Pdf Opera - Penne Matte
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V – LE COSE MORTE Nicolas Anche se era tardi, decise di andarci comunque. Amava quel posto. Gli piaceva la sensazione dell'erba sui piedi scalzi, adorava il rollio degli alberi sospinti dal vento, il silenzio mormorante del bosco, quella calma inzuppata nella vertigine e nel pericolo. Ogni volta che passava i suoi pomeriggi lì, sapeva di essere solo, senza essere mai veramente solo. Tutt'intorno la natura lo avvolgeva ricoperta di denti, pellicce, zanne, odori, artigli, appetiti. Uno dei suoi giochi preferiti, il gioco, era immaginarsi inseguito da una belva feroce. Un orso, un cinghiale, un lupo quando si sentiva particolarmente veloce. Tendeva un orecchio, e dietro di lui si manifestava un grugnito, o un ringhio affilato come una motosega. Non c'era tempo per riflettere, scattava in avanti, le gambe vorticavano come una centrifuga ammassando zolle di terra alle sue spalle. Dal prato doveva raggiungere la boscaglia. Senza voltarsi. Correre come un disperato fino ad aggrapparsi ad un albero, e poi salire, verso la salvezza. Diversamente, qualcosa lo avrebbe artigliato alle gambe, facendolo ruzzolare sulla sua rovina, e senza tante cerimonie sarebbe saltato su di lui, sulla sua gola, pronto a spargere il suo sangue nel verde scintillante dell'erba. Era persino riuscito ad immaginare lo sfiatare caldo della creatura sul collo, il tremore di qualcosa di pesante che pestava il terreno appena dietro il tallone, incalzando freneticamente sulla sua vita. La tentazione di girarsi a dare un'occhiata era stata forte, più di una volta, ma non aveva ceduto. Guardare significava morire. Era come per le arrampicate, buttare l'occhio di sotto voleva dire consegnarsi alla paura. E questo lui non lo tollerava, essere sconfitto, e peggio ancora, essere sconfitto dalla paura. Disdicevole. E in ogni caso sua madre non avrebbe gradito. Vederlo rincasare con la gola squarciata e il volto deformato dalla morte gli sarebbe costato una bella punizione. Naturalmente non era accaduto. Mai. Quello era solo un gioco. Il gioco. Quando raggiunse il cancello il sole era già basso sull'orizzonte e presto sarebbe calata la notte. L'aria tiepida e l'odore di resina della pineta gli riempivano le narici. Per un istante fu blandito dall'idea di fare marcia indietro e tornare a casa, ma la voglia di esplorare, di entrare nel gioco era più forte di ogni cosa. Sentiva l'attrazione del mistero tirarlo a sé come una calamita, in modo gentile e deciso. Il cancello era lì ad aspettarlo, come ogni volta. Spalancato a metà di uno sbadiglio. Gli erano sempre piaciuti i boschi, il suo amore per la foresta lo aveva condotto per caso fino a quel luogo. Un pomeriggio, tra i primi di quella lunga estate, aveva deciso di esplorare la sterminata distesa di pini che punteggiavano il fianco della montagna. Era stregato dal modo in cui la luce ristagnava tra le piante, tenue e soffusa. Magica. Gli sembrava di essere sospeso nel tempo, ovattato e protetto dalle sporgenze taglienti del mondo, dai rimproveri feroci di suo padre. Poi un luccichio aveva attirato la sua attenzione, e inseguendo quel nuovo punto interrogativo era sopraggiunto al cancello, l'anticamera di una villa diroccata e sepolta nella boscaglia. Il muro fatiscente della recinzione era per la maggior parte distrutto, l'ossatura in pietra era piena di buchi, il suo dorso faceva su e giù come le montagne russe. Ma quello che lo aveva colpito era il cancello, che in un tutt'uno con i pilastri che reggevano la struttura e la vegetazione impazzita, appariva come la testa di un gigante appoggiata sul terreno per il lato destro, con gli occhi tondi e la bocca aperta. Una testa con le fauci spalancate sull'ignoto. Fin dalla prima volta che si era ritrovato faccia a faccia con quell'adito, nel suo gioco quella era diventata una porta per un altro mondo. Quando l'attraversava, sapeva di essere in un posto uguale ma altro. Al rientro verso casa non faceva mai, e mai, una strada diversa dal cancello. Ripercorreva a ritroso i suoi passi, meticolosamente. Non voleva ritrovarsi ad abbracciare una madre identica. Non lo avrebbe retto. Una volta provò a rincasare attraversando uno dei fori nel muro, per verificare la sua teoria, ma dopo cinque minuti di cammino, sentiva che il cuore gli batteva all'impazzata, e l'ansia lo costrinse a rinunciare a quella prova per tornare immediatamente al cancello, e attraversarlo nel modo corretto. Una parte dentro di lui sapeva che era tutto una sciocchezza. Aveva undici anni, non cinque. Ma la sinistra inquietudine che gli provocava quella superstizione era insopportabile. Era una di quelle cose che anche se non ci credi, è meglio non provarle, come bestemmiare e far incazzare il buon Dio, così diceva sua madre. Il resto della villa erano calcinacci erosi e stanze infestate da muffe e piante. Quasi tutto era molle, marcio, contagiato dalla decadenza. Aggirando la costruzione si poteva andare nel giardino, un enorme prato sorvegliato dagli alberi, tanti soldati sull'attenti impegnati a guardarsi gli uni con gli altri lungo il filo invisibile del perimetro. Qua e là c'erano statue; grigie, inermi, addormentate. Attraversò il cancello, con solennità. Era tardi, quindi non si concentrò sui particolari, lasciò che il gioco divampasse da solo nella sua mente. Doveva essere pronto a scappare, a scapicollare, e non voltarsi, naturalmente. Voltarsi: mai. Si sciolse i muscoli, come per scrollarsi l'inefficienza di dosso, poi corse velocemente intorno alla costruzione per guadagnare la vista del giardino. Il gioco stava già lavorando dentro di lui, miriadi di occhi grossi come bilie lo osservavano dalle oscurità parziali delle rovine. Aveva paura? Quel ritardo gli sarebbe comunque costato le mani callose di suo padre, quelle facevano paura. - Non è il tuo tempo, non è tua questa ora! - Dicevano gli occhi. Sapeva di essere un intruso, spingersi così in là col giorno era un affronto, ma era il momento di mettersi alla prova, di esercitare il coraggio proprio lì, sulla linea della notte. Col cuore pesante raggiunse il centro del prato, pronto a scattare. Tese l'orecchio e si preparò alla corsa. Silenzio. Fece un profondo respiro. Silenzio. Esalò dalle nari tutta l'aria che aveva nei polmoni. Silenzio. Una zanzara gli ronzò fastidiosamente nell'orecchio. Silenzio. Mai voltarsi, mai. Silenzio. Un ringhio tagliò in due la quiete. Cazzo. Eccolo. Un ringhio? Era vero? Una strana sensazione gli esplose nello stomaco, facendogli perdere il fiato e infiammandogli il volto con forti vampate di calore. Era vero? Si? No? Un suono metallico. Non capiva. Le budella gli si attorcigliarono nella pancia. Le chiamavano farfalle, ma sembravano piranha. Un sommesso e cupo ribollire gorgogliava alle sue spalle. Quella cosa emise un rugghio, pestò il terreno con una zampa e poi la sentì sfiatare, lentamente. Mai voltarsi, mai, si disse con coraggio, e invece si voltò. Alan Qual era il momento in cui una donna smetteva di essere il dolce supermarket delle scopate per trasformarsi in un'arida puttana? Alan se lo domandò più volte mentre prendeva a calci un tronco di un abete ai bordi della strada. La rabbia impastoiata con la sua sbronza settimanale lo teneva fisso sul punto, come un'ossessione. Perché? Perché? Perché? Calcio. Calcio. Calcio. É forse una malattia? Basta una baldracca a contaminare un quartiere, solo una, con le sue sporche idee di libertà ed emancipazione. Che parola orribile, che suono orribile: E-man-ci-pa-zione, una cazzo di malattia esoterica. Parole insane che infettavano delle bravi mogli, delle brave e oneste donne da cucina. Una malattia che ricadeva come una piaga biblica sul bestiame. Vacche, per la precisione. E quel pensiero lo infiammò ancora di più. Calcio. Calcio. Bestemmia. Calcio. Il piede fece crack. L'alcol che gli circolava nel corpo prese a schiaffi il suo equilibrio, e d'improvviso iniziò a saltellare all'indietro con l'unico piede che gli era rimasto. Un saltello, due saltelli, burrone. Il resto della discesa fu piuttosto confuso. Ogni tanto c'era il cielo azzurro, poi delle sterpaglie, poi una pietra che lo colpiva in testa, poi ancora il cielo, tutto centrifugato in un giro di lavanderia offerto dalla gravità. Quando finalmente si fermò con la faccia contro un rigoglioso mazzo di ortiche, nella sua testa tutto era momentaneamente spento. Ebbe un pensiero lucido sul suo pacemaker, ma fu meno di un istante, giusto il tempo di dire – Cazzo, il mio pacemaker. - E se fosse morto allora, sarebbe stato il ragionamento più significativo di tutta la sua vita. Mancò anche quella occasione di andarsene con stile. Due ore dopo aprì gli occhi, con fatica, perché erano gonfi del veleno delle ortiche. Riavvolse velocemente gli ultimi avvenimenti del suo destino: Ore 9,00 e qualcosa, birra Ore 10,00 e qualcosa, matrimonio di suo cugino + birra Ore 13,00 e qualcosa, sbronza colossale Ore 14,00 e qualcosa, pestaggio tra ubriachi con suo cugino + birra Ore 15,37 e qualcosa, sua moglie se l'era filata con la macchina quando lui era sceso dall'auto per pisciare. Dannato galateo, avrebbe dovuto fare come al solito e lasciare che la sue dolce metà gli lavasse i pantaloni il giorno dopo. La gentilezza lo aveva reso debole, e questo lo aveva fregato, perché ora era in mezzo ad un merdosissimo bosco senza sapere come tornare a casa. Zoppo, per di più. Gonfio. Dolorante. E se l'era pure fatta nei pantaloni. Beccati questa Agnese, pensò, domani, oltre ai lividi, ti toccherà di smacchiare anche questi. Rise, e gli fece male. Il disco solare era quasi colato a picco sulla linea del tramonto, oramai era certo che avrebbe passato la notte all'addiaccio, nessuna novità. Si procurò un bastone per agevolare il passo, notò del muschio, e decise che da quella parte era il nord, anche se il muschio cresceva praticamente ovunque, e considerato che non aveva la minima idea in quale punto cardinale fosse casa sua, quello che fece fu affidarsi al caso, e il caso, nella fattispecie, lo tradì. La prima ad apparire fu una volpe. Certo, non era una bellezza, ma nemmeno lui era un adone. Quando la vide fece le labbra a papera lanciandole dei bacini, richiamandola a sé come fosse un gatto. - Forza, tesoro, vieni qui. - Strofinava l'indice e il pollice nel gesto del denaro con la convinzione di addomesticarla. – Dai, bellezza, vieni a tener caldo a paparino. Non farti pregare. La volpe alzò il muso, la pelliccia era opaca, spenta. Diede un'occhiata al cielo, e poi si fiondò minacciosamente sui piedi di Alan. Alan fece appena in tempo a fare perno sul piede buono e dare una bastonata possente a quella bestia, che svanì subitamente nel sottobosco di foglie secche e arbusti. - Cazzo – urlò Alan. - Se non mi è esploso il cuore adesso...- Istintivamente si massaggiò la lunga cicatrice che gli partiva dalla base del petto per scendere più giù, fino alle pendici del cuore. Il respiro era affannato. Che cazzo, pensò, doveva essere una femmina, doveva essere una Agnese. - Addio cuscino – borbottò, e riprese a camminare. Man mano che riscendeva verso nord, verso il destino, i rumori si facevano sempre più radi, gli uccelli più silenziosi, l'aria stessa sembrava più stagnante. Un furetto saettò davanti a lui, poi fu il turno di un tasso, e di un'altra volpe. La sensazione di essere seguito l'assalì, mentre il sole si spegneva lentamente ad ovest come un mozzicone arancione e incandescente. Una sorta di gelo si rapprese sulla sua pelle. Un gelo sudaticcio e carico di sventure. Rimpianse di essersi pisciato nei pantaloni, il tanfo penetrava nella gola fino ad artigliargli la bile, sospingendola su per l'esofago, e ancora più su. Avrebbe potuto toglierseli, ma qualcosa dentro lo avvisava che non sarebbe stata una grande idea. Scese ancora un po', fino ad ormeggiarsi sulla linea di un altro burrone, non fece in tempo a ragionare su come affrontare la nuova fatica, che accaddero due cose. La prima fu una donna, ad una trentina di metri sotto di lui. Una signora di una quarantina d'anni, ad occhio e croce. Agitava le mani, sembrava spaventata, mentre cercava di risalire velocemente il crinale. Ad un certo punto si aggrappò ad un albero marcio, l'albero cedette non appena la donna fece forza per tirarsi su. Ondeggiò nel nulla per qualche secondo, poi precipitò all'indietro, sbattendo ferocemente contro un albero sano, troppo sano, probabilmente. La nuca si era inchiodata ad un rametto spezzato ed appuntito, che le aveva sfilato la vita di dosso come una pistola captiva farebbe con una bestia da macello. Era morta, il sangue si rovesciò fuori dalla bocca. Il suo primo istinto fu quello di fuggire, ma non appena piroettò per darsela a gambe, vide la seconda cosa. Più strana e terribile, per certi versi. Un esercito di volpi, tassi, faine, ratti e altri animali era disposto per file disordinate dietro di lui, e lo fissava. Alzarono all'unisono il muso verso il cielo, e poi si fiondarono su Alan, come un'onda. Fece appena in tempo a lanciare un urlo nell'aria malsana, che quelle cose gli erano già contro. Inciampò, ancora, e per la seconda volta quella giornata affidò la sua vita alla gravità e alla fortuna. Centrifuga. Caduta. Schianto. Lamorak Le cose iniziano e finiscono. Quasi sempre. Ma certe volte resistono più del dovuto, si protraggono. Non dovrebbero ma lo fanno, e poi vanno a male. E' così che funziona il mondo. Non tutto inizia e finisce, si può anche marcire. Questo Lamorak lo sapeva bene, quel luogo era saturo di cose marce. Era zona di caccia, e poteva quasi sentire le creature morte vorticare freneticamente nel sottobosco in cerca di coperte per l'inferno. Quelle più piccole come volpi e faine si radunavano in branchi, per rendere più efficace la loro battuta. Un uomo o una donna giovane avrebbero potuto facilmente farli fuori, ma tutti insieme erano uno strumento letale. Osservò il corpo del vecchio senza vita a pochi metri da lui. Troppo tardi, non era arrivato in tempo, quelle bestiacce lo avevano depredato. Ora se ne stava con la faccia dentro una pozzanghera, esanime. Anche lui sarebbe imputridito, come tutto il resto. Era stagione. Pregò che non fosse finita, doveva esserci ancora qualcuno vivo, presto sarebbe sopraggiunta la notte e la notte non era mai una cosa buona. Si mosse, e l'armatura a piastre che lo ricopriva come una seconda pelle iniziò a sferragliare e ferire il silenzio. Era una fortezza in movimento e nella boscaglia era lento, certo, ma era anche invulnerabile, e invulnerabile e lento è meglio che veloce e spacciato. Nella mano sinistra impugnava uno spadone in ferro completamente arrugginito, il filo era in pietra nera, la roccia delle stelle. Era molto pesante, ma la forza non era un problema, la spada era importante. Quando uscì dalla boscaglia vide per prima la bestia, era grossa, parecchio. Il padre doveva essere un tipo creativo, perché le aveva dato la grandezza di un montone con le fattezze di un lupo. Ma il vero capolavoro era la bocca, non finiva mai. Un'apertura che si dipanava come una crepa dal muso fino alla metà del petto, una voragine di denti neri affilatissimi. Una chimera di morte, un tritacarne in pelliccia. Eliminarla sarebbe stato un problema, per chiunque, specialmente per quel ragazzino impalato dalla paura. Non c'era tempo per strategie, odiava farlo ma si mise a correre. Anche la bestia lo fece, era veloce ma più distante. I fili d'erba si polverizzavano sotto la pesante corsa di Lamorak, ognuno di quei balzi in ferro e acciaio erano un bombardamento spietato per il terreno. Il bambino era davanti a lui, girato verso il mostro, stregato da quella promessa di morte. Quell'idiota avrebbe dovuto darsela a gambe, senza voltarsi, sarebbe stato perfetto, e invece era lì, immobile e appetitosa coperta per l'inferno. Sollevò la spada sperando di arrivare in tempo, questa volta. La bestia fece un balzo, certa di arrivare sul ragazzo. Sembrava quasi volare. Un rapace trapuntato nella volta celeste. In quel momento il sole si spense dietro le rocce, la notte allungò la sua ombra sull'intera montagna. Il terreno emise uno soffio sordo, uno sbuffo di sofferenza. Lamorak conficcò con tutta la rabbia che aveva lo spadone nel suolo, a pochi centimetri dalla faccia di Nicolas. La bestia ci si schiantò contro, aprendosi la testa in due. Quando si ritrasse le metà penzolavano mollemente a destra e a sinistra. Era ancora viva, se così si può dire. Lo fissò con odio e poi svanì tra gli alberi. Sarebbe tornata? La fame. Afferrò il ragazzino per un braccio, e trascinandolo come un peluche si diresse verso la villa diroccata, nella stanza ad est, quella che dava sul prato, la prima che l'indomani avrebbe goduto del bacio del sole. Ottimo. Nicolas Sì, era un cavaliere. Sì, erano mostri. - Edaci – gli aveva detto. Creature morte che venivano animate da Padri, Alchimisti che richiamavano spiriti e ce li mettevano dentro. Nascevano senza ombra, e l'ombra era quello che serviva per mimetizzarsi tra i vivi, e per nascondersi durante il giorno alla terra, che diversamente li avrebbe reclamati, era la loro coperta per l'inferno. Erano cose morte. - e il posto delle cose morte è nella tomba- aveva aggiunto. Le ombre che riuscivano a depredare, le coperte per l'inferno, si consumavano in fretta, erose dall'insaziabile fame che li bruciava. Edaci. Sì, era stato un idiota a non scappare. Sì, quello era un altro mondo. V. Cinque, come lo chiamavano i romani. Un mondo dentro il mondo. Lì erano vicini alle porte, e quello era il luogo dove finivano tutti quelli che si perdevano. Terreno di caccia ideale per gli Edaci. Forse, sarebbe sopravvissuto. Quella risposta non gli piaceva. No, non lo avrebbero ucciso, ma quando vieni depredato della tua ombra perdi anche tutta la tua fortuna. Di quello moriva la gente, di sventura. Il giorno dopo li avrebbero ritrovati col collo spezzato da una caduta, colpiti da un masso, folgorati da un fulmine, strangolati da una bacca, annientati dal freddo. Lo chiamano destino, ma era solo dannatissima sfortuna. Sì, sarebbero tornati. Quella notte, forse. Ma di notte era impossibile ucciderli, gli aveva detto. Avrebbero aspettato l'alba barricati lì. Aveva paura, ma anche se dentro quell'armatura c'era qualcosa di imperscrutabile, si sentiva comunque al sicuro. No, rispose – sei solo un'esca per me -, e nonostante ciò, gli aveva salvato la vita. Suo padre cosa aveva fatto per lui? Pugni e rabbia. Sì, poteva dormire, e si addormentò. L'aria fredda del mattino lo strappò dal sonno. Il cavaliere era già in piedi, accanto alla porta. Il piano era semplice: lui doveva stare immobile di fronte all'entrata, l'esca, e Lamorak nascosto di lato con lo spadone pronto a macellare qualunque cosa oltrepassasse la soglia. Il Killer. - Pronto?- gli chiese l'armatura. - Pronto – rispose. La porta esplose, colpita dal calcio metallico. Il sole lo travolse come un fiume in piena, spalmando la sua ombra lunghissima sul pavimento. Non vedeva nulla. Poi una sagoma umana ed orribile si affacciò, entrando nella stanza. Un Edace? Possono avere qualunque forma, pensò. Puzzava. Era deforme. Nicolas lanciò un urlo. Era Alan. Lo spadone calò come una ghigliottina e per un istante fu solo silenzio. Era un uomo: brutto, gonfio, puzzolente, ma pur sempre uomo! Il cavaliere sollevò la spada, indifferente. - Meno male che te ne sei accorto – disse Nicolas, - lo hai schivato all'ultimo, mi hai fatto il solletico ai talloni quando hai abbassato la lama. - Tornatene a casa, è finita – disse il cavaliere. Alan fece due passi indietro, camminando nel sole. Si teneva il petto con le mani, vomitò un grugnito e poi cadde, morto. Nicolas si fiondò nell'erba non sapendo che fare, chiamò Lamorak. - E' stato sfortunato ad entrare ora – gli rispose. - Vattene. Non sei più niente Nicolas si voltò, ferito da quelle parole dure come schiaffi. Voleva tornare a casa, scappare verso il cancello, ma si fermò. S'accorse che di quella che era la sua ombra intera ne era rimasta solo metà.