Zeusi Anno 1 n. 2
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Zeusi Anno 1 n. 2
L I N G U A G G I C O N T E M P O R A N E I D I S E M P R E DELL’ ABITARE L I N G U A G G I C O N T E M P O R A N E I D I S E M P R E DELL’ABITARE www.accademiadinapoli.it uffi[email protected] Via Bellini 36, 80138 Napoli Un numero € 10,00 - arretrati € 20,00 - abbonamento annuo € 20,00 estero € 40,00 Distribuzione / Distribution Librerie in Italia / Bookstores in Italy Messaggerie libri – Milano Librerie all’estero e Abbonamenti / Bookstores overseas and Annual Subscription LI.CO.SA. Sansoni srl - Tel. 055.6483201 Fax 055.641257 Conto corrente postale / post office account n. 343509 Anno I - N. 2 Proprietà letteraria riservata Registrazione presso il Tribunale di Napoli n° 32 del 9/7/2015 ISBN ---- L I N G U A G G I C O N T E M P O R A N E I D I S E M P R E Rivista semestrale dell’Istituto di Storia dell’Arte Accademia di Belle Arti di Napoli Presidente Paolo Ricci Direttore Giuseppe Gaeta Direttore Marco Di Capua Vicedirettori Guglielmo Gigliotti Marco Rinaldi Caporedattori Federica De Rosa Lea Mattarella Olga Scotto di Vettimo Comitato di redazione Fina Serena Barbagallo Giovanna Cassese Pier Luigi Ciapparelli Giulia Cosmo Gabriella Dalesio Stefano de Stefano Rosella Gallo Viviana Gravano Caludio Malice Monica Torrusio Andrea Zanella I saggi pubblicati sono stati sottoposti a valutazione di studiosi specialisti della materia, scelti dalla redazione secondo criterio blind review. Comitato Scientifico Antonio Biasiucci Gregorio Botta Beatrice Buscaroli Antonio Carnevale Jean Digne Micol Forti Antonio Monda Giampiero Moretti Giovanna Natalini Luca Pignatelli Federica Pirani Aurora Spinosa Naoya Takahara Elena Tavani Angela Tecce Andrea Viliani Gli autori dei saggi pubblicati rimangono a disposizione degli eventuali aventi diritto delle immagini che non è stato possibile contattare. Art Director Enrica D’Aguanno Visual Design Chiara Del Luongo Ufficio Stampa Costanza Pellegrini Referenze fotografiche: pp. 4, 8-11 © Francesco Jodice pp. 12-15 © Studio Azzurro pp. 19, 21-23, 28 © Aniello Barone. Autorizzazione per la riproduzione delle immagini concessa dall’Ufficio per i Beni Ecclesiastici della Diocesi di Napoli p. 31 tratta dal catalogo Gordon MattaClark, IVAM, Valencia, 1992-1993, Musée Cantini, Marseille, 1993, Serpentine Gallery London, 1993, p. 196 p. 33 © Grec - Christian Boltanski – 1972 pp. 52-53 © Ela Bialkowska p. 56 © Libero De Cunzo pp. 60-61 © Gianni Ghidini pp. 79, 81, IV di copertina © Olivo Barbieri p. 88 L’opera da tre soldi © Fabio Donato p. 96 © Luigi Spina pp. 98-99 © Photo Graphics Mexico pp. 104-107 © Roberto Piloni p. 117 © AFI/SR:(AFI: Archivio Fondazione INDA) pp. 121-123 © Stefano Cerio p. 124 (ritratto Gea Casolaro) © Terasia Panagrosso p. 125 (ritratto Libero De Cunzo) © Mariasole De Cunzo p. 126 (ritratto Francesco Jodice) © Sara Gentile p. 126 (ritratto Crhistian Leperino) © Maria Corbi p. 127 (ritratto Renato Lori) © Gilda Valenza p. 127 (ritratto Giorgio Ortona) © Edoardo Loliva p. 128 (ritratto Studio Azzurro) © Elisabetta Catalano In IV di copertina: Olivo Barbieri Hong Kong, Cina, 1996 courtesy Yancey Richardson Gallery New York Francesco Jodice, Dubai, 2009 68/ Guglielmo Gigliotti Cosmico Klein 74/ Marco Di Capua Tutte le palazzine del mondo Incontro con Giorgio Ortona 78/ Lea Mattarella Fotografare l’altra metà Incontro con Olivo Barbieri 6/ Editoriale 17/ Claudio Malice Abitare il miracolo Il Cardinale, il Santo e l’Antico: spunti per una (ri)lettura del Succorpo di San Gennaro 29/ Viviana Gravano Quartet. La casa insicura dell'arte 42/ Diego Del Pozzo (Farsi) abitare tra reale e virtuale al tempo dei nuovi media 54/ Fosco Maraini da Segreto Tibet, 1951 55/ Elio Pecora Via dei Lucchesi 26 82/ Gea Casolaro To feel at home 84/ Sabina de Gregori Titina Maselli cittadina di se stessa 57/ Maurizio de Giovanni La città da lontano 87/ Renato Lori Dentro lo spazio scenico 62/ Angelo Carotenuto Un salone così grande 92/ Andrea Zanella In giro per bordelli, tra arte, cinema, letteratura 100/ Antonio Carnevale Il vero e il falso di Vila-Matas 108/ Monica Torrusio Le parole e le case 115/ Fina Serena Barbagallo Voci senza tempo Il Teatro greco di Siracusa Fina Serena Barbagallo Olivo Barbieri Antonio Carnevale Angelo Carotenuto Gea Casolaro Stefano Cerio Enrica D’Aguanno Libero De Cunzo Maurizio de Giovanni Sabina de Gregori Diego Del Pozzo Marco Di Capua Carlos Garaicoa Guglielmo Gigliotti Viviana Gravano Francesco Jodice Christian Leperino Renato Lori Claudio Malice Fosco Maraini Lea Mattarella Maziar Mokhtari Giorgio Ortona Elio Pecora Pasquale Pennacchio Roberto Piloni Bernardo Siciliano Studio Azzurro Monica Torrusio Andrea Zanella 16 51 67 97 124 STORIE SCRITTURE VISIONI IDEE AUTORI E ditoriale/ 6/ 7 Eccoci allora, di nuovo imprudenti e generosi vista la grandiosità del tema – uno di quelli che scegliamo perché risveglino più linguaggi possibili – al primo di un doppio numero di «Zeusi» dedicato all’Abitare. Progettato per una rivista che in fondo, deliberatamente, rappresenta il nostro luogo, davvero il nostro abitare creativo e intellettuale, quello sul quale fare atterrare e ospitare la mente e dove, stando in equilibrio per quel che si può, poter poggiare i piedi. Vuol dire – partiamo almeno da una certezza – ritrovarsi su un frammento di mondo elastico, sensibilissimo, benché di poche decine di centimetri quadrati, che simile a un’antenna parabolica intercetti parecchi segnali, a varie altezze e su diverse onde di frequenza. Sulle pagine che vi proponiamo scorrono brevi pensieri e lunghe riflessioni, intuizioni, visioni, timori, soglie, scene e folti cortei di figure (che, com’è nello stile di «Zeusi», appaiono liberi da ogni commento, testi silenziosamente autosufficienti). Tutto stabilisce, ogni volta, la nostra posizione attuale, il cerchietto rosso: amico, lettore «tu sei qui». Indicando magari anche direzioni, qualche rotta, una via d’uscita. Com’era fin da subito nelle intenzioni, leggerete e vedrete svolgere il tema caleidoscopicamente, ascoltando molte voci, meno, per ora, quella di uno specifico discorso architettonico. Ho detto per ora, perché nel prossimo numero la nostra sfera di interessi includerà con pertinenza anche questo elemento, ma qui ci piaceva sviluppare una narrazione plurale, profondamente estetica ed esistenziale, e non prevedibilmente specialistica, sull’abitare. Si direbbe che ci abbiamo girato intorno. Così, «Zeusi», ben piazzato al centro di un denso sistema di interferenze – e con lui noi, migranti delle idee e delle immagini – continua a fare il suo mestiere di esploratore, perlustrando gli spazi, le stanze e le città che ci sono concessi, che dobbiamo vivere, attraversare, ostile solo a quel disabitato che non equivale mai a un desiderio di purezza ma altro non è se non il posto insignificante dove la cultura, la cura, la conoscenza non possono entrare. Cinema, teatro, saggistica, pittura, scultura, fotografia, letteratura generano flash, tutto un fitto promemoria di pensieri e di sguardi, trame retrospettive, scandagli introspettivi. La strada è segnata, conduce fino a giugno, quando torneremo con la seconda tappa di questa “pulsante” – è già tantissimo che si riesca a far lampeggiare qualche idea – ricognizione, ancora alla ricerca di quel «segno spirituale», ha detto Orhan Pamuk, uno che se ne intende, «che una città lascia dentro di noi». MDC Francesco Jodice, Osaka, 2008 Francesco Jodice, Hong Kong, 2012 Studio Azzurro, CAMPO CONTROCAMPO #03, 2015, dittico, (Italia, Pompei // Italia, Biella, Cittadellarte), Courtesy Galleria Paola Verrengia Studio Azzurro, CAMPO CONTROCAMPO #20, 2015, dittico, (Italia, Mantova, Palazzo Te // Italia, Torino, Officine Grandi Riparazioni), Courtesy Galleria Paola Verrengia S torie/ Claudio Malice Abitare il miracolo / Viviana Gravano Quartet. La casa insicura dell’arte / Diego Del Pozzo (Farsi) abitare tra reale e virtuale al tempo dei nuovi media Abitare il miracolo Il Cardinale, il Santo e l’Antico: spunti per una (ri)lettura del Succorpo di San Gennaro Claudio Malice «Quei segni di paganesimo misti a simboli cristiani» (Gennaro Aspreno Galante, Guida sacra della città di Napoli, 1872) Creusa: «Atena donò a costui, com’egli nacque, […] due gocce del sangue di Medusa […] L’una [dal potere] mortale, e l’altra salutifero» (Euripide, Ione) Non sappiamo se Aby Warburg – l’eccentrico padre spirituale della moderna iconologia – durante il suo breve soggiorno napoletano del 1929 1 ebbe modo di vedere il cosiddetto Succorpo 2 di San 1 Aby Warburg (1866-1929) – presente per l’ultima volta in Italia al termine della sua travagliata parabola esistenziale tra novembre 1928 e giugno 1929 – soggiornò a Napoli nel maggio del 1929, come attestano le lapidarie annotazioni di un suo taccuino conservato al Warburg Institut Archive di Londra [Inv. 121.1.1]. Il tagebuch contiene alcune illuminanti osservazioni dello studioso tedesco sulla decorazione marmorea della cappella di Andrea Carafa, conte di Santa Severina, presso la Basilica di San Domenico Maggiore (datata 1508), che presenta significativi punti di contatto con l’ipogeo ianuariano di cui tratteremo. Sul taccuino vedi: Aby Warburg, Giordano Bruno (edited by Maurizio Ghelardi and Giovanna Targia), «Cassirer Studies», I, 2008, pp. 15-58; Riccardo Naldi, Fabio Speranza, Aby Warburg, Giordano Bruno and the chapel of Andrea Carafa di Santa Severina in San Domenico Maggiore, «Cassirer Studies», I, 2008, pp. 173-185. 2 Il termine “succorpo” è utilizzato già all’inizio del ’500 da fra Bernardino Siculo (vedi nota 9) per indicare una struttura ipogea posta al di Gennaro, ma è probabile che, se avesse avuto il tempo di studiarlo, anche fugacemente, avrebbe colto vari spunti per una lettura del complesso progetto iconologico che ci appare, ancora oggi per molti versi, sfuggente. Infatti, sebbene sull’argomento esista una copiosa bibliografia 3, va rilevato che gli studi moderni si sono occupati per molto tempo più dell’aspetto attribuzionistico e filologico della confessio ianuariana (interrogandosi sulla reale identità dell’autore del progetto architettonico 4, sulla definizione e distinzione desotto dell’altare maggiore per ospitare le reliquie del santo patrono di Napoli. Nell’architettura paleocristiana una cripta con tali caratteristiche veniva chiamata “confessio”. L’etimologia del termine non è del tutto chiara, ma sembra che sia da mettere in relazione con il fatto che fosse una struttura posta al di sotto del “corpus ecclesiae” (cfr. Franco Strazzullo, Quinto centenario della traslazione delle ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli.1497-1997, ESI, Napoli 1996, p. 78). 3 Per un approndimento bibliografico relativo al Succorpo di San Gennaro (fino al 2007) si rinvia al saggio: Claudio Malice, Il cardinale Oliviero Carafa e il ‘Tractato’ di fra Bernardino Siculo, Imago Artis, Napoli 2007. 4 La tradizionale indicazione del nome di Tommaso Malvito da Como (che appare già nelle fonti del XVI secolo, a partire da fra Bernardino [1503-05]) è stata messa in dubbio da molti studiosi nel ’900 in favore di una personalità di primo livello estranea all’ambiente partenopeo come Donato Bramante (vedi Arnaldo Bruschi, Bramante architetto, Laterza, Roma-Bari 1969, pp. 826-827, nota 10; Roberto Pane, Architettura e Urbanistica a Napoli, «Storia di Napoli», ESI, Napoli 1974, vol. IV, pp. 401- Z / S T O R I E gli scultori intervenuti nella realizzazione della decorazione marmorea 5 e, infine, sul controverso nome dell’artefice della sta408; Id., Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Ed. Comunità, Milano 1975-77, vol. 2, pp.103-116; Id, Bramante e il succorpo del duomo di Napoli, «Napoli Nobilissima», IIIa serie, n. 23, 1984, p. 221; Roberto Di Stefano, Tommaso Malvito: struttura e forma nel Succorpo del Duomo di Napoli, in Scritti in onore di Roberto Pane, Istituto di Storia dell’Architettura dell’Università, Napoli 1972, pp. 275-288; Ferdinando Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1977, p. 234) – che fu chiamato a Roma proprio dal cardinale Oliviero Carafa – o Giuliano da Sangallo (vedi Daniela Del Pesco, Oliviero Carafa e il Succorpo di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in Francesco Paolo Di Teodoro (a cura di), Donato Bramante, ricerche, proposte, riletture, Accademia Raffaello, Urbino 2001, pp. 143-205; Ead., Oliviero Carafa ed il programma iconografico del Succorpo di San Gennaro nel Duomo di Napoli, in F. Abbate (a cura di), Ottant’anni di un Maestro: omaggio a Ferdinando Bologna, Paparo, Napoli 2006, pp. 203-222). 5 Vedi Riccardo Carafa, Il Succorpo di San Gennaro, «Napoli Nobilissima», vol. I, fasc. I, 1892, pp. 11-14; Alfonso Miola, Il Succorpo di S.Gennaro descritto da un frate del Quattrocento, «Napoli Nobilissima», vol. VI, fasc. XI, 1897, pp. 161-166 e fasc. XII pp. 180-188; Antonio Muñoz, Studi sulla scultura napoletana del Rinascimento, «Bollettino d’Arte», anno III, fasc.1/2 e 3 (gen./feb. e marzo 1909), pp. 55-73 e pp. 87-10; Ottavio Morisani, Saggi sulla scultura napoletana del Cinquecento, R. Deputazione Napoletana di Storia Patria, Napoli 1941; Gennaro Borrelli, Un gruppo di maestri scultori nella Cappella del Succorpo di San Gennaro nel Duomo, «Asprenas», anno XI (1964), n. 2-3, pp. 182-192; Franco Strazzullo, Il Cardinale Oliviero Carafa mecenate del Rinascimento, «Atti dell’Accademia Pontaniana», XIV, 1965, pp. 139160; Id., La cappella Carafa del Duomo di Napoli in un poemetto del primo cinquecento, «Napoli Nobilissima», vol. V, fasc. II, marzo-apr. 1966, pp. 59-71; Id., Quinto centenario cit., 1997; Francesco Abbate, Le sculture del ‘Succorpo’ di San Gennaro e i rapporti Napoli-Roma tra Quattro e Cinquecento, «Bollettino d’Arte», VIa serie, 11, luglio-sett. 1981, pp. 89-108; Id., La scultura napoletana del Cinquecento, Donzelli ed., Roma 1992, pp. 49-66; Riccardo Naldi, Andrea Ferrucci. Marmi gentili tra la Toscana e Napoli, Electa, Napoli 2002, pp. 62, 170, 180-181; Pierluigi Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo Romano, Paparo, Napoli 2010, pp. 111-140. 18 / 19 tua che ritrae il munifico committente 6) che del significato iconologico complessivo del progetto, affrontato solo in tempi relativamente recenti, a partire dall’ancor oggi fondamentale saggio di Diana Norman del 1986 7. Centrale eppure nascosto, l’ipogeo ianuariano posto al di sotto dell’altare maggiore della Cattedrale di Napoli, sin dal tempo della sua complessa realizzazione (durata circa un decennio, dal 1497 al 1506-8) 8 ha Gustavo Frizzoni (Arte italiana del Rinascimento. Saggi critici, Fratelli Dumolard ed., Milano 1891, p. 57) e Antonio Muñoz (Studi sulla scultura cit., 1909) riferivano la statua di Oliviero a Tommaso Malvito; Francesco Abbate (Le sculture del ‘Succorpo’ cit., 1981; Id., La scultura napoletana cit., 1992) a “Scultore romano (?)”; Daniela Del Pesco (Oliviero Carafa e il Succorpo cit., 2001) a Guido Mazzoni; Riccardo Naldi (Andrea Ferrucci cit., 2002, nota 39 p. 62), dubitativamente, a Gian Cristoforo Romano; Francesco Caglioti (La scultura del ’400 e dei primi due decenni del ’500 in Calabria, in S. Valtieri (a cura di), Storia della Calabria nel Rinascimento. Le arti nella storia, Gangemi, Roma 2002, pp. 1019-1020; Id., Due Virtù marmoree del primo ’500 napoletane emigrate a Lawrence, Kansas: i Carafa di Santa Severina e lo scultore Cesare Quaranta per S. Domenico Maggiore, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XLVIII, 2004, pp. 333-358) a Cesare Quaranta, attribuzione condivisa di recente anche da Pierluigi Leone de Castris (Studi su Gian Cristoforo Romano cit., p. 116). 7 Oltre allo studio di Diana Norman (The Succorpo in the cathedral of Naples: ‘empress of all chapels’, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 49, 1986, pp. 323-355) vanno ricordati i contributi più recenti di Daniela Del Pesco (Oliviero Carafa e il Succorpo di San Gennaro cit. 2001; Ead., Oliviero Carafa ed il programma iconografico cit., 2006), di Anghela Dreszen (Oliviero Carafa committente ‘all’antica’ nel Succorpo del Duomo di Napoli, «Römische Historische Mitteilungen», 46, band, 2004, pp. 165-200) e di Bianca De Divitiis (Architettura e committenza nella Napoli del Quattrocento, Marsilio, Venezia 2007). Rinvio, infine, al mio studio (dalle cui premesse parte il presente contributo), Il cardinale Oliviero Carafa cit. 8 La data d’inizio dei lavori risale all’ottobre 1497 e la loro conclusione al 1508, come riporta una fonte attendibile: Giuliano Passero, Giornali (a cura di V. M. Altobelli), Napoli, 1785, pp. 117-118: «Allo I° di ottubro 1497 che fo martedì se incomenzai a fabbricare lo soccorpo dell’Archiepscopato de Napoli quale è stato a complire per fino all’anno 6 Tommaso Malvito e bottega Interno del Succorpo di S. Gennaro con la statua-ritratto di Oliviero Carafa (attribuita a Cesare Quaranta), NAPOLI, Cattedrale attirato l’attenzione dei contemporanei che non mancarono di metterne in evidenza la magnificenza («imperatrice de tucte le cappelle» la definì il frate francescano Bernardino Siculo 9 in un poemetto in ottave dei primi anni del ’500 in cui viene offerta la prima accurata descrizione dell’opera non ancora conclusa), ma al tempo stesso la presenza di numerosi riferimenti iconografici astrologici e classici in odore di paganesimo che la rendevano eccezionale nel panorama contemporaneo (tanto che ancora nel XIX secolo Gennaro Aspreno Galante ne stigmatizzava i «segni di paganesimo misti a simboli cristiani») 10. Molti di questi ele1508 che sono undici anni». Tuttavia nel 1506 era già avvenuta la consacrazione con la collocazione in situ delle reliquie del santo, come attestano le fonti (Camillo Tutini, Memorie della Vita Miracoli, e Culto di San Gianuario Martire…, Napoli 1633, p. 87) e l’iscrizione (MDVI) riportata sull’architrave del Sacrarium. In realtà si continuò a lavorare anche dopo il 1508, come dimostra il sarcofago bronzeo realizzato per ospitare le ossa del santo che reca la data 1511 («DIVO IANUARIO SACRUM MDXI»), che è anche l’anno di morte del cardinale Oliviero Carafa. Alcuni studiosi (Francesco Caglioti, La scultura del ’400 cit. 2002, p. 1020; Id., Due Virtù cit., p. 353; Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo Romano cit., nota 21 p. 136) non escludono, poi, che la stessa statua del committente possa essere stata realizzata anche dopo la morte di Oliviero. 9 Fra Bernardino Siculo alias frate Bernardino Renda da Patti – come ha dimostrato di recente Nadia Ciampaglia (La Vita di S. Gennaro di fra Bernardino Siculo alias Bernardino de Renda de Pactis siciliano (parte I), «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», XXII (2008), pp. 77-158; Ead., La Vita di S. Gennaro… Glossario, «Contributi di Filologia dell’Italia Mediana», XXV (2011), pp. 5-111) – è l’autore del poemetto encomiastico anepigrafo in ottave scritto ai primi del ’500 (tra il 1503 e il 1505 e, comunque, sicuramente prima del 1508, anno di completamento del Succorpo) e dedicato a Oliviero Carafa, pervenutoci in un’unica copia manoscritta conservata alla Biblioteca Nazionale di Napoli (ms. V.A. 12 Branc.) che contiene alle cc. 40r-51r (Hic loquitur de lo Succorpo) una delle prime descrizioni dell’ipogeo ianuariano. 10 Cfr. Gennaro Aspreno Galante, Guida Sacra della città di Napoli, Napoli 1872, pp. 18-19. menti – come i quattro carri trionfali con il Sole, la Luna, Mercurio e Giove descritti dalle fonti cinque e seicentesche (vedi fra Bernardino, De Lellis e Celano) 11 – non sono più visibili in quanto furono rimossi alla metà del XVIII secolo in seguito al “restauro” iconoclasta dell’architetto Paolo Posi, commissionato dal cardinale Spinelli, che trasformò e stravolse irriVedi: fra Bernardino Siculo (ms. V.A. 12 Branc., f. 42 r): «Li quattro carri triumphali / ce stanno ancor scolpiti et ben ornati / del Sol et Luna multo magistrali, / Mercurio con Jovis attillati»; Carlo De Lellis, Aggiunta alla Napoli Sacra del D’Engenio (a cura di F. Aceto), Fiorentino, Napoli, 1977, tomo I, pp. 4849 (f. 17 v del ms.): «Ne’ lati delle gradi per le quali si discende in esso sono i quattro carri trionfali del Sole, della Luna, di Mercurio e di Giove»; Carlo Celano, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1692, p. 198: «finissimi intagli d’arabeschi, e di figure picciole ne’ lati, e in quello da parte dell’Evangelo, vi si vede il carro del Sole con diversi segni del Zodiaco, e fra questi il segno dei Gemini, che sono due giovani abbracciati insieme». 11 S T O R I E / Z mediabilmente la zona presbiteriale del duomo partenopeo 12. Nel 1480, durante i lavori di ristrutturazione del santuario di Montevergine, promossi dal cardinale Giovanni d’Aragona, furono casualmente ritrovate, al di sotto dell’altare maggiore della chiesa, le reliquie di San Gennaro 13. E dieci anni dopo, il 27 gennaio del 1490, il sovrano aragonese Ferdinando I inviava una missiva al cardinale Oliviero Carafa nella quale lo invitava, essendo stato «retrovato lo corpo de quello qua [S. Gennaro] in la montagna di Monte Vergine», a intercedere presso il pontefice per «farlo venire et unirlo con la dicta sua testa [et il sangue del Glorioso Santo Ianuario]» che «è in questa Città» [id est: Napoli], rammentandogli «quanto lo nome de quello sia venerato da questo populo» 14. Da quel momento Oliviero darà inizio a una lunga e complessa azione di mediazione per ottenere la traslazione delle ritrovate spoglie del santo da Montevergine a Napoli 15 il cui esito positivo diventerà uno straordinario strumento di autocelebrazione presso la claudicante corte aragonese e di affermazione sociale del proprio clan familiare, i Carafa della Stadera, nei confronti della nobiltà di seggio partenopea e di tutta l’aristocrazia del Regno 16. Questa «sorta di 12 Cfr. Franco Strazzullo, Le vicende dell’abside del Duomo di Napoli, in Studi in onore di Domenico Mallardo, Fiorentino, Napoli 1957, pp. 147-182. 13 Le aveva portate qui nel XII secolo il sovrano normanno Guglielmo I dopo averle sottratte alla cattedrale di Benevento (la cosiddetta terza traslazione). Nascoste in un luogo sicuro del santuario avellinese per preservarle da eventuali scorrerie, col passare del tempo, paradossalmente, se ne perse la memoria. 14 Cfr. Strazzullo, Quinto centenario cit., nota 2, p. 23. 15 Questa complessa “operazione diplomatica” giungerà a buon fine solo nel gennaio 1497, con l’autorizzazione ottenuta da papa Alessandro VI, e culminerà, appunto, nella edificazione del Succorpo (i cui lavori inizieranno già nell’ottobre dello stesso anno). 16 Sui rapporti tra il mecenatismo della nobiltà di seggio napoletana e il culto di S. Gennaro (in par- 20 / 21 privatizzazione del culto dell’immagine di grande devozione cittadina, posta così sotto il controllo della loro famiglia» – come ha ben evidenziato Bianca De Divitiis 17 – era stata inaugurata quasi tre decenni prima, intorno al 1470, da Diomede Carafa (zio di Oliviero) in occasione della costruzione del proprio monumento funebre (a cui seguirà l’edificazione intorno al 1490 dell’avello gemello destinato al fratello maggiore di Diomede, Francesco, voluto e finanziato dal figlio di quest’ultimo, Oliviero) all’interno del cosiddetto Cappellone del Crocifisso nella basilica di San Domenico Maggiore, ai lati del famoso crocifisso miracoloso, il dipinto su tavola del XIII sec. che – secondo la tradizione – avrebbe parlato a S. Tommaso d’Aquino 18 (dal quale il cardinale si vantava di discendere). Quasi un “affare di famiglia” fu il recupero e il trasporto delle reliquie del Santo (la cosiddetta quarta traslazione) che, nelle descrizioni coeve, assume in alcuni momenti tratti tragicomici (per non dire grotteschi) per le legittime resistenze dei monaci del santuario avellinese: la delegazione incaricata dell’operazione era infatti capitanata dall’arcivescovo di Napoli Alessandro Carafa 19 (secondo Aldimari gemello del cardinale) e da Ettore 20 Conte di Ruvo (fratello minore di Oliviero). Rifletticolare in relazione al Succorpo e, soprattutto, alla Cappella del Tesoro) si veda il recente contributo: Helen Hills, The Neapolitan Seggi as Patrons of Religious Architecture: Urban Holiness and the Treasury Chapel of San Gennaro, in G. Heidemann e T. Michalsky (hrsg.), Ordnungen des sozialen Raumes. Die Quartieri, Sestieri und Seggi in den frühneuzeitlichen Städten Italiens, Reimer, Berlin, 2012, pp. 159-187. 17 Cfr. De Divitiis, Architettura e committenza cit., p. 159. 18 Ivi, pp. 142 e ss. 19 Su Alessandro Carafa vedi Biagio Aldimari, Historia genealogica della famiglia Carafa, Napoli 1691, vol. III, pp. 28-33; nonché il profilo biografico di Francesco Petrucci (cfr. ad vocem, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XIX [1976]). 20 Su Ettore Carafa vedi Aldimari, Historia genealogica cit., vol. III, pp. 43-47. Gian Cristoforo Romano (?) Tondo-ritratto di sinistra della scarsella, raffigurante un membro della famiglia Carafa (Ettore?) NAPOLI, Cattedrale, Succorpo di San Gennaro tendo sul ruolo svolto a vario titolo dai tre fratelli nella quarta traslazione e sul fatto che il Succorpo è, tra le tante cose, anche l’epilogo di un’operazione “politica” di autocelebrazione (personale e del proprio casato) 21, mi sembra molto probabile che i due tondi-ritratto che si fronteggiano specularmente sulle lunette laterali della scarsella (spesso totalmente ignorati dagli studiosi, anche perché non facilmente visibili) 22 raffigurino proprio i due fratelli del cardinale napoletano: nel tondo di sinistra (per chi guarda l’altare), sembrerebbe rappresentato Ettore 23, in quello Oltre a Bianca De Divitiis (Architettura e committenza cit., pp. 169-181) vedi anche: Norman, The Succorpo cit.; Dreszen, Oliviero Carafa committente cit.; Del Pesco, Oliviero Carafa ed il programma iconografico cit., 2006. 22 Tra i rari studiosi che ne fanno menzione vanno ricordati: 1) Roberto Pane (Architettura e urbanistica a Napoli del Rinascimento, «Storia di Napoli», vol. IV, [1974], p. 397), che ne proponeva l’identificazione con stretti congiunti di Oliviero che gli erano premorti, ovvero il fratello Alessandro [+1503] (identificato nel tondo di sinistra) e il nipote [Giovan] Bernardino [+1505] (identificato in quello di destra); 2) Strazzullo (Quinto centenario cit., p. 90), che parlava genericamente di «due personaggi sepolti o da seppellire nella cappella»; 3); Leone de Castris (Studi su Gian Cristoforo Romano cit., pp. 111-140 [vedi in particolare p. 124]), infine, che parlava di «due inediti [SIC!] ritratti di profilo nei lunettoni, verosimilmente […] di due esponenti di casa Carafa», riconducendone il disegno a Gian Cristoforo Romano e la realizzazione alla bottega dei Malvito (nel saggio è presente la riproduzione del tondo-ritratto di destra [fig. 113 a p. 123]). 23 Tuttavia Ettore, nel 1511, sei anni prima di morire, commissionò un monumento funebre nel Cappellone del Crocifisso in S. Domenico Maggiore, dove fu effettivamente sepolto nel 1517. La lastra tombale presente nel Succorpo è relativa, invece, ad un suo omonimo discendente, Ettore Carafa Duca d’Andria, vissuto nel XVIII sec. e morto nel 1764. È questa, infatti, la corretta lettura della data riportata sulla suddetta lastra, interpretata in modo errato sia da Franco Strazzullo, Quinto centenario cit., p. 91 (che la leggeva 1864) che dalla Anghela Dreszen Oliviero Carafa committente cit., p. 200 nota 67 (che la leggeva 1464); lo conferma un manoscritto conservato pres21 di destra, Alessandro. Se, come in molti oggi pensano (Norman, Del Pesco, De Divitiis ecc.), la collocazione originaria della statua raffigurante il cardinale Oliviero 24 era realmente a ridosso della cattedra vescovile marmorea, rivolta verso l’altare-reliquario 25 (sul lato opposto, cioè, rispetto alla posizione attuale, modificata in seguito al restauro del 1964) – quindi in corrispondenza dei due tondi-ritratto della scarsella –, in origine il messaggio celebrativo dei tre fratelli (Oliviero, Alessandro ed Ettore) e del clan familiare che aveva concretamente riportato a Napoli le reliquie del santo patrono doveva essere so la Biblioteca Comunale di Andria (cfr. Giovanni Pastore, Memoria dall’origine, erezione, e stato della colleggiata [sic] parrocchiale chiesa di S. Nicola della città di Andria, s.d. [ma post 1787]): «In questi mesi appunto, e propriamente nel dì 14 maggio 1764 mancò di vita il Sig.r Duca d’Andria D. Ettore Carafa, che seppellito fu nella tomba gentilizia, eretta nel Soccorpo di S. Gennaro dentro l’Arcivescovil Chiesa […]» (f. 64 v). 24 Riferita tradizionalmente dalle fonti inizialmente a Tommaso Malvito e, successivamente addirittura a Michelangelo Buonarroti, è stata attribuita di recente da Francesco Caglioti, in modo convincente, allo scultore napoletano Cesare Quaranta, con una datazione presunta tra il 1509 e il 1513 (La scultura del ’400 cit., 2002, pp. 1019-1020; Id., Due Virtù cit., 2004, pp. 333-358). 25 In questa posizione veniva descritta da D’Engenio Caracciolo nel XVII secolo: «Nel maggior Altar di questa Chiesa [id est: nel Succorpo] riposa il corpo del santissimo Gianuario con grandissima venerazione, dietro del quale è collocata la statua del dett’Oliviero tant’al naturale, che par che spiri» (cfr. Cesare D’Engenio Caracciolo, Napoli Sacra, Napoli, 1623, pp. 5-8). Z / S T O R I E Tommaso Malvito e bottega Rilievo dell'architrave del secondo altare di sinistra raffigurante un thiasos marino (Nettuno, Anfitrite e un amorino) NAPOLI, Cattedrale, Succorpo di San Gennaro ancora più esplicito di quanto non lo sia oggi 26. Il Succorpo, quindi, può essere considerato «l’epilogo della lunga strategia messa in atto dai Carafa per dare corpo alla pubblica magnificenza, sia edificando magnificamente, che assumendo il controllo di culti cittadini» 27. Al tempo stesso cappella gentilizia della famiglia Carafa della Stadera 28 e reliquiario 26 Una conferma indiretta a questa ipotesi proviene da una preziosa informazione fornita dall’Aldimari: il 17 giugno 1516 il Marchese di Montesarchio Giovan Vincenzo Carafa – erede di Ettore – sottoscrisse un atto notarile in cui s’impegnava a sostenere economicamente i costi per la celebrazione annuale all’interno del Succorpo di tre messe in suffragio dell’anima di Oliviero (il 20 gennaio), di Alessandro (il 31 luglio) e di Ettore (che nel 1516, in realtà, era ancora in vita), secondo quanto stabilito nel legato testamentario di quest’ultimo. Vedi Aldimari, Historia genealogica cit., vol. III, p. 33. 27 Cfr. De Divitiis, Architettura e committenza cit., p. 171. 28 I discendenti del cardinale Oliviero Carafa ne conservavano almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso lo iuspatronato (cfr. Strazzullo, Quinto centenario cit., nota 10, p. 39). Diana Norman (The Succorpo cit.) – poi seguita da altri (Dreszen, Oliviero Carafa committente cit.; Del Pesco, Oliviero Carafa ed il programma iconografico cit.; De Divitiis, Architettura e committenza cit.) – è stata la prima studiosa che ha sottolineato l’importanza di questa duplice natura (privata e pubblica) del Succorpo. 22 / 23 destinato ad accogliere le ritrovate spoglie del patrono della città e di altri sei “padri” della Chiesa napoletana 29, il suo progetto è strettamente legato alla complessa figura del munifico committente (che investì una cifra esorbitante per il tempo, che le fonti coeve indicano tra i 10.000 e i 15.000 ducati), il cardinale Oliviero Carafa (14301511) 30, la cui effigie marmorea – realizzata secondo Caglioti da Cesare Quaranta probabilmente tra il 1509 e il 1513 31 – ancora oggi domina gli algidi interni del Succorpo. Personaggio ricco potente e colto, raffinato mecenate (Filippino Lippi, Bramante, Peru29 Ad Agrippino, Attanasio, Aspreno, Severo, Eufebio e Agnello – secondo le fonti coeve – dovevano essere dedicati i piccoli altari laterali del Succorpo. 30 Sul personaggio c’è una copiosa bibliografia. Oltre alle importanti pagine dedicategli dall’Aldimari (Historia genealogica cit., vol. III, pp. 8-27), si vedano in particolare il sintetico ma puntuale profilo tracciato da Franca Petrucci (cfr. ad vocem, «DBI», vol. XIX [1976], pp. 588-596), ma anche Strazzullo, Il Cardinale Oliviero Carafa mecenate cit., pp. 139-160; Romeo De Maio, Savonarola e la Curia Romana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1969; Diana Norman, Cardinal of Naples and Cardinal in Rome: The Patronage of Oliviero Carafa, in M. Hollingsworth e C. M. Richardson (eds.), The Possessions of a Cardinal: Politics, Piety, and Art, 1450-1700, Pennsylvania State Univ. Press, University Park, Pa., 2009, pp. 77-91. 31 Vedi nota 24. Tommaso Malvito e bottega Rilievi dei pennacchi con la raffigurazione di personaggi mitologici: Nettuno, Diana, Marte (o Perseo) e Persefone NAPOLI, Cattedrale, Succorpo di San Gennaro gino, Raffaello sono alcuni dei nomi degli artisti con cui entrò in contatto) e amico di Lorenzo il Magnifico, “il Cardinale di Napoli” (come è spesso chiamato nelle fonti del tempo) solo alcuni anni prima della realizzazione del Succorpo (i cui lavori iniziarono nell’ottobre del 1497), nel 1488 aveva commissionato a Filippino Lippi gli affreschi della propria cappella nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva, che furono completati intorno al 1493 32. Come hanno dimostrato già dagli anni ’60 del secolo scorso gli studi di Carlo Bertelli 33 e, più di recente, quelli di Gail Geiger 34, di Anne Reynolds 35 e di Enrico Parlato 36, fu molto importante il contributo 32 Vedi le note seguenti. Carlo Bertelli, Filippino Lippi riscoperto, «Il Veltro», anno VII (1963), 1, pp. 55-65; Id., Appunti sugli affreschi nella Cappella Carafa alla Minerva, «Archivum Fratrum Praedicatorum», vol. XXXV, 1965, pp. 115-130. 34 Gail L. Geiger, Filippino Lippi’s Carafa ‘Annunciation’: Theology, Artistic Convention, and Patronage, «The Art Bulletin», vol. 63, n. 1 (1981), pp. 62-75. 35 Anne Reynolds, The private and public emblems of Cardinal Oliviero Carafa, «Bibliothèque d’humanisme et renaissance», 45, 1983, pp. 273-284. 36 Enrico Parlato, La decorazione della cappella Carafa: allegoria ed emblematica negli affreschi di Filippino Lippi alla Minerva, in S. Danesi Squarzina (a 33 dato da Oliviero nell’elaborazione del complesso messaggio iconografico, in cui risulta evidente la volontà del committente 37 – che si fece raffigurare in ginocchio da Filippino Lippi nell’affresco centrale, accanto alla Vergine e a S. Tommaso d’Aquino, ovvero nella stessa posa (definita di “adorazione perpetua”), in cui sarà immortalato alcuni anni dopo nell’ipogeo napoletano 38 – di cura di), Roma, centro ideale della cultura dell’Antico nei secoli XV e XVI, Electa, Milano 1989, pp. 169-184. 37 Id., Cultura antiquaria e committenza di Oliviero Carafa. Un documento e un’ipotesi sulla Villa del Quirinale, «Studi romani», anno XXXVIII, nn. 3-4, luglio-dic. 1990, pp. 269-280. 38 Il modello della statua del cardinale napoletano è stato spesso ricercato in un prototipo scultoreo. A mio parere, invece, esso va quasi certamente individuato in un precedente pittorico che doveva essere molto familiare a Oliviero, ovvero il ritratto di Sisto IV della Rovere del non più esistente affresco dell’Assunzione della Vergine, realizzato dal Perugino intorno al 1480 sulla parete di fondo della Cappella Sistina, oggi documentato dal disegno di derivazione, attribuito alla bottega del Perugino o del Pintoricchio, conservato presso l’Albertina di Vienna [inv. 4861] (vedi anche Del Pesco, Oliviero Carafa cit., 2006, p. 211 e fig. 12 a p. 222). Anche il Pintoricchio si rifarà al medesimo precedente iconografico, intorno al 1492-94, per rappresentare Alessandro VI nell’affresco della Resurrezione di Cristo negli appartamenti Borgia in Vaticano. S T O R I E / Z creare una sorta di rebus iconografico in cui sono frequenti rinvii eruditi alla cultura classica ma anche alla cultura criptica che è alla base del Polifilo e in cui compaiono anche alcuni “geroglifici” umanistici (come li definì Carlo Bertelli), simili a quelli suggeriti alcuni anni dopo da Annio da Viterbo per la decorazione degli appartamenti di papa Alessandro VI Borgia 39. Anne Reynolds nel 1985 40 – seguita qualche anno dopo da Enrico Parlato 41 – ha evidenziato che la cultura “antiquaria” di Oliviero si palesò non solo nel mero collezionismo ma anche nella protezione dei principali umanisti del tempo (tra cui Pomponio Leto) e nella promozione di eventi come quello che si svolgeva durante la festa in onore di San Marco, il 25 aprile, che avrebbe dato inizio, poi, alle cosiddette “Pasquinate” 42. Si trattava, in origine, di una sorta di certamen poetico a tema – prevalentemente in latino – in cui dominava una contrastante commistione tra sacro e profano, tra antichità classica (tra i temi noti scelti annualmente dal cardinale: Saturno, Giove, Minerva, Apollo, Marte, Mercurio, Bacco o Nettuno [dal 1501 al 1507]; Arpocrate [1508]; Giano [1509], Ercole e l’idra [1510]) 43 e religione cristiana (a partire dalla stessa data scelta per il certamen, che coincideva con la festa di San Marco). Le poesie venivano appese alla scultura ellenistica (al tempo ritenuta una raffigurazione mutila di Ercole, ma identificata quasi unanimemente negli studi moderni con il soggetto classico di Menelao e Patroclo) 44 – rinvenuta nel 1501 45 nei pressi dell’attuale Palazzo Braschi (dove, al tempo, sorgeva la dimora del cardinale Carafa) – che veniva “vestita” di volta in volta in base al tema scelto da Oli- 39 Di “geroglifici” umanistici parlavano, ad esempio, Carlo Bertelli (Filippino Lippi cit., 1963, pp. 6263; Id., Appunti sugli affreschi cit., 1965, p. 121 e note 24-25) e Maurizio Calvesi (Fonti dei geroglifici del Polifilo. Un confronto con la Cappella Carafa, in S. Colonna (a cura di), Roma nella svolta tra ’400 e ’500. Atti del Convegno Internazionale di Studi, De Luca, Roma 2004, pp. 481-498). Sull’argomento si veda anche lo studio pionieristico: Karl Giehlow, Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento (a cura di M. Ghelardi e S. Müller), Aragno Ed., Torino 2004 [ed. orig.in tedesco, Vienna-Lipsia, 1915]. 40 Cfr. Anne Reynolds, Cardinal Oliviero Carafa and the early Cinquecento tradition of the feast of Pasquino, «Humanistica Lovaniensia (Journal of neo-latin studies)», vol. XXXIV, 1985, pp. 178-208. La studiosa è tornata successivamente sull’argomento in più occasioni; vedi in particolare Ead., Il cardinale Oliviero Carafa e l’umanesimo a Roma, in F.C. Ricci (a cura di), Il Cristianesimo fonte perenne di ispirazione per le arti, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2004, pp. 309-327. 41 Cfr. Parlato, Cultura antiquaria cit., 1990, pp. 269-280. 42 Sull’originario significato di Pasquino e delle “Pasquinate” nei primi decenni del ’500, oltre alle importanti annotazioni di Anne Reynolds (Cardinal Oliviero Carafa and cit., 1985; Ead., Il cardinale Oliviero Carafa e l’umanesimo cit., 2004) e ai cenni di Enrico Parlato (Cultura antiquaria cit., 1990), si veda l’ancor oggi fondamentale saggio: Domenico Gnoli, Storia di Pasquino, «Nuova antologia di scienze lettere ed arti», IIIa serie, vol. XXV, 1890, pp. 24 / 25 51-57 e 275-296. Gnoli fu il primo studioso a ricostruire storicamente la vera natura del fenomeno che – a partire dalla sua creazione, ad opera del cardinale Oliviero Carafa, almeno fino alla metà del XVI secolo – fu essenzialmente umanistico-letteraria e per nulla popolare. Egli dimostrò, inoltre, che in origine l’elemento satirico delle poesie affisse alla statua, pur presente, era abbastanza marginale, mentre era prevalente quello encomiastico e celebrativo della Curia romana (in particolare nei confronti di cardinali e pontefici). Il celebre carattere d’invettiva popolare e anticlericale della “statua parlante”, comunemente attribuito alle “Pasquinate” – tanto celebrato nell’800 dal Belli e plasticamente rievocato nella produzione cinematografica di Luigi Magni –, andò gradualmente affermandosi solo in seguito, fino a diventare l’elemento essenziale del fenomeno. 43 Cfr. Gnoli, Storia cit., 1890, pp. 51-57 e 275296 (in particolare pp. 275-276). 44 Cfr. Giuseppe Lugli, Osservazioni sul gruppo di Menelao e Patroclo volgarmente detto il Pasquino, «Bollettino d’Arte», anno IX serie I, num. V (nov. 1929), pp. 207-225; si veda anche la voce Pasquino di Paolo Moreno, «Enciclopedia dell’Arte Antica», 1996, vol. V, p. 985. 45 Sulla statua rinvenuta nei pressi del suo palazzo romano vicino a Piazza Navona e divenuta poi nota come Pasquillo (o Pasquino), Oliviero fece incidere la seguente iscrizione (ricordata anche dall’Aldimari, Historia genealogica cit., vol. III, p. 19): «OLIVERII CARAFAE BENEFICIUM HIC SUM / ANNO SALUTIS MDI». viero Carafa e, dopo il 1511, dai cardinali che gli subentrarono come protettori-mecenati di Pasquino; una di queste effimere metamorfosi è documentata da una xilografia del 1511 che raffigura Pasquino “vestito” a lutto per la morte del cardinale Carafa 46. Una selezione di questi versi venne pubblicata dal 1509, con cadenza annuale, sotto il titolo di Carmina ad Pasquillum 47. La presenza nel Succorpo di elementi tratti dalla mitologia pagana (di cui alcuni molto importanti di cui si dirà a breve, stranamente sfuggiti del tutto, fino a oggi, agli studiosi che si sono occupati dell’argomento) induce a pensare che un simile paradigma sia stato utilizzato dal cardinale Oliviero anche nell’elaborazione di un messaggio iconografico alquanto complesso (e, probabilmente, intenzionalmente criptico). Non è un caso che la decorazione delle bianche pareti marmoree sia stata letta (talvolta anche da chi ha tentato di fornire un’interpretazione iconologica di altre parti dell’ipogeo ianuariano) poco più che un mero esercizio di stile della nutrita bottega di scultori e scalpellini diretti dallo scultore comasco Tommaso Malvito: 46 La trasformazione della statua nel soggetto scelto di anno in anno per Pasquino era affidata, alcuni giorni prima della festa di S. Marco, ad «un pittore a ciò chiamato [che] le dava per solito, colla mistura di sacro e profano comune a quel tempo, la forma di un’antica divinità, fatta di cartapesta colorata e di panni» (cfr. Gnoli, Storia cit., 1890, p. 58). La xilografia di Pasquino vestito a lutto, pubblicata da Mazzocchi nell’edizione dei Carmina ad Pasquillum del 1511, è riprodotta anche in Reynolds, Il cardinale Oliviero Carafa cit., 2004, p. 311; Parlato, Cultura antiquaria cit., 1990, tav. XLI. 47 Le celebrazioni dei primi otto anni della festa, che vanno dal 1501 – anno del rinvenimento della statua – al 1508, non furono seguite dalla pubblicazione delle poesie dedicate a Pasquino. La prima edizione a stampa dei “Carmina ad Pasquillum” – curata inizialmente da Iacopo Mazzocchi – risale, infatti, al 1509 e sarà continuata in seguito, con cadenza regolare, per vari anni ancora (sono note le edizioni per gli anni: 1509-18, 1520, 1521, 1523, 1525-26 e 1536). Cfr. Reynolds, Cardinal Oliviero Carafa cit., 1985, pp. 178-208 (vedi in particolare nota 33, p. 185). «le pareti rappresentano solo un sistema di articolazione architettonica con nicchie piatte e paraste a rilievo», ha scritto la Dreszen nel 2004 48. Più o meno sulla stessa linea si collocava già l’osservazione della Norman che notava la quasi totale assenza o rarità sulle pareti della cripta di elementi esplicitamente cristiani (tra le rare eccezioni un Cristo dei dolori e il Pellicano che nutre i figli del proprio corpo) o di espliciti riferimenti a episodi della vita e/o del martirio di S. Gennaro, che – secondo la studiosa – potrebbe essere spiegata con la reale presenza nel Succorpo delle reliquie del santo che, con la loro corporeità, avrebbero reso pleonastico e ridondante ogni ulteriore esplicito richiamo al martire beneventano 49. In realtà, oltre ai riferimenti astrologici ricordati dalle fonti non più visibili e agli importanti “geroglifici” delle due lastre poste ai lati della cattedra marmorea dietro l’altare (brillantemente decodificati dalla Norman come Prudentia e Sapientia) 50, i riferimenti iconografici classici sono ancora oggi numerosi e non si limitano alle panoplie e ai metamorfici candelabri zoo e antropomorfi della decorazione a grottesca. Le presenze iconografiche “pagane” più frequenti sembrano ruotare intorno alla raffigurazione di arpie-sfingi e, soprattutto, di divinità marine (tritoni, nereidi, ippocampi ecc.), che nel mondo classico erano messe in relazione con il transito dalla vita alla morte e per questo di frequente presenti tra le decorazioni scultoree dei sarcofagi romani d’età imperiale. Infatti, a coronamento del primo e del se48 Cfr. Dreszen, Oliviero Carafa committente cit., p. 188: «In questa cappella, il messaggio iconografico è spostato dalle pareti al soffitto, che è il vero e proprio campo iconografico, mentre le pareti rappresentano solo un sistema di articolazione architettonica con nicchie piatte e paraste a rilievo». 49 Cfr. Norman, The Succorpo in the cathedral of Naples cit., 1986, p. 352. 50 Ivi, p. 347 e ss., figg. 22 e 23. Vedi riproduzione anche in Leone de Castris, Studi su Gian Cristoforo Romano cit., figg. 118 e 119, p. 126. S T O R I E / Z condo altare della parete di sinistra dell’ipogeo, due architravi contengono la rappresentazione di un thiasos marino (un corteo nuziale) il cui asse di simmetria è rappresentato dal blasone dei Carafa sormontato dal cappello cardinalizio. Nel primo caso si tratta di nereidi che cavalcano, nude, due tritoni; nel secondo caso, il thiasos marino è composto da tre figure (a sinistra una maschile e, a destra, un’altra femminile con accanto un bambino), giustapposte, che solcano le onde del mare su due carri trainati da quattro ippocampi: si tratta, in modo evidente, di Nettuno e di Anfitrite (accompagnata da un amorino). E sempre Nettuno 51 – questa volta però munito dell’inconfondibile tridente (sebbene parzialmente mutilo) disteso su un flutto mentre gli saltano accanto due delfini – ricompare in modo ancora più esplicito in uno dei quattro pennacchi definiti dall’intersezione della volta delle absidi poste ai lati della scarsella con il soffitto a cassettoni 52. Gli altri tre pennacchi raffigurano, in modo inequivocabile, altrettante divinità pagane la cui presenza – anche questa mai notata prima – pone interessanti interrogativi a cui si cercherà di dare risposta. È possibile riconoscere, quindi, procedendo da sinistra verso destra: 1) l’appena menzionata figura di Nettuno/Poseidone; 2) Diana/Artemide, seduta su una sorta di sgabello, che è intenta a estrarre con la destra una freccia dalla faretra, mentre con l’altra mano regge l’arco; al suo fianco sono rappresentati una face e due fiori; 3) Marte/Ares (o Perseo?) 53, sedu51 Per quanto mi è dato sapere, l’unico studioso che fino a oggi abbia fatto cenno a una raffigurazione di Nettuno nel Succorpo –seppure in modo fugace e senza specificarne la collocazione – è stato Antonio Muñoz (Studi sulla scultura napoletana cit., p. 88). 52 Gli altri due pennacchi triangolari che si formano in corrispondenza dell’intersezione della scarsella con il soffitto del Succorpo rappresentano due tritoni alati muniti di puntuti tridenti rivolti verso il basso. 53 Sebbene questa figura marziale ricordi nella postura l’Ares Ludovisi (rinvenuto, tuttavia, solo nel ’600), non è improbabile che rappresenti, invece, 26 / 27 to di 3/4 sopra uno sgabello, in abiti militari, che con la destra regge il bastone di comando, poggiando l’altra mano su un fianco; accanto sono rappresentati uno scudo con la testa di Medusa e un ramo di ulivo (chiaro riferimento al nome del cardinale); 4) Proserpina/Persefone, divinità ctonia regina degli inferi, seduta, che regge con la mano sinistra il bastone di Asclepio (il bastone simile al caduceo che poteva ridare la vita ai morti); alla sua sinistra è raffigurato un fascio con tre spighe di grano (attributo della dea allusivo alla sua duplice natura, solare e ctonia, e all’alternarsi delle stagioni e della vita sulla morte). La presenza insistita di divinità e di esseri marini (Nettuno, Anfitrite, nereidi, tritoni, ippocampi, delfini ecc.), potrebbe essere, inoltre, ricondotta ad altre due motivazioni. La prima di carattere autocelebrativo: è probabile che si sia voluto presentare – come era già avvenuto nella cappella romana del cardinale 54 – un erudito rinvio ai successi militari ottenuti da Oliviero che, in qualità di ammiraglio, aveva guidato la flotta pontificia nel 1472 nella crociata contro i Turchi, riportando una memorabile vittoria su Setalia, città dell’Asia Minore 55. La seconda motivazione, invece, potrebbe essere una colta metafora collegata al santo beneventano: l’esplicita rappresentazione di Nettuno in almeno due punti distinti del Succorpo è forse un raffinato rinvio all’aspetto pubblico dell’ipogeo come reliquiario delle spoglie di S. Gennaro che viene richiamato indirettamente, se si rammenta che il principale attributo di Nettuno/Poseidone era Ennosìgaios ovvero «scuotitore un eroe semidivino, Perseo. La rappresentazione del volto della Gorgone sullo scudo raffigurato accanto indurrebbe a propendere per questa seconda ipotesi. 54 Cfr. Bertelli, Filippino Lippi cit., 1963. 55 Vedi la biografia di Oliviero di Franca Petrucci (cfr. ad vocem, «DBI», vol. 19, p. 589). L’impresa navale fu narrata da Pietro Ursuleo in un ms. della Bibl. Apostolica Vaticana (ms. Ottob. lat. 1938 cc. 1-8). della terra» 56. I terremoti, infatti, secondo la mitologia classica, erano generati dalla divinità marina che scuoteva la terra con il suo tridente. È utile ricordare che tra i poteri miracolosi attribuiti a S. Gennaro, per i quali veniva principalmente invocato dal popolo, vi era appunto quello di interrompere terremoti (ed eruzioni). La presenza di Artemide/Diana, invece, può essere spiegata considerando che questa divinità pagana era frequentemente identificata con Selene e collegata al «ciclo della fecondità femminile, animale e anche vegetale. Più in generale il suo ruolo è quello di dea della fecondità, come Ecate, con cui è spesso identificata […] [che] ha il potere sia di far morire […] sia di far nascere» 57. Di un significato analogo – ancora più esplicito – sembra essere latrice la figurina di Persefone, il cui mito era collegato al mondo ctonio e al passaggio ciclico dalla vita alla morte. Il bastone di Esculapio che la divinità pagana regge, esalta ulteriormente questo significato e, in modo forse non casuale, rinvia al mito di Perseo e Medusa che, come vedremo, potrebbe avere una certa rilevanza per l’interpretazione di un messaggio iconografico generale che ci sembra di aver individuato. Infatti, se la figura maschile presente nel secondo pennacchio di sinistra è realmente da identificare con Marte, il rinvio più immediato sembra essere quello ai successi militari che il cardinale napoletano (il cui nome è richiamato dal ramo di olivo che compare all’estrema destra del pennacchio triangolare), come si diceva, ottenne quando nel 1472 fu a capo della flotta pontificia. Se 56 Cfr. ad vocem Poseidone, «Dizionario della Civiltà Classica», Milano, 1993, vol. II, pp. 1494-95. 57 Cfr. ad vocem Artemide, «DCC», vol. I, p. 467. Va osservato che in uno dei rilievi degli altari laterali sul lato destro dell’ipogeo è presente una figura femminile da identificare probabilmente con Ecate, in piedi, nuda, sorretta da due esseri infernali antropomorfi dalle zampe caprine (vedi riproduzione in Muñoz, Studi sulla scultura napoletana cit., fig. 12 p. 70). invece, come sarei più propenso a credere, questa figura è da identificare con Perseo (come porta a pensare la presenza della testa di Medusa sullo scudo), si profila un’ipotesi ermeneutica più complessa ma molto interessante. Il semidio argivo era legato a varie imprese, tra cui quella della decapitazione di Medusa richiamata nel rilievo dello scudo. L’eroe racchiuse il capo della Gorgone dentro una bisaccia e raccolse il sangue sgorgato dal collo reciso: questo sangue aveva proprietà eccezionali poiché quello colato dalle vene del lato destro era in grado di restituire la vita ai defunti, mentre quello uscito dal lato sinistro era mortifero. Questa variante del mito di Medusa è indirettamente richiamata in una famosa tragedia di Euripide, lo Ione, in cui vengono ricordate le doti taumaturgiche e quelle tanaturgiche del sangue della Gorgone delle quali Creusa tenta di servirsi – senza poi riuscirvi – per uccidere il figlio Ione 58. Va ricordato che nel 1509 il cardinale Carafa predisponeva il suo testamento nel quale dichiarava di voler essere sepolto, alla sua morte, dapprima nella cappella romana in S. Maria sopra Minerva e che, successivamente, le sue spoglie fossero trasferite definitivamente «sine ponpa» nella sua seconda cappella alla cattedrale napoletana, «ubi corpus et sanguis Beati Ianuarii requiescit» 59. Le ampolle con il sangue miracoloso di S. Gennaro, quindi, si trovavano nel Succorpo certamente dal 1509 (dove erano state traslate forse già dal 1506, insieme alle altre reliquie del Santo) e vi rimasero per vari anni ancora, anche se non molti, per volontà del potente 58 Euripide, Ione, BUR, Milano 2009, vv. 10031009. Vedi anche il saggio introduttivo di Maria Serena Mirto, pp. 5-62 (in particolare p. 17). 59 Cfr. Strazzullo, Il Cardinale Oliviero Carafa cit., pp. 148-152: «…Corpus autem relinquo et mando tradi ecclesiastice sepulture et presens deponi intra cappellam meam beate Marie et beati Thome Aquinatis super Minervam… ac deinde transferendum Neapolim ac sepelliendum in catedrali ecclesia in alia cappella mea ubi corpus et sanguis beati Ianuarii requiescit tumulo mihi moderate et sine ponpa facto». Tommaso Malvito e bottega Rilievo dell'intradosso dell'architrave del secondo altare di sinistra raffigurante la testa di Medusa NAPOLI, Cattedrale, Succorpo di San Gennaro cardinale. Infatti non c’erano probabilmente più già nel 1534, in quanto la bolla pontificia di Paolo III di riconferma dello iuspatronato ai Carafa non ne fa esplicito riferimento. Di certo erano state rimosse dall’ipogeo nel 1542, come attesta la visita pastorale di Francesco Carafa che le descrive nuovamente nella torre di destra della Cattedrale, insieme al Tesoro del Santo (dove rimarranno fino alla realizzazione, nel XVII secolo, della Cappella del Tesoro di S. Gennaro) 60. Considerando che oltre alla già ricordata ipotetica identificazione di Perseo, sono numerosi i riferimenti diretti o indiretti a Medusa e al suo mito presenti nella cripta di S. Gennaro 61, ritengo che sia tutt’altro che peregrino pensare che il colto cardinale – probabilmente anche su suggerimento della nutrita cerchia di eruditi umanisti che lo affiancava – conoscendo questa versione del mito (magari proprio attraverso la tragedia euripidea appena ricordata), abbia voluto fare un colto parallelo tra le doti taumaturgiche del mitico sangue di Medusa e quelle miracolose attribuite al sangue di S. Gennaro, le cui 60 Cfr. Strazzullo, Quinto centenario cit., 1996, pp. 85-87. 61 Tra i primi l’esplicita raffigurazione della Gorgone in due “mascheroni” (vedi qui figura 8 e in Muñoz, Studi sulla scultura napoletana cit., fig.10 p. 68); tra i secondi la probabile raffigurazione di Cetus e di Pegaso e Andromeda in alcuni piccoli rilievi laterali a fianco della scala di sinistra. 28 / 29 ampolle erano fisicamente presenti nel Succorpo 62. In definitiva, sebbene alcuni particolari iconografici del Succorpo non siano ancora del tutto chiari, sembra evidente che il focus iconologico di tutta la decorazione è nel caelum dell’ipogeo ianuariano. Questo, infatti, costituito da un soffitto di 18 cassettoni figurati di esplicito contenuto religioso 63 – secondo la tradizionale simbologia gerarchica Alto/ Basso – cristianizza il contenuto in gran parte “pagano” del registro inferiore, restituendogli il valore di una sofisticata e colta prefigurazione allegorica del messaggio cristiano. Quest’ultimo consiste nell’esaltazione della sacralità delle reliquie dei martiri (a partire da Gennaro, il santo taumaturgo protettore della città), suggerendo come sottotesto, in ultima istanza, una linea di continuità (e, quindi, di legittimazione) che parte dalla Chiesa Trionfante del soffitto e, attraverso le reliquie di Gennaro (che nelle intenzioni di Oliviero dovevano includere probabilmente anche le “miracolose” ampolle di sangue), e degli altri padri della Chiesa napoletana (che nel progetto iniziale ricordato dalle fonti dovevano essere collocate negli altari laterali della confessio) arriva ai successori della sede arcivescovile della città, rappresentati simbolicamente dalla cattedra marmorea della scarsella e, in effigie, dal ritratto marmoreo in scala naturale del cardinale (e arcivescovo di Napoli), raffigurato in orazione perpetua delle spoglie del Santo beneventano. 62 Il fenomeno della liquefazione è storicamente attestato per la prima volta almeno a partire dal XIV secolo. Vedi: Chronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396, in forma Diarii, ex inedito codice Ottoboniano Vaticano cura et studio Iosephi De Blasiis, Napoli, 1887. 63 I 18 tondi clipeati raffigurano: la Vergine col bambino; i quattro Evangelisti; i quattro Padri della Chiesa (Gregorio, Agostino, Ambrogio e Girolamo), i santi Pietro e Paolo; i sette patroni della Chiesa di Napoli (Severo, Aspreno, Agnello, Agrippino Attanasio, Eusebio e Gennaro). Per la distribuzione delle menzionate figure e una planimetria del Succorpo vedi lo schema riportato da Franco Strazzullo (Quinto centenario cit., pp. 80 e 81). Quartet. La casa insicura dell’arte Viviana Gravano «Non c’è dubbio. Questa è la mia casa/ qui avvengo, qui/ mi inganno immensamente./ Questa è la mia casa ferma nel tempo./ Arriva l’autunno e mi difende,/ la primavera e mi condanna./ Ho milioni di ospiti/ che ridono e che mangiano,/ s’accoppiano e dormono,/ giocano e pensano./ milioni di ospiti che si annoiano,/ che hanno incubi e attacchi di nervi./ Non c’è dubbio. Questa è la mia casa./ Tutti i cani e i campanili/ ci passano di fronte./ Ma la mia casa è sferzata dai fulmini/ e un giorno si spaccherà in due./ E io non saprò dove ripararmi/ perché tutte le sue porte danno fuori dal mondo». (Mario Benedetti, Questa è la mia casa) La casa nella cultura occidentale corrisponde in maniera pressoché inequivocabile al luogo della famiglia, della sicurezza, dell’intimità e alla sfera del privato. L’immaginario legato a questo spazio produce sovente iconografie rassicuranti, che la disegnano come il rifugio, la zona franca nella quale chiudersi per sfuggire ai pericoli esterni. Gaston Bachelard, filosofo della scienza e della poesia, che ha dedicato ampio spazio al significato epistemologico della casa, nel suo saggio La poetica dello spazio cita un brano di Jung dove lo psicanalista per spiegare come immaginare l’animo umano lo descrive appunto come un’abitazione: Dobbiamo porci di fronte allo spaccato di un edificio e fornirne una spiegazione: il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo, il pianterreno è del XVI secolo ed un esa- me più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo fondamenta romane e sotto la cantina si trova una grotta sul cui suolo si scoprono, nello strato superiore, utensili di selce e, negli strati più profondi, resti di fauna glaciale. Questa potrebbe essere, all’incirca, la struttura della nostra anima 1. Lo stesso Bachelard poco oltre disegna la casa come il luogo simbolo del corpo umano: Non solo i nostri ricordi, ma anche le nostre dimenticanze sono «alloggiate», il nostro inconscio è «alloggiato», la nostra anima è una dimora e, ricordandoci delle «case» e delle «camere», noi impariamo a «dimorare» in noi stessi. Le immagini della casa (ce ne accorgiamo fin da questo momento) procedono nei due sensi; esse sono in noi così come noi siamo in esse 2. Partendo da questo presupposto la dimora è insieme il luogo delle nostre più profonde radici identitarie e culturali e, allo stesso tempo, è il territorio inesplorato delle nostre angosce e delle nostre più nascoste incertezze. 1 Carl Gustav Jung, Psicologia analitica, cit. tratto dal saggio intitolato: Il condizionamento terrestre dell’anima, in Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 27-28 (ed. orig. La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957). 2 Bachelard, La poetica cit., p. 28. S T O R I E / Z Immaginare la casa come il luogo dell’insicurezza, o addirittura della paura, è il fil rouge che lega alcune opere visuali contemporanee, ciascuna peculiarmente diversa, ma tutte accomunate dalla messa in discussione della dimora come simbolo dell’intimità inviolabile e della solidità. La scelta è volutamente caduta su due coppie di artisti, gli uni attivi dagli anni Settanta, gli altri dai Novanta, proprio per mettere a confronto le leggere variazioni di sfumatura che questo approccio al tema ha declinato nel tempo. Si noterà anche una sostanziale differenza da un punto di vista sia estetico che tecnico, proprio per indicare ancora la trasversalità di una visione che discute una certezza “storica” del pensiero occidentale. Nel 1972 l’artista francese Christian Boltanski realizza il film cortometraggio Essai de reconstitution des 46 jours qui précédèrent la mort de Françoise Guiniou 3. Nel film si seguono gli ultimi 46 giorni di vita di una giovane donna, madre di due bambini: Martine, la piccolina all’incirca di poco più di un anno e Jean, il maschio di circa 7 anni. Il film inizia mostrando il condominio popolare in cui la giovane mamma vive e nella prima scena si vede lei che, tenendo in braccio la bimba, va a prendere a scuola il più grande, che appare felice di vederla. Ciascuna sequenza è intervallata da un cartello numerato che indica la nuova scena e il passare del tempo. La famigliola felice, per tutto il film sempre senza padre, arriva a casa, e già la mamma compie un gesto che ci appare inquietante: invece di inchiavare semplicemente la porta di ingresso la sbarra mettendo dei legni inchiodati di traverso. Una voce fuori campo fredda e inespressiva, come in un documentario, accompagna descrivendolo in maniera pedissequa tutto il breve racconto cinematografico, e legge ciascun cartello che enuncia la sequenza dei fatti. Mano a mano la 3 1972, bianco e nero, 16 mm; durata 18'; riprese: Bob Swaim; Montaggio: Ody Ross; Sceneggiatura: Christian Boltanski; Collezione Forum des images, Paris. 30 / 31 donna inizia a vivere con i due bimbi in questa casa chiusa, con le finestre serrate e le tende tirate. All’inizio la famiglia fa la sua vita: i bimbi giocano, mangiano tutti e tre insieme, Martine fa il bagnetto, si festeggia il compleanno di Jean, la mamma confeziona a mano una bambola per Martine. La sola cosa che appare chiara è che nessuno di loro esce più dalla casa, e il solo contatto che lo spettatore percepisce con l’esterno è la voce off che descrive, senza però che li si possa sentire, i rumori esterni alla casa. Si fa cenno ai suoni che provengono dalla strada, o a quelli dei vicini, e a quelli dei passanti per le scale. Quando Jean inizia a voler uscire la mamma reagisce in modo violento e lo dissuade, ma solo con i gesti, perché il film è completamente muto, a parte la voce narrante. Pian piano inizia a scarseggiare il cibo, finché finisce del tutto, e Françoise, seduta a terra, rovista nell’immondizia che ormai invade la cucina. La prima a morire di inedia è Martine, nel suo lettino. Poi la stessa mamma si abbandona sul letto, rifiuta i tentativi di farla reagire di Jean, e si lascia morire, riversa a pancia in giù senza nemmeno girarsi a guardare il bambino che la scuote. Il cortometraggio finisce con Jean a terra, sudicio, solo, che mastica la carta da parati che ha appena staccato dal muro della casa. Un’immagine terrificante, di una crudezza spaventosa che si mostra in maniera fredda, glaciale, come guardare dei pesci morire lentamente in un acquario da dietro al vetro senza poter fare nulla per salvarli. Boltanski racconta di una famiglia normale, qualsiasi, di una madre felice, di due bei bambini, di una casa certo semplice fin quasi povera, ma ben tenuta. Ma proprio quella assoluta normalità, quel disegno non perfetto ma “giusto” è la trappola mortale che lentamente uccide Françoise e i suoi figli. Il terrore dell’esterno che arriva solo come suono, le porte e le finestre sbarrate, sono l’estrema metafora di quella casa/famiglia che chiude, rinserra, delimita lo spazio privato come salvifico. Boltanski non dà nessun giudizio, non ci induce mai a pietà, non cambia mai Gordon Matta-Clark Splitting 1974, fotografia bianco e nero courtesy Gordon Matta-Clark Trust, New York il tono della voce, non indugia in inquadrature troppo ravvicinate o retoriche, racconta quasi come un investigatore addetto a documentare a distanza un crimine. Non si tratta di provare pena, e persino l’orrore è come mitigato dalla freddezza di un bianco e nero impietoso, è la semplice constatazione del rischio, certo persino mortale, di vedere il nucleo familiare e l’involucro che la ospita, cioè la casa, non come un ambiente poroso ma come un limite invalicabile, auto-imposto dalla paura. Sembra chiaro che la proposizione di Boltanski è metaforica, la si potrebbe allargare, dalla casa al palazzo, dal palazzo al quartiere, alle città con le dispute cittadine, e alle regioni e così via fino agli Stati e quindi ai nazionalismi. L’ottusità di vedere il limite, la frontiera, il confine, come una barriera “contro” gli altri, “in difesa da”, non può che portare all’auto-implosione, a una lenta morte autarchica. Non a caso Boltanski sceglie solo una madre con due figli: perché l’iconografia che si va a polverizzare diviene culturalmente ancora più deflagrante, visto che la figura della madre è quella per eccellenza della protezione, della salvazione. Madre e casa sono un binomio indissolubile per la cultura familiare occidentale, dunque una madre che uccide i propri figli chiudendoli nella sua stessa casa è un gesto di insopportabile insensatezza per lo spettatore. Anche l’ultima scena in cui Françoise è sul letto, riversa, e Jean cerca di farla reagire ma lei lo scaccia malamente e si lascia morire, è un’anti-iconografia mariana: la madre non accoglie ma scaccia il figlio, gli porge le spalle invece del grembo, e non prova a salvarlo, ma anzi se ne va lasciandolo morire da solo. Tutte le azioni di Françoise che precedono la fine drammatica sono gentili, premurose, ogni sua azione è per i bambini. Dunque Boltanski non ci parla della follia che coglie nell’attimo, non ci racconta di un gesto estremo fuori dalla regola, ma ci parla della lenta agonia di chi ripete per convenzione gesti che rassicurano, che curano, che chiudono e alla fine soffocano. La casa di Françoise, con porte e finestre chiuse, non respira più, e persino la scelta del film muto allude all’impossibilità di esprimersi, di parlare. Splitting di Gordon Matta-Clark, pur restando nel contesto dell’immagine della casa come luogo della paura e dell’incertezza inverte totalmente il paradigma visivo proposto da Boltanski. L’opera, realizzata nel 1974 in una casa al 332 di Humphrey Street, a New York, messa a disposizione da Holly Salomon, si trovava in un’area che doveva essere demolita per fare posto a una nuova urbanizzazione e, prima di smantellare la casa, comprata come investimento immobiliare, il noto collezionista dà la possibilità all’artista di farne un’opera. Splitting è forse il lavoro più completo di Matta-Clark, sicuramente il più emblematico della sua filosofia. Gordon prende la casa dei Salomon e pratica da solo, a mano, con un trapano, un’apertura zenitale, realizzata attraverso una fessura larga 2 centimetri che la attraversa da parte a parte, che taglia esattamente a metà la casa dal tetto alla sua base. Poi con dei cric idraulici, come quelli che si usano per i Tir di grandi stazze, fa in modo che la casa di apra, senza però cadere o cedere. In sostanza l’edificio resta intatto ma aperto da un lungo taglio controllato che permette di vedere al suo interno e che, dall’interno, appare come una S T O R I E / Z Ulla von Brandenburg Singspiel (Songplay) 2009, film 16 mm bianco e nero, sonoro, 14’34” courtesy dell’artista e della galleria Art: Concept, Paris grande lama di luce che separa in due parti simmetriche la casa, dal tetto al piano terra. Fino a quel momento Gordon aveva quasi sempre lavorato in aree abbandonate con edifici dismessi, con Splitting finalmente non è più un clandestino a bordo, e questo non solo non lo preoccupa, ma nemmeno cambia il senso del suo intervento. A chi gli chiedeva se lui pensasse che la sua architettura potesse essere anche applicata a situazioni destinate a durare nel tempo, e a essere utilizzate realmente, quotidianamente, più di una volta ha risposto che lui avrebbe lavorato volentieri anche in quella direzione, se gliene fosse stata data la possibilità. Questo testimonia come il suo non fosse un linguaggio legato solo alla decostruzione, o all’utopia irrealizzabile, ma semmai più a una costante rimessa in discussione delle strutture portanti dell’abitare e del costruire. Splitting è ancora più interessante e divertente nella sua assurda ironia, perché è una casa in piena regola, con la forma classica della villetta americana. Quando Matta-Clark entra vi trova ancora oggetti della gente che l’aveva abitata, andata via con una certa urgenza perché sfrattata. La vista all’interno mostra la stessa fessura che, da un certo punto di vista, diventa luce pura attraverso lo spiraglio che disegna il profilo della casa, e dall’altro ne mostra lo scheletro strutturale. Ed ecco che si concretizza sotto i nostri occhi una sublimazione della materia in luce a cui Matta-Clark fa spesso riferimento. Guardando le immagini in bianco e nero dell’interno, si percepisce una doppia possibilità di penetrazione data al nostro corpo e alla nostra mente: da un lato si può attraversare la casa da parte a parte e, 32 / 33 mettendosi di profilo, si può immaginare di passare, come un filo sottile, nella fessura; dall’altra, la riproduzione fotografica dell’opera permette un viaggio tridimensionale diverso, che trova il suo apice nel fotocollage dove la casa si divarica ancora più radicalmente, e mostra una metà totalmente nuda, aperta all’intrusione del nostro sguardo. Il luogo del privato per eccellenza, quello nel quale si chiude il segreto dell’esistenza di ciascuno, viene aperto e mostrato senza pudore: i brandelli della carta da parati, il pavimento macchiato, con la macchina del gas che si intravede sul fondo, con il corrimano ancora caldo di qualcuno che lo ha percorso con il palmo della sua mano. Tutte le regole sono violate: le regole della stabilità architettonica e le regole della solidità familiare. Quella fenditura di luce così mistica, così zen nella sua assolutezza, della larghezza giusta, non più e non meno di quello che necessita, taglia però di fatto a metà il luogo dell’unità indivisibile: la casa. Horace Salomon in un’intervista a proposito di Splitting dice: Dopo la realizzazione del taglio, mi sentivo nervoso a stare in casa; pensavo che potesse cadere in qualsiasi momento. Non mi piaceva affatto stare là, ma nonostante questo mi incantava molto l’esterno e mi piaceva contemplarla 4. La sua reazione è significativa: un senso di fascinazione mista a paura che, se può apparire come una normale paura del crollo, testimonia anche di quel continuo senso di ansia che i lavori di Matta-Clark infondono in chi guarda, sempre unito a una attrazione irresistibile. Per questo lavoro Matta-Clark riceve molte contestazioni dagli architetti, finalmente toccati nel loro punto più vitale: l’abitazione. Qualcuno gli scrive che lui «infrangeva la santità e la dignità degli edifici in 4 Gordon Matta-Clark, cat. mostra, Internationaal Cultureel Centrum, Antwerpen 1977, riportata in Gordon Matta-Clark, cat. mostra, IVAM Centre Julio Gonzáles, Valencia 1993, p. 194. Christian Boltanski Essai de reconstitution des 46 jours qui précédèrent la mort de Françoise Guiniou 1971, film 16 mm, bianco e nero, sonoro, 18’ collezione Forum des images, Paris rovina interrompendo la loro naturale transizione verso la rovina e la demolizione» 5. Santità e dignità che vengono interrotte dall’apertura, dalla profanazione dell’integrità. L’edificio, nella sua interezza, può essere abbattuto, demolito, reso polvere, ma non tagliato perché questo è un inaccettabile sacrilegio della sua impenetrabilità, della sua verginale intoccabilità, che lo deve accompagnare fino alla morte, che lo vedrà ripiegarsi su se stesso, ma non aprirsi. Continua così a tornare il legame casa-corpo, e si parla di dignità e santità come riferiti a un essere vivente, e si invoca una “naturale transizione”, un po’ come un malato terminale che va lasciato morire in pace. In un’intervista con Liza Bear, Matta-Clark chiarisce molti punti delle sue intenzioni su Splitting. Alla questione sulla possibile usabilità e funzionalità del luogo dopo il suo intervento, Matta-Clark risponde: Però io lo penso ora come per sempre in ogni caso potenzialmente funzionale. Non c’è ragione per cui uno non potrebbe vivere in questo luogo. Infatti, mi interesserebbe molto trasportate tagli come questo in luoghi veramente utilizzabili o abitati. Cambierebbe la percezione per un certo tempo e sicuramente modificherebbe in buona misura il concetto di privato 6. L’idea che i tagli, le fessure, siano possibili anche in situazioni assolutamente vivibili e abitabili, non è una fantasia ingenua o innocente, è l’idea di affermare una nuova visione di apertura, che possa e sappia rimettere in discussione il significato stesso dell’abitare. È innegabile che interventi come Splitting siano nati con la precisa intenzione di ridiscutere, più concettualmente che realmente, un dato luogo, ma la concezione applicata all’intervento ha invece una valenza assolutamente sociale ed esplicita: rimettere in gioco l’idea di priva5 6 Ivi, p. 195. Ivi, p. 204. to. Matta-Clark insiste più volte nel dire che a lui non interessa fare scultura applicata all’architettura, in quel rapporto decorativo che spesso è intercorso appunto tra modellazione dello spazio e costruzione, ma piuttosto «fare scultura attraverso l’architettura» 7. L’apertura delle pareti rappresenta per lui la possibilità di mostrare la complessità delle strutture: lo appassiona far vedere come dietro l’apparente piattezza e unicità del muro si nasconda una struttura complessa, metaforicamente stratificata, come è la vita, come sono i luoghi e chi li abita. Ancora nell’intervista con Liza Bear l’artista dice esplicitamente: Comunque, mi piacerebbe molto praticare dei tagli così in un luogo ancora abitato o utilizzato. Questo cambierebbe temporaneamente la nostra maniera di percepirlo, e certo modificherebbe la nostra concezione di intimità 8. Visitando la Biennale di Venezia del 2001, ai Giardini, il Padiglione tedesco appariva come chiuso, e, al posto della sua maestosa entrata retorica, realizzata in epoca nazista, si accedeva attraverso una piccola porta. Appena entrati ci si trovava non in una grande sala espositiva, come conoscendo quel padiglione ci si poteva aspettare, ma subito ai piedi di una lunga e stretta scala 7 Ibid. Splitting the Humphrey Street Building, un entratien avec Gordon Matta-Clark par Liza Bèar, 2125 mai 1974, in Gordon Matta-Clark Entretiens, Éditions Lutanie, Paris 2011, p. 14 (traduzione del redattore). 8 S T O R I E / Z interna, di quelle tipiche delle case del nord Europa, come ad esempio quelle tedesche. Salendo la scala, con una sensazione molto forte di essere in un luogo privato e non più in un museo, ci si trovava ad attraversare una serie di stanze collocate una dentro l’altra, piuttosto oscure e abbastanza soffocanti. Il lavoro “esposto” era Totes Haus ur dell’artista tedesco Gregor Schneider. Le diverse sale erano state ricostruite in loco, portando centinaia di tonnellate di materiali presi dalla sua casa natale a Rheydt. Schneider da anni lavora con questa prassi di costruire vere e proprie case, con accesso diretto da un’entrata normale per i visitatori, però sempre in spazi pubblici come musei o gallerie. Le sue case sono sempre sospese tra squallore e paura, non hanno mai tracce di violenza o altre immagini evidenti, ma lasciano sempre la netta sensazione che qualcuno sia appena andato via, che qualcosa sia appena accaduto. L’effetto spiazzante principale è già dato dal modo di accedere alla casa, che avviene appunto andando in un museo, dove l’abitazione viene letteralmente trasportata, con tutti i suoi oggetti, in uno spazio normalmente non destinato alla vita normale e quotidiana, che simboleggia per noi un luogo pubblico e piuttosto intoccabile. A Venezia, in una delle prime sale, c’era una stanzina con un materasso a terra e una piccola finestra, con tende a rullo abbassate da cui appena filtrava una luce, e poi un ripostiglio sporco con una coperta semplicemente macchiata. E poi una stanza con le pareti come pronte a essere ricoperte ma ancora con l’isolante di piombo a vista: una camera che non si capiva se era stata sventrata per cercare qualcosa nelle pareti o se doveva ancora essere finita. Schneider stesso dice che lui non vuole infondere nello spettatore nessun particolare sentimento, che se lo spazio incute paura è perché il visitatore porta con sé le proprie paure in quel luogo. Ma in un’intervista per la rivista «Parkett» dice anche: «Naturalmente io non so bene. Qualcuno potrebbe aprire la porta sbagliata 34 / 35 nel momento sbagliato e fare un tuffo nel vuoto» 9. Entrare così improvvisamente in una casa, accedendovi da un museo che non ci apparirebbe come uno spazio famigliare, ci dovrebbe rassicurare, ci dovrebbe far sentire in un luogo più intimo, più vicino a noi. Invece quella strana casa tortuosa, labirintica, nella quale spesso ci sembra di girare a vuoto e di tornare nella stessa stanza – perché Schneider ripete alcuni singoli oggetti in diverse stanze – quella casa ci dà la vertigine, ci fa mancare l’aria. L’intimità esposta ci inquieta. Togliere il nostro “rifugio” dal suo luogo abituale e porlo in uno spazio dove tutti lo violano per forza perché diviene “oggetto” ci tocca nel nostro profondo, ci fa sentire nudi. Per capire la radicalità di Schneider accenno solo a un altro suo lavoro del 2004, prodotto da Artangel di Londra, dal titolo Die Familie Schneider. Il lavoro si svolgeva in due appartamenti al numero 14 e 16 di Walden Street a Londra. I visitatori dovevano salire a coppie, ciascuno riceveva le chiavi di una delle due case e doveva da solo aprire la porta e entrare. Nella casa tre performer compivano in tre stanze diverse queste azioni: nella prima stanza una donna lavava piatti senza mai fermarsi; nella seconda un bambino, lì fermo, era avvolto in una busta di plastica; nella terza un uomo, sotto la doccia, si masturbava da solo. Una volta visitata la prima casa i due visitatori si dovevano scambiare le chiavi, e visitare l’altra casa che presentava la stessa identica scena, con apparentemente gli stessi performer, perché Schneider aveva lavorato con tre coppie di attori gemelli identici. Le case erano classiche case popolari, da piccola borghesia, con uno spazio abbastanza ristretto e claustrofobico e una cantina buia e stretta. Quello che stordisce è il fatto che il lavoro si chiami La famiglia Schneider, cioè che porti il nome della stessa famiglia dell’artista. In realtà que9 Ulrich Loock, Gregor Schneider. The dead House Ur, «Parkett», n. 63, 2002, p. 143. sto lavoro manifesta la perfetta coerenza dell’artista tedesco che lavora sull’oscurità e la problematicità dei nuclei familiari chiusi negli spazi claustrofobici della cultura occidentale, ben rappresentati proprio dalla casa come guscio, come luogo ottuso, come espressione identitaria fissa e poco porosa. La “famiglia Schneider” potrebbe vivere e di fatto vive nella Totes Haus ur di Venezia. La casa racchiude, nasconde, occulta ogni nostra “deviazione” e mostra solo la sua facciata. Ancora alla Biennale di Venezia, nel 2009, l’artista tedesca basata a Parigi, Ulla von Brandenburg presenta Singspiel. Una sorta di piccolo labirinto fatto di teli colorati, tesi su strutture leggere, conduce a un video, anch’esso proiettato su una stoffa morbida blu. Nel video, tutto girato nella nota Villa Savoye costruita per l’omonima famiglia da Le Corbusier alla fine degli anni Venti, la telecamera viaggia nei corridoi, nelle stanze, tra i pilotis e sulla terrazza in una piano sequenza continuo. Un sorta di lunghissima soggettiva di un visitatore invisibile che in ogni stanza incontra un membro della famiglia, intento a fare un’azione sempre molto semplice come: cercare un nastro fra tanti aggrovigliati, girarsi una lunga sciarpa intorno al collo o mettersi le mollette per tirarsi su i capelli. Ciascuno svolge la sua azione in totale solitudine, in ambienti quasi completamente vuoti, con pochissimi mobili, in quella sintetica essenzialità che è delle case moderniste. Solo in una scena, in terrazza, quattro persone giocano a carte, ma ben presto si capisce che ognuna compie sempre la stessa sequenza di gesti. Nessun movimento, nessun accadimento ha mai nulla di terribile o di inquietante, ma l’isolamento, la ripetizione, e la ripresa che passa lentamente ma senza mai fermarsi, come spiando, lasciano una singolare sensazione di angoscia. Un’angoscia gelida che si muove a suo agio in quella casa asettica. La casa di Le Corbusier, progettata come la dimora ideale, e ora museo nazionale, sembra come intonsa, mai vissuta, mai abitata, ma è in realtà un teatro di quelle brevi e compite azioni solipsiste, che danno una sensazione di falsità e di incomunicabilità. Poi la lunga carrellata, tutta in rigoroso silenzio e in un ancor più rigoroso bianco e nero, arriva in una stanza da pranzo nella quale, attorno a un tavolo, tutti i personaggi visti sin qui sono riuniti a colazione. Mangiano insieme una torta, si porgono educatamente delle tazze da tè. All’improvviso un ragazzo inizia a cantare ma con una voce femminile che palesemente non è la sua, e lentamente tutte le persone a tavola cantano, tutte con la stessa voce. Intonano un Singspiel, un genere musicale tedesco nato nel XVIII secolo in Germania e Austria, che prevede parti cantate e parti recitate, e si rifà a generi popolari simili all’operetta o all’opera buffa. La cosa interessante è che nel Singspiel in genere le parti cantate sono quelle più sentimentali, dove viene fuori la parte emotiva della storia. La famiglia di Villa Savoye canta, tutta con questa estraniante voce femminile: mette in scena, nel momento della riunione, una sorta di piccola pantomima recitata. Il tempo del rito collettivo corrisponde alla recita, al vero e proprio teatro. E il contrasto più forte è nel sentire una famiglia alto borghese, fredda e controllata, cantare un’aria popolare, romantica. Di nuovo non accade nulla di eclatante, tutto sembra terribilmente normale, ma la voce fuori sintonia con i corpi, e il ricordo delle stesse figure sole e senza relazione dell’inizio del film, danno alla famiglia l’aspetto di una sorta di grande mise en scène. Non a caso l’ultima scena del video mostra un piccolo teatrino improvvisato, fatto solo di una tenda come sipario per nascondere la scena, davanti al quale tutta la famiglia si siede per assistere a un’ulteriore sequenza dell’opera cantata. A colazione, così come davanti alla performance teatrale, tutti sono seduti su sgabelli piccoli, che danno una sensazione d’instabilità e di precarietà. La famiglia borghese si guarda recitare se stessa nel giardino della sua casa perfetta. L’UNHCR, Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, rivela, secondo i dati raccolti nel 2014, che nel mondo sono circa 60 milioni i migranti forzati: persone che sono state obbligate a scappare dalla propria casa o costrette a lasciare il loro territorio a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani. Ogni giorno milioni di queste persone in fuga trovano rifugio nei campi profughi, insediamenti nei quali possono risiedere e ricevere in maniera centralizzata protezione, assistenza umanitaria ed altri servizi dal governo ospitante e/o dagli operatori umanitari. I campi profughi si differenziano in funzione del contesto emergenziale. I campi possono essere progettati ex novo, quindi edificati su della re cosi l’incolumità dei rifugiati. In generale la pianificazione e organizzazione fisica del campo dovrebbe partire dal più piccolo dei moduli: la singola unità familiare. E’ indispensabile, fin da subito, considerare i bisogni delle famiglie: la distanza dall’acqua o delle latrine, le relazioni con gli altri membri della comunità, tradizioni costruttive e usanze culturali. E’ necessario sviluppare prima il layout comunitario e poi passare alle problematiche legate alla struttura complessiva. Dimensioni del campo I manuali dell’UNHCR prescrivono, nella fase di dimensionamento del campo, una superficie minima di 45 metri quadri per persona. Questa quota deve includere gli 20,000 persone x 45 m² = 900,000 m² = 90 ettari (ad esempio un sito dalle dimensioni di 900 m x 1000 m). terra concessa dal governo, o creati spontaneamente dagli stessi rifugiati. In entrambi i casi esistono delle strategie di pianificazione e gestione alle quali tecnici, architetti ed operatori umanitari devono attenersi. Pianificazione In fase di pianificazione, le decisioni iniziali sul posizionamento del campo sono stabilite dalla mutua partecipazione del governo e delle autorità locali. Un approccio partecipativo è necessario per evitare problematiche relative alla sicurezza, che potrebbero insorgere, ad esempio, a causa di contrasti con le popolazioni limitrofe, e garanti- spazi necessari per le strade, sentieri pedonali, strutture scolastiche, impianti igienici, sicurezza, amministrazione, stoccaggio di acqua e cibo, distribuzione, mercati e i terreni per i ricoveri. Questo valore si riduce a 30 metri quadri per persona se i servizi comuni possono essere forniti attraverso strutture già esistenti o strutture addizionali esterne. Nella fase di dimensionamento i tecnici devono anche prevedere futuri ed eventuali incrementi demografici, ascrivibili a fattori naturali e/o a nuovi arrivi. Se, a causa di quest’ultimi, la superficie minima non può essere più garantita, le conseguenze di una più alta densità abitativa devo- Pasquale Pennacchio, Come costruire un campo profughi, 2015 no poter essere mitigate con azioni strategiche opportune. In generale i campi non dovrebbero mai ospitare più di 20000 persone. La dimensione di un campo di 20000 persone è stimata attraverso la seguente relazione: 20,000 persone x 45 m² = 900,000 m² = 90 ettari (ad esempio un sito dalle dimensioni di 900 x 1000 m). Accessibilità Per quanto concerne questo dato, il sito deve possedere un requisito indispensabile: accessibilità e prossimità alle fonti di rifornimento primarie (cibo, combustibile per cucinare e materiali da costruzione). Desiderabile è anche la prossimità ai servizi nazionali, in particolar modo ai servizi sanitari. Naturalmente vantaggiosa risulterebbe la scelta di un sito attiguo ad una città, a patto che non ci siano tensioni tra gli abitanti del posto ed i rifugiati. Tipologie di Ricoveri I ricoveri familiari vanno preferiti agli alloggi comunitari perché forniscono privacy, comfort psicologico e sicurezza emozionale. Essi provvedono anche alla sicurezza delle persone e dei propri beni ed aiutano a preservare o ricostruire l’unità familiare. In situazioni di emergenza il modo migliore per affrontare il problema degli alloggi è quello di adottare materiali e modalità costruttive che normalmente sono già in uso presso i rifugiati o le popolazioni del posto. Solo quando la quantità di materiale necessario non può essere ottenuta localmente va importata nel paese. Sono favorite le strutture più semplici, e i materiali dovrebbero essere rispettosi dell’ambiente e ottenuti in maniera sostenibile. All’inizio di un’emergenza andrebbero forniti i materiali necessari affinché i rifugiati possano costruire il proprio ricovero, cercando di utilizzare degli standard minimi di abitabilità. Nei climi caldi e tropicali lo standard è di 3,5 m² per persona, escludendo la cucina (si presume che le attività di cucina avvengano all’aperto); e da 4,5 a 5,5 m² per persona nei climi più freddi o in ambienti urbani, includendo la cucina e il bagno. Teli di plastica In molte operazioni di soccorso, sopratutto nelle fasi iniziali, il telo di plastica rimane il componente più importante per la velocità e facilità di impiego. La raccolta del legno, usato come sostegno per i teli di plastica, può danneggiare l’ambiente se effettuata nelle foreste circostanti. È percio importante che il materiale per il sostegno dei teli sia fornito dalle organizzazioni umanitarie. Tende Le tende posso essere utili ed appropriate, ad esempio, quando i materiali del posto sono disponibili solo su base stagionale o non disponibili affatto. La vita media di una tenda di tela dipende dalla qualità della manifattura, il tempo di stoccaggio prima dell’effettivo utilizzo, le condizioni climatiche e la cura che ne hanno i suoi abitanti. In generale le tende sono difficili da riscaldare e non provvedono un sufficiente isolamento termico. Sebbene inadeguate come ricovero nei climi freddi, in mancanza di alternative, possono comunque salvare vite ed essere una soluzione temporanea prima che più appropriati ricoveri vengano eretti. Se richieste, coperte supplementari e teli di plastica posso aiutare ad aumentare la ritenzione di calore. Infrastrutture 1 rubinetto dell’acqua per 1 latrina 1 centro sanitario 1 ospedale 1 scuola 4 punti distribuzione 1 mercato 1 centro di nutrizione 2 bidoni rifiuti per per per per per per per per 1 comunità (80 – 100 persone) 1 famiglia (6 – 10 persone) 1 sito (20,000 persone) 10 siti (200,000 persone) 1 settore (5,000 persone) 1 sito (20,000 persone) 1 sito (20,000 persone) 1 sito (20,000 persone) 1 comunità (80 – 100 persone) Acqua Per quanto concerne la fruizione dell’acqua, il campo dovrebbe essere dotato di almeno un punto di distribuzione ogni 80 - 100 persone. Dove possibile, la distanza massima tra un’abitazione e il punto di distribuzione non dovrebbe superare i 100 metri. In condizioni d’emergenza il quantitativo minimo d’acqua distribuito dovrebbe essere almeno di 7 litri al giorno per persona. Questo quantitativo va incrementato a 20 litri non appena le condizioni si normalizzano, in modo che la popolazione possa avere abbastanza acqua per cucinare, l’igiene personale, lavare piatti ed i vestiti. Servizi igienici Se l’approvvigionamento d’acqua è il fattore principale nella scelta del sito, i requisiti igienico sanitari ne dettano la disposizione urbanistica. Un’alta densità abitativa associata a dei cattivi servizi igienici rappresentano una minaccia alla salute e alla sicurezza dei rifugiati. Questo connubbio è tipico dei campi nati spontaneamente. In questo ultimo caso, l’organizzazione e realizzazione dei servizi igienico-sanitari basilari dovrebbe avvenire prima dell’eventuale trasferimento dei rifugiati. Latrine Per tutti i siti, nuovi e riorganizzati, l’obiettivo dovrebbe essere quello di avere una latrina per famiglia. Solo se la latrina rimane sotto il controllo e la manutenzione di un unico gruppo familiare si può garantire uno standard igienico a lungo termine. La collocazione ideale della latrina è nel lotto familiare e quanto più distante possibile dalla tenda. Se ciò non è possibile, l’alternativa è quella di assegnare la latrina a gruppi di famiglie e per un massimo di 20 persone. Esigenze alimentari e nutrizionali Ad ogni rifugiato deve essere garantito un apporto medio giornaliero di 2100 calorie. Ogni membro della popolazione, indipendentemente dall’età e dal sesso, deve ricevere esattamente la stessa porzione di cibo. Il quantitativo di cibo deve essere bilanciato da un punto di vista nutrizionale ed essere adatto al consumo da parte dei bambini ed altri individui a rischio. L’obiettivo deve essere fornire il cibo preservando i costumi alimentari tradizionali. Il paniere alimentare dovrebbe comprendere: un alimento di base (cereali), una fonte di energia addizionale (oli e grassi), una fonte di proteine (legumi, carne, pesce), sale iodato e possibilmente condimenti (ad esempio spezie). Inoltre del cibo fresco per l’apporto di micronutrienti. Il livello di grasso presente nella razione dovrebbe fornire almeno il 17% dell’apporto energetico, mentre la parte proteica il 10-12% del totale. Condizioni climatiche, malattie e altri rischi Le aree di insediamento dovrebbero essere libere dai principali fattori ambientali di rischio per la salute, come la malaria, oncocercosi (cecità del fiume), schistosomiasi, o mosca tse-tse. Spesso i campi sorgono in aree soggette a tempesti di sabbia o polveri. Per evitare che fra i rifugiati possono insorgere malattie respiratore è doveroso dotare i rifugi di opportune protezione per il vento. Considerazioni ambientali Il luogo dove sorge il campo, la sua struttura urbana, l’uso delle risorse locali (combustibile e materiale da costruzione) possono avere un impatto negativo sull’ambiente. I danni ambientali più gravi avvengono principalmente nelle fase iniziale di un’emergenza. Questi danni possono avere ripercussioni sanitarie, sociali ed economiche per i rifugiati e le popolazioni locali. Al fine di salvaguardare l’ambiente e quindi il benessere dei rifugiati e delle popolazioni locali, vanno adottate le seguenti misure: Selezione del sito: evitare siti vicino ad aree protette. Il sito deve essere collocato ad almeno una giornata di cammino dall’area protetta o riserva più vicina. Preparazione del sito: cercare di preservare il più possibile il suolo e la vegetazione esistente. Layout del campo: il layout (in particolare quello delle strade) dovrebbe seguire le curve di livello del terreno. Questa scelta riduce l’erosione del suolo ed evita la creazioni di pericolosi smottamenti. Un layout del sito, che incoraggia un modo di vivere comunitario, salvaguardia anche l’ambiente all’interno della comunità. Design dei rifugi (risparmio energetico attraverso l’isolamento termico): nei climi freddi, con delle lunghe stagioni invernali dove è necessario un riscaldamento continuo, l’adozione di misure di risparmio energetico passivo, come l’isolamento termico delle pareti, del soffitto e del pavimento, può portare ad un risparmio significativo di combustibile. Rifugi e combustibile: è di cruciale importanza sin dall’inizio della costruzione dell’insediamento gestire e controllare l’uso delle risorse naturali locali. Utilizzare materiali locali per soddisfare i bisogni iniziali, come il legno per la costruzioni e per il fuoco, può rivelarsi particolarmente distruttivo; per questo la raccolta di tali materiali va gestita attentamente, e /o vietata fornendo delle fonti alternative. (Farsi) abitare tra reale e virtuale al tempo dei nuovi media Z / S T O R I E Diego Del Pozzo «Sentivo che stavo vacillando sull’orlo. Voltai gli occhi» (Edgar Allan Poe) 1 «Le immagini vedono con gli occhi che le vedono» (José Saramago) 2 «Credi sia aria quella che respiri ora?» (Morpheus a Neo nel film Matrix) Quello mediatico è il nuovo ambiente sociale e culturale nel quale, ormai già da qualche anno, gli esseri umani vivono le proprie quotidianità. I media, infatti, oggi vanno concepiti come luoghi, territori dell’abitare umano, sempre più ubiqui 3 e invasivi nei confronti di quasi tutti gli spazi della vita di ogni giorno; autentiche interfacce esperienziali che contribuiscono a ricollocare le persone per la maggior parte del loro tempo in ambienti massicciamente “mediatizzati”. Tali nuovi spazi dell’esperienza hanno ridefinito, in modo forse imprevedibile ma inevitabile, il concetto stesso di abitare, rendendolo a sua volta più fluido e inafferrabile, rispetto al passato anche recente, e rimodulandolo su coordinate spazio-temporali oscillanti, di continuo, 1 Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo, in Racconti, Garzanti, Milano 1972, p. 133. 2 José Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996, p. 305. 3 Cfr. Mike Featherstone, Ubiquitous Media: An Introduction, in «Theory, Culture & Society», v. 26, n. 2-3, March-May 2009, pp. 1-22. 42 / 43 tra differenti piani del reale, sempre meno distinguibili tra di loro. E i nuovi media digitali e informatizzati, in particolar modo i social network e il Web 2.0 e 3.0 (la nuova frontiera del cosiddetto Web semantico, grazie al quale i sistemi automatici possono interagire con l’uomo e con l’ambiente in modo evoluto 4), continuano a spingere tali processi alle estreme conseguenze, a causa della loro natura immersiva che quasi obbliga il fruitore ad abitarli piuttosto che semplicemente utilizzarli, per poterli sperimentare su se stesso in maniera completa e soddisfacente. La piena soddisfazione nel rapporto tra l’uomo contemporaneo e i nuovi media, infatti, scaturisce prevalentemente dalla forte interattività di tali strumenti di decodifica del reale e dalla loro capacità di creare “mondi altri”, all’interno dei quali poter trascende- 4 Questo nuovo paradigma è anche detto Internet of Things (IoT, in italiano “Internet delle cose”), a indicare la stretta integrazione tra il mondo virtuale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e quello reale delle cose. L’Internet of Things è un’infrastruttura di rete globale e dinamica con capacità di auto-configurazione derivanti da protocolli di comunicazione standard e interoperabili, per dotare gli oggetti fisici e virtuali di identità, attributi fisici, personalità virtuale, attraverso interfacce intelligenti perfettamente integrate all’interno della rete info-telematica. Le informazioni smetteranno di viaggiare attraverso gli schermi dei computer o degli smartphone, per farlo attraverso gli oggetti, grazie a sensori che li faranno “crescere” perfezionandone di volta in volta le funzioni (smart objects). re, per pochi minuti o per parecchie ore, i propri limiti fisici: mondi virtuali in grado di coinvolgere contemporaneamente più di un senso, in modo immersivo, sinestetico, tecnologico, interattivo. «La “realtà virtuale” – scrive Derrick de Kerckhove – aggiunge il tatto alla vista e all’udito ed è tanto vicina a “drogare” il sistema nervoso umano come nessuna tecnologia lo è mai stata. Con la realtà virtuale noi proiettiamo letteralmente la nostra coscienza al di fuori del nostro corpo e la vediamo obiettivamente, forse per la prima volta» 5. Da questo punto di vista, la rivoluzione contemporanea esplosa con l’avvento di Internet è imparagonabile a qualsiasi salto culturale precedente nella storia dell’evoluzione dei media. E, in tal senso, Second Life 6 o Facebook, per citare solo due esempi possibili tra i tanti, rispondono esattamente alle medesime logiche di abitabilità e partecipazione. «Internet è un camaleonte, il primo mezzo di comunicazione che all’occorrenza può diventare uno qualunque degli altri media, ma anche tutti insieme perché è fatta di testi, audio e video. […] Non è semplicemente interattiva, ma è di per sé partecipativa: non risponde soltanto ai comandi dell’utente, ma lo stimola e lo spinge a contribuire, a commentare e quindi a entrare in questo nuovo mondo. Inoltre Internet è immersiva, qualcosa in cui tuffarsi e scavare a fondo per placare la propria sete di conoscenza di qualunque argomento» 7. 5 Derrick de Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna 1992, pp. 22-23. 6 Ambiente tridimensionale virtuale creato nel 2002 dalla società americana Linden Lab, accessibile dal 2003 e frequentato da oltre dieci milioni di utenti nel 2008, l’anno della sua massima diffusione. Nel mondo simulato di Second Life si agisce liberamente attraverso un proprio avatar digitale. Più che un semplice gioco di ruolo on line, è un vero e proprio spazio abitativo costruito dagli utenti, i quali possono realizzarvi oggetti di qualsiasi tipo, sviluppare una propria storia, condividere emozioni, persino fare affari. 7 Frank Rose, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di Internet, Codice Edizioni, Torino 2013, p. XII. L’ambiente mediatico, come qualsiasi altro, richiede una profonda adattabilità da parte di coloro che intendono abitarlo, influenzandone al tempo stesso i comportamenti e persino le percezioni. Già nel 1968, molto prima del boom di Internet, Marshall McLuhan nota che: «[…] tutti i media ci investono interamente. Sono talmente penetranti nelle loro conseguenze personali, politiche, economiche, estetiche, psicologiche, morali, etiche e sociali da non lasciare alcuna parte di noi intatta, vergine, immutata. Il medium è il massaggio. Ogni interpretazione della trasformazione sociale e culturale è impossibile senza una conoscenza del modo in cui i media funzionano da ambienti» 8. E a proposito di ambienti, da abitare virtualmente e dai quali farsi abitare, nel 1982 la Disney produce un innovativo film di fantascienza intitolato Tron, diretto da Steven Lisberger e interpretato da Jeff Bridges e Bruce Boxleitner. Al di là delle ingenuità del caso (ma trattasi di un film per ragazzi), l’operazione è all’avanguardia rispetto alla propria epoca, poiché Tron è la prima produzione kolossal di una major hollywoodiana a utilizzare effetti speciali in 3D computer graphics in maniera estesa (con oltre 15 minuti interamente generati al computer) 9 e, soprattutto, a proporre una trama ambientata quasi del tutto nella realtà virtuale. Lo stile visivo unico e inconfondibile, ha reso il film, nel corso degli anni, un vero e proprio oggetto di culto. Qui, però, a interessare è sia il modo innovativo col quale è visualizzato il mondo virtuale, sia la scelta stessa di costruire un intero film intorno a personaggi che abitano tale ambiente generato al computer, descritto come un 8 Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Il medium è il massaggio. Un inventario di effetti, Feltrinelli, Milano 1968, p. 26. 9 Prima c’erano stati, per singole sequenze, il primo Star Wars (1977) di George Lucas, Superman (1978) di Richard Donner e Star Trek II: L’ira di Khan (1982) di Nicholas Meyer. Sull’argomento, cfr. Cristian Uva, Cinema digitale. Teorie e pratiche, Firenze, Le Lettere, 2012. S T O R I E / Z universo dotato di proprie leggi e arricchito da luoghi e caratteristiche assolutamente peculiari, con tanto di tiranno digitale (il Master Control Program) a governarlo con pugno di ferro prima di essere detronizzato dai protagonisti. Addirittura, nel sequel Tron: Legacy, diretto da Joseph Kosinski nel 2010, il concetto di abitabilità della realtà virtuale è esplorato ancora più in profondità, anche stavolta con notevoli ingenuità narrative ma grande fascino visivo. Ciò che importa, però, è come i realizzatori facciano evolvere l’universo virtuale chiamato la “Rete”, nell’arco di tempo coperto dalle trame dei due film. Infatti, tra la prima missione all’interno del computer da parte del geniale creatore di videogiochi Kevin Flynn (Jeff Bridges) e quella di suo figlio, l’hacker Sam (Garrett Hedlund), la vita va avanti in questo particolarissimo mondo, “al di là dello specchio” (o, meglio, dello schermo), con nuovi abitanti che prendono il posto di quelli vecchi, costruzioni digitali edificate in territori prima inesplorati, un nuovo tiranno che gestisce il potere, addirittura la stupefacente comparsa di una serie di “algoritmi isomorfi”, dotati di un Dna digitale e sviluppatisi in modo autonomo nella Rete attraverso un processo paragonabile a quello dell’evoluzione biologica. Quello visualizzato nei due Tron, dunque, è un autentico “media-mondo”, direttamente interfacciato con quello reale attraverso Internet, come raccontato con ingenuità e semplificazioni in Tron: Legacy. Ed è innegabile che proprio l’avvento del Web abbia prodotto un decisivo passo in avanti lungo la strada della definitiva trasformazione dei media in “media-mondo” 10: veri e propri ambienti sociali e culturali, che invitano a entrare al loro interno e ad abitarvi, dando vita a una dimensione esterna all’essere umano, fortemente interattiva e dotata di una “intelligenza connettiva” che si estrinseca nella “messa in rete” del cervello indi10 Cfr. Giovanni Boccia Artieri, I media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Meltemi, Roma 2004. 44 / 45 viduale con le tecnologie e la cultura che lo circondano 11 (e lungo tali direttrici di senso è tracciato il percorso che conduce dritto al Web semantico). La ridefinizione del concetto stesso di “abitare”, nella relazione in itinere con i nuovi media digitali, ha nel mutato rapporto tra spettatore-fruitore e schermo un suo elemento decisivo. «Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico» 12. Così, il fruitore prova la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo, di poter abitare al suo interno ed esercitare un controllo sulla realtà alla quale lo schermo stesso gli consente di accedere. Tale sensazione è ulteriormente rafforzata dal fatto che gli schermi tattili dei quali sono dotati la maggior parte degli strumenti di comunicazione contemporanei permettono di dar vita a una sorta di fusione tra tali strumenti e il corpo umano. «Con la riproduzione tecnica e più ancora con lo sviluppo delle tecnologie contemporanee, non sono più la mano, la postura, il portamento a essere importanti: il dito che sfiora in permanenza schermi di ogni tipo è oggi staccato dal corpo e dagli altri sensi» 13. Tale nuova sensorialità soft, derivante dalla reiterata interazione con i touch screens, provoca il superamento della barriera fisica tra l’osservatore e la scena che, per esempio, il tradizionale schermo del cinema ancora rappresentava e che, invece, gli schermi elettronici e interattivi dei media 11 Cfr. Derrick de Kerckhove, L’intelligenza connettiva. L’avvento della Web Society, De Laurentis Multimedia, Roma 1997. 12 Vanni Codeluppi, I media siamo noi. La società trasformata dai mezzi di comunicazione, Franco Angeli, Milano 2014, p. 38. 13 Nicole Aubert, Claudine Haroche (a cura di), Farsi vedere. La tirannia della visibilità nella società di oggi, Giunti, Firenze 2013, pp. 55-56. Matrix 1999, scritto e diretto da Lana e Andy Wachowski contemporanei immersivi mandano definitivamente in frantumi, producendo un effetto di fusione con corpo e sensi dello spettatore. Questi, infatti, è ormai irresistibilmente attratto all’interno dello schermo, che non opera più come una tradizionale scena spettacolare, bensì come il suo esatto contrario, annullando la distanza tra spettacolo rappresentato al suo interno e soggetto impegnato nell’atto di guardare. E, in un simile scenario epistemologico, si consuma il passaggio epocale dal guardare i nuovi media all’abitare in essi e al farsi abitare da essi. Come spesso accade, dinamiche di questo tipo sono anticipate dalle visioni di artisti capaci di preconizzare ciò che sarebbe diventato realtà soltanto diversi anni più tardi. È il caso del regista canadese David Cronenberg, che nel 1983 realizza una sorta di trattato di teoria dei mass media mascherato da film di fantascienza. S’intitola Videodrome ed è un apologo cupo e disturbante sulle mutazioni psicofisiche degli esseri umani a confronto con un ambiente mediatico sempre più invasivo e, ormai, alle soglie di trasformazioni epocali (si tratta, peraltro, di un tema ricorrente nella sua filmografia). L’attenzione di Cronenberg, nel film, si concentra sul più vecchio tra i nuovi media (o il più nuovo tra i vecchi), cioè la televisione, ma in alcune sequenze il cineasta – allievo di Marshall McLuhan (suo profes- sore all’università di Toronto, omaggiato col personaggio del guru-filosofo Brian O’Blivion) – visualizza addirittura un casco per la realtà virtuale insospettabilmente simile ai prototipi di Oculus Rift oggi in piena fase di sviluppo 14. Alla virtual reality, poi, Cronenberg dedica nel 1998 l’altrettanto inquietante eXistenZ, nel quale i confini tra reale e virtuale sono assolutamente indistinguibili e il corpo umano diventa, oltre che schermo, addirittura console per videogame fatta di carne. Si tratta di quella “nuova carne” che l’autore canadese teorizza proprio in Videodrome e che, ibridando organico e inorganico, si mostra in tutta la sua malata inquietudine in sequenze entrate di diritto nella storia del cinema, per esempio quella nella quale il protagonista Max Renn (interpretato dall’ottimo James Woods) penetra letteralmente all’interno dello schermo catodico, quasi come in un rapporto sessuale in stato di ipnosi; oppure l’altra che vede lo stesso personaggio frustare con perversa eccitazione una televisione ansimante di piacere. Il media-mondo, dunque, vive sui due lati di 14 Sviluppato da Palmer Luckey attraverso la sua società Oculus VR (acquistata da Facebook a marzo 2014), Oculus Rift è un sistema per la realtà virtuale completamente immersivo, in quanto strutturato come Hmd, head-mounted display, cioè uno schermo Lcd da indossare sul viso, con bassa latenza e ampio campo di visuale. S T O R I E / Z uno schermo touch ante litteram ed è dominato da “corpi” abitati da video-parassiti e abitanti l’unica “realtà” davvero possibile: «Lo schermo televisivo – si dice nel film – è ormai l’unico vero occhio dell’uomo e fa oramai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che la televisione è la realtà. E la realtà è meno della televisione». Videodrome è un film che, seppur penalizzato da risultati deludenti al box office, influenza in maniera profonda l’immaginario collettivo e ispira interessanti riletture successive del rapporto tra Natura e Cultura, ambiente naturale e ambiente mediatico, nuove forme dell’abitare il proprio corpo e i nuovi media, peraltro in un periodo storico come gli anni Ottanta-Novanta attraversato da enormi mutamenti in tali ambiti, dovuti alla sempre più veloce evoluzione tecnologica. Proprio la filmografia di David Cronenberg è emblematica di tali mutamenti e rovesciamenti di prospettiva. «Ogni suo film è l’identificazione – scrive lo storico del cinema Gianni Canova – di un ibrido generato dalla tecnologicizzazione dei corpi e dalla corporeizzazione della tecnica» 15. Oltre al seminale Videodrome, Canova cita ulteriori esempi: La mosca (1986), con capsule per il teletrasporto che sembrano ovaie metalliche o cavità uterine elettroniche; Inseparabili (1988), con gli attrezzi ginecologici, quasi fallici, dei gemelli Mantle; Il pasto nudo (1991), con macchine da scrivere visualizzate come ripugnanti insetti logorroici; Crash (1996), nel quale il metallo delle automobili rappresenta l’estremo oggetto di desiderio per corpi ormai afflitti da una cronica incapacità di godere. I corpi sono sempre meno percepibili come dati di natura e sempre più come progetti, o come artefatti. Non sono più qualcosa che si eredita, bensì qualcosa che si costruisce. Tatuaggi, trucchi, fusioni molecolari gene- tiche, mutazioni virali: più che un essere, il corpo è un divenire. È pieno di orifizi e protuberanze: cioè di varchi o ponti attraverso cui il corpo stesso invoca a sé il mondo o si protende verso di esso. Per confondervisi o mescolarvisi, per rompere o confondere la compattezza dei propri confini 16. Per dirla con Mario Perniola, insomma, i corpi postmoderni, irrimediabilmente mutati in modo da abitare efficacemente i media-mondo contemporanei, sono «cose che sentono» 17. Nel 1998, Cronenberg gira eXistenZ e porta alle estreme conseguenze la sua riflessione sulle mutazioni che i media causano alla psiche e alle fisicità degli esseri umani, ma anche al nuovo ambiente ibrido reale-virtuale nel quale essi inevitabilmente abitano. Così, attraverso la spiazzante parabola fantastico-avventurosa della creatrice di videogiochi Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh), il regista canadese evidenzia come, per l’homo sapiens a cavallo tra secondo e terzo millennio, lungo un percorso destinato a trasformarlo in homo cyber, il corpo appaia – riprendendo una definizione di Mark Dery – «un’appendice vestigiale non più necessaria» 18. Nel film, infatti, Allegra fugge da coloro che la vogliono morta, attraversando continuamente i confini tra ambienti reali e virtuali, fino a renderli indistinguibili tra loro, incarnando nella sua esperienza l’incertezza ontologica nella quale le nuove tecnologie digitali hanno catapultato l’uomo contemporaneo. Reale e virtuale, in eXistenZ, sono fusi tra loro in un unico ambiente nel quale i personaggi abitano senza discrimine alcuno. Al tempo stesso, in questa atmosfera di continua incertezza sensoriale, la mutazione dell’organico in tecnorganico è completata, con i corpi dei protagonisti penetrati da connet16 Ibid., p. 147. Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, p. 9. 18 Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture di fine millennio, Feltrinelli, Milano 1997, p. 274. 17 15 Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000, pp. 146-147. 46 / 47 tori simili a cordoni ombelicali, da inserire nel midollo della spina dorsale per poter attivare gli schifosi, mollicci e pulsanti gamepad che servono per giocare in una realtà virtuale ormai indistinguibile dal mondo reale. Per sfruttare fino in fondo le possibilità relazionali, comunicazionali e percettive che le nuove tecnologie gli offrono, il corpo ha bisogno di fare a meno di sé (o di farsi altro da sé): deve rinunciare (o crede di dover rinunciare) alla propria fisicità nell’illusione di poter trascendere i suoi limiti oggettivi (corporali, appunto) 19. Di fronte a tutto ciò, dunque, le coordinate della riproducibilità del reale (e dell’irreale) mutano per sempre, lungo una traiettoria di senso che dal classico Simulacres et simulation (1980) di Jean Baudrillard 20 conduce alle cinevisioni sintetico-digitali di Matrix (1999) dei Wachowski Brothers o dell’immersivo Avatar (2009) di James Cameron 21. In questi anni, i confini tra reale e virtuale diventano quasi impercettibili e le intuizioni di un autore di fantascienza come Philip K. Dick acquisiscono una straordinaria centralità a livello di immaginario globale 22. Anzi, col senno di poi – cioè dopo 19 Canova, L’alieno e il pipistrello cit., p. 139. Per Baudrillard, il simulacro è un significante al quale non corrisponde nessun significato. Può essere una parola, un concetto, un’immagine che vive di per sé, simula la realtà ma non la rappresenta. Cfr. Jean Baudrillard, Simulacres et simulation, Éditions Galilée, Paris 1980 (nuova ed. it. Simulacri e Impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, PGreco, Milano 2009). 21 In ambito di nuovi media, l’avatar è la rappresentazione grafica di un utente in un determinato ambiente digitale. Tale rappresentazione può essere di due tipi: con immagini bidimensionali, generalmente abbinate a un nickname, per identificare un utente all’interno di un social network; con immagini tridimensionali, immerse in mondi tridimensionali (dai games online a piattaforme come Second Life), per permettere all’utente di attraversarli e interagire con essi. 22 Philip Kindred Dick nasce a Chicago il 16 dicembre 1928 e muore il 2 marzo 1982 a Santa Ana in 20 aver conosciuto il cyberpunk, la reality tv, vent’anni di fantacinema hollywoodiano, i territori immateriali di Internet e della realtà virtuale, le campagne mediatiche di tanti esponenti politici contemporanei – è possibile considerare Dick come lo scrittore che, a partire dalla sua originale e provocatoria visione della fantascienza, ha segnato indelebilmente l’immaginario di fine Novecento e inizio terzo millennio. I temi centrali dei suoi libri (“Cos’è Reale?”, “Cos’è Umano?”) influenzano pesantemente buona parte del cinema fantastico hollywoodiano dalla metà degli anni Ottanta a oggi. I film tratti direttamente dalle sue storie non sono tantissimi: oltre a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, vanno ricordati almeno Atto di forza (1990) di Paul Verhoeven e il suo remake Total Recall (2012) di Len Wiseman, Screamers – Urla dallo spazio (1995) di Christian Duguay, Minority Report (2002) di Steven Spielberg, Impostor (2002) di Gary Fleder, Paycheck (2003) di John Woo, A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (2006) di Richard Linklater. California, pochi mesi prima dell’uscita del film che avrebbe potuto dargli fama e sicurezza economica, Blade Runner di Ridley Scott, tratto dal suo romanzo del 1968 Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e distribuito negli Stati Uniti il 25 giugno 1982. Il successo di Blade Runner procura alle opere di Dick una nuova fortuna critica ed enormi attenzioni da parte di Hollywood. Negli anni, poi, gli viene riconosciuto il ruolo di precursore delle correnti letterarie postmoderne cyberpunk e avantpop, tanto che oggi è ritenuto unanimemente uno tra i più importanti e innovativi autori del genere fantascientifico e, più in generale, uno tra i più influenti esponenti della letteratura statunitense del secondo dopoguerra. Il filo conduttore tematico dell’intera sua opera può essere sintetizzato in un’unica, basilare domanda: «Cos’è reale?». E nel suo inevitabile, spaventoso corollario: «Cos’è umano?». Tra i suoi romanzi più importanti, vanno citati almeno La svastica sul sole (1962), I simulacri (1964), Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), Ubik (1969), Un oscuro scrutare (1977), quasi tutti diventati film, come molti suoi altri. In Italia, le opere di Dick sono pubblicate dall’editore romano Fanucci, in un’apposita collana curata da un esperto come Carlo Pagetti. S T O R I E / Z L’ombra di Dick, però, s’allunga su molte altre opere recenti e, spesso, sulle intere filmografie di importanti cineasti contemporanei. Che dire, per esempio, di tanti film del citato David Cronenberg? E un altro autore che sembra aver studiato molto bene Dick è Andrew Niccol, regista di Gattaca – La porta dell’universo (1997), S1m0ne (2002; il titolo è l’abbreviazione di “Simulation One”, a indicare una diva artificiale, sintesi della donna perfetta), In Time (2011), nonché sceneggiatore di The Truman Show (1998) di Peter Weir. Altri film influenzati nel profondo dalle tematiche dei romanzi dickiani sono, poi, Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow, L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam (tratto dal cortometraggio sperimentale La jetée di Chris Marker), Apri gli occhi (1997) di Alejandro Amenábar, Memento (2000) e Inception (2010) di Christopher Nolan; ma anche le saghe di Alien e Terminator. Per non parlare di due film molto simili tra loro come Dark City (1998) di Alex Proyas e, soprattutto, l’epocale Matrix. Nelle due opere, infatti, sono presentate realtà illusorie e artefatte, “abitate” da personaggi deliberatamente tenuti all’oscuro riguardo all’artificialità delle proprie esistenze, ma pronti a lottare contro i loro stessi mondi, in seguito a un puro mutamento percettivo. In particolare, nel sottovalutato Dark City risulta pregnante l’opposizione tra processi mentali derivanti da ricordi impiantati artificialmente ed esperienze pratiche che contraddicono tali ricordi e generano confusione e impotenza. Scrive lo storico del cinema Franco La Polla: dall’action painting e da alcuni esponenti della pop art (da Rauschenberg a Warhol) doveva arrivare ad alcuni narratori postmoderni come per esempio Donald Barthelme (le cui affermazioni sul frammento sono ben note), la nuova poetica dell’innesto fra organico e inorganico e le conseguenti, inevitabili considerazioni in ambito filosofico ed etico 23. Il fatto è che Dick più d’ogni altro autore del genere ha avvertito, e con grande anticipo, il mutamento che già stava fermentando alla metà del secolo, il prossimo avvento della crisi dell’antropocentrismo (così perfettamente osservato, teorizzato ed anche narrativamente descritto da Alain Robbe-Grillet proprio negli anni in cui Dick si affacciava alla scrittura), la nuova episteme della frammentazione che, a partire 23 Franco La Polla, Philip K. Dick a Hollywood, ovvero: la quadratura del cerchio, in Id., P. Fitting, C. Pagetti, G. Frasca, Philip K. Dick e il cinema, Fanucci, Roma 2002, p. 22. 24 Thomas Schatz, Conglomerate Hollywood. Blockbuster, franchise e convergenza dei media, in Federico Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2012, p. 49. 25 Cfr. Geoff King, Spectacular Narratives. Hollywood in the Age of the Blockbuster, I. B. Tauris, London 2000. 48 / 49 Con l’uscita di Matrix nelle sale cinematografiche di tutto il mondo cambia ogni cosa, però, per quanto riguarda le modalità di riproduzione filmica del reale e del virtuale e il rapporto tra questi ambienti e i fruitori che vi si trovano sempre più immersi. Il film di Andy e Larry (poi Lana, dopo il cambio di sesso) Wachowski interpretato da Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss e Hugo Weaving fa segnare uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, peraltro a ridosso dell’epocale passaggio dal secondo al terzo millennio (e Thomas Schatz utilizza opportunamente, nel descrivere l’impatto del film, l’espressione «spostamento sismico» 24). Sono gli anni del boom dei kolossal hollywoodiani “d’autore”, soprattutto fantascientifici, capaci di abbinare spettacolarità “high concept” da blockbuster globale 25 a sguardo registico personale spesso accompagnato da riflessioni postmoderne sullo stato dell’arte e sugli sviluppi futuri dei media, in particolar modo per ciò che concerne il loro rinnovato e sempre più centrale ruolo nel mondo. E, a proposito di “high concept”, è utile fare qui un inciso ricor- Videodrome 1983, scritto e diretto da David Cronenberg dando quanto teorizzato, in un suo saggio fondamentale, dallo studioso americano Justin Wyatt, per il quale il prodotto-film in questa nuova dimensione mediale assume una natura vistosamente “high concept”, cioè tale da lasciarne emergere immediatamente la dimensione produttiva, industriale e tecnologica accentuando la propria superficie stilistica attraverso la definizione di un look riconoscibile e commercializzabile, utile – assieme a determinate modalità narrative transmediali – a una sua replicabilità-serializzazione e, più in generale, a un suo sfruttamento a livello di marketing 26. Matrix è il simbolo di tutto ciò. E può legittimamente essere considerato il primo classico nonché cult-movie di quello che Francesco Casetti chiama «Cinema due» e altri studiosi «Post-cinema» o «Cinema 2.0» 27, quasi come una sorta di Casablanca dell’era convergente. Al pari del film di Michael Curtiz del 1942, infatti, quello dei Wachowski riesce a lavorare con grande efficacia, furbizia e intelligenza sui cliché narrativi e sui luoghi comuni del cinema e della cultura popolare del suo tempo, per 26 Cfr. Justin Wyatt, High Concept. Movies and Marketing in Hollywood, Texas University Press, Austin 1994. 27 Cfr. Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. creare un effetto di déjà-vu e riconoscimento da parte dei fans, stimolando così fenomeni di appropriazione e di partecipazione attiva da parte loro. Ne deriva un franchise di enorme successo commerciale, che segna fortemente sia la storia recente dell’industria dei media che quella della cultura popolare ed è composto da tre film (l’originale e i due Matrix Reloaded e Matrix Revolutions del 2003), dai nove cortometraggi di animazione Animatrix (2003); e ancora, i videogiochi Enter the Matrix (2003), The Matrix Online (2005) e The Matrix: Path of Neo (2005); la serie a fumetti The Matrix Comics, online e poi in volume (2005); il ricchissimo sito Web e tante altre propaggini transmediali. Non è un caso, dunque, che proprio a Matrix, nel suo celebre libro Cultura convergente, il teorico Henry Jenkins dedichi un ampio capitolo, definendolo il «perfetto esempio di intrattenimento per l’era della convergenza» 28. Con l’espressione «cultura convergente», Jenkins descrive un modello nel quale vecchi e nuovi media collidono, media popolari e delle corporation s’incrociano tra loro, e potere dei produttori e dei consumatori interagiscono in forme imprevedibili. Elementi fondamentali di tale modello, culturale più che tecnologico, sono la convergenza media28 Cfr. Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. S T O R I E / Z le, la cultura partecipativa e l’intelligenza collettiva. Tipico della cultura convergente è il transmedia storytelling, forma di narrazione che s’espande attraverso media differenti, con ogni singolo testo che propone un contributo specifico e originale all’interno di un universo narrativo ben più ampio e complesso (lo Storyworld). Nel modello ideale di transmedia storytelling, i media coinvolti sono utilizzati al meglio delle loro specificità e l’espansione della narrazione e della diegesi avviene mediante una collaborazione attiva tra l’industria e i fruitori. Col suo onnivoro impianto tematico, dunque, Matrix, si propone come autentico film-mondo, perfetto per essere abitato da utenti sempre più immersi nei flussi transmediali delle narrazioni contemporanee, più che guardato dagli occhi dei tradizionali spettatori cinematografici. Matrix, infatti, non è più un semplice film, ma un universo narrativo espanso da abitare e nel quale immergere i propri sensi, come in una sorta di realtà parallela metaforizzata in maniera inquietante e acutissima dalla trama imbastita dai Wachowski 29. Il topic fondamentale del film, ciò che ne costituisce il centro, è […] il tradizionale quesito filosofico sulla consistenza ontologica della realtà e sulla possibilità della sua conoscenza, aggiornato all’era della realtà virtuale. In questo senso, il dubbio filosofico (già cartesiano) che un’entità maligna abbia generato un mondo illusorio (e sull’illusione si può risalire alla caverna platonica), si ibrida con la riflessione teorica sulla natura dei simulacri e della simulazione, della produzione di mondi virtuali e artificiali propria dell’età delle immagini digitali 30. All’epoca del «Cinema 2.0», dunque, lo sguardo offre sempre minori certezze e chiede continuamente soccorso agli altri sensi (“guardare” col tatto e con l’udito?). Il reale e il virtuale diventano ogni giorno meno distinguibili. Gli spazi mediatici e quelli fisici fanno parte ormai di un unico continuum 31. La miniaturizzazione e l’estrema portabilità dei dispositivi di riproduzione del mondo e quella degli schermi che l’uomo sfiora compulsivamente rendono tali strumenti sempre più simili a protesi del corpo umano. Così, inevitabilmente, abitare in questo nuovo ambiente sociale e culturale coincide, di fatto, col farsi abitare da media che mutano il loro stesso statuto, poiché […] rinunciano a svolgere la loro tradizionale funzione di mediazione tra gli esseri umani e la realtà per diventare dei protagonisti a pieno titolo della società. Degli attori sociali potenti con i quali è necessario confrontarsi. I media, insomma, sono sempre più simili a noi. I media siamo noi 32. Più che abitare, oggi l’uomo si fa abitare. E i corpi umani diventano gli schermi sui quali i media incidono la propria matrice. 29 In un prossimo futuro, una semi-onnipotente intelligenza artificiale ha preso il controllo del mondo e reso schiava la razza umana per utilizzarla come propria fonte di energia. La realtà nella quale gli uomini-schiavi vivono, in stato di perenne incoscienza, è una complessa simulazione informatica denominata Matrix, la Matrice, creata dalle macchine per nascondere la verità al genere umano. 50 / 51 30 Giaime Alonge, Giulia Carluccio, Il cinema americano contemporaneo, Laterza, Bari-Roma 2015, p. 179. 31 Cfr. Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993. 32 Codeluppi, I media siamo noi cit., p. 9. critture/ Fosco Maraini da Segreto Tibet, 1951 / Elio Pecora Via dei Lucchesi 26 / Maurizio de Giovanni La città da lontano / Angelo Carotenuto Un salone così grande Carlos Garaicoa, De como la tierra se quiere parecer al cielo II, 2005. Installazione metallo, luce artificiale, courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano/ Beiijng/ Les Moulins/ La Habana Carlos Garaicoa, De como la tierra se quiere parecer al cielo I, 2005. Olografie, fumo, luce, metallo, courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano/ Beiijng/ Les Moulins/ La Habana da Segreto Tibet, 1951 Z / S C R I T T U R E Fosco Maraini Tuna, Dochen: alcuni dei luoghi più belli del mondo Sull’aggettivo bello bisogna intendersi: se belli sono soltanto giardini e Conche d’oro, colli e ville, fontane e aiuole […] allora il Passo Tang, lo sconfinato Piano dei Tre Fratelli (Tang Pün Sum), i dintorni di Tuna, i laghi di Dochen, le muraglie di ghiaccio dell’Imàlaia sono orribili. La bellezza del Tibet è forte, elementare, sublime; non concede nulla; vorrei dire che non perdona. Ieri, in una tempesta e con la nebbia, abbiamo traversato il Passo Tang (4660 m); poi, appena scesi a nord, il cielo si è schiarito e per tutto il giorno abbiamo percorso una pianura deserta. Sassi, sassi, sassi, qualche filo d’erba; ed orizzonti. Da un lato, sovrano nei suoi precipizi rossi coperti di ghiacci e di neve, il Chomolhari. Dinanzi lontanissime montagne di forme adunche. I colori erano pazzi: rosso, giallo, ocra, arancione delle pietre, delle sabbie, delle rocce; verdolino tenero delle erbe, dove i ghiacciai scendevano più in basso; viola delle ombre; azzurro delle lontananze e del cielo; candore scintillante delle nevi. Poi vento, sempre, come infiniti capelli fluenti che ti carezzino la faccia, le mani, il corpo, che ti mormorino e cantino instancabili agli orecchi saghe dimenticate. Tuna è il nome d’un gruppo di sei o sette case all’orlo del cielo; si ha quasi paura di parlare; i rumori dei muli che battono gli zoccoli sulle pietre, le voci degli uomini, tutto si perde senza eco nell’immensità. Stamattina presto 54 / 55 le cime dell’Imàlaia, là di fronte a noi, erano spettacolo da non potersi dimenticare. Ognuno sa quanto significhi, per una cosa bella, l’isolarla; qualsiasi opera d’arte, soffocata tra altre venti, si presenterà in maniera meno favorevole che non sola. Nelle Alpi le montagne di vedono sempre da vicino, in folti gruppi. Qui il Chomolhari si erge invece unico, magnifico, imperiale, ai confini d’una pianura vastissima. Da Tuna alle prime colline ci sono miglia e miglia di deserto arancione. Poi improvvisamente la terra s’incurva e si erge; qualche colle giallo; i ghiacciai; e su, su, le pareti supreme, rosse, con scintillanti cornici di neve. I colossi sono circondati di spazio e respiro senza limiti. Due degli spettacoli più grandiosi della natura – deserti e ghiacciai – sono qui a contatto. Il deserto sale, fuoco e colore, a spegnersi sotto il ghiacciaio; il ghiaccio scende, gelo e luce, a ingioiellare le pietre. All’incontro un anello di verde; l’acqua fa fiorire la solitudine. Dochen – un giorno di cammino più a nord – è un villaggio di pochissime case, alcune delle quali sembrano fortezze. Fa freddo. Tira vento. La solitudine penetra fin nelle stanze; la si sente fra le coperte, la notte; non è più negazione, mancanza di: è cosa positiva; ha quasi voce e faccia. Dochen si trova sulle rive del lago Rham. Il Tibet è cosparso di molti e vasti laghi, oltre ad essere paese di montagne altissime e deserti sconfinati. Il Rham-tso è cielo liquido caduto fra le pietre riarse. Oggi, percorrendone le rive, il vento (cosa rara da queste parti) s’è calmato e le montagne vi si riflettevano con straordinaria limpidezza: sembrava di camminare sull’orlo d’un abisso di luce. Via dei Lucchesi 26 Elio Pecora La grazia di restare, lo stupore cauto della memoria, il desiderio che si nutre di assenza, il canto lieve che pure si chiude in simmetrie remote, il pensiero che accelera paure per negarsi sul baratro e tornare a un frutto, a una carezza, la voce da cercarsi nella gola e farne un segno e nel segno trovarsi, il viaggio da compiersi, l’attesa e sempre un’eludibile promessa. L’ora che trascolora, la stagione che s’inarca fra i rami e li disfoglia, la stanza quieta, il vetro che rifrange nuvole in corsa e fra le nubi ancora una scaglia violetta: come a un cenno s’accendono le luci lungo le strade, sopra le terrazze, inattesi silenzi dentro l’ansimo immenso. Sonno, tiepido ventre, empireo immoto, ma subito lo invadono fantasmi che ripetono voglie e sviamenti, risveglio dei mattini, incespicare di piedi e mani dentro labirinti di muri e di finestre, fuggevole specchiarsi: un’urgenza segreta li sommuove. Nel cielo stretto nugoli di storni disegnano e cancellano presagi. Libero De Cunzo, da Salerno glocal city, 2009/2010 La città da lontano Maurizio de Giovanni A volte Ricciardi se ne andava in collina, a guardare la città. Ci provava, a limitare il tempo libero all’essenziale. Ci provava, a fare in modo che il lavoro si allargasse a ghermire con i suoi artigli insanguinati tutta la sua vita, per poter avere altro a cui pensare, per poter distrarre la propria mente malata con la caccia a chi aveva messo altri morti per la strada. Ci provava a sfinirsi per il doppio delle ore del normale turno di lavoro, per poi poter tornare a casa e buttarsi sul letto in un profondo sonno senza incubi. Ci provava. Ma a volte il tempo libero gli piombava addosso imprevisto e inconsapevole, e doveva fare i conti con la propria solitudine. Era allora che provava a capire qualcosa di più di quella strana città in cui aveva deciso di lavorare, che non era sua e non lo sarebbe mai stata ma che, stesa di fronte al mare, sapeva essere seducente e misteriosa e volgare e oscena e affascinante come la più bella delle donne, e la più sanguinaria delle criminali. Lui era un cilentano di montagna. I panorami che si potevano trovare dalle sue parti erano offerti dalla sola natura, privi di tracce dell’umanità che sfregia. Pecore, qualche pastore. Case sparse sul tappeto verde della valle, in gruppi di tre, quattro. Il paese stretto attorno al castello della sua famiglia, poche strade e qualche vicolo, e tutti che conoscevano tutti. Quella città, invece, poteva essere vista in due modi diversi: dall’interno, immergendosi nei vicoli dagli sguardi diffidenti, tra i bambini nudi che giocavano tra le galline, nei mercati delle urla e dei canti e dei fischi, nei teatri di cappellini e cilindri e monocoli e bocchini; o dall’esterno, arrampicandosi sulla cima di una delle due colline tra il pomeriggio e la sera, immersi nell’odore dell’erba nuova e dei fiori, ascoltando canzoni indistinte e lontani motori e seguendo con gli occhi le grandi navi che partivano per i tanti mondi lontani. Erano due mondi diversi, pensava Ricciardi. O meglio, era la stessa realtà che si mostrava in due modi diversi. Come una donna, vestita per il teatro o per le faccende domestiche. Seduto sulla panchina a metà di via Posillipo, con un tappeto di mare e palazzi davanti, Ricciardi fece un fuggevole sorriso. Una donna, ancora. Chissà cosa c’era dentro di lui che gli faceva sempre pensare alla città come a una donna. Forse la consapevolezza della propria incapacità di capirla a fondo, di penetrarne i processi mentali ed emotivi. Forse l’esserne affascinato e impaurito nello stesso tempo, attratto e respinto, incantato e terrorizzato. Forse perché il suo lavoro l’aveva portato a osservarne la ferocia e l’aggressività immotivata, ma anche l’incomparabile bellezza. Aveva un punto di vista privilegiato, che pagava affondando la coscienza nel sangue e nella violenza che scorrevano per le strade. Con le mani nelle tasche del soprabito e lo sguardo perduto nel vuoto, sorrise al pensiero che quando girava per i vicoli con Maione o entrava nei bassi faceva di tutto per ricordare quello che stava guardando adesso, mare e montagna e isole e penisola. Ora che si trovava di fronte a questo spettacolo, non poteva fare a meno di tornare con gli occhi della mente a quegli anfratti bui, a quell’odore di aglio e maiali e sterco di cavallo, a quelle risate di bambini felici S C R I T T U R E / Z nonostante la fame. Il vestito buono e quello per tutti i giorni. La popolana e l’aristocratica. Chissà perché, si chiese, si accalcano tutti a ridosso del mare. Chissà perché preferiscono quei vicoli stretti e malsani, e quei palazzi alti e bui uno attaccato all’altro invece di allontanarsi sulle terre di boschi e sterpi incolte attorno alla città. Ripensò ai quartieri nuovi, quelli che stavano sorgendo nei pressi dell’arrivo della funicolare nuova, alle masserie di Antignano e dell’Arenella; ma aveva l’impressione che per chi ci andava a vivere fossero un ripiego, la manifestazione in pietra di una sconfitta. Gli abitanti di quella città volevano stare in riva al mare, il più possibile. Strano, perché poi il mare veniva sostanzialmente ignorato. A parte i pescatori che lottavano per la vita contro gli elementi, in una silenziosa, perenne guerra in bilico tra la fame e la fatica, raramente si andava al di là di una passeggiata nella brezza salata o dei giochi estivi in spiaggia di giovanotti e ragazze che si sorridevano sperando in un invito per una serata danzante. Eppure i vicoli si arrampicavano di malavoglia verso la collina, diradando il proprio popolo e l’intensità dei commerci man mano che ci si allontanava dall’acqua salmastra del porto. Banalmente, rifletté Ricciardi, magari si trattava di soldi. Dell’opportunità di trovare lavori e lavoretti a margine dello scarico delle merci dalle navi che andavano e venivano. Ne risentivano ovviamente le case. Per la maggior parte della gente si trattava di un’unica stanza, col focolare da un lato e la latrina dietro una tenda dall’altro, in mezzo un tavolo attorno al quale ci si accalcava per mangiare forse una volta al giorno, e pagliericci a terra o al massimo su quattro tavole, il cui sudicio interno intriso di vecchi umori si cambiava due volte all’anno. Pagliericci sui quali si concepivano e si facevano nascere figli che raramente arrivavano a compiere cinque anni, che crescevano nei rifiuti e che rifiuti mangiavano. E negli stessi palazzi che al pianterreno avevano queste condizioni c’erano poi gli appartamenti degli impiegati, degli insegnanti, dei contabili che tentavano di coniugare un minimo decoro con gli stipendi da fame. Abiti logori ma puliti e rivoltati più volte, bambini smunti e dignitosi con vestiti da marinaio dismessi dai più grandi e le dita perennemente sporche d’inchiostro. Famiglie impegnate a mostrare di non essere povere pur essendolo, capaci di non mangiare pur di passeggiare la domenica per via Toledo sorridendo e salutando con un cappello nuovo. Nei piani alti poi c’erano quegli strani animali che costituivano il branco dell’aristocrazia. Ricciardi, che pure per nome e sostanze avrebbe dovuto riconoscersi in quell’ambiente, lo fuggiva come una pestilenza. Le ampie stanze l’una nell’altra, i soffitti affrescati, i salotti di quattro, cinque colori diversi; le cappelle domestiche, con gli antichi reliquiari d’argento, le icone di santi portati dalla Russia, gli altari in marmo che prendevano intere pareti; le enormi cucine, già popolate da eserciti di cucinieri e servi e ora tristemente abitate da vecchie governanti piene di dolori. L’aristocrazia era quella più menzognera. La crisi, il gioco, le donne belle e senza scrupoli avevano fatto scempio di enormi patrimoni e antiche fortune. I velluti delle tende erano scuriti dal fumo e dal sole, i tappeti persiani ridotti a sfoglie di carta velina attraverso le quali si potevano distinguere le trame dei pavimenti, le sedute delle sedie di legno dorato che lasciavano prendere aria alle imbottiture logore attraverso i buchi del deterioramento. Certo, i ricchi c’erano. Ma paradossalmente erano quelli che nascondevano le ingenti sostanze derivanti dall’usura e dal malaffare. I nuovi ricchi, commercianti senza scrupoli, reggenti malavitosi, guappi violenti; che non si allontanavano dalle umili origini ma che sfruttavano senza scrupoli i vantaggi del lavoro altrui. Ricciardi considerò quanto incidessero sul crimine le differenze tra quello che si mostrava e quello che si aveva in realtà. E quanto bastasse, a volte, entrare nelle case per capire come 58 / 59 stessero veramente le cose. Mentre davanti a lui il pomeriggio diventava sera e si andavano accendendo le luci nella parte dei palazzi opposta al tramonto, il commissario rifletté sul fatto che in poche altre parti del mondo il contatto fra tutti, l’incontrarsi e quindi lo scontrarsi fosse così ossessivamente frequente. Poveri e ricchi frequentavano le stesse strade, gli stessi portoni. I custodi degli antichi palazzi annaffiavano le lussureggianti aiuole dei giardini nascosti, cercando di preservarne i fiori da bambini dispettosi e da giovanotti innamorati, e dai balconcini grasse matrone borghesi mercanteggiavano ad alta voce con gli ambulanti, tre o quattro piani più sotto, calando ad accordo raggiunto un paniere di vimini attaccato a una corda per tirare su la merce. Altrove, pensava Ricciardi, non era così. Nelle rare visite ad altre città che aveva fatto, perlopiù in gioventù per istruirsi e cercare di capire cosa volesse dalla propria vita, aveva assistito a separazioni anche territoriali assai più nette tra le classi sociali. C’era il centro, frequentato da carrozze con stemmi familiari e signore in pelliccia, e un progressivo degradare fino a periferie buie e malfrequentate; qui invece il centro e la periferia si mescolavano come il latte e il caffè dando, luogo a qualcosa che aveva dell’uno e dell’altro senza essere né l’uno né l’altro. L’interesse era reciproco. Servi a disposizione in larga quantità per i nobili, e grassi polli da spennare per i delinquenti. Fiorivano ladri, borseggiatori, rapinatori a mano armata da un coltello, in attesa nel buio e nelle ombre che passasse un portafogli gonfio all’interno di qualche tasca. E poco importava se talvolta, troppo spesso in verità, si fosse costretti a usarlo, quel coltello. Questi contrasti stridenti rendevano l’intera città una terra di confine. I palazzi affacciavano da un lato sulle strade nobili, dai bei negozi e dalle vetrine decorate, coi commessi in livrea sull’attenti, pronti a ricevere in pompa magna i clienti; e dall’altro sul caotico intreccio di vicoli e sentimenti, immersi in un perenne brusio fatto di dolore e amore, di fame e malattia, di gioia e vita afferrata con le unghie e tenuta stretta come l’unica ricchezza possibile. Dalla panchina sulla collina, Ricciardi osservò il buio che calava come una coperta stellata. Il mare andava punteggiandosi di piccole luci, poste dai pescatori per attirare il pesce e segnalare la propria presenza alle altre barche. Una missione, una piccola battaglia per la vita. Immaginò le donne, i figli dei pescatori in attesa nelle case del villaggio di Mergellina; la loro attività di riparazione delle reti, nei piccoli cortili fuori alle strette abitazioni dominate dalla riproduzione della Madonna della Catena con qualche fiore fresco in un vaso. Riportò gli occhi sulla città, ormai illuminata nella notte. Una luce per finestra, un lampione per ogni angolo di strada. Ogni luce rappresentava agli occhi della sua mente il confronto tra le speranze e le disperazioni, tra la vita e la morte. All’improvviso si chiese come sarebbe stata quella città dopo cent’anni. Se gli uomini avrebbero abbandonato quel luogo, lasciandolo di nuovo alla natura che ne avrebbe fatto il paradiso che era stato fin dalla notte dei tempi. O se invece le nuove generazioni avrebbero capito che la bellezza si deve coltivare, perché da sola non serve a nulla. O se sarebbe rimasto tutto esattamente com’era, secondo il principio che l’umanità assomiglia a se stessa e nella sostanza non cambierà mai. Pensò oziosamente a quanti e quali di quei palazzi, di quelle stanze e di quelle luci sarebbero esistite ancora; e quante di nuove ne sarebbero state accese. Se qualcosa sarebbe migliorata, se qualcosa sarebbe peggiorata. Con un brivido, si alzò dalla panchina. E a testa bassa prese la via di casa. Bernardo Siciliano, Panic Attack: Dumbo, 2015, olio su tela, 200 x 240 cm Bernardo Siciliano, Panic Attack, 2015, olio su tela, 240 x 200 cm Un salone così grande Z / S C R I T T U R E Angelo Carotenuto La prima volta che misi piede in casa sua, il professor Borraccia aveva lasciato sul fondo di una ceneriera scorie di sigarette, saranno state almeno una dozzina. Pareva si fosse divertito a sminuzzare in residui di polvere il suo vizio e a tenerlo parcheggiato chissà da quante ore di proposito laggiù, a una profondità da cui esalava per noialtri un castigo senza scrupoli. La seconda volta al fumo pareva essersi concesso perfino più generoso, e dalla terza in poi non ne parliamo. Non si trattava di amnesia, questo mi fu presto chiaro: era una cattiva abitudine. Lui accumulava rimasugli puzzolenti, a me toccava invece liquidarli. Non c’era nulla che mi desse più fastidio. In quell’appartamento di via Labicana avrebbero potuto chiedermi di strigliare il pavimento in marmo fino a spaccarmi la schiena, di stirare una giogaia di camicie, di preparare la cena per un corpo d’armata, di dare acqua alla Brighamia insignis e all’Adenium Obesium, di lustrare vetri e tapparelle due volte a settimana – questo e altro avrebbero potuto chiedermi, e io non avrei detto niente. Tutto compensava la vista dal terrazzo, il parco del colle Oppio e oltre lo sguardo l’ombra del Colosseo; all’orizzonte opposto il campanile di Santa Maria Maggiore, settantacinque metri ficcati nel cielo di Roma come la lancia nel costato di Cristo. Tutto accettavo e avrei accettato, tranne mettere le mani in quella montagna di cenere accumulata senza un perché, al chiuso di un salone. Sulla questione arrivammo in fretta a un confronto, io e il professore: il nostro mezzogiorno di fuoco, sebbene del fuoco ci fossero soltanto spoglie, e mezzogiorno quel lunedì fosse passato già da un pezzo. «Lei non la deve svuotare, Elena, la mia clessidra». Fu così che me ne accorsi, non ci avevo fatto caso prima. Io ero irritata, lui divertito. Verniciata a polvere di poliestere, arancione, ma da catalogo disponibile in altri tre colori, questa vaschetta in alluminio alta quasi un metro e capace di contenere fino a tre chili di roba, con setaccio amovibile e bordo in pvc alla base, era in realtà una clessidra. Potevi capovolgerla e vedere la cenere nel suo percorso a ritroso, senza che peraltro lungo il tragitto all’indietro ci fosse alcuna possibilità di cancellare gli effetti della nicotina dai polmoni. Il bel prodotto costava, come scoprii più tardi, un paio di centinaia di euro. L’equivalente di una trentina d’ore della mia fatica. «Lei non la deve svuotare, altrimenti mi toglie la magia e il gusto di vedere il tempo che passa». Sono sicuro che Elena a quel punto mi avrebbe volentieri augurato di passare un guaio, il suo compito era più sacro, lei era lì per espellere gli avanzi quotidiani e i resti della mia vita agiata, strofinare un panno e spruzzare un deodorante, altrimenti mia moglie e io cosa la pagavamo a fare. Invece si trattenne dal replicare, la vidi gonfiarsi e poi tacere, non so se più stupita o esasperata. Che quell’oggetto fosse stato partorito dalla mente del più creativo designer yemenita del nostro tempo, lei lo ignorava in tutta franchezza e sospetto pure in totale allegria. Veniva in casa nostra tre volte a settimana, nei giorni dispari, portatrice di una specie di calore a me e mia moglie estraneo, come un’incarnazione dell’energia termica 62 / 63 – ecco cos’era quella donna in un corpo ancora da ragazza; un’energia redistribuita in modo tanto munifico da lasciarci martedì giovedì e sabato in uno stato di equilibrio completo. Elena era una diminuzione di entropia. Faceva scivolare i suoi joule fra di noi e ci lasciava con questo nuovo assetto da lei stabilito per le successive ventiquattr’ore. Entrava nel caos e portava una tregua. Uscendo per andare in facoltà, sapendola impegnata a spolverare i miei libri nello studio, riuscivo a sentirmi io stesso meno sporco, meno sudato, e se non avessi timore di rendermi strambo direi finanche più felice. Mia moglie Giuliana cominciò sin dall’inizio ad avvertire questa presenza in casa come un disturbo, forse annusando il trambusto psicologico in cui Elena mi gettava; e col tempo sarebbe diventata sospettosa, diffidente, ma gelosa no, gelosa non subito. Riprese per reazione perfino ad armeggiare con costanza vicino a fuochi e fornelli, rimettendo mano a certi antichi manuali di ricette impigriti sugli scaffali, centrando a dire il vero il solo obiettivo di far rimpiangere a ogni sformato di verdure la cucina di Elena, o in alternativa le consegne della rosticceria all’angolo. La competizione fuori tempo massimo è il terreno sul quale scendiamo per renderci ridicoli. Di lei, dico di lei come persona, sapevo poco. Che Elena avesse una quarantina d’anni e circa venticinque meno di me, era palese. Sul resto regnava il mistero, aveva fatto la scelta di sottrarsi a ogni confidenza. Veniva da Torre Maura, solo questo ci disse, una borgata dove alle strade hanno dato i nomi degli uccelli; ci sono vie dedicate a passeri e fagiani, a cicogne colombi e usignoli tutt’intorno al condominio in cui abito, una cinquantina di metri quadrati a seicento euro al mese, tanto pago per salotto, cucina, camera e servizio. Sull’annuncio c’era scritto appartamento finemente arredato, quando mai, non era vero, certe cose non potrò permettermele eppure so apprezzarle. Per fortuna il 313 non passa molto distante, scendo a Parlatore e da lì col numero 5 fino all’appartamento dei Borraccia saranno un’altra quindicina di fermate. La storia della clessidra mi fece rabbia perché il professore di me, la donna delle pulizie, poté pensare il falso. Dovette giudicarmi ingenua e sprovveduta, senza immaginare che invece sapevo riconoscere nella sedia per gli ospiti in faggio colorato – una tavola rossa e l’altra blu – la famosa Gerrit Rietveld disegnata nel ’14. Individuai lo spirito di Charlotte Perriand nel tappeto in pura lana, lo spunto di Pierre Jeanneret nei moduli alle pareti e le idee di Le Corbusier sia nella chaiselongue su cui il professore si sdraiava a leggere sia nel portmanteau in rovere all’ingresso, con i pomelli in massello tinto. Ma non glielo dissi allora e non gliel’avrei detto mai. La mia laurea non so neanche dove sia, che fine ha fatto, probabilmente non l’ho neppure ritirata. Era giovane, Borraccia, ancora un assistente o forse all’epoca si diceva già ricercatore, quando mi diede un ventotto e mi firmò il libretto. Per questo casa sua resta la mia preferita fra tutte quelle che giro e che lascio in ordine in cambio di denaro. Perché mi ricorda cosa sognavo da ragazza. Vado a servizio anche al Celio dalla famiglia Baffi, all’Aventino dai signori Caporetto, a san Saba dai Cieri e dai Belardinelli. Arrivo, pulisco e scompaio. La regola che mi sono data è che non si parla mai di me né della mia vita, io non ne vedo il bisogno, loro non ne hanno diritto. Se non cominci a farlo, nessuno verrà a chiederti come campi. Ma la mia curiosità in questi anni è cresciuta giorno per giorno, però Elena niente, non s’è mai aperta, non so chi vede, come veste la sera, come passeggia nel buio. La sua capacità di tenere le abitudini private sotto un manto di riserbo è straordinaria. Più si serrava, più avrei voluto violarla. C’è stato un periodo in cui fantasticavo di seguirla per scoprire qualcosa in più di lei, ci sono andato a tanto così, finché ho intuito che mi affascinava più l’idea dell’esecuzione. Aprivo gli occhi e lei c’era, li chiudevo e non se ne andava. È stato quello il tempo in cui la sera mi ripiegavo sul bordo del letto, desiderando che arrivasse l’indomani per fissare il buco della serratura e aspettare il suono della chiave, sentirla infilarsi, scivolare in fondo alla toppa e poi eccola, Elena, vederla finalmente riapparire, a figura intera, dentro casa mia. Solo una volta il pro- S C R I T T U R E / Z fessore mi ha detto: Elena, sappia che se lei volesse, potrebbe chiamarmi semplicemente Mauro. Mi parve una stonatura, non so, una libertà eccessiva. Non seppi perdonarla. Così me ne presi una anch’io. Smisi di essere una visitatrice, la casa di via Labicana diventò mia. Succedeva di tanto in tanto alla domenica, quando sapevo che i Borraccia andavano fuori Roma, a volte da certi parenti di Salerno, in altri casi partivano per il week-end in Abruzzo, dove da giovani amavano sciare e dove avevano conservato una seconda casa, dalle cui finestre me li immaginavo guardare la neve sciogliersi senza che si sciogliesse fra loro due il silenzio. Arrivavo nella casa vuota la mattina presto, così non avrei corso il rischio di essere vista da un vicino o di incontrare qualcuno in ascensore. Dalla strada, come ultimo atto di prudenza, sollevavo lo sguardo verso il balcone e le serrande chiuse, per avere la certezza del terreno libero, la certezza che quei due fossero veramente altrove. L’agitazione dei primi tempi lasciò il posto a un’impassibilità che spaventava me per prima. Mi sentivo sempre più incolume, al riparo, calata dentro una percezione nuova, dentro giorni di festa che finalmente avevano un sapore. Era così bello che presto le domeniche cominciarono a non bastarmi più. Anticipavo allora il culto al sabato sera e me ne restavo a dormire lì, portandomi dietro lo stretto necessario, più di frequente nulla, se non la mia schiena nuda, su cui lasciavo che strusciasse una delle camicie bianche del professore. Così ho finito per spendere nella casa dei Borraccia un pomeriggio di Natale, un ponte d’inizio novembre, la mattina del lunedì di Pasqua e certi passaggi della controra d’inizio agosto, quando mi sentivo investita dalla missione di restituire libertà a quel luogo, e io stessa di afferrarne, prendendo il sole in terrazza con il mio piccolo seno al vento. Una volta venni sorpresa dalla vecchia del terzo piano mentre uscivo, lei tornava forse dalla messa vespertina, io inventai là per là una scusa, dissi che avevo dimenticato di far trovare il latte fresco in frigo per il lunedì mattina. Solo un giorno mi venne il dubbio che la signora Giuliana, chissà come, qualcosa avesse scoperto. Con il marito in facoltà, affidandosi a un lungo giro di parole, si mise a fare riferimenti sul valore della lealtà, la stima nelle persone, le conseguenze di una fiducia mal riposta. Fu solo un sospetto il mio, non un timore. Infatti la reazione non fu smettere, la reazione fu alzare il livello della sfida. Perciò una domenica dopo pranzo – doveva esserci qualche partita di calcio importante perché le strade erano deserte e dei rumori s’avvertivano solo scintille – una domenica dopo pranzo afferrai mia sorella, i suoi due gemelli e dissi: «Oggi vi porto a vedere come sono le case dei ricchi». Ce so’ cresciuto dentro casa dei Borraccia, mi colava ancora il fraffo e oggi sto al liceo. Mi’ zia ci insegnò a movece e senza lascia’ tracce, briciole e cozzi. Si stava belli attenti a rimett’apposto tutto, prima d’annassene. Nun ho saputo mai com’è che è cominciata questa storia, nun gliel’ho chiesto, eravamo nell’età in cui si tiene la mano ai grandi, e la mano di mi’ zia era profumata, l’avrei seguita fino a chissà dove. Era lei che veniva a parla’ coi professori, era lei a ripete che me voleva vede’ sderazzato, io dovevo esse l’orgoglio suo, non l’avrei dovuta portà la caldarella. Mi’ madre era il tipo che se guardava attorno come se ogni vorta fosse capitata dentro ‘na nuvola. Quando iniziarono le nostre domeniche da ricchi, s’acchittava a cocimelova co’ certe vesti pecionate, a lei je bastava solo de stennicchiasse sur divano der professore, diceva A sta così quanto me sento ‘na reggina. I primi tempi pareva d’esse in gita, d’essere annati come a un museo. Attenti qua, nun toccate là. Imparammo a guardare da lontano certi quadri e a chiamarli litografie, conoscemmo la porta blindata e scoprimmo la vasca idromassaggio. Avevano, i Borraccia, pure la cassaforte. È nascosta dietro una delle cornici nel salone, riccontò mi’ zìa, pare che ci tengano chiusa una pistola; una pistola domandò mi’ madre, non so se più eccitata o co’ la tremarella, una pistola certo je ridisse mi’ zìa, e noi una pistola nun l’avevamo vista mai. Mi’ madre per più pulito dire ci 64 / 65 ripeteva A regà guardate, guardate tutto, che qua se ‘mpara quarcosa pure dar tarallo der cesso. E ogni pomeriggio era per noi l’America, s’arrivava a via Labicana e spuntava il 1492. Col tempo mi’ zia prese a fidasse di più. C’erano sempre regole, ma più passava il tempo e meno eravamo in visita: smettemmo d’essere turisti e cominciammo ad abitare. C’erano libri a strafottere dentro quella casa, compreso l’atlante der monno più completo: Serbia e Montenegro erano divise, il Kosovo aveva già un altro colore. Era il posto migliore pe’ studià. Zia Elena, scoprii, ci aveva portato apposta. Ce ne stavamo ore coi quaderni aperti. Era come vive dentro una piega, dove la realtà non ci avrebbe mai inseguito. Non c’era manco la televisione dai Borraccia, e all’inizio mi mandava in fissa il pensiero che il professore nun aveva mai passato un pomeriggio insieme a Giletti. E manco su’ moje. Poi, la domenica, cominciammo a farne a meno pure noi. Mi sono spesso domandato se Elena non andasse a sfogliare i miei libri per conoscere a sua volta qualcosa di me. Ho la certezza che ogni tanto posasse le mani sui volumi – anche se non ho mai capito quando – giacché nel prenderli e riporli non poteva conoscere certe logiche che uso per darmi un ordine, così una volta è capitato di trovare la prima edizione degli Ossi di seppia di Montale un paio di posti più a sinistra del giusto. Ma era una debolezza che lasciavo coltivasse. Mi piaceva fantasticare che Elena si fermasse a far carezze alle mie note a margine, seguendone le linee di grafite con le dita, o che restasse a sgrufolare fra le pagine i miei appunti, di desiderio piena, come una scrofa tra le carte sudicie. Provai a capire, e un libro glielo regalai. Non si sottrasse, non disse di no. E dopo le poesie di Caproni fu un saggio di Prezzolini, il catalogo di una mostra su Pazienza, un’antologia di racconti curata da Tondelli, tutto Elena accoglieva, i soli regali che da me accettasse, e io non smisi, non smisi mai, tutto accoglievo e i libri accumulavo in casa di mia sorella, per i gemelli, perché potessero costruirsi una piccola oasi di sapere pure lì. Il professore s’era preso la licenza di ritenermi oggetto della sua attenzione, io mi prendevo l’arbitrio di renderlo ridicolo a sua insaputa. La signora Giuliana ricominciò a guardarmi male, certi discorsi divennero più frequenti, io facevo finta di non capire, e nel frattempo era il mio quarto anno in casa loro. Nun se toccava niente senza aver chiesto prima per favore, nulla si prendeva dal frigo, niente era a scrocco, se non la felicità. Da piccoletti in quei duecento metri quadri si finiva pe’ giocà a nisconnarella, a mi’ sorella piaceva accecasse in corridoio, mentre io me ne restavo accucciato pure mezz’ora dentro a n’angolo, in un qualunque posto quieto dove pensa’ all’affari mia, no’ come in mezzo alla canizza che faceva la pipinara a Torre Maura. Più da barzotti, io già ci avevo sedici anni, s’andava in veranda con le racchette di ping pong, a mandarci avanti e indietro una pallina sopra il tavolo di legno verde: tanto, con le pareti insonorizzate, nessuno ci avrebbe mai sentito. Il momento più magico di tutti era quando un tasto faceva scenne dar soffitto un telo bianco, allora la casa dei Borraccia diventava un cinema, ‘na vorta se semo fatti pure i popcorn e mi’ zìa se mise a strippà perché se sentiva puzza de frittura. In quella casa ce so’ entrato come ‘no stramicione e ho imparato a guardare i film di Fellini, a capire l’arte di Lichtenstein, a riconoscere le foto di Lee Miller. Giuliana aveva sempre da ridire, scenate continue, i giorni pari erano l’inferno. Se mi vedeva euforico, si faceva cupa: «Le hai fatto un altro dono?». Se ero di cattivo umore, sempre Elena incolpava: «Stai così perché non c’è». Certe volte mi pareva di cogliere il suo profumo sul collo delle camicie bianche, probabilmente s’impregnavano di lei stirandole. Il prezzo da pagare per tutto questo brio senile era guardarsi a mente fredda e ritrovarsi assurdo. Lo fu parecchio anche Giuliana, quando giunse a supporre che Elena entrasse in casa durante le nostre assenze, straparlava, diceva che non aveva prove ma lo sentiva, perché ormai conosceva le posizioni degli oggetti meglio di lei, e le nostre stanze – come se le stanze avessero un’anima – la trattavano alla nostra stregua. Vorrei toglierle le chiavi se sei d’accordo – mi S C R I T T U R E / Z propose una sera – lo ricordo bene, era un giovedì. È stato il primo istante in cui casa mia ha smesso di sembrarmi un rifugio dal torto. E domenica mattina la chiave in tasca non c’era più. L’ho cercata per tutto il giorno, da me, da mia sorella, in strada, sono tornata sui miei passi, al bar, all’edicola, e di nuovo da me, temendo di averla lasciata chissà dove, seccata dalla prospettiva di doverlo riferire ai Borraccia, specialmente alla signora, che mi avrebbe cacciata, di sicuro. Di più mi faceva male la mia prima domenica dopo anni senza Tana, come chiamavo l’appartamento che pulivo, rassettavo e nei giorni di festa mi godevo. Considerai mille scenari, fumai un pacchetto intero, passai il mio pomeriggio con un telecomando. Finché verso le otto rientrò mio nipote, con un sorriso che mi parve criminale, la chiave ce l’aveva lui, me la riconsegnò dicendo Grazie zi’, e dandomi un bacio che aveva un odore da me dimenticato. Che hai fatto, gli gridai, che te sei rubato, e corsi in strada come stavo per chiamare un taxi. Niente m’ero rubato, per chi m’ha preso zia, a via Labicana ce volevo solo annà co’ Bice, ho lasciato tutto in ordine, però non m’ha creduto. Bice al liceo fa parlà le statue tanto ch’è bella, me stava a tuzzicà già dall’anno scorso, ma solo adesso s’è accorta di me, lei figlia di un pezzo grosso ar ministero, ora che nell’intervallo le lascio poesie scritte sul diario, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. Starsene al buio dietro via Candia andava bene per un fracoscio, ma questa doveva esse ‘na sera diversa, più solenne. Bice m’aveva chiesto Perché non trovi un posto dove andare, voglio fare l’amore con te, e a me era venuto un lampo: C’è casa d’una zia, solo che alle sette se ne dovemo annà. Non le pareva vero tanto lusso quando alle tre si sfilò i panni di dosso, restando fino alle sei nuda in mezzo a ritratti, a gouache, alla gigantografia dell’impronta digitale del professore dipinta all’ingresso, sopra la parete, perché nelle case dei ricchi girano idee che a noi non vengono. Abbiamo chiuso le tende e spento le lampade, ci siamo azzuppati sotto la foto di una pianta di basilico messa a capoletto, ho stretto Bice e lei ha riso, ha riso e ha detto I miei sul letto hanno attaccato la madonna. Poi per scappare prima che tornassero i Borraccia, ho pure dimenticato nel salone l’astuccio col braccialetto che volevo regalarle, altro che rubbà come diceva mi’ zia, e per scoprire cos’aveva combinato mio nipote con il taxi sono arrivata di corsa, una ventina di minuti alle nove, con un presentimento. C’era dovunque polizia, immaginai per fare il resoconto sul maltolto. Quando l’ascensore si fermò al piano, un poliziotto mi bloccò sull’uscio. La voce del professore dall’interno fu il mio lasciapassare: È lei Elena, fatela entrare, è lei la donna sotto accusa. Il week-end dei Borraccia era finito. Dentro, sul divano dove mia sorella s’abbioccava, disteso stava un panno bianco, a coprire il sonno più definitivo d’un altro corpo, sempre di donna avrei detto dalla mano curata che pendeva verso il basso. Non volevo farle questo, Elena, bisbigliò il professore, non avrei voluta esporla così. La cassaforte era aperta. Giuliana riteneva che io avessi acquistato un oggetto per lei, Elena. Un astuccio rosso. Un braccialetto. Quando al rientro l’ha scorto sul tavolo di vetro, ha cominciato a urlare, ad accusare me e a insultare lei, lei Elena conosceva Giuliana, sa quanto fosse cocciuta, parole irriferibili le stava dedicando, inaccettabili, profondamente ingiuste, credetemi agenti, non l’ho comprato io il bracciale, non era riservato alla signora, non ne so nulla, non so neppure com’è che sia finito qui, in casa nostra, vero Elena, lo dica pure lei, non lo sappiamo com’è che sia finito in casa nostra. Mi spiace che domani abbia tanto lavoro, tutto questo sangue da mandar via, un salone così grande, non sarà semplice smacchiare, che pena doverle dare tanto incomodo. La pistola, ancora calda, riposava lungo il marmo un tempo bianco. Quando lasciai casa dei Borraccia, il professore era seduto sulla sedia degli ospiti, le gambe incrociate, la schiena dritta. L’ultima volta l’ho visto lì. Ogni tanto dopo tutto questo tempo, quando sono di strada, ancora alzo lo sguardo. La domenica mai, la domenica non ci passo. 66 / 67 isioni/ Guglielmo Gigliotti Cosmico Klein / Marco Di Capua Tutte le palazzine del mondo / Lea Mattarella Fotografare l’altra metà / Gea Casolaro To feel at home / Sabina de Gregori Titina Maselli cittadina di se stessa / Renato Lori Dentro lo spazio scenico / Andrea Zanella In giro per bordelli, tra arte, cinema, letteratura Cosmico Klein I progetti per l’architettura immateriale del pittore del blu prevedevano edifici delimitati da getti d’aria compressa e per tetto il cielo Z / V I S I O N I Guglielmo Gigliotti «L’Azur! L’Azur! L’Azur! L’Azur!» Stéphane Mallarmé 1 Il capolavoro di Yves Klein (1928-1962) è il cielo. Aveva 18 anni quando, dopo lunga e acuta osservazione dell’azzurro sulla sua testa, lo firmò. In seguito definì il cielo la sua prima e più bella opera; senza tema di dubbio è il ready made più grande della storia dell’arte. La monocromia blu dei suoi dipinti è figlia di questa immedesimazione nello spazio infinito, questo volo nel colore senza dimensioni, che è per Kandinskij il colore della calma, per Jung il colore dell’inconscio, sicuramente è il colore del vuoto. «Qualcosa che non è mai nato e mai morto» 2, questo era il blu per Yves Klein le Monochrome, come amava firmarsi: monocromo era infatti lui stesso. In questa identità di gesto artistico ed essere sta la chiave di lettura della concezione kleiniana di abitazione. Nel 1958 assieme all’architetto tedesco Werner Ruhnau, Klein realizzò progetti inerenti quella che chiamava l’Architettura dell’aria, ovvero edifici delimitati da correnti d’aria compressa che usciva a potenti getti da solchi nel terreno. Sono architetture immateriali, dimore trasparenti, abitate da chi, come Klein, percepiva il mondo come il suo atelier e l’universo come materia prima dell’arte, e sicuramente, alla stregua di Pessoa, «come cella infinita in cui sentirsi liberi» 3. Klein non scherzava. L’Architettura dell’aria era un’utopia, ma una utopia vera, una possibilità oggettiva della mente espansa, una condizione della psiche quando è connessa con l’ineffabile che ci circonda. E siccome non scherzava, quando Ruhnau gli fece notare che ci sarebbero stati problemi tecnici per la realizzazione del tetto, lui non si scoraggiò, c’era il cielo, tetto d’aria azzurra. Yves Klein, fragile e forte come tutti i sognatori, o forse come tutti gli esseri umani, non riusciva a distinguere tra la sua arte e la sua vita: «Un uomo deve dipingere un unico capolavoro: se stesso in eterno», scrisse in un suo diario. La sua breve vita, conclusasi con un infarto a 34 anni, fu esistenza densissima. Aveva fretta il giovane Yves, doveva dissolvere il proprio ego nell’etere prima che lo facesse la natura col compiersi del suo destino terreno. Perdere di gravità, levitare nell’aria è stato un suo sogno di bambino e un suo progetto da adulto. 1 Stéphane Mallarmé, L’Azur, in Poesie, Feltrinelli, Milano 2009, p. 34. Tutte le citazioni da Yves Klein di questo articolo sono tratte da: Giuliano Martano, Yves Klein. Il mistero ostentato, Edizioni Martano, Torino 1970. 3 Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano 2000, p. 123. 2 68 / 69 Il volo di Yves Klein, nella fotografia intitolata Il pittore dello spazio salta nel vuoto, 1960 La fotografia del 1960 che lo immortala sospeso in un salto da alto muro colpisce in profondità la nostra coscienza, perché l’aspirazione alla leggiadria alberga in tutti, e il sogno del volo, il complesso di Icaro, la volontà di emulare l’aria è parte del nostro inconscio collettivo. La didascalia della fotografia, una delle immagini simbolo dell’arte del ’900, recita «Il pittore dello spazio salta nel vuoto». Ecco, il primo grande pittore monocromo sistematico dell’arte moderna, il cantore del blu, non parla di colore, ma di spazio. Tanto che, sulla stessa pagina del «Dimanche» dove apparve il salto nel vuoto (la finta pagina di giornale da lui creata, nel novembre del ’60, come opera a sé), compare anche la fotografia di un suo monocromo blu, accompagnato dalla scritta: «Lo spazio stesso». Le superfici coperte uniformemente di quella materia luminosa e avvolgente che è l’International Klein Blue (il cui marchio fu depositato nel 1960 dall’artista presso l’Ufficio brevetti francese) sono pittura in senso tecnico, ma non in senso concettuale, perché in verità sono memorie, traslate su tela, del mare interiore dell’inconscio, in cui tuffare lo sguardo, sono cieli mentali in cui librarsi e in cui edificare case di sola aria. Quando qualcuno dava a Yves del pazzo, lui rideva. Gli amici più cari (Arman, Tinguely, Restany, sua moglie Rotraut Uecker), raccontano che rideva proprio tanto, perché pazzo per lui era chi non sapeva riconoscere il carcere mentale in cui è rinchiuso l’uomo. E così rideva di sé, di tutti, del mondo. E quando qualcun altro, più avveduto e informato, gli faceva notare che lui era un seguace di Malevič, che il primo monocromo della storia, Quadrato bianco su bianco, lo aveva dipinto nel 1917 4, lui rispondeva che era esattamente il contrario: lui era addirittura un precursore di Malevič. Un folle? Sì, se follia è ritenere che è importante non chi sia arrivato prima, ma più in profondità. Il blu, colore dello spazio totale, rovescia la storia dell’arte e progredisce a ritroso, puntando vero l’origine, in quel punto della mente e dell’universo in cui coincidono spazio infinito e tempo infinito, Klein e Malevič, la vita e il volo. Ma anche la vita e la morte. Nel marzo del ’62, tre mesi prima di morire, Klein si fece fotografare dalla moglie Rotraut (sorella dell’artista Günter Uecker), steso a terra e coperto da un monocromo d’oro (uno dei suoi «Monogold») cosparso di rose, e titolò la fotografia Qui giace lo spazio. Lo spazio era lui. Lo spazio è di chi è disposto a rinunciare a ogni separatezza e limitazione, per identificarsi con l’Uno. Yves Klein era seguace del buddhismo zen e amava praticare la meditazione del respiro, 4 La storiografia è incerta sulla data corretta di questa fondamentale opera, non avendo mai l’autore datato i suoi dipinti e facendoli oscillare nelle sue testimonianze scritte da un anno a un altro. Di qui, l’opera in questione è da taluni storici dell’arte ascritta anche al 1918. V I S I O N I / Z nella posizione del loto, soprattutto di notte, quando, preso da mille pensieri e visioni, non riusciva a calmare il suo animo sovreccitato 5. Al buddhismo si era avvicinato già diciottenne, nell’immediato secondo dopoguerra, con gli amici Arman e Claude Pascal, ma importante fu anche la frequentazione del centro di judo Kodokan di Tokyo, durante il suo soggiorno giapponese del 1952. In quanto buddhista, Klein sapeva che risultato finale di ogni pratica artistica è l’opera interiore, che non va cercata ma trovata, immergendosi in se stesso 6. In se stesso Klein scovò ipotesi di infinito. Come rappresentarle? Il 28 aprile 1958, giorno del suo trentesimo compleanno, Klein tenne presso la Galleria Iris Clert di Parigi una mostra all’incontrario, della durata di un solo pomeriggio: svuotò di mobili la galleria, la tinteggiò di bianco e la titolò Le Vide. Non espose nulla, espose il nulla. Espose il vuoto e permise ai visitatori di sentire la pienezza del proprio esserci, tanto che Albert Camus, sul libro delle firme, scrisse: «Con il vuoto, pieni poteri». Con questo vuoto ready made, trovato da ciascuno liberatoriamente in se stesso, lo spazio della galleria diventava materia prima dell’arte. Il passaggio concettuale alle dimore d’aria è ora minimo, perché soprattutto connesso a una questione di proporzioni: dalla galleria finita all’universo infinito. Un passaggio mediato da un’altra esperienza kleiniana di an-arte, le Zone di sensibilità pittorica immateriale. Non sono oggetti, ma puri concetti. Sono opere che Klein «realizzava», a partire dal 1958, solo mediante visualizzazione interiore di suoi monocromi blu, in forma di vibrazione mentale o, se si preferisce, di pittura immateriale. Le vendeva pure, queste non-opere, in cambio di lingotti d’oro che in parte venivano polverizzati e aspersi nella Senna. Al compratore (tra cui ci fu anche Dino Buzzati) rimaneva in mano solo una ricevuta, ma per poco. Impegno dell’acquirente era infatti di distruggere la ricevuta, e partecipare mentalmente all’esperienza di un’arte interiore. L’Architettura dell’aria è proprio questo, un’architettura interiore, di implicazione cosmica. La sua componente utopica è sostanziale al suo esserci: deve essere un sogno collettivo, una grande apertura che comprenda il tutto. Qualcuno lo chiama Dio, qualcuno non-io. In entrambi i casi, una cosa molto seria, talmente tanto da scatenare in Klein, quando ne parlava, il riso liberatorio di cui sopra. Bastava in fondo poco per essere felici, bastava rinunciare alle prerogative dell’io separante, e disporsi ad accogliere l’immensità della vita, senza sforzo, senza fare niente, neanche l’arte. L’architettura invisibile è un punto di approdo della poetica del vuoto di Klein. Non progettò solo singoli «edifici», ma intere città. Suo compagno d’avventura fu, come detto, Werner Ruhnau (morto novantatreenne il 6 marzo del 2015), progettista, tra l’altro, del Teatro dell’Opera di Gelsenkirchen, per il quale Klein realizzò, tra il ’57 e il ’59, quattro giganteschi monocromi blu con rilievi di spugna, con basi di 20 metri e altezza fino a 7 metri. Nella cooperazione sul cantiere, nella convivialità del quotidiano, Klein inizia a parlargli dell’architettura fatta d’aria. Dirà in seguito Ruhnau: «Pensare in simili dimensioni utopiche allora era concesso» 7. Fatto sta che l’architetto e il pittore dello spazio iniziano a lavorare insieme al progetto, arrivando a stilare e a cofirmare nel 1958 il Manifesto per un’architettura dell’a5 La religiosità di Yves Klein era tuttavia, per quanto acuta, sincretica. La consonanza con pratiche e teorie della mistica dell’Estremo Oriente non confliggevano, nel suo animo duttile e profondo, con una aderenza, pure viscerale, a credo e credenze cristiane, a principiare dal suo culto per Santa Rita da Cascia. Nella città umbra, sede del culto della «santa delle cause impossibili», l’artista francese si recò quattro volte dal 1958 al 1962, in pellegrinaggi svolti per chiedere grazie, protezione, oltre che per portare ex-voto. Celebre l’ex voto costituito da un contenitore di plexiglass con scomparti per pigmento rosso, pigmento blu e polvere d’oro. 6 Cfr. Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi, Milano 2002. 7 Noemi Smolik, Intervista a Werner Ruhnau, «Kunstforum International», n. 129, 1995, p. 392. 70 / 71 Un monocromo di Yves Klein del 1960 ria. In esso si legge, tra l’altro: «Il principio del segreto, sempre presente nel nostro mondo, scompare in questa città bagnata dalla luce e completamente aperta verso l’esterno. Una nuova atmosfera d’intimità prevale. Gli abitanti sono nudi. La primitiva struttura della famiglia patriarcale non esiste più. La comunanza è perfetta, libera, individualista, impersonale. La principale attività degli abitanti: il riposo» 8. È l’Eden. Lo dice chiaramente Yves Klein: «Il mio scopo originario era rinnovare la leggenda del Paradiso perduto». L’Architettura del Paradiso dissolve tutte le barriere, perché in uno stato di armonia tutto è se stesso, in piena elementare serenità. Nulla da nascondere, tutto è. Gli strumenti per realizzarla, oltre la disponibilità al volo da fermi, sono, come detto, pareti d’aria compressa, possibilmente calda, per tutelare dal freddo, ma anche con la possibilità di sostituire i getti d’aria dal suolo con cascate d’acqua dall’alto: anche in questo caso calda. È interessante la convergenza, anche temporale, del visionarismo architettonico di Klein con quello del filosofo e sognatore Gaston Bachelard, espressa, nello stesso 1958, nel suo libro Poetica dello spazio: «La mia casa è […] diafana, ma non di vetro. Apparterebbe piuttosto alla natura del vapore. I suoi muri si condensano e si allontanano secondo il mio desiderio. Un’immensa casa cosmica si trova in potenza in ogni sogno di casa. […]. Una casa talmente dinamica che permette al poeta di abitare l’universo, o per dirla in altro modo, l’universo viene ad abitare la casa» 9. Abitare l’universo. Non è il destino dell’uomo e di tutto ciò che vive? Storicamente l’Architettura dell’aria è opera pre-concettuale, un assaggio in chiave utopistica di tanta land art degli anni a venire. È arte di puro pensiero, quando l’essenza si specchia in un’assenza. I voli mentali di Klein anticipano quindi tanta arte concettuale, comportamentale e immateriale degli anni ’60 e ’70, stagione in cui l’arte non si vedeva più perché era diventata tutto ed era andata ovunque. Pierre Restany definì il suo amico Yves «l’ultimo profeta d’Europa». Eppure questo faro delle avanguardie aveva solo acceso una luce interiore. Si era preoccupato di riportare l’arte nella vita, realizzando quello che Duchamp, altro profeta interiore, aveva definito «un’opera d’arte senza opera». Questa «opera» è la vita, o meglio, secondo le parole di Klein, «la vita vera, che è arte assoluta». E ancora: «Per me la pittura oggi non è più funzione dell’occhio, essa è funzione della sola cosa che non ci appartiene: la nostra VITA». Yves Klein sapeva che sarebbe morto giovane, perché solo con la morte sarebbe diventato come le sue opere invisibili, solo con la sua morte sarebbe diventato immateriale. Pochi giorni prima di morire, il 6 giugno 1962, scrisse sul diario: «Ora voglio andare oltre l’arte, ed entrare definitivamente nel vuoto. Voglio morire e voglio che si dica di me: ha vissuto, perciò vive». 8 Pierre Restany, Yves Klein le Monochrome, Hachette, Parigi 1974, p. 231. Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 2006 (ed. orig. La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957). 9 Maziar Mokhtari, Former flour factory, 2013 Tutte le palazzine del mondo Incontro con Giorgio Ortona Z / V I S I O N I Marco Di Capua Ortona, parlaci delle tue fonti, hai molte radici no? Sai, sono attratto da una particolare luce del sud, forse proprio in virtù delle mie origini. Infatti tocco cinque paesi del Mediterraneo: la Libia perché nato a Tripoli, Israele come ebreo, l’Italia, e mia madre che era di ascendenza franco-tunisina. Da qui l’aggiunta del cognome materno (Journo) quando siglo i miei lavori, anche se non parlo nessun’altra lingua. Nascere a Tripoli per me è stato, che so, come nascere a Cuba. Una questione di latitudine, di colori, odori e profumi, come quello intenso del pane arabo appena sfornato, che ho ricercato inutilmente per tutta la vita. Che ricordi hai di Tripoli? I più vividi riguardano quelle persiane in legno color verde acqua, ma anche le terrazze, e in particolare la terrazza della mia casa d’infanzia che si affacciava sul lungomare e dove, dall’alto, vedevo palme con le relative ombre, nette, molto nette, più nitide di quelle che ho successivamente visto in Sicilia. Questa sensazione l’ho rivissuta in pieno quando negli anni ’70 vidi per la prima volta un catalogo di Antonio López García. Al posto delle palme, però, c’erano le palazzine di Madrid, ma per me era lo stesso. Quei quadri e quei disegni erano come se li avessi eseguiti io: ero io. Un “io” che fino a quel momento non pensavo di essere. Utilizzai López per pensare a una pittura che non fosse più la sua, ma che immaginavo López non fosse più in grado di raggiungere, per esaustività. Ora toccava a me… Lo hai conosciuto di persona vero? Sì, il primo incontro è stato a Roma, all’Accademia di Spagna, nel 1996, a un mostra collettiva dei realisti spagnoli. Con lui c’erano María Moreno, Francisco López Hernández e Isabel Quintanilla. Il giorno dell’inaugurazione López era inavvicinabile, troppa gente. La mattina successiva, l’accademia era vuota, anzi c’era López con un giornalista del «Corriere della Sera» e basta. Finita l’intervista, mi ritrovai da solo con lui davanti a uno dei suoi capolavori: Madrid sur. Era l’unico suo quadro esposto, ma accidenti bastava! I restanti 56 erano degli altri tre. Lo interrogai a lungo sulla sua pittura e ciò che mi colpì, quando cercò di spiegarmi alcune cose, fu il polpastrello del suo ditone da agricoltore toccare con violenza la superficie del quadro, quasi a sporcarlo. Un quadro di inestimabile valore. Era López, e con quel gesto capii molte cose… Poi, l’anno dopo venni selezionato per un corso internazionale in Spagna, diretto proprio 74 / 75 Giorgio Ortona Le palazzine di San Paolo del Brasile 2015 olio su tavola 36 x 82 cm da lui e da qui iniziò un rapporto professionale per me estremamente fecondo, tanto che, nel 2011, venni da lui stesso segnalato per partecipare alla Biennale di Venezia nel Padiglione Italia, curato da Vittorio Sgarbi. Cosa significa per te essere un artista ebreo? Mettiamola così: quando mi sveglio la mattina, non me lo ricordo mai, assomigliando un po’, in questo, a Josif Brodskij. In effetti me ne ricordo, a volte, quando qualche squadra israeliana di calcio (di solito il Maccabi di Tel Aviv) gioca in qualche coppa europea. Tifo come un forsennato e in solitudine. La mia solitudine è forse quella stessa dell’ebreo che ho scelto di essere, quello che vive ai margini, in un territorio di confine, di confine anche nello stesso ambiente ebraico, dato che di religione non so quasi niente ed ho sempre rivendicato con forza la mia laicità. Isolato perfino all’interno della famiglia, e probabilmente anche in quello della pittura. Da adolescente ovviamente ne soffrivo, ma nella maturità questo l’ho fatto diventare un mio punto di forza. Hai studiato architettura e sei diventato il pittore delle palazzine romane, di certe periferie, che però non sono tanto periferiche, ma di mezzo centro, di mezza periferia… Le palazzine che dipingo, ma che soprattutto disegno, (perché a me interessa più la forma dell’oggetto che non la sua pellicola cromatica) sono architetture degli anni ’60 e ’70, quelle del boom economico e del periodo immediatamente successivo. Tor Bella Monaca non mi ha mai interessato, a Corviale potrei pensarci. Comunque hai ragione, la mia è una città di mezzo, semiperiferica. L’estremo, per me, è demagogico, politicizzato, paradossalmente non reale, quasi fumettistico. Riguardo al tema della “palazzina”, posso dire che è solo una coincidenza che quella che prediligo esteticamente sia quella romana, ed è quindi un grande vantaggio il poterci vivere. Le palazzine delle altre città italiane hanno caratteristiche differenti, e comunque ogni luogo ha il proprio prototipo di costruzione. Quelle di Milano sono sicuramente differenti da quelle torinesi, e quelle napoletane da quelle di Palermo. Mentre le “palazzine romane” quasi sempre non superano i sette piani, e questo perché la Basilica di San Pietro deve dominare lo skyline della città, quelle di Napoli e Palermo, ad esempio, raggiungono i dieci piani o anche più. E già questo le fa assomigliare a delle figure allampanate, meno compatte, più squilibrate. A me non piacciono! L’equazione è questa: la palazzina romana sta a un centometrista così come quella palermitana sta a un fondista. Giorgio Ortona Le palazzine di Kiev 2013 olio su tavola 40 x 102 cm Ma qualunque città d’Italia e anche del mondo può avere in catalogo la palazzina perfetta che coincide con il mio canone formale. Certo bisogna trovarla, e a me piace molto girare per le città che non conosco, senza mappa. Cioè? puoi spiegarci meglio? Guarda, davvero cominciano a non bastarmi più le palazzine di Roma, in fondo quelle che a me interessavano le ho forse dipinte tutte. Ad Atene ne ho trovate molte, e sicuramente le città della Grecia sono un grande serbatoio. Così come quelle turche, abbastanza simili. La Francia non ne possiede, neanche Marsiglia ad esempio, che si differenzia dalle altre città francesi, e poi è una città troppo bianca, così come lo è Algeri, priva di colore. Del Maghreb trovo molto ricca Il Cairo, forse anche perché megalopoli e, sono certo che, seppur nascosta, la “palazzina romana” là c’è! E poi, le città dell’America latina, molto mediterranee: Buenos Aires o Santiago… L’America del nord non ne ha. Sono tutte ville e villini, dove, escludendo le grandi metropoli, sembra di ricordare le “Cerveteri" e le “Ladispoli” nostrane, solo un po’ più patinate. Ottima per me Tel Aviv, con il suo Bauhaus casereccio e un po’ dozzinale, ma stimolante da disegnare. Oppure Bombay e Calcutta in India e certe città dell’ex Unione Sovietica come ad esempio Kiev. Nel mondo ci sono le altre “Palazzine di Roma”. E non credo che rimarrò sprovvisto di materiale per i prossimi anni. C’è questo tuo modo di eseguire che costruisce l’immagine con precisione mentre al tempo stesso la disfa, e la lascia nell’incompiuto… Una volta scelto il soggetto, eseguo con esattezza la forma dell’oggetto, ed in questo modo mi approprio di una sorta di astrazione assoluta. Ricerco l’astratto, non la realtà, so che è un paradosso. Cerco l’astratto perché vorrei trovare la pittura allo stato puro. Mi servo del reale per farne altro! Ecco perché una volta analizzata la forma, la distruggo, la spengo, la ammutolisco, o addirittura la raddoppio o la triplico, e raddoppiandola è come se la consegnassi al nulla. 76 / 77 Giorgio Ortona Le palazzine di Roma 2015 olio su tavola 58,5 x 62 cm Fotografare l’altra metà Incontro con Olivo Barbieri Z / V I S I O N I Lea Mattarella Olivo Barbieri, tra i grandi della fotografia, attraversa le città di tutto il mondo. Le guarda soprattutto dall’alto, a volte con una messa a fuoco selettiva, altre con un’avventurosa luce artificiale. Cos’è per lei la città? È quanto sta dentro, alle periferie, o alle borgate o agli slum. È, in Oriente, il più grande esperimento mai tentato dall’umanità, per estensione, complessità, sostenibilità. Com’è cambiato il suo punto di vista sul paesaggio urbano dai tempi del «Viaggio in Italia» (un pezzo di storia della fotografia condivisa con Luigi Ghirri) a oggi? Allora apparentemente, forse illusoriamente, tutto sembrava collegato, anche se non c’erano Internet e i telefonini. Esistevano esplicitamente meno gerarchie. Ora tutto mi sembra meno universalmente condiviso, più codificato: “il bar dei cinesi”, “i negozi extralusso”. Siamo molecole autosufficienti che non hanno necessità di comunicare fisicamente con i luoghi e le persone. L’illuminazione artificiale la aiuta a scoprire una città diversa da quella consueta? Il mio interesse per l’illuminazione artificiale prende vita in due momenti, prima, istintivamente, all’uscita dal cinema dove vidi Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Quando vidi la scena della foresta tropicale illuminata dai bengala, decisi che trovare immagini simili sarebbe stato quello che avrei fatto. Poi, razionalmente, studiando la storia della fotografia mi resi conto che, stranamente, nessuno aveva mai fotografato le città di notte a colori. L’illuminazione artificiale è l’altra metà del nostro tempo, appare circa negli stessi anni in cui nasce la fotografia. Sono due elementi imprescindibili della modernità e del nostro modo di vivere. Spesso lei inquadra le città dall’alto, in che modo lavora? Mi servo principalmente di elicotteri, raramente di piccoli aerei. Produco migliaia di immagini di cui ne conservo mediamente una dozzina, a volte meno. Ciò che mi interessa è il racconto della forma della città/metropoli contemporanea. È vero che non potendo riprendere Pechino da un elicottero ha deciso di fotografarne il modello? Cosa significa il passaggio dal piccolo al monumentale e viceversa? Si è vero. Nel 2008 non ottenni il permesso di sorvolare Pechino. La molla scattò quando appresi che esisteva un enorme plastico in scala dove tutto il costruito era precisamente rappresentato. Il passaggio dal piccolo al monumentale e viceversa è un esercizio fonda78 / 79 Olivo Barbieri site specific_HOUSTON, 2012 courtesy Yancey Richardson Gallery, New York mentale per capire. Rende possibile mettere in relazione forme, luoghi e concetti. Scoprire nuovi significati, possibilità, errori. Le è venuto mai desiderio di entrare con il suo obiettivo in uno di quegli edifici che inquadra da fuori, li vede mai come abitazioni e non come forme? Ho fotografato l’interno di edifici pubblici come le chiese e i cinema negli anni Ottanta, poi gli stadi, i tribunali e i centri commerciali negli anni Novanta, ma anche le normali abitazioni cinesi, quando non ne esisteva ancora un’iconografia fruibile. Z / V I S I O N I Lei è molto attratto dall’Oriente, com’è nato questo interesse? L’arte orientale mi ha sempre attratto molto, le stampe giapponesi, ma anche la statuaria indiana. Avevo amici che studiavano cinese e vivevano in Cina. Vedendo le fotografie che scattavano mi resi conto che stava accadendo qualcosa di epocale. Andai in Cina per la prima volta nel giugno 1989, casualmente durante i fatti di Tienanmen. Evento tragico che sancì il grande cambiamento, della Cina e forse degli equilibri del mondo. Da allora ci sono ritornato quasi ogni anno. Ho accumulato un ponderoso archivio di immagini. Il mio prossimo impegno sarà di raccogliere questi materiali in un unico progetto di libro e mostra. L’illuminazione artificiale è l’altra metà della vita, l’Oriente è l’altra metà del mondo. Lei ha iniziato molto presto a fotografare a colori, in un momento in cui era prevalentemente il bianco e nero a essere considerato degno di uno “scatto artistico”. In questa sua pionieristica scelta c’entra qualcosa il suo sguardo sulla metropoli? A sedici anni, in una giornata piena di luce, in vacanza al mare mi annoiavo e sfogliando delle riviste illustrate mi chiesi come mai non ci fossero immagini a colori di ciò che vedevo alzando gli occhi. Ebbi la certezza che la fotografia a colori sarebbe stata una delle arti più importanti del secolo scorso. Lei che ha girato tanto dove ha deciso di vivere? Vivo a Carpi (Modena), a poche centinaia di metri dalla casa in cui fui partorito, che ora non c’è più, perché demolita per fare spazio a una tangenziale. In realtà, forse vivo nei miei pensieri. E dove non vivrebbe mai di tutte le città che ha fotografato? Forse Dubai, anche se mi attrae. Qual è la sua città elettiva, il suo luogo dell’anima? Ovunque. Tutte le città dopo una settimana mi restituiscono l’inquietudine di andare in un altro luogo. Olivo Barbieri site specific_ISTANBUL 2011 courtesy Yancey Richardson Gallery, New York Olivo Barbieri site specific_SHANGHAI 2004 courtesy Yancey Richardson Gallery, New York 80 / 81 To feel at home Z / V I S I O N I Gea Casolaro Nel 2002, l’artista Bernardo Giorgi invitò un gruppo di colleghi ad accompagnarlo nel suo progetto Between Dresden & Prague per realizzare ognuno un proprio lavoro sull’idea di frontiera, lungo il viaggio a più tappe tra queste due città. Io misi a disposizione del pubblico dei fogli bianchi con una frase in tedesco o in ceco, di descrivere l’esterno della propria abitazione con testi e/o disegni. In un secondo momento, con i fogli compilati, andai a cercare degli edifici che corrispondessero a quelle descrizioni in un paese dall’altra parte del confine, rispetto a quello dei singoli passanti. Così, case descritte da abitanti tedeschi furono fotografate in Repubblica Ceca, e viceversa. Perché che differenza c’è tra noi e le persone che si trovano dall’altra parte di un confine? Di sicuro abbiamo tutti le stesse paure, le stesse necessità, lo stesso sollievo nel sentirci finalmente a casa. Ovunque essa si trovi. 82 / 83 Gea Casolaro To feel at home 2002 opera partecipativa carta, testi, disegni e foto su forex 6 dittici 29 x 52 cm cad. courtesy Gea Casolaro e The Gallery Apart Titina Maselli cittadina di se stessa Z / V I S I O N I Sabina de Gregori Se c’è stata un’artista che ha fatto della città un luogo da abitare, questa è senz’altro Titina Maselli. Nata a Roma l’11 aprile del 1924 in una famiglia colta, creativa e intellettuale, Modesta Maselli proveniva dalla borghesia illuminata: suo padre Ercole Maselli era un critico d’arte legato agli ambienti della pittura romana degli anni Trenta e la madre Elena Labroca faceva parte di una famiglia di musicisti imparentata con i Pirandello. La sua casa, in cui si respirava uno spirito democratico e sostanzialmente antifascista, era il luogo d’incontro dei grandi protagonisti della più illustre cultura novecentesca, da Luigi Pirandello a Silvio D’Amico. «A dipingere avevo cominciato presto, a undici anni. Mio padre Ercole era un critico d’arte militante, ma a me non interessavano gli artisti di cui si occupava, la Scuola Romana, il tonalismo, la metafisica. Quando a vent’anni cominciai ad andare in giro per la città per catturarne le immagini, per me la Roma monumentale, barocca o imperiale non esisteva, non avevo nessuna passione per il paesaggio romano. Cercavo la città moderna, e mi sembrava di scorgerla in un suo aspetto notturno e calcinoso» 1. Parlava così Titina Maselli, che subito dopo la guerra usciva di notte con il suo cavalletto, aggirandosi in una Roma fatta di detriti, povera e mortificata dalle bombe. Uno dei suoi luoghi prediletti era piazza Fiume, nei pressi di Porta Pia, che ha raffigurato molte volte rendendola irriconoscibile. Era il suo archetipo di modernità, quello che per lei era la città. Dopo il matrimonio con Toti Scialoja nel 1945, la Maselli tenne la sua prima mostra personale alla Galleria L’Obelisco. Era il 1948 e a presentarla in catalogo fu Corrado Alvaro che ne sottolineava in modo convinto la grande forza innovativa: «[…] Ella ardisce di mettere in un quadro un telefono, una macchina da scrivere, una di quelle cartacce che la notte fanno un grumo bianco sull’asfalto della città. […] Titina Maselli affronta qualcosa di più forte, la notte della città, delle strade desolate, dei dintorni delle stazioni, la massa degli edifici moderni che certo involontariamente ma felicemente le si atteggiano in qualcosa di già veduto, di antico. È a questo punto che il ricordo o la memoria e la cultura collocano i suoi oggetti in un’altra atmosfera. È oggi ed è ieri» 2. Già durante la sua formazione artistica aveva concentrato l’attenzione sul tema urbano in tutti i suoi aspetti: tra i luoghi che amava rappresentare c’erano persino gli stadi. L’attenzione di Titina non si concentrava sulla città monumentale, classica, bensì su quella periferica, priva di identità, irriconoscibile. Per lei la natura non aveva alcun tipo di interesse, si sentiva una cittadina moderna; in tutta la sua produzione non c’è un solo 1 La citazione è tratta da Elisabetta Rasy, Titina e i suoi esili, quel vizio del ritorno, «Corriere della Sera», a. XI, n. 14, Milano, 10 giugno 2004. 2 Corrado Alvaro, Titina Maselli, cat. mostra, Galleria L’Obelisco, ottobre-novembre 1948, Roma 1948. 84 / 85 Titina Maselli 1985 riferimento a elementi naturalistici, ai paesaggi, alla campagna, al mare, alle montagne: a malapena c’è spazio per il cielo, il più delle volte cupo, torvo, minaccioso, malinconico, un grumo nero come un pugno nella notte. Il suo spontaneo distacco dalle convenzioni si manifestava tanto nella scelta dei soggetti quanto nella selezione dei materiali: spesso, ad esempio, per il nero si serviva della pece presa dal carrozziere. Come la Maselli, anche il suo fraterno amico Renzo Vespignani, con cui ha condiviso per tutta la vita lavoro e amicizia, aveva lo sguardo concentrato sulla città marginale. In lui, però, la rappresentazione della Roma periferica voleva denunciare una condizione umana di squallore e povertà. La sua intendeva essere una pittura politica, caratterizzata da una presa di coscienza forte e schierata a favore del proletariato. Quello di Vespignani era uno sguardo realista che come scopo aveva quello di testimonianza e denuncia sociale. Tutto questo a Titina non interessava affatto. La Maselli è stata l’unica della sua generazione a raffigurare la città in modo dirompente, appassionato e necessario, come se non esistessero altro tipo di iconografie che valesse la pena dipingere. È stata anche significativamente diversa dalle generazioni precedenti. Anche Scipione, per esempio, aveva una visione della città coraggiosa e stridente, ma il suo stile risultava più angosciato e opprimente, parlava di tormenti, dèmoni interiori. Lì la città non aveva niente della modernità, del cromatismo aspro e del dinamismo di quella di Titina. I suoi colori scuri, pastosi e le forme tendenti allo sfaldamento, erano più vicini all’espressionismo nord europeo che alle immagini acute e squillanti della Maselli, che forse avrà guardato ai ponti di Joseph Stella e ai pugili di George Bellows. Titina Maselli era lontana da qualsiasi movimento, non apparteneva a nessun gruppo pittorico, a nessuna corrente artistica. Era affascinata dalle forme che riproponevano gli astrattisti ma la sua pittura non era astratta, è stata definita «la zia dei pop artist» ma da loro era molto diversa, si sentiva lontana dai neorealisti e dai futuristi, anche se aveva il senso del movimento e della dinamica: c’era in lei un potente desiderio di fare tabula rasa della sapienza della pittura e delle cose già note a favore dell’icasticità. L’idea della città moderna in Titina era molto più forte dell’attaccamento alla città dalle coordinate geografiche. Titina Maselli Calciatore e grattacielo 1978 collezione privata Per questo nel 1952, dopo la seconda mostra personale alla Galleria Il Pincio e la sua presenza alla VI Quadriennale di Roma (1951), lasciò tutto e si trasferì a New York. La città statunitense le rivelò quanto poteva essere coinvolgente la veduta spoglia, quasi velenosa della metropoli. Sembrava che gli spazi, gli ambienti e le luci invadessero gli orizzonti repressi, le fughe in profondità, i blocchi emergenti: era la città stessa che catturava. Come un polipo con i suoi tentacoli, il paesaggio urbano faceva paura con i suoi strapiombi di cemento e vetro, di rotaie, strade, automobili, fili dei tram, camion e treni, luci al neon, immagini pubblicitarie. New York le offrì la possibilità di portare al limite estremo le sue esperienze romane: ai palazzoni ottocenteschi si sostituirono i grattacieli e si ampliarono notevolmente le dimensioni dei suoi quadri fino a raggiungere i tre, quattro metri. New York è stata l’apice dei suoi primi dieci anni di pittura. Rimase negli Stati Uniti fino al 1955 dove fece due mostre alla Durlacher Gallery (1953, 1955) e si trasferì poi in Austria fino al 1958. Durante questo periodo, New York continuava a vivere nella sua memoria e per tutta la sua vita Titina non ha mai smesso di riflettere sull’esperienza americana, né di dipingerla. Aveva stravolto e acceso la sua tavolozza, che era tornata arricchita e stimolata, con una nuova riflessione sul colore e sul suo valore compositivo, valorizzato da una rinnovata gamma cromatica. Dopo una grande delusione d’amore, nel 1970 si trasferì definitivamente a Parigi. Viveva a La Ruche, le residenze per artisti messe a disposizione dal governo francese e amava andare ai marches aux puces, dove trovava stoffe e oggetti dorati che incontravano il suo amore per le decorazioni bizantine e i mosaici. Fondamentale per la sua carriera è stato l’incontro con il regista teatrale Bernard Sobel con cui ha lavorato a lungo, occupandosi di scene e costumi, fino al sodalizio determinante con Carlo Cecchi avvenuto nel 1989. Fino alla sua morte Titina ha vissuto tra Roma e Parigi, città con le quali mantenne sempre un legame viscerale, come New York, che continuava a vivere nella sua testa e nei suoi quadri. A Roma andò ad abitare a Trastevere solo perché le finestre della casa si affacciavano sui mosaici della chiesa di Santa Maria in Trastevere. L’oro delle tessere bizantine rifletteva la luce fin dentro il suo appartamento: voleva e poteva stare solo nella Roma che amava, aveva bisogno del bello, mettersi alla finestra e poterlo vedere, sempre. Si disperò quando, qualche anno dopo, crebbe un albero davanti alla finestra che copriva i mosaici. Titina ha sempre posseduto una forte, chiara e personale visione della sua vita e del mondo, che unita al grande coraggio che la caratterizzava le ha permesso una grande libertà, intima ed espressiva. Era un’artista e una donna sempre nel presente, capace di riconoscere la proiezione del sé ideale insito nella propria natura profonda e di rincorrerlo a qualunque costo. L’onestà intellettuale della Maselli non le concedeva scampo, era l’unico e il solo modo di vivere che conosceva, non c’era altra scelta. La proiezione di sé, unita al desiderio e al tentativo di una compiutezza esistenziale, provocava un urto: il risultato, non poco sofferto, era diventare pienamente ciò che si è. Le città che la Maselli ha abitato, Roma, New York e Parigi sopra a tutte, sono state la casa del sé, hanno smesso di essere geografia per diventare luogo dell’anima. 86 / 87 Dentro lo spazio scenico Renato Lori Lo scenografo, ha la capacità di immaginare e far realizzare i luoghi in cui sono ambientate le fantasie degli autori e dei registi. Tanto che lavori a uno spettacolo teatrale, a uno show televisivo o a un film, è lui che definisce come “abitare” lo spazio scenico. Lo spazio scenico può avere caratteristiche differenti in base alle sue utilizzazioni. In uno spettacolo teatrale può essere uno spazio pittorico, talvolta uno spazio fantastico quindi non reale, a volte realistico; si può anche trattare di uno spazio reale, fatto di volumi praticabili; addirittura può essere una ricostruzione realistica di un ambiente simile alla realtà quotidiana. Lo spazio scenico cinematografico è invece in genere realistico, spesso reale, anche perché raramente il cinema italiano si cimenta su territori fantastici o ricostruiti e spesso lo scenografo deve solo limitarsi a trovare le location adatte ad ambientare il film. Solo sporadicamente c’è la possibilità di ricostruire ambienti o di modificare e ri-arredare le location. Lo spazio della scenografia televisiva è sempre uno spazio reinventato: i programmi televisivi (ovviamente escludo le fiction che, in pratica, sono cinema utilizzato in televisione) hanno sempre una scenografia “inventata”, un’ambientazione che non riproduce la realtà ma che inventa delle spazialità adatte a ospitare un telegiornale, uno show cabarettistico, un programma di approfondimento giornalistico eccetera. Ogni scenografo ha un suo modo di lavorare. Per quanto mi riguarda, l’idea per una scenografia mi può arrivare in vari modi. A volte leggendo il testo dello spettacolo, altre volte, leggendo le note sul periodo storico in cui il lavoro è ambientato, a volte ancora anche sfogliando un libro di fotografie che non c’entrano nulla con quello che sto preparando. In genere, prima di mettermi a disegnare, dopo avere letto il testo e avere parlato con il regista, lascio passare qualche giorno in cui mi limito solo a pensare a quello che è il lavoro da affrontare. Spesso l’idea arriva mentre sei impegnato a ragionare su altre cose, mentre il cervello è libero da condizionamenti. Comunque vada, l’impostazione di una scena non può mai essere casuale o pretestuosa, deve sempre avere delle solide giustificazioni. È molto importante che lo scenografo si innamori del testo e che non lo affronti solo con il “mestiere”. Mi è capitato di lavorare con molti registi, ne citerò solo qualcuno: in teatro ho avuto modo di collaborare con Mauro Bolognini, Toni Servillo, Ugo Gregoretti, Mario Santella, Tato Russo, Mico Galdieri, incrociando sulla scena attori come Ugo Pagliai e Paola Gassman, Rosalia Maggio, Silvio Orlando, Sergio Rubini, Carlo Buccirosso, Francesco Paolantoni, Antonio Casagrande, Lucio Allocca, Enzo Moscato, Lando Buzzanca; in cinema ho avuto il piacere di lavorare, dapprima come assistente scenografo e arredatore, con Alfredo Giannetti (quasi dimenticato premio Oscar per la sceneggiatura di Divorzio all’italiana) Francis Ford Coppola nel Padrino – Parte III, Dario Argento, Gérard Oury, Neri Parenti, Nanni Loy; poi, come sce- V I S I O N I / Z Foto di scena del film Scacco Pazzo con la regia di Alessandro Haber L’opera da tre soldi con la regia di Tato Russo che ha inaugurato il Teatro Bellini nel 1988 nografo, con Stefano Incerti, Maurizio Zaccaro, Alessandro Haber, Valerio Jalongo, Massimo Martella, Nino Russo in film che si sono avvalsi di attori quali Al Pacino e Diane Keaton, Vittorio Caprioli e Marina Suma, Sergio Castellitto, Renato Carpentieri, Luisa Ranieri, Stefania Sandrelli, Tony Musante, Stefania Rocca, Claudio Santamaria, Barbara De Rossi, Barbara D’Urso, Arnoldo Foà, Virna Lisi, Giorgio Albertazzi, Gigi Proietti, Giancarlo Giannini, Mariano Rigillo, Anna Bonaiuto, Regina Bianchi e tanti altri. Generalmente i registi arrivano all’incontro con lo scenografo con un’idea già abbastanza precisa della scenografia che vogliono per lo spettacolo o per il film che devono realizzare. La scena, soprattutto in teatro, è una delle parti fondamentali della regia stessa e se il regista non avesse la minima idea di come la vuole impostare, significherebbe che non ha ancora chiaro quello che vuole mettere in scena. Mi è anche capitato di trovare registi che hanno lasciato a me la scelta dell’invenzione scenografica, o che, pur avendo una loro idea, dopo avere ascoltato le mie proposte, le hanno abbracciate con entusiasmo. Comunque non tutti hanno la capacità di visualizzare lo spettacolo, soprattutto della scenografia, prima che venga allestita. Spesso mi capita di chiudere gli occhi e di immaginare un momento dello spettacolo. Credo che una delle maggiori capacità richieste a uno scenografo sia proprio quella di “visualizzare” in anticipo le immagini che costituiranno i vari momenti della messinscena. L’idea di un elemento della scena può quindi nascere da un’immagine, anche solo da una sensazione. In alternativa si può partire dalla necessità di ottenere un preciso effetto in scena e quindi si individua una soluzione tecnica ideale per risolvere il problema. Spesso si è costretti a inventare soluzioni mai utilizzate prima. Le strade che portano alla scelta di un materiale da usare in scena piuttosto che di un altro, sono fondamentalmente due: una è data dalle sensazioni immaginate; l’altra è strettamente tecnica. Di certo la scenografia non può mai essere solo un elemento decorativo dello spettacolo. Anche nel caso in cui debba servire solo da sfondo (come in un recital, ad esempio) lo scenografo deve cercare un’interazione, al limite anche solo di significati, con quello che accade davanti a essa o con ciò che gli attori recitano. La scena “giusta” per uno spettacolo è quella che diventa insostituibile. Se lo si può fare anche senza la scena che abbiamo pensato, o con un’altra scena, vuol dire che abbiamo sbagliato scenografia. Oggi lo scenografo non dovrebbe mai partire da uno stile o da un’idea preconcetta su quale sia il tipo di scenografia giusto da usare. C’è stato un periodo storico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in cui era necessario non fare più scenografie pittoriche e illusionistiche, bensì volumetriche e create dalle luci come quelle di Adolphe Appia e Gordon Craig. C’è stato un periodo in cui era indispensabile fare scenografie realistiche, che portassero in scena oggetti presi dalla realtà che mai si era visti in scena, come per il Théâtre-Libre di André Antoine che, per rappresentare una macelleria, mise in scena veri quarti di bue. C’è stato un periodo, con il teatro di Bertolt Brecht in cui era giusto, al fine di dichiarare la finzio88 / 89 Renato Lori Bozzetto della scenografia di David Copperfield regia di Toni Servillo Foto di scena di Voci della città di Toni Servillo ne dell’allestimento, scoprire i meccanismi dell’illusione utilizzando siparietti che lasciavano gran parte dei cambiamenti visibili agli spettatori. Oggi tutto ciò è superato, l’atteggiamento dello scenografo deve essere oltre le avanguardie, ogni spettacolo può usare qualunque tipo di scenografia, purché sia giusta per quello che si vuole raccontare. Si può essere attuali e all’avanguardia tanto utilizzando un fondale dipinto, o adoperando materiali di recupero tipo ready-made; tanto immaginando una scenografia totalmente realistica accurata nei dettagli, così come immaginando una scenografia fatta di sole luci e proiezioni. Tutto può essere utilizzato come citazione storica, anche una scenografia di fondali dipinti, l’importante è che non si pensi che il fondale dipinto in prospettiva possa essere scambiato dagli spettatori per una vera fuga di colonne. Il mio modo di lavorare è in genere “professionale”. Credo che il lavoro dello scenografo necessiti di grande serietà e di una lunga preparazione. Dopo avere letto il testo ed essermene fatto un’idea mia, parlo con il regista e cerco di capire le sue esigenze e il “taglio” che vuole dare allo spettacolo. Se il suo modo di vedere lo spettacolo o il film non coincide con la mia idea, cerco di spiegargli le mie proposte. Alla fine, in ogni caso, è il regista a decidere l’impostazione della messa in scena e tutti i collaboratori devono seguirlo. La fase della vera e propria ideazione è preceduta sempre da un periodo di ricerca iconografica. È sempre assolutamente indispensabile documentarsi sul periodo storico, sull’autore, e visionare un gran numero di immagini, quadri e fotografie che possano suggerire delle soluzioni. È capitato più di una volta di sentirmi dire che una scena era inequivocabilmente stata fatta da me, a volte anche nel caso di una scenografia per il cinema, che raramente può essere molto caratterizzata. Evidentemente le peculiarità del mio modo di lavorare sono ben visibili. Credo che gli elementi più riconoscibili nel mio lavoro siano l’uso del colore, quasi sempre dominante, spesso caldo, in genere poco realistico; una forte presenza del segno grafico e probabilmente uno sguardo un po’ ingenuo, quasi infantile sulle cose del mondo. In teatro amo gli effetti semplici quelli che funzionano subito senza richiedere meccanismi complicati e farraginosi, e comunque, se necessari, è fondamentale che questi siano ben nascosti e che non dichiarino la loro esistenza. Tutto deve risultare semplice e fluido. In cinema mi piace che la scenografia abbia un carattere: che non sia anonima, che le case dei personaggi non siano degli “show room”, ma che rispecchino il carattere di chi ci vive raccontandone la storia, che i colori siano forti e decisi e che diano uno sfondo che abbia sempre un carattere forte. Una volta un regista mi ha detto «questa casa è talmente esplicativa del carattere dei personaggi che potrei tagliare alcune battute della sceneggiatura». Credo di avere imparato questo modo di lavorare in gran parte al fianco di scenografi e registi americani, primo fra tutti Dean Tavoularis. Fra la scenografia teatrale e quella cinematografica ci sono differenze tecniche anche grandi, ma in definitiva lo scopo del nostro lavoro è sempre lo stesso: aiutare, attraverso l’ambienta- V I S I O N I / Z zione, a raccontare la storia, a definire i personaggi, e aiutare il regista a rappresentare il suo punto di vista sul racconto. In proposito credo valga la pena di ricordare alcuni lavori che trovo particolarmente significativi nella mia carriera professionale. In teatro, molto interessanti, sono state per me le due scene create per il Teatro Studio di Caserta, la compagnia di Toni Servillo prima della fondazione di Teatri Uniti. La prima opera realizzata con Toni nel 1984, in piena “Nuova Spettacolarità” fu il David Copperfield. Per questo lavoro, che avrebbe debuttato al Teatro Argentina di Roma, Toni mi chiese una scenografia molto solida, molto realistica, in cui ambientare il suo spettacolo che di realistico non aveva quasi nulla. La scena era la camerata di un collegio inglese di epoca vittoriana, tutta rivestita di legno con boiserie e caminetto. Sul lato sinistro tre lettini in fila uno dietro l’altro. Pensai di ispirarmi per la loro forma al letto di Little Nemo in Slumberland, il fumetto di Winsor McCay del primo decennio del Novecento in cui un bambino fa dei viaggi fantastici volando con il suo letto, mentre dorme e sogna. Mi sembrò quella la citazione migliore da utilizzare! L’arredamento della scena era leggermente più grande del normale, gli attori dovevano apparire grandi come dei ragazzini rispetto ai mobili. In questa scena solida, quasi massiccia, c’era un susseguirsi di “effetti”, di “apparizioni”: Una mela gigantesca, un po’ magrittiana, veniva presa da un armadio, lo specchio appeso sul fondo sopra il caminetto si apriva come per magia e lasciava apparire un roseto, un trenino di legno attraversava il boccascena, i cassetti dei due mobili “in prima” si aprivano e, più lunghi del normale, si rivelavano pieni di ghiaia ed erba, e due dei ragazzi iniziavano a correrci dentro; un plastico che riproduceva l’ambiente veniva portato in scena e i tre giovani lo osservavano, giganteschi rispetto alla riproduzione dello spazio che li conteneva, per poi riapparire, in alto, al di sopra della vera scena, ma questa volta loro piccoli e la scena enorme Avevo da un paio d’anni iniziato a lavorare anche per il cinema e la possibilità di ideare e progettare una scena così costruita e realistica capitò proprio a fagiolo! L’anno successivo realizzammo Voci della città. Questo spettacolo ebbe una gestazione piuttosto lunga e nelle mie cartelle ne ritrovo ben tre versioni, completamente differenti l’una dall’altra, la prima si ispirava a immagini glamour: una grande bocca rossa femminile appariva in un limbo di luce bianca. In una seconda versione sul bozzetto appare una Parigi un po’ fumettistica, una via di mezzo fra i quadri di Utrillo e le linee di Wolinski. Quella definitiva si ispirò ai disegni di Jean Cocteau. Il testo era liberamente tratto da La voce umana di Cocteau e quindi mi sembrò utile utilizzare il suo segno come cifra stilistica. Il punto di partenza più importante di tutto lo spettacolo era però che il protagonista del testo era un cieco, un cieco che attraversava Parigi facendo suonare il suo pianino, e a quel pianino c’erano attaccati alcuni disegni che evidentemente lui stesso vendeva. Erano il bozzetto della scenografia ripetuto più volte, la Parigi rappresentata da un segno grafico leggero, sospeso in aria, una Parigi immaginata da un cieco, appunto, che nulla aveva di realistico. Non so quanti spettatori abbiano compreso l’assunto (alcuni critici di certo), ma l’idea era proprio questa. Il disegno si arrampicava sulle quinte e man mano che andava verso l’alto le telette diventavano più trasparenti. In basso si partiva da una base armata in compensato, poi, man mano che si saliva si passava alla tela e poi a più strati di tulle e in cima il tulle diventava in singolo strato, leggero e trasparente, il segno nero spiccava poiché era realizzato con del nastro nero cucito sulle quinte. In questa scena già di fantasia si susseguivano una serie di effetti: nevicava in una cabina telefonica, le lettere uscivano da una cassetta della posta, per essere lanciate verso l’alto, 90 / 91 per poi ricadere in una sorta di fondale interamente fatto di buste, la casa dove abitava la signora, con cui il cieco dialogava in silenzio, appariva grazie alla trasparenza della sua facciata, che in alcuni momenti si ricopriva di stelle mentre tutta la scena diveniva blu notte, così come, in un altro momento, da un negozio, due guanti si spostavano ad accarezzare l’immagine di Servillo riflessa in uno specchio semitrasparente applicato sulla porta dello stesso. Numerosissime erano le immagini che si susseguivano. A differenza degli spettacoli inquadrabili nella “Nuova Spettacolarità”, realizzati in quel periodo a Napoli da Mario Martone con la compagnia “Falso Movimento”, in cui le immagini erano al novanta per cento proiezioni di diapositive, i due spettacoli di Servillo erano fondati su un susseguirsi di immagini ottenute attraverso “effetti” di scenografia. Per il cinema uno dei film che mi ha maggiormente soddisfatto dal punto di vista della realizzazione scenografica è stato Scacco pazzo, del 2004, con la regia di Alessandro Haber. Un film che prevedeva la ricostruzione, in teatro di posa, di un grande appartamento, cosa piuttosto rara nel cinema italiano di oggi. La vera preparazione del film, girato a Torino, con alcune location esterne e la ricostruzione del grande appartamento negli studi di San Giorgio Canavese, iniziò solo (come purtroppo spesso accade) quattro settimane prima dell’inizio delle riprese. Avevo preparato piante, sezioni e un piccolo plastico a Napoli, comunicando con Haber via telefono e via e-mail; ma la vera partenza del lavoro avvenne solo un mese prima del ciak di inizio. Partendo per Torino passai a Roma da Haber per mostrargli il plastico della scena. Alla fine delle riprese Haber mi ha detto: «Ti debbo confessare che quando ti ho visto partire per Torino pensavo che non ce l’avresti mai fatta a finire la Casa di Antonio in quattro settimane». In effetti l’andamento del lavoro fu del tutto anomalo, sebbene ben organizzato perché, al contrario di quello che si fa normalmente, cioè cercare prima gli esterni e poi disegnare e costruire gli interni raccordandoli alle location esterne trovate, incominciammo a costruire prima e poi iniziai a cercare le location esterne, sperando di trovare un edificio che potesse corrispondere a quello che avevamo realizzato in studio. Per quel film, visto che la sceneggiatura veniva da un testo teatrale, decisi (in accordo con Haber e la produzione) di puntare su di una ricostruzione in studio, certamente di tipo cinematografico, ma che nelle scelte coloristiche, nelle patine e nell’arredamento, strizzasse l’occhio al teatro. Fu così che feci realizzare una casa con un forte carattere, carica di colori, con carte da parati degli anni Settanta molto disegnate e scure, coperte da patine lugubri e decise. Per la cucina e il bagno scelsi mattonelle dai colori molto decisi, che poi feci scurire e sporcare in maniera perfino eccessiva. È un tipo di trattamento che spesso gli scenografi cinematografici non utilizzano, per timore di osare scelte troppo forti e decise. Il risultato è che spesso, a causa di questa mancanza di coraggio, le case, soprattutto quelle che vediamo nelle fiction, somigliano agli show-room dei negozi di arredamento. Il mio lavoro piacque molto al regista e le mie scelte furono premiate con una candidatura ai Nastri D’argento 2004, premio assegnato dai critici cinematografici. In fondo uno scenografo lavora soprattutto per questo. In giro per bordelli, tra arte, cinema, letteratura Z / V I S I O N I Andrea Zanella In una serata d’inverno nella visionaria Romagna di Amarcord, si sente uno sferragliare di ruote e rumore di zoccoli di cavalli al trotto, inizia la celebre musichetta di Nino Rota, i vitelloni locali si agitano, la Gradisca, strizzata nel suo cappotto rosso, sospira sognante e i ragazzi saltano per farsi vedere da quelle cinque signore in carrozza, tutta la città si volta, commenta, ammira; alla fine della scena il narratore ferma la sua bicicletta, apre le braccia e ammicca… era il passaggio atteso della nuova quindicina… Per chi è nato dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso la “quindicina” è soltanto un’indicazione quantitativa, ma per gli italiani di sesso maschile che ancora verso la fine di quel decennio erano in età adulta e non solo per loro, “quindicina” era una parola evocativa, che schiudeva l’immaginazione a piaceri neanche tanto proibiti: le signorine che passavano in carrozza prestavano il loro servizio bisettimanale nel bordello locale per poi andare in un altro bordello in un’altra città. A Rimini come a Roma, a Padova, a Venezia, a Milano o a Napoli e in tutte le città dell’Italia continentale e insulare, la tradizione era la stessa – per legge – e soprattutto il passaggio della quindicina era un avvenimento tanto atteso quanto incisivo. Qualcuno adottava un tono sdegnoso, ma le mogli borghesi sapevano bene che era meglio che i mariti andassero a rinfrescare il loro desiderio al bordello piuttosto che avessero un’amante fissa che poteva distruggere la quiete domestica o trascinare la famiglia nello scandalo. In fondo aveva ragione Indro Montanelli, quando diceva che era proprio nei postriboli che i tre “puntelli” dell’edificio nazionale italiano, fede, famiglia e patria, trovavano la più sicura garanzia. Di antica istituzione, i bordelli, casini, postriboli, lupanari, case di tolleranza, case chiuse o in qualsiasi altro modo si vogliano chiamare, sono sempre stati istituzioni importanti, ma il loro periodo d’oro è stato negli ultimi cento anni della loro storia, in quel periodo che va dalla metà del XIX secolo al secondo dopoguerra, quando in quasi tutta l’Europa vennero banditi. Altri tempi, altre idee, altro modo di vivere la differenza tra i sessi, altro modo di vivere la sessualità, la famiglia, la coppia: negli ultimi sessant’anni molte cose sono cambiate. Chiuse le case di tolleranza, però, non è finita la prostituzione né sono finiti i bordelli come luoghi in cui avviene lo scambio di favori sessuali in cambio di denaro. Chiamati saloni di massaggi o altro, i bordelli esistono ancora, abusivamente, e la prostituzione e il suo sfruttamento pure. Dal momento in cui ebbero una regolamentazione (e in Europa cominciò il Belgio nel 1844, per controllare la recrudescenza della diffusione della sifilide), i bordelli ebbero uno statuto e una esistenza certificata, trovando in alcuni quartieri della città la loro collocazione. A Parigi, quella che fu la capitale occidentale di tutte le arti, compresa quella amatoria, nel XIX secolo erano celebri il Palais Royal e la zona dei Grands Boulevards, in un perimetro che qualcuno ebbe l’idea di nominare le clitoris de Paris 1; a Londra erano famose le case di Soho, come La maison 1 Hervé Manéglier, Les artistes au bordel, Flammarion, Paris 1997, p. 22. 92 / 93 Amarcord 1973 regia di Federico Fellini Blanche o quelle di Pall Mall o dei sobborghi, dove le varie Mrs Jenkins o le Miss Wilkinson di turno offrivano minorenni 2. A Roma, le case erano in centro, nelle parallele e nelle traverse di via del Corso e nelle strade vicino alla Stazione Termini: la più famosa per la bellezza delle ragazze e per la clientela che la frequentava era «le Tre Venezie» a via Capo le Case, ma situazioni più economiche si trovavano anche a Borgo Pio o al rione Monti 3. A Milano fu celebre la «maison» di via Fiori Chiari, dove fu tenutaria la Wanda di montanelliana memoria. A Napoli, dove la prostituzione trovava alloggio soprattutto nei quartieri spagnoli e nel Borgo di Sant’Antonio dall’epoca di Ferdinando di Borbone, «La Suprema» in salita di Sant’Anna di Palazzo era uno dei casini più rinomati prima della legge Merlin 4. L’articolo 5 del decreto Crispi del 29 marzo 1888 definiva case di prostituzione «quelle case o piani di case, in tutto o in parte affittate a scopo di prostituzione, ancorché ciascuna meretrice viva isolatamente», mentre l’articolo 6 stabiliva che non potevano avere «che una sola porta d’ingresso», e il 7 che non potevano aprirsi case «in prossimità di scuole ed altri edifici destinati al culto, all’istruzione ed educazione, a caserme, ad asili d’infanzia o ad altri luoghi di riunione di gioventù» e, secondo l’articolo 10, il proprietario dell’immobile doveva dichiarare che consentiva «l’uso della casa a scopo di prostituzione». Siccome l’adescamento era perseguibile, non dovevano esserci insegne; eppure i bordelli erano riconoscibilissimi da inferriate, balaustre e decorazioni plastiche fortemente allusive, che ancora oggi permettono l’identificazione dell’antica destinazione d’uso di alcuni palazzi nei quartieri storici delle città. Altre leggi, più volte modificate stabilivano i prezziari che variavano a seconda della clientela, politici, professionisti, operai, studenti e militari. Per quanto riguarda gli interni, il famoso divano rosso di Toulouse-Lautrec ha dato il via a un’idea di bordello come un lussuoso salone con divani e tende in tessuti pesanti dai colori forti, stucchi e dorature, ma non era sempre così, dipendeva da tanti fattori. In principio i bordelli avevano una struttura simile – con un salone dove si teneva la cassa, le ragazze sfilavano, e i perditempo «facevano flanella» e una zona riservata alle camere, spesso collocate a un piano superiore – la decorazione e l’arredamento cambiavano a seconda della classe sociale di chi frequentava il luogo e al prezzo che si pagava. Se Toulouse-Lautrec produsse qualche pannello decorativo per il Salon de la rue des Moulins, raramente la decorazione delle case era affidata a grandi artisti e non sempre i dipinti, che il più delle volte raffiguravano donne nude, erano di qualità. 2 Paul Morand, Londres, Plon, Paris 1933, p. 108-110. Claudio Colaiacomo, Roma perduta e dimenticata, Newton Compton, Roma 2013. 4 Sulla prostituzione a Napoli si veda Cinthya Rich, Paolo Izzo, Au bord de l’eau. Prostituzione e case chiuse a Napoli da Carlo di Borbone alla Merlin, Stamperia del Valentino, Napoli 2008. 3 V I S I O N I / Z Maryse Choisy, una giornalista francese che nel 1928 si fa passare per una cameriera di bordello per condurre un’inchiesta sulla prostituzione a Parigi descrive il salone di una casa di tolleranza come «un compromesso tra falso stile Direttorio e falso moderno. Un salone borghese. Viene di cercare l’album con le fotografie di famiglia» 5. Ma spesso vi si trovavano oggetti che richiamavano chiaramente gli attributi sessuali maschili e femminili – appendiabiti e tavolini fallici, fontane e tazze che ricordavano la vagina e i seni femminili –, o dipinti e quadretti ammiccanti, come quello di una collezione privata che mostra il corposo deretano di una donnina che si inchina. Altri, più all’avanguardia, diedero vita a un design specializzato non privo di una sua eleganza 6. Sublimati dalla letteratura, dalla pittura e infine dal cinema, questi templi del piacere hanno ispirato l’immaginario di molti e soprattutto fornito spunti per opere destinate a fare storia come Les Demoiselles d’Avignon. Se fino al Secondo Impero alla realtà dei bordelli si faceva solo allusione, dagli anni Sessanta dell’Ottocento in poi, con l’opera grafica dei francesi Degas e Guys, quest’ultimo celebrato da Baudelaire come peintre moderne e poi del belga Félicien Rops 7, il bordello diventa un soggetto esplicito. Da allora, il tema si ritrova nell’opera di Bernard, Van Gogh, Forain, Munch, e soprattutto di Toulouse-Lautrec, che definiva il bordello come il laboratorio dell’artista e del quale son celebri le varie riprese della rue des Moulins, fino ad arrivare a Picasso, Vallotton, Sickert, Rippl-Rónai, Picabia, Van Dongen, Foujita, Hopper, Orozco, o i meno noti Żmurko (polacco), Kustodiev (russo), Szekely (ungherese), Reginald Marsh (americano) o Paul Cadmus (francese) 8. L’arte figurativa italiana resta un po’ arretrata rispetto alla scelta di un soggetto così moderno, forse per puritanesimo e forse perché nella nazione, disunita fino al 1870, le leggi unitarie arrivarono relativamente tardi rispetto al resto dell’Europa. Non che i bordelli mancassero, ma non era un soggetto da trattare esplicitamente. Non mancano tuttavia allusioni ai rapporti adulterini, che spesso si esplicitano nell’ambiguità del rapporto artista/modella (è vero che le prostitute, abituate a spogliarsi, erano delle brave modelle), e alle prostitute. La Prostituta in terracotta di Arturo Martini, del 1913, è un monumento alla professione. Conversazione platonica un enigmatico dipinto del 1925 di Felice Casorati, dove un uomo vestito di tutto punto dietro al corpo nudo di una donna dallo sguardo invitante, è emblematico del “si fa ma non si dice” della cultura italiana di quegli anni. La fotografia dell’inizio del XX secolo documenta la clientela e le pratiche del bordello, ma è il cinema del secolo scorso che offre le migliori immagini sul tema, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, da A House is not A Home di Russel Rouse (1964), su una celebre casa di tolleranza newyorchese, a Il più antico mestiere del mondo (1967), film a episodi diretti da Bolognini, Autant-Lara, Godard e altri. Il bordello o la tenutaria assurgono a soggetto cinematografico protagonista in McCabe & Mrs. Miller di Robert Altman (1971), in Madame Claude (1977), la celebre maitresse parigina di Just Jaeckin, in One Two Two – 122 rue de Provence di Christian Gion dello stesso anno, o ancora in Escape to Athena (1979) di George P. Cosmatos dove Claudia Cardinale interpreta il ruolo di una tenutaria impegnata nella resistenza greca. Lo One-Two-Two della rue de Provence è anche il luogo dove è ambientata la serie a fumetti Casino, pubblicata da Leone Frollo, curioso creativo italiano, tra il 1985 e il 1987. 5 Maryse Choisy, Un mois chez les filles, Stock, Paris 2015, p. 45. Nicole Canet, Décors de bordels. Entre intimité et exubérance 1860-1946, Editions Nicole Canet, Paris 2011. 7 Niekke Bakker, Maison closes. Le bordel comme sujet moderne, in AA.VV, Splendeurs & misères – Images de la prostitution 1850-1910, cat. de l’exposition, Paris, Musée d’Orsay 22 septembre 2015-17 janvier 2016 e Amsterdam, Van Gogh Museum 19 February-19 June 2016, Musée d’Orsay et Flammarion, Paris 2015, p. 120-173. 8 Emmanuel Pernoud, Le Bordel en peinture. L’art contre le goût, Adam Biro, Paris 2001. 6 94 / 95 Manlio Giarrizzo Pensione Bel Soggiorno 1947 olio su tela Napoli, Galleria dell'Accademia di Belle Arti Il bordello si offre come teatro di vicende politiche in Film d’amore e d’anarchia. Ovvero “stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973), scritto e diretto da Lina Wertmüller. Negli stessi anni, da Telefoni bianchi (1976) di Dino Risi a Che la festa cominci (1975) di Bertrand Tavernier, tanto per citarne due, le immagini dei bordelli al cinema non mancano. Tra la filmografia recente sul tema è sicuramente da citare L’Apollonide – Souvenirs de la maison close (2011) di Bertrand Bonello, più incentrato però sui cerimoniali di queste istituzioni e sul destino delle ragazze che vi lavoravano. Tra tutti, sono Federico Fellini e Tinto Brass a dare un immagine visionaria e nostalgica del bordello. Il primo con Roma (1972) e poi con La città delle donne (1980) e il secondo con Salon Kitty (1975) – storia di un bordello, frequentato dalle SS, che viene spostato dalla sua sede storica nel centro della città, in un edificio più moderno, attrezzato con strumenti per lo spionaggio, dove le prostitute sono delle giovani naziste – e poi con Paprika (1991), in cui una giovane prostituta slava, redenta grazie a un ricco matrimonio, conclude la sua vicenda con la festa di chiusura del bordello veneziano dove aveva iniziato la carriera. Era il 20 febbraio 1958 e andava in vigore la legge Merlin che sanciva la chiusura delle case di tolleranza. Forgiata su modello della legge Richard adottata in Francia quasi dieci anni prima, la legge Merlin si poneva alla fine di un percorso già iniziato nel 1948 dal ministro degli Interni Mario Scelba che aveva smesso di rilasciare concessioni per l’apertura di nuove case. Nel 1955, poi, l’Italia era faticosamente entrata a far parte delle Nazioni Unite e ciò implicava l’accettazione di alcune clausole tra cui la convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione. Per la consacrata istituzione del bordello non c’era scampo, nonostante le levate di scudi di politici e intellettuali. La vita doveva cambiare, non solo per le 3000 impiegate dei 600 bordelli italiani che si trovarono senza lavoro, ma anche per quegli edifici che erano stati adibiti all’onorato servizio. Cosa successe di quegli edifici, è ancora un regista a raccontarcelo. Mauro Bolognini, in Arrangiatevi! (1959), narra la storia di un pedicure (Peppino De Filippo) e delle sue vicissitudini da quando va ad abitare, con la famiglia, in un lussuoso palazzetto del centro con fontane e scalone, ornato di sculture: otto camere, tutte con lavandino, e due salottini (quello polacco e quello cinese), tre bagni, accessori e telefono per sole 10.000 lire al mese, «c’è solo un problema – dice l’untuoso mediatore Calamai (Vittorio Caprioli) che si accompagna con Siberia (Franca Valeri) ex impiegata della maison. – No, non è abitata dai fantasmi, è solo una questione di mentalità… queste case, una volta che le hanno chiuse, cosa ne fanno, le buttano giù? Macché, le fittano, siate moderno – è una casa come tutte le altre e la sora Gina la vole dà a ‘na famija per bene’ per ridaje un cachè all’ambiente», aggiunge Siberia. Il nonno (Totò) scoprendo delle decorazioni erotiche sotto la carta da parati si ricorderà di essere stato in quella casa e sarà proprio lui a tenere un discorso memorabile al piccolo pubblico che si era affollato davanti al portone vedendo la casa abitata e credendo nella riapertura della Sora Gina: «E lo volete un consiglio, militari e civili, piantiamola con queste nostalgie! Oltre che incivile, è inutile! Oramai li hanno chiusi! A voi italiani è rimasto questo chiodo fisso, qui. Toglietevelo! Oramai li hanno chiusi! Arrangiatevi!». Christian Leperino, Preparazione di Landscape of Memory, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli 2012 IDEE DE Antonio Carnevale Il vero e il falso di Vila-Matas / Monica Torrusio Le parole e le case / Fina Serena Barbagallo Voci senza tempo Christian Leperino, The Other_Myself, 2014, gesso, Collezione Museo MADRE Napoli (fasi di lavorazione) Il vero e il falso di Vila-Matas Z / I D E E Antonio Carnevale Può esistere un esercizio di critica d’arte fondato sulla categoria dell’abitare? Un esempio è Kassel non invita alla logica, nuovo lavoro dello scrittore spagnolo Enrique VilaMatas. Per qualcuno, l’unico modo di fare critica d’arte, oggi, è scrivere un’opera che abbia lo stesso soggetto-oggetto dell’opera stessa che intende giudicare. Il lavoro di Vila-Matas ne è un fulgido modello. Ma è anche di più: è come quel tavolo che secondo gli scienziati non può stare fermo perché gli atomi al suo interno spingono in ogni direzione. Prendiamo quel tavolo, allora. Mettiamolo al centro del viaggio di VilaMatas: in un ristorante cinese alla periferia di Kassel, in Germania, perno esatto della narrazione. Tutto ha inizio con una telefonata. Chus Martínez, membro dello staff curatoriale di Carolyn Christov-Bakargiev, invita lo scrittore, per conto della direttrice, a «far parte di Documenta» nell’edizione del 2012. L’invito non è a scrivere un romanzo sulla manifestazione. Bensì ad abitare la rassegna, diventarne una sorta d’installazione. 100 / 101 Vila-Matas si sarebbe dovuto trasformare in un’opera d’arte vivente. Avrebbe dovuto sostare alcune ore della giornata, per diverse settimane, in un ristorante cinese alla periferia di Kassel. Stare semplicemente seduto a scrivere: questo gli era chiesto, esattamente come avrebbe fatto al tavolo di casa propria, a Barcellona. Nessun tema era specificato circa la materia della sua scrittura. «In sostanza, mi chiedevano solo che scrivessi e, questo sì, che cercassi di entrare in relazione con chi faceva il suo ingresso nel ristorante e voleva parlarmi, perché dovevo sempre tenere presente che “interconnettersi” sarebbe stata una filosofia e una raccomandazione molto comune a Documenta 13». Se quella telefonata d’invito è l’avvio del romanzo, ciò che segue non sarà però la cronaca dell’esperienza di Vila-Matas come opera d’arte vivente. Lo scrittore “interconnesso” agli avventori, l’“intellettualeinstallazione”, così com’era stato immaginato da ChristovBakargiev, avrà, infatti, poca fortuna: soltanto un avventore si rivelerà interessato a “interconnettersi”. Moltissima fortuna avrà invece l’interazione di Vila-Matas con l’intera città, con le installazioni in mostra a Documenta e con il pubblico di queste. Lo scrittore si definirà presto un «nuovo abitante di Kassel». Di questo scriverà nel suo romanzo pubblicato due anni più tardi (e arrivato in Italia per Feltrinelli 2015). L’opera d’arte da giudicare sarà dunque l’intera Kassel, città divenuta arbitraria sineddoche dell’arte contemporanea, meta di un viaggio (non soltanto fisico) nel dibattito corrente sul «declino delle avanguardie». Vila-Matas ha un modo sui generis di raccontare i viaggi. C’è sempre un personaggio, nei suoi libri, che si muove da un luogo all’altro, e che racconta quanto gli accade attorno. Non soltanto i fatti avvenuti diventano materia della narrazione, ma pure quelli immaginati, che finiscono poi col mischiarsi a impressioni, ricordi, libri, sogni. In questo viaggio a Kassel, le abituali connessioni centrifughe si fanno però centripete. Tutte convergono verso un solo bersaglio, a tradursi cioè nel tentativo di rispondere a un preciso quesito: «l’arte contemporanea è un bluff o una cosa seria?». La domanda non è da poco, è di quelle che si porrebbe oggi un Socrate reloaded, come quello che compare nei Dialoghi di Platone. Vila-Matas si cimenta da sé. E il suo bilancio sarà positivo, dispensato senza perplessità. Per Vila-Matas, l’arte contemporanea (anche quella più insondabile, oscura, provocatoria) è cosa serissima, infatti, e la risposta arriverà cristallina in diversi punti della narrazione. Spetterà al lettore dargli ragione o torto, caso per caso. Qui c’interessa però un’altra faccenda: per rispondere al suo dilemma, lo scrittore considererà sovente metafore inedite per la critica d’arte, userà spesso, cioè, i luoghi dell’abitare come emblemi privilegiati della sua riflessione critica. Appena approdato a Kassel, per esempio, scartato l’infruttuoso ristorante cinese, Vila-Matas comincia a pensare a un luogo dove costruire la propria «capanna per pensare». Non gli basta essere lì. Gli serve un luogo fisso che funga da rifugio decentrato, deputato alla riflessione. «Il mio modello era Skjolden, scrive, il luogo in cui Wittgenstein era riuscito a isolarsi, a sentire la propria voce e a confermare che si poteva pensare meglio da lì che non dalla cattedra». Non è peregrino il riferimento a Wittgenstein. La rassegna di Documenta 13, infatti, con il suo approccio multidisciplinare, si offre come momento eccentrico dell’arte: non si rivolge agli addetti ai lavori, non al mercato, si afferma invece come luogo di «idee, dialoghi e narrazioni parallele», ovvero di rapporti paritetici tra discipline differenti, secondo il noto approccio di Carolyn Christov-Bakargiev. Ecco perché Wittgenstein, allora. Il filosofo tedesco è colui che «aveva iniziato a rivolgersi dalla capanna a coloro che volevano iniziarsi a un nuovo modo di vedere le cose e non alla comunità scientifica, né alla cittadinanza». Per il filosofo, specifica Vila-Matas, «pensare poteva arrivare a essere un’impresa artistica. Il suo ideale filosofico era stato la ricerca di lucidità liberatrice, di apertura della coscienza e del mondo; non voleva offrire verità, ma veridicità, esempi e non ragionamenti, motivi e non cause, frammenti e non sistemi». C’è forse qualcosa di più consonante con le intenzioni curatoriali alla base di Documenta 13? Questo è soltanto uno dei numerosi esempi di fitta coincidenza tra il punto di vista dello scrittore e quello della curatrice. Nei dialoghi, nei ricordi, nelle riflessioni, persino nei sogni di Vila-Matas esplodono, sistematicamente, i temi programmatici di Documenta 13. L’autore non manca di specificare (lo fa spesso) che nel suo peregrinare fra le opere (nell’abitare la città) ha sempre al suo fianco un accompagnatore che lo guida verso il senso dell’opera che ha di fronte, o verso l’intenzione dell’artista. Nella sua «capanna» egli ricerca poi informazioni online. Non si tratta di espedienti narrativi, non è questione di rabboccare l’esperienza diretta con elementi teorici. È invece la spia di un tratto costante nell’arte contemporanea: divenuta inaccessibile al pubblico senza che un contributo informativo ne fornisca chiavi d’ingresso. Non è un caso, allora, l’insistenza sul tema dell’incomunicabilità: non in riferimento alle opere, bensì alla sua esperienza personale, ovvero biografica e professionale. È impossibile non cogliere un nesso implicito con Documenta nel (beckettiano) dialogo immaginato dall’autore con l’unico avventore del ristorante cinese interessato a “interconnettersi”, dove il tema di «collasso e recupero» (tema esplicito di Documenta 13) conduce il discorso, come pure fa nel brevissimo dialogo tra Vila-Matas e Carolyn ChristovBakargiev, pur trasposto in chiave di resoconto comico. «Mi sembrò un dato ormai assolutamente oggettivo che ogni volta che l’incomunicabilità si affacciava tra noi due, il nostro rapporto collassava, per poi riprendersi in modo immediato, e viceversa, ed era come se davvero il fatto di crollare e di riprendersi potessero comporre un’unica figura e condividere perfettamente l’istante», scrive ancora Vila-Matas, alludendo al suo rapporto con un altro personaggio del romanzo. «E I D E E / Z così, parlando di una cosa e dell’altra, in realtà speculando filosoficamente o aspirando a farlo – probabilmente l’attività più essenziale dell’arte contemporanea – il buio prese a cadere su Kassel e tutto si spense con la lentezza di un martedì qualunque sulla Terra». Il pensiero è arte, dunque, per Vila-Matas: il concetto, non la forma, ha preminenza nell’«accadimento» artistico. Le luci si accendono e si spengono a Kassel, si entra e si esce fra luoghi luminosi e bui, illuminanti e oscuri. Nella sua camera d’albergo alla periferia della città, suo wittgensteiniano rifugio, lo scrittore si rende presto conto che quella «capanna» (citata 27 volte in 254 pagine) è un ideale luogo soprattutto per «ritornare». «Non ci misi molto ad accorgermi che sull’autobus, a differenza di quanto avveniva nel mio spazio di meditazione nella capanna, pensare risultava semplicemente rilassante e contribuiva perfino a far evaporare gran parte dei fantasmi della notte insonne». Bisognava cioè fare esperienza della vita, della città, e dell’arte, e solo dopo tornare a casa, semmai, per metabolizzarne il senso. In questo viaggio divenuto residenza, a colpire maggiormente l’autore saranno le installazioni/ ambienti: luoghi (ancora una volta) in cui poter entrare fisicamente, dove poter stare, dove sperimentare il proprio essere senziente. This Variation, di Tino Sehgal, è 102 / 103 descritta come «uno spazio nelle tenebre, un luogo nascosto in cui una serie di persone attendeva i visitatori per avvicinarsi a loro e, se lo ritenevano opportuno, cantare canzoni e offrire l’esperienza di vivere un’opera d’arte come qualcosa di pienamente sensoriale». Sehgal – com’è noto – rifiuta l’idea che l’arte abbia un’espressione fisica. Della sua opera non sarebbe rimasta traccia nemmeno nel catalogo di Documenta 13, lo stesso artista aveva chiesto alla direttrice di rispettare il suo desiderio di essere invisibile. «Duchamp allo stato puro, pensai. E mi ricordai di quella tenda sotto la quale lavorò per tutta un’estate a Cadaqués e che alla fine gli servì per proteggersi dal sole o, detto meglio, per installarsi nell’ombra, il suo territorio preferito. Dove si trovava ora quella tenda?» La stanza buia di Sehgal sostituisce la «capanna per pensare» di Wittgenstein (che a sua volta aveva sostituito il ristorante cinese) e diventa «la tenda di Duchamp». Sistematicamente, VilaMatas riflette sull’esperienza personale (per lui teorica quanto sensoriale) di «abitare un luogo» (non importa se chiuso come una stanza, oppure aperto come un’intera città): lo fa in rapporto alle opere che incontra. Sono oltre una ventina quelle che descrive, fra Ryan Gander, Lee Miller, Pedro Reyes, Pierre Huyghe, Janet Cardiff, Tacita Dean. Con un’avvertenza, però. Nelle sue peregrinazioni all’interno di Kassel, Vila-Matas è sì un novello abitante di Kassel, è sì un nuovo inquilino di Documenta, ma è un ospite dichiaratamente estraneo all’arte contemporanea. Sin dall’inizio del romanzo, avverte il lettore del carattere «profano» della sua partecipazione. I tentennamenti e l’imbarazzo nell’accettare la proposta di Chus Martínez, distribuiti sin dalle prime pagine, mostrano chiaramente che leggeremo le impressioni di un «non addetto» ai lavori. Ciascuno, leggendo il romanzo, potrà certo giudicare la validità di questo sguardo «profano», come anche la qualità estetica della sua narrazione. Comunque la si pensi, però, Kassel non invita alla logica è un interessante esempio di critica d’arte, pur sui generis, del tutto innovativa. Lo è nel bene e nel male. E lo è per almeno tre motivi. Il romanzo è innanzitutto un’opera che ha lo stesso soggetto-oggetto dell’opera stessa che intende giudicare. E in questo senso è un testo poetico che si pone come estensione, in forma narrativa, di un’idea critica-curatoriale. Lo è nel metodo, perché lo scrittore è un’opera integrante di Documenta, e lo è ancor più nel merito, poiché il suo testo mostra costantemente un’interpretazione simbolica di Documenta in linea con le intenzioni programmatiche della direttrice. In secondo luogo, il romanzo offre un // approccio critico e descrittivo a una serie di opere in mostra, fissandosi come prezioso documento della letteratura artistica. Infine, Kassel non invita alla logica getta uno sguardo sull’intero sistema dell’arte contemporanea, inserendosi all’interno del dibattito corrente sul cosiddetto «declino delle avanguardie». Alla fine del romanzo, fra incursioni nell’abitare, camere d’albergo, «capanne per pensare», tende Il romanzo di Vila-Matas è l’estensione in forma narrativa di un’idea criticacuratoriale duchampiane e decine di visite in installazioni/ ambienti, l’inquilino Vila-Matas somiglierà parecchio a quel suo personaggio dal nome Synge: un fantomatico «poeta che alla fine del XIX secolo fece un viaggio alle Isole Aran, sulla costa occidentale dell’Irlanda». Lì – si legge – Synge trascorse alcuni periodi in un casale dove un buco nel pavimento della camera da letto gli consentiva di ascoltare le conversazioni – sempre tutte in gaelico – degli abitanti dell’appartamento di sotto. «Per cinque estati», spiega Vila-Matas, Synge «si dedicò a origliare quelle chiacchierate tra vicini, senza capirci nulla perché non sapeva nemmeno una parola di quella lingua, convinto comunque di comprendere tutto perfettamente». Ma il poeta «era talmente persuaso di capire sempre ciò che dicevano in gaelico che finì con l’elaborare, grazie a quanto aveva sentito e annotato, il suo famoso libro di antropologia sul pensiero e le abitudini dei nativi di quel luogo remoto d’Irlanda». Avrà davvero inteso bene ciò che ha origliato dai suoi vicini anche il nostro Synge/ Vila-Matas, a Kassel? Una cosa è certa: spiare i vicini di casa è sempre un bel match fra trasalimento e incomunicabilità, due categorie molto care a questo romanzo: la prima è il fondamento di ogni intenzione artistica, la seconda è stata il dichiarato filo conduttore di tutta Documenta 13. L’invenzione di Synge potrà sembrare (anche) una freudiana excusatio non petita, da parte di Vila-Matas. Ma il bilancio per l’autore non può che essere positivo. La letteratura ha il raro privilegio di poter mischiare impunemente il vero e il falso. E i conti, fatti così, tornano sempre. Roberto Piloni, Fresh Window # 12, 2015 Roberto Piloni, Fresh Windows, xxxxx, xxxxxx Roberto Piloni, Fresh Window # 2, 2015 Roberto Piloni, Fresh Window # 7, 2015 Le parole e le case Z / I D E E Monica Torrusio «Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…» 1. Noi abitiamo la linea sottile che marca il confine tra il linguaggio e la natura. In questo spazio esiguo abita il senso dell’essere. «Il linguaggio è la casa dell’essere» 2, diceva Heidegger in un suo discorso di presentazione dell’anno accademico. In un’intervista allo «Spiegel», Heidegger ribadisce il concetto: «Il linguaggio è la casa dell’essere […] l’uomo abita poeticamente» 3. La casa può 1 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 22. 2 Martin Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Günther Neske, Pfullingen 1959 (trad. it. In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973). 3 Maurizio Ferraris, Manifesto del 108 / 109 essere intesa come il naturale prolungamento dell’essere, come la custode della nostra identità, come luogo dove non si raccontano storie ma dove esistiamo autenticamente al di fuori di ogni maschera sociale. La casa, costruita da abitudini, oggetti, spazi famigliari, è il luogo preciso dove l’essere semplicemente è. È l’inizio di quell’universo dell’uomo che fa parte del suo essere al mondo. Sentirsi a casa è vivere la dimensione in cui l’essere può abitare il mondo, la natura seconda che erige per uscire dal caos non amministrabile. La domus rappresenta il definitivo allontanamento dall’eden in cui regnava la simbiosi con la natura e l’inizio del percorso di dominazione che ha portato l’uomo a piegare la natura a propria immagine e somiglianza. La celebrazione biblica del verbo che è all’inizio di tutto configura l’uomo creato per dominare la natura e per trasformare l’universo in mondo dell’uomo. La nostra storia ha inizio nello spazio misurabile nuovo realismo, Laterza, Bari 2012, v. nota di p. 14. e nel tempo irreversibile del verbo 4. Solo nella configurazione linguistica del mondo è possibile per l’uomo esistere e sopravvivere. «Ciò che è oggetto di conoscenza e di discorso è già sempre compreso nell’orizzonte del linguaggio, che coincide con il mondo» 5. Ogni cosa al suo posto. Ogni cosa in ordine. Ogni ente utilizzabile e nominabile. La casa è la natura dell’uomo perché è spazio completamente costruito. Rappresenta lo spazio fisico e simbolico delle certezze accumulate di ricordi ed emozioni che danno corpo al racconto della nostra identità. Fuori rimane l’imponderabile, l’inconoscibile, il caos dell’indefinibile. Il fuori inteso non solo come esterno naturale ma come mistero dell’innominabile che non può rientrare nel elemento della conoscenza e del linguaggio. Nella casa ogni elemento ha un suo significato, ogni cosa ha senso, ogni 4 cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999. 5 Josef Bleicher, L’Ermeneutica contemporanea, Il Mulino, Bologna 1986, p. 144. aspetto parla di noi. Nella casa ogni situazione diventa racconto: «In casa udiamo sbattere la porta, e non udiamo mai sensazioni acustiche o anche semplici rumori» 6. La casa può essere allora considerata la concretizzazione del principio astratto del mondo linguistico proprio dell’uomo e dell’esigenza primaria dell’uomo di esistere prima di tutto attraverso il procedimento di astrazione e di mediazione linguistica: «Chiudi gli occhi, e dal nero dei caratteri di stampa si formeranno le luci della città» 7. È il nucleo da dove si può osservare il mondo al riparo dallo straordinario e dallo sconosciuto. Ma è proprio questo spazio ordinario che può essere considerato l’origine di ogni possibilità di comprensione. A partire dalla facilità di manovra data dalla dimestichezza nel quotidiano possiamo valicare i confini dell’ovvio per veder trasparire la meraviglia creata dalla nascita di un nuovo senso: «La bellezza e l’arte hanno mirabilmente svolto il compito di far tralucere attraverso il sensibile percezioni, emozioni, desideri, idee e immagini dell’ulteriorità intramondana, rinnovandone le forme fruste, smuovendo, disincagliando e decomponendo i conglomerati del quotidiano con l’introdurre un cuneo tra la familiarità acquisita e il linguaggio ancora da articolare» 8. Nella casa si colma la separazione tra vita e racconto, tra verità 6 Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 11-12. 7 Peter Handke, Il cinese del dolore, Garzanti, Milano 1988, p. 9. 8 Remo Bodei, Le patrie sconosciute. Emozioni ed esperienza estetica, in Tito Magri (a cura di), Filosofia ed emozioni, Feltrinelli, Milano 1999, p. 186. e rappresentazione che la contemporaneità aveva spalancato. Nella contemporaneità, «le cose, frammentariamente, per profili, pezzi, scaglie si offrono, assai parzialmente, alla rappresentazione. Dalla loro inaccessibile riserva, quest’ultima stacca, pezzo dopo pezzo tenui elementi la cui unità resta sempre saldata a quella profondità […] prima vi saranno le cose, con la loro organizzazione, le loro nervature segrete, lo spazio che le circonda, il tempo che le produce; e poi la rappresentazione, pura successione temporale, in cui esse si annunciano sempre parzialmente a una soggettività, a una coscienza, allo sforzo singolo d’una conoscenza, all’individuo “psicologico” […]. L’essere stesso di ciò che viene rappresentato cadrà all’infuori della rappresentazione» 9. Esiste però una differenza sostanziale tra almeno due modi di intendere la casa come mondo dell’uomo: «I primitivi ritenevano che il problema della casa fosse un problema dell’uomo troppo indifeso, troppo spaventato, troppo poco a casa propria nella vastità del mondo, e perciò in questa estensione avevano ritagliato una porzione, uno spazio, un territorio per creare il proprio mondo non previsto dalla natura, lasciando intatto tutto il resto del mondo che non serviva allo scopo» 10. Il senso stesso dell’essere è invece oggi costruire un mondo che si offra nella sua totalità esclusivamente come casa per l’uomo: «Oggi, attribuendo al mondo, anzi all’essere, il bisogno umano di una casa, l’uomo assegna a se stesso, quasi come missione metafisica e quindi come dovere etico, quello di tradurre il mondo in un mondo per l’uomo, perché solo in questa traduzione il mondo diventa leggibile e in ogni sua parte sensato» 11. Nella nostra epoca, in cui la tecnologia ha preso il sopravvento sulla vita reale, la casa non è più solo il riparo dalle asperità della natura ma diventa il luogo in cui – tramite i media – si sgretola la differenza tra “interno” ed “esterno”: «Crollano così le pareti di casa e quei muri perimetrali che un tempo distinguevano l’interno dall’esterno, e più in generale l’interiorità dall’esteriorità. Se un tempo la casa era l’“interno” dove si esprimevano quei tratti di personalità che occorreva contenere “fuori”, all’“esterno”, e in cui si giocava il proprio “nome” non sospeso e cancellato dalla propria “funzione”, se la casa era il “privato” che dava spazio a quella libertà espressiva che doveva tacere in “pubblico”, oggi, per effetto della presenza massiccia dei media, la casa diventa il luogo di recezione del mondo esterno che, via cavo, via telefono, via etere, avvicina il “lontano e al tempo stesso allontana il “vicino”, l’“intimo”, il “familiare”» 12. Per riappropriarsi di una dimensione esistenziale intima e autentica sarà allora necessario recuperare il dialogo come forma di scambio creativo, come passaggio fondamentale tra sé e l’altro che implica il riconoscimento della diversità dell’altro e una partecipazione attiva nello scambio. Il dialogo genuino non è mera esposizione del sé, come invece 9 Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 259. 10 Galimberti, Psiche e techne cit., p. 635. 11 12 Ivi, p. 635. Ivi, p. 638. I D E E / Z accade nei monologhi interattivi che conservano di fatto solo l’apparenza di comunicazione reale: «Al monologo collettivo dei media […] noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo semplicemente le immagini. Questa condizione che vale per la televisione, vale, anche se non sembra, per Internet, dove il “consumo in comune” del mezzo non equivale a una reale “esperienza comune”. Ciò che in Internet si scambia, infatti, è pur sempre una realtà personale che non diventa mai una realtà condivisa, perché lo scambio ha un andamento solipsistico, dove un numero infinito di eremiti di massa comunica le vedute del mondo come appare dal loro eremo» 13. L’appartamento riflette sempre più uno stato sociale più che fisico poiché anche nei luoghi pubblici ci si può “appartare” su uno schermo di un qualsiasi dispositivo elettronico e isolarsi in un solipsismo collettivo. Non è raro assistere a riunioni di gruppo – specialmente tra le nuove generazioni ma non solo – in cui la convivialità si disgrega in silenziose singolarità immerse ognuna nel proprio tablet. In questa nuova dimensione sintetica il contatto con il prossimo non si stabilisce più tramite il dialogo con chi ci è vicino fisicamente ma diventa il “collegamento” con “l’altro altrove”. In tal modo il mondo simulato diventa il nuovo simulacro da preferire quasi sempre al mondo reale: «Va notata la stretta connessione tra 13 Ivi, p. 637. 110 / 111 eccesso di elementi spettacolari, il cinismo dell’atteggiamento disincantato ormai diffuso anche tra i bambini, l’impermeabilità alla sorpresa o alle emozioni violente e la conseguente indifferenza a distinguere tra illusione e realtà» 14. Lo spazio virtuale è diventato uno spazio a cui si ha continuamente accesso e in cui si può in ogni momento disporre di una qualsiasi esistenza, interscambiabile e reiterabile all’infinito. I video e la televisione promettono continuamente un «[…] eterno presente colmo di ansie di sopravvivenza e di gratificazione[…] È un mondo abitato da “sottoproletari dello spirito”» 15. I media promuovono, da parte dello spettatore, un atteggiamento compulsivo che alimenta il desiderio irrefrenabile di appagamento continuo. Ogni visione su uno schermo – che sia un social network o un videogioco – sollecita una percezione del sé ubiquitaria, dell’essere qui e altrove, ci abitua a una deformazione delle nostre categorie spazio-temporali e di giudizio, assottigliando contemporaneamente fino a renderla quasi invisibile la responsabilità nei confronti dell’irreversibilità dell’esistenza. L’appartamento si è trasformato nel mezzo principale dell’uomo per appartarsi, farsi da parte, chiudersi al mondo esterno ma anche – posizionandosi nella dimensione del “realitysmo” 16 – esporsi continuamente senza necessità di mostrarsi: «Tutti gli spazi riservati in cui ritirarsi sono eliminati in nome della trasparenza. Vengono illuminati e sfruttati. Il mondo diviene, in questo modo, nudo e senza pudore» 17. L’“appartamento” è diventato quindi il tempio dell’apartheid volontario, ma spesso inconsapevole, del soggetto. L’appartarsi permette l’espansione smisurata dell’ego nel mondo tramite la “connessione” in cui si marca il territorio della propria esistenza con i “tweets” e i “likes”. La tecnologia collegata all’uso di Internet non è più un semplice mezzo protesico per aiutarci a supplire alle nostre carenze biologiche materiali o mentali, ma si presenta come vera e propria ipotesi alternativa dal punto di vista esistenziale, in cui ci è concesso di abitare un mondo privo della “solida” pesantezza dell’esistenza reale. Nel mondo virtuale non si cade, non si suda, non si muore. Non si fatica, non si perde per sempre. Alla dimensione virtuale appartengono le caratteristiche che l’uomo ha sempre attribuito alla figura divina: onnipotenza, onnipresenza, immutabilità, eternità. Lo spazio virtuale è lo spazio dell’atopia e dell’acronia. Il linguaggio tecnologico ha sostituito il mondo, ma in questo mondo l’essere non è più di casa, 14 16 Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981, p. 101. 15 Zygmunt Baumann, Vita liquida, Laterza, Bari 2008, pp. XV-XVI. Termine preso da Ferraris, Manifesto del nuovo realismo cit. 17 Han Byung-Chul, La società della trasparenza, Nottetempo, Roma 2014, p. 13. non lo abita più: «Ora, tramite i mezzi di comunicazione, il mondo ci è fornito a casa […] non più l’uomo che esplora il mondo, ma il mondo che in immagine si offre all’uomo, proprio perché egli non lo percorre, tanto meno lo abita» 18. Soprattutto, in questo mondo non c’è più nessun segreto da scoprire, nessuna scelta da operare, nessuna trama da comprendere, nessuna complessità da interpretare: «Il mondo rappresentato è l’unico mondo che il monologo collettivo dei mass media ci concede di abitare [… in questo mondo] si riduce, fino ad annullarsi, lo spazio della libertà e il bisogno di interpretazione» 19. La libertà, come poter essere non ancora realizzato ma potenzialmente e autenticamente possibile, può essere recuperata tramite il riappropriarsi dell’uomo del proprio racconto, del proprio ambiente, re-imparando a riconoscere il mezzo tecnologico per quello che è – un mero oggetto funzionale – e non 18 Galimberti, Psiche e techne cit., p. 639. 19 Ivi, p. 636. un surrogato esistenziale: «Lasceremo entrare gli oggetti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasciamo fuori: li lasciamo riposare in sé come cose, che non sono nulla di assoluto […] tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: rilassamento, serenità (Gelassenheit) verso le cose» 20. TV show: Unidad de Habitación 21 sembra procedere proprio in questa direzione. È un’installazione di otto monitor che proiettano immagini di vita domestica di alcuni appartamenti di un quartiere popolare di Caracas, riflesse sullo schermo spento di un televisore. La classe media venezuelana (ma potrebbe essere di qualsiasi parte del mondo), con tutte le sue forme di rituale sociale, viene presentata come immagine simbolo dell’umanità, come 20 Martin Heidegger, Gelassenheit, Günther Neske, Pfullingen 1959, da U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 131. 21 Installazione di Mauricio Lupini del 2002. Mauricio Lupini tv show: unidad de habitaciòn (Caracas) 2012 installazione rappresentazione di quella “medietà” heideggeriana che non è più vista per la sua mancanza di coscienza autentica ma come modello confortevole e accettabile dell’esistenza, un modello tramite il quale è possibile il verificarsi del racconto esistenziale. Le scene che scorrono in TV show sono quelle che rientrano nell’inquadratura del televisore. Il televisore spento testimonia “in diretta” ciò che accade in quel momento nella casa. Lo schermo si fa buio e muto, si mette in disparte lasciando che siano i riflessi visivi e sonori della vita famigliare a essere i protagonisti. In questo riflesso c’è però anche una sorta di pudore che, pur invadendo l’intimità della famiglia, è come se ne volesse evitare l’esposizione oscena dell’autocelebrazione: ne sfuma i contorni, ne tralascia i dettagli, ne impedisce l’identificazione precisa, ne suggerisce i toni I D E E / Z senza mai marcarli. È bastato spegnere lo schermo per riaccendere lo spazio magico della narrazione in cui le immagini si oppongono strenuamente a ogni forma di “alta definizione”. Emerge dall’ombra quel senso di mistero che ne dilata la potenzialità evocativa. «L’eccesso di positività, che domina la società contemporanea, è una traccia del fatto che in essa si è smarrita la narrazione» 22. Certe volte basta un semplice gesto per cambiare completamente dimensione. E passare da una dimensione razionale a una poetica in cui si accende la scintilla esaltante della meraviglia. Da una comunicazione mediatica a una realtà autentica. E così il televisore, nel suo goffo primitivismo tecnologico, diventa emblema del concetto di “mezzo”: il “mezzo”, che condivide il campo semantico con l’opera d’arte in quanto entrambi frutto della costruzione dell’uomo 23, smette di essere oggetto funzionale e si offre come tramite per un’apertura a una verità più profonda 24. «Ciò che si presenta come naturale non è che l’abituale di una lunga abitudine che ha dimenticato il disabituale da cui deriva. Quel disabituale ha tuttavia, un giorno, colto l’uomo 22 Byung-Chul, La società della trasparenza cit., p. 57. 23 «Il mezzo ha in comune con l’opera d’arte il fatto di essere frutto di un’attività umana», Heidegger, Sentieri interrotti cit., p. 14. 24 «Ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità», ivi, p. 23. 112 / 113 di sorpresa come qualcosa di straordinario, ed ha riempito il pensiero di meraviglia» 25. Il pudore con il quale le immagini si offrono al sentire più che al vedere le fa aprire a una suggestione intuitiva più che a un’invadente affermazione. Tramite la loro impalpabile presenza varchiamo la soglia del descritto per entrare in quella del narrato. Il descritto è un mondo spiegato che non veicola di fatto alcuna maggiore verità: «Più informazione o soltanto un accumulo di informazioni non producono di per sé una verità. Manca loro una direzione, vale a dire un senso» 26. Oltretutto: «L’iper-informazione e l’iper-comunicazione dimostrano proprio la mancanza di verità, anzi la mancanza d’essere» 27. Paradossalmente, in questa continua profferta di informazioni e di descrizioni attuata dai media: «Le immagini cariche di valore di esposizione non rivelano alcuna complessità. Sono univoche, cioè pornografiche. A esse manca ogni opacità che sarebbe prodotta da una riflessione […]. Così, la trasparenza, coincide con un vuoto di senso» 28. In quest’opera la casa possiede invece la magia del racconto. L’arte riporta a questa magia in cui il pensiero riflessivo si sostituisce all’immagine ostensiva e pervasiva. La seduzione torna a essere il legame più profondo tra ciò che si può percepire e ciò che 25 Byung-Chul, La società della trasparenza cit., p. 10. 26 Ivi, p. 20. 27 Ivi, p. 21. 28 Ivi, p. 28. sfugge alla nostra comprensione immediata ma che – proprio in virtù della sua mancanza di svelamento – ci avvicina alla prossimità del piacere della rivelazione. Se il televisore è spento smettiamo di essere consumatori-consumati e ci proiettiamo fuori dal format preconfezionato. Il gesto di spegnere il televisore diventa simbolicamente un atto drastico che si oppone a ogni genere di condizionamento esistenziale. A schermo spento l’uomo non è più spettatore o attore osservato; della sua identità rimane solo un brusio di fondo, parole e forme di cui si avverte la presenza senza poterne comprendere la sostanza. Le immagini annacquate non concedono la messa a fuoco; hanno una consistenza liquida, lattiginosa, si fermano prima di oltrepassare la soglia dell’identificazione. Le figure riflesse recuperano uno spessore proprio nell’opacità che ne impedisce l’ostentazione pornografica: «La società esposta è una società pornografica. Tutto è rivolto all’esterno, svelato, denudato, svestito ed esposto. L’eccesso di esposizione fa di ogni cosa un prodotto, che è “votato, nudo, senza segreto, al divoramento immediato”» 29. I bagliori soffusi e il mormorio di sottofondo sostituiscono il clamore abbagliante del mondo mediatico. La prevedibilità genuina delle azioni domestiche si oppone a ogni forma di sensazionalismo. Le figure eteree si muovono 29 Ivi, p. 25. nelle attività domestiche con la spontaneità del vivere quotidiano: una mamma aiuta il figlio a fare i compiti, qualcuno è al telefono, altri parlano in corridoio. La vita nell’appartamento procede spontanea producendo una sequenza indistinta sulla superficie specchiante. È il respiro della casa cadenzato dalle occupazioni e dai gesti ordinari dove l’esistenza scorre in un ritmo organico. Il televisore non è al centro dell’attenzione ma al centro della scena domestica: si offre come specchio poetizzante più che deformante, perché riporta ogni oggetto e ogni azione in un morbido alternarsi di luci e di ombre. Il paesaggio umano sfocato scorre nel video in un pulsare ovattato e indefinito come racconto di un’esistenza “comune”, come un occhio interiore che lascia “intravedere” la vita. L’opera non promette premi o mondi migliori, non urla, non illude, non possiede una trama accattivante, non impone alcuna spiegazione. Si limita a “riflettere”, e il soggetto della sua riflessione (riflesso) è l’esistenza nella sua natura più vera, l’ambiente naturale dove l’uomo è a casa. È però uno sguardo lucido sulla vita, forse languido d’emozione rispetto al comune destino. Osservatore acuto ma in punta di piedi, il video spento accende l’immagine della vita reale. Solo un video. Spento e acceso sul mondo. Ne viene fuori un racconto opaco, opposto all’accecante trasparenza della contemporaneità: «La comunicazione trasparente, che non ammette più nulla d’indefinito, è oscena» 30. È un racconto di presenza e assenza dove non domina un elemento su un altro ma dove, se si presta attenzione, 30 Ivi, p. 57. si vede scorrere l’esistenza così com’è. Diventa un luogo poetico dove energia e materia confluiscono nel creare la trama di una silenziosa melodia che lascia emergere il corpo grande dell’emozione. In un attimo diventa la storia di ognuno di noi: di quella parte di vita non osservata, che non racconteremo mai, che non è fatta di attimi salienti, di imprese avventurose o eroiche, ma che è lì per lì, nella sua unica e possibile essenza. Una vita osservata quando non ci sentiamo osservati e ci muoviamo naturalmente all’interno di quella che è la nostra dimensione abituale. Lascia le cose come sono, e le cose non sono mai in un modo o nell’altro. Non sono né vere e né false, non sono né belle e né brutte, semplicemente sono. L’opera sollecita uno sguardo sfuggente, fugace, proiettato sull’evanescenza delle immagini riprodotte. È uno sguardo leggero, incauto, distratto, anche troppo simile alla grossolana frettolosità del nostro concitato effimero quotidiano. Si passa davanti senza quasi accorgersi che il televisore sta trasmettendo un video. In un certo senso l’opera, per poter funzionare, ci chiede di spostarci leggermente per lasciare emergere ciò che è presente ma non manifesto; richiama l’interesse verso una dimensione latente: «Ma perché chiamiamo inaccessibile la situazione latente? Perché in quanto latente non attira l’attenzione. Può anche essere sotto gli occhi eppure non è considerata» 31. Il video, anzi, è come se ci suggerisse di passare oltre, di non fermarci a guardare; è come se desiderasse la nostra distrazione, la nostra inconsapevolezza, la nostra mancanza di comprensione. Sembra voglia chiederci di partecipare con la nostra indifferenza. Il nostro ruolo diventa allora attivo all’interno del meccanismo dell’opera, perché è l’opera stessa che ci invita a non riflettere su noi stessi. L’opera vuole passare “inosservata”. Forse è proprio la distrazione l’essenza stessa della messinscena. La distrazione da sé rende possibile l’attuarsi dell’esistenza non narcisistica: «La sovraesposizione a illusioni prefabbricate distrugge rapidamente la loro efficacia rappresentativa. La componente illusoria del reale non produce, come sarebbe prevedibile, una intensificazione del senso della realtà, ma genera, nei confronti della realtà stessa, uno stato di allarmante indifferenza […] l’erosione della capacità di interessarsi a qualsiasi cosa esterna a sé» 32. Solo chi si ferma comunque può rimanere sorpreso nell’accorgersi che sullo schermo compaiono immagini che non sono il riflesso reale di chi passa ma la proiezione dei riflessi di qualcun altro in un altro luogo. Lo specchiare del televisore spento ci “confonde”: il nostro riflesso si sovrappone al riflesso registrato, gioco di riflessi e di spazi in cui non è certa l’identità di nessuno e rimane solo la noncuranza del “passaggio”. La sovrapposizione rende quasi impossibile la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra sé e gli altri, tra il qui e l’altrove. La verità come svelamento dell’essenza si allontana 31 Martin Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Günther Neske, Pfullingen 1964, da Galimberti, Heidegger, Jaspers cit., p. 117. 32 Lasch, La cultura del narcisismo cit., p. 102. Nella casa 2013 regia di François Ozon definitivamente dal messaggio dell’opera, che lascia invece aperta la manifestazione dell’esistenza mediata forse come unica possibile verità dell’uomo. È nell’immagine mediata che si materializza la sua sostanza. La verità non risiede più nella spiegazione e nella definizione dell’essenza delle cose ma nell’opacità, nella densità emozionale di ogni possibile racconto. Nel vedere distratto c’è un’occasione di vero sentire. Dove lo sguardo non viene sollecitato è possibile lasciar emergere una visione puramente speculativa. La vaghezza della visione chiama il fruitore a una forzatura che lo spinge ad ascoltare meglio, a tornare a un passo indietro, a chiedersi cosa c'è, forse, da vedere e da capire. Un sussurro, quasi impercettibile, che lo fa 114 / 115 accorgere che sta accadendo qualcosa. La «parola poetica non enuncia ma e-voca […]. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso» 33. All’arte ancora una volta rimane il compito di porci a contatto con il senso dell’esistenza, con il suo racconto. Con l’arte possiamo ritrovare il gusto della partecipazione, del dialogo comune, della condivisione dell’esperienza estetica. Nell’opera d’arte si superano le differenze tra realtà e immaginazione, tra essenza e rappresentazione, tra potenziale e fattuale, e si verifica ogni volta quell’evento che ci consente di riappropriarci in maniera 33 Galimberti, Heidegger, Jaspers cit., p. 130. genuina del contatto diretto con il nostro essere. Il racconto è conferire una direzione all’esistenza, che cessa di essere giudicabile banale o straordinaria, ma solo autentica. L’autenticità è data dal racconto stesso, che non mira a dire tutto o il vero, ma a fornire un mezzo di orientamento in cui sia l’esistenza stessa a conquistare un senso. Nella scena finale del film Nella casa 34, i due protagonisti, Claude e Germain, sono seduti a chiacchierare sulla panchina di un parco. Osservano due donne che parlano sul balcone di una casa di fronte. Provano a ipotizzare il contenuto del dialogo visto che da così lontano non possono sentire il suono delle parole: uno di loro sostiene che si tratta certamente di una lite tra amanti, l’altro ribatte che è invece sicuramente una discussione tra sorelle per un’eredità. A quel punto Claude chiede a Germain: «Ma ti importa molto che siano due gemelle invece che due lesbiche?». E Germain risponde: «Non particolarmente...». 34 Nella casa è un film del 2013, del regista François Ozon. Voci senza tempo Il Teatro greco di Siracusa Fina Serena Barbagallo «Testimone di che, dunque? Di un mito. Quale mito? Quello di un’intera città che non ospitava solo spettacoli eccezionali, ma li viveva in proprio: non tanto partecipandovi, ma vivendoli. […] Imparai prestissimo che gli spettacoli non si facevano a Siracusa, ma Siracusa viveva i suoi spettacoli che di quella vita erano l’espressione». (Giuseppe Di Martino, Nel teatro di Siracusa, 1993) Silvio D’Amico, nella sua Storia del teatro drammatico, definisce il teatro come «la comunione d’un pubblico con uno spettacolo vivente» 1, pensato quindi per una collettività. La riutilizzazione dei teatri antichi – riportati all’originaria funzione di spazio aperto alle rappresentazioni teatrali – consente la fusione del bene architettonico con l’opera messa in scena, creando un luogo di aggregazione collettiva che – come avviene nel Teatro greco di Siracusa – ci coinvolge, 1 Silvio D’amico, Storia del teatro drammatico, Garzanti, Milano 1939, p. 16. accomunandoci nel richiamo dei miti classici e della cultura greca. Questa cavea è la più grande d’Occidente. Un monumentocontenitore di eventi che dal 1914 lo rinnovano e fanno rivivere, rendendolo un centro di unione e di appartenenza per coloro che considerano il teatro non solo un bene culturale, ma anche un luogo sociale che riscopre tradizioni ritenute perdute. Riferendosi agli avvenimenti delle tragedie del teatro siracusano come «coscienza collettiva della città», Emanuele Giliberti scrive: «[…] Il teatro greco, monumento di sé a se stesso, è percepito grazie al suo utilizzo specifico come elemento pulsante di vita e non come simulacro di valori scomparsi. Quindi non fascinosa rovina da contemplare con stupore, in accordo con il sentimento del pittoresco che caratterizzò il sentire dei viaggiatori del passato, ma piuttosto forma artistica, che nel confermare la sua funzione supera la propria origine storica per divenire contemporaneità» 2. 2 Emanuele Giliberti, Premessa, in E. Giliberti, L. Faraci, La scena ritrovata. Novanta anni di teatro antico a Anche Ettore Zocaro, nel saggio I teatri antichi, memoria del futuro, evidenzia il loro rapporto con le rappresentazioni classiche: «[…] L’importanza che il teatro ha avuto in passato nel diffondersi un po’ ovunque nell’erigere straordinari punti di aggregazione del pubblico in modo da rispondere alla sua imprescindibile necessità sociale e culturale. […] È grazie al dramma greco che la gente si ritrova nei teatri, concepiti per “vedere”, orientati in genere verso scenari aperti (il mare, una vallata), oppure in direzione sudest affinché si potesse vedere il sorgere del sole. Ed è grazie al dramma greco che la gente di oggi si ritrova più o meno negli stessi luoghi» 3. Tutto il Mediterraneo è ricco di teatri all’aperto, che vivono nella luce naturale e che hanno avuto la forza di perdurare nei secoli: strutture architettonicamente quasi tutte di forma semicircolare, ideate con precisi criteri di visibilità e di Siracusa, Arnaldo Lombardi, Siracusa 2003, p. 12. 3 Ettore Zocaro, I teatri antichi, memoria del futuro, «Dioniso», n. 3, 2004, pp. 186-187. I D E E / Z acustica. Frutto principalmente dell’età ellenistica, nei secoli si sono diffusi in Europa e nel Mediterraneo, mantenendo inalterato il proprio ruolo storico e archeologico, unito alla necessità di essere utilizzati, malgrado i numerosi problemi di conservazione che tuttora continuano a presentarsi. Sono monumenti che nonostante abbiano talora subito decadenze, abbandoni o razzie, una volta riscoperti acquistano nuovo vigore nel nostro tempo, ruderi portatori di civiltà lontane. E, all’inizio del terzo millennio, ospitano eventi molteplici che interessano archeologi, architetti, artisti, registi, ricercatori, direttori di musei, organizzatori di festival 4. L’idea di rievocare il dramma antico nei teatri all’aperto non nasce a Siracusa, ma è di Gabriele D’Annunzio che, nel 1899, dopo aver assistito a una rappresentazione delle Eumenidi di Eschilo nel teatro romano di Orange, pensò di creare un teatro all’aperto dai resti di un teatro antico in provincia di Roma. Tale visione dannunziana diventò reale sul colle Temenite nel 1914, quanto il 16 aprile si mise in scena la prima rappresentazione classica moderna nel Teatro greco di Siracusa. Il testo scelto fu Agamennone di Eschilo e a dar vita all’evento fu il lungimirante conte Mario Tommaso Gargallo assieme al Comitato generale per le Rappresentazioni Classiche: le 4 Ivi, p. 187. 116 / 117 cronache del tempo narrano di «una Siracusa “rinata” in quei tre giorni di aprile, tanto attesi» 5. I giornali italiani ed esteri dell’epoca riferiscono del grandissimo successo di questo evento. Dopo aver assistito a Edipo Re di Sofocle nel teatro romano di Fiesole nel 1911, il Gargallo aveva capito, infatti, l’importanza della tragedia antica nella coscienza contemporanea e la funzione sociale del ritorno dei drammi classici proprio sulla scena che li aveva ospitati migliaia di anni prima. Oltre al Gargallo, componente del Comitato era il grecista Ettore Romagnoli, di cui fu significativo il contributo alle traduzioni dei testi greci. Egli definiva Siracusa la «“giusta sede” non solo per la presenza in questa città del più grande teatro greco dell’occidente, ma anche per il suggestivo scenario naturale che fa da sfondo a questo famoso teatro all’aperto» 6. Fu grazie al Comitato per le Rappresentazioni Classiche – primo nucleo di ciò che poi diverrà l’INDA, Istituto Nazionale del Dramma Antico – che il progetto di riportare in scena opere di quel genere fu riproposto nel Teatro greco di Siracusa. Questa istituzione è fondamentale per tracciare la storia degli spettacoli classici in Italia ed è indubbio che la rinascita 5 Giliberti, Faraci, La scena ritrovata cit., pp. 15-18. 6 Giuseppe Puzzo, Gli spettacoli classici a Siracusa 1914-1980, La Domenica, Siracusa 1980, p. 8. del dramma antico nel nostro paese sia contemporanea alla nascita dell’INDA. Le vicende storiche dell’Istituto si legano inoltre fortemente a quelle della città e del Teatro greco: una costante operosità ha fatto guadagnare a questa istituzione un riconoscimento di assoluta competenza, garanzia del carattere eccellente degli spettacoli classici siracusani e di un’espressione d’arte che non sembra temere tramonti. Oltre a Fiesole nel 1911, anche a Roma vi erano state le prime sperimentazioni sulle rappresentazioni classiche, grazie al Comitato dell’Esposizione per il cinquantenario dell’Unità Nazionale che inserì nei festeggiamenti opere come Baccanti e Ciclope di Euripide, Le Nuvole di Aristofane. Altri tentativi di far rivivere il mito greco furono fatti a Padova, Vicenza, Trieste e Milano. Fu tuttavia Siracusa la città ad avere il merito non solo di aver concepito la rinascita e il rifiorire degli spettacoli classici, ma soprattutto di aver riportato il dramma greco a contatto con le persone comuni. Le rappresentazioni classiche non erano rivolte a un pubblico d’élite, ma a tutti 7. L’importanza di questi spettacoli – e la loro riuscita – stava proprio nell’aver riportato il dramma antico vicino alla gente, rendendolo nuovamente popolare, come fu alla sua origine. 7 Ibid. Il ritorno agli spettacoli classici fu interrotto per sei anni a causa della prima guerra mondiale, ma il teatro ritornò a essere fruito nel 1921 con Coefore di Eschilo che attrasse a Siracusa migliaia di visitatori stranieri. L’eccezionale affluenza concretizzò le aspirazioni del conte Gargallo che pensava gli spettacoli come un avvenimento di respiro nazionale e mondiale. Il successo del ’21 si rinnovò nella primavera successiva con Edipo Re di Sofocle e Baccanti di Euripide, con scene di Duilio Cambellotti, interpretazione musicale di Giuseppe Mulè e direzione artistica di Romagnoli: «una messa in scena splendida», secondo la critica dell’epoca che sottolineava: «non c’è al mondo uno spettacolo che uguagli la grandiosità delle rappresentazioni classiche di Siracusa» 8, elogiando la straordinarietà del luogo, delle tragedie, della città e della comunità. Nel ’24 fu la volta di Sette a Tebe di Eschilo e Antigone di Sofocle che ottennero ancora un grande consenso dal pubblico e dalla critica: i giornali dell’epoca sottolinearono addirittura la fama mondiale conquistata dal teatro di Siracusa. Il 1927 fu un anno importante per l’INDA che, per il quinto ciclo di rappresentazioni classiche, mise in scena quattro lavori, al fine di fornire un quadro completo delle tre forme di arte drammatica: tragedia, commedia e dramma satiresco. A giorni alterni, in uno venivano rappresentati Medea e il Ciclope, entrambe di Euripide, e nel successivo Le Nuvole di Aristofane e I Satiri alla Caccia di Sofocle. Ancora una volta il successo trovò un’eco 8 Ivi, p. 33. unanime nella stampa nazionale ed estera. «Il quinto ciclo sostengono i critici dell’epoca, è destinato a rimanere fra i più importanti nella storia dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico» 9. Gli anni Venti e Trenta furono caratterizzati da numerose iniziative e, con cadenza triennale, si svolsero quattro cicli. In quegli anni l’Istituto divenne statale e la sede fu trasferita da Siracusa a Roma: il regime fascista optò per un maggior controllo al fine di evitare «improvvisate organizzazioni e speculazioni sugli spettacoli all’aperto» 10. Per volere del Duce, nel ’29 fu eletto presidente Biagio Pace, deputato al Parlamento e docente universitario di Archeologia e Storia dell’arte classica. Si legge nei documenti del tempo: «Il Duce, scegliendo per questo posto di comando e di responsabilità un camerata, che innumerevoli motivi intellettuali e sentimentali legano alla città di Siracusa, ha mostrato come il trasferimento dell’Istituto Alcesti 1992 regia di Sandro Sequi, Teatro greco di Siracusa in Roma risponda ad una direttiva del Regime e vuol rispettare la posizione di privilegio che a Siracusa deriva, per gli spettacoli classici, dalla gloria antica e nuova del suo Teatro» 11. Biagio Pace fu presidente dell’INDA fino al 1944. Nonostante le difficoltà economiche dovute alla guerra, le rappresentazioni ripresero nel ’48 12: desiderosa di ricominciare, la città si fece trovare pronta per un nuova avventura e per la prima volta fu messa in scena l’intera trilogia Orestea di Eschilo. La critica del periodo rimarcò il vincolo dei cittadini col teatro e le tragedie che i siracusani consideravano proprie. «[…] La riesumazione della tragedia greca, nel superbo millenario monumento che è il teatro siracusano, è ormai divenuta un rito che si ripete da oltre un trentennio 11 9 Ivi, p. 57. 10 Giliberti, Faraci, La scena ritrovata cit., p. 36. Ibid. La cadenza degli spettacoli dal 1948 al 2000 è stata biennale, annuale dal 2001 a oggi. 12 I D E E / Z conquistando gli ambienti intellettuali del mondo intero. Le rappresentazioni, riportano alla nostra e altrui ammirazione una delle più vive espressioni dell’arte ellenica, son valse a far rivivere la tragedia greca, che da secoli intristiva nel chiuso delle biblioteche, al contatto vivificante delle grandi masse e nell’ambiente più genuino per cui era nata» 13. Nel ’50, durante la messa in scena di Baccanti di Euripide e Persiani di Eschilo, Salvatore Quasimodo rilevò: «L’Istituto del Dramma Antico, [...] pone oggi le rappresentazioni siracusane su un piano valido, cioè dà a quello spazio di pietra millenaria un valore di teatro» 14. Dal 1952 a oggi le rappresentazioni classiche di Siracusa hanno tenuto un ritmo serrato, coinvolgendo il territorio circostante e l'intera penisola; molti lavori sono stati messi in scena anche in altri teatri greci e romani, o nei luoghi di particolare suggestione archeologica quali Ostia Antica, Pompei, Fiesole, Gubbio, Benevento, Taormina, Palazzolo Acreide, Tindari, Paestum, Agrigento, Selinunte, Segesta, Urbino, Vicenza. È noto che il repertorio teatrale antico di tragedie classiche non è cospicuo, gli autori a noi pervenuti sono Eschilo, Sofocle, Euripide per la tragedia e Aristofane per la commedia. Le opere rimaste sono in tutto 32 e rappresentano una minima parte delle 90 di Eschilo, delle 100 e più di Sofocle e delle 92 di Euripide. Su almeno 50 autori e su almeno 1500 tragedie soltanto tre autori e 32 tragedie sono giunte a noi 15, essendosi forse tramandate quelle che ebbero più successo. Il ’52 è un anno di cambiamenti per l’Istituto, a partire dal nuovo presidente, Antonino Sammartano. Vengono inoltre scelti due drammi mai interpretati dai moderni, Troiane di Euripide ed Edipo a Colono di Sofocle, ritenuti poco adatti alla rappresentazione da quanti filologicamente intendevano tali spettacoli. Al contrario riscuotono un enorme successo, grazie anche a due attori già protagonisti di precedenti tragedie e ai quali Siracusa è affezionata: Salvo Randone e Giovanna Scotto. Nel ’54 vanno in scena Prometeo Incatenato di Eschilo e Antigone di Sofocle. Anche Prometeo era stato ritenuto non rappresentabile, in quanto troppo statico e perché aveva come protagonisti soltanto personaggi divini. Ma ancora una volta le previsioni furono capovolte e andò in scena uno degli spettacoli più memorabili, grazie anche all’interpretazione di uno straordinario, giovane Vittorio Gassman. Negli anni Sessanta, Vittorio Gassman ritorna a Siracusa per la terza volta come regista (insieme a Luciano Lucignani) e come protagonista della trilogia Orestiade, nella traduzione di Pier Paolo Pasolini che modernizza il testo di Eschilo. Il successo si ripete nel ’62 con Ecuba e Ione di Euripide, rappresentata per la prima volta, e nel ’64 con Eracle e Andromaca, sempre di Euripide, mai rappresentate in Italia. Per Ecuba e Eracle scende in campo un traduttore d’eccellenza: Salvatore Quasimodo. È un periodo felice per una città sempre in fermento che ospita, alle premiazioni dell’Eschilo d’Oro, anche Federico Fellini e Giulietta Masina che consegnano i riconoscimenti a Elena Zareschi, Vittorio Gassman, Carlo D’Angelo e alla memoria di Ettore Romagnoli, colui che per trent’anni aveva fatto la storia del teatro siracusano. Ancora positivo l’esito delle successive tragedie del ’66 e del ’68, con gli attori acclamati a ogni replica dalla critica e dal pubblico. Osservando foto d’epoca colpisce il notevole concorso di visitatori negli anni Settanta: valida e attuale è la tragedia greca, per usare le parole di Giuseppe Puzzo, «capace, di commuovere e conquistare il pubblico con l’espressione di un’arte e di una poesia che superano i limiti del tempo come tutti i capolavori del teatro classico» 16. Il XXI ciclo, nel 1970, vede Elettra di Sofocle e Ippolito di Euripide dirette da una personalità di grande rilievo, Franco Enriquez, al quale due anni dopo verrà affidata una 13 Aldo Carratore, «La Sicilia», 10 aprile 1948. 14 Salvatore Quasimodo, «Tempo», Settimanale, 27 maggio 1950. 118 / 119 15 Nino Sammartano, Gli spettacoli classici in Italia, «Dioniso», vol. XXII, 1-2, gennaio-aprile, 1959, p. 10. 16 Puzzo, Gli spettacoli classici cit., p. 225. strepitosa Medea. Il ’72 è anche l’anno di Edipo Re per la regia di Alessandro Fersen: in entrambe si impone l’interpretazione di Valeria Moriconi, come prima attrice, di Medea e Giocasta, «protagonista appassionata e istintiva della tragedia euripidea» 17. Sono però anche gli anni delle contestazioni: criticati sono i riferimenti all’attualità, come gli accostamenti alla guerra del Vietnam e alla dittatura militare di Atene introdotti da Giuseppe Di Martino (già nel ’62, ’64 e ’66 a Siracusa come regista e nel ’58 come collaboratore di Guido Salvini) nelle Troiane del ’74. I pareri contrastanti riguardano soprattutto l’inserimento di elementi politici contemporanei nel dramma classico. Nel ’76 all’INDA è nominato un nuovo commissario, Giusto Monaco, che introduce alcune novità di rilievo: non più due opere ma tre, la rappresentazione di una commedia greca, Le Rane di Aristofane, l’esordio di una commedia latina, Rudens di Plauto, messa in scena nel vicino anfiteatro romano. Fra le tragedie viene scelta Edipo a Colono di Sofocle. Il recupero dell’anfiteatro fu considerato funzionale e allettante, soprattutto in un momento in cui – oltre a essere oberato da problemi finanziari – l’Istituto rischiava di chiudere in base alla legge n. 70 (Legge degli Enti Inutili). Il 1978 – che sarebbe dovuto essere l’ultimo anno di attività 18 dell’INDA – si aprì invece con un gesto positivo del Ministero che lo riconobbe «Ente necessario ai fini dello sviluppo civile, culturale e democratico del Paese». Tra le motivazioni del Ministero, nel 17 Ivi, p. 235. Giliberti, Faraci, La scena ritrovata cit., p. 80. valutare positivamente l’attività dell’Istituto, vi furono: lo stretto rapporto fra attività teatrale, studio e ricerca; la scelta di un repertorio antico che condensasse tragico e comico; il rispetto e la valorizzazione dei monumenti; le promozioni con altri enti teatrali e, infine, una politica fatta anche di prezzi accessibili, sull’esempio dei cittadini dell’antica Grecia che non pagavano per vedere gli spettacoli. In quell’anno andarono in scena Elena di Euripide, mai rappresentata a Siracusa, e Coefore di Eschilo, e vennero inoltre allestite manifestazioni collaterali in altri luoghi della città, come la chiesa sconsacrata di San Giovannello alla Giudecca, con Prometeo di Andrea Baldini, tratto da Eschilo e Robert Lowell, e il Messaggero di Filippo Amoroso e Arnaldo Ninchi, in collaborazione con Patrizia Barbera. Si continuò con spettacoli come le Baccanti di Luca Ronconi 19. Gli anni Ottanta rappresentano un periodo importante per l’INDA, per la città e per il Teatro greco. Per la prima volta gli spettacoli furono prolungati per un mese intero. Per la realizzazione dei manifesti si chiamarono artisti di fama che realizzarono significative prove d’autore: Bruno Caruso, Renato Guttuso, Salvatore Fiume, Emilio Greco, Gaetano Tranchino, Mimmo Paladino. Nell’82 i giorni delle rappresentazioni classiche aumentarono da 30 a 38 giorni, e andarono in scena Supplici di Eschilo e Ifigenia tra i Tauri di Euripide. Della prima il pubblico apprezzò gli elementi di carattere esotico e orientaleggiante, della seconda i motivi moderni inseriti nella scena, come il gruppo di archeologi, che introducevano una scultura di Artemide in legno, o la gru che, alla fine del dramma, trasportava una gabbia metallica con Atena all’interno. I Novanta si aprirono con la scelta di due giovani registi, Mario Martone e Guido De Monticelli, ai quali furono affidati Persiani di Eschilo ed Elettra di Sofocle. Martone volle con sé attori legati all’esperienza teatrale “Falso Movimento”, tra cui Toni Servillo, Antonio Neiwiller, Mariella Lo Sardo, Remo Girone e Andrea Renzi. Il pubblico siracusano restò sorpreso dalla scelta di vedere i microfoni alle guance degli attori, abituato a sentirli con la sola acustica della cavea. Contrastanti furono i pareri su questa scelta, ma non fu l’unico esperimento del regista che, ad esempio, del Messaggero fece ascoltare solo la voce registrata da più punti del teatro, una cantilena asiatica realizzata da Franco Battiato e Giusto Pio, creando un forte impatto emotivo. Le successive tragedie messe in scena nel ’92 furono Edipo Re di Sofocle e Alcesti di Euripide. Nel primo, non rappresentato da vent’anni, il regista Giancarlo Sepe mise in primo piano il dramma famigliare accentuando i toni tragici, con grande gradimento del pubblico. Nel secondo, messo in scena a Siracusa per la prima volta in quanto ritenuto poco accessibile per i suoi temi ambigui, il ruolo di Alcesti fu affidato a Piera Degli Esposti affiancata da Aldo Reggiani: l’attrice fu addirittura paragonata alla Duse per l’entusiasmo e l’intensità del personaggio 20. Il ’94 fu segnato dal ritorno di tre rappresentazioni: Acarnesi 19 20 18 Ivi, p. 81. Ivi, pp. 93-95. I D E E / Z di Aristofane, Agamennone e Prometeo di Eschilo. Per celebrare gli ottant’anni di attività l’Istituto scelse di mettere in scena l’Agamennone come nel 1914, allestendo altresì una mostra documentaria dei materiali storici dell’INDA a Palazzo Gargallo: un modo per rinsaldare l’unione tra città e teatro. Negli ultimi quindici anni il teatro è stato abitato da 41 rappresentazioni, tra tragedie e commedie; è stato luogo di riso e di pianto; è stato simbolo di sperimentazione e creazione per registi e attori. Certo, lo spazio scenico del teatro di oggi è differente da quello originario: non solo nella struttura – che ha subito delle modifiche sotto i romani e numerose spoliazioni durante i secoli – ma anche nella reinterpretazione del mito. Eppure come nell'antico esso rimane un luogo vivo, dove la collettività ritrova se stessa, anche dibattendo fatti attualissimi. Un esempio concreto è dato dalle tragedie andate in scena quest’anno, Supplici di Eschilo, Ifigenia in Aulide di Euripide, Medea di Seneca, ridefinite la “Trilogia del mare” in quanto in tutte è ravvisato uno stretto rapporto col mare e con i temi ad esso legati: il diritto di asilo, i viaggi della speranza, i sacrifici di uomini e donne. In particolare, spicca per originalità la tragedia Supplici di Eschilo, diretta e interpretata da Moni Ovadia. Storia universale e attualissima, essa racconta di ribellione 120 / 121 alle imposizioni, di libertà e di accoglienza. Tematiche care al regista che, unitamente al musicista Mario Incudine, ha tradotto il testo greco in un siciliano potente e ha inserito nei dialoghi passi di greco moderno, dando vita a un insieme di tessiture musicali meridionali e voci mediterranee avvolgenti. Nella parte di un cantastorie, Incudine dà inizio al racconto con un «Vi cuntu», anticipando la storia in un siciliano arioso e poetico, una sorta di prologo che informa il pubblico su quanto avverrà sulla scena. La tragedia non prevede il ruolo del cantastorie, ma questo è suggerito dalla tradizione siciliana, in cui i cuntisti sono fondamentali nella diffusione della cultura. Il cantastorie ripensato da Ovadia e Incudine non solo anticipa e spiega i fatti – scelta filologicamente trasgressiva ma decisiva al fine di sicilianizzare la tragedia – ma viene addirittura identificato nello stesso Eschilo che si definisce “poeta siciliano”. Semplice la trama della tragedia: per sfuggire ai cugini egizi che vogliono sposarle, le figlie di Danao approdano sulla spiaggia di Argo e chiedono rifugio al re Pelasgo in nome di Zeus. Timoroso di una guerra il re è riluttante, ma alla fine decide di accoglierle, nonostante l’arrivo degli egizi. Più che nella trama, la forza di questo testo è nella ribellione delle Danaidi alla violenza e alla prevaricazione, prima volta nella storia in cui è affermato il diritto all’autodeterminazione della donna al matrimonio. La tragedia di ieri si innesta dunque in una tragedia che riguarda la società di oggi: la violenza sulle donne, nel passato come nel presente. Il coro delle Danaidi, protagonista assoluto dell’intero dramma, diventa così il grido disperato di ogni vittima di ingiustizie, a tutte le latitudini e in ogni tempo. Fulcro dell’intera vicenda è l’accoglienza che Argo riserva alle Danaidi. Ed è questa circostanza che rende le parole di Eschilo particolarmente apprezzabili dai Siciliani che hanno sentito l’antica tragedia come propria, in un momento storico in cui la Sicilia riveste un ruolo centrale nel Mediterraneo sofferente dei profughi. Forse qualche visitatore si è sentito tradito assistendo a una tragedia in siciliano e greco moderno, ma la maggior parte del pubblico è stata coinvolta dalla storia cuntata dal cantastorie, si è commossa nell’apprendere che si trattava dello stesso Eschilo, ha recepito la potenza del messaggio, si è emozionata negli accostamenti all’attualità, non ha visto rinnegato il testo originale eschileo. E ha apprezzato Moni Ovadia quando, nella parte di Pelasgo, afferma che non potrà decidere della sorte delle ragazze se prima non avrà consultato il popolo. Queste le parole: «Sugnu cu sugnu, ma nun cuntu nenti. Ca dicidi la me genti». Stefano Cerio, Shilaoren Balthing Beach, Qingdao, 2013 Stefano Cerio, Hong Kong, 2015 Stefano Cerio, Treasure Island Pirate Kingdom, Qingdao, 2013 Z /AUTORI fina serena barbagallo ////////// Nata a Siracusa nel 1971, è docente di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia di Viterbo, è specializza in Storia dell’arte medievale e moderna presso l’Università della LUMSA di Palermo. Ha collaborato con Ferdinando Maurici al volume Le torri nei paesaggi costieri siciliani (secoli XIII-XIX); ed è autrice di saggi nel libro Castelli di Sicilia città e fortificazioni, per le edizioni Kalós. Ha pubblicato la monografia Sebastiano Monaco nel contesto della pittura siciliana del secondo Settecento, ha collaborato con Isabella Valente al catalogo della mostra Il Bello o il Vero. La scultura napoletana del secondo Ottocento e del primo Novecento e ha pubblicato la monografia Gaetano Tranchino. Vita e arte, come Ulisse…nella sua terra. olivo barbieri ////////// Nato a Carpi (MO) nel 1954, è tra i più importanti fotografi internazionali. Inizia a esporre nel 1978 (Flippers 1977-1978). La sua ricerca si concentra inizialmente sull’illuminazione artificiale nella città europea e orientale. Dal 1989 viaggia abitualmente in Oriente, soprattutto in Cina. Nel 1996, il Museum Folkwang di Essen, Germania, gli dedica una retrospettiva. Nel 2003 inizia il progetto site specific (fotografie e film) che coinvolge più di 40 città nel mondo tra le quali Roma, 124 / 125 Torino, Napoli, Genova, Catania, Firenze, Montreal, Amman, Shanghai, Siviglia, Las Vegas, New York, Los Angeles, Chicago, Detroit, Brasilia, Rio de Janeiro, Bangkok, Mexico City, Istanbul, Tel Aviv. L’editore Aperture (New York, 2013) pubblica il libro Site Specific_03_13. Nel 1993, 1995, 1997 e 2011 partecipa alla Biennale di Venezia. Nel 2003 sue opere sono esposte a «Strangers», la prima Triennale di fotografia e video organizzata dall’ICP (International Center of Photography), New York. Nel 2011 presenta DOLOMITES PROJECT 2010 al Museo Mart di Rovereto. Nel 2015 il museo MAXXI di Roma gli dedica una retrospettiva «Images 1978-2014». Pubblica la raccolta retrospettiva sul progetto di ricerca trentennale sull’illuminazione artificiale ERSATZ LIGHTS case study #1 east-west (Hatje Cantz Verlag). Ha esposto nei più importanti musei, istituzioni, rassegne d’arte e festival internazionali di cinema tra i quali, MOMA San Francisco, Sundance Film Festival, Centre Pompidou, Tate Modern, Walker Art Centre Minneapolis, MADRE Napoli, Hayward Gallery Londra, Museum of Contemporary Art Chicago, la Biennale di Venezia ecc. Sull’opera dell’artista sono stati pubblicati numerosi libri e cataloghi; opere di Barbieri sono presenti in musei e collezioni d’arte pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti. antonio carnevale ////////// È nato a Milano, dove vive. Giornalista, è responsabile delle pagine culturali del settimanale «Panorama». Nel 2013 ha pubblicato il romanzo I santi muti e il libro-inchiesta Scene da un patrimonio. Ventiquattro interviste per capire e rilanciare il sistema dei beni culturali. È tra i fondatori di Conceptualfinearts.com, sito di ricerca rivolto a indagare i rapporti fra arte antica e contemporanea. angelo carotenuto ////////// Napoletano, 49 anni. Ha scritto due romanzi: Dove le strade non hanno nome (Ad est dell’equatore, 2013), ambientato alla vigilia delle elezioni comunali del ’93, e La grammatica del bianco (Rizzoli, 2014), formazione di un bambino attraverso il tennis e un’esperienza da raccattapalle a Wimbledon (finalista al premio Bancarella Sport, premio Geremia narrativa per ragazzi e 2° al premio Coni). Il suo primo racconto, Birra vino e cocktail è stato pubblicato nel 2000 in una raccolta edita da Marsilio. Scrive di sport, libri e spettacoli per «la Repubblica» e «il Venerdì». Ha scritto una tesi, in inglese, sulla tradizione delle commedie di Eduardo De Filippo. gea casolaro ////////// Nata a Roma nel 1965, vive tra Roma e Parigi. La sua opera ventennale indaga attraverso la fotografia, il video e la scrittura, il nostro rapporto con le immagini, l’attualità, la società, la storia. La sua ricerca mira ad attivare un dialogo permanente tra le esperienze e le persone, per ampliare la nostra capacità di analisi e di conoscenza della realtà, attraverso i punti di vista altrui. Nel 2009, per nove mesi, è stata in residenza presso la Cité Internationale des Arts di Parigi per il progetto Still here sul rapporto tra cinema e vita quotidiana nella capitale francese. Nel 2011, in occasione della Biennale di Venezia, ha esposto all’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo una serie di opere sul tema delle frontiere. Nel 2012 ha partecipato al Festival Images di Vevey, in Svizzera. Nel 2013 è stata in residenza presso l’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba, Etiopia, realizzando un lavoro collettivo con un gruppo di studenti della Alle School of Fine Arts dal titolo Sharing Gazes. Nello stesso anno ha realizzato due missioni fotografiche commissionate nel Principato di Monaco (il lavoro Forever Monte-Carlo è stato esposto presso The Forbes Galleries, a NewYork) e in Lussemburgo, al CNA – Centre national de l’audiovisuel, dove ha realizzato un ritratto delle complesse sfaccettature del Paese attraverso una mostra di mail-art-relazionale, intitolata «Send Me a Postcard, a site aside, inside, in between, away». Nell’autunno del 2015 è stata in residenza per oltre due mesi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Lima per un progetto di arte partecipativa ispirato dal lavoro del fotografo andino Martín Chambi, con un gruppo di studenti del Centro de la Imagen. stefano cerio ////////// Vive e lavora tra Roma e Parigi. Inizia la carriera di fotografo a 18 anni collaborando con «L’Espresso». Dal 2001 si interessa di fotografia di ricerca e video. Espone al Diaframma di Milano, alla galleria Recalcati di Torino, mentre del 2004 è il progetto Machine Man al Lattuada Studio di Milano. Nel 2005 espone Codice Multiplo a Città della Scienza di Napoli. Nel 2008 realizza per la Regione Piemonte una installazione per la mostra «Le Porte del Mediterraneo» a Rivoli ed espone alla Changing Role di Roma con «Souvenirs». Nel 2009 presenta «Sintetico Italiano» alla Certosa di Capri. Del 2010 sono le mostre alla Galerie Italienne di Pa- rigi e al Museo MADRE di Napoli (collettiva «’O Vero»). Nel 2011 espone «Winter Aquapark» alla Fondazione Forma di Milano; la mostra è accompagnata dal volume Aquapark, pubblicato da Contrasto. Nello stesso anno proietta il suo video Summer Aquapark al MAXXI di Roma. Nel 2012 espone la serie Night Ski allo Studio Trisorio di Napoli, mentre l’anno successivo la serie Chinese Fun da Noire Contemporary Art a Torino e nel 2014 Cruise Ship Mois de la Photo a Parigi. Nel 2015 Chinese Fun diventa un libro per Hatje Cantz e una nuova mostra alla Fondazione Volume! a Roma. enrica d’aguanno ////////// Art director, è docente di Graphic design all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Lavora nel campo della comunicazione grafica e della grafica editoriale dal 1983 (Liguori editore; Fondazione Mimmo Rotella; Electa Napoli; Prismi Editrice Politecnica Napoli; Mondadori Electa; arte’m/ prismi; Gangemi editore). Dalla progettazione grafica del libro d’arte, la collaborazione con le principali istituzioni nel settore dei beni culturali si è estesa alla cura dell’immagine relativa all’evento, è il caso delle mostre: «All’ombra del Vesuvio», «Caravaggio: l’ultimo tempo, 1606-1610», «Velázquez a Capodimonte», «Louise Bourgeois», «Albert Oehlen», «Piazza delle Arti», «Premio Nazionale delle Arti», «Il Teatro di San Carlo», «Ottocento a Capodimonte», «Paladino/Ravello», «Tony Cragg/Ravello», «Patrimoni da svelare per le Arti del Futuro». libero de cunzo ////////// È docente di Fotografia al Liceo Artistico “Boccioni-Palizzi” e all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dalla prima pubblicazione Basilicata ’78, con La Nuova Italia Editrice, ha promosso numerose iniziative realizzando reportage su architettura, ambiente e paesaggio. Ha collaborato con diversi enti e istituzioni pubbliche e private di rilievo. Ha partecipato con contributi monografici alle rassegne: «L’Italia nel paesaggio» (1999); «Le stanze dell’Arte» (2002); «Living Theatre / labirinti dell’immaginario» (2003); «Città, architettura, edilizia pubblica. Napoli e il Piano Ina-Casa» (2006); «Il Paesaggio degli Dei e il lavoro degli Uomini» (2012). Tra i titoli pubblicati: Infiniti possibili: Ravello; Grotta del Sole; Lontano dall’Isola Azzurra; Zone. Napoli/Parigi; La trama vivente della storia; a passo di Vigna; Vocis Imago/Imago Vocis. Di recente ha curato la mostra «Nove Visioni: nuove proposte per la fotografia d’autore» al PAN | Palazzo delle Arti Napoli. maurizio de giovanni ////////// Nasce nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Nel 2005 vince un concorso per giallisti esordienti con un racconto incentrato sulla figura del commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Il personaggio gli ispira un ciclo di romanzi, pubblicati da Einaudi nella collana Stile Libero, che comprende Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore e Anime di vetro. Nel 2012 esce per Mondadori Il metodo del Coccodrillo (Premio Scerbanenco), dove fa la sua comparsa l’ispettore Lojacono, ora fra i protagonisti della serie dei Bastardi di Pizzofalcone, ambientata nella Napoli contemporanea e pubblicata da Einaudi Stile Libero (nel 2013 è uscito Buio, il secondo romanzo della serie, e nel 2014 Gelo, il terzo). Nel 2014, sempre per Einaudi Stile Libero, de Giovanni ha pubblicato anche l’antologia Giochi criminali (con Giancarlo De Cataldo, Diego De Silva e Carlo Lucarelli). In questo libro appare per la prima volta il personaggio di Bianca Borgati, contessa Palmieri di Roccaspina, sviluppato in Anime di vetro. Nel 2015, è uscito per Rizzoli il romanzo Il resto della settimana. Tutti i suoi libri sono tradotti o in corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Russia, Danimarca e Stati Uniti. De Giovanni è anche autore di racconti a tema calcistico sulla squadra della sua città, della quale è visceralmente tifoso, e di opere teatrali. sabina de gregori ////////// Nata a Ginevra nel 1982, vive e lavora a Roma. Laureata in Storia dell’arte, studia la Street Art e i linguaggi del contemporaneo. Oltre a Titina Maselli. Autoritratto involontario di una grande artista (2015), per Castelvecchi ha già pubblicato: C215. Un maestro dello stencil (2013), Shepard Fairey in arte Obey. La vita e le opere del re della Poster Art (2011) e Banksy il terrorista dell’arte. Vita segreta del writer più famoso di tutti i tempi (2010), finalista al Premio Francesco Alziator 2011 per la saggistica. diego del pozzo ////////// Nato a Genova nel 1971, è giornalista e critico cinematografico. Si occupa anche di televisione e fumetti, nuovi media e comunicazione pubblicitaria e trans mediale. Attualmente insegna Comunicazione pubblicitaria e Storia e teoria dei nuovi media all’Accademia di Belle Arti di Napoli. È autore del libro Ai confini della realtà – Cinquant’anni di telefilm americani (Lindau, 2002), dei testi del volume fotografico Scenari – Dieci anni di cinema in Campania (Dante & Descartes, 2006) e curatore, assieme a Vincenzo Esposito, dei volumi Rock Around the Screen – Storie di cinema e musica pop (Liguori, 2009) e Il cinema secondo Springsteen (Mephite, 2012). Scrive regolarmente sulle pagine di Spettacoli e Cultura del quotidiano «Il Mattino» ed è responsabile dell’ufficio stampa dell’Italian Film Festival di Stoccolma organizzato dalla FICC – Federazione Italiana dei Circoli del Cinema. È nel comitato editoriale della rivista specializzata «Cinemasud» e cura la rubrica Comic Links sul mensile di informazione fumettistica «Mega». marco di capua ////////// Nato a Napoli nel 1959, vive a Roma. È docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Come critico d’arte ha scritto per «Il Giornale» di Montanelli e collabora a «L’Unità» e a «Panorama». È curatore di mostre di artisti contemporanei in gallerie e musei, tra le molte «Continuità dell’immagine» (Mole Vanvitelliana, Ancona, 1998), «Metropolitanscape. Paesaggi urbani nell’arte contemporanea» (Palazzo Cavour, Torino, 2006). È stato Commissario della XIII Quadriennale d’Arte di Roma, «Proiezioni 2000», e nel 2011 ha fatto parte del Comitato di studio per la 54. Biennale di Venezia, «Lo stato dell’arte. Regioni d’Italia». Ha scritto saggi in cataloghi, tra gli altri, di Edouard Manet, Edgar Degas, Paul Gauguin, Henri Matisse, Pierre Bonnard, Piet Mondrian, Edward Hopper, Alberto Burri (catalogo della Fondazione, Skira, 1999). Nel 2002 ha pubblicato la monografia Dalí, la vita e l’opera (Mondadori). Nel 2012 ha scritto In che sangue avanzare? («Nuovi Argomenti», n. 60), narrazione sulla figura di Jackson Pollock. carlos garaicoa ////////// Nato nel 1967 a L’Avana, appartiene a una generazione di artisti cubani, affermati a livello internazionale, la cui pratica multiforme e le opere provocatorie si muovono tra scultura, fotografia, disegno, video, installazione e interventi urbani. Adottando la sua città natale come fonte di ispirazione e come laboratorio, Garaicoa sviluppa un modello in cui L’Avana è metafora non solo della natura umana, ma anche del fallimento delle ideologie del XX secolo. Il concetto di utopia è al centro del suo lavoro: dal contrasto tra utopia e realtà nasce una serie di opere “progettuali” dove il modello di indagine si espande passando da L’Avana ad altre città. Nella sua opera la città si offre con infinte possibilità di rappresentazione, è il luogo dove prende forma l’immaginazione. La pratica artistica per Garaicoa è strumento e linguaggio per aprire 126 / 127 un dialogo con la città pubblica e la città privata. guglielmo gigliotti ////////// Nato a Roma nel 1967, critico d’arte, è docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Redattore de «Il Giornale dell’Arte», ha curato numerose mostre per gallerie e musei. È curatore, assieme ad Alberto Dambruoso, dei Martedì Critici. Ha pubblicato, tra l’altro, un saggio sull’arte degli anni ’80 in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010 (Electa, 2011), e Sei storie. Tirelli, Pizzi Cannella, Ceccobelli, Nunzio, Gallo, Dessì (Carte segrete, 2012). Nel 2015 ha curato il libro di Anna Paparatti Arte-vita a Roma negli anni ’60’70, edito da De Luca. viviana gravano ////////// Docente di Storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e direttore del Master per Curatore museale dello IED di Roma. È presidente di Routes Agency – Cura of Contemporary Art e direttore della rivista on line «Roots Routes». È autrice di monografie e di saggi in cataloghi. Tra gli scritti più recenti Paesaggi Attivi – saggio contro la contemplazione (Mimesis, 2011). francesco jodice ////////// Nato a Napoli nel 1967, vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo con particolare attenzione ai fenomeni di antropologia urbana e alla produzione di nuovi processi di partecipazione. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitiche proponendo la pratica dell’arte come poetica civile. Insegna al Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali della NABA e al Master di Fotografia di Forma entrambi a Milano e alla Scuola Holden di Torino. È stato tra i fondatori dei collettivi Multiplicity e Zapruder. Ha partecipato a Documenta, la Biennale di Venezia, la Biennale di São Paulo, alla Triennale dell’ICP (International Center of Photography) di New York e ha esposto al Castello di Rivoli, alla Tate Modern e al Prado. Tra i progetti principali l’atlante fotografico What We Want, l’archivio di pedinamenti urbani Secret Traces e la trilogia di film sulle nuove forme di urbanesimo Citytellers. Il suo recente progetto Sunset Boulevard. Fears and forecasts after the West esplora, attraverso fotografie e testi, il futuro della cultura occidentale. christian leperino ////////// Nato a Napoli 1979. Pittore e scultore, nella sua produzione artistica coniuga la ricerca sul corpo umano con quella sulle metropoli, indagando il rapporto tra forma dei luoghi e condizione umana. Al tema del paesaggio urbano s’intreccia così la riflessione sul tempo, sulle trasformazioni delle città e sui destini degli individui che le abitano. A questo nucleo concettuale sono dedicate le opere presentate in recenti esposizioni internazionali: City Layers, Palais Palffy, Vienna (2015); Linee di Confine. La natura, il corpo, le città, Museo Carlo Bilotti, Roma (2015); Writings, IICT – Istituto Italiano di Cultura, Tokyo (2014); Chiaroscuro, Accademia delle Arti di Mosca e Accademia di San Pietroburgo (2013); Landscapes of Memory, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2012); 54a Biennale di Venezia, Padiglione Italia (2011); Human Escape, MAC –Museu de Arte Contemporânea de Niterói, Rio de Janeiro (2010). Sue opere sono presenti in collezioni museali e spazi pubblici: Museo MADRE, Napoli; MMOMA – Moscow Museum of Modern Art di Mosca; IICT di Tokyo; Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Suzzara; Stazione Ferroviaria di Mergellina, Napoli. Dal 2013 è docente presso la Scuola di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. renato lori ////////// Nato a Napoli nel 1955. Diplomato in scenografia nel 1978, ha lavorato come scenografo in teatro al fianco di registi quali Ugo Gregoretti, Tato Russo, Toni Servillo e Mauro Bolognini, firmando la scenografia di oltre 70 spettacoli. Nel cinema, ha iniziato come assistente scenografo nel 1984. Ha collaborato, tra gli altri, nel 1985, a Phenomena di Dario Argento e, nel 1989, al Il Padrino parte III di Francis Ford Coppola. Ha firmato per il cinema e la televisione la scenografia di numerosi film. I suoi ultimi lavori sono L’uomo di vetro (2007) e Neve (2013) con la regia di Stefano Incerti, la fiction per Canale 5, ’O Professore (2006), per la regia di Maurizio Zaccaro, con Sergio Castellitto. Nel 2004 è entrato nella cinquina delle candidature ai Nastri d’argento per la migliore scenografia con il film Scacco pazzo che ha segnato l’esordio alla regia di Alessandro Haber. Nel 2000 ha pubblicato per l’editore Gremese il libro Il lavoro dello scenografo, uscito nel 2006 anche in Francia e ripubblicato in edizione aggiornata nel 2011. Nel 2007 ha pubblicato Scenografia e Scenotecnica per il teatro, mentre prossimamente, sempre per Gremese, il volume Scenografia per il cinema. Dal 1996 ha insegnato Scenografia e Scenotecnica presso le Accademie di Belle Arti di Brera a Milano, Bari, Catanzaro, Torino, Venezia, Foggia e Catania. Attualmente è docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. claudio malice ////////// Nato a Reggio Calabria nel 1972, si è laureato a Napoli discutendo una tesi di Storia dell’arte moderna con Francesco Negri Arnoldi. Ha successivamente approfondito i suoi studi storico-artistici con una particolare attenzione all’ambito archivistico e metodologico (Master Universitario di II Livello in Archivistica, Biblioteconomia e Metodologia della ricerca all’Università “Federico II”, Diploma della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica conseguito presso l’Archivio di Stato di Napoli, SICSI in Storia dell’arte presso la SUN). Ha collaborato con vari periodici d’arte, tra cui «Terzo occhio», «Brutium», «Daidalos» e «Art Folio», occupandosi di arte moderna e contemporanea. Tra i suoi studi recenti il saggio Il cardinale Oliviero Carafa e il «Tractato» di fra Bernardino Siculo (2007) e la preparazione della monografia sul pittore tardo caravaggesco Matthias Stom. Attualmente è docente di Storia dell’arte nell’Accademia di Belle Arti di Napoli e in precedenza ha insegnato nelle accademie di Firenze, Sassari, L’Aquila e Palermo. lea mattarella ////////// Titolare della cattedra di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Roma, è critico d’arte del quotidiano «la Repubblica». Collabora a diverse riviste specializzate, partecipa a convegni e giornate di studio e ha curato numerose mostre in spazi pubblici e privati. Ha scritto, tra gli altri, saggi su Salvador Dalí, Henri Matisse, Pierre Bonnard, Amedeo Modigliani, Pablo Picasso, Alberto Burri, Mario Sironi, la natura morta nell’Ottocento, l’arte delle donne, la scultura contemporanea, il contributo degli artisti alle scenografie teatrali, il rapporto tra arte e cinema. maziar mokhtari ////////// È nato a Esfahān (Iran) nel 1980. Dal 2004 vive a Roma, dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Del 2013 è la personale «Yellow Apocalypse» alla (galleria +) Oltredimore di Bologna, seguita, nel 2015, da «Ceremony» alla Dino Morra Arte Contemporanea di Napoli. Nel 2013 partecipa alla mostra «Artisti Nomadi in Città d’Ar- te» al MACRO di Roma, nel 2015 partecipa alle collettive «Confusion (Aesthetics of the Disappearance)» alla Temple University Stuxgallery di New York e «Meccaniche della Meraviglia» presso la Fondazione Leonesio di Puegnago del Garda. In tutte queste occasioni Mokhtari espone fotografie, video e installazioni ambientali, dominate dall’interesse per la dimensione psicologica del giallo. Hanno scritto di lui Bruno Corà, Chiara Pirozzi, Eugenio Viola, Pio della Volpe, Aldo Iori, Gaia Serena Simionati, Tiziana Musi, Giovanna Della Chiesa, Nino Abate. giorgio ortona ////////// Nato a Tripoli nel 1960, vive e lavora a Roma. Laureato in architettura, ha conseguito il Diploma del II Corso Internazionale di Pittura di Cadice (diretto da Antonio Lopez Garcia). Concepisce ogni sua opera non come unitaria e finita, ma appartenente ad un discorso molto più vasto ed ampio, che prevede nel corso del tempo la rivisitazione del dipinto stesso, o addirittura l’eliminazione fisica e totale del quadro. Tra le principali mostre personali: I corpi Le nature morte Le costruzioni (Vittorio Sgarbi, Milano e Roma nel 2010); Roma Rosa, (Valerio Magrelli, Roma 2012); La città di mezzo (Marco Di Capua, Ragusa 2002); Roma, (Lea Mattarella, Palermo 2006); Nel labirinto. Nel 2011 espone alla 54a Biennale di Venezia sia nel Padiglione Italia che in quello della Repubblica Cubana. del collettivo artistico Pennacchio Argentato, con cui ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Insegna Scultura per la Didattica e Disegno per la Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. elio pecora ////////// Nato nel 1936 a Sant’Arsenio (Salerno), abita a Roma. Dirige il quadrimestrale internazionale «Poeti e Poesia». Libri di poesia recenti: Simmetrie, Mondadori, 2007; La perdita e la salute, I quadri di Orfeo, 2008; Tutto da ridere?, Empiria, 2010; Nel tempo della madre, La vita felice, 2011; In margine e altro, Oedipus, 2011; e nelle edizioni Orecchio Acerbo, L’albergo delle fiabe, 2007; Un cane in viaggio, 2011; Firmino e altre poesie, 2014. I suoi libri di prosa: Estate, Bompiani, 1981; Sandro Penna: una biografia, Frassinelli, 1984, 1990, 2006; I triambuli, Pellicano, 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, Frassinelli, 1992; L’occhio corto, Il Girasole, 1995; Queste voci, queste stanze, Empiria, 2009; La scrittura immaginata, Guida, 2008. Per il teatro i testi rappresentati: Alcesti, 1984; Pitagora, 1987; Prima di cena, 1987, Premio IDI; Nell’altra stanza, 1989; Il cappello con la peonia, 1990; A metà della notte, 1992; Trittico, 1995. Radiocommedie trasmesse: Il giardino, Radio Tre, 1996; Il segreto di Lucio, RadioTre, 1997. Nel 2009 una raccolta di testi teatrali Teatro, Bulzoni, e una scelta di scritti letterari La scrittura immaginata, Guida. Nel 2012, La scrittura e la vita (conversazioni con Francesca Sanvitale), Aragno. pasquale pennacchio ////////// Nato a Caserta nel 1979, ha studiato Scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli e alla Staedelschule di Francoforte. Fa parte dal 2002 roberto piloni ////////// È nato nel 1966 a Roma dove vive e lavora. Dagli anni Novanta prende parte a diverse manifestazioni espositive ed eventi artistici in spazi pubblici e gallerie private. Successivamente ha condotto la sua ricerca verso una progettualità che considera sempre più importante il rapporto tra il contesto ambientale e l’opera installata, utilizzando media diversi, dalla pittura alla fotografia, dalle installazioni al video. Ha insegnato presso le accademie di Palermo e Macerata; attualmente è docente all’Accademia di Belle Arti di Roma. bernardo siciliano ////////// È nato a Roma nel 1969. Nel 1986 ha esposto i suoi primi lavori, presentati da Attilio Bertolucci, alla galleria Carlo Virgilio di Roma. In seguito le sue gallerie di riferimento sono state Il Gabbiano (Roma), Galleria Forni (Bologna, Milano), Forum Gallery (New York) e, oggi, l’Aicon Gallery (New York, Londra). Nel 1996, anno in cui ha partecipato alla XX Quadriennale 1950-1990: Ultime generazioni (Palazzo delle Esposizioni, Roma), si è trasferito a New York, dove attualmente vive e lavora. I suoi temi preferiti riguardano il paesaggio urbano, soprattutto newyorchese, e, attraverso una serie di ritratti e di autoritratti, la figura umana. Molte le sue mostre, sia in Italia che all’estero. Tra queste Urban Views, alla Forum Gallery (New York), e Italian Factory, la nuova scena artistica italiana, a Santa Maria della Pietà, Venezia (2003); Jet-Lag, al Chiostro del Bramante di Roma (2005); Metropolitanscape, paesaggi urbani nell’arte contemporanea, a Palazzo Cavour di Torino; Chinatown, alla Fondazione Durini di Milano e al Liu Haisu Art Museum di Shanghai (2006); Nude City, al MACRO di Roma e Bernardo Siciliano, alla Forum Gallery di New York (2010); The Tennis Player, alle Fruttiere di Palazzo Te di Mantova (2013); Panic Attack, all’Aicon Gallery di New York (2015-2016). studio azzurro ////////// È un gruppo di ricerca artistica fondato a Milano nel 1982 da Fabio Cirifino (Fotografia), Paolo Rosa (Arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (Grafica e animazione), ai quali nel 1995 si è unito Stefano Roveda, esperto di sistemi interattivi. Da più di trent’anni lo Studio indaga le possibilità poetiche ed espressive dei linguaggi multimediali che così fortemente incidono sulle relazioni e i modelli di messa in rete della nostra epoca. Seguendo pratiche affini all’estetica relazionale con particolare attenzione per le conseguenze sociali delle azioni e dei lavori artistici, progetta e realizza dapprima videoambienti, poi ambienti sensibili, spettacoli teatrali e film. Oltre allo sviluppo di opere sperimentali, il gruppo si caratterizza per esperienze più divulgative come la progettazione di musei e di mostre tematiche, attraverso le quali, senza rinunciare alla ricerca, ha potuto costruire un contesto comunicativo che permetta un’attiva e significativa partecipazione dello spettatore all’interno di un impianto narrativo, ispirato all’ipertestualità e all’oscillazione fra elementi reali e virtuali. L’anima di Studio Azzurro è unica, seppur contenuta in corpi diffe- renti. È un’anima formata da molte persone che negli anni, per brevi o lunghi periodi, hanno contribuito con i propri pensieri e le proprie sensibilità a costruire una atmosfera creativa unitaria, che ha favorito questo particolare tipo di sperimentazione, permettendo di mantenere una rotta e una coerenza di significati lungo il corso di un’attività molto articolata. monica torrusio ////////// È nata a Roma dove vive e lavora. Insegna Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Napoli. All’inizio degli anni Novanta apre la società “Arterie – la circolazione dell’arte” con la quale organizza numerose mostre in gallerie e musei. Ha fatto parte della commissione esecutiva di “Opera italiana” su progetto di Achille Bonito Oliva alla XLV edizione della Biennale di Venezia del ’93. Ha pubblicato nel ’96 il volume Le figure del tempo nell’arte contemporanea (Ulisse & Calipso). andrea zanella ////////// È nato a Terni nel 1958, vive tra Roma e Grasse. Insegna Storia dell’arte moderna e Museologia all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Specialista di arte italiana e francese tra XVIII e XIX secolo, ha partecipato a mostre e progetti di ricerca in Italia e in Francia; dal 2010 è curatore delle collezioni e del programma espositivo del Musée Jean-Honoré Fragonard – Collection Hélène et Jean-François Costa di Grasse, del quale ha anche curato il progetto museografico con l’architetto Maxime Ketoff. ANNO I - N.2