudine non solo
anticipa e spiega i fatti – scelta
filologicamente trasgressiva
ma decisiva al fine di
sicilianizzare la tragedia – ma
viene addirittura identificato
nello stesso Eschilo che si
definisce “poeta siciliano”.
Semplice la trama della
tragedia: per sfuggire ai cugini
egizi che vogliono sposarle, le
figlie di Danao approdano sulla
spiaggia di Argo e chiedono
rifugio al re Pelasgo in nome
di Zeus. Timoroso di una
guerra il re è riluttante, ma
alla fine decide di accoglierle,
nonostante l’arrivo degli egizi.
Più che nella trama, la forza di
questo testo è nella ribellione
delle Danaidi alla violenza e
alla prevaricazione, prima volta
nella storia in cui è affermato il
diritto all’autodeterminazione
della donna al matrimonio.
La tragedia di ieri si innesta
dunque in una tragedia che
riguarda la società di oggi:
la violenza sulle donne, nel
passato come nel presente. Il
coro delle Danaidi, protagonista
assoluto dell’intero dramma,
diventa così il grido disperato
di ogni vittima di ingiustizie,
a tutte le latitudini e in ogni
tempo.
Fulcro dell’intera vicenda è
l’accoglienza che Argo riserva
alle Danaidi. Ed è questa
circostanza che rende le parole
di Eschilo particolarmente
apprezzabili dai Siciliani che
hanno sentito l’antica tragedia
come propria, in un momento
storico in cui la Sicilia riveste un
ruolo centrale nel Mediterraneo
sofferente dei profughi. Forse
qualche visitatore si è sentito
tradito assistendo a una
tragedia in siciliano e greco
moderno, ma la maggior
parte del pubblico è stata
coinvolta dalla storia cuntata
dal cantastorie, si è commossa
nell’apprendere che si trattava
dello stesso Eschilo, ha recepito
la potenza del messaggio, si è
emozionata negli accostamenti
all’attualità, non ha visto
rinnegato il testo originale
eschileo. E ha apprezzato Moni
Ovadia quando, nella parte
di Pelasgo, afferma che non
potrà decidere della sorte delle
ragazze se prima non avrà
consultato il popolo. Queste le
parole: «Sugnu cu sugnu, ma
nun cuntu nenti. Ca dicidi la me
genti».
Stefano Cerio, Shilaoren Balthing Beach, Qingdao, 2013
Stefano Cerio, Hong Kong, 2015
Stefano Cerio, Treasure Island Pirate Kingdom, Qingdao, 2013
Z
/AUTORI
fina serena barbagallo
//////////
Nata a Siracusa nel 1971, è docente
di Storia dell’arte all’Accademia di
Belle Arti di Napoli. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso
l’Università della Tuscia di Viterbo, è
specializza in Storia dell’arte medievale e moderna presso l’Università
della LUMSA di Palermo. Ha collaborato con Ferdinando Maurici al volume Le torri nei paesaggi costieri siciliani (secoli XIII-XIX); ed è autrice di
saggi nel libro Castelli di Sicilia città
e fortificazioni, per le edizioni Kalós.
Ha pubblicato la monografia Sebastiano Monaco nel contesto della
pittura siciliana del secondo Settecento, ha collaborato con Isabella
Valente al catalogo della mostra
Il Bello o il Vero. La scultura napoletana del secondo Ottocento e del
primo Novecento e ha pubblicato la
monografia Gaetano Tranchino. Vita
e arte, come Ulisse…nella sua terra.
olivo barbieri
//////////
Nato a Carpi (MO) nel 1954, è tra i
più importanti fotografi internazionali. Inizia a esporre nel 1978 (Flippers 1977-1978). La sua ricerca si
concentra inizialmente sull’illuminazione artificiale nella città europea e orientale. Dal 1989 viaggia
abitualmente in Oriente, soprattutto in Cina. Nel 1996, il Museum
Folkwang di Essen, Germania, gli
dedica una retrospettiva. Nel 2003
inizia il progetto site specific (fotografie e film) che coinvolge più di 40
città nel mondo tra le quali Roma,
124 / 125
Torino, Napoli, Genova, Catania, Firenze, Montreal, Amman, Shanghai,
Siviglia, Las Vegas, New York, Los
Angeles, Chicago, Detroit, Brasilia,
Rio de Janeiro, Bangkok, Mexico City,
Istanbul, Tel Aviv. L’editore Aperture (New York, 2013) pubblica il libro
Site Specific_03_13. Nel 1993, 1995,
1997 e 2011 partecipa alla Biennale
di Venezia. Nel 2003 sue opere sono
esposte a «Strangers», la prima
Triennale di fotografia e video organizzata dall’ICP (International Center of Photography), New York. Nel
2011 presenta DOLOMITES PROJECT
2010 al Museo Mart di Rovereto. Nel
2015 il museo MAXXI di Roma gli
dedica una retrospettiva «Images
1978-2014». Pubblica la raccolta
retrospettiva sul progetto di ricerca
trentennale sull’illuminazione artificiale ERSATZ LIGHTS case study #1
east-west (Hatje Cantz Verlag). Ha
esposto nei più importanti musei,
istituzioni, rassegne d’arte e festival
internazionali di cinema tra i quali, MOMA San Francisco, Sundance
Film Festival, Centre Pompidou, Tate
Modern, Walker Art Centre Minneapolis, MADRE Napoli, Hayward Gallery
Londra, Museum of Contemporary
Art Chicago, la Biennale di Venezia
ecc. Sull’opera dell’artista sono stati
pubblicati numerosi libri e cataloghi;
opere di Barbieri sono presenti in
musei e collezioni d’arte pubbliche e
private in Europa e negli Stati Uniti.
antonio carnevale
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È nato a Milano, dove vive. Giornalista,
è responsabile delle pagine culturali del settimanale «Panorama». Nel
2013 ha pubblicato il romanzo I santi
muti e il libro-inchiesta Scene da un
patrimonio. Ventiquattro interviste
per capire e rilanciare il sistema dei
beni culturali. È tra i fondatori di Conceptualfinearts.com, sito di ricerca
rivolto a indagare i rapporti fra arte
antica e contemporanea.
angelo carotenuto
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Napoletano, 49 anni. Ha scritto due
romanzi: Dove le strade non hanno
nome (Ad est dell’equatore, 2013),
ambientato alla vigilia delle elezioni
comunali del ’93, e La grammatica
del bianco (Rizzoli, 2014), formazione di un bambino attraverso il tennis
e un’esperienza da raccattapalle a
Wimbledon (finalista al premio Bancarella Sport, premio Geremia narrativa
per ragazzi e 2° al premio Coni). Il suo
primo racconto, Birra vino e cocktail è
stato pubblicato nel 2000 in una raccolta edita da Marsilio. Scrive di sport,
libri e spettacoli per «la Repubblica» e
«il Venerdì». Ha scritto una tesi, in inglese, sulla tradizione delle commedie
di Eduardo De Filippo.
gea casolaro
//////////
Nata a Roma nel 1965, vive tra Roma
e Parigi. La sua opera ventennale indaga attraverso la fotografia, il video
e la scrittura, il nostro rapporto con
le immagini, l’attualità, la società,
la storia. La sua ricerca mira ad attivare un dialogo permanente tra le
esperienze e le persone, per ampliare la nostra capacità di analisi e di
conoscenza della realtà, attraverso i
punti di vista altrui.
Nel 2009, per nove mesi, è stata in
residenza presso la Cité Internationale des Arts di Parigi per il progetto
Still here sul rapporto tra cinema e
vita quotidiana nella capitale francese. Nel 2011, in occasione della Biennale di Venezia, ha esposto
all’Istituto Italiano di Cultura di
Strasburgo una serie di opere sul
tema delle frontiere. Nel 2012 ha
partecipato al Festival Images
di Vevey, in Svizzera. Nel 2013 è
stata in residenza presso l’Istituto
Italiano di Cultura di Addis Abeba,
Etiopia, realizzando un lavoro collettivo con un gruppo di studenti
della Alle School of Fine Arts dal
titolo Sharing Gazes. Nello stesso
anno ha realizzato due missioni
fotografiche commissionate nel
Principato di Monaco (il lavoro Forever Monte-Carlo è stato esposto presso The Forbes Galleries,
a NewYork) e in Lussemburgo, al
CNA – Centre national de l’audiovisuel, dove ha realizzato un
ritratto delle complesse sfaccettature del Paese attraverso una
mostra di mail-art-relazionale,
intitolata «Send Me a Postcard,
a site aside, inside, in between,
away». Nell’autunno del 2015 è
stata in residenza per oltre due
mesi presso l’Istituto Italiano di
Cultura di Lima per un progetto
di arte partecipativa ispirato dal
lavoro del fotografo andino Martín
Chambi, con un gruppo di studenti
del Centro de la Imagen.
stefano cerio
//////////
Vive e lavora tra Roma e Parigi.
Inizia la carriera di fotografo a
18 anni collaborando con «L’Espresso». Dal 2001 si interessa
di fotografia di ricerca e video.
Espone al Diaframma di Milano,
alla galleria Recalcati di Torino,
mentre del 2004 è il progetto Machine Man al Lattuada Studio di
Milano. Nel 2005 espone Codice
Multiplo a Città della Scienza di
Napoli. Nel 2008 realizza per la
Regione Piemonte una installazione per la mostra «Le Porte del
Mediterraneo» a Rivoli ed espone
alla Changing Role di Roma con
«Souvenirs». Nel 2009 presenta
«Sintetico Italiano» alla Certosa
di Capri. Del 2010 sono le mostre alla Galerie Italienne di Pa-
rigi e al Museo MADRE di Napoli
(collettiva «’O Vero»). Nel 2011
espone «Winter Aquapark» alla
Fondazione Forma di Milano; la
mostra è accompagnata dal volume Aquapark, pubblicato da Contrasto. Nello stesso anno proietta
il suo video Summer Aquapark al
MAXXI di Roma. Nel 2012 espone la serie Night Ski allo Studio
Trisorio di Napoli, mentre l’anno
successivo la serie Chinese Fun
da Noire Contemporary Art a Torino e nel 2014 Cruise Ship Mois
de la Photo a Parigi. Nel 2015
Chinese Fun diventa un libro per
Hatje Cantz e una nuova mostra
alla Fondazione Volume! a Roma.
enrica d’aguanno
//////////
Art director, è docente di Graphic
design all’Accademia di Belle Arti di
Napoli. Lavora nel campo della comunicazione grafica e della grafica
editoriale dal 1983 (Liguori editore;
Fondazione Mimmo Rotella; Electa
Napoli; Prismi Editrice Politecnica
Napoli; Mondadori Electa; arte’m/
prismi; Gangemi editore).
Dalla progettazione grafica del libro d’arte, la collaborazione con le
principali istituzioni nel settore dei
beni culturali si è estesa alla cura
dell’immagine relativa all’evento,
è il caso delle mostre: «All’ombra
del Vesuvio», «Caravaggio: l’ultimo
tempo, 1606-1610», «Velázquez
a Capodimonte», «Louise Bourgeois», «Albert Oehlen», «Piazza
delle Arti», «Premio Nazionale delle
Arti», «Il Teatro di San Carlo», «Ottocento a Capodimonte», «Paladino/Ravello», «Tony Cragg/Ravello»,
«Patrimoni da svelare per le Arti del
Futuro».
libero de cunzo
//////////
È docente di Fotografia al Liceo Artistico “Boccioni-Palizzi” e
all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dalla prima pubblicazione
Basilicata ’78, con La Nuova Italia
Editrice, ha promosso numerose
iniziative realizzando reportage
su architettura, ambiente e paesaggio. Ha collaborato con diversi enti e istituzioni pubbliche
e private di rilievo. Ha partecipato
con contributi monografici alle
rassegne: «L’Italia nel paesaggio» (1999); «Le stanze dell’Arte»
(2002); «Living Theatre / labirinti
dell’immaginario» (2003); «Città,
architettura, edilizia pubblica. Napoli e il Piano Ina-Casa» (2006);
«Il Paesaggio degli Dei e il lavoro
degli Uomini» (2012). Tra i titoli
pubblicati: Infiniti possibili: Ravello; Grotta del Sole; Lontano dall’Isola Azzurra; Zone. Napoli/Parigi;
La trama vivente della storia; a
passo di Vigna; Vocis Imago/Imago Vocis. Di recente ha curato la
mostra «Nove Visioni: nuove proposte per la fotografia d’autore»
al PAN | Palazzo delle Arti Napoli.
maurizio de giovanni
//////////
Nasce nel 1958 a Napoli, dove
vive e lavora. Nel 2005 vince un
concorso per giallisti esordienti
con un racconto incentrato sulla
figura del commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni
Trenta. Il personaggio gli ispira
un ciclo di romanzi, pubblicati da
Einaudi nella collana Stile Libero,
che comprende Il senso del dolore,
La condanna del sangue, Il posto
di ognuno, Il giorno dei morti, Per
mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo
al tuo cuore e Anime di vetro. Nel
2012 esce per Mondadori Il metodo del Coccodrillo (Premio Scerbanenco), dove fa la sua comparsa
l’ispettore Lojacono, ora fra i protagonisti della serie dei Bastardi
di Pizzofalcone, ambientata nella
Napoli contemporanea e pubblicata da Einaudi Stile Libero (nel 2013
è uscito Buio, il secondo romanzo
della serie, e nel 2014 Gelo, il terzo). Nel 2014, sempre per Einaudi
Stile Libero, de Giovanni ha pubblicato anche l’antologia Giochi criminali (con Giancarlo De Cataldo,
Diego De Silva e Carlo Lucarelli).
In questo libro appare per la prima volta il personaggio di Bianca
Borgati, contessa Palmieri di Roccaspina, sviluppato in Anime di vetro. Nel 2015, è uscito per Rizzoli il
romanzo Il resto della settimana.
Tutti i suoi libri sono tradotti o in
corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Russia,
Danimarca e Stati Uniti. De Giovanni
è anche autore di racconti a tema
calcistico sulla squadra della sua
città, della quale è visceralmente
tifoso, e di opere teatrali.
sabina de gregori
//////////
Nata a Ginevra nel 1982, vive e
lavora a Roma. Laureata in Storia dell’arte, studia la Street Art
e i linguaggi del contemporaneo.
Oltre a Titina Maselli. Autoritratto
involontario di una grande artista (2015), per Castelvecchi ha
già pubblicato: C215. Un maestro
dello stencil (2013), Shepard Fairey in arte Obey. La vita e le opere del re della Poster Art (2011) e
Banksy il terrorista dell’arte. Vita
segreta del writer più famoso di
tutti i tempi (2010), finalista al
Premio Francesco Alziator 2011
per la saggistica.
diego del pozzo
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Nato a Genova nel 1971, è giornalista e critico cinematografico.
Si occupa anche di televisione e
fumetti, nuovi media e comunicazione pubblicitaria e trans mediale. Attualmente insegna Comunicazione pubblicitaria e Storia
e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
È autore del libro Ai confini della
realtà – Cinquant’anni di telefilm
americani (Lindau, 2002), dei testi
del volume fotografico Scenari –
Dieci anni di cinema in Campania
(Dante & Descartes, 2006) e curatore, assieme a Vincenzo Esposito, dei volumi Rock Around the
Screen – Storie di cinema e musica pop (Liguori, 2009) e Il cinema
secondo Springsteen (Mephite,
2012). Scrive regolarmente sulle pagine di Spettacoli e Cultura
del quotidiano «Il Mattino» ed è
responsabile dell’ufficio stampa
dell’Italian Film Festival di Stoccolma organizzato dalla FICC –
Federazione Italiana dei Circoli del
Cinema. È nel comitato editoriale
della rivista specializzata «Cinemasud» e cura la rubrica Comic
Links sul mensile di informazione
fumettistica «Mega».
marco di capua
//////////
Nato a Napoli nel 1959, vive a
Roma. È docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia
di Belle Arti di Napoli. Come critico
d’arte ha scritto per «Il Giornale»
di Montanelli e collabora a «L’Unità» e a «Panorama». È curatore
di mostre di artisti contemporanei in gallerie e musei, tra le
molte «Continuità dell’immagine» (Mole Vanvitelliana, Ancona,
1998), «Metropolitanscape. Paesaggi urbani nell’arte contemporanea» (Palazzo Cavour, Torino,
2006). È stato Commissario della
XIII Quadriennale d’Arte di Roma,
«Proiezioni 2000», e nel 2011 ha
fatto parte del Comitato di studio
per la 54. Biennale di Venezia, «Lo
stato dell’arte. Regioni d’Italia».
Ha scritto saggi in cataloghi, tra
gli altri, di Edouard Manet, Edgar
Degas, Paul Gauguin, Henri Matisse, Pierre Bonnard, Piet Mondrian,
Edward Hopper, Alberto Burri (catalogo della Fondazione, Skira,
1999). Nel 2002 ha pubblicato la
monografia Dalí, la vita e l’opera
(Mondadori). Nel 2012 ha scritto
In che sangue avanzare? («Nuovi Argomenti», n. 60), narrazione
sulla figura di Jackson Pollock.
carlos garaicoa
//////////
Nato nel 1967 a L’Avana, appartiene a una generazione di artisti cubani, affermati a livello internazionale, la cui pratica multiforme e le
opere provocatorie si muovono tra
scultura, fotografia, disegno, video, installazione e interventi urbani. Adottando la sua città natale
come fonte di ispirazione e come
laboratorio, Garaicoa sviluppa un
modello in cui L’Avana è metafora
non solo della natura umana, ma
anche del fallimento delle ideologie del XX secolo. Il concetto di
utopia è al centro del suo lavoro:
dal contrasto tra utopia e realtà
nasce una serie di opere “progettuali” dove il modello di indagine si
espande passando da L’Avana ad
altre città. Nella sua opera la città
si offre con infinte possibilità di
rappresentazione, è il luogo dove
prende forma l’immaginazione.
La pratica artistica per Garaicoa è
strumento e linguaggio per aprire
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un dialogo con la città pubblica e
la città privata.
guglielmo gigliotti
//////////
Nato a Roma nel 1967, critico
d’arte, è docente di Storia dell’arte
contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Redattore de «Il Giornale dell’Arte», ha
curato numerose mostre per gallerie e musei. È curatore, assieme
ad Alberto Dambruoso, dei Martedì Critici. Ha pubblicato, tra l’altro,
un saggio sull’arte degli anni ’80
in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010 (Electa, 2011),
e Sei storie. Tirelli, Pizzi Cannella,
Ceccobelli, Nunzio, Gallo, Dessì
(Carte segrete, 2012). Nel 2015
ha curato il libro di Anna Paparatti
Arte-vita a Roma negli anni ’60’70, edito da De Luca.
viviana gravano
//////////
Docente di Storia dell’arte presso
l’Accademia di Belle Arti di Napoli
e direttore del Master per Curatore museale dello IED di Roma.
È presidente di Routes Agency
– Cura of Contemporary Art e direttore della rivista on line «Roots
Routes». È autrice di monografie e di saggi in cataloghi. Tra gli
scritti più recenti Paesaggi Attivi
– saggio contro la contemplazione (Mimesis, 2011).
francesco jodice
//////////
Nato a Napoli nel 1967, vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio
sociale contemporaneo con particolare attenzione ai fenomeni di
antropologia urbana e alla produzione di nuovi processi di partecipazione. I suoi progetti mirano
alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitiche proponendo la pratica dell’arte come
poetica civile.
Insegna al Biennio di Arti Visive e
Studi Curatoriali della NABA e al
Master di Fotografia di Forma entrambi a Milano e alla Scuola Holden di Torino. È stato tra i fondatori
dei collettivi Multiplicity e Zapruder. Ha partecipato a Documenta,
la Biennale di Venezia, la Biennale
di São Paulo, alla Triennale dell’ICP
(International Center of Photography) di New York e ha esposto al
Castello di Rivoli, alla Tate Modern
e al Prado. Tra i progetti principali l’atlante fotografico What We
Want, l’archivio di pedinamenti
urbani Secret Traces e la trilogia di
film sulle nuove forme di urbanesimo Citytellers. Il suo recente progetto Sunset Boulevard. Fears and
forecasts after the West esplora,
attraverso fotografie e testi, il futuro della cultura occidentale.
christian leperino
//////////
Nato a Napoli 1979. Pittore e scultore, nella sua produzione artistica coniuga la ricerca sul corpo
umano con quella sulle metropoli,
indagando il rapporto tra forma
dei luoghi e condizione umana.
Al tema del paesaggio urbano
s’intreccia così la riflessione sul
tempo, sulle trasformazioni delle
città e sui destini degli individui
che le abitano. A questo nucleo
concettuale sono dedicate le opere presentate in recenti esposizioni internazionali: City Layers,
Palais Palffy, Vienna (2015); Linee
di Confine. La natura, il corpo, le
città, Museo Carlo Bilotti, Roma
(2015); Writings, IICT – Istituto
Italiano di Cultura, Tokyo (2014);
Chiaroscuro, Accademia delle Arti
di Mosca e Accademia di San Pietroburgo (2013); Landscapes of
Memory, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2012); 54a Biennale di Venezia, Padiglione Italia
(2011); Human Escape, MAC –Museu de Arte Contemporânea de
Niterói, Rio de Janeiro (2010). Sue
opere sono presenti in collezioni
museali e spazi pubblici: Museo
MADRE, Napoli; MMOMA – Moscow
Museum of Modern Art di Mosca;
IICT di Tokyo; Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Suzzara;
Stazione Ferroviaria di Mergellina,
Napoli. Dal 2013 è docente presso
la Scuola di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.
renato lori
//////////
Nato a Napoli nel 1955. Diplomato
in scenografia nel 1978, ha lavorato come scenografo in teatro
al fianco di registi quali Ugo Gregoretti, Tato Russo, Toni Servillo
e Mauro Bolognini, firmando la
scenografia di oltre 70 spettacoli.
Nel cinema, ha iniziato come assistente scenografo nel 1984. Ha
collaborato, tra gli altri, nel 1985,
a Phenomena di Dario Argento e,
nel 1989, al Il Padrino parte III di
Francis Ford Coppola. Ha firmato per il cinema e la televisione
la scenografia di numerosi film. I
suoi ultimi lavori sono L’uomo di
vetro (2007) e Neve (2013) con la
regia di Stefano Incerti, la fiction
per Canale 5, ’O Professore (2006),
per la regia di Maurizio Zaccaro,
con Sergio Castellitto. Nel 2004
è entrato nella cinquina delle
candidature ai Nastri d’argento
per la migliore scenografia con il
film Scacco pazzo che ha segnato
l’esordio alla regia di Alessandro
Haber. Nel 2000 ha pubblicato per
l’editore Gremese il libro Il lavoro
dello scenografo, uscito nel 2006
anche in Francia e ripubblicato in
edizione aggiornata nel 2011. Nel
2007 ha pubblicato Scenografia e
Scenotecnica per il teatro, mentre
prossimamente, sempre per Gremese, il volume Scenografia per
il cinema. Dal 1996 ha insegnato Scenografia e Scenotecnica
presso le Accademie di Belle Arti
di Brera a Milano, Bari, Catanzaro,
Torino, Venezia, Foggia e Catania.
Attualmente è docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle
Arti di Napoli.
claudio malice
//////////
Nato a Reggio Calabria nel 1972,
si è laureato a Napoli discutendo
una tesi di Storia dell’arte moderna con Francesco Negri Arnoldi.
Ha successivamente approfondito i suoi studi storico-artistici con
una particolare attenzione all’ambito archivistico e metodologico
(Master Universitario di II Livello
in Archivistica, Biblioteconomia e
Metodologia della ricerca all’Università “Federico II”, Diploma della
Scuola di Archivistica, Paleografia
e Diplomatica conseguito presso
l’Archivio di Stato di Napoli, SICSI
in Storia dell’arte presso la SUN).
Ha collaborato con vari periodici d’arte, tra cui «Terzo occhio»,
«Brutium», «Daidalos» e «Art Folio», occupandosi di arte moderna
e contemporanea.
Tra i suoi studi recenti il saggio Il cardinale Oliviero Carafa e
il «Tractato» di fra Bernardino
Siculo (2007) e la preparazione
della monografia sul pittore tardo caravaggesco Matthias Stom.
Attualmente è docente di Storia
dell’arte nell’Accademia di Belle
Arti di Napoli e in precedenza ha
insegnato nelle accademie di Firenze, Sassari, L’Aquila e Palermo.
lea mattarella
//////////
Titolare della cattedra di Storia
dell’arte all’Accademia di Belle Arti
di Roma, è critico d’arte del quotidiano «la Repubblica». Collabora a diverse riviste specializzate,
partecipa a convegni e giornate
di studio e ha curato numerose
mostre in spazi pubblici e privati.
Ha scritto, tra gli altri, saggi su
Salvador Dalí, Henri Matisse, Pierre Bonnard, Amedeo Modigliani,
Pablo Picasso, Alberto Burri, Mario
Sironi, la natura morta nell’Ottocento, l’arte delle donne, la scultura contemporanea, il contributo
degli artisti alle scenografie teatrali, il rapporto tra arte e cinema.
maziar mokhtari
//////////
È nato a Esfahān (Iran) nel 1980.
Dal 2004 vive a Roma, dove si
iscrive all’Accademia di Belle Arti.
Del 2013 è la personale «Yellow
Apocalypse» alla (galleria +) Oltredimore di Bologna, seguita, nel
2015, da «Ceremony» alla Dino
Morra Arte Contemporanea di Napoli. Nel 2013 partecipa alla mostra «Artisti Nomadi in Città d’Ar-
te» al MACRO di Roma, nel 2015
partecipa alle collettive «Confusion (Aesthetics of the Disappearance)» alla Temple University
Stuxgallery di New York e «Meccaniche della Meraviglia» presso la
Fondazione Leonesio di Puegnago
del Garda. In tutte queste occasioni Mokhtari espone fotografie,
video e installazioni ambientali,
dominate dall’interesse per la dimensione psicologica del giallo.
Hanno scritto di lui Bruno Corà,
Chiara Pirozzi, Eugenio Viola, Pio
della Volpe, Aldo Iori, Gaia Serena
Simionati, Tiziana Musi, Giovanna
Della Chiesa, Nino Abate.
giorgio ortona
//////////
Nato a Tripoli nel 1960, vive e lavora a Roma. Laureato in architettura, ha conseguito il Diploma
del II Corso Internazionale di Pittura di Cadice (diretto da Antonio
Lopez Garcia).
Concepisce ogni sua opera non
come unitaria e finita, ma appartenente ad un discorso molto più
vasto ed ampio, che prevede nel
corso del tempo la rivisitazione
del dipinto stesso, o addirittura
l’eliminazione fisica e totale del
quadro. Tra le principali mostre
personali: I corpi Le nature morte Le costruzioni (Vittorio Sgarbi,
Milano e Roma nel 2010); Roma
Rosa, (Valerio Magrelli, Roma
2012); La città di mezzo (Marco Di
Capua, Ragusa 2002); Roma, (Lea
Mattarella, Palermo 2006); Nel labirinto. Nel 2011 espone alla 54a
Biennale di Venezia sia nel Padiglione Italia che in quello della Repubblica Cubana.
del collettivo artistico Pennacchio
Argentato, con cui ha partecipato a
numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Insegna Scultura per la Didattica
e Disegno per la Scultura presso
l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
elio pecora
//////////
Nato nel 1936 a Sant’Arsenio (Salerno), abita a Roma. Dirige il quadrimestrale internazionale «Poeti e
Poesia». Libri di poesia recenti: Simmetrie, Mondadori, 2007; La perdita
e la salute, I quadri di Orfeo, 2008;
Tutto da ridere?, Empiria, 2010;
Nel tempo della madre, La vita felice, 2011; In margine e altro, Oedipus, 2011; e nelle edizioni Orecchio
Acerbo, L’albergo delle fiabe, 2007;
Un cane in viaggio, 2011; Firmino e
altre poesie, 2014. I suoi libri di prosa: Estate, Bompiani, 1981; Sandro
Penna: una biografia, Frassinelli,
1984, 1990, 2006; I triambuli, Pellicano, 1985; La ragazza col vestito
di legno e altre fiabe italiane, Frassinelli, 1992; L’occhio corto, Il Girasole,
1995; Queste voci, queste stanze,
Empiria, 2009; La scrittura immaginata, Guida, 2008. Per il teatro i
testi rappresentati: Alcesti, 1984; Pitagora, 1987; Prima di cena, 1987,
Premio IDI; Nell’altra stanza, 1989; Il
cappello con la peonia, 1990; A metà
della notte, 1992; Trittico, 1995. Radiocommedie trasmesse: Il giardino,
Radio Tre, 1996; Il segreto di Lucio,
RadioTre, 1997. Nel 2009 una raccolta di testi teatrali Teatro, Bulzoni, e
una scelta di scritti letterari La scrittura immaginata, Guida. Nel 2012, La
scrittura e la vita (conversazioni con
Francesca Sanvitale), Aragno.
pasquale pennacchio
//////////
Nato a Caserta nel 1979, ha studiato Scultura all’Accademia di Belle
Arti di Napoli e alla Staedelschule
di Francoforte. Fa parte dal 2002
roberto piloni
//////////
È nato nel 1966 a Roma dove vive
e lavora. Dagli anni Novanta prende parte a diverse manifestazioni
espositive ed eventi artistici in spazi
pubblici e gallerie private. Successivamente ha condotto la sua ricerca
verso una progettualità che considera sempre più importante il rapporto
tra il contesto ambientale e l’opera
installata, utilizzando media diversi, dalla pittura alla fotografia, dalle
installazioni al video. Ha insegnato
presso le accademie di Palermo e
Macerata; attualmente è docente
all’Accademia di Belle Arti di Roma.
bernardo siciliano
//////////
È nato a Roma nel 1969. Nel 1986
ha esposto i suoi primi lavori, presentati da Attilio Bertolucci, alla
galleria Carlo Virgilio di Roma. In
seguito le sue gallerie di riferimento sono state Il Gabbiano (Roma),
Galleria Forni (Bologna, Milano),
Forum Gallery (New York) e, oggi,
l’Aicon Gallery (New York, Londra).
Nel 1996, anno in cui ha partecipato
alla XX Quadriennale 1950-1990:
Ultime generazioni (Palazzo delle
Esposizioni, Roma), si è trasferito a
New York, dove attualmente vive e
lavora. I suoi temi preferiti riguardano il paesaggio urbano, soprattutto newyorchese, e, attraverso una
serie di ritratti e di autoritratti, la
figura umana. Molte le sue mostre,
sia in Italia che all’estero. Tra queste Urban Views, alla Forum Gallery
(New York), e Italian Factory, la nuova scena artistica italiana, a Santa
Maria della Pietà, Venezia (2003);
Jet-Lag, al Chiostro del Bramante
di Roma (2005); Metropolitanscape, paesaggi urbani nell’arte contemporanea, a Palazzo Cavour di
Torino; Chinatown, alla Fondazione
Durini di Milano e al Liu Haisu Art
Museum di Shanghai (2006); Nude
City, al MACRO di Roma e Bernardo
Siciliano, alla Forum Gallery di New
York (2010); The Tennis Player, alle
Fruttiere di Palazzo Te di Mantova
(2013); Panic Attack, all’Aicon Gallery di New York (2015-2016).
studio azzurro
//////////
È un gruppo di ricerca artistica
fondato a Milano nel 1982 da Fabio Cirifino (Fotografia), Paolo Rosa
(Arti visive e cinema) e Leonardo
Sangiorgi (Grafica e animazione),
ai quali nel 1995 si è unito Stefano
Roveda, esperto di sistemi interattivi. Da più di trent’anni lo Studio
indaga le possibilità poetiche ed
espressive dei linguaggi multimediali che così fortemente incidono
sulle relazioni e i modelli di messa
in rete della nostra epoca. Seguendo pratiche affini all’estetica relazionale con particolare attenzione
per le conseguenze sociali delle
azioni e dei lavori artistici, progetta
e realizza dapprima videoambienti,
poi ambienti sensibili, spettacoli
teatrali e film. Oltre allo sviluppo
di opere sperimentali, il gruppo si
caratterizza per esperienze più divulgative come la progettazione di
musei e di mostre tematiche, attraverso le quali, senza rinunciare alla
ricerca, ha potuto costruire un contesto comunicativo che permetta
un’attiva e significativa partecipazione dello spettatore all’interno
di un impianto narrativo, ispirato
all’ipertestualità e all’oscillazione
fra elementi reali e virtuali.
L’anima di Studio Azzurro è unica,
seppur contenuta in corpi diffe-
renti. È un’anima formata da molte
persone che negli anni, per brevi o
lunghi periodi, hanno contribuito con
i propri pensieri e le proprie sensibilità a costruire una atmosfera creativa unitaria, che ha favorito questo
particolare tipo di sperimentazione,
permettendo di mantenere una rotta e una coerenza di significati lungo
il corso di un’attività molto articolata.
monica torrusio
//////////
È nata a Roma dove vive e lavora.
Insegna Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle
Arti di Napoli. All’inizio degli anni
Novanta apre la società “Arterie
– la circolazione dell’arte” con la
quale organizza numerose mostre
in gallerie e musei. Ha fatto parte della commissione esecutiva
di “Opera italiana” su progetto di
Achille Bonito Oliva alla XLV edizione della Biennale di Venezia del
’93. Ha pubblicato nel ’96 il volume
Le figure del tempo nell’arte contemporanea (Ulisse & Calipso).
andrea zanella
//////////
È nato a Terni nel 1958, vive tra Roma
e Grasse. Insegna Storia dell’arte
moderna e Museologia all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Specialista
di arte italiana e francese tra XVIII e
XIX secolo, ha partecipato a mostre
e progetti di ricerca in Italia e in Francia; dal 2010 è curatore delle collezioni e del programma espositivo
del Musée Jean-Honoré Fragonard
– Collection Hélène et Jean-François
Costa di Grasse, del quale ha anche
curato il progetto museografico con
l’architetto Maxime Ketoff.
ANNO I - N.2