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Introduzione.
L’acqua dolce
Non ti mancherà mai l’acqua finché non si asciuga il
pozzo.
Un blues tradizionale
Quando ero bambina, per bere la mia famiglia era solita prendere l’acqua con una vecchia pompa a mano in ghisa che si trovava nella veranda
davanti casa. Troppo alta per me, che non riuscivo neanche ad arrivare
alla leva, era abbastanza solida da tirare su l’acqua del pozzo e ancora ricordo che quando bevevo un bicchiere d’acqua era sempre fresca e buona. Quella pompa aveva generato in me una semplice convinzione: tutti
sotto casa avevano un pozzo dove c’era tutta l’acqua di cui avrebbero
potuto avere bisogno.
È passato un numero sconcertante di anni prima che riflettessi meglio sull’acqua e su dove la gente la prendesse. In una calda giornata nello Yemen settentrionale, mentre percorrevo un sentiero pietroso che
dalla città di Kawkaban sulla sommità della collina andava avanti per
diversi chilometri fino alla pianura sottostante, ho incrociato una dozzina di donne di paese che salivano portando sulla testa enormi e pesanti
orci d’acqua. Il mio accompagnatore yemenita mi spiegò che le donne
facevano quella strada tutti i giorni, tutto l’anno. «Che Allah ti accompagni», dicevano generosamente le donne ad alta voce, ma io ero sconvolta per la fatica che dovevano fare per qualcosa che io potevo avere
semplicemente aprendo un rubinetto.
Da quel momento ho imparato che le mie convinzioni sulla gente e
l’acqua erano completamente sbagliate. Il 40 per cento della popolazione mondiale prende l’acqua fuori casa, e ce la porta da pozzi, fiumi, stagni o pozze fangose. E, ancora più significativo, molti non ne hanno abbastanza: 14 miliardi di persone, quasi il 20 per cento degli abitanti del
pianeta, non hanno accesso a una quantità adeguata di acqua pulita. E
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questo non perché non ce ne sia abbastanza per soddisfare tutte le nostre necessità. Gli esseri umani usano solo un quarto dell’acqua dolce
del mondo, ma solo di rado l’acqua si trova proprio dove la vogliamo o
nelle quantità auspicabili. La maggior parte dell’acqua potabile si trova
nei ghiacciai o in profondità negli acquiferi, o va a finire negli oceani,
lontano dalla nostra caotica civiltà.
«Se finisce la benzina, il motore si ferma», mi è stato detto nel 1989
ad Ankara dal primo sottosegretario turco Kamran Inan. «Ma se finisce
l’acqua, si ferma la vita». La nostra capacità di usare l’acqua disponibile
sta diventando sempre più importante per poter vivere su questo pianeta. La gestione dell’acqua è il cuore della vita nei posti aridi – da Los Angeles a Lagos, da Damasco al bacino del Murray-Darling in Australia –
dove il margine tra sopravvivenza e catastrofe è minimo, e anche i piccoli cambiamenti hanno un impatto molto più vistoso che non in un
territorio umido, più sicuro. Ho visto le parole dateci acqua, spruzzate in vernice rossa brillante sopra il muro di un villaggio sul passo
Khyber, o ancora dio, dacci l’acqua, scarabocchiate sulle case della
Turchia sud-orientale, e pregate per la pioggia dipinte su un camion in Texas, dove quattro anni di siccità hanno inaridito il suolo a tal
punto che bastano le scintille delle marmitte delle macchine per appiccare un incendio e le autocisterne dell’acqua sono entrate a far parte della vita quotidiana. In tutto il mondo, per sessantamila chilometri quadrati, una fetta di terra, equivalente grosso modo al territorio dello stato
della Virginia orientale, ogni anno si trasforma in deserto.
Allo stesso tempo, altre persone e altri posti si trovano in pericolo
perché di acqua ce n’è troppa: Venezia sta sprofondando mentre il mare
sale, e il delta dell’Olanda è a rischio come mai prima; nelle violente
inondazioni dello stato indiano di Orissa alla fine del 1999 sono annegate oltre diecimila persone; in Mozambico, dopo le forti piogge della primavera del 2000, ci sono state inondazioni catastrofiche che hanno fatto
migliaia di vittime e si sono lasciate dietro mezzo milione di persone
senza un tetto. La maggior parte della popolazione mondiale vive nelle
regioni costiere o nelle pianure alluvionali, dove è sempre più esposta al
rischio delle inondazioni, fra le più frequenti e le più rovinose di tutte le
catastrofi naturali.
Mentre l’umanità ha sempre più sete nei luoghi più aridi della terra,
o è minacciata dai fiumi in piena e dai mari che avanzano nelle regioni
più umide, il costante aumento della popolazione crea una pressione sul
terreno e sull’acqua. Per arrivare a un miliardo di abitanti sul pianeta è
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servito tutto il corso della storia fino al 1830, ma sono bastati solo cento
anni per raggiungere il secondo miliardo, appena 44 per il terzo e non
più di una dozzina per l’ultimo. In molti posti le donne stanno facendo
pochi figli e c’è una reale speranza che in questo secolo la popolazione si
stabilizzi, ma ormai siamo sei miliardi e ogni mese si aggiunge al pianeta
l’equivalente degli abitanti di una città come New York: novanta milioni di persone l’anno. Pensate a un milione di vite perse in una carestia o
in una guerra: bastano quattro giorni per rimpiazzarle.
Mentre noi aumentiamo di numero, aumenta sempre di più la
quantità d’acqua che usiamo e attingiamo in modo sempre più macroscopico da fiumi e acquiferi. A partire dalla metà dell’ultimo secolo, la
popolazione è raddoppiata, mentre è triplicato il consumo dell’acqua,
che nel frattempo abbiamo sporcato con rifiuti urbani, industriali e
agricoli. Ora ci troviamo davanti alla duplice necessità di sostenere una
quantità senza precedenti di persone e di pagare lo scotto di uno sfruttamento agricolo dettato dall’enorme fabbisogno alimentare in termini di
fertilizzanti, pesticidi, salinazione, deforestazione, erosione ed ipersfruttamento dei pascoli. Oltre la metà dei grandi fiumi del mondo è inquinata o si sta esaurendo, nel xx secolo è andata perduta metà delle zone
umide, e in tutto il mondo i sistemi di acqua dolce fanno sempre più fatica a sostenere la vita umana, animale e vegetale.
Ogni anno con mio marito visitiamo il parco nazionale di Ranthambhore, la riserva della tigre, nello stato indiano del Rajasthan. Lì la
linea di demarcazione tra terra pubblica e privata è considerevole: il paesaggio verde inizia bruscamente con la foresta mentre il terreno al di
fuori del parco è completamente brullo. Gli alberi sono stati abbattuti,
non da individui avidi e disgustosi ma da donne in cerca di legna per
cucinare la cena alla famiglia. Nell’India rurale, dove la legna è ancora il
combustibile usato normalmente nelle case, ogni anno vengono divorati 340.000 ettari di foresta. Quel paesaggio senza alberi mi ossessiona,
rappresenta persone senza alternative. In India vive oltre un miliardo di
persone per cui sta diventando sempre più difficile sopravvivere senza
divorare la terra e l’acqua, per non parlare delle centinaia di milioni di
persone che in India stanno confluendo nella classe media e che consumeranno ancora più cibo, più calore, più energia e più acqua, se riusciranno a disporne, proprio come i loro corrispondenti nel mondo sviluppato.
Per le strade alberate di Nuova Delhi, mi sono recata al Centro per
la ricerca demografica per parlare con un uomo che sull’acqua ha scritto
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molto, B. G. Verghese. I milioni di indiani assetati gli creano una forte
preoccupazione: «Oggi la popolazione è quasi triplicata rispetto ai tempi dell’Indipendenza», afferma. In India «Ci sono voluti tremila anni
per arrivare a un miliardo, ma ce ne vorranno molti di meno per arrivare a due. Le conseguenze di questa crescita si stanno già cominciando a
vedere. Quando la popolazione era meno numerosa, le necessità erano
limitate ed era possibile soddisfarle: o ci riuscivi o te ne andavi. Questa
scelta ora non c’è più: la crescita travolgente delle nostre città richiede
sempre più acqua per una vita di qualità possibilmente accettabile».
Mio marito, che ha vissuto a Nuova Delhi poco dopo che l’India
aveva ottenuto l’indipendenza, nel 1947, mi racconta che tutto attorno
alla bella periferia dove si trova ora l’ufficio di Verghese, di sera si sentiva il richiamo degli sciacalli, nei cespugli c’erano le starne e di tanto in
tanto un cinghiale vagava per la radura lì davanti. Ora per trovare qualcosa che ricordi la giungla si devono fare ore di macchina. La crescita
della città, come quella di tutta l’India, è aumentata vertiginosamente in
modo incontrollato. Una volta tranquilla ed elegante, Nuova Delhi, ancora seducente da molti punti di vista, è diventata una metropoli sovraffollata, senza un angolo tranquillo. Gli amici di Nuova Delhi parlano in
continuazione di inquinamento, traffico e malessere. Tuttavia esistono
due Delhi, la nuova e la vecchia, e la vecchia è molto peggio, intasata di
gente e veicoli, colpita da continue esplosioni di tifo, dengue e malaria.
Un amico che vive nella Vecchia Delhi, Shadiram Sharma, dice che
mentre una volta questa città era un paradiso, ora è quasi certamente
l’inferno. Ogni giorno duecento milioni di litri di acqua reflua non trattata si riversano nello Yamuna, il fiume che scorre attraverso la città.
Questa situazione si ripete in tutto il paese. «Il cinquanta per cento della
morbilità dell’India è dovuta all’acqua», mi dice Verghese. «Se non
avremo più acqua, il colera, i disturbi gastrointestinali, la diarrea, la dissenteria, la malaria, le affezioni cutanee, le malattie oculari e le epidemie
che già ci sono si aggraveranno causando problemi sociali e politici».
Una delle più gravi preoccupazioni dell’India moderna è il crescente
fabbisogno di energia elettrica. Il subcontinente indiano, alle prese con
la crescita e lo sviluppo, è uno dei maggiori utilizzatori di energia elettrica del mondo, e la carenza energetica, i cali di elettricità e le oscillazioni
di tensione sono un evento quotidiano. In alcune parti di Delhi, la vecchia e la nuova, l’aria è densa del fumo e del rumore dei generatori a gas
usati per illuminare le case della città quando la fornitura viene meno.
Ma Verghese crede che, per quanto possa essere grave la crisi energetica
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dell’India, il problema più spaventoso che il paese si trova a dover affrontare sia la carenza idrica. «Per l’energia ci sono alternative», dice.
«Ma per l’acqua alternative non ce ne sono, a parte il riciclaggio e la dissalazione. E la dissalazione non è una scelta facile in paesi che hanno le
dimensioni di un continente. Bene, ho l’acqua, e così forse la mia riserva idrica va bene, ma che cosa succede a uno che di acqua non ne ha?
Che cosa gli succede? Di chi è la responsabilità? Forse dirà: “Bene, va
tutto bene, il mio buon amico Verghese ha l’acqua. Mi sacrificherò per
lui”? Non ce lo vedo a parlare così. Perché mai dovrebbe?».
Un altro pericolo Verghese lo vede nella fede che i suoi connazionali
hanno nelle acque che li hanno sostentati per così tanto tempo. «Il
nome Gange evoca una civiltà elevata», avverte. «E se le divinità celesti
potevano vivere con l’acqua del Gange, perché non dovremmo farlo noi
mortali?»
Verghese insiste sul fatto che questa fede nelle acque non riesce a
prendere in considerazione le condizioni necessarie alla sopravvivenza, e
ancora meno quelle necessarie a una buona qualità di vita o a conservare
i sistemi naturali del mondo. «Quando sei tremendamente povero,
l’ambiente passa in seconda linea», mi dice. «Viene prima la sopravvivenza». Nel 1985, 750 villaggi indiani erano senza qualsiasi fonte d’acqua. Undici anni dopo, 65.000 villaggi si sono trovati nella stessa difficile situazione. Stando in mezzo a undici milioni di persone, Verghese sa
che senza riserve, senza controllo, un numero sempre crescente di esse è
destinato a ritrovarsi in crisi. «Non penso che possiamo facilmente liberarci di questi problemi», sospira. «Le piogge sono stagionali, non sono
distribuite uniformemente nel tempo o nello spazio. Dobbiamo pianificare, non possiamo più aspettare semplicemente che succeda».
Certo nessuno potrebbe obiettare qualcosa riguardo alle preoccupazioni di Verghese per le persone in stato di disperata povertà che vivono
proprio oltre il fiume Yamuna. Lui vive nella ridente periferia di una
città che già si trova ad affrontare un tremendo stress idrico, io nella ridente periferia di una città lontana da quel tipo di problema, ma so che
Verghese alla fine sta parlando di noi tutti: «L’essenza del problema è la
crescente pressione della popolazione – afferma – e chiunque non ne
tenga conto è molto, molto poco lungimirante. Il prossimo secolo assisterà a una crisi idrica, e quella crisi sarà molto più difficile da gestire e
sarà molto più complessa di quanto non lo sia stata la crisi energetica».
L’ambientalista americano Joe Podgor è d’accordo. «C’è un principio ecologico fondamentale, una legge di natura, chiamata “capacità di
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portanza”», spiega. «Un sistema biologico può fornire solo una data
quantità di cibo per i consumatori di proteine, una data quantità di biomassa per gli erbivori sotto forma di vita vegetale, e solo una data quantità di acqua in grado di circolare. È la legge dei ritorni decrescenti. Non
si può invitare un numero illimitato di persone a cena quando si hanno
solo dodici coperti e una pentola di minestra. C’è un limite alla crescita.
Questa è la “capacità di portanza”».
Viviamo in un sistema di risorse finite. Non c’è molto che possiamo
fare per cambiare la quantità di acqua di fatto esistente sulla terra. In un
ciclo liquido, l’energia solare assorbe l’acqua dalla terra e la rimanda indietro sotto forma di pioggia, nevischio o neve. Ma anche se la quantità
dell’acqua è già ampiamente stabilita, si può ancora fare molto per cambiarne la localizzazione e la qualità. La nostra possibilità di accedere all’acqua dolce e pulita è stata radicalmente trasformata da vari fattori: dighe, riserve, deviazioni, uso eccessivo e inquinamento. Gli effetti dell’uso e dell’abuso dell’acqua ricadono sempre più spesso lontano da dove
hanno origine. Coloro che credono che i problemi idrici di altre regioni
non avranno effetto su di loro dovrebbero riflettere sul fatto che circa la
metà della frutta e della verdura e gran parte dei prodotti caseari degli
Stati Uniti vengono dalla California, uno stato povero d’acqua. Dovremmo comprendere che la bonifica delle zone paludose ha significato
meno pioggia per Miami e che gli scarichi industriali riversati nel Reno
in Germania hanno dovuto essere risanati nei Paesi Bassi.
All’inizio di questo nuovo secolo, lo stress idrico affligge un terzo
dei paesi del pianeta. L’eccessivo pompaggio delle falde acquifere ha ridotto l’acqua a livelli critici da Atene a Osaka. A Bangkok, Giacarta,
Manila e Città del Messico, gli acquiferi sono stati consumati a tal punto che sotto le città la terra sta cedendo. Le città degli Stati Uniti occidentali acquistano nuovi terreni unicamente per guadagnare i diritti
sull’acqua che si trova sotto, e Los Angeles assume periodicamente degli
“agenti antisiccità” per acchiappare i “criminali” che lavano il marciapiede o annaffiano il prato. A Taiz, una deliziosa cittadina incastonata
fra le montagne dello Yemen, dove non molto tempo fa sono morte tre
persone in una faida per un pozzo d’acqua, dalle condutture l’acqua arriva solo una volta ogni tre settimane.
A mano a mano che le riserve idriche diminuiscono, il prezzo dell’acqua aumenta. A Onitsha, in Nigeria, le famiglie più povere spendono per l’acqua quasi il venti per cento del loro reddito. A Sydney, in Australia, il furto dell’acqua, che può essere denunciato a un numero d’e14
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mergenza attivo ventiquattro ore su ventiquattro, comporta una multa
di 20.000 dollari. A Bombay, la mafia locale chiude i rubinetti dell’acqua e fa pagare il pizzo ai residenti.
Le predizioni di Verghese sulle esplosioni di violenza determinate
dallo stress idrico nel subcontinente indiano sono già diventate realtà.
Nel 1991, in Karnataka, diciotto persone sono state uccise e altre trentamila sono state sfollate in seguito alle manifestazioni di protesta contro
la decisione del governo di cedere l’acqua del fiume Cauvery. Quello
stesso anno, a Dacca, in Bangladesh, cinquemila persone sono insorte,
fracassando macchine e tirando sassi contro la polizia per protestare
contro la mancanza d’acqua, di cui davano la colpa all’India, che rubava
quella del Gange. Di recente nel Tamil Nadu, alcuni banditi armati
hanno requisito un treno, tenendo a bada passeggeri e agenti della sicurezza, per rubare l’acqua dei serbatoi dei servizi igienici servendosi di
secchi e latte.
Il fermento non è limitato al solo subcontinente indiano. In alcuni
punti critici i rivoltosi o gli eserciti in conflitto hanno preso di mira gli
strumenti di controllo dell’acqua. Nell’agosto del 1998, in Congo, i soldati ribelli hanno preso il controllo della diga di Inga, tagliando a Kinshasa la luce e l’acqua. In seguito, sempre quello stesso anno, i ribelli in
Lesotho si sono impadroniti del progetto per la costruzione della diga di
Katse, che doveva fornire acqua al Sudafrica. In risposta, le truppe sudafricane hanno invaso il Lesotho e recuperato la diga, uccidendo diciassette ribelli. Nel 1998, e di nuovo nel 2000, alcune tribù delle Fiji proprietarie di terreni, armate di lance, asce e bastoni, hanno respinto le
forze armate nel centro brullo dell’isola di Levu per impadronirsi di
Monasavu, l’unica grande diga con centrale idroelettrica del paese.
Non è solo nei lontani paesi in via di sviluppo che la mancanza d’acqua
ha innescato le proteste. Durante la lunga siccità degli anni novanta in
Spagna, l’arida città di Denia ha cominciato a progettare un acquedotto
per un fiume vicino. I villaggi intorno non hanno dato il permesso a
Denia di attraversare il loro territorio, e i sabotatori hanno subito distrutto le condutture di un impianto di depurazione dell’acqua. Diversi
anni fa, in Galles, gli abitanti delle campagne hanno fatto esplodere le
dighe di due bacini idrici per impedire che la loro acqua fosse convogliata nella città inglese di Liverpool. È con stupore che apprendo la notizia che vicino a dove vivo io, in una città dove credevo che l’acqua non
mancasse, in uno stato ricco di risorse idriche come quello di New
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York, alcuni agricoltori, rimasti senz’acqua nei pozzi, per l’esasperazione
hanno preso d’assalto l’acquedotto pubblico per procurarsi l’acqua necessaria al raccolto.
Qualche anno fa alcuni abitanti di Callicoon, nello stato di New
York, hanno organizzato un attacco politico in grande stile contro un
vicino che voleva vendere alla Great Bear Bottled Water Company l’acqua che sgorga dall’acquifero comune che si trova sotto la loro terra. I
vicini accusavano l’uomo di esaurire le risorse idriche causando l’allontanamento di orsi bruni e procioni, e di prosciugare i ruscelli delle trote.
A commento, Paul Levy, un proprietario della zona, ha posto un grave
interrogativo: «Esiste qualcuno a cui sia davvero consentito di vendere
l’acqua sotterranea o di superficie semplicemente perché si trova nella
sua proprietà?» 1. Questo semplice quesito posto da un piccolo proprietario è pertinente sia che si tratti di stati che di individui: a chi appartiene l’acqua?
Non esiste una soluzione universalmente accettata a livello internazionale per il problema della divisione dell’acqua. Ci sono, dunque, dei
problemi da risolvere: come possiamo fare sì che l’acqua sia distribuita
equamente per i vari bacini; o decidere se l’acqua è un bene prezioso o
una linfa vitale; o sapere se si possono evitare o meno guerre per l’acqua.
Mentre le persone e gli stati tentano di stabilire delle priorità per comporre richieste inconciliabili, le conseguenze possono rivelarsi fatali. Da
un amico ho avuto una foto del 1903, scattata davanti al granaio di una
fattoria dell’arido Kansas ai cadaveri di Daniel, Alpheus e Burch Berry,
tre agricoltori uccisi dai loro vicini allevatori, i Deweys, per i diritti sull’acqua. Nello scrivere questo libro ho pensato spesso alla morte dei Berry. Quella foto di un secolo fa rappresenta per me ogni genere di battaglia per l’acqua, da quella degli agricoltori che si contendono un pozzo
isolato a quella delle nazioni che si combattono per un fiume in ogni
continente.
Il problema della proprietà e dei diritti ha causato innumerevoli dispute, da quella fra Slovacchia e Ungheria sul Danubio a quella tra Namibia e Botswana per i diritti sull’Okavango. Nelle isole canadesi dell’arcipelago di Magellano, ci sono due comunità che si contendono furiosamente una precaria falda di acqua dolce. Negli Stati Uniti, la Georgia ha minacciato di chiedere l’intervento della Guardia nazionale durante una controversia con la Florida e l’Alabama sul Chattahoochee.
Incoraggiato dalla vittoria sul Colorado per una causa del valore di do16
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dici milioni di dollari sul fiume Arkansas, il Kansas ha citato il Nebraska
per recuperare 38 miliardi di litri d’acqua l’anno dal fiume Republican.
Sono poche le fonti d’acqua così insignificanti da non poter dar vita
a un conflitto. Di recente il governo federale è stato coinvolto in una
controversia tra il parco nazionale di Yellowstone e alcuni proprietari
che stavano sfruttando le vicine sorgenti geotermiche. Il servizio del
parco affermava che questi prelievi interferivano con il geyser “Vecchio
fedele”. Perfino le nuvole sono oggetto del contendere. Far piovere in
un posto può danneggiare gli agricoltori sottovento, dando il via a tutta
una nuova serie di contese legali. Quando gli agricoltori del Montana
orientale si sono lamentati che il Nord Dakota aveva rubato la loro
pioggia, la Commissione per le risorse naturali (Board of Natural Resources) del Montana ha rifiutato di concedere al Dakota settentrionale
l’autorizzazione per l’inseminazione delle nubi. In seguito la decisione è
stata ribaltata, ma secondo la transazione il Dakota settentrionale doveva finanziare uno studio per dimostrare che non stava sottraendo le nuvole al Montana. In un’altra causa, l’Idaho ha scatenato i funzionari del
Wyoming quando ha deciso di inseminare le nuvole sul parco naturale
del Grand Tetons per migliorare il manto nevoso sul versante occidentale delle catene montuose. Il Wyoming non lo avrebbe permesso perché, sosteneva, l’inseminazione avrebbe creato un eccessivo deflusso sulle pendici del versante orientale delle montagne sovraccaricando le dighe locali.
Anche se ci troviamo davanti al fatto allarmante che le riserve materiali di acqua sono limitate, scaviamo pozzi ancora più profondi, togliamo il sale dall’acqua dell’oceano a caro prezzo e usiamo e ricicliamo in
continuazione l’acqua. Lottiamo per il controllo di fiumi che si riducono e spostiamo enormi quantità di acqua per distanze sempre più grandi in tutto il mondo ricorrendo a mezzi sempre più inverosimili. Scenari
che solo pochi anni fa sarebbero forse sembrati ridicoli, come il trascinamento degli iceberg dal circolo polare artico per rifornire città a corto
d’acqua, ora appaiono plausibili. Gli abitanti di Las Vegas ora comprano l’acqua attraverso le Rockies del Wyoming, e rappresentanti degli
sceicchi di Abu Dhabi si sono offerti di costruire dighe distanti chilometri (e nazioni) nelle montagne del Pakistan per poter portare a sud le
acque di quelle montagne. In Cile, si stanno coltivando perfino le nuvole. A El Tofo, ricercatori universitari cileni intrappolano le nebbie costiere fra enormi pareti costituite da reti a maglie di polipropilene che
bloccano l’umidità e raccolgono abbastanza acqua dolce pulita da rifor17
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nire interi villaggi di montagna. Servono dieci milioni di goccioline di
nebbia per formare una sola goccia d’acqua, eppure una trappola per
nebbia di 12 metri per 4 può produrre 42 litri d’acqua al giorno. Cinquanta di queste trappole mettono insieme poco più di cinque litri al
giorno per ciascuno dei quattrocento abitanti del villaggio.
I piani idrici più ambiziosi sembrano confondere la realtà con la
fantascienza. Una società norvegese ha sviluppato un enorme contenitore pieghevole di tessuto plastificato chiamato “Medusa” che può trasportare fra i 30.000 e gli 80.000 metri cubi di acqua dolce dai fiordi alle
località che ne hanno necessità come Gibilterra o Israele. La Global Water Corporation del Canada ha firmato un accordo per trasportare 7.568
milioni di litri d’acqua dal Blue Lake di Sitka fino in Cina servendosi di
questa “Medusa”, almeno finché il governo canadese non ha posto un
veto sull’esportazione massiccia di acqua.
La nostra credulità è messa a dura prova da proposte sempre più fantasiose. In Africa centrale, gli ingegneri hanno proposto di creare un
grande lago per portare la pioggia nel Sahel. Un ricercatore dell’Istituto
di Tecnologia del Massachusetts vuole immagazzinare la neve e l’acqua
dell’inverno in gigantesche montagne di ghiaccio spingendo l’acqua attraverso macchine per fare la neve e conservandola sotto forma di iceberg
artificiali protetti da enormi fogli di alluminio-Mylar finché non si renda
necessaria. Ma è difficile capire anche progetti più plausibili come il piano di un triplice canale in Cina per pompare acqua dallo Yangtze fino a
Shanghai, nel Nord, per quasi 1.600 chilometri. A ogni idea incredibilmente ambiziosa ne segue a ruota un’altra.
Quando si è trattato dell’acqua abbiamo sempre pensato in grande.
Con gigantesche opere come dighe e canali, gli uomini spostano i fiumi,
fermano oceani, creano enormi laghi, fanno fiorire i deserti e risistemano intere regioni. Alcune delle nostre imprese di ingegneria idraulica
sono grandi successi, come i polder e gli argini dei Paesi Bassi o i millenari sistemi di irrigazione lungo il Nilo: salvano vite, bonificano terreni
e arricchiscono intere popolazioni. Alcune invece sono state disastrose:
acque che una volta scorrevano limpide sono diventate fangose, e i benefici che ne sono derivati non riusciranno mai a compensarne il costo
in termini di distruzione.
Poche cose destano tanto timore quanto le grandi masse d’acqua:
fiumi, laghi, oceani e mari. Di conseguenza la nostra immaginazione si
lascia conquistare da grandi progetti di ingegneria che sembrano sfidare
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la natura stessa. Imponenti, visivamente accattivanti, questi monumentali impianti idrici ci fanno sentire più grandi di quanto non siamo realmente, potenti al di là delle nostre deboli possibilità individuali, più duraturi sulla faccia della terra: ci fanno credere di poter controllare una
forza della natura.
La storia, tuttavia, è ricca di errori catastrofici che indicano quanto
sia mal riposta questa fiducia incondizionata nelle soluzioni infrastrutturali. Imprese politiche inutili, dighe che saltano, errori di progettazione, di costruzione e collocazione hanno causato migliaia di morti portando anche al suicidio gli ingegneri progettisti. La diga del Vajont nelle
Alpi italiane è una delle più alte del mondo, una sottile fascia di cemento ricurvo. Quando nel 1963, per un violento smottamento si è riversata
una grande quantità di terra all’interno dell’invaso, la struttura della
diga ha tenuto, ma milioni di tonnellate di acqua l’hanno scavalcata, uccidendo tremila persone in sei minuti. Gli otto ingegneri che hanno disegnato la diga sono stati processati per omicidio colposo. Forse il disastro idrico più agghiacciante nella storia recente è quello verificatosi nel
1975, quando in Cina sono morte 230.000 persone in seguito al cedimento delle dighe di Banquiao e Shimantan, causato dalle forti piogge.
Nessun paese al mondo ha avuto un approccio all’acqua così disastroso come l’ex Unione Sovietica. Siccome la maggior parte delle risorse idriche si trova nella lontana Siberia, per quarant’anni i russi si sono
imbarcati in una serie di progetti idrici enormemente aggressivi, costruendo dighe più grandi e i canali più lunghi del mondo, spesso però
senza riuscire a farli funzionare secondo le previsioni. Nel 1980, gli ingegneri russi hanno costruito un canale di circa 550 metri per limitare il
flusso dell’acqua del Mar Caspio nel mare interno di Kara-Bogaz-Gol,
ma questo canale ha funzionato anche troppo bene e in soli tre anni tutti i 18.000 chilometri quadrati del Kara-Bogaz-Gol si sono prosciugati,
cosicché gli ingegneri hanno dovuto iniziare a lavorare su un acquedotto per ripristinarlo.
La perdita più spaventosa al mondo è stata la quasi cancellazione del
Mare di Aral nel giro di trent’anni. Quello che un tempo era il quarto
mare interno del mondo ha perso 39.000 chilometri quadrati, pari ai
due terzi del suo volume, principalmente a causa dei prelievi di acqua
dall’Amu Darya e dal Syr Darya per irrigare le piantagioni di cotone in
Asia centrale. Se questo processo va avanti senza controllo, ben presto il
Mare di Aral sarà solo un vago ricordo. Anche ora, le navi giacciono arenate nella sabbia e alcune città portuali si trovano ad almeno 145 chilo19
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metri dalla costa, che si ritira. La pesca, una volta fiorente, non esiste
più, ma quello che è peggio è l’incubo tossico che ha devastato la vita
del milione e mezzo di abitanti della zona: quell’acqua che rimane nei
fiumi e finisce in mare è talmente carica di pesticidi, fertilizzanti e sale
da essere quasi tutta, sotterranea o di superficie, contaminata. I micidiali venti che soffiano sul mare trasportano il sale e le sostanze chimiche
per il paese, avvelenando il suolo e gli abitanti. Nella regione cresce poca
roba, e la gente presenta varie malattie: disfunzioni renali e tiroidee, tumori, epatite virale, tubercolosi e forse il tasso di anemia più alto al
mondo. L’aspettativa di vita è di venti anni più breve che in altre parti
dell’ex Unione Sovietica.
I grandi progetti, sia i migliori sia i peggiori, sono spesso un monumento alla follia dell’uomo, ma anche una testimonianza di ingenuità e
perseveranza. Che abbia operato a nostro vantaggio o a nostro danno, il
fatto di immagazzinare, spostare o versare acqua sulle piante sembra essere naturale per l’uomo come il fatto di rimanere in un posto: sono settemila anni che lo facciamo. I pericoli insiti nei progetti e nei programmi infrastrutturali sono molti, ma ormai di dighe, bacini, canali e fossati per l’irrigazione ne abbiamo scavati abbastanza da conoscere un bel
po’ di cose sul loro funzionamento. Mentre nel corso del xx secolo è diventato evidente che le scelte strutturali non sempre si rivelano la magnifica soluzione in cui una volta speravamo, la tecnologia e l’ingegneria
possono risultare rischiose se le si rapporta alla dimensione ambientale e
umana. Per equilibrare le esigenze di una civiltà incontrollata con risorse idriche precarie, dovremmo esaminare attentamente ogni possibile
soluzione.
È importante prendere iniziative per essere certi che l’acqua sia ancora qui per i nostri figli e per i figli dei nostri figli, i quali, per quanto
possa essere calato il tasso di natalità, vivranno in un mondo molto più
affollato. Innanzitutto, dobbiamo cogliere l’importanza fondamentale
dell’acqua di cui disponiamo. «La scienza può influenzare il nostro
modo di affrontare una situazione» mi ha detto a Washington non molto tempo fa Joyce Starr, una consulente politica per l’acqua. «Ma penso
che la scienza venga dopo, una volta che le persone hanno ormai compreso quello che l’acqua significhi per loro, quanto sia preziosa e come si
tratti di una risorsa che si sta esaurendo. Certo, c’è acqua a sufficienza.
Ma le agenzie che stanno tentando di rendersi utili sono tutte sovraccaricate. Come comunità mondiale di fatto stiamo restando a guardare
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introduzione
mentre migliaia di bambini ogni giorno muoiono per mancanza d’acqua o per malattie portate dall’acqua».
Joyce Starr ha ragione. Ogni giorno muoiono seimila bambini per
malattie legate all’acqua. «Immagini quanti ne stanno morendo mentre
noi parliamo... Non ce la facciamo a provvedere in misura sufficiente al
fabbisogno degli abitanti di questo pianeta», afferma Joyce Starr. «La
tragedia si legge negli occhi delle madri e dei padri, nelle famiglie spezzate dalla morte, dalla rabbia e dal dolore: questo dolore non porta a
molto nelle stanze del potere».
«Esiste una tremenda differenza tra comprendere e agire», spiega
Joyce Starr. «Non sono solo gli uomini e le donne a guidare le nazioni,
ma anche gli interessi che hanno alle spalle. Nonostante i funzionari capiscano che i loro concittadini moriranno, possono ritrovarsi nell’impossibilità di cambiare la realtà delle forze di potere che governano il
paese. Ci vuole un mucchio di energia ed è disumano. Penso che ci si
debba gettare contro il sistema, dovremmo essere dei Don Chisciotte,
anzi dobbiamo esserlo, perché l’alternativa è...», e scrolla le spalle. L’alternativa è inconcepibile.
Quando con mio marito abbiamo visitato l’India all’inizio degli anni
ottanta, ho osservato il nostro amico Fateh Singh Rathore, allora direttore sul campo del “Progetto tigre” del parco nazionale di Sariska, dirigere con sicurezza le squadre di lavoro che cambiavano il corso del fiume. Le squadre di operai ai suoi ordini hanno intrapreso l’arduo compito di spingere il fiume in un nuovo alveo proprio sotto le colline di Aravalli. In principio i suoi sforzi mi hanno sconcertato. Fateh Singh,
membro di una famiglia di guerrieri di un villaggio dove non esiste un
fiume perenne, è un uomo del deserto, e proprio lui, un uomo che fino
al giorno del suo matrimonio si era spostato a dorso di cammello attraversando dune di sabbia, stava alterando il corso di un fiume.
Da quando ho visto per la prima volta Fateh Singh al lavoro, sono
riuscita a capire che la gente che vive in posti con poca acqua spesso è
particolarmente abile nel gestirla, deve esserlo. Per molti anni siamo tornati regolarmente in Rajasthan e abbiamo osservato le ripercussioni della sua opera. Il fiume deviato e i nuovi abbeveratoi scavati, predisposti
per rifornire ancora altri abbeveratoi mediante condutture sotterranee,
portavano l’acqua in modo più regolare in tutta la riserva. Gli alberi e la
vegetazione sono fioriti in un paesaggio che una volta era completamente coperto da sterpi aridi, sono cambiati gli schemi di riproduzione della
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water wars
fauna con un incremento della popolazione dei cervi pomellati, dei
sambar, dei nilgai (le antilopi indiane) e dei leopardi che se ne nutrono:
uno spostamento attento dell’acqua ha cambiato la vita del parco nazionale di Sariska.
Dieci anni fa, mentre stavo visitando l’Anatolia sud-orientale, osservavo i trattori che rivoltavano la terra per il ciclopico Progetto gap della
Turchia, per la costruzione di ventidue dighe sul Tigri e sull’Eufrate, e
rimasi al tempo stesso affascinata e allarmata dalle enormi conseguenze
di questa iniziativa per controllare l’acqua. Era evidente che anche se
quelle dighe avrebbero riportato alla vita le aride pianure della Turchia,
avrebbero certamente privato la Siria e l’Iraq di risorse idriche fondamentali. Dopo aver osservato i trattori rivoltare la terra delle colline
anatoliche, ho parlato con decine e decine di ingegneri, politici, agricoltori, costruttori, idrologi e ambientalisti per scoprire che cosa avessero
da dire sulla gestione della nostra acqua e ho scoperto che le domande e
le risposte relative ai nostri problemi idrici si trovano in tutto il mondo,
alcune dove meno ce lo si aspetta.
«La sfida è di portare l’acqua dove deve essere, ponendo fine agli sprechi», ha affermato tranquillamente Joyce Starr. «Mentre parliamo, sta
sparendo un altro lago. Finché non raggiungi il controllo filosofico, intellettuale e pratico dell’economia della sopravvivenza, puoi anche ovviare temporaneamente in qualche modo, ma non risolvere il problema».
Siccome le comunità rimangono senz’acqua, saranno costruite nuove dighe e nuovi canali. Quando la gente manifesta per strada per l’acqua, nessun prezzo sarà troppo alto, e la preoccupazione per le conseguenze passerà in secondo piano. «Quando senti tanta gente dire che si
deve fare qualcosa, si deve fare subito qualcosa», diceva il costruttore di
dighe imperiale Sir William Willcocks al torno del xx secolo, «ma puoi
essere abbastanza certo che si farà qualche sciocchezza».
Non ci possiamo più permettere sciocchezze. Stiamo utilizzando le
nostre riserve di acqua dolce pulita a un ritmo superiore alla crescita della popolazione. La buona gestione dell’acqua disponibile sta diventando
una questione di vita o di morte più rapidamente di quanto non siamo
preparati ad affrontare. A mano a mano che aumenta la pressione, le decisioni che prendiamo devono essere quelle giuste ed è importante comprendere che cosa va bene e che cosa no, e perché.
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