Luigi Davì | I centauri pdf 23 KB

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“I centauri”
Racconto di Luigi Davì. Operaio a Torino, si è fatto un buon nome nella
giovane narrativa italiana e ha pubblicato un volume presso l’editore
Einaudi.
Tratto dalla rivista aziendale “Il gatto selvatico” (febbraio 1959).
Con l’avvento degli scooter le abitudini cambiarono. L’andare in centro, il
frequentare studentesse mezzo dotte e mezzo oche divenne roba da superati. Per
contro, le piazzette di periferia assursero a nuova importanza, s’elevarono a luogo
di moto raduni.
I conciliaboli erano concisi e secchi come il torchiare nervoso sulla manopola del
gas. Ogni domenica era un paese nuovo da scoprire, e niente dilungarsi: detto un
nome andava bene. Poi via in fila indiana ad inseguirsi e superarsi finché si fosse
giunti.
Però, neanche a farlo apposta, mai che a capitare sia pure nel canto più
impensato vi fosse un solo gruppo.
Allora i vari gruppi provvidero a darsi una fisionomia, che i provinciali non
avessero a confonderli. E così, a seconda delle preferenze, chi adottò ad emblema i
caschi chiari, chi i calzoni di velluto nero, chi le cravatte tronche con la frangia in
fondo.
Una volta conciati con un brano di vestiario uniforme, subito saltò fuori chi aveva
velleità di capo, in ogni accolta. Ma andò per tutti suppergiù allo stesso modo:
dileggiati e lasciati per conto loro ad un paio d’occasioni, i presuntuosi rientrarono
nei ranghi.
Rimanevano però le rivalità tra gruppo e gruppo, fintanto che gli uni portavano i
caschi chiari e gli altri le cravatte tronche: rivalità che s’esaurivano poi in gare a chi
correva più forte.
Finché anche le sfide decaddero, e così pure i segni di distinzione: assodate le
possibilità ed aboliti i capi, non avevano più scopo.
Ma il percorrere e riscoprire la provincia no, che era connaturale col possedere la
moto.
Un cartello con la dicitura « Rimessa », o meglio la freccia sotto, indicò loro un’aia
d’un cascinale.
« Purché non ce le mettano in stalla con l’idea di mungerle », ridacchiò Cesare.
Ma la parte adibita a sostarvi le moto era una semplice tettoia sbilenca, rischiarata
da due lampade e ingombrata da ballotti di paglia e fieno.
Il custode della rimessa avanzò a riceverli, e cimentandosi in un italiano molto
approssimativo, quasi esperanto. Vestiva una tuta nuova con l’aria d’aversi indosso
l’abito da cerimonia, tanto ne aveva riguardo. Allineate sotto la tettoia c’erano già
almeno una ventina di moto e scooter; sistemata la propria, Emilio volle vederle
meglio.
— Allora? — chiese Duilio, a rendiconto dell’inventario.
— Peggio che all’ammasso — s’espresse Emilio. — Sono tutti qui dal primo
all’ultimo. Cambiamo aria?
Con Cesare: — Te sei sempre il medesimo: mai che ne indovini una — commiserò
Duilio.
— Che si fa? — chiesero gli altri.
— Fa lo stesso — si difese Cesare, lui che li aveva condotti.
— Ormai ci siamo e non è più tanto presto — riassunse Emilio.
Ritirarono le placche col numero di contromarca ed andarono alla sala da ballo;
lasciarono i giubbotti in guardaroba e si sistemarono a due tavolini accosti.
Ordinarono delle bibite, e dopo ognuno cominciò a frugare in sala cogli occhi, a
cercarsi la « vittima ». Quando poi passava a tiro, ballando con uno qualsiasi,
l’agganciavano per la « prossima » con un gesto dell’indice, una mezza giravolta, o
col solo alzare il pollice, più distintamente ancora. Se quella acconsentiva, allora le
dedicavano un brindisi, levando leggermente il bicchiere e fissandola negli occhi
prima della sorsata. Il fatto che le consenzienti fossero in media otto su dieci,
questo alimentava in loro l’amore per la provincia. Mezz’ora dopo erano tutti
impegnati a sbizzarrirsi in figure estrose a tempo di musica.
Duilio ne ballò un paio con una ragazza dai capelli molto lunghi, una chioma alla
Genoveffa, ma poi ristette a tavolino, che gli era parso di non aver scelto bene. Dal
fondo della sala partì Leo, quello che aveva organizzato i « caschi chiari », per
venirlo a trovare.
— Ci avete copiati — parlò Leo. — Ma fa niente, tanto c’è merce.
Duilio si giustificò: Noi si andava altrove, — disse — se avessimo saputo.
— Ho fatto cambiare i segmenti ed abbassare la testata riattaccò Leo. — Ci ho
aggiunto un buon 15 km., bruciando « super ». Se hai una mezza idea in proposito,
posso darti polvere per cipria.
— Non far ridere.
— Quando vuoi, dunque — e poi tornò al proprio tavolo, Leo.
Allora Duilio partì lui per andarla a raccontare ad Ezio, l’ex delle « cravatte
tronche ». Ezio non diede importanza, ma pure riaffiorò nostalgia, e il discorso
ingranò sulle prodezze di quando ancora capitanavano. Loro a rievocare e gli altri
danzando, era una buona serata: i soli a non esserne entusiasti affatto erano i
giovani del posto, gelosi del successo di codesti forestieri. Ce ne fosse stato solo
qualcuno, pazienza, ma quella sera era un’invasione, ed essi si trovavano
praticamente relegati alle sedie. Così cominciarono a passarsi la voce, ad intimare a
sorelle e cugine od amiche di non più ballare con degli sconosciuti. Ma le ragazze
trovavano che il nuovo è più attraente, e nessuna che intendesse rinunciare
all’occasione. Anzi qualcuna lo disse in confidenza al proprio cavaliere, che le era
stato ingiunto di non più ballarci assieme, meno che mai stando sempre sulla
medesima piastrella.
Avvisato dai suoi, Duilio lo riferì ad Ezio e Leo: — Ehi: c’è del fermento tra gli
indigeni. — I due alzarono le spalle, ma intimamente se ne rallegrarono, che poteva
venire occasione di mettersi ancora in mostra. La seconda mossa degli indigeni fu
d’intimare alle ragazze di tornarsene a casa guardandosi bene dal farsi
accompagnare dai bellimbusti.
L’intento evidente era di rovinare la serata anche a quelli, visto che quelli
l’avevano rovinata a loro; le ragazze cominciarono a scomparire. E la cosa sfociò
poi all’intervallo, quando l’orchestra si permise il diversivo d’una bicchierata: uno di
lì, fattosi animoso per stornare il malumore, avanzò a centro sala ad arringare i
suoi, che s’adoperassero a mettere fuori causa i forestieri. Subito, attorno
all’animoso si riunirono una ventina di giovani del posto, ma poi, per tanto che
guardassero in giro, altri dei loro non riuscirono a stanarne: eclissatisi od indisposti.
Intanto le ultime ragazze rimaste avevano preso per la porta incalzandosi a
vicenda, ora che la faccenda si faceva allarmante.
Duilio fece un cenno ad Ezio, e questi ai suoi: l’accolta delle « cravatte tronche »
si levò pigramente in piedi, e unitamente tutti i centauri in sala s’alzarono, restando
poi a ridosso dei tavolini.
Accerchiati nel bel mezzo, senza niente da lanciare e in così pochi, gli indigeni
capirono di aver sbagliato a non permettere che le ragazze si facessero
accompagnare. Se non altro avrebbe giovato al proporzionare meglio le parti: ora si
vedeva bene che gli avversari erano decisamente troppi. Appena presala, già si
dolevano dell’iniziativa.
A salvarli fu uno degli orchestrali, il chitarrista: dal bar avevano visto tutto, e si
precipitò a levare le valvole. Così la sala ed il bar divennero notte. L’improvvisata
servì a raffreddare la situazione, ed essi ne approfittarono per guadagnare l’uscita
trascinandosi appresso e tappando la bocca all’animoso.
Poco dopo il chitarrista reinserì le valvole, l’orchestra tornò sollecita ai propri posti,
ed i padroni del campo s’incontrarono a centro sala per scambiarsi congratulazioni.
Scemando l’euforia: — lo vi avverto — disse Emilio — se si resta qui altri 10
minuti quando usciamo ci accolgono a sassaiola. Se si rimettono avran voglia di
farcela pagare.
— Tanto qui non ci sono più ragazze: che ci restiamo a fare? — ribadì Ezio.
— A Bussoleno c’è veglionissimo: chi è d’accordo? — rilanciò uno più eccitato.
Allora si accalcarono al guardaroba per riavere i giubbotti di cuoio e le giacche a
vento. E dopo trottarono al cascinale a riprendersi le moto, che cosa decisa va
messa in atto. Dalla confusione che piantarono: grida, accendersi di fari, strepito di
motori, il mezzadro in tuta ne uscì estenuato.
Statemi dietro, pulcini! — esclamò Leo che aveva truccato il motore e bruciava
« super ».
Sboccarono sullo stradone e diedero tutto gas, fragorosi; fortuna che a quell’ora
era sgombro, lo stradone: completamente loro.
Luigi Davì