La videoarte tra corpo e virtualità nell`età della tecnica. L
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La videoarte tra corpo e virtualità nell`età della tecnica. L
Dipartimento Filosofia, Comunicazione e Spettacolo Corso di Laurea in DAMS – Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo L/ART-06 Cinema, arti elettroniche e intermediali La videoarte tra corpo e virtualità nell’età della tecnica. L’ esempio di Studio Azzurro Relatore Laureanda Prof.Marco Maria Gazzano Eleonora Caianiello Matricola: 448274 Anno Accademico 2013/2014 1 PREMESSA 6 I Videoarte e spazio antropologico 8 1. L’esempio di George Legrady e Studio Azzurro 11 II Videoarte e cyberspazio 13 1. Verso una democrazia elettronica 14 III Luigi Ghirri e Gianni Celati: un’introduzione per una nuova metodologia critica 16 1. Alcuni modi di impiegare le immagini per rappresentare cose e parole 20 2. 25 IV Luigi Ghirri e Gianni Celati: opere e minimo comune denominatore 27 1. Gianni Celati: letture parallele 39 V Studio Azzurro tra psiche e techne 46 1. Tavoli, perché queste mani mi toccano? 49 2. Tamburi 50 3. Primo scavo. Osservazioni sulla natura 51 4. Alexander Nevskij Video 52 5. Delfi. Studio per suono, voce, video e buio e 53 Luigi Ghirri Ultima forma di libertà, il silenzio 54 6. Dove va tutta sta gente? 55 7. Dov’è Jankel? 57 Bibliografia essenziale 58 Siti web 2 PREMESSA A mio parere la videoarte ha realizzato la dimensione del past future vector, cioè quella che Luis Delluc1 definisce “quarta dimensione”: dopo la mente, le tre dimensioni spaziali arriva quella sospesa tra passato e futuro. In questo modo si è realizzata una sospensione tesa tra immaginetempo e immagine-movimento, per usare due termini cari a Deleuze2. Ci stiamo muovendo cioè verso un’antropologia del cyberspazio e al contempo verso una teoria dell’interattività, e prenderò come esempio George Legrady e Studio Azzurro per spiegare questo concetto. E’ interessante scoprire come uno studio attento delle tendenze del post-moderno consenta di creare nuove metodologie di lettura su ambiti che, apparentemente diversi e totalmente scissi, si trovano convergenti in forme di interpretazione analoghe partendo solamente dal presupposto che si trovano inscritte nell’ambito delle arti temporali, per usare una definizione di Max Dessoir3: si tratta dell’esempio che riporterò trovando un nesso tra la fotografia di Luigi Ghirri letta tramite lo scrittore Gianni Celati. Nell’epoca dell’età della tecnica, dove viene ad essere un ambito inscritto in essa non solo la riproducibilità e la massificazione ma una problematicità tra corpo e psiche nella velocizzazione e nella contemplazione della macchina come unico strumento in grado di realizzare non solo la necessità ma anche l’esigenza dell’uomo profilandosi così come fallace esecutore dell’immediato che contraddistingue la società frenetica, la videoarte tra “agonia del reale” e “fine della modernità” assume una posizione centrale per la rappresentazione del corpo rispetto al ruolo assunto dalla tecnica, e Studio Azzurro, gruppo di artisti digitali, percepisce questo trauma e avverte il bisogno di affrontarlo. Tramite una serie di autori rilevanti per il pensiero post-moderno si affronta questa scissione in termini esplicativi e critici, affrontando anche i filosofi Kant, Hegel che hanno problematizzato circa il ruolo assunto dalla mano come strumento esemplificativo della tecnica: per uno essa è il “cervello esterno dell’uomo” e per l’altro è “strumento degli strumenti”. Si può dire che la tesi segue due filoni di ricerca: uno che vuole cercare di proporre nuove metodologie di lettura partendo dalla fotografia di Ghirri e dal presupposto che essa sia inscritta nell’ambito delle arti temporali, per arrivare alla scrittura di Celati cercando non solo un minimo comune denominatore tra i due ma trovando dei nessi tra le due forme di arte con la creazione dell’opera d’arte post-moderna, prendendo in considerazione la videoarte e in particolare l’elemento di realizzare da un lato la sospensione beckettiana dell’immagine-tempo, dall’altro l’immagine-movimento per usare due termini coniati da Deleuze. 1 Luis Delluc, Photogénie, Parigi, 1920. 2 Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, 1983, Ubulibri editore, traduzione di J.P. Manganaro, 1993 e L’immagine-tempo. Cinema 2, 1985, Ubulibri editore, traduzione di L.Rampello, 2004. 3 Max Dessoir, Estetica e scienza dell’arte: i concetti fondamentali, CLUEB, Bologna, 2007. 3 Da questo approccio metodologico si affronta la videoarte in senso stretto arrivando a tracciare i tratti propri a Studio Azzurro, in particolare, come spiegato precedentemente, nel rapporto intercorso tra corpo e tecnica delineandone la problematicità in questi termini. 4 Videoarte e spazio antropologico 5 Riporto il saggio di Ubaldo Fadini4 sulla creazione dello spazio antropologico nell’epoca del postmoderno. <<Si sta diffondendo sempre più la convinzione che lo sviluppo delle tecnologie, in particolar modo di quelle della comunicazione, stia delineando una sorta di nuovo “ambiente” di comunicazione-lavoro-pensiero disegnato dall’accelerazione del progresso tecnologico stesso e caratterizzato da trasformazioni profonde sul piano del legame sociale, delle modalità di convivenza degli uomini. Proprio per tentare di afferrare lo specifico di questa trasformazione, per individuare le configurazioni odierne e quelle che si stanno delineando, Paul Levy articola una ricerca “antropologica” che mi sembra opportuno riproporre, soprattutto in un contesto di sensibilità culturale che è attratta da quel “nomadismo” che sembra contraddistinguere soggetti letteralmente attraversati (e ricostituiti) dal nuovo protagonismo del “sapere sociale applicato”. Quest’ultimo definisce in effetti uno “spazio antropologico” originale, ciò che lo scrittore William Gibson ha definito felicemente come cyberspazio, vale a dire quello spazio del sapere che ha come proprio centro motore il sapere stesso. Ma che cos’è uno spazio antropologico? Scrive Paul Lèvy5: “E’ un sistema di prossimità (spazio) proprio del mondo umano (antropologico) e dunque dipendente dalle tecniche, dai significati, dal linguaggio, dalla cultura, dalle convenzioni, dalle emozioni umane.”>> 4 Ubaldo Fadini, Antropologia del virtuale e filosofia pratica, in Paradigmi – rivista di critica filosofica, 2001, n 57, Schena editore, Fasano, pp.445-459. 5 Paul Levy, L’intelligence collective, Paris, Découverte, 1994; (trad. It., di M.Colò e D.Feroldi, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli, 1996, pp- 148-149). 6 L’esempio di George Legrady e Studio Azzurro Un esempio di costruzione di spazio antropologico può essere esemplificato dal videoartista George Legrady con Equivalenti II, 1996, che secondo me rappresenta la creazione dello spazio antropologico verso l’interattività: <<Equivalents II è una installazione che impiega un programma interattivo che produce immagini astratte con forme simili a nuvole quando del testo viene inserito nel computer. Gli osservatori vengono invitati a generare immagini digitando delle frasi che sono poste a confronto con quelle che già appaiono sul muro. L’intento di questo lavoro è quello di collocare il design tecnologico nel contesto dell’arte contemporanea, con particolare riferimento all’arte concettuale. Il progetto sente l’influenza di modelli tratti dalla semiotica e dalla linguistica con una attenzione particolare alla pratica del “leggere” o dell’assegnare significati alla relazione tra immagine e testo. Così come la produzione di un’immagine convenzionale comporta competenza tecnica e scelte di tipo estetico definite da convinzioni ideologiche e da desideri personali, allo stesso modo intende promuovere l’idea che la pratica della programmazione elettronica sia un’arena per l’attività creativa.>> E prosegue: <<[…] si impiega un algoritmo frattale per generare la complessità tonale, e i parametri per il controllo iniziale dei toni sono stabiliti dalla frase scelta dall’osservatore. Ciascun testo dà luogo a una particolare immagine. Inoltre, il programma è sensibile ad alcune parole chiave contenute in una banca dati. Quando queste parole vengono incrociate creano un disturbo che aumenta la complessità tonale dell’immagine. Queste parole sono state selezionate dall’autore e vengono da queste fonti: Crash di G. Ballard, L’ordine delle cose di Michel Foucalt, esempi del linguaggio da computer scelte dall’Hacker’s Dictionary, definizioni e identificazioni di genere, vocabolario da talk show televisivi, parole che descrivono attitudini positivi e negative. Quando la fase del disegno è completata, il programma tiene conto di frasi inserite dall’osservatore precedente che contengano parole che abbiano a che fare con il testo dell’osservatore successivo. […] L’intento, attraverso l’esperienza dell’interazione, non è tanto quello di illustrare il testo quanto di provocare interrogativi su come assegniamo significati alle cose, su come i nostri linguaggi sono 7 soprattutto rappresentazioni simboliche messe in codice nel tempo, i cui significati sono cambiati attraverso l’uso e le convenzioni. […]6>> Vorrei citare anche il passaggio all’interattività di Studio Azzurro, un campo nei primi anni novanta ancora poco frequentato all’estero (se non Jeffery Show) e quasi sconosciuto in Italia. Possiamo dire che Studio Azzurro è stato pioniere dell’interattività con l’opera Tavoli – perché queste mani mi toccano? (1995), e che oggi ne detenga il primato nel mondo dell’arte, come scrive Bruno di Marino nell’intervista con Paolo Rosa:7 << All’interattività siamo stati spinti in modo naturale dalle caratteristiche di attenzione e di coinvolgimento verso il pubblico, che già avevano le precedenti opere, ma anche dalla sensazione che intorno a noi la condizione creata dalle tecnologie interattive stava configurando un orizzonte strategico dal punto di vista sociale e un panorama inquietante per i suoi contenuti. Motivi per i quali sentivamo l’esigenza di agire, intervenendo direttamente sui meccanismi e sperimentando da vicino le loro possibilità. L’approccio con questo nuovo territorio faceva leva su tre punti che ci erano progettualmente chiari fin dall’inizio. Il primo prendeva al balzo l’eliminazione del televisore per annullare anche il resto della tecnologia dalla vista dello spettatore. Era un modo per riaffermare che non ci occupavamo tanto di tecnologia quanto dei suoi effetti. Il secondo, un po’ conseguente, partiva dal desiderio che il pubblico interagisse attraverso modalità il meno possibile procedurali. Niente tastiere e mouse, niente joystick. Il dispositivo era sollecitato solo dai gesti liberi delle persone , dai loro comportamenti. Tramite quelle che abbiamo definito “interfacce naturali”. Solo così, pensavamo, si potevano ottenere delle reazioni istintive, liberate, che potevano attingere alle risorse espressive di ciascuno, nel modo più significativo e rilevante. Terzo punto: trovare una dinamica che permettesse di contrastare la tendenza individuale (e persino solitaria) cui le tecnologie inducono. Non postazioni singole dunque, bensì luoghi socializzanti, dove fosse possibile comparare la tua esperienza con quella degli altri. Abbiamo definito questi luoghi “ambienti sensibili”. Spazi che hanno la capacità di reagire alle sollecitazioni di chi li pratica, ma anche attivatori di una sensibilità particolare che fa leva sullo scambio continuo di percezioni sensoriali tra componenti materiali ed elementi virtuali. Una vera e propria oscillazione sinestetica tra nature differenti.>> Emerge quindi come mentre lo spazio antropologico di George Legrady ha una venatura più esistenzialista e interrogatoria, quello di Studio Azzurro raccoglie alcune problematiche già delineate da importanti sociologi come Marshall McLuhan e si relaziona attraverso la creazione di spazi antropologici sinestetici denominati “sensibili”. Ubaldo Fadini scrive ancora, riportando le parole di Paul Levy che: 6 The Equivalents II, in Hubertus von Amelunxen, a cura di Stefan Iglhaut, Florian Rotzer, Photography after Photography, OPA, Amsterdam B. V. and Siemens Kulturprogramm, G + B Arts, Munich 1996. 7 Bruno Di Marino, Tracce, Sguardi e altri pensieri, Feltrinelli Real Cinema, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2010, PP. 45-46. 8 <<Viviamo in migliaia di spazi diversi, ciascuno con il proprio particolare sistema di prossimità (temporale, affettivo, linguistico, ecc), così un’entità qualsiasi può esserci vicina in uno spazio e molto lontana in un altro. Ogni spazio ha una propria assiologia, il proprio particolare sistema di valori e di misure. Un certo oggetto, che avrà un “peso” considerevole in un determinato spazio, risulterà leggero, marginale in un altro. Buona parte della nostra cognitività consiste nell’orientarci all’interno della moltitudine di “mondi” diversi nei quali navighiamo. Dobbiamo scoprire rapidamente la topologia e l’assiologia dei nuovi spazi ai quali siamo chiamati a partecipare, non confondere i sistemi di valori, considerare l’evolversi delle situazioni. Così, passiamo il tempo a modificare e organizzare gli spazi nei quali viviamo, a connetterli, separarli, rafforzarli, introdurvi nuovi oggetti, spostare le intensità che li strutturano, saltare da uno spazio all’altro>>.8 8 Ubaldo Fadini, Antropologia del virtuale e filosofia pratica, in Paradigmi – rivista di critica filosofica, 2001, n 57, Schena editore, Fasano, pp.452-453. 9 Videoarte e cyberspazio 10 Centrale è la dinamica evolutiva dell’intelligenza collettiva a partire dalla concettualizzazione del flusso che delinea Ubaldo Fadini, sempre grazie alle ricerche di Levy: <<A partire dal XIX secolo si apre il terzo spazio, quello “delle merci”, in contemporanea con la formazione di un mercato ormai mondiale. Ciò che organizza e contraddistingue questo spazio è il “flusso” (di materie prime, di energia, di materiale, di informazioni etc), una sorta di movimento deterritorializzante che si articola nei primi tempi della modernità, portando i territori alla loro subordinazione ai flussi economici. La caratteristica essenziale di quest’ultimo spazio è la velocità elevata, superiore a quella degli altri spazi da considerarsi come “nuovo motore dell’evoluzione”, di quell’accumulo di ricchezza che non scaturisce più dalla salvaguardia dei confini, bensì dal controllo dei flussi. […] Grazie allo sviluppo dei saperi si sta sviluppando un nuovo spazio in cui è necessario che ognuno si orienti e possa riconoscere gli altri in funzione degli interessi, delle competenze, dei progetti, dei mezzi e delle reciproche identità all’interno del nuovo spazio. […] L’intelligenza collettiva ricopre un ruolo fondamentale in questo nuovo spazio che va oltre lo spazio antropologico. Ripropone infatti con coraggio la questione del rinnovamento del legame sociale proprio a partire dalla relazione di quest’ultimo con il sapere, con le nuove forme di conoscenza, in vista della diffusione più rapida della “civiltà deterritorializzata” che si sostiene appunto sulla messa in comune dell’immaginazione e delle conoscenze presenti nel nuovo spazio antropologico. Quest’ultimo si delinea a partire dalle autostrade informatiche, dal multimedia, dalle realtà virtuali, dal complesso, in breve, delle nuove tecnologie informatiche, che sembrano favorire un continuo scambio di saperi e un processo di ridefinizione dei valori in grado di dare sostanza a ciò che viene pensato con la formula della “democrazia in tempo reale”. Levy si dichiara così a favore di una economia delle qualità umane (e dello sviluppo dell’ingegneria del legame sociale che le corrisponde) che ha al centro il motivo “relazionale”, vale a dire che si deve stimolare, in tale prospettiva, non semplicemente una economia delle conoscenze , bensì una economia dell’umano in generale che comprenda al suo interno l’ambito della conoscenza.>>9 9 Ubaldo Fadini, Antropologia del virtuale e filosofia pratica, in Paradigmi – rivista di critica filosofica, 2001, n 57, Schena editore, Fasano, pp.445-459. 11 Verso una democrazia elettronica Lo spazio antropologico si configura come uno spazio fortemente legato al sapere e alla conoscenza e nello stesso tempo proteso nel rapporto con l’interattività e più spazi e universi di significazione. In questo scenario che possiamo riassumere con lo schema flusso -> intelligenza collettiva -> spazio antropologico -> cyberspazio -> deterritorializzazione -> molteplicità degli universi di significazione la società non può fare finta di nulla, ma prendere in esame queste dinamiche per la formazione di nuove forme di governo e politica. Filosofia e politica diventano un binomio unito dal minimo comune denominatore dell’interattività. <<[…]Il tentativo di Levy è appunto quello di individuare nello spazio antropologico del “sapere” una possibilità concreta di caratterizzare la nostra capacità di essere affetti, per dirla con Spinoza, con l’incremento della stessa potenza d’agire, con il rapporto sempre più articolato che possiamo avere con gli altri. In altre parole stiamo andando sempre più verso l’interattività. […] E’ possibile allora abitare una “molteplicità di spazi” (Michel Serres), cioè partecipare a una pluralità di mondi, dato che la conoscenza, il pensiero, l’invenzione, l’apprendimento collettivi offrono oggi più universi di significazione, delineando spazi antropologici – per via tecnologica – di libertà. Il protagonismo degli intellettuali collettivi è tale da rifare mondo, nel senso di riaprirlo continuamente attraverso linee di significazione erranti, singolari, a spazi di significato metamorfici: in questa prospettiva, è proprio lo spazio antropologico del sapere a consentire il ritrovamento (per gli esseri, i segni e le cose) di una dinamica di mutua partecipazione. […] Nel senso della democrazia elettronica, il rinvio alla virtualizzazione comporta inevitabilmente un’analisi dettagliata del concetto di virtuale, che conduce alla rilevazione che quest’ultimo indica una entità appunto deterritorializzata, in cui vale la dinamica del potenziamento piuttosto che quella del potere. In un ambito di “cybercultura” è opportuno riproporre, a mo’ di conclusione, queste osservazioni del saggio su “L’intelligenza collettiva”, tratte dal capitolo che sviluppa in particolare un’acuta riflessione sulle nuove forme di regolazione politica e sociale di cui si ha urgenza in una situazione di deterritorializzazione accelerata. […]10>> 10 Ibidem. 12 Luigi Ghirri e Gianni Celati: un’introduzione per una nuova metodologia critica 13 Se per arti temporali si intendono quelle arti caratterizzate dall’elemento dello scorrere del tempo11, cioè quelle arti che vivono nel tempo che costituisce la loro ratio essendi, possiamo leggere la fotografia di Luigi Ghirri in relazione a questa dimensione e farne una lettura tramite la narrazione di Gianni Celati, anch’essa inscrivibile in questa tipologia di arti, dove inseriamo musica, danza, teatro, arte, cinema. La fotogenia può essere considerata il fulcro per la lettura di queste arti, dove la fotografia di Luigi Ghirri assume nello scenario del post-moderno una rilevanza dal punto di vista tecnico e teorico. Luigi Ghirri nasce a Scandiano, a Reggio Emilia nel 1943. Inizia a fotografare a ventisette anni, nel 1950. Scompare nel 1992 a Reggio Emilia, dove recentemente (2014) è stata esposta su di lui presso la mostra della Fotografia Europea un’esibizione sotto il nome di Pensare per immagini, che distingue le sue opere in “Icone, Paesaggi, Architetture”. Il discorso concettuale della fotografia di Luigi Ghirri è prima di tutto teorico, proprio perché si diparte dal Pensare per immagini, che è un sintagma che per la prima volta troviamo citato da Giordano Bruno riguardo il modo di impiegare le immagini per rappresentare cose e parole: 11 Max Dessoir, Estetica e scienza dell’arte: i concetti fondamentali, Bologna, CLUEB, 2007. 14 Alcuni modi di impiegare le immagini per rappresentare cose e parole I «Esistono non poche ragioni e modi secondo cui tanto i nomi, tanto le cose stesse possono essere raffigurate da un'immagine unica. Per quanto concerne in genere i modi di impiegare le immagini, senza dubbio occorre stabilire una prima distinzione in questi termini. Delle immagini che possono recepire e trattenere su di sé un segno della cosa da rappresentare, alcune hanno similitudine con la cosa, altre invece col nome che la indica. II I. Collochiamo dunque in alcuni casi la cosa stessa, quando si presta ad essere raffigurata dalla fantasia, come quando poniamo nella memoria l'immagine di uno sgabello in luogo dello sgabello reale, l'immagine di un cavallo in luogo del cavallo reale. II. In alcuni casi in luogo di una cosa simile poniamo nella memoria una cosa dal nome simile. Ciò avviene quando poniamo nel luogo mnemonico una cosa figurabile per immagini, che col suo stesso nome ci induce a ricordare qualcosa di non figurabile per immagini ma simile per il nome a quanto si è rappresentato in precedenza. Poniamo quindi un'immagine equina per ricordare l'equità, l'immagine di una vite per ricordare la vita. III. In alcuni casi per via di etimologia siamo soliti andar cacciando ciò da cui deriva l'immagine collocata nella memoria, ovvero muovendo da un termine figurabile per immagini diamo la caccia a un termine non figurabile, così muovendo dall' immagine di un romano catturiamo il nome di Roma, o il nome di un monte muovendo dall'immagine di un montanaro. IIII. In alcuni casi muovendo dalla similitudine della testa, ovvero della parte iniziale di un nome, ci siamo abituati a richiamare nella memoria il ricordo di qualcosa dal nome diverso nella parte finale. In questo modo attraverso l'immagine di un asino solevo ricordare il termine "asilo" o "Aser". V. In alcuni casi si giunge a ricordare mediante la trasposizione del nome memorizzato, proprio come trasponendo il nome di Filippo, la cui immagine era stata posta in un luogo mnemonico, davo la caccia al ricordo di chi "ama i cavalli". In alcuni casi invece ero solito seguire il procedimento inverso. VI. Muovendo dall'antecedente ero solito dar la caccia al conseguente, proprio come in modo del 15 tutto naturale dall'aurora si concepisce il sorgere del sole e dal pasto siamo indotti a concepire nella mente una figura della digestione. VII. In alcuni casi si giunge a ricordare muovendo dal concomitante così come muovendo dall'immagine di un amico ci siamo abituati a ricordare un altro amico che è sempre in compagnia del primo. Quando perciò un determinato concetto, come quello di "morte", non è figurabile per immagini, può ugualmente essere raffigurato attraverso le immagini concomitanti di una strage o di un cadavere. VIII. In alcuni casi si giunge a ricordare muovendo dal conseguente: è una regola che può essere scambievolmente applicata per l'antecedente: così infatti dal fumo ricavi il nome del fuoco che lo precede e attraverso il fuoco ricordiamo il fumo che ne consegue. IX. In alcuni casi dall'accidente si giunge a ricordare il sostrato allo stesso modo in cui muovendo dall'immagine di una cosa bianca collocata nella memoria guadagnamo il ricordo della neve, dall' immagine del ballo il balierino. X. In alcuni casi dal sostrato si giunge a ricordare l'accidente: come dall'immagine di un alveare colmo di miele che abbiamo collocato nella memoria possiamo giungere al ricordo della dolcezza, dall'immagine del leone al ricordo della ferocia, dall'immagine dell'orso al ricordo dell'ira. XI. In alcuni casi dal geroglifico si giunge a ricordare ciò che da questo è designato: così infatti dalla bilancia e dalla stadera è designata la giustizia, dallo specchio la prudenza. XII. In alcuni casi dall'insegna si giunge a ricordare ciò che da questa è insignito: così infatti dalla spada scaturisce il ricordo di Marte, dalla chiave quello di Giano. XIII. In alcuni casi dal simbolo si giunge a ricordare ciò che da questo è simboleggiato, come dall'immagine di un uomo nasuto scaturisce il ricordo di Tongiliano, sebbene Tongiliano non abbia niente in comune, eccetto il naso, con l'immagine custodita nella memoria. Dall'immagine di un uomo armato scaturisce il ricordo di Annibale, dall' immagine di un uomo togato, con la tunica lacera, i piedi scalzi, il capo scoperto scaturisce invece il ricordo di Diogene. XIIII. In alcuni casi muovendo da ciò che è contemporaneo si giunge a ricordare il tempo: così dai fiori scaturisce il ricordo dell'aprile, dal torchio quello dell'autunno e così si procede negli altri casi. XV. In alcuni casi muovendo da una circostanza si giunge a ricordare il luogo o la persona cui rimanda la circostanza stessa: così da un determinato costume scaturisce il ricordo di un tedesco o della Germania, di un africano o dell'Africa. XVI. Muovendo da un'immagine affine si giunge a ricordare ciò che possiamo assimilare a questa, al modo in cui dall'immagine di un vasaio intento a modellare l'argilla ci viene offerta l'opportunità di riflettere sull'atto dell'artefice universale che modella l'universo plasmabile. Tale considerazione si inserisce in una lunga catena di connessioni. In un piccolo seme e principio preesistono infatti gli effetti più grandi: per questo un piccolo errore al principio è un grande errore alla fine. XVII. Da un termine che si fa scomporre si giunge a ricordare quanto risulta dalla scomposizione: in questo modo da Maro è resa manifesta Roma, da Remo more. XVIII. Dalle parti si giunge a ricordare l' intero, dai componenti il composto, per cui l'immagine di Davo con un tralcio di vite richiama e rende presente il nome David che non possiamo 16 figurare attraverso immagini. XIX. Sottraendo o aggiungendo la testa del termine si rende manifesto il corpo di un termine dal significato diverso, come dal termine Palatino è reso manifesto il termine latino. XX. Dalla somiglianza della testa di un termine si giunge a ricordarne un altro con la testa simile, proprio come dall'immagine di una partoriente è reso manifesto il libro paralipomeno. XXI. Dall'immagine di chi è solito ripetere qualcosa si giunge a ricordare una determinata parola o frase: di conseguenza un tale che era solito ripetere "gli amici hanno tutto in comune", la cui immagine hai posto in un luogo mnemonico, ti condurrà fino al ricordo di quella frase. E tieni ben presente a questo punto che secondo regole da te stabilite potrai anche disporre con ordine detti e termini di tal genere, associandoli alle immagini di certi individui, come riterrai più opportuno per applicare e utilizzare nel modo migliore il procedimento che si esporrà in seguito. XXII. Dal sostrato sul quale ci è possibile cogliere la veridicità di una certa sentenza, ovvero il significato di un certo termine, si giunge a ricordare il termine o la sentenza stessa, proprio come un tale loquace e maldicente, ma poco fortunato, mi faceva tornare alla memoria la sentenza di quel salmista: "un uomo linguacciuto non sa regolare i suoi passi sulla terra". XXIII. Dalla metafora, ovvero dallo spostamento del significato di un termine, si giunge a ricordare il sostrato cui rimanda lo spostamento stesso: dall'argento si ricorda la luna, dal piombo Saturno, dallo stagno Giove. Ugualmente, dalla volpe si ricorda l'astuzia, dal cane l'adulazione, dalla scimmia l'imitazione e l'emulazione. XXIIII. Da ciò che consente di essere associato a un determinato modo di agire si giunge a ricordare l'azione appropriata ad esso, proprio come dal bue scaturisce il ricordo del muggito, dal porco quello del grugnito. Da qui in alcuni casi è ancora possibile procedere per via di trasposizione, come accade quando, dopo aver tratto dall'immagine dell'asino il ricordo del raglio, trasponendone il significato possiamo avere dal raglio il concetto di "discorso vano": infatti proprio con questa immagine ero solito raffigurarmi anche gli asinologi. XXV. Dallo strumento si giunge a ricordare l'artefice, e in genere chi si serve abitualmente dello strumento, come dalla sfera e dall' astrolabio posso ricordare l'astrologo. XXVI. Da quanto dimostra attitudine a fare qualcosa si giunge a ricordare ciò cui si riferisce l'attitudine stessa e che altrimenti non potrebbe essere figurato per immagini: così dall'immagine di una donna intenta allo studio della grammatica, immagine che riproduce la sostanza congiunta all'accidente, ovvero il sostrato congiunto alla qualità, potrei giungere a concepire la grammatica stessa, che è per così dire qualità non congiunta a un sostrato. Ugualmente dall'immagine di un musico potrei giungere a concepire la musica. Seguendo un simile procedimento dal possessore si giunge a ricordare la cosa posseduta, come dal padrone di un terreno scaturisce il ricordo di questo stesso terreno e da un principe scaturisce il ricordo del suo principato, per quanto in questo caso si tratti di un predicato di genere diverso. Lo stesso accade per quanto concerne in genere la qualità: da una cosa mutata si giunge a ricordare la natura del mutamento; non diversamente, muovendo da ciò che ritiene in sé e manifesta il modo di essere espresso da un avverbio si giunge a ricordare l'avverbio stesso: così dall'immagine di chi danza bene si presenta alla memoria il ricordo dell' avverbio "bene". XXVII. Dalla specie si giunge a ricordare il genere, come dal bue, raffigurabile per immagini e 17 collocato in un luogo mnemonico, posso ricordare il genere degli animali, concetto non figurabile per immagini. XXVIII. Dal relativo si giunge a ricordare il correlativo, come dall' immagine del padrone scaturisce il ricordo del servo. XXIX. Dal contrario si giunge per via di antifrasi a ricordare il contrario: casi attraverso l'immagine di un uomo che parla senza eleganza ricordiamo Demostene, attraverso l'immagine di uno sciocco ricordiamo Aristotele. XXX. Dall'agente si giunge a ricordare l'atto ovvero l'azione: così dall'immagine del ladro scaturisce il ricordo del furto. Se oltre ai trenta qui elencati si potranno ancora immaginare altri modi di rappresentare con immagini parole e cose, si dovranno considerare tutti come inclusi nei precedenti e riconducibili a quelli. Infatti i vari modi di rappresentare con immagini sono stati riportati a tale numero in seguito ad una perfetta enumerazione e analisi, come risulta evidente a quanti conoscono bene il principio esposto nella Clavis Magna». […] Giordano Bruno 12 Tramite una serie di rapporti basati dal particolare all’universale, su figure retoriche Bruno ci espone in che modo i concetti, cioè le cose, possono essere rappresentati. Questo dà vita a ciò che chiamiamo comunemente immagine. 12 Giordano Bruno, Le ombre delle idee - Il canto di Circe - Il sigillo dei sigilli di Biblioteca Universale Rizzoli, III edizione 2001. 18 Luigi Ghirri L'immagine di Luigi Ghirri possiamo considerarla una cosa-in-sè nel senso kantiano del termine cioè sappiamo che Kant distingue tra fenomeno e cosa-in-sè , cioè ciò che di fatto si può suddividere tramite una dicotomia tra ciò che è conoscibile con i sensi e con l'intelletto. Nello stesso tempo il confine tra noumeno e fenomeno si fa labile perchè la fotografia di Ghirri è conoscibile non solo con l'intelletto, ma anche con i sensi, soprattutto in quella che definirei "memoria sensibile": non si tratta di una memoria storica, ma di un particolare nell'universale che diventa, nella creazione dell'opera d'arte, universale stesso.13 Così sembra essere vero che non esistono idee di particolari, ma soltanto di universali. Le opere di Luigi Ghirri nascono come raccolte, inizialmente rappresentazioni di oggetti (risente molto degli influssi dadaisti e futuristi) e poi essenzialmente di paesaggi e architetture, intese come scorci: • • • • • • • • • • • • • • Catalogo (1971-1972) Week End - Atlante (1973) Km. 0,250 (1973) Infinito (1974) Paesaggi di cartone (1971-1974) Colazione sull'erba (1972-1974) Kodachrome (1970-1978) In scala (1977-1978) Vedute (1970-1979) Italia ailati (1971-1979) Il paese dei balocchi (1972-1979) Identikit (1976 -1979) Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1979) Geografia immaginaria (1979-1980) 13 Romeo Bufalo, L'esperienza precaria, Capitolo III: "Un singolare che è già universale”, Il melangolo, Genova, 2006. 19 Snapshot (1980) • Still life (1978-1981) • Polaroid (1980-1981) • Topografia-Iconografia (1980-1981) • Tra albe e tramonti (1982-1983) • Il lavoro degli artigiani (1984) • Esplorazioni sulla via Emilia - Vedute nel paesaggio (1985) • Versailles (1985) • Terme dell'Emilia-Romagna (1987) • Il Palazzo dell'Arte (1980-1988) • Un piede nell'Eden (1984-1988) • Le case (1976-1989) • Paesaggio italiano (1980-1989) • Il profilo delle nuvole (1980-1989) • Vedute di città (1976-1990) • I luoghi teatrali (1983-1990) • Viaggio in italia (1984) 14 • Le architetture (1982-1992) La fotografia di Ghirri vuole cercare di minimizzare lo scarto tra interno e esterno (la macchina da presa, la volontà del fotografo, ciò che si fotografa) ponendo quindi questa attività in modo pratico, come se fosse una narrazione, analogamente a quella di Gianni Celati. Da qui possiamo creare un nesso tra Ghirri e Celati, che descriverei come il suo relativo cantautore: • <<[…] Così dunque, c’è stato un crollo dell’istinto narrativo dovuto alla scolarizzazione, e lo choc della scolarizzazione è qualcosa da cui stiamo uscendo appena adesso. La scolarizzazione di massa, l’alfabetizzazione di massa, ha fatto dimenticare tutto quello che l’alfabetismo portava con sé – voglio dire una speciale sensibilità alla lingua, che indubbiamente dipendeva dall’analfabetismo, e che con la scolarizzazione è andata perduta. Così è andato perduto anche il gusto semplice del narrare, cioè del narrare non specializzato, e la funzione del narratore non specializzato in una comunità. Ad esempio, mia madre mi raccontava che nel suo borgo alla sera quando la gente non sapeva cosa fare si riuniva a raccontarsi storie, questo era l’intrattenimento serale – ma raccontarsi storie voleva anche dire raccontare un libro che si era già letto, e questa è un’attività molto diversa da quella specializzata nei raccontatori di favole.>> 15 Ghirri e Celati sono così accomunati dal minimo comune denominatore del linguaggio pratico inteso come ricerca formalista: il linguaggio pratico ci consente di orientarci nel mondo tramite il 14 Da Wikipedia, l’enciclopedia libera, http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Ghirri. Gianni Celati, Il narrare come attività pratica, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, PP. 100-101. 15 20 riconoscimento degli oggetti. Il riconoscimento si ottiene in virtù della selezione di pochi, usuali tratti che distinguono tra loro gli oggetti, selezione effettuata allo scopo di orientarci nel mondo fenomenico (percezione consueta delle parole, Viktor Borisovič Šklovskij ). Un modello adeguato per dar conto alla correlazione necessaria di materiale/forma è per Jurij Nikolaevič Tynjanov un modello dinamico che deve sostituirsi ai modelli statici in uso. Il modello dinamico mette in gioco il concetto di costruzione in cui tutti gli elementi agiscono gli uni sugli altri e sono articolati in sistema e giocano secondo le loro funzioni assegnate. Se Kodachrome (1970-1978) pone le basi per una ricerca formale e espressiva basata essenzialmente su fotomontaggi, ready-made, sovrapposizioni e fotomontaggi ma anche il tema della coppia (lavoro comprendente circa 400 fotografie), Viaggio in Italia (1984) coinvolge venti fotografi, quasi tutti italiani, in un lavoro di ridefinizione poetico-concettuale dell’immagine del paesaggio italiano contemporaneo , fuori dagli schemi e dai modelli di tipo turistico, folkloristico e consumistico promossi dai mass media: tutto il mondo appariva già descritto, rappresentato. Era un modo di sfuggire all’alienazione che immediatamente prende quando si inizia a fotografare, una forma di esorcismo. Presi direttamente dalla strada cartelloni pubblicitari, immagini di negozi, la strada stessa, rispetto tutto ciò che si pone nell’ordinario hic et nunc, questo tipo di ricerca continua in tutte le raccolte degli anni ’70, incentrate nella rappresentazione del mondo esterno (come anche in Viaggio in Italia) dove la rappresentazione visibile è l’analogo della realtà costruita in Colazione sull’erba (1972-1974) definito da un rapporto semplice con la natura, non alienato di vivere grandi aeree e ampi spazi. Vera fotografia è una mostra che raccoglie una decina di anni dei lavori di Ghirri. Queste immagini rivelano un’attenzione pop nei confronti della realtà, sia in termini di impatto visivo che nella scelta dei soggetti: cartelloni pubblicitari, scritte sui muri, insegne: era (di nuovo) un modo di relazionarsi con il presente. Le immagini erano più concentrate sull’oggetto che sulla fotografia: 21 Luigi Ghirri, Stelle di natale, Modena 1970 Diaframma 11, 1/125 (1979) luce naturale è un lavoro sulla gente che non si può inscrivere nell’ambito di un omaggio all’impressionismo renoiriano. Il nome si riferisce ai parametri classici delle pellicole leggibili in esterni. Il Paese dei balocchi (1972-1979) realizzato con macchina 24x36 è stato invece un progetto che nella stessa linea semantica di Kodachrome ha voluto rappresentare tutto un sistema di oggetti rappresentabili come particolari nel loro insieme. In questa connotazione di significato penso che Ghirri si possa accostare alla ricerca formalista espressiva nell’ambito della trasposizione dei significanti come significanti e viceversa. Vedute di città (1976-1990) è la massima espressione dello sperimentalismo di Ghirri e l’apertura a nuove strade in questo senso. Infinito (1974) e In Scala (1977-1978) sono due sperimentazioni diverse, l’una che consta di 365 fotografie sul cielo analizzato nelle sue sfumature, l’altra riguarda una serie di ologrammi costruiti sull’Italia, ispirati ad una serie di miniature viste ad Arles, in Francia, incentrate nel rapporto tra interno e l’esterno. La fotografia di Luigi Ghirri è inscrivibile nel sistema delle arti temporali perché è fotogenica. In Kodachrome, infatti, i luoghi non sono tanto topoi Manzoniani, ma sono immagini che scorrono che cercano di essere fermate nel minuto che passa della fotogenia di Delluc, scomposti sinteticamente, fino a ergerli come universali, traendo da essi i particolari che li connotano come unicum: <<[…] Che cos’è la fotogenia? Descriverei come fotogenico ogni aspetto di cose o esseri viventi caratterizzato dalla riproduzione filmica. Ogni aspetto che non è caratterizzato dalla riproduzione filmica non gioca nessun ruolo nelle arti del cinema. […] Questa mobilità deve essere 22 comprensibile immediatamente dalla mente e da tre dimensioni spaziali. […] La quarta è quella del tempo. La mente viaggia nello spazio e nel tempo. Per il tempo c’è anche la dimensione “pastfuture vector”>>. 16 La Fotogenia di Delluc è il punto di partenza per i formalisti russi per definire l’artisticità del cinema. Viene ripreso il concetto di cinematografibilità che sintetizza l’accordo del cinema con la fotografia e vuole esprimere il particolare aspetto poetico delle cose e degli uomini suscettibile di essere rivelato dal nuovo linguaggio. Dall’altro lato una lettura fondamentale della fotografia di Ghirri che a sua volta è incentrata sulla necessità di fissare il momento presente di Delluc, appunto la fotogenia, porta ad una interpretazione della simultaneità nell’epoca post-moderna delle immagini, che irrimediabilmente ci conduce verso il trionfo dell’immagine in movimento, della videoarte come mezzo di compromesso tra l’immagine-tempo e l’immagine-movimento stessa in senso però deleuziano. Ghirri descrive così questo processo: << la nostra percezione dell’immagine si è velocizzata attraverso il cinema, la televisione, l’automobile. Noi riusciamo a percepire anche messaggi pubblicitari passando a 100 all’ora. E’ assolutamente impensabile che un uomo 200-300 anni fa avesse questa capacità di lettura dell’immagine: il suo rapporto con l’immagine era estremamente più raro, e molto più profondo del nostro. Il nostro modello porta a una visione accelerata, e anche se non è detto che all’interno dell’immagine riusciamo a leggere in profondità, sicuramente di una mole di stimolazioni visive, in parte consce e in parte inconsce, rimane traccia nella nostra memoria, una traccia che in qualche modo si ripresenta nel nostro fare e nel nostro osservare. Anche quando si parla di cinema, di fotografia, di pittura, capita di parlare della sensazione di déjà vu, cioè di già visto, che di per sé non è da considerare dispregiativo ma piuttosto richiama un contatto con l’inconscio collettivo, con l’immaginario di altri che sembra inevitabilmente affacciarsi alla nostra quotidianità, nelle immagini che vediamo, nel cinema che vediamo, e che rimane dentro di noi. Questo è un po’ il carattere di déjà vu che circola attualmente in tutti i linguaggi artistici.>> 17 […] 16 Luis Delluc, Photogénie, Parigi, 1920. 17 Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet Compagnia Extra, Reggio Emilia / Macerata, 2010, P. 51. 23 Luigi Ghirri e Gianni Celati: opere e minimo comune denominatore 24 L’immagine-movimento secondo Gilles Deleuze è quella modalità che il cinema classico e tradizionale ha adottato per decenni: essa si fonda sul principio di contiguità tra personaggio e ambiente e sulla funzione dell’istanza narrativa; a quest’ultima tutti i caratteri e le funzioni di costruzione del film sono subordinate. Il montaggio deve essere “nascosto”, ovvero deve essere in funzione della “storia”, e le azioni compiute dai personaggi devono svolgersi in maniera coerente in concordanza col “tutto” generale che garantisce un senso e una comprensibilità totale. Il cinema classico americano, come la commedia e il musical, ma anche il western, sono i casi esemplari di tale immagine. Un esempio di immagine-movimento: Susanna, Bringing Up Baby, Howard Hawks, 1938. L’immagine-tempo, invece, emancipa l’immagine stessa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo; mentre prima tutto era in funzione dell’azione, adesso l’immagine sprigiona il tempo, aprendo agli “ambienti vuoti”, agli “spazi qualsiasi”, alle lunghe attese. Il protagonista diviene il tempo, cede la compostezza del “tutto”, e i personaggi si disperdono nell’ambiente, si pongono in opposizione ad esso, e dimostrano una loro perpetua estraneità. I padri del cinema moderno, in questo senso, sono a detta di Deleuze Orson Welles, Alain Resnais e Jean-Luc Godard. Specialmente in quest’ultimo, gli elementi di costruzione del film assumono una dignità propria; ad esempio il montaggio viene messo in mostra direttamente, dichiara palesamente la sua presenza allo spettatore. Il caso più eclatante di immagine-tempo è l’immagine-cristallo, nella quale finzione e realtà, virtuale e attuale si confondono nella stessa immagine senza permettere di distinguerli nettamente. Un esempio di immagine-tempo può essere considerato The Thruman Show, di Peter Weir, del 1998. Per ricollegarmi alla premessa, la videoarte, le video-installazioni sembrano aver compiuto così un compromesso tra immagine-tempo e immagine-movimento deleuziana, cioè tra la concordanza estrema con l’istanza narrativa, l’assenza del montaggio e il ruolo dell’attore come cruciale all’interno della cornice temporale della storia, la perdita di rilevanza assunta dal montaggio: il filmmaker, il video-artista si trova in una posizione creatrice e creativa, dove assume su di se sia l’istanza narrativa e il montaggio, ma nello stesso tempo tutto deve aderire all’istanza narrativa stessa, e allo stesso modo non c’è un confine netto tra realtà e virtuale talvolta, per cui possiamo parlare anche di immagine-cristallo. Il videoartista e filmmaker sono narratori di se stessi. Se infatti, partendo da Luigi Ghirri ravviso in Gianni Celati il suo narratore, il suo regista, nel post-moderno il videoartista basta a se stesso, cioè narra se stesso essendo artefice e creatore dell’opera. 25 Gianni Celati: letture parallele Ho fatto assurgere Gianni Celati al cantautore di Luigi Ghirri, e questo in base ad alcuni elementi. Prima di tutto penso che la fotografia di Luigi Ghirri possa ritenersi temporale e fotogenica e allo stesso modo così ritengo la scrittura di Gianni Celati. L’autore, vivente, nato nel 1937 a Sondrio, pubblica nel 1971 il suo primo romanzo, Le Comiche e da quel momento una vasta produzione letteraria: • • • • • • • • • • • • • • • • • Le avventure di Guizzardi, Torino: Einaudi 1972; Milano: Feltrinelli 1989 e 1994 La banda dei sospiri, Torino: Einaudi 1976; Milano: Feltrinelli 1989 e 1998 Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino: Einaudi 1975, 1986 e 2001 Lunario del paradiso, Torino: Einaudi 1978; Milano: Feltrinelli 1989 e 1996 Alice disambientata, Milano: L'erba voglio 1978; Firenze: Le lettere 2007 Narratori delle pianure, Milano: Feltrinelli 1985 e 1988 Quattro novelle sulle apparenze, Milano: Feltrinelli 1987 e 1996 La farsa dei tre clandestini. Un adattamento dai Marx Brothers, Bologna: Baskerville, 1987 Verso la foce, Milano: Feltrinelli 1988 e 1992 • (DE) Landauswärts, trad. di Marianne Schneider, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1993 • (FI) Kohti virran suuta, trad. di Hannimari Heino, Helsinki: Loki-kirjat, 1999 Parlamenti buffi, Milano: Feltrinelli 1989 L'Orlando innamorato raccontato in prosa, Torino: Einaudi 1994 Recita dell'attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Milano: Feltrinelli 1996 • (FR) Dernière représentation de l'acteur Vecchiatto au théâtre de Rio Saliceto, trad. di Caroline Chaniolleau, Paris: Quatre-Vents, 1999 Avventure in Africa, Milano: Feltrinelli 1998 e 2000 • (EN) Adventures in Africa, trad. di Adria Bernardi, University of Chicago Press, 2000 • (FR) Aventures en Afrique, trad. di Pascaline Nicou, Paris: le Serpent à plumes, 2002 Cinema naturale, Milano: Feltrinelli 2001 e 2003 Fata Morgana, Milano: Feltrinelli 2005 Vite di pascolanti, Roma: Nottetempo 2006 • (ES) Vidas erráticas, trad. di Francisco de Julio Carrobles, Ed. Periférica,Cáceres, 2009 Costumi degli italiani, vol. 1: Un eroe moderno, Macerata: Quodlibet 2008 26 Costumi degli italiani, vol. 2: Il benessere arriva in casa Pucci, Macerata: Quodlibet 2008 • (DE) Was für ein Leben!: Episoden aus dem Alltag der Italiener, trad. di Marianne Schneider, Berlin: Wagenbach 2008 • Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna, Milano: Feltrinelli 2010 • Cinema all'aperto, Roma: Fandango Libri, 2011 (con i dvd di Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri e Case sparse) • Conversazioni del vento volatore, Macerata: Quodlibet 2011 • Passar la vita a Diol Kadd. Diari 2003-2006, Milano: Feltrinelli 2011 (con il dvd del film Diol Kadd); 2012 (nuova ed. rivista dall'autore, senza dvd) 18 • Selve d'amore, Macerata: Quodlibet 2013 A livello teorico prenderò in considerazione Narratori delle pianure, Verso la foce e Cinema naturale come tre diversi tipi di scrittura del paesaggio. Soprattutto nell’ambito del paesaggio infatti Celati può essere considerato come il cantautore di Ghirri. • Narratori delle pianure19 è la prima raccolta di novelle della rappresentazione del mondo visibile, dell’accettazione di un mondo interiore che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione. Si tratta di trenta novelle che secondo Nunzia Palmieri20 riscoprono la figura del narratore orale, molto cara a Walter Benjamin. <<[…]Viene utilizzato in questa narrazione l’espediente del rinvio che invece di chiarificare la comprensione la complica rendendo estraneo al lettore il paesaggio della narrazione. Il referente non viene fornito, non vengono date le coordinate spazio-temporali per sciogliere i rinvii testuali. A volte la narrazione è sospesa in una dimensione favolosa. Gli incipit sono disseminati di espressioni deittiche, forse eco di una lontana voce, che non vengono riprese dalla narrazione. Come nelle fotografie di Luigi Ghirri, in cui la parte più importante è quella che è ai margini, così i racconti diventano tali quando fanno immaginare altro, quando rinviano ad una “esteriorità incalcolabile”; più importante del racconto “è lo sfondo in cui si proietta: un paesaggio dove piazzare le intuizioni e le voci o i richiami a cui si va dietro”.>>21 Le immagini sprofondano nel tempo e nello spazio, è l’elogio dell’apparenza, l’assenza del significato? Tutto sembra riportare ad una scrittura che non fa sconti, che accosto a quella di Josè Saramago in La zattera di pietra: <<Ho sentito raccontare la storia d’un radioamatore di Gallarate, provincia di Varese, il quale s’era messo in contatto con qualcuno che abitava su un’isola in mezzo all’Atlantico. I due comunicavano in inglese, lingua che il radioamatore italiano capiva poco. Capiva però che l’altro aveva sempre voglia di descrivergli il luogo in cui abitava e di parlargli delle coste battute dalle onde, del cielo che spesso era sereno benché piovesse, della pioggia che su quell’isola scendeva orizzontalmente per via del vento, e di ciò che vedeva dalla sua finestra. 18 Fonti: Wikipedia, l’enciclopedia libera http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Celati. Pubblicato nel 1985, vincitore dei premi Cinque Scole e Grinzane-Cavour. 20 Nunzia Palmieri, Comiche. Il cinema naturale di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, PP. 293-303. 21 Francesca Gatta, Le condizioni del Narrare. Il cinema naturale di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, PP. 268-269. 19 27 Per capire meglio, il radioamatore italiano ha cominciato a registrare le loro conversazioni e a farsi poi tradurre i nastri dalla sua fidanzata, che sapeva l’inglese meglio di lui. L’uomo desiderava solo parlargli dell’isola. Con lui il radioamatore non riusciva mai a scambiare notizie tecniche o notizie su altri radioamatori sparsi nel mondo, come di solito avviene. E quando a volte tentava di chiedergli chi era, cosa faceva, se era nato lì o c’era arrivato da poco, quello evitava le domande come se non volesse sentirle. Di lui il ragazzo di Gallarate era riuscito a soltanto a sapere che si chiamava Archie, che viveva con la moglie, e che ogni giorno percorreva l’isola in lunghe passeggiate.>>22 <<Quando Joana Carda segnò il suolo con il suo bastone d’olmo, tutti i cani di Cerbère cominciarono a latrare, seminando panico e terrore fra gli abitanti, visto che da tempi remoti si credeva che quando in quel luogo i canidi, che erano sempre stati muti, avessero cominciato a latrare, tutto l’universo sarebbe stato sul punto di estinguersi. Come si fosse creata una così radicata superstizione, o salda convinzione, che in molti casi è l’espressione alternativa parallela, nessuno oggi lo ricorda, sebbene, ad opera e fortuna di quel noto gioco di udire il racconto e di ripeterlo con una nuova virgola, le nonne francesi fossero solite distrarre i nipotini con la favola secondo cui, in quello stesso luogo, nel comune di Cerbère, dipartimento dei Pirenei Orientali, in epoche greche e mitologiche, aveva abbaiato un cane a tre teste che, se lo chiamava il barcaiolo Caronte, suo padrone, rispondeva appunto il nome di Cerbère. Un’altra cosa che pure non si sa è quali mutazioni organiche avesse subito il famoso e altisonante canide fino alla mutezza storica e comprovata dei suoi discendenti da una testa sola, degenerati. Eppure, e questo è punto di dottrina che solo pochi ignorano, soprattutto se appartengono alla generazione veterana, il cane Cerbero, che tale si scrive e deve dirsi nella nostra lingua, montava guardia, terribile, all’entrata dell’inferno, perché non osassero uscirne le anime, ma in seguito, fors’anche per misericordia estrema di dei ormai moribondi, ammutolirono i cani futuri per tutta l’eternità, per vedere se col silenzio si cancellava dalla memoria l’infera landa.>>23 22 23 Gianni Celati, Narratori delle pianure, Universale Economica Feltrinelli, Milano, p.11. José Saramago, La zattera di pietra, Universale economica Feltrinelli, Milano, P.9. 28 Luigi Ghirri, Rifugio Grostè, 1984 Luigi Ghirri, Roncocesi, Via Vera 29 Notevoli differenze si ravvisano in Verso la foce (1989) caratterizzato a mio parere dalla prevalenza descrittiva, dallo sguardo del narratore in prima persona che assurge a macchina da presa che delinea i perimetri di fotografie ghirriane. Siamo verso una narrazione di immaginemovimento deleuziana da un lato, dall’altro verso una narrazione dentro il cinema che si profilerà basata su una matrice teatrale con Cinema naturale. Verso la foce L’aperto giorno brilla all’uomo di immagini (Holderlin, Aussicht, circa 1842) <<[…] Guidando Luciano mi parla: “In certi momenti ho voglia di fotografare tutto, tutto quello che vedo mi sembra interessante. Poi però guardo nell’obbiettivo, e tutto mi sembra ovvio. Ma mi sembra ovvio per gli stessi motivi per cui volevo fotografarlo. Se mi distraggo dall’idea di dover fotografare, invece, a momenti succede il contrario: una cosa mi colpisce isolatamente, senza pensarci troppo la inquadro e vedo che riesco a farla giocare bene nell’inquadratura. E’ soprattutto un problema di inquadratura. E’ anche una questione di stati d’animo. Abbiamo deviato verso San Benedetto, questa strada si chiama Romana perché era percorsa da pellegrini che venivano da oltralpe per andare a Roma. Campagne ondulate con coltivazioni di grano, lattuga, cavoli, erba medica. C’è spazio largo in questo paesaggio, ma non incombente grazie alle ondulazioni. La linea d’un campo verde lascia spuntare più lontano la curvatura d’un campo quasi giallo, tagliato da un declivio color delle argille. Così l’occhio non è lanciato allo sbaraglio come nella pianura assoluta, dove dopo un po’ non si riesce a distinguere quello che è familiare da quello che è insolito, tutto diventa uguale e ci si stanca.[…]>>24 24 Gianni Celati, Verso la foce, Universale Economica Feltrinelli, Milano, p.63. 30 Luigi Ghirri, Cadecoppi, 1985 Luigi Ghirri, Comacchio, 1989 31 La scrittura di Celati è stata accostata da Francesca Gatta25 a quella di Giacomo Leopardi per il fatto che <<[…] la parola non si propone di descrivere con precisione quanto di accendere l’immaginazione>> ma soprattutto perché è una scrittura basata su quid intrinseci, indefiniti: <<[…]Da giovane parlavo molto mi piaceva affrontare anche questi problemi. Quali problemi? Sai, il problema del giudizio estremo, con le nostre anime là che aspettano molto stanche su una sedia, e i giudici schierati a decidere osa abbiamo combinato alla fin fine, dopo aver sprecato tanto fiato per darci ragione.>>26 La terza tappa fondamentale di Gianni Celati è costituita da Cinema naturale. Viene abbandonata l’impostazione di Narratori delle pianure per quanto riguarda il lasciato all’interpretazione del lettore: sono presenti i momenti metanarrativi, cioè i raccordi volutamente scoperti della narrazione, che ricorrono vistosi nella tessitura del racconto, a mettere in primo piano la libertà del narratore e, nello stesso tempo, a sottolineare il fatto che la storia è frutto di un racconto, come tale con tutte le sue arbitrarietà, le zone d’ombra, i paesaggi irrisolti e allusivi: <<Qui salto gran parte del loro viaggio, visite ai mercati, mangiate nei ristoranti, e altre avventure del genere. Li ritrovo mentre stanno andando sull’ambulanza… […] Salterò un po’ in avanti nei mesi, perché si è già capito come andavano le cose. Arriviamo a una sera d’autunno… […] Ma qui è inutile ripeterle, perché il racconto è finito, e tra l’altro è anche poco credibile per via del sorcio parlante – Il paralitico nel deserto. Veniamo a un momento importante del 25 Francesca Gatta, Le condizioni del Narrare. Il cinema naturale di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, PP. 273. 26 Giulio Iacoli, Per la sopravvivenza dell’istinto narrativo. Immagini di racconto dal “Cinema naturale” di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, P. 279 32 Racconto, di nuovo in autunno. Nelle campagne vuote… -Notizie ai naviganti.>>27 La scrittura di Celati nel corso degli anni si consolida fino ad essere accostata, a mio parere, alla narrazione fortemente metateatrale e metalinguistica di Francis Scott Fitzgerald. Lo studente di Princeton si avvicina infatti dapprima ad una scrittura che si affianca al cinema pre-narrativo, che vuole stupire, colpire, attrarre emotivamente lo spettatore ed è una narrazione dapprima più strettamente romanzesca, non teatrale. Secondo Tom Gunning 28 questa narrazione è naturalmente portata a far innescare reazioni emotive nel lettore, come nel cinema lo spettatore era portato naturalmente a immedesimarsi in ciò che vedeva e quindi a reagire emotivamente. A questo proposito riporto la mia elaborazione al saggio di David Freedberg e Vittorio Gallese tratto da Teorie dell’immagine29: <<Poi moverà l’istoria l’animo Quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio movimento d’animo […] Piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride. E doglianci con chi si duole. Ma questi movimenti d’animo Si conoscono dai movimenti del corpo.>> Mettendo da parte la dimensione artistica delle opere visive cerchiamo di trarne i fenomeni che si producono a livello corporeo nel corso della contemplazione delle opere in virtù del loro contenuto visivo, illustriamo i meccanismi neuronali che sostengono il potere empatico delle immagini e dimostriamo che la simulazione incarnale e i sentimenti empatici da essa generata svolgono un ruolo cruciale. La scoperta dei neuroni a specchio nei macachi e di analoghi meccanismi imitativi nel cervello umano, insieme alla nuova importanza assunta dai processi emotivi nel campo della percezione sociale, hanno modificato la nostra conoscenza della base neuronale dell’interazione sociale. La ricerca neuro scientifica ha gettato luce sui modi in cui “empatizziamo” con gli altri, sottolineando il ruolo dei modelli impliciti dei comportamenti e delle esperienze altrui, ovvero il meccanismo della simulazione incarnata. La nostra capacità di dare un senso in modo 27 Francesca Gatta, Le condizioni del Narrare. Il cinema naturale di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, P. 271. 28 http://www.columbia.edu/itc/film/gaines/historiography/Gunning.pdf. 29 Teorie dell’immagine, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, PP. 331 ss. 33 prerazionale alle azioni, emozioni e sensazioni degli altri dipende dalla simulazione incarnata, un meccanismo funzionale attraverso cui le azioni, emozioni e sensazioni che vediamo attivano le nostre rappresentazioni. Quindi, come siamo capaci di comprendere il mondo interiore degli altri così subiamo un effetto indotto dall’opera d’arte. Guardando la scena dei Disastri della guerra di Goya l’empatia corporea si manifesta non soltanto alle reazioni dei molti disagi delle figure rappresentate, che danno agli spettatori l’impressione di patire in modo analogo, ma anche nelle rappresentazioni spesso orribili di carne lacerata e trafitta. In questi casi, le reazioni fisiche degli osservatori sembrano localizzarsi precisamente nelle parti del corpo minacciate, oppresse, bloccate e destabilizzate nella raffigurazione. Inoltre, il corpo si tramuta in empatia fisica ed emotiva perché il corpo viene danneggiato e mutilato. Nel caso di dipinti astratti come quello di Jackson Pollock gli osservatori spesso osservano una sensazione di coinvolgimento corporeo nei movimenti impliciti nelle tracce fisiche delle azioni creative compiute dall’autore. Ciò vale anche per i tagli nella tela di Lucio Fontana, dopo la visione del movimento empatico suggerisce una sensazione che sembra coincidere con il gesto che ha prodotto lo strappo. L’importanza dell’empatia per l’estetica oltre che essere stata evidenziata da Stendhal nella nota Sindrome di Stendhal o anche Sindrome di Firenze (1817 circa) è stata messa in rilievo in campo filosofico ed estetico da Robert Vischer nel 1873. Con il termine “sentire dentro” Vischer designava le reazioni fisiche prodotte dall’osservazione dei dipinti, notando come forme particolari suscitassero particolari reazioni emotive, a seconda della loro conformità al disegno e alla funzione dei muscoli corporei. Elaborando le idee di Vischer, Wofflin propose le sue opinioni sul modo in cui l’osservazione di particolari forme architettoniche stimolava le reazioni fisiche degli osservatori. Dal 1893 Amy Warburg scrisse le Pathosformeln, per mezzo delle quali le forme esteriori del movimento in un’opera rivelavano le emozioni interiori del personaggio interessato. Bernard Berenson delineava le sue teorie su come l’osservazione del movimento rappresentato nelle opere d’arte rinascimentali potenziasse la consapevolezza di analoghe potenzialità muscolari del proprio corpo. Inoltre anticipa la “teoria empatica”. Theodor Lipps nella stessa epoca andava elaborando le sue concezioni sul nesso tra godimento estetico, da una parte, e coinvolgimento fisico con lo spazio, dall’altra, nell’architettura e in altre arti. Nell’opera di Merleau-Ponty speciale rilievo era dato alle conseguenze estetiche della sensazione di coinvolgimento fisico suscitata da dipinti e sculture. L’autore suggeriva anche la possibilità di immedesimazione corporea con le azioni implicite dell’artista, come nel caso dei dipinti di Cezanne. Secondo me è particolarmente rilevante il fatto che nel Novecento si trascurano totalmente le reazioni emotive, privilegiando un approccio totalmente cognitivo all’opera d’arte, e a mio parere questa staticità nella lettura delle immagini dal punto di vista estetico ha ribaltato la necessità nel creare una serie di immagini-video dinamiche dal punto di vista temporale e spaziale. Da qui la mia tesi sulla iconicità dell’arte raggiunge una spiegazione a livello concettuale e teoretico che 34 arriva fino alle immagini-video e alla videoarte, dato giustificato secondo me dalla crisi del Novecento, tra “agonia del reale” e “fine della modernità”, dalle avanguardie verso il postmoderno, tra la crisi dell’opera d’arte e la creazione di una nuova opera basata sul principio dell’energia, dove dialogano sempre intuizione e poiesis che creano sempre arte. Goya, I disastri della guerra, 1810-1823 35 Jackson Pollock Lucio Fontana, Spatial Concept 36 È soprattutto con Kant che è possibile chiarire il senso della svolta settecentesca dell’estetica. Con Kant l’estetica non appare semplicemente come una sezione specifica della filosofia. Essa si presenta come vera e propria filosofia, come comprensione filosofica dell’esperienza all’interno della stessa esperienza. Trovo quindi che questa immedesimazione estetica sia presente nella narrativa del primo Fitzgerald che si articola da una scrittura attrazionale ad una psicologica fondata sugli apporti del pragmatismo di Henri James e del modernismo inglese, (una forma di narrazione molto complessa che si manifesterà in più piani, quello del narratore protagonista, del narratore onnisciente, e dei punti di vista per ritornare al relativismo dei punti di vista30) senza tralasciare Henri Bergson che è stato una lettura fondamentale per gli stessi modernisti inglesi per la dimensione del tempo. Fitzgerald ha usato molto una scrittura basata sull’ “everyday life”, una scrittura immediata, che trovo similare al “disponibile quotidiano” del primo Celati. Se questo tratto è presente nel primo Celati lo è nel secondo Fitzgerald, e se l’espediente attrazionale è presente soprattutto nel primo autore americano, lo sarà nel secondo Celati: <<[…] Proseguendo nella direzione intrapresa nei Narratori, la scrittura di Celati nel corso degli anni si consolida e amplia i suoi orizzonti fino a riprendere spunti della prima narrativa e a toccare sprazzi di comicità “all’antica” (che nasce dalla perenne disarmonia dei protagonisti con il mondo, come quella dei Fratelli Marx), alternati a squarci che sconfinano in una prosa di tipo morale. L’adozione del modello novellistico è la condizione indispensabile per ricreare uno spazio per il racconto, uno spazio che per essere tale deve essere sottratto all’evidenza delle immagini, alla verosimiglianza imposta da visioni irrigidite dall’abitudine e liberato dall’ ansia della significazione; uno spazio, quello della narrazione, che deve ritrovare confini vaghi e incerti, perché solo in questa mancanza di definizione si può riproporre il racconto che ti “fa immaginare qualcosa… per cui la testa comincia a vagare dietro a quei richiami, che si dispiegano dappertutto in un’esteriorità incalcolabile.>>31 In uno degli scritti più estremi dell’ultimo ventennio, la postfazione a Fantastica visione di Giuliano Scabia (1992)32, Celati fa emergere dalla lettura del testo teatrale, la necessità di vedere oltre la superficie, e di spingersi oltre il determinato, il già visto e l’ossessivo circolo vizioso della società dei consumi, per riallacciarmi alla prima parte di questa tesi sulla problematicità della prospettiva derealizzante nell’era della riproducibilità tecnica dove l’iperrealismo sembra essere un freno, seppur straniante, a questo disorientamento. E’ una pratica del metalinguaggio e metateatrale, che si ricollega al teatro del Novecento russo, dello straniamento e sdoppiamento 30 Henry James, Prefazione a Ritratto di signora, in Le Prefazioni, a cura di Agostino Lombardo, Neri Pozza, Venezia, 1956. 31 Francesca Gatta, Le condizioni del Narrare. Il cinema naturale di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, PP. 273-274. 32 Giuliano Scabia, Fantastica Visione, Feltrinelli, Milano, 1988. 37 dell’attore auctor e agens: Andrea Cortellessa33 ha rilevato come la narrazione (e per questo di nuovo trovo un’analogia tra la scrittura del secondo Celati e del secondo Fitzgerald) sia articolata in un narratore ab alto, un meganarratore per usare un termine di Gaudreault che ordina le sette storie per mezzo di narratori delegati, e quello virtuale, per mezzo del quale i personaggi vengono rappresentati e dotati di uno statuto identitario grazie al loro costituirsi in soggetto narrante e materia narrata. Trovo così questa impressione che i personaggi vivano ogni loro esperienza solo in quanto già prefigurano quel suo doppio larvale che è la narrazione relativa34 il compimento della sospensione beckettiana di Celati e nello stesso tempo la sua realizzazione, che sarà anche a mio parere quella della videoarte: stare tra l’immagine-tempo e l’immagine-movimento. 33Giulio Iacoli, Per la sopravvivenza dell’istinto narrativo. Immagini di racconto dal “Cinema naturale” di Gianni Celati, in Riga, 2008, n. 28, marcos y marcos, a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Milano, P.278. 34 Ibidem. 38 Studio Azzurro tra psiche e techne 39 Vorrei partire nuovamente dal saggio di Ubaldo Fadini “Antropologia del virtuale e filosofia pratica” pubblicato sul numero 57 della rivista di critica filosofica Paradigmi. L’autore35 propone una riflessione di antropologia della tecnica che si diparte dal rapporto tra tecnica e corporeità per arrivare a individuare le caratteristiche pratiche del sapere. Dopo aver contrapposto il modello platonico del rapporto fra corpo e tecnica a quello aristotelico , l’analisi si concentra sul rapporto tecnica-uomo, prediligendo il concetto di “spazio antropologico” della tecnica. Secondo Ubaldo Fadini nell’arco della storia dell’uomo si sono configurati quattro spazi antropologici diversi. La terra è il primo e si fonda sulle caratteristiche essenziali dell’Homo Sapiens; il secondo subentra con la formazione del territorio, nell’epoca neolitica; il terzo è legato al sorgere delle società mercantili e il quarto, infine, si genera attraverso lo sviluppo del “sapere e dell’intelligenza collettivi”. L’intelligenza collettiva, caratterizzata dalla velocità di trasmissione e dalla virtualità, può svolgere un ruolo fondamentale non per lo sviluppo dell’egemonia politica e del potere dell’uomo, ma anche per la crescita delle potenzialità dell’umano in quanto tale. Come scrive Heinrich Popitz in Fenomenologia del potere ogni modificazione tecnica della realtà comporta un cambiamento -di fatto una crescita- del potenziale di potere. La sempre più sofisticata e complessa articolazione dell’agire tecnico, la crescita della sua efficienza, ingrandisce anche la dimensione del possibile esercizio del potere. Infatti, scrive Popitz36: <<Nella società altamente tecnicizzata le condizioni oggettive, oggettivizzate, dell’esistenza umana si modificano radicalmente con lo staccarsi dei fogli dal calendario. Chi oggi decide sull’impostazione tecnica del nostro ambiente di vita, chi ha il potere di stabilire i dati di fatto può esercitare in brevissimo tempo una smisurata quantità di potere su una smisurata quantità di uomini, ed eventualmente (come nella costruzione di una centrale nucleare) per un periodo di tempo smisuratamente lungo.>> Una comprensione dell’agire tecnico come costitutivamente aperto (in senso antropologico) richiama la questione di come distribuire l’accumulo di potere sociale rispetto al quale è indispensabile favorire tutte le possibili innovazioni ideali e istituzionali. E’ in questa prospettiva che Fadini propone una linea di riflessione di antropologia della tecnica –chiarita sulla base della presa di posizione dello stesso Popitz - che si sviluppa fino a definirsi come analisi complessiva di quella “civiltà deterritorializzata”, per usare un termine caro a Paul Levy, in cui sempre di più siamo calati. E’ in Verso una società artificiale che Popitz articola un ragionamento su antropologia e tecnica che va tenuto presente da parte di chi è interessato alla particolare qualifica del corpo umano come tecnologico e insieme sociale. Il sociologo tedesco fornisce infatti un’analisi di tipo tecnologico-antropologico che si basa principalmente sulla rilevazione dettagliata della connessione tra l’organismo e la tecnica. In questo senso si comprende anche il confronto con le tesi della deficienza organica – la prima tesi sull’antropologia della tecnica: la tecnica appunto 35 Ubaldo Fadini, Antropologia del virtuale e filosofia pratica, in Paradigmi – rivista di critica filosofica, 2001, n. 57, Schena editore, Brindisi, pp. 445-459. 36 Heinrich Popitz, Phaenomenologie der Match, Tuebingen, Mohr-Siebeck, 1986, (trad. It. di P.Volontè, a cura di S.Cremaschi, con una introduzione di G.Poggi, Fenomenologia del potere, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 110). 40 compenserebbe le mancanze dell’organismo umano – che addirittura Platone ha fatto enunciare a Protagora. Popitz osserva come questa tesi sia poi stata sviluppata da Johann Gottfried Herder e Arnold Gehlen e che comunque viene fin dall’inizio contestata da chi, ad esempio Aristotele, insiste sul fatto che l’uomo è l’unico essere vivente che possiede l’organo tecnicamente più utilizzabile, vale a dire la mano, a cui è da attribuire, come specifica attività organica, lo sviluppo della tecnologia degli utensili. La connessione tra l’agire tecnologico e l’organismo umano non è data dunque da carenza organica, ma da una capacità organica di altissimo livello. Scrive infatti Popitz37: <<La versatilità e l’intensità del contatto con gli oggetti, che caratterizzano la mano umana, non temono confronti nel mondo degli organismi viventi. Pressappoco tutto ciò che è afferrabile l’uomo lo può maneggiare e può asservirlo ai propri scopi. Questo si vede già nella morfologia della mano. Decisiva è però la coordinazione tra mano, occhi e cervello, come si vede considerando qualsiasi manipolazione di oggetti con l’intenzione di plasmarli. Una coordinazione nella quale coagiscono a mo’ di circuito di regolazione dati ricavati, segnali guida, informazioni di ritorno e correzioni. Inserita in un “circuito di regolazione tecnico-organico” la mano fa i suoi giochi di prestigio. Ne emerge una capacità di fare esperienza che – pervadendo tutto il corpo – sbocca nella specifica intelligenza produttiva dell’uomo.>> Lo sviluppo della tecnica, inizialmente assai lento, è in prima approssimazione connesso con le diverse fasi dell’evoluzione biologica, ma anche quest’ultima è in una qualche misura influenzata dagli usi sempre più complessi degli utensili. Popitz sostiene in definitiva che la stessa tecnica degli utensili è risultata uno degli agenti della filogenesi umana. In questa prospettiva va richiamata la lettura delle diverse “epoche della civiltà tecnica” che caratterizzano la storia dell’umanità: in Verso una società artificiale si individuano infatti sette tecnologie fondamentali che esprimono un processo continuo di modificazioni provocate dalla tecnica stessa, in un contesto di “artificializzazione” del reale, a livello corporeo, lavorativo e sociale. Oltre alla tecnologia degli utensili, sono da indicare le tecnologie dell’agricoltura, della lavorazione a fuoco e quelle edilizie su grande scala, le quali delineano forme sociali in cui la tecnica ha un ruolo essenziale anche nel senso di far emergere nuovi bisogni di organizzazione , una vera e propria “spirale della coazione ad organizzare”, che rende più articolata l’amministrazione dei poteri, favorendo inoltre il formarsi di nuove strutture di relazioni, di nuovi spazi pubblici e politici. La caratteristica di queste tecnologie, che realizzano la prima vera e propria “rivoluzione tecnologica”, è il loro effetto antropocentrico, che si viene a perdere con le tecnologie-chiave della seconda “rivoluzione”: la tecnologia delle macchina, quella della chimica e infine l’elettricità. Costruire delle macchine è sempre l’espressione della capacità umana di riformulare il dato secondo la misura dell’uomo (“viene creata una cosa che dispone di forza e mobilità come l’organismo umano, ma con un’efficienza incomparabilmente superiore”). 37 Heinrich Poptiz, Der Aufbruch zur artifiziellen Gesellschaft, Tuebingen, Mohr-Siebeck, 1995 (trad.it. a cura di G.Auletta, con una prefazione di P.Ferrarotti, Verso una società artificiale, Roma, Editori Riuniti, 1996, p.5). 41 Mi vorrei soffermare anche su che cos’è la macchina. Popitz scrive38: <<Non è un organismo, né un oggetto naturale di altro tipo: è un artefatto. Ma un artefatto che – diversamente da tutti quelli precedenti – agisce autonomamente. Un meccanismo automoventesi artificiale, quindi sicuramente un’entità di nuovo tipo. E corrispondentemente nasce un nuovo tipo di processo. A fianco ai processi naturali e ai processi dipendenti da azioni umane si affermano i processi meccanici. Se ci si interroga circa il tipo di dipendenza dell’uomo dalla macchina, bisogna riflettere su questa autonomia delle macchine. […] Le azioni umane sono sempre più rinviate ai processi meccanici. Se si mette tra parentesi il collegamento con i processi meccanici, ci si può rappresentare l’agire umano ormai solo in un senso arcaicizzante. Noi scendiamo a patti continuamente e dappertutto con questo nuovo agente. […] Ciò che facciamo, fa parte di uno specifico sistema uomo-macchina […]. Il generale richiamo all’adattamento , la coazione a disciplinare il nostro comportamento sono diventati così naturali per noi che non notiamo nemmeno più la nostra congruenza con il ritmo delle macchine. L’agire umano diventa sempre più adeguato alle macchine, e deve diventarlo sempre di più.>> […] In questo scenario è la mano che sembra l’unico spiraglio volto a porsi nell’atto di un’intelligenza tecnologica. E’ la mano ciò che “anima” lo sviluppo tecnologico, a spingere la testa umana a rendere più complessa e articolata la ricchezza delle sue componenti, a “mobilitarla”, così come, d’altra parte, rende mobile e elastica l’intera corporeità. In Verso una società artificiale,39 Popitz scrive: <<Le facoltà psichiche che guidano l’azione vengono prodotte e sfidate proprio dalle esperienze nell’agire tecnologico. Così, dal collegamento delle facoltà motorie della mano con le facoltà psichiche nella direzione dell’azione – come ad esempio dalla sempre più precisa coordinazione tra mano, occhi e cervello, facoltà di immaginazione e di esplorazione – sorge una nuova e assolutamente unica “dimensione della relazione dell’uomo con il mondo”: la dimensione dell’intelligenza produttiva.>> Studio Azzurro è un gruppo di artisti dei nuovi media, fondato nel 1982 da Fabio Cirifino (Fotografia), Paolo Rosa (arte visiva e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica). Nel 1980, a Milano, Studio Azzurro inizia la sua avventura di installazioni e film, quella teatrale alla fine nel 1985 (Teatro La Piramide di Roma) con la video-performance Prologo a diario segreto contraffatto realizzata in collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti e la compagnia La Gaia Scienza. Questa convergenza di esperienze e di visioni artistiche (avviata lo stesso anno nel film Nanof e nella videoambientazione Vedute) si rivela particolarmente feconda e segna una svolta nella ricerca teatrale italiana degli anni ottanta, introducendo un’inedita drammaturgia che incrocia scena e set, corpo reale e corpo virtuale, linguaggio video e performativo.40 38 Ibidem, pp. 22-23. Heinrich Popitz, Verso una società artificiale, Il lavoro dell’uomo e l’evoluzione tecnologica, Editore Riuniti, 1996, cit. pp.53-54. 40 Bruno Di Marino, Tracce, Sguardi e altri pensieri, Feltrinelli Real Cinema, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2010, P.25. 39 42 Cosa caratterizza la produzione di Studio Azzurro? La definizione panofskiana di prospettiva come capacità di rappresentare più oggetti, insieme con quella porzione dello spazio in cui essi si trovano, in modo tale che l’immagine del supporto materiale della rappresentazione venga completamente sostituita dall’immagine di un piano trasparente, attraverso il quale noi crediamo di guardare uno spazio immaginario, che include tutti gli oggetti disposti in apparente successione e che non è limitato ma solo intersecato dai margini del quadro, prefigura e caratterizza l’installazione video e gli ambienti sensibili di Studio Azzurro.41 OPERE 42 FILM 1980: Facce di festa (selezionato per “L'Altro Cinema Europeo”, alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia) • 1983: Lato D. (premiato al Filmmaker Doc di Milano) • 1985: L'osservatorio nucleare del sig. Nanof (soggetto premiato al Filmmaker Doc di Milano) • 1988: La variabile Felsen (Con Cochi Ponzoni e Ida Di Benedetto) • 1994: Dov'è Yankel? (Presentato nella sezione “Finestra sulle Immagini” alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia) [17] • 2000: Il Mnemonista (premiato come miglior film al Sulmonacinema Film Festival ) INSTALLAZIONI / VIDEOARTE • 1982: Luci di inganni • 1984: Due piramidi • 1984: Il nuotatore (installazione sincronizzata con ventiquattro monitor, tredici programmi video e musiche originali di Peter Gordon, esposta a Palazzo Fortuny, Venezia) • 1985: Vedute • 1989: Storie per corse • 1990: Traiettorie celesti • 1992: Il giardino delle cose (titolo dell’opera e di una sezione della XVII Triennale di Milano) • 1993: Il viaggio INSTALLAZIONI INTERATTIVE • • • • • 41 42 1995: Tavoli: Perché queste mani mi toccano? 1995: Coro 1996: Totale della battaglia 1997: Il giardino delle anime (esposto allo Science and Technology Center di Amsterdam, dal 2001 è permanente presso la Hall of Science di New York) Ibidem, P. 13. Fonti: Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Studio_Azzurro. 43 1997: Il soffio sull’angelo • 1998: Il gorgo • 1999: Landing Talk • 2000: Il bosco • 2000: Dove va tutta ‘sta gente? • 2001: Tamburi • 2002: Le zattere dei sentimenti • 2003: Meditazioni Mediterraneo • 2010: Sensitive city (esposto alla Expo 2010, Padiglione Italia) • 2010: Fabrizio De André, La mostra (Museo dell'Ara Pacis), Roma • 2010: Geografie italiane (esposto al MAXXI) SPETTACOLI • • • • • • • • • 1985: Prologo a Diario segreto contraffatto (presentato a Roma, Teatro La Piramide) 1987: La Camera Astratta (presentato a Kassel, Documenta 8) 1988 Primo Scavo (presentato a Locarno, Parco di Maccagno, “Festival Internazionale Videoart”) 1990 Delfi (presentato a Parma, Festival Teatro 2, con musiche originali e performance di Moni Ovadia 1990 Kepler's Traum (presentato a Linz, Brucknerhaus, Ars Electronica) 1993 Ultima forma di libertà, il silenzio (presentato alla XII edizione delle Orestiadi di Gibellina; progetto in collaborazione con Moni Ovadia) 2004 Neither (presentato all'Opernhaus di Stoccarda)[18] 2006 Galileo Studi per l'inferno (presentato all'Opernhaus di Norimberga) Giotto è uno dei punti di riferimento iconografico e concettuale di Studio Azzurro, come ha affermato Paolo Rosa. Tavoli nasce per esempio da alcune considerazioni di Berenson sul “tatticismo” degli affreschi giotteschi. Dopo Giotto il modello di riferimento di Studio Azzurro è Leonardo, da cui sembra derivare l’intenso legame tra arte/scienza, progettualità tecnologica/operatività estetica.43 La seguente conversazione tra Bruno di Marino e Paolo Rosa rappresenta uno spaccato molto chiaro sul rapporto tra corpo e tecnologia in Studio Azzurro44. <<Puoi parlarci di come è organizzato il vostro atelier? 43 Ibidem, PP. 11-13, Bruno Di Marino, Tracce, Sguardi e altri pensieri, Feltrinelli Real Cinema, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2010, intervista PP. 39-57. 44 44 Qualcuno –anche io stesso- lo ha definito una bottega rifacendosi a un’immagine storica della nostra tradizione artistica. Esistono indubbiamente delle somiglianze, perché coniuga una parte sperimentale con una più applicativa, comprendendo una componente formativa, dato il numero di giovani, anche stagisti, che collaborano con noi. Ma le botteghe di un tempo ruotavano intorno a una figura forte di maestro o, addirittura, di genio. Fulcro di Studio Azzurro è invece l’ambiente, l’habitat, generato dalla dedizione, dalla passione e dal lavoro di più persone; un ‘atmosfera culturale e fertile da cui nascono lavori di ricerca ed esperienze che mantengono una forte coerenza, anche se sono condotte da persone differenti. […] Quando, come e perché avete capito che il vostro interesse fondamentale era il video rispetto ad altre espressioni artistiche? E’ stato un paio di anni fa dopo Facce di festa che abbiamo incrociato questo medium, iniziando a esplorarne le potenzialità. Più che scelto lo abbiamo scoperto, incontrato sulla nostra strada: naturalmente eravamo già molto ricettivi in questo senso. Prima di Studio Azzurro avevo lavorato moto in campo artistico, in particolare con il Laboratorio di comunicazione militante, occupandomi dell’influsso della comunicazione nelle dinamiche sociali, dei linguaggi emergenti. C’era già insomma una sensibilità di base mossa anche dalla consapevolezza di essere nel mezzo di un cambiamento epocale ormai inarrestabile. Luci di inganni, nel 1982, ci ha spinto a intraprendere questa strada, a scoprire il carattere plastico del video, la versatilità della dimensione immateriale, la sua predisposizione a interagire con l’ambiente e con le persone. Proprio questi fattori ci hanno convinto a fare una scelta orientata più alle videoinstallazioni che al video pure e semplice. I “video ambienti”, così li abbiamo poi chiamati, ci hanno spinto a intervenire su livelli più strutturali del linguaggio, anche se apparentemente meno “politici”. Riappropriandoci di una dimensione più lieve, abbiamo cominciato a interpretare il medium elettronico come un dispositivo relazionale che stava determinando le dinamiche della società. [….] Vi sarete posti il problema che l’uso della tecnologia potesse predominare sui contenuti della nostra ricerca. Abbiamo sempre avuto timore dell’arroganza del fattore tecnologico. Ma crediamo che l’arte possa distillare, dentro il suo sistema, una sorta di anticorpo poetico. La preoccupazione che ci ha accompagnato in tutti questi anni era di essere vittime di procedure determinate dalle macchina piuttosto che da noi. L’idea un po’ utopistica che le macchine potessero somigliare all’uomo si è completamente ribaltata: siamo noi purtroppo che somigliamo sempre più alle macchine, che stanno espropiandoci delle nostre scelte e dei nostri gesti, costringendoci a usare i loro tempi e i loro ritmi. Così nel nostro lavoro abbiamo cercato di non mettere in evidenza quello che le 45 macchina possono fare, ma semmai le conseguenze che esse producono: di non occuparci delle tecnologie pure e semplici, ma della loro ricaduta sulle dinamiche sociali.>> Tavoli. Perché queste mani mi toccano? Il primo ambiente sensibile che raccoglie l’interattività è Tavoli (1995). Ha anche un sottotitolo – Perché queste mani mi toccano? – che rivela bene l’elemento di continuità con l’esperienza precedente. <<Il tatto è l’elemento scatenante. Occorre toccare le figure proiettate su sei differenti tavoli per far procedere la narrazione, per far accadere piccoli fatti. Questa nostra prima esperienza è stata rivelatrice: l’osservazione delle reazioni del pubblico, le suggestioni della sua prima messa in scena ci hanno spinto a numerose considerazioni e ci hanno portato a intraprendere con determinazione questo nuovo cammino. Numerose altre creazioni, l’inedita e frequente circolazione delle installazioni in varie parti del mondo, hanno poi integrato e confortato il tentativo di comprendere gli effetti delle nuove tecnologie sui gesti, i pensieri e l’immaginario delle persone. E di prefigurare alcune traiettorie che ci sembrano irrinunciabili per un loro utilizzo in positivo. Pur senza avere la competenza specifica dell’antropologo, dello scienziato, del sociologo, abbiamo tentato di dare forma a un pensiero che parte dall’esperienza diretta sulla materia, dall’artigianale approccio con i dispositivi, dall’osservazione immediata dei comportamenti. Un’esperienza diretta che ci ha portato a travasare continuamente osservazioni estetiche in considerazioni sociali, frequentazioni tecnologiche in supposizioni etiche. Un pensiero però che si vuole smarcare anche da alcune retoriche imposte dall’art system e dalle sue modalità convenzionali. Senza il timore di contrapporsi a esso su punti vitali come la natura dell’opera, la figura dell’artista, il ruolo dello spettatore, il meccanismo del mercato.>> A mio parere Studio Azzurro ha realizzato il superamento di quella “espropriazione dei nostri gesti e delle nostre scelte” descritta da Paolo Rosa nell’intervista su Tavoli – perché queste mani mi toccano?, che è anche il primo ambiente che raccoglie l’esperienza dell’interattività. 46 Prima di affrontare l’opera propongo il ruolo della tattilità e più specificatamente della mano proposto da Umberto Galimberti in base a due letture rispettivamente su Kant e Hegel. La centralità della mano sorge anche nell’opera Tamburi del 2001, anch’essa esperienza interattiva. Nella dialettica tra corpo e anima svolge una dialettica fondamentale la mano, che Kant definisce “il cervello esterno dell’uomo” perché libera nel cammino, è ciò che consente a tutto il corpo di liberarsi nella manipolazione del mondo. Costruendo strumenti, che poi sono le copie ingrandite delle sue funzioni, la mano instaura tra il corpo umano e il mondo un ordine di rapporti del tutto sconosciuti agli animali, che hanno nell’apparato labiale e dentario l’organo di relazione con il mondo, il punto più avanzato del loro sistema corporeo. Il passaggio dalla presa diretta alla presa mediata e ingigantita dall’utensile, in cui è l’ordine della tecnica, trova la sua giustificazione nel fatto che il corpo umano ha avuto la possibilità di trasferire nella mano il campo della sua relazione con il mondo, per cui, da allora, è l’unico corpo capace di gesti perché è il solo che ha esteriorizzato l’ordine degli strumenti.45 Questa configurazione presagisce e si ricollega con la concezione panofskiana che descrive la realizzazione di più oggetti su più piani che prefigura a sua volta le video-installazioni di Studio Azzurro. A partire dalla mano, che Hegel definisce “strumento degli strumenti”, la storia dell’uomo altro non è che un progressivo ampliamento della strumentazione, perché, come osserva Marx, non avendo, a differenza dell’animale, un rapporto immediato con la natura: <<L’uomo ha bisogno di una “fattura di mano umana” per poter consumare produttivamente le forze naturali allo stesso modo che abbisogna di un polmone per respirare. Per sfruttare la forza motrice dell’acqua è necessaria una ruota a pale; è necessaria una macchina a vapore per sfruttare l’elasticità del vapore. Come avviene per le forze naturali, così per la scienza […]. In questo modo, da minuscolo strumento dell’organismo umano, lo strumento si estende in volume e in numero, a strumento di un meccanismo creato dall’uomo.>>46 Propongo adesso un’analisi di Tavoli – Perché queste mani mi toccano? e di altre opere dei video artisti, in relazione alle tematiche che riassumono sinteticamente le precedenti trattate: -il ruolo della tattilità, e più specificatamente della mano; -la bellezza; -la dimensione del past future vector; -la dimensione delle arti temporali; 45 Umberto Galimberti, Psiche e techne, Saggi Universale Economica Feltrinelli, La Feltrinelli, 2007, Milano, PP. 96-97. 46 Ibidem, P. 328. 47 -il silenzio; -la creazione dello spazio antropologico; -l’immagine-tempo e l’immagine-movimento. Progetto di Fabio Cirifino, Paolo Rosa, 1995; costituito da 6 videoproiettori, 6 tavoli sensibili Sei tavoli, sei figure pressoché immobili: una donna distesa, una mosca ronza sul tavolo, una goccia d’acqua cade ossessivamente su una ciotola. Questa sensazione di calma apparente viene bruscamente interrotta quando qualcuno tocca l’immagine: essa reagisce, si attiva, sviluppa una piccola parte della sua storia. Il rapporto tra reale e virtuale si verifica su materiali familiare, senza nessun tipo di struttura tecnologica: gli spazi si frammentano, virtualità e fisicità diventano un tutt’uno. Il passaggio dell’immagine da semplice oggetto di contemplazione a esperienza interattiva, che spinge lo spettatore al dialogo, racchiude il senso di quest’opera.47 La Bellezza come elemento caratterizzante dell’opera. L’elemento che meglio contraddistingue il lavoro di Studio Azzurro è il buio che avvolge e protegge chi si libra in queste esperienze. Esperienze che ricordano quella sprigionata dalla lampada di Aladino, che vive la durata di un desiderio, e poi phut! Non c’è più. Ancor più della “virtualità” è il buio a dare allo spettatore la sensazione di aver vissuto lo spazio di un’illusione, che si sia materializzato davanti ai suoi occhi un sogno. Un sogno perché nei sogni si è parte attiva; reagiamo ai suoni e alle visioni che ci si parano davanti. Come dei sonnambuli riprendiamo il dialogo interrotto con la memoria, ma per associazioni libere. <<[…] Nell’opera Tavoli del 1995 (il primo degli ambienti sensibili) su piani di legno vero si materializzano pasti e tavoli imbandite di una semplicità arcaica. […] Un’ illusione, tuttavia, che ha un rapporto straordinario con la vita poiché viene suscitata soltanto dal contatto con i corpi, come, per esempio, la comparsa misteriosa di una ciotola soltanto grazie al calore delle mani. Le azioni cui lo spettatore è invitato a partecipare insieme ai personaggi evocati nelle immagini sono sempre esaltanti e riguardano il volare, volteggiare, precipitare nell’aria. […] All’assenza di un’idea di futuro Studio Azzurro contrappone non un mondo di evasioni cyborghiane, ma una nuova frontiera: il recupero della bellezza come dimensione interiore, terapeutica, antidoto alla bruttezza, alla depressione, dispersione e volgarità regressiva. In queste immagini così semplicemente “belle” c’è soprattutto una metafora di appartenenza, di ricostruzione di una comunità che ricorda quella degli apostoli di Cristo, un perdersi per potersi ritrovare.>>48 47 Bruno Di Marino, Tracce, Sguardi e altri pensieri, Feltrinelli Real Cinema, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010, P. 152. 48 Ibidem, PP. 93-94. 48 Tamburi (2001). La centralità della mano nell’ambiente della Rete. <<Mani tese come membrane su un telaio. Superfici percosse come un tamburo che provocano i suoni e scuotono le immagini. Segnali da tam-tam che ci portano a esplorare, come su una carta geografica, i segni, i solchi, le tracce di vita dell’uomo a cui la mano appartiene. Sino a inquadrare, tra le pieghe, l’oggetto che la stessa offre con il suo gesto. In quel momento essa si ritrarrà impugnando il piccolo dono simbolico, inviandolo in modo causale nel Web. La preziosa risposta, quando arriverà, sarà intensa e istruttiva.>>49 49 Ibidem, P. 170. 49 Primo scavo. Osservazioni sulla natura (1988) e la dimensione del past future vector, sospensione tra passato e futuro (Luis Delluc). <<Un anello composto da televisori accostati emerge dal terreno, la struttura si presenta come una forma aliena che potrebbe appartenere tanto al passato quanto al futuro. Lo spettacolo prende inizio dalla sua scopertura, subito dopo, sugli schermi, compare l’immagine di un corpo raggomitolato che scivola lungo la traiettoria circolare sino a scomparire di nuovo sottoterra. Dopo un secondo passaggio, da una buca emerge dal vivo il personaggio visto nei monitor: è uno dei danzatori butoh a cui è affidata la performance. La rappresentazione oscilla tra l’evocazione di un lontano passato e una dimensione proiettata nel futuro fornendo elementi utili per rileggere l’ambiente esterno e la natura umana.>>50 50 Ibidem, P. 139. 50 Studio Azzurro e la dimensione temporale: una lettura sincronica musicale, cinematografica e video-elettronica con Alexander Nevskij Video, 1989; <<Nei video-frammenti dei film di Ejzenstejn e riprese di un’esecuzione in concerto della cantata di Prokofiev convivono grazie al montaggio, sino a compenetrarsi attraverso l’utilizzo di elaborazioni video: i protagonisti del film e quelli dell’esecuzione, che stanno accanto nell’immagine. Come era nelle intenzioni di Ejzenstejn e di Prokofiev che lavorarono a stretto contatto per la lavorazione del film e della composizione, il video cerca di ripercorrere questa sintonia reinventando una serie di associazioni tra il continuo musicale e alcune immagini dei film. Una particolare successione di rimandi strutturali rappresenta un tentativo di fondere generi e linguaggi: quello musicale, quello cinematografico e quello strettamente video-elettronico.>>51 51 Ibidem, P. 142. 51 Studio Azzurro letto in parallelo a John Cage e About the silence (le sperimentazioni sul silenzio) e nel rapporto tecnologia/arte/poesia con Delfi, studio per suono, voce, video e buio, 1990 e Ultima forma di libertà, il silenzio, 1993; Delfi, studio per suono, voce, video e buio, 1990 <<Il vuoto, il silenzio, ma soprattutto il buio. La scena si oscura rendendo incapace di distinguere ciò che la forma. Due schemi collegati in diretta a due camere agli infrarossi si muovono come occhi che, con i loro spostamenti sincronizzati, guidano lo spettatore nel buio, inseguendo i movimenti dell’attore e cercando di decifrare uno spazio gremito di statue, in attesa di essere restituite a un nuovo livello di sguardo, a una nuova condizione di sensibilità. Una drammaturgia tesa alla semplificazione, di essenzialità, alla rinuncia. Nel tentativo di piegare l’elemento dissacrante alla tecnologia entro i confini della poesia.>>52 Ultima forma di libertà, il silenzio, 1993 <<Ai piedi dell’immenso cretto segnato dalle fenditure, si colloca un’immagine caratterizzata anch’essa da una profonda crepa. Là sotto, coperti e muti, rimangono i resti della tragedia che ha segnato il Belice. L’ “immagine spezzata” preme per rivelare le voci, i gesti, gli stucchi, le pietre e soprattutto gli occhi. Sequenze di sguardi raccolti tra i vecchi di Gibellina, insieme alle inquadrature dalle bocche saldate dal silenzio, vuote di parole, ma di quel vuoto che è come “i 52 Ibidem, P. 143. 52 bozzi di tela”, come sacche di mercanti, dove già all’esterno indovini il contenuto: patate, cipolle grano e granoturco, mandorle o farina. Così cita Ritsos nel testo di quello che più che uno spettacolo vuole essere un intenso scorrere della memoria>>.53 John Cage - About silence La concezione di Cage del suono (anticlassicista in senso stretto) <<Quando ascolto ciò che chiamiamo musica mi sembra che qualcuno sta parlando , e parlando delle sue sensazioni o idee , o relazioni sociali. Ma quando ascolto il suono del traffico non ho la sensazione che ciascuno sta parlando , ma che il suono è in azione : e amo l attività del suono , che diventa più corto , più lungo ( ...) Non ho bisogno che il suono mi parli . Non ho bisogno di alcuna definizione del suono nel tempo e nello spazio . Molte delle arti sono nel tempo e nello spazio . Marchel Duchamp ha fatto una scultura musicale tramite cui differenti suoni arrivano a differenti luoghi che producono sonorità : le persone si aspettano di ascoltare più di essere ascoltate , gli " inner sounds " . Questo è il significato del suono . ( ... ) Amo i suoni per ciò che sono , e non voglio che sia psicologico o altro ( " in love with another sound " ) voglio solo che sia un suono . Immanuel Kant ha detto che esistono due cose sole che non hanno bisogno di significare altro : la musica e il noumeno. Cioè esistono per loro stesse . L' esperienza più bella del suono é quella del silenzio . Beethoveen e Mozart hanno un andatura lineare , che é sempre la stessa : il traffico invece é sempre diverso.>>54 Il silenzio diventa così il punto di arrivo anche nella speculazione di Cage, avrà ricoperto gli stessi intenti di Studio Azzurro di piegare la tecnologia entro i confini della poesia? 53 54 Ibidem, 150. John Cage, About the silence, http://www.youtube.com/watch?v=pcHnL7aS64Y. 53 Studio Azzurro verso la creazione dello spazio antropologico/cyberspazio con Dove va tutta sta gente?, 2000 <<Nel villaggio tecno-globale e interetnico del 2000, proliferano i confini di rinnovati separatismi, si spostano i limiti tra naturale e artificiale, tra mondo reale e mondo virtuale. In questa opera tre porte automatiche di vetro accolgono lo spettatore spalancandosi amichevolmente come soglia che non si oppone alla sua presenza. Ma, dall’altra parte degli schemi di vetro, le figure video proiettate si agitano impattandosi sulle solide barriere di una civiltà diversa e seducente che non prevede divisione di privilegi. Il dispositivo interattivo si rifà a una complessità di relazioni umane e lo spazio dell’installazione si trasforma in un “luogo antropologico”, nel quale i movimenti di apertura e chiusura non sempre rispondono alla maniera attesa>>.55 55 Ibidem, P. 164. 54 Studio Azzurro e la sospensione tra immagine-tempo e immagine-movimento con Dov’è Yankel?, 1994. <<Una storia fantastica e surreale che non ha riferimenti spaziali né temporali. Un giro attorno alla parola “miracolo” osservata nel film attraverso l’ironica lente della cultura yiddish. Nell’intervallo di un concerto, mentre in camerino arriva l’eco della platea impaziente, i musicisti cercano disperati un collega, misteriosamente scomparso. La sparizione del musicista sarà la prima di una lunga serie: via via saranno inspiegabilmente risucchiati nell’invisibile tutti i componenti dell’orchestra. Unico superstite è il protagonista del film: raccontando una storia è artefice delle scomparse, l’unica traccia dei corpi evaporati sono le loro scarpe…>>.56 In questo scenario onirico, il conflitto e dialogo tra immagine-tempo e immagine-movimento si fa chiaro: la sparizione del musicista richiama l’immagine-tempo, la tensione al vuoto, mentre il protagonista rappresenta il superstite della scomparsa, una sorta di The Thruman Show in atto, dove l’immagine degli attori deve rispettare l’istanza narrativa e ne è al contempo subordinata, ma gli stralci dei frammenti degli scomparsi (le scarpe) sono il segno inequivocabile di questo ritorno ad un passato che plasma e crea. La memoria onirica diventa così: <<suscettibile di un lavoro capace di trasformare l’archivio da repertorio irrigidito di immagini normalizzate, o di iscrizioni illeggibili, in vivente e imprevedibile materia d’esperienza sensibile. Memoria riattivata e (provvisoriamente) autenticata: il processo di ricategorizzazione della memoria, del resto, è oggi un fenomeno accertato dalle neuroscienze, anche se Freud, come ho già detto, c’era arrivato parecchio tempo prima, e aveva compreso che questa autenticazione implicava i tempi lunghi e le incertezze dell’analisi, le sue “costruzioni” puramente congetturali e “romanzesche” e un rispetto della verifica di realtà sottratto a ogni pregiudiziale positivista. Sono convinto che questo suggerimento conclusivo possa rendere conto della trasformazione procedurale e interattiva di molta arte contemporanea (Michau 2007), e della riflessione sul tempo che le procedure e l’interattività portano con sé, in modo più persuasivo – e soprattutto selettivo – di quanto non riesca a fare una filosofia analitica dell’arte fondata su un’ontologia dell’autoriferimento. Tutta la più recente sperimentazione di un gruppo come Studio azzurro, ad esempio, si muove nel senso di una riattualizzazione procedurale e interattiva delle storie individuali di cui si compone l’archivio non scritto di singole comunità. Si tratta di nuovi 56 Ibidem, P. 151. 55 protocolli dell’immaginazione, consapevolmente tributari nei confronti di una progettazione tecnica della sensibilità, la quale, in questo caso, evidenzia il suo risvolto elaborativo, la sua capacità di convertirsi in esperienza effettiva producendone, insieme, le forme di condivisione>>.57 (Interessante a questo proposito è la nascita della public art di Jochen Gerz, la cui opera maggiore è Salviamo la luna, che testimonia la vicinanza assunta sempre di più dalla realtà verso l’esperienza, quindi la vita). Questa strategia di riorganizzazione esperienziale dell’archivio dà vita ad una interminabile “conversazione” sul passato, sul presente e sul futuro resa possibile dalle risorse specifiche dell’immagine elettronica: sarà plasubile un finale fitzgerialdiano? So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.58 57 Pietro Montani, L’immaginazione intermediale, Editori Laterza, Roma- Bari, 2010, pp. 69-70. 58 Francis Scott Fitzgerald, The great Gatsby, ed. originale 1925, Gruppo Editoriale L’Espresso S.P.A di Arnoldo Editore S.P.A, Roma, 2011. 56 Bibliografia essenziale Luis Delluc, Photogénie, Parigi, 1920. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, 1983 , traduzione di J.P Manganaro 1993 e L’immagine-tempo. Cinema 2, 1985, Ubulibri editore, traduzione di L.Rampello, 2003. Max Dessoir, Estetica e scienza dell’arte: i concetti fondamentali, CLUEB, Bologna, 2007. 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