scambi e confronti, sui modi dell`arte e della cultura, tra italia e

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scambi e confronti, sui modi dell`arte e della cultura, tra italia e
Scambi e confronti,
sui modi dell’arte e della cultura,
tra Italia e
Polonia.
Esperienze significative ed occasioni di riflessione
ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI
Varsavia, Istituto Italiano di Cultura, 5 marzo 2010
Nola, Chiesa dei Ss. Apostoli, 24-25 giugno 2010
a cura di
Salvatore Napolitano
•
Conferenze
Con il patrocinio di:
S.P.Q.N.
Comune di Nola
In copertina:
Autore ignoto, Ventaglio unilaterale con motivi della Domus aurea e di Pompei,
particolare, secondo metà del Settecento, Varsavia, Museo Nazionale.
© l’arcael’arco edizioni
via on. f. napolitano 26/28, nola (na)
tel. +39(0)815129196 fax +39(0)818236297
[email protected] larcaelarco.it
ISBN 978-88-6201-169-3
progetto grafico e impaginazione:
vincenzo notaro [email protected]
Indice
Premessa
di Salvatore Napolitano p.7
Artisti, banchieri ed eretici: il volto degli italiani
nella Polonia del Cinquecento
di Pasquale Terracciano p. 11
L’impatto del Grand Tour sulle collezioni artistiche
in Polonia ai tempi di Stanislao Augusto
di Ewa Manikowska p. 31
I viaggiatori polacchi in Campania
e la conoscenza dei vasi greci in Polonia
di Witold Dobrowolski p. 43
Un viaggiatore polacco della seconda metà del Settecento
e la realtà vesuviana del tempo
di Claude Albore Livadie p. 61
Stanisław Kostka Potocki e Nola: antiquaria e oltre
di Mario Cesarano p. 87
Tra scienze ed humanitates.
Percorsi interpretativi per l’antiquaria partenopea
attraverso l’esperienza di Pietro Vivenzio
di Salvatore Napolitano p. 117
“En danseuse d’Herculanum”.
Qualche osservazione sulla fortuna della pittura pompeiana in Polonia
di Jerzy Miziołek p. 155
Libagioni funebri sulla tomba di San Felice a Nola/Cimitile
fra l’antichità tardiva e l’alto medioevo
di Elżbieta Jastrzębowska p. 181
Abstracts p. 201
Premessa
Un convegno di studi rappresenta generalmente, in quanto espressione
di confronto e finale bilancio, un momento realmente significativo.
Tuttavia, a nostro avviso, quello che si presenta raccoglie convinti entusiasmi, assai lusinghieri, almeno per una duplice ragione.
Se da un lato, infatti, questo incontro ha fornito a studiosi provenienti
da istituzioni accademiche e realtà museali, non solo europee, una preziosa
occasione di riflessione in merito ad alcune tra le più avvincenti vicende politico-culturali ed artistiche venutesi a determinare tra Italia e Polonia; dall'altro, si inquadra in un più ampio dialogo attivato dai due paesi per sollecitazione della stessa Regione Campania, e principalmente dovuto all'attivismo
dell'Assessorato Regionale all'Agricoltura guidato dall'on. Gianfranco Nappi.
La prima tappa di questo convegno ebbe corso il 5 marzo del 2010 presso l’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia.
Quell’incontro, che si svolse nel corso di una fittissima - e realmente
assai fruttuosa - settimana della cultura e della promozione delle attività produttive campane in Polonia, vide la partecipazione attenta ed entusiasta di
un pubblico ampio e variegato. Segno questo, probabilmente non del tutto
trascurabile, di una sensibilità umanistica ampiamente diffusa e della fascinazione ancora generalmente esercitata dai nessi storico-diplomatici e dalle
vicende artistico-culturali.
Difatti, ad esclusione dei contributi di Pasquale Terracciano, che, delineando un quadro generale dei rapporti venutisi a determinare tra Italia e Polonia sin dall’epoca Medievale, tenta un bilancio di sintesi dei più significativi
risvolti culturali e diplomatici cui si diede corso; e di Elżbieta Jastrzębowska,
che, riallacciandosi a suoi studi pregressi, illustra interessanti aggiornamenti
e felici deduzioni in merito allo sviluppo dei riti funerari pagani fra tarda
antichità ed alto Medioevo, con immancabile riferimento allo straordinario
complesso delle Basiliche paleocristiane di Cimitile; gli interventi si assestano
prevalentemente sul decisivo arco cronologico compreso tra Sette ed Ottocen-
7
to, presentando una avvincente disamina dei molteplici aspetti legati alla graduale e multiforme riscoperta dell’Antico che ebbe allora particolare impulso.
A tal proposito, la volontà di svolgere una seconda sessione di studi
nella città di Nola il 24 e 25 giugno 2010 è realmente parsa come una scelta naturale, non foss’altro per il ruolo generalmente riconosciuto alla città bruniana
dai colti grands touristes e voyageurs che, impegnati nel canonico viaggio di
formazione attraverso il Meridione d'Italia e pienamente partecipi dell'imperante "gusto del secolo" per l'erudizione, la visitarono a più riprese, impegnati
nell'avida ricerca di preziose antichità attraverso le quali rispecchiare agognati raggiungimenti di status, legittimazioni culturali e, quindi, sociali.
Così, nell’attesa di un ulteriore momento di studio che possa dar conto
della reale importanza giocata dalla città e dalle personalità erudite che - con
vario apporto critico ed in varia misura – vi operarono nel corso del tempo, gli
interventi di Witold Dobrowolski, Claude Albore Livadie, Ewa Manikowska,
Jerzy Miziołek, Mario Cesarano e di chi scrive, offrono, attraverso differenti
prospettive d’indagine, percorsi interpretativi e spunti di riflessione di interesse probabilmente non marginale.
Pubblicazioni di fonti inedite, ampi brani tratti da diari di viaggio, ricercati corredi iconografici e testimonianze pittoriche ed artistiche di grande
rilievo, rivelano gradualmente le linee generali di quell’interessante mosaico
culturale che venne a delinearsi tra i due paesi, contribuendo finalmente alla
individuazione di personalità centrali nella scena politico-culturale europea
del tempo.
In chiusura, desidero ringraziare vivamente la Regione Campania; il
Comune di Nola; Intertrade e la Camera di Commercio di Salerno: la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei; la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici e per il Patrimonio Storico-Artistico di Napoli e Provincia; la Curia Vescovile di Nola; l’associazione culturale
Meridies e tutti quanto hanno reso possibile l’evento, ciascuno per le proprie
competenze e settori d’interesse.
Un ringraziamento infine a tutti i relatori ed all’editore, giovane ma
assai capace, che hanno favorito la celere pubblicazione degli Atti, offerti in
8
lettura agli intervenuti alla chiusura delle giornate di studio contestualmen-
te ad un proficuo tour turistico-archeologico dell’area nolana, sulle tracce
delle notevoli evidenze archeologiche e storico-artistiche ammirate e descritte dai savants, connoisseurs ed amateurs che la percorsero assiduamente
sin dall’epoca medioevale, e recentemente arricchita dagli eccezionali e straordinari rinvenimenti d’età protostorica in località “Croce del Papa” ed in
San Paolo Belsito.
Salvatore Napolitano
9
Pasquale Terracciano
•
Pisa
Artisti, banchieri ed eretici:
il volto degli italiani
nella
Polonia del Cinquecento
In questo breve saggio si fornirà un quadro generale della presenza della comunità italiana sul suolo polacco. Essa venne a svolgere un ruolo estremamente significativo nella vita culturale e politica del paese tanto da rendere
questo secolo il periodo d’oro della relazione tra i due stati; si rende dunque
necessario tratteggiare le interazioni di questo secolo per rendere ragione del
tipo di contatto che si venne a creare successivamente.
Contatti tra i due popoli vi erano certo già stati fin dal Medioevo; a
innervare gli antichi rapporti, come spesso accade, provvidero i mercanti.
Furono in primo luogo i genovesi a insediarsi in questa parte di Europa: da
Caffa, in Crimea, avevano infatti iniziato a spostarsi nel XV secolo a Leopoli
(allora in territorio polacco), cercando di prendere il posto dei mercanti armeni e ebrei, nel traffico di spezie, di stoffe e di schiavi. Caduta Caffa e le altre
colonie genovesi in mano turca, quella via commerciale cominciò a perdere
d’importanza; i mercanti cominciarono dunque a guardare con interesse a
Cracovia, stabilendo una corrente di scambi commerciali tra Polonia e Italia settentrionale. Ma a cementare questo rapporto furono indubbiamente la
cultura e l’arte, e non poteva essere altrimenti, in un momento in cui l’Italia
agiva da centro attrattivo per tutto il resto dell’Europa1. Se a Bologna e a Pa1 Rimangono fondamentali per la ricchissima messe documentaria i lavori di S. Ciampi, Notizie dei
secoli XV e XVI sull’Italia, Polonia e Russia, Firenze 1833, e dello stesso autore, Bibliografia critica delle
antiche reciproche corrispondenze politiche, ecclesiastiche, letterarie artistiche dell’Italia con la Russia, colla Polonia…, voll. III, Firenze 1834-1842. Utili, seppur datati, sono i libri J. Ptaśnik, Gli Italiani a Cracovia dal XVI secolo al XVIII, Roma, 1909; F. Giannini, Storia della Polonia e dei suoi rapporti con l’Italia,
Milano, 1916. Ptaśnik ha contribuito a delineare e puntualizzare sempre meglio la questione, con
numerosi altri interventi in lingua polacca: Id., Włoski Kraków za Kazimierza Wielkiego i Władysława
11
dova erano già presenti dei nuclei di studenti polacchi prima del 1364, data
della fondazione dell’Università di Cracovia, nel XV secolo questi legami si
rafforzano. E’ emblematico il caso di Mikołaj Lasocki - diplomatico regio dei
sovrani Jagelloni e in buoni rapporti con umanisti italiani come Enea Silvio
Piccolomini e Poggio Bracciolini - , che spinse i propri figli ed i figli dei propri
amici a frequentare la scuola di Guarino a Ferrara, per poi proseguire i propri
studi a Padova o Roma.2
In linea con ciò che accadeva nelle diverse corti europee, Casimiro IV
decise dunque di dare ai figli un’educazione di stampo umanista, e chiamò
alla sua corte un celebre letterato italiano, Filippo Buonaccorsi, meglio noto
come Callimaco Esperiente: il futuro re polacco Giovanni Alberto, salito al
trono nel 1492, dovette molto del suo gusto all’insegnamento di Callimaco. Lo
stesso Callimaco impegnò la sua penna del resto per promuovere le prerogative del potere regale contro l’ampia discrezionalità di cui godeva la nobiltà
polacca3. Il nome di Giovanni Alberto è legato a uno dei primi monumenti
dell’arte rinascimentale in Polonia; e cioè la sua cappella funebre fatta erigere
tra il 1502 e il 1505 da Francesco Fiorentino nella cattedrale sul Wawel a Cracovia. Il Fiorentino fu il primo significativo esponente della schiera di artisti
italiani in Polonia; legato alla committenza di corte proseguì nel suo lavoro
Jagiełły, rocznik Krakowski XIII, 1911; Kultura włoska wieków średnich w Polsce, Warszawa 1922. Più
marcatamente sulla storia dei rapporti culturali, si veda Italia, Venezia e Polonia tra Medio Evo e
Età Moderna, a cura di Vittore Branca e Sante Graciotti, Firenze 1980; con un respiro cronologico
più ampio, ma sempre di estremo valore critico e documentario, è la succesiva curatela su questo argomento proposta da Branca e Graciotti, Cultura e nazione in Italia e Polonia dal Rinasimento
all’Illuminismo, Firenze, 1986. Per la consultazione della letteratura in lingua polacca chi scrive
ringrazia la cortesia e la disponibilità della dott.ssa Maria Trześniewska.
2 H. Barycz, Dilemmi ed etereogenità nel Rinascimento polacco in Cultura e nazione in Italia e Polonia
dal Rinasimento all’Illuminismo, cit., pp. 181-195. Per approfondire la presenza di studenti polacchi nell’Università di Bologna e Padova si tragga quantomeno spunto da Laudatio Bononiae. Atti
del Convegno storico italo-polaco svoltosi a Bologna dal 26 al 31 maggio 1988, a cura di R. C.
Lewanskli, Bologna 1990 (testo utile anche per inquadrare l’attività dei bolognesi in Polonia); H.
Barycz, Bologna nella civiltà polacca tra Medioevo e Rinascimento, in Italia, Venezia e Polonia tra Medio
Evo e Età Moderna, cit., pp. 19-44; dallo stesso volume P. Marangon, Schede per una reinterpretazione
dei rapporti culturali tra Padova e la Polonia nei secoli XIII-XVI, pp. 165-180 e L. Rossetti, La «Natio
Polona» nello Studio di Padova: Nuovi contributi dell’Archivio Antico Universitario, pp. 237-246. Si
guardi anche C. Backvis, Comment les Polonais du XVI siècle voayent l’Italie e les Italiens, «Annuaire
de l’Institut de Philologie et d’Histoire orientales et slaves» XV, 1958-1960, pp. 195-288.
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3 Per l’orientamento di fondo dell’attività editoriale in ambito storico e storico-politico del Buonaccorsi si guardi l’articolo di G. Brogi Bercoff, Storia e retorica in Filippo Callimaco, in Italia, Venezia
e Polonia tra Medio Evo e Età Moderna, cit. pp. 427-470, per quanto esso si soffermi principalmente
sui suoi lavori in terra ungherese e Callimaco Esperiente: poeta e politico del ’400. Convegno Internazionale di Studi, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1987.
sovrintendendo alla parte scultoria del restauro del Castello di Wawel, interrompendosi solo alla sua morte nel 15164. L’intero lavoro venne completato
da Bartolemeo Berrecci, con innesti di tipico gusto italiano. I giardini vennero
concepiti secondo il modello mediceo, il cortile strutturato secondo canoni
rinascimentali.
La ristrutturazione del castello rappresentò solamente una piccola parte del lavoro svolto dall’architetto e scultore di Pontassieve, vicino Firenze.
Berrecci fu infatti chiamato in quegli stessi anni ad ampliare la Cattedrale di
Wawel, costruendo la stessa cappella funeraria di Sigismondo I. Ancor più di
Casimiro e di Giovanni Alberto, Sigismondo I era infatti partecipe delle temperie culturale rinascimentale, anche in virtù di una sua lungua permanenza
in Ungheria, alla corte del fratello Ladislao II, dove esisteva una già consolidata tradizione di rapporti artistici con l’Italia. Fu da Budapest del resto che
giunsero artisti e artigiani per li progetti edilizi dei Jagelloni. Sotto il suo patrocinio, il lavoro per la Cappella funeraria di Sigismondo nella Cattedrale di
Cracovia, che durò dal 1517 al 1533, rappresenta forse il frutto più bello, sicuramente il più noto e certamente quello più influente, dell’attività degli artisti
italiani in Polonia in questa fase.5 All’interno di una cupola dorata sorretta da
4 Per un affresco generale dell’influenza artistica italiana si vedano M. Logan Berenson, Dipinti
italiani a Cracovia, «Rassegna d’Arte», 2, 1915; S. Lorentz, Relazioni artistiche fra l’Italia e la Polonia,
Roma 1962; J. Białostocki, The Art of the Renaissance in Eastern Europe: Hungary, Bohemia, Poland,
1976 e Polonia-Italia. Relazioni artistiche dal Medioevo al XVIII secolo, Atti del Convegno tenutosi a
Roma, 21-22 maggio 1975, Roma 1979; J. Kowalczyk, L’arte del primo Umanesimo in Polonia e i suoi
legami con l’Italia (1420-1500), «Arte Lombarda», 44/45, 1976, pp. 217-224; J. Miziołek, Relazioni
artistiche tra Italia e Polonia nell’età del Rinascimento nella luce delle ultime ricerche in L’Umanesimo latino in Polonia - Humanizm lacinski w Polsce, Cracovia 2003. Utili informazioni si trovano anche nel
recente J. Glomski, Patronage and humanist literature in the age of the Jagiellons, Toronto 2007.
5 Sulla cappella funeraria e sull’attività di Berrecci: K. Estreicher, Szkice o Berrecim, «Rocznik Krakowski», 43, 1972, pp. 45-114 S. Mossakowski, La decorazione mitologica della Cappella del re Sigismondo I, in Italia, Venezia e Polonia tra Medio Evo e Età Moderna, cit. pp. 271-288: ne dice Mossakowski:
“Fra le costruzioni rinascimentali che alla fine del Quattrocento e nei primi decenni del sedicesimo secolo, cominciarono a sorgere al di là delle Alpi, sarebbe difficile indicare un’opera più italiana della Cappella costruita dal re polacco Sigismondo I nella cattedrale di Cracovia, sulla collina
del Vawel” e ancora “Il fascino generale che la cappella del Vawel ha suscitato sin dal momento
della sua edificazione, decise il suo ruolo importantissimo nello sviluppo dell’arte rinascimentale
in Polonia. La sua forma architettonica è diventata un modello d’obbligo per più di cento simili
mausolei funebri, che i magnati e la nobilità polacca innalzarono su gran parte del paese fino
alla seconda metà del diciassettesimo secolo.” Riecheggia così il giudizio di J. Białostocki: “Rare
sono le opere di architettura, che abbiano avuto una così vasta influenza e di così lunga durata. E’
esempio raro, in cui una sola opera di architettura sia stata, in larga misura, motivo di trasformazione dello stile in tutto il mondo artistico. Non si sapeva certo capire le allegorie delle sculture
e delle decorazioni, ma per lo spazio sepolcrale non si sapeva concepirlo se non nella forma concepita da Berrecci”, da J. Białostocki, Rinascimento polacco e Rinascimento europeo, in Polonia-Italia.
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un tamburo ottagonale, la cappella rifulgeva di elementi presi dalla tradizione
romana, riprendendo motivi degli archi di trionfo antichi per glorificare le
ambizioni dinastiche degli Jagelloni; era inoltre ornata da una ricca presenza
di sculture e di rilievi di argomento mitologico.
Numerosi altri artisti sulla scia del Berrecci approdarono a Cracovia: tra
essi Bernardino de Gianotis, Giovanni Cini da Siena. Gianmaria Mosca detto
il Padovano.6 Quest’ultimo si legò al vescovo cittadino Pietro Tomicki, il quale
gli commissionò il tabernacolo per la Cattedrale e la sua stessa tomba. Tomicki,
di nobile ascendenza, aveva studiato in Italia, laureandosi a Bologna; la sua
passione per la penisola gli aveva fatto guadagnare il soprannome di Italus.7
La comunità italiana che viene a formarsi in questa fase accoglie dunque mercanti, artigiani e artisti: in massima parte toscani o comunque dell’Italia settentrionale. Un altro polo geografico venne ad agganciarsi nei primi
decenni del Cinquecento alle traiettorie ideali che andavano a comporsi tra
Italia e Polonia: si fa riferimento al sud in particolare alle città di Bari e Napoli. A determinare questa svolta fu l’arrivo della duchessa di Bari, Bona Sforza,
che della Polonia divenne regina, sposando Sigismondo I. Bona rafforzò la
comunità italiana e diede nuovo impulso alla stagione rinascimentale a Cracovia. A guardare le date e l’intensa attività, pur rapidamente descritta, degli
artisti in Polonia appare però chiaro che non fu Bona a portare il Rinascimento
in Polonia, quanto la fascinazione per il Rinascimento a creare le condizioni
perché Bona Sforza giungesse in Polonia.
***
Figlia di Isabella d’Aragona e di Gian Galeazzo Sforza, Bona, nacque
nel 1494 a Vigevano, ma ancora infante si trasferì nel sud d’Italia8. Le convulRelazioni artistiche dal Medioevo al XVIII secolo, cit. p. 58.
6 Su questa figura si veda A. Markham Schults, Gianmaria Mosca called Padovano: a Renaissance
sculptor in Italy, University Park 1998.
7 cfr. J. Miziołek, Relazioni artistiche tra Italia e Polonia nell’età del Rinascimento…, cit., p. 71.
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8 Il contributo fondamentale in lingua polacca è W. Pociecha, Królowa Bona (1494-1557). Czasy i
ludzie odrodzenia, IV voll., Poznań 1949-58; in italiano si tenga presente La regina Bona Sforza tra
Puglia e Polonia, Atti del convegno tenutosi a Bari, 27 aprile 1980, Roma 1987; G. Cioffari, M.
Werner, Bona Sforza, donna del Rinascimento tra Italia e Polonia, 2000; Bona Sforza Regina di Polonia
e Duchessa di Bari catalogo della mostra (Roma-Cracovia 2000) a cura di M.S. Calò Mariani e G.
Dibenedetto, Roma 2001.
se vicende delle famiglie di cui era erede, intrecciandosi a quelle di un’Italia
stretta tra le mira di francesi e spagnoli, portarono infatti la vedova Isabella
ad allontanarsi dalla Milano di Ludovico il Moro - che vedeva in Francesco, il
primogenito di Isabella e Gian Galezzo, un avversario dinastico - per trasferirsi nei feudi pugliesi che lo stesso Moro le aveva donato. A Bari Isabella abbellì
e fortificò il castello cittadino e impiantò una piccola corte di letterati, tra cui
gli accademici pontaniani Galateo, Jacopo de Cioffis e Crisostomo Colonna9.
Quest’ultimo in particolare, nipote di Prospero Colonna, insigne condottiero
dell’epoca, fu precettore della piccola, dopo aver assolto lo stesso incarico per
conto degli Aragona insediati sul trono napoletano. La qualità del precettore
testimonia delle volontà di Isabella di educare la figlia come una perfetta gentildonna dell’epoca e di indirizzarla a una matrimonio non solo confacente al
suo rango, ma che anzi risollevasse le sorti della casata. In giovane età Bona
passò più volte del resto da Bari alla raffinata corte napoletana e lì ebbe a formarsi, a comprendere gli intrighi della politica, a affinare il suo gusto e la sua
cultura. Se la prima speranza di matrimonio con Massimiliano Sforza non si
concluse, l’interessamento dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo condusse
Isabella a organizzare il matrimonio tra Bona e Sigismondo10.
Le nozze si svolsero per procura a Napoli il 6 dicembre 1517; un imponente banchetto (le cui portate pare ammontassero a oltre un migliaio) seguì
come festeggiamento. Bona attese il febbraio successivo e il miglioramento
del clima per imbarcarsi e intraprendere il viaggio che l’avrebbe portato alla
corte di Cracovia. Ad accompagnarlo un seguito di quasi trecento persone e
alcuni notabili gentiluomini: tra essi Prospero Colonna, a guidare la spedizione, e Colantonio Carmignano. Quest’ultimo, nel suo Viaggio de la Serenissima
S. Bona Regina da la sua arrivata in Manfredonia andando verso del suo regno di
Polonia11 ha messo in versi il resconto del viaggio, con i passaggi trionfale nel9 Si veda C. Augelluzzi, Intorno alla vita e alle opere di Crisostomo Colonna da Caggiano, Pontaniano
Accademico, Napoli 1856.
10 cfr. G. Pepe, Bona Sforza da maritare, «Rassegna Pugliese di Trani», vol. XII, 5, pp. 287-309.
11 Il poemetto è all’interno delle Operette del Parthenopeo Suavio in varii tempi et diversi subietti
composte. Stampato in Bari per Mastro Gilliberto Nehoun Francese in le case di Santo Nicola a
di’ de 15 ottobre, MDXXXV. Il libro è il primissimo testo apparso a stampa nella regione italiana
della Puglia. G. Cioffari in Bona Sforza. Aspetti religiosi ed umanitari della sua personalità, in La regina
Bona Sforza tra Puglia e Polonia, cit., ricorda altri poemetti, che non mi è stato possibile consultare,
composti in occasione del matrimonio tra Bona e Sigismondo; in particolare Casparis Velii Ursini
Silesii, Epithalamion in nuptiis Sigismundi Jagellonii regis Poloniae magnique ducis Lituaniae et Bona
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la diverse città attraversate e in particolare a Vienna12, e infine l’arrivo nella
capitale polacca. L’accoglienza della regina venne dunque così descritta nel
poemetto del Carmignano:
Smontate ancho le donne tutte quante
Con quella Maiesta tanto pregiata
Anchor per quattro miglia al Re distante,
In questo ogni Chinea ben preparata
Li fo condutta innanzi a una ad una
Et ogni donna su vi fo montata
Poi montò quella senza mora alcuna
Chel degno scettro, et aurea corona
Seco nascendo dusse, e serbo in cuna
Bona lei nacque, e Bona vive, e Bona
Sera pel suo bel Re, pel regno tutto
Che così e forza il ciel largo dispona
Che lei de Sforza, e de Aragona il frutto
Già producendo ale Sarmathie gente
Terra la Scythia in sempiterno lutto.
…
Smontata la Regina non for tarde
Tutte que gente a dar la strada, e certo
Ognu’un de suo beltà se accende et arde
Come fo al scontro quel bel viso offerto
De l’inclito suo Re, del suo consorte
Li venne incontro fuor per maggior merto
E lei chinata in lui senza altra scorte
Le man li basa, e se ricessa alquanto
Sfortiae Mediolani ac Bari ducis, Cracoviae 1518; Joachimi Vadiani Helveti, De nuptiis Serenissimi
ac Invictissimi Poloniae regis D. Sigismundi et Illustrissimae Bonae Sfortiae Cracoviae 1518; Andreae
Cricii, Epithalamium Divi Sigismundi Primi Regis et Inclytae Bonae Reginae Poloniae carmine heroico,
Cracoviae 1518.
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12 “De la grata accoglienza e de l’amore / Che in ogni luogo a noi con guadio fasi / Città, private
gente, ogni signore / Con gran leticia il cor ce manifesta / Del suo Cesareo Augusto Imperatore….”; “Quivi per certo non potria contare / La gran commodità / lo gran piacere / Per quelli che
ci fo forza stare / e mentre l’huomo attese a provedere / De comparar cavalli in festa e gioco / Le
bone stuffe e pasti a mio parere / Ce havean fatti Todeschi a poco a poco” (Cap. V)”. Al riguardo
in particolare di Vienna, così il Carmignano: “Vedendo quei Todeschi il spirto ardito / E in quella
maiestate tanto valore / Ogn’un restava attonito e impedito / Dopo per dimostrarli assai più
amore / Per più di mille fanti in compagnia / Veneano lieti e pronti in farli honore”.
El Re la abraccia, e sela strense forte
L’archiepiscopo poi che li era accanto
Li fe una grata e degna oratione
Con un casto parlar limato e santo
Ricomandandoli il clero, ogni barone,
Cracovia, ogni città, col regno caro
Offrendoli le robe e le persone.
L’operetta del Carmignano intreccia letteratura di viaggio e epitalami,
per quanto sia un epitalamio in assenza, o per meglio dire in attesa; e il suo valore letterario non va troppo al di là di alcuni intrecci di napoletano e toscano
nella costruzione della frase. E’ interessante a mio avviso perché testimonia di
una fase in cui il Carmignano, e in generale un italiano della sua estrazione sa
ancora poco della Polonia, e non è del resto il suo primo scopo di poeta cortigiano; è grande in ogni caso la differenza se si guarda a come si sedimenterà
poi l’immagine della Polonia e dei polacchi nella letteratura di viaggio nel
corso del ‘500, fino allo sguardo più penetrante di Manolesso.13
Non è questa la sede per tracciare un giudizio complessivo sull’operato
di Bona in Polonia, che con l’andare degli anni e l’invecchiare di Sigismondo
assunse sempre più potere: del resto la memoria della sua figura, sia nella
storiografia che nella cultura popolare, è piuttosto controversa. Sul versante
politico si registra la maggiore divaricazione del giudizio: che fosse considerata donna estremamente spregiudicata è testimoniata dalle malevole accuse di
aver avvelenato due successive nuore. Ma d’altro canto non mancava a Bona
una dose di pragmatico realismo politico. La regina era consapevole della necessità di rafforzare la dinastia in un sistema politico come quello polacco,
dove la scelta del re avveniva per elezione e in cui il potere della nobiltà era
estremamente vasto: era inoltre conscia della sua intrinseca debolezza come
regina straniera. Dalla somma di queste due considerazioni derivarono le sue
scelte in politica interna, che le valsero il malumore di parte della nobiltà; così
come da esse derivò la volontà di far incoronare il figlio Sigismondo Augusto,
nel 1530, ancora vivente il padre; un atto orientato sia a evitare un vuoto di
13 E. Manolesso, Discorso nel quale si contengono l’origine, sito, qualità, ricchezze, costumi, modo di
governo e forze de’ Poloni, le imprese fatte da re Iagelloni, Venezia-Roma, 1573; cfr. P. Marchesani, L’immagine della Polonia e dei polacchi in Italia tra Cinquecento e Seicento: due popoli a confronto, in Cultura
e nazione in Italia e Polonia dal Rinasimento all’Illuminismo, cit., pp. 347-392.
17
potere sia a limitare l’eventuale perdita della propria influenza. Per quanto
riguarda i nostri scopi, è indubbio che la presenza di Bona rafforzò la presenza degli italiani e della cultura italiana a corte, attirando artisti, diplomatici e
cortigiani, come i due gentiluomini baresi, i fratelli Fanelli, da cui Bona si fece
raggiungere a Cracovia e a cui donò feudi e gradi nobiliari. A Bona si dovette inoltre l’introduzione di diversi cibi poco noti in Polonia che mutarono la
stessa gastronomia polacca.
Ad aggiungersi agli artisti e ai gentiluomini al servizio della corte, vi
era inoltre una comunità di banchieri e mercanti, come la famiglia fiorentina
dei Gucci, che era impegnata già da tempo nello sfruttamento delle saline. La
comunità italiana, raggiungeva quasi un migliaio di persone – e sarebbe poi
cresciuta dopo la metà del secolo - costituendo la più vasta presenza straniera
dopo quella dei tedeschi14 Da un lato dunque gli italiani vi svolgevano il ruolo
di mercanti, poiché l’opulenta nobilità polacca, la cui ricchezza derivava dal
commercio di cereali, era una clientela esigente ed avida di prodotti di lusso. Gli italiani portavano in Polonia, abiti, vini, pietre preziose e manifatture
raffinate, come la maiolica o il vetro di Murano. Ciò andava a sommarsi alle
committenze, architettoniche e non solo, della corte, che crearono un mercato
di suppellettili pregiate e di materiale edilizio.
A integrare questo ruolo ruolo mercantizio, gli italiani vi venivano a
svolgere la funzione di banchieri, occupandosi con buoni ritorni economici di
prestito a interesse, e di amministratori. Si è già detto dello sfruttamento delle
miniere di sale, che rimase in mano italiana in maniera pressocchè costante
lungo tutto il corso del XVI secolo. Vi si aggiunga l’instaurazione del servizio
postale, che fu creato e amministrato dalla famiglia Provana e da Sebastiano Montelupi15. Si consideri anche che molti feudi e molte rendite vennero
concesse a queste stesse illustri famiglie italiane: e che pur con qualche episodio sfortunato le gestioni economiche degli italiani seppero valorizzare e
migliorare le resi dei servizi da loro amministrati. A guardare questo quadro
non sorprende che una famiglia di recente immmigrazione in Polonia, come
14 D. Quirini-Popławska, Die Italienischen Einwanderer in Kraków und ihr Einfluß auf die polnischen
Wirtschaftsbeziehungen zu österreichischen und deutschen Städten im 16. Jahrundert in Europäische
Stadgeschichte im Mittelalter und früher Neuziet, a cura di W. Mägdefrau, Weimar 1979, p. 118.
18
15 D. Quirini-Popławska, Sebastiano Montelupi, toscano, mercante e maestro della posta reale di Cracovia, Prato 1989.
quella dei Soderini, giunse in poco più di un ventennio a giocare un ruolo
determinante nelle vicende dinastiche polacche. Bernardo e Carlo Soderini
erano infatti giunti in Polonia all’inizio degli anni ’50, ottenendo ben presto
esenzioni doganali per importar merci. Al commercio sommavano la pratica
del prestito e il ruolo di “esattori” per la corte, poiché si occupavano del trasferimento in Polonia della “somme napoletane”, gli ingenti ricavi cioè dei
ducati meridionali di Bona Sforza. Assieme ai Soderini, vi erano i già citati
Montelupo, anch’essi fiorentini, che assunsero un ruolo preminente nell’economia polacca.
Non sorprende altresì che dopo una lunga fase di italomania subentrasse un crescente fenomeno, non generalizzato ma comunque non trascurabile,
di italofobia16; e ciò dovette subire un’accellerazione quando gli attriti tra Bona
Sforza e il suo entourage da un lato, e Sigismondo Augusto dall’altro, divennero lampanti. A suscitare questo ambivalente sentimento verso gli italiani, di
attrazione e repulsione, giocò un ruolo importante anche il versante religioso;
in quell’ambito, come si vedrà a breve, l’“italica gente” ebbe un’influenza fondamentale, e tutt’altro che pacificatrice, per le sorti della Riforma in Polonia.
Non bastasse il ruolo egemone che andavano assumendo i banchieri nella vita
economica polacca, alcuni di essi erano legati a doppio filo all’emigrazione
italiana religionis causa che si era stabilita in quasi tutta Europa a partire soprattutto dagli anni ’40 del Cinquecento. E’ questo il caso della famiglia piemontese dei Provana, che rappresentano l’anello di congiunzione tra il mondo
mercatizio italo-polacco e il mondo ereticale. Troiano Provana fu segretario di
Bona e poi di Sigismondo Augusto, mentre il fratello Prospero fu banchiere e
amministratore della saline di Cracovia; fu soprattutto quest’ultimo ad essere
un punto di riferimento costante – quasi un patrono – per la prima emigrazione religiosa italiana in Polonia. A rendere saldo questo legame contribuivano anche dei vincoli familiari: i Provana erano infatti imparentati con Celio
Secondo Curione, una delle figure più importanti della diaspora eterodossa
italiana; un altro loro parente combattè in Francia al fianco degli ugonotti.
Per comprendere però la genesi e il peso della comunità ereticale italiana in Polonia andrà meglio inquadrata la vita religiosa polacca del XVI seco16 H. Barycz, Italofilia e italofobia nella Polonia del Cinque e del Seicento, in Italia, Venezia e Polonia tra
Umanesimo e Rinascimento, a cura di M. Brahmer, Wrocław-Warszawa-Kraków 1967.
19
lo17. La Riforma si era diffusa ben presto per la vicinanza della Germania e per
lo stato in cui versava il clero, incline, come e più che in altri stati, alla cura del
mondo più che a quella delle anime. Già nel 1520 Sigismondo emesse a Toruń
un editto contro la Rifoma e un secondo divieto di propaganda delle dottrine
luterane venne promulgato tre anni dopo a Cracovia; ad esse si aggiunse un
controllo serrato della stampa e il divieto di compiere studi in università di
fede non cattolica. Seppure le trasferte sobillatrici dei giovani studenti polacchi a Wittemberg e dintorni vennero vietate, ciò non bastò ad arginare la diffusione della propaganda protestante, anche per l’accordo che ad essa veniva
spesso e volentieri concesso dalla nobiltà, per motivi politici più che religiosi:
alla spinta della nobiltà, e alla difesa delle sue prerogative, si dovette il fatto
che le restrizioni del re vennero ben presto abrogate (in particolare quelle sulla
stampa). A determinare un vero salto di qualità non fu però la diffusione delle
idee di Lutero quanto piuttosto della voce ginevrina di Calvino, che penetrò
non solo nella nobilità, ma anche tra il clero e la borghesia cittadina. A Pinczów nel 1550 si teneva il primo sinodo calvinista: tale confessione non tardò
in Polonia a strutturarsi in maniera compiuta, anche grazie al ritorno in patria
nel 1556 di Jan Łaski il giovane, la figura più fulgida tra i riformatori polacchi.
Come epifenomeno della più complessa questione generale, l’ambivalenza del giudizio su Bona si ripresenta anche a voler discutere del suo ruolo
nello sviluppo della Riforma Protestante in Polonia. Al contrario della devota
madre Isabella, Bona sembrò manifestare un’attitudine verso l’istituzione ec-
20
17 Per un quadro generale della vita religiosa polacca si veda, in lingua italiana, Storia del cristianesimo in Polonia, a cura di J. Kłoczowski, trad. italiana di B. Petrowska Beggiato, Bologna 1980, in
particolare il saggio di S. Litak, L’epoca della svolta (1525-1648), pp. 175-218. Non mancano di considerazioni generali sulle sorti religiose della Polonia i classici testi di riferimento sulla diaspora
eterodossa italiana: in particolare D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Torino 1992 (I. ed.
Firenze 1939); F. C. Church, I riformatori italiani, trad. italiana di D. Cantimori, II voll., Firenze 1958
(I ed. New York, 1932); S. Kot, Socinianism in Poland. The Social and Political Ideas of the Polish Antitrinitarians in the Sixteenth and the Seventeenth Century, Boston 1957 (I ed. Warszawa 1932); D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze-Chicago 1970; Movimenti
ereticali in Italia e Polonia, Atti del Convegno italo-polacco Firenze 22-24 settembre 1971, Firenze
1974; G. H. Williams, Anabaptism and Spiritualism in the Kingdom of Poland and the Great Duchy of Lithuania: an Obscure Phase of the Pre-History of Socinianism, in Studia nad arianizmen ed. by L. Chmaj,
Warszawa 1959, pp. 215-263. Sulle vicende che andranno più oltre a trattare si guardino anche: J.
Tazbir, A state withou stakes: Polish religious toleration in the sixteenth and seventeenth centuries, New
York 1973 (I ed., Warzawa, 1957); Id., Recherches sur l’histoire de la Réforme en Pologne (1945-1948),
«Acta Poloniae Historica», 2 , 1959, pp. 133-153; Z. Ogonowski, Antytrynitaryum w Polsce: Stan
badań e i postulaty in Wokól dziejów i tradycii arianizmu, ed. by L. Szczuckiego, Warszawa 1971, pp.
7-27; M. Firpo, Antitrinitari nell’Europa orientale del ‘500. Nuovi testi di Szymon Budny, Niccolò Paruta
e Iacopo Paleologo, Firenze 1977.
clesiastica che risentiva più della necessità della politica e della corte che di
una sincera pietà religiosa. Se si vuole stare alle testimonianze contemporanee,
anche quelle interne al suo ambiente, ne emerge un quadro ben preciso. Bona
sarebbe stata capace di nominare vescovo “un ateo, un porfiriano o un marrano”; i suoi criteri per la scelta erano “la nascita nobile, la capacità di esercitare
l’autorità, la devozione verso la Stato e il sovrano; se anche la vita privata del
prescelto non fosse esente da critiche non importa purchè servisse lo Stato con
diligenza.”18 Tale atteggiamento era funzionale alla sua visione politica, che
non era esente da lungimiranza: rafforzare cioè la sovranità politica contro
le pretese nobiliari, giocando spregiudicatamente con le investiture ecclesiastiche ma avvantaggiando nel caso anche le spinte religiose più radicali. Riconosciuto questo, vi è però un sostrato più profondo che necessita di essere
scandagliato: non può essere un caso che il suo regno gettò le premesse perché
la Polonia divenisse per un cinquantennio la terra promessa di chi intendeva
sfuggire alle persecuzioni religiose. Bernardino Bonifacio d’Oria, sulla cui figura ci soffermermo più oltre, scriveva dalla Polonia a Sebastiano Castellione,
l’autore del De haereticis an sint persequendi: “Qui avresti grande, anzi grandissima, libertà di vivere a tuo modo secondo le tue idee, e di scrivere e pubblicare. Nessuno che ti sia censore. Avresti amici e difensori – e ciò che ti dovrebbe
essere cosa più gradita – uomini che farebbero causa comune con te.”19 Una
parte di quella libertà era il riflesso dell’enorme autonomia di cui godeva la
nobiltà che aveva ottenuto nel 1555 dal Parlamento di Piotrków il principio
della devotio domestica, il diritto cioè di ospitare predicatori di qualsiasi confessione. Andrebbe però spiegato il fatto che il predicatore di Bona, l’esule
italo-greco Francesco Lismanini divenne uno dei capi della Chiesa calvinista
polacca, e che senza obiezioni da parte della madre leggesse e commentasse
al futuro re Sigismondo Augusto l’Institutio di Calvino20; ancora, che il medico
18 Cito dalla traduzione italiana di R. H. Bainton, Donne della Riforma, II, p. 217; le testimonianze
tratte da Bainton sono Pociecha, op.cit, II, p. 386 e Acta Historica Res Gestae Poloniae Illustrantia,
Cracoviae, 1878, p. 15. Che uno storico navigato come Bainton inserisca il ritratto di Bona in un
testo dedicato alle donne che hanno legato il loro nome alla diffusione della Riforma protestante
è, a mio avviso, significativo.
19 B. Bonifacio a S. Castellione, Kazimierza, 30 giugno 1561. L’originale latino è stato pubblicato
da D. Cantimori, op. cit., p. 265 n. 22. La traduzione riprende, con qualche leggera modifica, la
traduzione di F. Church, op. cit., II, p. 162, che è stato il primo a segnalare l’epistola.
20 cfr. B. Nicolini, Bernardino Ochino e la Riforma in Polonia, «Atti dell’Accademia Pontaniana»,
Nuova Serie I, 1948, p. 192
21
personale di Bona tra il 1540 e il 1544 fosse Giorgio Biandrata, che in seguito
diventerà uno dei principali esponenti del radicalismo antitrinitario. Nel 1551
il legato di Ferdinando d’Asburgo a Cracovia riferiva che la Regina inclinasse
per la Riforma. Che potesse essere il Lismanini a orientare Bona non appare
del tutto certo, perché anzi pare sia stato la Regina a donare al suo confessore
una copia delle prediche di Bernardino Ochino, il notissimo predicatore cappuccino, che era fuggito dall’Italia gettando via il saio per farsi accogliere (con
non troppa fortuna) dalla Chiese riformate. Non si sa se il testo raccogliesse
degli scritti dell’Ochino precedenti alla sua fuga, quando cioè il predicatore
era una delle più sfavillanti speranze del campo cattolico, oppure successiva. Irrisolta la questione, la figura di Ochino consente però in ogni caso di
portarsi su un piano diverso del discorso. Bona era cresciuta nell’ambiente
della corte napoletana: l’aristocrazia che frequentava quella corte, specie nelle
sue figure femminali, era stata attirata nei decenni successivi dalla religiosità
dell’eresiarca spagnolo Juan de Valdés. Vittoria Colonna, nobildonna legata
a Valdés, era stata sua testimone di nozze; Prospero Colonna, che l’aveva accompagnata nel viaggio, si legherà poi a Costanza d’Avalos, altra figura nota
come protettrice di eterodossi; la madre Isabella e successivamente Bona ebbero strettissimi rapporti con la corte Estense a Ferrara21, che in quei decenni
era uno degli epicentri del dissenso religioso in Italia in virtù della presenza di
Renata di Francia, che avrebbe ospitato non solo Curione, ma intrattenuto legami anche con Calvino. Bona, anche per le maggiori responsabilità a cui era
stata chiamata, non era della stessa tempra di una Renata di Francia o di una
Giulia Gonzaga: eppure non deve sembrar strano che mostrasse interesse verso quella religiosità che stava conquistando il milieau culturale nella quale era
cresciuta o con il quale era in contatto. Ciò sia detto senza ignorare il fatto che
l’espansione della dottrine ereticali in territorio polacco coincise non già sotto
l’influenza di Bona, quanto con il regno di Sigismondo Augusto. A tale sviluppo contribuiva l’iniziale favore con il quale il re aveva guardato alle dottrine
riformate e la stessa situazione delle Chiese Svizzere, che spinse una parte
consistente degli eretici italiani a rimettersi in cammino alla ricerca di una
nuova Gerusalemme terrena. Quando questo avvenne, Bona, venuta in con-
22
21 Sui rapporti tra Bona e la corte ferrarese si guardi R. Mazzei, Quasi un paradigma «Lodovicus
Montius mutinensis» fra Italia e Polonia alla metà del Cinquecento, «Rivista Storica Italiana» vol. CXV,
I, aprile 2003, pp. 5-56, in particolare pp. 11-12.
trasto con il figlio per il suo matrimonio segreto con Barbara Radziwiłłówna e
caduta definitivamente in disgrazia alla morte sospetta della nuora, aveva già
deciso di abbandonare la Polonia per far ritorno nei suoi domini pugliesi, con
la segreta speranza di ottenere un ruolo di prestigio nel reame di Napoli22.
***
La conquista della Polonia alla Riforma si è compiuta a scaglioni e per zone.
Prima il Luteranesimo, poi il Calvinismo ed in ultimo le varie confessioni antitrinitarie, che si consolidarono nel Socianianesimo e nell’Unitarianesimo. Ancora prima la
Grande Polonia, poi la Piccola, e la Lituania e le altre minori provincie. Ebbene, ad ogni
passo e ad ogni svolta di codesto procedere ed evolversi ci si para innanzi un Italiano,
e sovente in prima linea e al comando23.
Con queste parole Francesco Ruffini, descriveva l’avanzare della Riforma in Polonia. Nella temperie del fascismo lo storico del diritto piemontese,
tra i pochissimi professori universitari italiani a rifiutare di prestare giuramento al regime, rifletteva sugli esuli italiani, fuggiti per la crescente intolleranza della penisola, e sul loro contributo alla genesi del concetto di tolleranza.
Mondate dalla retorica e dai problemi dell’epoca in cui vennero concepite, esse
contengono un nocciolo di verità, poiché davvero il ruolo degli italiani nella
diffusione del dissenso religioso fu estremamente significativo. Se il primo
riferimento al quale si rifà Ruffini è il caso di Pier Paolo Vergerio, che venne
spedito in Polonia per cercare di difendere l’ortodossia riformata, e fu dunque
una presenza tutto sommato esterna alle lotte e ai dibattiti polacchi, gli altri
22 Per ricostruire le ultime vicene di Bona si tenga presente, oltre i testi già citati, K. Żaboklicki,
Lettere inedite di Bona Sforza, regina di Polonia, al suo agente italiano Pompeo Lanza (1554-1556), Varsavia-Roma 1998.
23 F. Ruffini, La Polonia del Cinquecento e le origini del Socinianesimo, in «La Cultura», XI, 1932. E
ancora a proposito della diaspora italiana e di Fausto Sozzini aggiungeva “Quel disperdimento
di uomini e quello sperpero di dottrine furono in parte scongiurati dal duplice fatto: - che ci fu
un paese, alfine ove parecchi di quei perseguitati poterono rifugiarsi, riprendersi, accontentarsi
e costituirsi in comunità religiosa autonoma, con proprio nome e proprio catechismo, insomma
quale confessione o denominazione distinta dalle altre protestanti; e che si trovò alfine un uomo,
il quale seppe raccogliere le sparpagliate dottrine, e coordinarle e fissarle in un completo e saldo
sistema teologico. Quel paese fu la Polonia, e quell’uomo fu Fausto Socino. Così è nato in Polonia
il solo contributo originale e di non peritura importanza che la nostra Nazione abbia recato alla
Riforma evangelica: il Socinianesimo”, pp. 248-249 Laddove si guardi a chi era Francesco Ruffini
e a che cosa facesse in quegli anni, al fatto che scriveva “contributo alla Riforma evangelica”, e intendeva “contributo alla genesi della libertà critica nel pensiero moderno”, si capisce con quanta
forza intendesse questo legame che si era creato tra Italia e Polonia.
23
italiani elaborarono le proprie dottrine e le proprie strategie in una dialettica
profonda con il mondo polacco che li stava ospitando. Il personaggio cardine della primissima influenza italiana eterodossa in Polonia fu senza dubbio
Francesco Stancaro, rissoso e controverso teologo, giuntovi nel 1549 e poco
dopo arrestato per la sua predicazione eterodossa. Fuggito dal carcere, l’anno
successivo elaborò i Canones Reformationis ecclesiarum Polonicarum, un tentativo di riforma dell’istituzione ecclesiastica secondo una confessione di fede antitrinitaria, che avrebbe dovuto fornire la base per l’unificazione delle chiese
riformate polacche24. Stancaro fu figura singolare, in perenne lite con qualsiasi
istituzione, alla ricerca dello scontro teologico anche prescindendo da una reale ricerca della verità, ma capace con la sua foga di creare del consenso; il suo
principale approdo teologico fu una dottrina trinitaria secondo cui è la natura
umana di Cristo a renderlo mediatore con Dio Padre, di cui rimase traccia negli anni successivi in Polonia. Il tentativo invece di disciplinare secondo i suoi
Canones le comunità religiose polacche non fu invece coronato da successo.
Forse per l’eco delle lotte che la posizione dello Stancaro stava suscitando, o attirato dalla possibile creazione di una zona franca dai confessionalismi,
e certo influenzato dagli amici polacchi che aveva conosciuto in Germania, nel
1551 Lelio Sozzini si mosse da Wittemberg per recarsi a Cracovia, dove pare
abbia frequentato Lismanini, spingendolo definitivamente – secondo la vulgata sociniana - ad abbandonare il cattolicesimo25. Lismanini infatti doveva
da lì a poco recarsi in Svizzera, dove avrebbe conosciuto Bernardino Ochino
e stretto maggiori contatti con i capi riformati ginevrini, per poi tornare in
Polonia con l’incarico di contribuire a cementare la Chiesa calvinista polacca.
Nel frattempo l’ascesa al trono di Sigismondo Augusto, che si era definitivamente liberato dell’influenza di Bona Sforza, aumentò le speranze riformate
di conquistare interamente la Polonia al protestantesimo. La contemporanea
stretta di libertà in Svizzera che culminò nel 1555 nel rogo di Serveto spinse
gli italiani a cercare un nuovo luogo per poter vivere secondo la propria fede.
24 Sullo Stancaro si veda Wotschke, Der Briefwechsel der Schweizer mit den Polen, III, in «Archiv für
Reformationgeschichte», 1908; F. Ruffini, Francesco Stancaro, ; D. Cantimori, Eretici Italiani del Cinquecento, cit., p. 146. Per Wotshcke, Stancaro fu il più “disgustoso” teologo del ‘500; Ruffini, che
non nasconde la sua simpatia per il personaggio in questione e riporta con gusto le invettive da
lui lanciate, non contesta la definizione, ma nota che in un secolo di così aspre contese teologiche,
ottennere quella palma costituisce in ogni caso un titolo di eccellenza.
24
25 Cfr. D. Cantimori, , op. cit., p. 146.
Non è un caso che in questi anni Celio Secondo Curione dedichi diverse sue
opere a esponenti della nobiltà polacca; a Sigismondo Augusto, in particolare,
fu indirizzato uno dei suoi lavori più noti, il De Amplitudine Beati Regni Dei26.
Pubblicata subito dopo il rogo ginevrino, nell’epistola dedicatoria Curione
consiglia a Sigismondo di fondere religione e giustizia, per poter primeggiare
su ogni altro regno. La ricetta di Curione è di riformare le istituzioni, lasciando
la massima libertà di predicazione, nlla convinzione che la verità si farà strada
da sé. E’ rimbombante l’eco della situazione svizzerra, quando Curione viene
ad affermare che gli uomini non vanno mai costretti a seguire una confessione
piuttosto che un’altra: chi dovrà seguire esteriormente una religione in cui
non crede, lo farà infatti con l’inganno e senza fede. L’aspirazione di Curione
che la Polonia si conformasse ai desideri suoi e del suo gruppo parve in parte
realizzarsi: e Delio Cantimori ebbe a dire che Cracovia nella seconda metà del
Cinquecento aveva rimpiazzato Basilea come capitale del dissenso.
Lelio ritornava in Polonia nel 1558; lo raggiunse qualche mese dopo
il piemontese Giorgio Biandrata, che dopo la parentesi come medico di Bona
era stato alla corte di Alba Iulia presso la figlia Isabella e di lì in Svizzera, dove
era entrato in contrasto con i vertici della confessione calvinista. La stima che
godeva a corte spinse Sigismondo Augusto a nominarlo suo inviato assiema a Lismanini al sinodo calvinista di Pinczoów del 1560; ed egli si mosse
con accortezza riuscendo a farsi eleggere coadiutore del sovrintendente della Chiesa Riformata polacca. L’influenza che Biandrata stava assumendo in
Polonia contrastava la volontà di Calvino, che sull’ortodossia riformata del
medico italiano nutriva seri dubbi. Il riformatore ginevrino attivò tutti i suoi
canali, fino al punto da pubblicare una Brevis Admonitio ad Polonos, per mettere in guardia Łaski, Cruciger, Lismanisni e Radziwiłł, i principali esponenti
del calvinismo polacco, dalle perniciose idee di Biandrata; ma la stima che
circondava Biandrata gli fece da ottimo scudo, tanto che l’attacco di Calvino
non sortì inizialmente alcun effetto.27 I difficili tentativi delle diverse componenti della Riforma polacca di giungere ad un’unità, che sarebbe culminata
nel compromesso di Sandomierz del 1570, rischiavano però di essere mandati
in frantumi dalle turbolenze degli antitrinitari italiani. Nel corso degli anni
26 C. S. Curioni, De Amplitudine Beati Regni Dei, Dialogi sive libri duo, ad Sigismundum Augustum
Poloniae Regem potentissimum et clementissimum, [Basilea], 1554.
27 cfr.. D. Cantimori, , op. cit., pp. 220-222
25
’60, sotto l’influenza indiretta di Biandrata, si giunse in effetti alla costituzione
di una Ecclesia minor, di stampo antitrinitarista, contrapposta all’Ecclesia Maior
genericamente protestante. Il fervore degli italiani, spesso eresiarchi e in ogni
caso indefessi seminatori di dubbi, dovette creare qualche insofferenza non
solo nella popolazione polacca, ma soprattuto nei riformati ortodossi. Un pastore calvinista, Jean Vitrellin, attribuiva alla xenofilia polacca il successo che
arrideva alle pestilenziali dottrine degli italiani. E’ una testimonianza che vale
la pena di riportare:
Non quod Polonia adeo ferax haereticorum, ut illam hac iniuria ne gravem,
sed quod ob hospitalitatem omnium sit sine delectu receptatrix et novationum supra
modum cupida. Nam si utraque bona tum animae tum corporis respicias, nihil habet, quod non aliunde sumpserit, et si vestimenta quaelibet natio sua repeteret, nihil
restaret Polonis, quo se vestirent. Italicorum vero adeo est studiosa morum, ut et religionem antea ab ipsis mutata sit et nunc Italicorum amplexa fidem, quamvis Italia
maxime semper Poloniae incommodaverit et nunc isti, qui has pestes excitaverunt,
Stancarus et Blandrata, quamvis sibi per contradictionem adversentur, Itali tamen
sunt. Stancari doctrina mihi multum attulit incommodi, nam ex mea statione eiectus
sum et omnibus commodi spoliatus, quod nullo pacto illam amplecti voluerim.28
Nel frattempo giungevano in Polonia altri eterodossi come l’Alciati e il
cosentino Valentino Gentile; l’intensa attività degli italiani spinse a quel punto
il nuznzio apostolico Commendone a richiedere un intervento di contrasto
maggiormente severo da parte della Corona polacca, che si concretizzò in un
editto del 1564 teso ad allontanare gli stranieri non di fede cattolica. Ma la
diaspora italiana verso Cracovia non si fermava, anche grazie alla protezione
del potente Provana. Nel 1568 vi giunge Bernardino Ochino, la cui persona
era stata preceduta dalle traduzione di due suoi trattati29; pochi anni dopo
arriva il medico di corte Niccolò Buccella, anch’egli di tendenze radicali. I
nomi degli eterodossi italiani attivi in quegli anni tra Pinczow e Cracovia sono
28 Lettera del 24 giugno 1563 citato in Wotschke, Der Briefwechsel der Schweizer mit den Polen, III,
in «Archiv für Reformationgeschichte», 1908, p. 195. Lo stesso Wolph riceve altre lamentazioni
anche da Lasitius: “Qualis autem is homo sit, ego probe novi, qui cum eo anno 1560 in Italia familiariter vixi. Est illi cor Italicum. Caetera taceo, nam vos quoque probe nostis Italos. Quam autem
callide mihi quoque illi vestri Laelii Sozini, Acontii, Ochini, cum apud vos anno 1557 essem, opinionem suam persuadere conati sunt! Cavete deinceps Italos” 14 maggio 1572, Ibidem, p. 349.
26
29 J. Slaski, Le «Tragedie» di Bernardino Ochino in Polacco, in Movimenti ereticali in Italia e Polonia,
cit., pp. 103-118.
numerosissimi: Pietro Negri, Pietro Franco, l’altro medico di corte Simone Simoni, Giovanni Michele Bruto, lo storico al servizio del re Etienne Bathory, il
millenarista Gian Battista Bovio e il più noto Francesco Pucci (anche se solo di
passaggio), Gian Battista Cettis, il filosofo telesiano cosentino Agostino Doni.
Erano personaggi spesso distanti nelle definizione dottrinarie e per alcuni di
essi l’adesione alle dottrine riformate fu solo una tappa transitoria, ma in ogni
caso erano spesso uniti da un vincolo di solidarietà nazionale.
Seppur staccato dall’ambiente ereticale, va inoltre ricordato il nome del
francescano calabrese Annibale Rosselli, autore di un monumentale Commentum Pymandri, pubblicato a Cracovia tra il 1585 e il 1590, al quale si dovette la
diffusione dell’ermetismo in Polonia30. A queste figure, spesso nobili, in ogni
caso influenti, va ad aggiungersi un nucleo popolare di eresia. L’architetto
Bernardo Morando, a cui si dovette la costruzione di Zamość, interessante
tentativo di costruzione di una città ideale31, riferiva infatti che tra le fila dei
suoi scalpellini e muratori si trovavano molti che erano stati conquistati alla
causa anabattista32.
Una delle parabole esistenziali più interessanti tra gli italiani in Polonia
è, senza dubbio, quella di Bernardino Bonifacio, marchese d’Oria, di cui si
sono già riferite le calde parole rivolte a Castellione per spingerlo a venire in
Polonia33. Bonifacio era un aristocratico originario del Regno di Napoli, che
traeva il prorio nome dal feudo familiare nel Salento. Il fratello fu il rimatore Dragonetto; nella sua stessa formazione fu in stretta relazione con diversi
umanisti italiani, tanto che Paolo Manuzio gli aveva dedicato un’edizione di
Petrarca e nel 1551 Lodovico Dolce la sua tragedia Ifigenia. Fu certo uno spirito
anticonformista, che si vedeva frequentare le messe di Napoli leggendo Ovidio, rilegato come un breviario34. A Napoli entrò in contatto con gli ambienti
30 Cfr. F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1989, pp. 201-202 (I ed. Chicago 1964).
31 M. Lewicka, Bernardo Morando, Warszawa 1952; S. Herbst, Zamość, Warszawa 1954; J. Kowalczyk, Zamość – citta ideale in Polonia. Il fondatore Jan Zamoyski e l’architetto Bernardo Morando, Warszawa 1986.
32 cit. da D. Caccamo, p.
33 Cfr. F. Church, op. cit, ad indicem. ; D. Caccamo, op. cit., p. 99 sgg.
34 Sul carattere di Bernardino Bonifacio e sulla sua eccentricità si esprimeva così Scipione Ammirato nel 1580 “A guisa di filosofo mal praticava con alcuno e, de’ propri domestici e famigliari
scostandosi, attendeva tutto solo e’ suoi studi, facendosi servire da una o due sue femmine, le
quali eran fama di esser di nazion turche, con cui sfogava la sua libidine”, S. Ammirato, Delle
famiglie nobili napoletane, I, Firenze 1580, p. 78.
27
valdesiani in casa di Giovanni Maria Bernardino. Il suo primo soggiorno a
Basilea, dove ebbe strettissimi rapporti con Bonifacio Amerbach e Castellione,
fu dovuto probabilmente più all’indole che ai pericoli per la propria libertà: dalla Svizzera si spostò a Venezia dove invece dovette fuggire per una
denuncia all’Inquisizione. Da lì iniziò una peregrinazione continua. Nel ‘60‘61 è a Cracovia dove si lega a Prospero Provana; la Polonia gli farà da base,
mentre intraprende numerosi viaggi, a Lione, a Basilea, a Norimberga, fino
a Istanbul. Rispetto al gruppo vero e proprio degli eretici italiani, Bonifacio
si distacca per uno spiritualismo più moderato, che in passato alcuni storici
avevano scambiato per indifferenza ai problemi religiosi,35 ritenendolo più
scandalizzato da una imperfezione nello stile letterario delle sue epistole che
da una errata definizione teologica.
I continui viaggi, e alcuni sfortunati accadimenti della sorte, rimpicciolirono notevolmente il suo patrimonio familiare; si trovò dunque costretto ad
accettare l’offerta di ospitalità del voivodina di Lituania, decidendo di ritirarsi
in povertà verso Vilnius. Ormai cieco, decise nel 1591 di devolvere, in cambio
di un vitalizio, i suoi libri (circa 1100 esemplari) al municipio di Danzica, con
la clausola che essi non potessero mai cadere in mano ai gesuiti. Tale lascito
costituì il primo nucleo della biblioteca comunale di Danzica.
Se il marchese d’Oria fu in parte un eccentrico solitario, ben diversa
appare la costituzione di colui che con il suo operato costituì il frutto più durevole della presenza della comunità italiana, cioè Fausto Sozzini, che giunse
in Polonia nel 157936. Sul terreno della precedente attività dello zio, Fausto
riuscì a operare una sintesi delle diverse proposte teologiche che avevano caratterizzato il turbolento mondo degli eterodossi. Lo spingeva una volontà e
una consapevolezza maggiore degli altri della necessità dell’unità religiosa; lo
accomunava la centralità accordata al senso morale della religione piuttosto
35 F. Church è il più convinto fautore di questa tesi: Cantimori e Caccamo rivendicano al Marchese d’Oria una genuina spiritualità, seppur non del tutto coincidente con le istanze radicali che
permeavano il gruppo degli esuli italiani.
28
36 Oltre i testi già citati, e in particolare il lavoro di Cantimori che si sofferma abbondantemente
su Sozzini, si guardino, soprattutto per l’influenza del socinianesimo: S. Przypkowski, Vita Fausti
Socini Senensis, 1636; E. M. Wilbur, Faustus Socinus, an Estimate of his Life and Influence, «Bullettin
of the Iternational Committee of Historical Science», V, 1933, pp. 48-60; G. Pioli, Fausto Socino,
Modena, 1952; Faustus Socinus and his heritage, ed. by L. Szczucki, Kraków, 2005; Fausto Sozzini e
la Filosofia in Europa, Atti del convegno di Siena 23-37 novembre 2004, a cura di M. Priarolo e E.
Scribano, Siena 2005. Recentemente è stata pubblicata la ristampa anastatica dell’opera di Sozzini,
Fausti Socini Senensis Opera omnia in duos tomos distincta, a cura di E. Scribano, Siena 2004.
che alle questoni dottrinarie. Lo si avverte nella centralità dell’evento della
redenzione, inteso come annuncio morale, esempio prima che espiazione, che
Fausto Sozzini fece accettare per sanare le divisioni che sulla questioni del
Figlio erano in atto nella comunità religiosa polacca. Pur partecipando alla
vita di questa comunità Fausto non arrivò a farne parte, perché rifiutò di sottostare al secondo battesimo, ma ne fu il costante punto di riferimento, per
il prestigio che lo accompagnava. Appena giunto in Polonia aveva in effetti
stilato il De Baptismo atque disputatio per opporsi alla pratica del battesimo
degli adulti. L’influenza delle dottrine di Fausto Sozzini venne compendiata da Smalcius nel Catechismo di Rakow del 1605, dal nome della città che
era diventata il centro spirituale di quelli che saranno definiti come sociniani.
Sozzini era morto l’anno precedente a Luslawice: gli ultimi anni della sua vita
erano stati segnati da crescenti difficoltà in una Polonia che veniva ricuperata
con grande forza al cattolicesimo, chiudendo gli spazi non solo di azione, ma
anche di permanenza per gli esuli eterodossi. Con la morte di Sozzini si concludeva idealmente questa fase dei rapporti italo-polacchi, anche se il centro
di Raków continuò a essere attivo ancora fin al 1638. Il centro di diffusione
di questa forma di antitrinitarismo razionalizzante, frutto delle aspirazione
religiose degli “irregolari” italiani e dei Fratelli polacchi, si era ormai spostato
in Olanda, dove aveva continuato ad esercitare una notevole influenza lungo
tutto il corso del XVII secolo.
29
Ewa Manikowska
•
Varsavia
L’impatto del Grand Tour
sulle collezioni artistiche in Polonia
ai tempi di Stanislao Augusto1
Uno degli aspetti fondamentali della cultura europea del Settecento è
il gusto italiano delle collezioni reali e aristocratiche, da Londra a San Pietroburgo, da Stoccolma a Madrid. In ogni tipo di resoconti di viaggio, genere
letterario di enorme fortuna all’epoca, troviamo descrizioni di questo tipo di
collezioni, che erano infatti tra gli elementi più interessanti ed aprezzati dei
luoghi visitati, anche in città molto distanti dalla penisola italiana. Il resoconto
di viaggio di Johann Bernoulli, famoso astronomo e matematico svizzero, i
cui interessi erano soprattuto di carattere scientifico, contiene una descrizione
della Varsavia del 1778.2 La città si distingueva non solo per la presenza di
piccoli osservatori astronomici costruiti sui tetti delle dimore aristocratiche,
ma anche perchè vi si trovavano importanti edizioni grafiche di monumenti
antichi romani, napoletani o della Magna Grecia, alcune delle quali viste e
discusse dal Bernoulli per la prima volta. L’astronomo trovò quindi con l’elite
di Varsavia una lingua comune non soltanto nel campo delle ricerche scientifiche, ma anche in quello relativo alla cultura dei centri italiani e delle collezioni
che ne rispecchiavano il fascino e la conoscenza. Nella seconda metà del Settecento la lingua delle arti e delle antichità dei centri italiani era dunque parlata
e compresa in tutt’Europa.
L’importanza delle collezioni che rispecchiavano il fascino dell’arte
e della cultura italiana è strettamente legata ad un fenomeno culturale più
ampio: quello del viaggio in Italia, che all’epoca rappresentava un elemento
1 Questo articolo riprende quanto da me presentato in: La tradizione italiana nella vita intellettuale ed
artistica in Europa centrale e orientale, a c. di D. Facca, Warszawa 2008, pp. 118-124.
2 J. Bernoulli, Podróż po Polsce, in: Polska stanisławowska w oczach cudzoziemców, oprac. W. Zawadzki, t. 1, Warszawa 1963, pp. 327-476.
31
essenziale della formazione di un’aristocratico europeo. Il Grand Tour settecentesco si distingueva nettamente da quello delle epoche precedenti: l’Italia
ne divenne la meta e la conoscenza delle sue opere d’arte e delle sue antichità,
il suo scopo principale. I cerimonieri del Palazzo Apostolico annotarono con
grande stupore questo cambiamento, rilevabile persino nei viaggi di re e di
principi, e osservarono che nell’arco di tempo che andò dal pontificato di Clemente XIII a quello di Pio VI la presenza di principi e teste coronate raggiunse
a Roma dimensioni mai viste prima3. Questo fenomeno inoltre non era più collegato alla devozione ed alla diplomazia, cioè i moventi principali del viaggio
nelle epoche precedenti. Come annotavano i cerimonieri, la maggior parte dei
principi e dei re sceglieva infatti di andare a Roma in incognito, abbandonando così la parte ufficiale e cerimoniale di tale viaggio. Questo non significava
ovviamente che le tappe importanti della visita a Roma - come l’udienza dal
papa, la visita delle basiliche o la partecipazione alle celebrazioni liturgiche di
Pasqua o Natale - sparissero dal programma di questi importanti viaggiatori.
Il soggiorno a Roma dei re e dei principi, perduto il suo carattere simbolico
e cerimoniale, assomigliava infatti più a quello dei numerosi aristocratici che
visitarono l’urbe nella seconda metà del Settecento, che a quello dei loro grandi precedessori cinque- o seicenteschi. Questo cambiamento era dovuto da
un lato al progressivo indebolimento della posizione del papato nel sistema
politico europeo, e dall’altro all’importanza del fenomeno del Grand Tour, che
spinse anche le teste coronate ad intraprendere un viaggio ai fini della loro
formazione culturale.
I re e i principi anche se numerosi erano un’eccezione tra i viaggiatori
europei diretti verso l’Italia. Tra questi i più numerosi erano gli Inglesi, il che
non dovrebbe sorprendere, dato che il Grand Tour già in epoche precedenti
era considerato un’essenziale elemento della formazione di ogni gentlemen
(anche se lo scopo era allora soprattutto la conoscenza dei sistemi politici,
militari, ecc. degli stati visitati). La presenza delle nazioni che già prima consideravano il viaggio in Italia come un’importante elemento formativo (Inglesi,
Francesi) divenne quindi più massiccia, ma crebbe anche il numero di Russi,
Svedesi o Polacchi, che soltanto adesso scoprirono il fascino e l’importanza
di questa esperienza. Il Grand Tour della seconda metà del Settecento si caratterizza per una certa uniformità: i Grand-Touristi Svedesi, Polacchi, Russi
32
3 Città del Vaticano, Archivio Ceremonie Pontificie, vol. 34, fsc. 47, Regola riguardante li regali, che
soglionsi fare dai Sommi Pontefici alli re e alle regine, quando vengono in Roma e sono stati dal Papa.
o Francesi seguivano le stesse tappe, si vestivano e comportavano allo stesso
modo, frequentavano le stesse attrazioni. Questa uniformizzazione è particolarmente visibile se consideriamo i nobili Polacchi e Lituani, la cui apparizione a Roma o in altri centri italiani con un seguito ricco ed esotico, tipico
della cultura sarmata, destava nelle epoche precedenti stupore e meraviglia.
Invece, nella seconda metà del Settecento i nobili Polacchi e Lituani non si
distinguevano particolarmente dagli altri viaggiatori europei4. Essi usavano
le stesse guide e seguivano mode simili. Diventavano Grand-Touristi nel senso
pieno della parola: commissionando ritratti, acquistando anitchità, assistendo
agli scavi, partecipando attivamente alle conversazioni, grazie alla conoscenza
dell’italiano o del francese. Che questo modello culturale fosse oggetto di una
scelta consapevole è evidente in alcuni ritratti dei Polacchi in Italia, dove essi
vengono rappresentati secondo le convenzioni ritrattistiche del Grand Tour: i
fratelli Raczyński in un panorama che comprende il Colosseo e la Basilica di
San Pietro, il principe Stanisław Poniatowski con l’immagine del Vesuvio in
eruzione sullo sfondo, Stanisław Kostka Potocki rappresentato nella posa di
Goethe seduto nel teatro di un panorama della campagna romana marcata
della presenza di rovine.
La cultura del Grand Tour era molto apprezzata, in particolare nella formazione dell’aristocrazia polacca dell’epoca, moltissimi furono infatti
gli aristocratici ed in nobili, più o meno importanti, che intrapresero questo
viaggio. Essa deve essere comunque considerata ben oltre il fenomeno del
viaggio in sè, visto che si continuava a viverla ed a coltivarla anche dopo
il ritorno, durante gli incontri e le conversazioni. Il Grand Tour dei Polacchi
veniva vissuto soprattutto nel contesto culturale nazionale: appena giunti a
Roma, Firenze o Napoli, i Polacchi si informavano sui compatrioti presenti in
città, per capire chi evitare e con chi invece incontrarsi (le discordie di natura
politica non sparivano infatti quando si oltrepassava la frontiera). I conna4 Sul carattere polacco del Grand Tour vedi: E. Manikowska, Una nuova fonte per il viaggio in Italia
di Stanisław Kostka Potocki del 1785-1786. Il carteggio di Tommaso Antici, in: Archeologia Letteratura
Collezionismo. Atti del Convegno dedicato a Jan e Stanisław Kostka Potocki, a c. di E. Jastrzębowska e
M. Niewójt, Roma 2008, pp. 163-173; altri studi sul Grand Tour dei Polacchi: B. Biliński, Figure e
momenti polacchi a Roma: strenna di commiato, Wrocław 1992; T. Mikocki, A la recherche de l’art antique. Les voyageurs Polonais en Italie dans les années 1750-1830, Wrocław 1988; A. Sołtys A., Opat z
San Michele. Grand Tour prymasa Poniatowskiego i jego kolekcje, Warszawa 2008; Viaggiatori Polacchi
in Italia, a c. di E. Kanceff e R. Lewański, Geneve 1988; D. Wronikowska, Gli artisti romani e la corte
polacca al tempo di Stanislao Augusto Poniatowski (1764 - 1795), «Roma Moderna e Contemporanea»,
X, 1/2 (2002), pp. 113-129.
33
zionali si incrociavano agli stessi ricevimenti, spesso visitavano i monumenti
assieme, commissionava­no opere dagli stessi artisti. Nei loro resoconti e nelle
loro lettere la parte più importante era dedicata alla descrizione dei comportamenti dei compatrioti, come testimonia per esempio una lettera della contessa
Plater, che descrivendo le botteghe degli artisti e antiquari a Roma annotò
soltanto le commissioni destinate ad essere spedite in Polonia: «sono stata
dall’Antonini dove ho visto dei vasi in marmo bianco superbi, dei bassorilievi
– tutto doveva essere inviato al re, il busto della Grabowska e quello della sua
figlia fatti alla perfezione, dei ritratti di Raczyński e di sua moglie del Batoni, della Kauffmann e del Marotti.»5 Questi resoconti stesi in forma di lettere
e diari erano molto numerosi: spediti in patria, venivano infatti letti e commentati durante le conversazioni. Anche le più grandi autorità della cultura
Grand Tour erano dei Polacchi, con Stanisław Kostka Potocki ed il principie
Stanisław Poniatowski come autorità assolute in fatto della cultura antiquaria.
La cultura del Grand Tour ed il viaggio compiuto veniva obbligatoriamente evidenziato nelle residenze mediante le collezioni. Come si diceva, le
relazioni dei forestieri in viaggio a Varsavia descrivono questi palazzi e queste
ville come pieni di vasi, di statue, di stampe che rappresentavano le antichità
di Roma, tutti oggetti che i proprietari esibivano con orgoglio. L’importanza
degli acquisti artistici dei Polacchi nei centri italiani non si può comunque
spiegare soltanto nel contesto della cultura del Grand Tour. Varsavia, infatti,
era posta ai margini del mercato europeo degli oggetti culturali e l’accesso ad
essi era assai limitato. I viaggi diventavano quindi la più importante occassione per formare collezioni, abbellire e ammobiliare residenze con oggetti alla
moda, o di più alta qualità o della mano degli artisti più rinomati. Persino
uno dei principali elementi della collezione, il ritratto, immancabile in ogni
residenza aristocratica, veniva commissionato durante il viaggio, di solito in
Italia. Stanisław Kostka Potocki durante i suoi Grand Tour, oltre al ritratto
come viaggiatore sullo sfondo della campagna romana, ne commissionò altri, come quello opera di Anton Graff per cui posò a Karlsbad e soprattutto
l’enorme ritratto equestre destinato ad ornare la futura residenza del palazzo
di Wilanów, commissionato a Roma a Jacques Louis David. A Varsavia non
c’erano molti ritrattisti e il più importante di essi, Marcello Bacciarelli, era oc34
5 Wrocław, Biblioteka Ossolińskich, 4443/I, Mon voyage en Italie. Secondo livret 1785-86.
cupatissimo con le commissioni reali Le effigi commissionate dai nobili polacchi presso i più importanti ritrattisti, soprattutto di Roma e Napoli (Angelika
Kauffmann, Pompeo Batoni o Anton van Maron), non erano quindi solo un
frutto della cultura del Grand Tour, ma anche una necessità. Lo stesso si può
dire di acquisti artistici di carattere diverso, come le collezioni di quadri. I
viaggiatori compravano e commissionavano opere d’arte non solo a Roma e
non solo in Italia, ma anche negli altri importanti centri del mercato. Queste
opere riflettevano mode e gusti tipici non solo per il Grand Tour, come testimonia per esempio il grande prestigio dei quadri degli artisti olandesi. Nella
collezione di quadri del primate Michał Poniatowski, messa insieme soprattutto durante il Grand Tour intrapreso negli anni 1789-91 e che comprendeva,
oltre al viaggio in Italia, una visita a Londra e Parigi, è rappresentata tanto
l’offerta del mercato italiano (con i centri di Venezia, Firenze, Roma e Napoli)
che quella delle capitali della Francia e dell’Inghilterra6.
Le collezioni artistiche presenti nella Repubblica Polacca durante la seconda metà del Settecento non avevano quindi un carattere omogeneo, ma
riflettevano piuttosto l’offerta dei vari mercati europei che si trovavano lungo
gli itinerari dei viaggiatori. Non c’è dubbio però che la parte legata alla cultura Grand Tour ed alle antichità di Roma, di Napoli e della Magna Grecia
era la più preziosa, importante e stimata. Questo è ben visibile nelle collezioni più importanti e rinomate dell’epoca, quelle reali. La persona di Stanislao Augusto, nonostante il fatto che il monarca non avesse mai intrapreso un
viaggio in Italia, può ben dirsi imbevuta della cultura del Grand Tour. L’arte
era uno degli elementi che interessavano maggiormente il monarca a Roma
e negli altri centri italiani. A Varsavia in compagnia dei nunzi apostolici, dei
viaggiatori di ritorno dal Tour e degli artisti italiani, egli sfogliava le lussuose
edizioni stampate che riproducevano i capolavori dell’architettura, della scultura e della pittura di Roma, Firenze o Napoli, spesso chiedendo chiarimenti,
descrizioni o spiegazioni. Una parte assai significativa della corrispondenza
del segretario reale per le lettere italiane, Gaetano Ghigiotti, riguarda queste
piccole curiosità – quando e dove fu scoperto il monumento degli Scipioni
(in risposta giunse una piantina di Roma con segnalato l’esatto punto della
6 Su questo vedi: E. Manikowska, Acquiring Paintings for the Polish Court: King Stanisław August
(1764-1795) and his Dealers, in Art Auctions and Dealers. The Dissemination of Netherlandish Art during the Ancient Régime, D. Lyna, F. Vermeylen & H. Vlieghe eds., Brepols 2009, pp. 109-125.
35
scoperta), come si presenta l’Estasi di Santa Teresa del Bernini (anche in questo caso fu inviata a Varsavia una stampa rappresentante il monumento), ecc.
Alcuni dei clienti italiani del monarca, come il segretario e lo spedizioniere
dell’ambasciatore del re e della Repubblica a Roma, preparavano per il monaca dei bollettini con tutte le informazioni erudite, antiquarie e relative alle
arti7. Grazie a questi potenti mezzi d’informazione il monarca era un grande
conoscitore dell’arte e della cultura di Roma e degli altri centri italiani e di
come essa veniva vista e fruita. Il sovrano diventava persino un partecipante
virtuale a distanza degli incontri mondani, ricevendo descrizioni delle più
importanti discussioni e commissionando ritratti dei loro partecipanti. Nel
gabinetto di stampe e disegni del monarca si trovavano ad esempio i disegni
con le famose pose di Emma Hamilton, che alla fine del Settecento costituivano una delle principali attrazioni dei salotti di Napoli8. Un segno visibile della
cultura del Grand Tour e dei salotti romani era rappresentato nella collezione
reale dal ritratto della principessa Giuliana Falconieri Santa Croce, che fungeva da guida per le dame polacche in visita nell’urbe e teneva un’importante
salotto nel quale si parlava francese. La Santa Croce era per il re un simbolo di
Roma e nel 1792 egli le chiese un suo ritratto. La principessa, comprendendo
bene il suo ruolo, si decise per un sottile gioco allusivo ed allegorico, facendosi ritrarre nelle vesti di Lucrezia, l’eroina romana9.
Fin dall’inizio del regno gli elementi della cultura del Grand Tour erano
tra i più importanti ed i più visibili nelle collezioni via via allestite da Stanislao
Augusto. I quadri e le sculture più desiderati ed apprezzati dal monarca erano
quelli commissionati agli artisti celebrity attivi nei centri italiani, soprattutto a
Roma: Angelika Kauffmann, Anton Raphael Mengs, Pompeo Batoni, Antonio
Canova. Il re teneva molto all’acquisto ed al completamento di lussuose edizioni grafiche di raccolte d’arte e di antichità, come l’Etruria pittrice, le edizoni
delle Stanze del Vaticano, la raccolta di stampe del Museo Pio-Clementino o
la serie delle vedute di Roma di Giovanni Battista e Francesco Piranesi. Le
ordinazioni di copie in marmo e in gesso delle famose statue antiche che do7 Tra questi: Ignazio Brocchi, Carlo Antonini, Francesco Piranesi, Giuseppe de Chard e Pietro
Antonio Guattani.
8 I disegni sono oggi conservati al Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Universitaria di Varsavia.
36
9 Su questo ritratto vedi: A. Sołtys, Portret księżnej Santacroce. Dzieje sprowadzenia obrazu do galerii
Stanisława Augusta, „Kronika Zamkowa”, 1-2 (47-48), 2004, pp. 33-50.
vevano poi essere riunite in una galleria erano tra le più dispendiose e importanti commissioni legate al collezionismo di sculture. Un quadro di Raffaello
ed uno di Tiziano erano invece tra gli oggetti più bramati per le collezioni di
quadri di antichi maestri. Il monarca teneva molto anche agli oggetti che erano frutto della cultura del viaggio in Italia, come poteva essere un quadro con
la rappresentazione dell’eruzione del Vesuvio.
I Grand-Touristi acquistavano gli oggetti artistici ed allestivano le loro
collezioni prevalentemente durante i viaggi. Il monarca, invece, commissionò
e acquistò senza muoversi da Varsavia lungo tutto il suo regno. Dal punto di
vista logistico ed economico l’importante ruolo svolto dai centri italiani nella
formazione dell’arte e della cultura della corte dell’ultimo re della Repubblica
è sorprendente10. Nella seconda metà del Settecento la distanza che separava
Varsavia da Roma o Napoli era molto più grande di quella puramente geografica: per mandare i marmi o i quadri acquistati da Roma a Varsavia bisognava
servirsi di un sitema ben organizzato di spedizionieri. Un diretto collegamento commerciale infatti non esisteva: via mare la merce doveva cambiare nave
almeno tre volte, via terra passare attraverso varie dogane e venir più volte
reindirizzata. Pensando ad una spedizione di statue di marmo da Roma a
Varsavia bisognava quindi organizzare un difficilissimo e dispendioso trasporto su ben tre o quattro navi diverse con almeno tre tappe intermedie: Ripa
Grande o Civitavecchia – Marsiglia o Rouen – Amsterdam o Amburgo – Danzica. Se era possibile un trasporto via terra, anch’esso era assai complicato e
comprendeva ben quattro revisioni doganali: a Roma, a Vienna, a Trappau o
nelle vicinanze di Cracovia e alle porte di Varsavia. Il re disponeva comunque
di una ben organizzata rete diplomatico-commerciale che rendeva possibile
gli acquisti a distanza ed il loro trasporto a Varsavia. La formazione di collezioni di tipo Grand Tour si svolgeva quindi attraverso le vie diplomatiche
ed i contatti dei principali artisti di corte (soprattutto del romano Marcello
Bacciarelli). È comunque da sottolineare che il monarca poteva costituire le
sue collezioni basandosi su mercati meno dispendiosi e costosi e su reti meno
complicate, facendo ad esempio venire gli oggetti da collezione dai ben forniti
10 Sul sistema degli acquisti di Stanislao Augusto vedi: E. Manikowska, Der Erwerb von Kunst und
Luxusgütern für Stanislaw August Poniatowski und das Danziger Netzwerk, in: Land Und Meer: kultureller Austausch zwischen Westeuropa und dem Ostseeraum in der Frühen Neuzeit , hrsg. M. Krieger,
M. North, Köln 2004, pp. 109-128.
37
mercati di Dresda o di Berlino. Nonostante il fatto che la distanza tra Roma e
Varsavia fosse maggiore di quella tra Varsavia e Londra, Parigi, Vienna, per
non dire di Amburgo o Berlino, gli acquisti di oggetti d’arte in Italia sono stati
alla corte di Varsavia i piú significativi.
Come dimostra l’esempio di Stanislao Augusto, la spiegazione del fenomeno dell’importanza della componente italiana nelle collezioni della Repubblica nella seconda metà del Settecento attraverso il ruolo culturale svolto
dal viaggio in Italia è insufficente, come pure insufficente sembra essere una
sua lettura attraverso il prisma dei gusti e delle preferenze artistiche. La commissione di copie dalla statuaria antica oppure di quadri di Mengs, Batoni o
dall’Angelika o la sottoscrizione alle lussuose edizioni di antichità romane,
fiorentine e napoletane costituivano infatti una necessità, essendo all’epoca
commissioni d’obbligo per un monarca, dato che per loro tramite egli mostrava il suo potere ed il suo status11.
Dal momento della nascita del collezionismo artistico moderno, che
concise con l’umanesimo e con la definizione del quadro o della scultura come
oggetti valutabili per la loro qualità artistica, tali quindi da essere apprezzati
soprattutto se parte di una collezione, gli oggetti d’arte divennero un’importantissimo elemento della formazione culturale del principe e del monarca.
Questa ridefinizione della produzione artistica e l’importanza accordata al
collezionismo come prerogativa dei ceti più elevati ebbe luogo in Italia e la
produzione e fruizione di questi oggetti artistici del livello più elevato rimase
per lungo tempo domino dei suoi centri. I quadri, i preziosi oggetti d’oreficeria e persino le statue divennero un’importante elemento dei doni diplomatici
di rango più elevato utilizzati dalle corti di Firenze, Roma o Napoli e, pare,
con i loro aiuto si riusciva persino a concludere dei trattati di pace. Opere di
Raffaello, di Leonardo, del Correggio, dei Carracci o del Reni, nonchè preziosi oggetti eseguiti dal Cellini, i busti di Bernini e persino statue antiche
divennero gli oggetti di collezione più desiderati alle corti reali e principesche
dell’Impero, della Francia, dell’Inghilterra, della Spagna, degli stati tedeschi.
Nella seconda metà del Seicento e nel Settecento in importanti centri artistici
come Amsterdam, Anversa o Parigi furono lanciate delle mode artistiche che
riuscirono ad influenzare il collezionismo europeo (come quella per i quadri
38
11 Su questo aspetto vedi: E. Manikowska, Sztuka Ceremoniał Informacja. Studium wokół królewskich
kolekcji Stanisława Augusta, Warszawa 2007.
di genere olandesi o per le fêtes galantes francesi), che però non riuscirono a
mettere in discussione il primato delle componenti italiane delle collezioni.
La tradizione di attribuire un grande valore al collezionismo di matrice
italiana fu quindi alla base dell’enorme significato accordato nell’Europa del
Settecento alle staute antiche provenienti dagli scavi eseguiti nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli, dei quadri di Pompeo Batoni o alle stampe del
Piranesi. Anche in quest’epoca i sovrani degli stati e dei regni della Penisola
sfruttavano gli oggetti artistici da collezione come doni diplomatici di alto
livello. Il Papa donava ai monarchi ed ai principi in visita a Roma copie in
mosaico o in arazzo dei capolavori di pittura dei Musei Vaticani e tutti i volumi delle stampe del Piranesi. Il Re di Napoli usava invece i ricchi tomi in folio
delle Antichità di Ercolano, edizione a più volumi in cui venivano pubblicate
le scoperte degli scavi d’Ercolano e di Pompei. Dato l’enorme afflusso di viaggiatori, non paragonabile a quello delle epoche precedenti, negli stati e nei regni della Penisola vennero intelligentemente introdotte delle regole restrittive
per limitare l’accesso alle tanto desiderate opere da collezione. Il più importante problema era costituito dagli scavi, che senza una normativa adeguata
e senza controllo potevano portare alla spoliazione dello Stato Pontificio e del
Regno di Napoli. Fu così che a Roma per aprire delle cave bisognava ricevere
una licenza che imponeva di presentare tutti i ritrovamenti di antichità ad
un commissario, la cessione di parte dei ritrovamenti allo Stato Pontificio e
l’obbligo di vendita ai Musei Vaticani dei pezzi considerati dal commissario
come preziosi e unici. A Napoli la legge era ancora più severa e consentiva gli
scavi a Pompei ed Ercolano soltanto alle missioni organizzate sotto gli auspici
del regno. Limitato era anche l’accesso alle copie che nelle collezioni potevano
sostituire gli originali: a Roma e a Firenze il permesso di eseguire copie dagli
originali delle più famose statue dell’antichità e dei più famosi quadri rinascimentali, come la Venere de Medici, l’Apollo del Belvedere o la Venere d’Urbino di Tiziano, veniva concesso solamente in rari casi, quando il richedente
era un monarca o un principe12. Gli altri collezionisti dovevano accontentarsi
di commissionare copie eseguite da stampe, da modellini in bisquit o da altre copie, che evidentemente non raggiungevano la somiglianza all’originale
12 Questo era anche il caso di Stanislao Augusto, che si rivolse al Gran Principe della Toscana per
ottenere l’accordo di copiare la Venere Medici. Vedi: E. Manikowska, Sztuka …, cit., pp. 61-62.
39
delle copie eseguite direttamente da esso. Persino la riproduzione a forma di
schizzo o di disegno veniva a volte negata ai viaggiatori, come avveniva nel
Regno di Napoli, dove ai visitatori di Pompei ed Ercolano non era consentito
riprodurre gli oggetti archeologici scoperti in nessun modo. La conseguenza
fu un monopolio delle immagini delle scoperte archeologiche, distribuito secondo la volontà del monarca; le Antichità di Ercolano, infatti, non furono poste
in vendita, ma usate come dono per sovrani, principi e per le famiglie più nobili d’Europa13. Le immagini delle scoperte archeologiche effettuate nel Regno
di Napoli e gli oggetti che vi venivano trovati divennero così tra gli elementi
più ricercati e più preziosi delle collezioni, dato che di fatto ad esse avevano
accesso esclusivo i personaggi più importanti d’Europa.
I papi, i granduchi di Toscana, i re di Napoli riuscirono quindi ad istituzionalizzare la cultura del Grand Tour e per mezzo di questo controllo poterono aggiungere al collezionismo ad essa legato ancora maggiore rango e
pregio. Questo collezionismo era però diverso rispetto al passato, in quanto
dominio degli stranieri. Nel Cinque e Seicento i nobili ed i principi italiani,
attraverso la propia attività di mecenati e collezionisti, lanciarono la moda
di oggetti e di artisti che poi erano ricercati nelle più potenti corti d’Europa.
Nel Settecento gli unici a collezionare in gran scala secondo gli schemi del
Grand Tour erano i regnanti degli stati italiani – il Gran Principe di Toscana, il
Papa, il re di Napoli. Tuttavia, queste collezioni venivano organizzate secondo principi nuovi, nei musei, cioè attraverso l’esposizione pubblica ed il libero
accesso dei visitatori e dei viaggiatori delle opere più rinomate. Questa forma
costituiva un’altro importante elemento di controllo sulla cultura Grand Tour.
Questa situazione era dovuta da un lato alla crisi economica ed all situazione
di generale declino, che constrinse molte tra le più importanti famiglie italiane
a svendere le grandi collezioni invece che accrescerle; dall’altro però, sembra
che le collezioni sorte nell’ambito della cultura del Grand Tour fossero difficili
da immaginare nelle dimore italiane. Esse infatti nasceveno dal culto assoluto della cultura antica, dell’arte rinascimentale, del paesaggio italiano, dal
desiderio del loro possesso da parte dei nobili europei, che in questo modo
definivano la propria identità culturale14. Nell’Europa del Nord l’arrivo di
13 Stanislao Augusto ricevette questo dono nel 1763, ancora prima di diventare monarcha. Ibidem,
p. 234.
40
14 Questo importante aspetto è stato approfondito da Sabrina Norlander. Vedi: Portraiture and
copie della statuaria antica dall’Italia veniva spesso identificato con il lume
della cultura che si accendeva in terre fredde e barbare15. È stato giustamente notato che il più grande autore del nuovo genere di ritratto Grand Tour,
Pompeo Batoni, non dipinse mai un romano secondo questa convenzione, che
comportava la presenza dei celebri monumenti e delle celebre sculture antiche
dell’urbe sullo sfondo. I nobili italiani, infatti, erano i propietari e gli eredi di
una cultura della quale le altre nazioni europee volevano appropiarsi e con
la quale esse volevano identificarsi. La formazione di collezioni Grand Tour
sarebbe stata quindi per costoro un gesto inutile16.
La seconda metà del Settecento è sicuramente segnata dal trionfo del
gusto italiano nelle collezioni europee su una scala mai vista prima. Come ben
dimostra l’esempio della Repubblica, la cultura del Grand Tour e le mode ad
essa legate non erano ostacolate dalle frontiere e dalle distanze: le residenze
dell’aristocrazia polacca, come quelle di tutta l’Europa della seconda metá
del Settecento, venivano costruite secondo uno stile neoclassico con richiami
all’architettura della Roma antica e venivano fornite di acquisti fatti durante
i lunghi soggiorni nella cittá eterna (antichità, eleganti copie di famose statue
romane, ritratti del Batoni o della Kauffmann, tavolini in mosaico, ecc.). Persino le residenze reali di Stanislao Augusto che non andò mai Italia furono
costruite e ammobiliate secondo questi schemi. La nobiltà della Repubblica,
come quella francese o inglese, partecipò dunque pienamente ad un fenomeno culturale il cui significato potrebbe essere paragonato a quello del ruolo
svolto in quest’epoca della lingua Francese.
Social Identity in Eigtheenth-Century Rome, Manchester University Press 2010.
15 Vedi: E. Manikowska, The „Perseus” in the salon. Exhibiting, looking and describing Canova’s sculpture at the beginning of the nineteenth century, in Power and Persuasion. Sculpture in its Rhetorical
Context, U. Szulakowska ed., Warsaw 2004, pp. 113-123.
16 Su questo vedi S. Norlander, cit.
41
1. Antonio d’Este, Apollo Belvedere, 1790, commissionato da Stanislao Augusto
per il Palazzo di Łazienki, fot. Instytut Sztuki PAN
2. Giuseppe Angelini, Ercole Farnese, 1790-1792, commissionato da Stanislao Augusto
per il Palazzo di Łazienki, fot. Instytut Sztuki PAN
42
Witold Dobrowolski
•
Varsavia
I viaggiatori polacchi in Campania
e la conoscenza dei vasi greci in Polonia
Hugo Kołłątaj, uno dei principali rappresentanti del Siécle des Lumiéres in Polonia, che aveva grandissimi meriti a riguardo della modernizzazione del sistema educativo del paese, nella sua pubblicazione “Lo stato di educazione in Polonia nei ultimi anni del regno di Augusto III (1750 – 1764)”, nel
capitolo I viaggi all’estero, così descrive la situazione di allora, sottolineando
l’importanza dei viaggi per l’educazione della gioventù: “I viaggi a l’estero
verso le nazioni libere, in Italia, erano completamente trascurati; a parte dei
preti, poca gente andava li dove ci sono reppubliche, che custodiscono i più
famosi ricordi della grandezza della Repubblica Romana e ci sono presenti
modelli di buon gusto”1.
Cosi nel testo, influenzato dalla triste situazione del paese dopo la perdita della liberta alla fine del Settecento, erano definiti l’ideologia e gli scopi
educativi di Grand Tour, in accordo con i metodi empirici, gli ideali politici ed
estetici dell’Illuminismo. Kołłątaj sottolineava inoltre i mutamenti avvenuti
tra gli ultimi anni del regno di Augusto III e gli anni del regno del suo successore, Stanisław August Poniatowski, monarca pienamente imbevuto dall’ideologia del siècle des lumières2.
Nella seconda meta del Settecento centinaia dei polacchi visitarono
3
l’Italia . Lo scopo dei viaggi e la loro frequenza cambiarono a secondo degli
1 H. Kołłątaj, Stan oświecenia w Polsce w ostatnich latach panowania Augusta III (1750- 1764), a cura
di. H. Mościcki, Warszawa 1905, p. 138.
2 J. Fabre, Stanislas Auguste Poniatowski et l’ Europe des Lumières, Paris 1952; T. Mańkowski, Mecenat
artystyczny Stanisława Augusta, a cura di Z. Prószynska, Warszawa 1976; E. Manikowska, Sztuka,
ceremoniał, kultura, Zamek Królewski w Warszawie 2007.
3 E. Maliszewski, Bibliografia pamiętników polskich i Polski dotyczących (druki i rękopisy), Warszawa 1928; M. Loret, Gli artisti polacchi a Roma nel Settecento, Milano-Roma 1929; S. J. Gąsiorowski,
Badania polskie nad sztuką starożytną. Relacje podróżników-kolekcjonerstwo - badania naukowe, Kraków 1948; M. Bersano Begey, La Polonia in Italia. Saggio bibliografio (1799- 1948 ), Torino 1949; B.
43
interessi individuali, degli avvenimenti politico-sociali e della situazione culturale in Polonia. E’ altrettanto vero, che se si prende in considerazione una
cinquantina tra i viaggi più significativi e meglio documentati fatti dai preti,
dagli artisti, dai letterati e dagli aristocrati che visitarono l’Italia in quel tempo,
si notano negli ultimi quattordici anni del regno di Augusto III relativamente
pochi viaggi. Solitamente si tratta di ecclesiastici che concentrano la loro attenzione su Roma, centro del Cristianesimo e luogo di martirio di primi Cristiani4.
E pure vero che nei primi anni del regno di Stanisław August Poniatowski (fig. 1), monarca illuminista, i viaggi in Italia diventano più frequenti
e gli interessi dei viaggiatori si allargano ai problemi estetici, politici e sociali.
L’Italia divenne lo scopo principale del Grand Tour dei giovani aristocratici e
degli studi di perfezionamento degli artisti polacchi. La conoscenza dei monumenti superstiti dell’Antichità diventò un obbligo per tutti quelli che volevano vivere in accordo con loro tempo. Kajetan, Paweł e Jan Potocki, giovani
aristocrati, appartenenti ad una famiglia tra le più importanti della Polonia
(che alcuni anni più tardi, farà parte della schiera dei più attivi sostenitori
della politica delle riforme dello stato polacco), durante la loro permanenza
in Italia negli anni 1768 – 1770 e 1780, mostrarono un vivo interesse per l’Antichità e le scoperte archeologiche del tempo come documentano gli scritti del
loro precettore, il gesuita Grzegorz Piramowicz5. Pure Ignacy Potocki6, fratelBiliński, Viaggiatori polacchi a Venezia nei secoli XVII-XIX, in “Venezia e la Polonia nei secoli XVII
- XIX”,Venezia- Firenze1965, pp.341 417; idem, L’Italia dei viaggiatori illuministi polacchi (Michele
Mniszech,Gregorio Piramowicz, Michele Borch) in “L’Illuminismo Italiano e l”Europa”, Convegno
internazionale, Roma 25- 26 marzo 1976, Atti dei Convegni Lincei 27, pp. 7 – 52; idem, Viaggiatori
illuministi polacchi sul Vesuvio e nelle citta vesuviane in “La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi
e prospettive”. Atti del Convegno Internazionale, Napoli 11-15, 11, 1979, Napoli 1982, pp. 41 - 88;
A. Abramowicz, Dzieje zainteresowań starożytniczych w Polsce, vol. II, Czasy Stanisławowskie i ich
pokłosie, Wrocław-Warszawa-Krakow 1987; T. Mikocki, A la recherche de l’ art antique. Les voyageurs polonais en Italie dans les années 1750- 1830, Wroclaw-Warszawa-Kraków-Gdańsk-Łódź 1988;
Viaggiatori polacchi in Italia. Centro Internazionale di Ricerche «Viaggio in Italia. Biblioteca di
viaggi in Italia», Studio 28, Genève 1988; Grand Tour. Narodziny kolekcji Stanisława Kostki Potockiego. Cat. della mostra, Museo del Palazzo di Wilanów 2006; W. Dobrowolski, Stanisław Kostka
Potocki Greek’s Vases. A Study Attempt at the Reconstruction of the Collection, Warszawa 2007.
4 A titolo di esempio possiamo menzionare il viaggio di Remigiusz Zawadzki (1750) descritto nel
Diarium itineris A.R.P.Remigij Zawadzki ex ministra provincjalis Ordinis S. Francisci reformatorum Romam pro capitulo generali peregrinantis cum omnibus ejusdem itineris eventibus ob raedem peregrinante
descriptum 1750 (Biblioteca di Kórnik, n. 450) ed i viaggi di Jakub Langhaus, Itinerarium bożogrobowca gnieźnieńskiego ksiedza Jakuba Langhausa z roku 1768, in “Kurier Poznanski” 1890, pp. 104 121 e di Balcer Pstrokoński (Pamietniki księdza Pstrokońskiego kanionika katedralnego gnieźnieńskiego,
ed. E. Raczyński, Wroclaw 1844; T. Mikocki, op.cit., pp. 50 – 52.
5 E. Potocka, Lettere al marito Ignacy Potocki, Varsavia, AGAD, APP, MS 279 (b); G. Piramowicz,
Courte information sur les marais pontins et leur asséchement par le pape actuel rédigée lors d’un voyage
en ce lieu en 1780 (Varsavia, Biblioteca Nazionale II 6845).
44
6 S. Buyański, Wiadomości o Polakach, którzy kształcili się w Kolegium Nazareńskim XX Pijarów w Rzy-
lo di Stanisław Kostka, del futuro traduttore nella lingua polacca dell’opera
di Winckelmann, studiò a Roma dal 1765 al 1770. Vi studiò anche l’eminente
architetto Stanisław Zawadzki e tanti altri artisti7. Il pittore neoclassico Franciszek Smuglewicz, giunto nella Città Eterna nel 1763, vi rimase una ventina
d’anni. Durante questi, esso eseguì per James Byres i disegni che documentano l’architettura e le pitture delle tombe etrusche di Tarquinia, allora conosciute ed oggi perdute (per. es. Tomba Ceisinie, Tomba del Biclinio), oppure
fortemente danneggiate (Tomba Mercareccia; Tomba del Cardinale)8. Insieme
a Vincenzo Brenna, preparò i disegni per le tavole riproducenti le pitture della
Domus Aurea, pubblicati da Lodovico Mirri nel lussuoso album Vestigia delle
Terme di Tito9. Anche il pittore Tadeusz Kunze, giunto nella capitale nel 1747,
vi restò, con brevi intervalli a causa di vari soggiorni a Parigi, a Cracovia e in
Spagna, fino alla sua morte nel 1793, disegnando scene della vita romana e
decorando nello stile tardo barocco diverse chiese laziali10. Vanno menzionati
anche i viaggi in Italia di Michał Jerzy Wandalin Mniszech (1767-68), autore
del più antico progetto di un museo della nazione – però mai realizzato per
motivi economici11.
La confederazione di Bar, i quattro anni di lotta dei confederati con
l’esercito russo e lo stesso Stanislao Augusto, che di fatto hanno provocato
mie, ”Kwartalnik Historyczny” 9, 1897, p. 552 (n. 17 sulla lista degli allievi polacchi del Collegio).
Stanisław Kostka Potocki l’aveva accompagnato: T. Mikocki, op. cit. p. 62.
7 T. Mikocki, op. cit., p. 40; A. Sajkowski, Włoskie przygody Polaków. Wiek XVI – XVIII, Warszawa
1973, p. 130.
8 W. Dobrowolski, The Drawings of Etruscan Tombs by Franciszek Smuglewicz and his Cooperation
with James Byres, ”Bulletin du Musée National de Varsovie” 19, 1978, pp. 97 - 119; idem, La peinture
étrusque dans les recherches du XVIIIe siècle, in ”Archeologia” 41, 1990, pp. 29 – 41; idem, Dokumentacja grobow etruskich z Tarquiniów Franciszka Smuglewicza, in ”Złoty Dom Nerona”, Wystawa
w 200-lecie śmierci Franciszka Smuglewicza, Cat. della mostra presso il Muzeum Narodowe w
Warszawie, Warszawa 2008, pp.67 - 74.
9 Da ultimo: Złoty Dom Nerona.., passim; sulle pitture di Smuglewicz eseguite per il Palazzo Vescovile a Frascati e per il Palazzo Borghese al Campo Marzio, si veda il manoscritto di Mikołaj
Baliszewski presso l’ Istituto di Archeologia dell’Università di Varsavia.
10 M. Loret, Un predecessore polacco di Bartolomeo Pinelli, in Roma 7, 5, pp. 199- 202; Olg. Zagórowski, Kuntze Tadeusz, in ”Polski Słownik Biograficzny” 16, 1971, pp. 205- 207; A. Ryszkiewicz, Malarstwo Polskie. Manieryzm - Barok, Warszawa 1971, pp. 417- 423; Z. Prószyńska, Kuntze, in Słownik
artystów polskich i w Polsce działających, v. 4, Wrocław 1986, pp. 366- 374; B. Fijałkowska, L. Kania,
K. Mielcarek, Taddeo Polacco- Tadeusz Kuntze, cat. della mostra, Zielona Góra 1998 .
11 M. Mniszech, Myśli względem założenia Museum Polonorumi, in ”Zabawy przyjemne i pożyteczne z różnych autorów zebrane” 11, parte 2, pp. 212 - 216; anche B. Suchodolski, Nauka polska w
okresie Oświecenia, Warszawa 1955, pp. 317-325; K. Malinowski, Prekursorzy muzeologii polskiej, Poznań 1970, pp. 11- 22; B. Biliński, Bologna nel ritrovato manoscritto”Journaux des voyages” di Michele
Mniszech (1767), in ”Laudatio Bononiae”, Atti del Convegno, Warszawa 1991, p. 355 segg.
45
la prima spartizione del Polonia nel 1772, non hanno troppo favorito i viaggi all’estero. Una certa stabilità politica e sociale che ne conseguì, vide negli
anni ‘70 una consecutiva moltiplicazione dei viaggi. Vennero in Italia: Hugo
Kołłataj (1772 – 1774)12, il conte Stanislaw Kostka Potocki13 che negli stessi
anni compì i suoi studi a Torino, il famoso collezionista principe Stanisław
Poniatowski, lo scrittore e scienziato, soprattutto geologo, conte Jan Michał
Borch14, il poeta Tomasz Kajetan Wegierski15 e tanti altri.
Questa tendenza si mantenne fino alla caduta della Polonia. Così negli
anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta possiamo menzionare il viaggio
dell’architetto reale, assieme a Domenico Merlini, autore dei progetti delle
sale di rappresentanza del Castello Reale di Varsavia, Jan Christian Kamsetzer
(1780)16. Nella metà degli anni ottanta soggiornarono in Italia il consigliere
artistico del re, l’architetto conte Fryderyk August Moszyński17, il famoso col12 ”Polski Słownik Biograficzny” 6, 1948,p. 175; T. Mikocki, op.cit, pp. 52 - 53. Kołłątaj viaggiava
con il pittore Dominik Estreicher, autore del quadro ‘Kołłątaj et Dominik Estreicher sur le Vésuve
pendant une éruption”, riprodotto nell’Encyklopedia staropolska 2, 1939, p. 755.
13 Tra altri: T. S. Jaroszewski, B. Majewska-Maszkowska, Podróż Stanisława Kostki Potockiego do
Wloch w latach 1785- 1786 w świetle jego korespondencji z żoną, in ”Sarmatia artistica”. Księga pamiątkowa ku czci Wł. Tomkiewicza, Warszawa 1968, pp. 211 – 235; M. E. Żółtowska–Weintraub,
La première critique d’art. ecrite par un Polonais, in ”Dix Huitième Siècle” 6, 1974, pp. 325 – 341; A.
Abramowicz, Dzieje zainteresowań starożytniczych w Polsce, v.2, pp. 217 – 229; J. Polanowska, in
”Lettre d’un étanger sur le Salon de 1787; in ”Ikonoteka” 14, 2000, p. 237 -246; W. Dobrowolski, Stanisław Kostka Potocki, kolekcjoner - klasycysta- minister, in ”Ars et educatio. Kultura artystyczna Uniwersytetu Warszawskiego”, a cura di J. Miziołek, Uniwersytet Warszawski 2003, pp. 107 – 116;
M. Poprzęcka,”Wazary polski” Stanisława Kostki Potockiego, in ”Ars et educatio…”, pp. 117 – 129;
Grand Tour. Narodziny kolekcji Stanisława Kostki Potockiego, cat.della mostra nel Muzeum Pałacu w
Wilanowie, Warszawa 2006; W. K. Pomian, Winckelman polski, in ”200 lat muzealnictwa polskiego.
Dzieje i perspektywy”, Zamek Królewski w Warszawie 2006, pp.15 – 24.
14 J. M. Borch, Lettres sur la Sicile et sur l’île de Malthe de Monsieur le comte de Borch de plusieurs
Académies A.M. Le C. De N écrites en 1777 pour servir de supplément au voyage en Sicile et à Malthe de
Monsieur Brydonne, Torino 1782; L. H. Tuzet, La Sicile au XVIIIe siècle vue par les voyageurs étrangers,
Strasbourg 1955; Br. Biliński, L’Italia dei viaggiatori illuministi polacchi. I. Michele Mniszech, Gregorio
Piramowicz, Michele Borch, in “L’Illuminismo italiano e l’Europa”, Atti del Convegno Lincei 27,
Roma 1977, pp. 7 ss; T. Mikocki, art.cit., pp. 53 – 54.
15 L. Siemieński, Podroże i pamiętniki Tomasza Kajetana Wegierskiego, in ”Biblioteka Warszawska”
10, 1850, n. 4; S. Kossowski, Z życia Kajetana Wegierskiego Pamiętniki i listy, in ”Przewodnik Naukowy i Literacki” 36, 1908, p. 43ss; T. Mikocki, op. cit., pp. 55-59.
16 Z. Batowski, Podróże artystyczne J. Ch.Kamsetzera w latach 1776-77; 1780-82, Warszawa 1935; T.
Kossecka, Gabinet Rycin króla Stanisława Augusta, Warszawa 1999, pp. 222- 223; M. KrólikowskaDziubecka, Podróże artystyczne Jana Chrystiana Kamsetzera (1776-1777; 1780-1782) architekta w służbie króla Stanislawa Augusta Poniatowskiego, Warszawa 2003; (disegni da Roma, Albano, Tivoli,
Capua, Posilippo, Tomba di Virgilio, Pozzuoli, Baiae, Paestum, Segesta, Selinunto, Agrigento,
Siracusa, Etna, Taormina).
46
17 A. Moszyński, Dziennik podróży do Francji i Włoch 1784- 1786. Tradotto da Bożena Zboińska- Da-
lezionista e nipote del re, il principe Stanisław Poniatowski (1785)18, il conte
Stanisław Kostka Potocki, il noto traduttore in polacco della “Geschichte der
Kunst im Altertums” di J.J. Winckelmann19. Potocki era accompagnato dal
suo architetto Christian Piotr Aigner20, dalla sua suocera, la principessa Izabela Lubomirska21 e dal suo cugino, il futuro scrittore e famoso viaggiatore
Jan Potocki22.
I viaggiatori degli anni ’60, di regola, scendevano fino a Roma, che era
lo scopo principale del loro soggiorno in Italia. Le escursioni a Napoli e nei
suoi dintorni, cioè Pompei, Portici, Pozzuoli, Baia si moltiplicarono negli anni
‘70 e divennero la norma negli anni ‘80.
L’interesse dei viaggiatori per i vasi greci dipinti si sviluppò proprio in
quest’ ultimo periodo. La sua origine deve essere messa in relazione con la
moda resa internazionale dalla fervida attività di Sir William Hamilton, ambasciatore britannico presso la corte napoletana che, dal suo arrivo nella città
szyńska, Kraków 1970; T. Mańkowski, Kolekcjonerstwo Stanisława Augusta w świetle korespondencji
z Augustem Moszyńskim (1926), in Mecenat artystyczny Stanisława Augusta, a cura di Z. Proszyńska,
Warszawa 1976, pp 21- 63; T. Mańkowski, August Moszyński architekt polski XVIII stulecia, in ”Prace
Komisji Historii Sztuki” 4,1928, 2, pp. 169- 230; B. Biliński, August Moszyński, un illuminista polacco
visitatore critico della Roma settecentesca, in ”Strenna dei Romanisti” 1981, pp. 536 - 561; T. Mikocki,
op. cit., pp. 66-67; W. Dobrowolski, op.cit., pp. 30 – 32.
18 J. Korzeniowski, Souvenirs du prince Stanislas Poniatowski, ”Revue d’ Historie Diplomatique” 9,
1895; St. Poniatowski, Pamiętniki synowca Stanisława Augusta, a cura di J. Łojek, Warszawa 1979;
A. Busiri Vici, I Poniatowski a Roma, Firenze 1971, p. 318; E. Budzińska, Pamiętnik polityczny i podróży nieznanego autora, czyli druga podróż do Włoch księcia Stanisława Poniatowskiego, in ”Biuletyn
Historii Sztuki” 39,3,1977, p. 287 - 295; T. Mikocki, op. cit., pp. 68 – 70; J. Kolendo, Największy
skandal dziejach badań nad gliptyka antyczna. Kolekcja gemm ks. Stanisława Poniatowskiego, ”Studia
archeologiczne” 1, 1981, pp. 81 – 99; O. Neverov, Kolekcje dzieł sztuki dwóch Poniatowskich, in ”Archeologia” 32, 1981 (1984), p. 71ss; A.Abramowicz, Dzieje zainteresowań starożytniczych w Polsce, v.
2, pp. 106 – 107; T. Mikocki, Najstarsze kolekcje starożytności w Polsce, Ossolineum 1990, pp. 80 – 81;
W. Dobrowolski, Stanisław Kostka Potocki’s Greek Vases..,pp. 37 – 40.
19 M. L. Bernhard, O sztuce u dawnych czyliu Winkelman Polski Stanisława Kostki Potockiego, ”Rocznik Historii Sztuki” 1, 1956, pp. 514 – 521; W. Dobrowolski, in ”Ars et Educatio.. ”, loc. cit.; W.K.
Pomian, op. cit. loc.cit.
20 Stanisław Kostka Potocki, Le lettere da Napoli alla moglie, AGAD, APP MS 262, c. 279, 290:
W. Dobrowolski, op. cit., p. 82. T. Jaroszewski, Christian Piotr Aigner. Architekt warszawskiego
klasycyzmu,Warszawa 1970.
21 M. L. Bernhard, Stanisław Kostka Potocki – kolekcjoner waz greckich, in ”Meander” 6, 1951, p.431
– 449; B. Majewska-Maszkowska, T. Jaroszewski, op. cit. p.211- 234; B. Majewska- Maszkowska,
Mecenat artystyczny Izabelli z Czartoryskich Lubomirskiej 1736- 1816, Wrocław 1976, p. 55 ss; T. Mikocki, Najstarsze kolekcje starożytności w Polsce, Ossolineum 1990, pp. 26 – 33; W. Dobrowolski,
op.cit., pp. 44 - 50.
22 Da ultimi Fr. Rosset, D. Triaire, Jean Potocki. Biographie. Paris 2004= Jan Potocki. Biografia.trad.
A. Wasilewska, Warszawa 2006; AA.VV., “Archeologia- Letteratura - Collezionismo”, Atti del
Convegno dedicato a Jan e Stanisław Kostka Potocki. 17-18 aprile 2007, Roma 2008.
47
partenopea, si è messo con passione a collezionare vasi23, resi poi noti in tutta
l’Europa grazie al bellissimo libro “Les Antiquités…” curato da d’Hancarville24. Il Conte Fryderyk August Moszyński durante suo soggiorno napolitano
nel 1785 descrive la nuova moda in questi termini: “Tel a été jusqu’ici le sort
des arts à Naples qu’on y négligerait encore plus sans le concours des étrangers qui viennent y chercher et déterrer ce que les nationaux laissent avec
indifférence; ce n’est par exemple que depuis que Monsieur Hamilton a mis
en vogue le Vésuve et les vases étrusques que les Napolitains veulent avoir
des collections, et font cas de celles qu’ils avaient en ce genre; on ne pense presque plus aux tableaux… on ne veut que des vases étrusques, c’est le faveur
de jour, on se les arrache et les Napolitains qui connaissent mieux la valeur
des onces que celle d’une terre cuite profitent merveilleusement de ce délire
des étrangers”25.
Oggi sappiamo bene che i Napoletani si vantavano già alla fine del Sei26
cento delle collezioni di vasi dei loro Greci, ma la moda di collezionare i vasi
dipinti divenne internazionale solo durante la seconda metà del Settecento,
e dunque in gran parte grazie a Sir Hamilton. Sembra ovvio che il principe
Stanisław Poniatowski, la principessa Izabella Lubomirska, il conte Stanisław
Kostka Potocki e lo stesso conte Fryderyk August Moszyński che avevano
conosciuto Hamilton durante la loro permanenza a Napoli nel 1785 e nel 1786
fossero tutti contagiati da quella malattia en vogue, benché esistessero tra loro
fondamentali differenze d’interessi, di preparazione e di sensibilità artistica.
Il Principe Stanisław Poniatowski (fig. 8), nipote del re Stanisław August, ricevuto alla corte napoletana con dovuti onori, era particolarmente
23 B. Fothergill, Sir William Hamilton Envoy Extraordinary, London 1969; F. Haskell, Baron
d’Hancarville. An adventurer and art historian in eighteenth century Europe, in “Past and Present in
Art and Task”. Selected Essays. New Haven and London 1987, pp. 30 – 45; C. Knight, Hamilton a
Napoli. Cultura, svoghi, civilta di una grande capitale europea, Napoli 1990; N. H. Ramage, Sir William
Hamilton as Collector, Exporter and Dealer, “American Journal of Archaeology”, 94, 1990, pp. 469
- 480; I. Jennkins, K. Sloan, Vases and Volcanoes. Sir William Hamilton and his Collection, British Museum Press 1996; S. Schütze, M. Gisler - Huwiler, Complete Collection of Antiquities from the Cabinet
of Sir William Hamilton, Köln - London – Los Angeles – Paris – Tokio 2004.
24 Hugues P. Fr (d’ Hancarville), Antiquités tirées du Cabinet de M. Hamilton envoyé extraordinaire
de S.M. britannique en Cour de Naples, v. 1- 4, Naples - Florence 1767 - 1776; P. Griener, Le antichità
etrusche, greche e romane 1766 - 1776 di Pierre Hugues d’Hancarville. La pubblicazione di ceramiche
antiche della prima collezione Hamilton, Roma 1992.
25 A. Moszyński, op.cit., p. 517
48
26 M. E. Masci, Documenti per la storia del collezionismo di vasi antichi nel XVIII secolo, Napoli 2003, p.
18, pp. 55 - 56; idem, Picturae Etruscorum in Vasculis.La raccolta vaticana e il collezionismo di vasi antichi nel primo Settecento, Musei Vaticani 2008, p. 18 :“Fino alla fine del XVII sec. non si può però parlare di intento collezionistico ne di una intenzione particolare per questo genere di antichità”.
compiaciuto del dono fatto dal Re di alcuni imponenti vasi italioti27. Il bel cratere apulo dalla metà circa del IV sec. a. C., appartenente al Gruppo Vaticano
W 4, e conservato presso il Museo del Vaticano, aveva probabilmente questa
regale origine28. Il giornale scritto dal principe durante quel viaggio testimonia il vivo interesse per le antichità in generale e le scoperte archeologiche del
momento29. Suo soggiorno napoletano comminciò dalla visita a Sir Hamilton
dove prese conoscenza della sua raccolta di vasi. Sappiamo delle escursioni
fatte del principe a Capua, a Caserta, a Capri, a Portici, a Pompei ed a Salerno. Di ritorno dalla Sicilia aveva visitato o rivisitato Nocera, Nola, Pozzuoli,
Baiae, Pompei, Portici e Caserta. Il suo Giornale descrive una sua visita al
marchese La Vega e dedica diverse pagine alla descrizione di Pompei. A Nola
dove si è recato in compagnia del noto numismatico l’abate Zarillo, nella sua
presenza: “on a déterre… beaucoup de squelettes couchant en long et auprès
desquels on trouve toujours des vases”30. Ma i vasi antichi in generale non
rientravano nelle sue opere preferite e Stanisław Kostka Potocki nelle lettere a
sua moglie derideva le sue acquisizioni di vasi falsi31.
August Moszyński (fig. 2) si distingueva tra tutti altri viaggiatori polacchi per la sua maturità intellettuale, la sua profonda conoscenza delle arti e
27 St. K. Potocki, O sztuce u dawnych czyli Winkelman Polski, Warszawa 1815, p. 55: “Il principe
Stanislao Poniatowski ne aveva un numero scelto, tra i quali un enorme vaso di rara bellezza,
regalatoli dalla corte napoletana...”. Anzi, due, vedi A. Busiri Vici, art.cit., Firenze 1971, p. 318.
28 A.D.Trendall, A. Cambitoglou, The Red-figured Vases of Apulia, vol.1, Oxford 1978, p. 408, n. 60,
n. inv. 17162; W. Dobrowolski, op.cit., p. 40.
29 T. Mikocki, op. cit., pp. 68 – 70.
30 St. Poniatowski, Mémoires de politique et de voyage d’ un auteur inconnu, AGAD, Zb. Popielów, 427,
f. 227. Il numismatico, l’abate Mattia Zarillo, era anche membro dell’ Accademia Ercolanese, in
contatto con Winckelmann e molti stranieri tra i quali si può nominare oltre a Stanislao e Michele
Poniatowski,quest’ultimo primate di Polonia, Stanislao Kostka Potocki e Elisabetta Lubomirska.
Nella lettera del 12 agosto 1766 inviata dal ministro Tanucci al re Carlo III, Zarillo è accusato di
essere coinvolto in un traffico illegale di antichita: Però il 24 agosto del 1784 lo stesso divenne il
direttore del Museo e dell’Accademia di Capodimonte. Durante il regno francese, Zarillo è stato
nominato risponsabile per gli scavi di Pompei. Dopo il ristauro degli Borboni è costretto ad andare per cinque anni a Parigi dove si occupò del Cabinet des Médailles: J.J. Barthélemy, Voyage
en Italie, Paris 1826, pp. xviii- xxi; W. Dobrowolski, La collezione dei vasi greci di Stanisław Kostka
Potocki, in Archeologia Letteratura Collezionismo, Roma 2008, p. 204, n. 6; M. Cesarano, Stanisław
Kostka Potocki e gli scavi a Nola, ibidem, p. 188.
31 St. K. Potocki, lettere alla moglie dal 28 Gennaio (AGAD, APP MS 262): «le prince Stanislas lui
a acheté deux fragments de Cume pour 1400# en outre trois statues et tout plein de drogues qu’il a payé
en prince de sang. L’on fait ici pour lui à la porcelaine deux Vases Etrusques, j’en rirai de bon ceur si je les
revois en Pologne. Il a laissé le soin de ses emplettes en ce genre au cavalier Venuti directeur de la Fabrique
de porcelaine qui pour le bien servir fait travailler ses Vases antiques sous ses yeux».
49
della storia, l’acutezza dei suoi giudizi e la vastità dei suoi interessi culturali32.
Amico del re, era stato, per un lungo periodo, curatore delle raccolte reali. Nutriva una profonda passione di collezionista e spendeva i propri soldi nonché
quelli reali, senza badare molto allo stato finanziario suo e del re, suo amico.
Perseguitato da debitori e dimesso delle sue funzioni, si recò in Francia e in
Italia nel 1784; per morire due anni dopo a Padova. Il suo interesse per la ceramica antica risale al suo primo soggiorno in Italia nel 1747. In quel anno cercò
dei reperti antichi sul Testaccio e trovò dei bei frammenti di vasi e di lucerne
romane. Nel 1785, fu l’unico polacco del Settecento che si recò a Volterra per
ammirare le urne etrusche e i vasi di bucchero, che li piacevano per l’originalità e l’eleganza delle forme33. Durante il suo soggiorno napolitano cercò invano
di persuadere il re di comprare una piccola collezione di vasi: “Mais une chose
que je désirerais de Vous faire l’acquisition, c’est une très belle collection de
Vases Étrusques gu’a l’aide de Sagramoso j’ai déterré en Corre (?), il est presque impossible d’ en avoir, tant ils sont rares, je le regarde aussi comme une
trouvaille. Les formes en sont charmantes. Les peintures belles et la conservation parfaite”34. La risposta del re fu secca e categorica: “Je Vous remercie
du soin que Vous avez pris pour m’envoyer les desseins de cette collection de
vases Étrusques. Me je n’en veux point”.35 Il re possedeva una ventina di vasi
antichi e questo numero li sembrava sufficiente36. Moszyński per lungo tempo
non potete dimenticare quell’occasione mancata.
Stanisław Kostka Potocki (fig.4) godeva in Polonia della diffusissima
fama di essere il miglior conoscitore polacco di vasi dipinti. Quest’opinione
si basava soprattutto sull’ alto apprezzamento della sua collezione di 115 vasi
formata, tra la seconda metà di dicembre 1785 e febbraio 1786, con vasi che,
secondo quello che lui stesso aveva scritto nel libro O sztuce u dawnych czyli
Winkelman Polski in gran parte dovevano provenire dagli scavi fatti a proprie
32 Vedi sopra, n. 17. Inoltre T. Kostkiewiczowa, L’Italie vue par des Polonais éclairés. Relation des voyages de Stanisław Kostka Potocki et d’August Moszyński, in Viaggiatori polacchi in Italia,”Biblioteca
del viaggio in Italia” 28, Genève 1988, pp. 203- 215
33 A. Moszyński, op. cit. p.180; W. Dobrowolski, op.cit., p. 32
34 Lettera di Moszyński al re del 10 ottobre 1785 da Napoli, Cracovia, Biblioteca Czartoryski, ms
676, p. 1930.
35 Lettera del 9 novembre 1785. Cracovia, Biblioteca Czartoryski, MS 676.
50
36 J. B. Albertrandi, Resoconto dello stato attuale della Camera delle Antichita del Re dal 10 aprile 1793,
Varsavia, AGAD, Archivio del principe Giuseppe Poniatowski, ms 511, menziona solo 20 vasi
antichi.
spese a Nola37, probabilmente nel territorio di Cimitile, in località Teglia38. L’
importanza di questi scavi per la formazione della raccolta e per la conoscenza pratica dei vasi greci è stata fortemente esagerata dagli studiosi del dopo
guerra39. Oggi sappiamo che il risultato delle sue ricerche nolane fu abbastanza mediocre. Con sicurezza possiamo identificare solo un vaso attico a figure
nere (fig. 5) – l’anfora dooblins del pittore di Edinburgo dell’inizio del V sec.
a. C.40. Ma la descrizione della forma di tomba, l’attenzione alla posizione
dello scheletro e all’esatta disposizione del corredo composto da un’oinochoe
(?) di bucchero (?) e da parecchi lacrimatoi (o forse lekythoi), come anche il
tentativo di dare un’interpretazione in chiave sociale della tomba, basandosi
sul tema della decorazione figurata del vaso attico di corredo, ci permettono
di pensare, che il nostro scavatore, arrivato a Napoli con il modesto progetto di comprare alcuni vasi per decorare gli armadi della biblioteca del suo
palazzo di Varsavia, dopo gli acquisti dei primi vasi attici nel dicembre del
1785, cominciò seriamente interessarsi di ceramica antica, visitando le collezioni (sopratutto la ricca raccolta dei fratelli Vivenzio a Nola) e parlando con
studiosi di Napoli e di Nola tra i quali si dovrebbe nominare il numismatico
abate Zarillo, antiquaire du roi, Pietro Vivenzio di Nola e Domenico Venuti,
direttore della Reale Fabbrica di porcellana41. Aveva fatto in qualche modo
sue le regole stabilite dall’archeologia partenopea del tempo. Anche la sua
avventura archeologica costituiva per lui una fonte di informazioni sugli usi
funerari, sulla cronologia e sul ceto sociale del defunto.
37 Si veda principalmente M. L. Bernhard, Greckie malarstwo wazowe, Wroclaw – Warszawa - Kraków 1966, p. 98.
38 M. Cesarano, art.cit., in Archeologia – Letteratura - Collezionismo, p. 188.
39 W. Dobrowolski, op. cit., pp. 66 - 67.
40 M. L. Bernhard, Amfora malarza Edynburskiego w Muzeum Narodowym w Warszawie, in ”Archeologia” 5, 1955, pp. 170 – 176; W. Dobrowolski, Poglady Stanisława Kostki Potockiego na wazy greckie w
swietle opinii współczesnych,in ”Biuletyn Historii Sztuki” 34, 2, 1972, pp. 168 – 177; W. Dobrowolski,
Stanisław Kostka Potocki a greckie wazy malowane, ”Biuletyn Historii Sztuki” 50, 1988, pp. 71 – 81;
W. Dobrowolski, Amfora malarza Edynburskiego z Kolekcji Wilanowskiej (w) Księga Pamiątkowa ku
czci prof. Z. Żygulskiego,Cracovia 2006.
41 W. Dobrowolski, Poglady Stanisława Kostki Potockiego na wazy greckie.., p. 176; idem, Stansław
Kostka Potocki a greckie wazy malowane..., pp. 71 - 81; idem, op.cit., pp. 66 - 67; idem, La collezione
dei vasi greci di Stanisław Kostka Potocki.., pp. 207 – 28; M. Cesarano, art . cit., p.188 suppone che
il don Vicchioni menzionato nella lettera di Potocki alla moglie del 14 gennaio possa essere lo
stesso abbate Ignazio Vecchioni con il quale il Principe Stanislao Poniatowski assistette agli scavi
a Nola il 26 novembre 1786. Su Pietro Vivenzio, si veda l’intervento di Salvatore Napoletano, in
questo volume.
51
Al suo arrivo nella città partenopea, Potocki possedeva una conoscenza
della ceramica non superiore a quella della sua suocera Lubomirska (fig.7)
alla quale servì di consigliere artistico e alla quale fece comprare alcuni vasi
di cucina - cioè d’impasto (fig. 8) e bucchero - di scarso valore commerciale
all’epoca42. Ben presto però i suoi consigli cominciano a portare ad una migliore cultura della materia (fig.9). Quando preparò nei primi anni dell’800 il
testo di Winkelman Polski, il conte mostra una ben più profonda conoscenza
del problema. In accordo con le opinioni espresse in particolare da Vivenzio43,
il conte distingue i vasi orientalizzanti corinzi con tipici fregi zoomorfi che secondo lui si trovano nelle tombe poste negli strati più profondi e dunque sono
i più antichi44. Insieme con i vasi attici a figure nere esse formano una prima
fase dello sviluppo del disegno greco (fig. 6). Attribuisce i vasi attici a figure
rosse ai Greci della Campania e li chiama anche “nolani”. I vasi italioti sono
considerati “siciliani” e egli li attribuisce allo stesso periodo dei vasi “nolani”
perchè mostrano, lo stesso grado della perfezione nel disegno45.
Come alcuni di suoi contemporanei, l’interesse di Potocki per le antichità aveva uno scopo unicamente pratico. I vasi li servivano come esempi della bellezza e della perfezione antica di cui voleva conoscere le regole
e le norme pratiche, utili al miglioramento dell’ arte contemporanea. Così il
conte era stranamente indifferente di fronte al contenuto delle scene figurate;
l’interessava solo la bellezza formale dell’ oggetto46. Coerente con questa sua
posizione i vasi avevano servito da modello per l’ esecuzione dopo 1787 di
imitazioni che servivano alla decorazione degli scaffali della sua biblioteca47.
42 W. Dobrowolski, Impasti e buccheri di Wilanów. Il problema delle origini della collezione, in Gli
Etruschi e la Campania Settentrionale, Atti XXVI Convegno di Studi Etruschi e Italici, 2007, (in
stampa).
43 Per convincersi basta paragonare la descrizione dei vasi corinzi nel O sztuce u dawnych…, vol.2,
pp. 45-46, con le informazioni date da Pietro Vivenzio a F.Münter, Nachrichten von Neapel und Sizilien auf eine Reise in den Jahren 1785 und 1786, Copenhagen 1790, pp. 60 - 63 e a Franciszek Bieliński:
T. Mikocki, Franciszek Bieliński i jego podróż do Włoch, “Meander” 1981, pp. 463 – 470.
44 S. K. Potocki, O sztuce u dawnych, vol.. 2, pp. 45- 46
45 W. Dobrowolski, in Grand Tour. Narodziny kolekcji Stanislawa Kostki Potockiego, Catalogo della
mostra presso il Muzeum Pałac w Wilanowie 15 novembre 2005 – 7 maggio 2006, p. 255.
46 W. Dobrowolski, Stanisław Kostka Potocki,kolekcjoner, klasycysta,minister, in ”Ars et educatio”.
Kultura artystyczna Uniwersytetu Warszawskiego, a cura di J. Miziołek, Warszawa 2003, pp.
107 – 109.
52
47 M. Bernhard, Naśladownictwa waz greckich, in ”Biuletyn Historii Sztuki” 13, 1951, n. 4, pp. 194
– 203; W. Dobrowolski, Naśladownictwa waz greckich Stanisława Kostki Potockiego jako źródłowiedzy o
jego kolekcji, “Rocznik Muzeum Narodowego w Warszawie”, 33-34, 1989 - 1990, pp. 515 – 563.
La suocera di Stanisław Kostka Potocki, Izabela da Czartoryski Lubomirska che nei tempi della sua giovinezza amava suo bel cugino Stanislao
Poniatowski, ma finì per odiarlo quando lui dopo la sua elezione si allontanò
da lei (fig.7). L’esito infelice di un complotto contro il re, in cui aveva coinvolto
anche suo genero Stanisław K. Potocki, era la causa della loro partenza per
l’Austria e l’Italia nel 1785. Nell’acquisto delle opere d’ arte in Italia, Lubomirska si fidò della conoscenza e dell’esperienza del suo genero che aveva fatto
gli studi in Bel Paese e godeva in Polonia una indiscutibile fama di esperto.
Però i suoi primi consigli a Napoli, sicuramente non sono stati felici. Così il
conte Moszyński che, come amico del re, aveva ragioni per essere un giudice
critico, aveva maliziosamente scritto al sovrano il 7 marzo 1786: “Gli Italiani
dicono che gli Inglesi hanno finito di sprecare i soldi e che sono ora i Polacchi
che hanno preso il loro posto. E’ certo che la Principessa (si tratta di Lubomirska - WD) ha comprato qui un gran numero di pacotilles che sicuramente non
valgono di essere portati a casa; ora che se ne accorto, compra cose migliori”48.
E’ da supporre che con questi pacotilles si deve identificare il gruppo di circa
quaranta vasi d’ impasto (fig. 8) e di bucchero che attualmente sono la proprietà del Museo di palazzo di Wilanów. Accennando alle “cose migliori”,
Moszyński pensò certamente all’anfora di Hermonax (fig. 9), al cratere attico
con raffigurazione di Ulisse e Circe49, e forse ad un’anfora a figure nere del
Pittore BMN con uomini in corsa50, ai quali forse si riferisce Stanisław Kostka
Potocki nella lettera alla moglie del 3 febbraio da Napoli: “Ta mère en arrivant
en acheta trois ou quatres beaux qu’on lui fit payer au poids d’or, en outre
beaucoup de drogues qui nous parurent merveilles pour le moment”. Così lui
stesso si sentì responsabile per l’acquisto di queste drogues – strana espressione peraltro - che la sua suocera non aveva voluto prendere con se a Łańcut
e che sono rimasti a Wilanów, ma non sono mai stai inseriti nella collezione di
cui Potocki stesso ed i suoi discendenti si sentivano cosi fieri.
Secondo il Winckelmann polacco una delle più grandi collezioni di vasi in
Polonia apparteneva a Michał Walicki51. La sua raccolta conteneva quasi due48 A. Moszyński, Lettera al re Stanislao Augusto Poniatowski, scritta da Napoli il 7 marzo 1786. Cracovia, Biblioteca Czartoryski, MS 676,p. 2202.
49 Si rinvia a C. Benson, in Pandora. Women in Classical Greece, a cura di E. D. Reeder, catalogo della
mostra in Walters Art Gallerie, Princeton, New Jersey 1995, pp. 405 - 406.
50 W. Dobrowolski, in Sport i igrzyska olimpijskie w starożytności, catalogo della mostra, Museo
Nazionale di Varsavia 2004, p. 123.
51 S. K. Potocki, O sztuce u dawnych.., v.2, pp. 54 - 55.
53
cento pezzi, tra i quali una trentina comprata dal conte siciliano Pietrapersia
ed un gruppo non precisato proveniente dalla collezione dei Teatini, custodita
nella biblioteca del convento accanto alla chiesa dei Santi Apostoli a Napoli52 e
formata negli anni venti e trenta dal padre Eustachio Caracciolo. Dopo la scomparsa dello stato polacco i vasi di Walicki sono stati portati a Pietroburgo e li
venduti. Di tutta la collezione, mi è stato possibile identificare all’Hermitage
un solo cratere con la Gigantomachia di Dioniso del Pittore Blenheim53. E’possibile che alcuni vasi di minor importanza siano stati venduti da Walicki alla
principessa Elena da Przeździecki Radziwiłł e che si trovino ora nel Palazzo di
Nieborów54. Nelle raccolte dello stesso palazzo c’è infatti una imitazione settecentesca (fig.10) del cratere del Pittore Blenheim, fatto a Varsavia intorno al 1790.
Questa sommaria rassegna delle collezioni vascolari, sicuramente incompleta, che i viaggiatori polacchi portarono dall’Italia, e principalmente da
Napoli, nella seconda metà del Settecento, ed insieme ai vasi, sommarie informazioni sul materiale ceramico, evidenzia quante enormi siano state le perdite dei collezionisti polacchi durante duecento anni di distruzioni, spogli e sequestri. E come difficile sia esprimere oggi giudizio sul loro carattere e valore.
Di tutte queste collezioni, nessuna è completa; delle raccolte del Re e dei
suoi parenti non sappiamo praticamente nulla. Della collezione di Stanisław
Kostka Potocki abbiamo potuto identificare sessanta vasi su cento quindici,
cioè grosso modo la metà. Per quel che riguarda la raccolta di sua suocera,
solo una decina di vasi su 40 sono stati identificati; di quella di Walicki, un
unico vaso per circa duecento reperti. Speriamo che future ricerche nei archivi polacchi e in quelli dei paesi vicini possano un pò chiarire questo quadro
disastroso.
52 T. Bułharyn, Hrabia Walicki i książę Franciszek Sapieha, in ”Biblioteka Warszawska” 1846, pp.
162 – 175; L.L. , O zbieraczu kosztowności Michale Walickim za Stanisława Augusta, in ”Wiek” 7, 1879,
n. 212; St. Lorentz, O polskich zbieraczach waz antycznych, in ‘Meander” 2, 1947, p. 5; T. Mikocki,
Najstarsze kolekcje starożytności w Polsce.., p. 119; W. Dobrowolski, op.cit., pp. 35 – 41.
53 Ermitage n. B 1149; St 1274; J.B. Beazley, Attic Red-Figure Vase- Painters, Oxford 1963, p. 417
e segg. (The Blenheim P.); A. Peredolskaja, Krasnofigurnyie atticeschie vasi w Ermitaże, Leningrad
1967, pp. 151- 152; S. Ciampi, Osservazioni intorno ai moderni sistemi sulle antichità etrusche con
alcune idee sull’origine, uso, antichità dei vasi dipinti volgarmente chiamati etruschi, Fiesole 1824, p. 8;
Fr. Inghirami, Picture dei vasi fittili per servire di studio alla mitologia ed alla storia degli antichi popoli,
Fiesole 1835,p. 36, tav. n. 117; W. Dobrowolski, op.cit., pp. 35 - 37, ill. p. 34, p.36.
54
54 W. Dobrowolski, op.cit., p.41
1. Ritratto di Stanislao Augusto. Opera di Marcello Bacciarelli (1731 – 1818) Varsavia 1780 ca. Museo Nazionale di Varsavia.
2. Ritratto di Augusto Moszyński. Opera di J. Ph Holzhausser (1731 – 1792 ) Varsavia 1771.
Argento. Diam. 53 mm. Museo Nazionale di Varsavia.
55
3. Stanislao Poniatowski. Ritratto del nipote del Re. Opera di Angelica Kaufmann (1741 – 1807).
Roma 1786. Collezione Busiri Vici.
56
4. Ritratto di Stanislao Kostka Potocki. Opera di Anton Graff (1736 – 1613).
Carlsbad 1785. Museo del Palazzo di Wilanów.
5. La lotta degli opliti. Anfora a figure nere trovata a Nola. Pittore di Edinburgo, Atene, inizi V
sec. a. C. Museo del Palazzo di Wilanów. Deposito presso il Museo Nazionale di Varsavia.
6. Kylix a figure nere comprata a Nola. Tleson, figlio di Nearchos. Atene, 540 ca. a. C. Museo del
Palazzo di Wilanów. Deposito presso il Museo Nazionale di Varsavia.
57
7. Ritratto di Izabella Lubomirska, nata Czartoryska. Opera di Marcello Bacciarelli (1731 - 1818).
Varsavia, anni 1770. Museo del Palazzo di Wilanów.
58
8. Congedo del guerriero. Anfora a figure rosse di Hermonax. Atene, 470 a. C.
Museo del Palazzo di Łańcut. Deposito presso il Museo Nazionale di Varsavia.
9. Anfora a collo distinto e ventre lobato. Campania VII/V sec. a. C. Impasto.
Museo del Palazzo di Wilanów. Deposito presso il Museo Nazionale di Varsavia.
10. Dioniso che vince il gigante. Imitazione del cratere del Pittore di Blenheim all’Ermitage,
già nella coll. di Michał Walicki, Varsavia. Manufattura di Wolff, 1790 ca.
Museo del Palazzo di Nieborów.
59
Claude Albore Livadie
•
Napoli
Un viaggiatore polacco
della seconda metà del Settecento
e la realtà vesuviana del tempo
Stanislaw Kostka Potocki è un personaggio tra i più importanti della
cultura polacca degli ultimi decenni del Settecento e degli inizi del Ottocento.
Studioso dalla personalità spiccata: illuminista, collezionista, bibliofilo, uomo
dello stato ed eccellente divulgatore del gusto neoclassico in Polonia1, è stato
forse tra i primi viaggiatori polacchi che si appassionarono profondamente
per la cultura antica. Privilegiava nelle sue ricerche una particolare classe di
materiale: la ceramica dipinta2, anche se non disdegnava lo studio della pittura e dei monumenti. Tra i suoi interessi, l’osservazione della natura era pur
tenuta in conto, forse perché lo studioso era stato fortemente influenzato dalla
personalità di Sir William Hamilton che favorì la diffusione in Europa della
moda del collezionismo vascolare, ma anche un particolare interesse per i fe1 Sulle sue collezioni e un intelligente inquadramento della figura di Stanislaw Kostka Potocki e
della mentalità del tempo, si veda W .Dobrowolski, Stanisław Kostka Potocki Greek’s Vases. A Study
Attempt at the Reconstruction of the Collection, Varsavia, 2007.
2 Allora le conoscenze della pittura vascolare, degli stili e della loro cronologia erano poco approfondite. Come ricorda I.D. Jenkins in Nuovi documenti per l’origine della Tomba “da Paestum” della
Collezione Carafa di Noja, in AA.VV., La Magna Grecia nelle collezioni del Museo Archeologico di
Napoli, Napoli 1999, pp. 249 -254, “la distinzione tra manifatture romane e preromane era ancora
questione controversa. Se ai vasi dipinti venivano quantomeno attribuita una datazione anteriore
agli imperatori romani, nello stesso tempo mancava qualsiasi consenso sulla loro assegnazione
agli Etruschi o ai Greci. Sir William Hamilton, come è noto, fu tra i primi sostenitori di questa
seconda ipotesi”. Hamilton riprende una ipotesi diffusa nel Settecento, cfr. Barone d’Hancarville,
Collection of Etruscan, Greek and Roman Antiquities from the cabinet of the hon. William Hamilton, etc,
vol. II, Napoli 1767 (in realtà 1770), pp. 66ss. “Poiché le figure su tutti i cosiddetti vasi Etruschi
trovati in questo paese, che era parte della Magna Grecia, sono connesse agli antichi culti Greci sono per lo più in onore di Bacco, Ercole o Castore e Polluce – e poiché i caratteri iscritti, quando
ce ne sono, sono Greci e non Etruschi, si è ovviamente portati a concludere che tali vasi dovevano
appartenere ai primi piuttosto che ai secondi”. Riferisce, anche se un modo dubitativo, di una
datazione di almeno 600 anni prima di Cristo fornita per un vaso capuano con la caccia al cinghiale (si tratta, infatti, di un cratere a colonnette corinzio a figure nere ora al British Museum) da
D’Hancarville, op.cit., vol. I, p.162.
61
nomeni vulcanici.
Potocki feci almeno 5 soggiorni in Italia. Il primo viaggio risale agli
anni giovanili in cui, poco più che ventenne, soggiornò a Torino per motivi di
studio e potè visitare parte dell’Italia e la Sicilia (Messina, Siracusa, Palermo,
le isole eolie) e Malta. Questo primo viaggio può essere assimilato a quelli dei
giovani facoltosi che effettuavano, per chiudere una fase decisiva della loro
educazione, un soggiorno più o meno lungo in quei luoghi privilegiati dove
“les choses belles, grandes, singulières sont en plus grand nombre que dans
le reste de l’Europe. Sans parler des restes prodigieux de l’antiquité et des
chefs-d’œuvre immortels qu’on y trouve dans tous les arts…”3, acquisendo
quell’esperienza unica in cui si univa la curiosità per gli usi e i costumi, diremo oggi “mediterranei”, e la conoscenza dell’Antico.
I suoi successivi spostamenti, condizionati dalle circostanze politiche,
ma anche da una crescente passione per il collezionismo antiquario, nel passar
del tempo, divennero più mirati. Avido di contatti con il mondo degli antiquari del tempo si mise, assieme alla suocera Izabela Lubomirska, alla ricerca di
reperti archeologici alfine di realizzare una collezione di vasi antichi4, facendo
addirittura eseguire a sue spese alcuni scavi di tombe nella necropoli nolana5.
L’interesse per la Campania conosceva in quegli anni un particolare
risveglio. La scoperta delle due città sepolte dall’eruzione vesuviana del 79
dopo C., Ercolano nel 17386 e Pompei nel 1748, fu indubbiamente un evento
decisivo nella scelta del percorso dei viaggiatori europei che partecipavano
al Grand Tour. Nell’itinerario tradizionale con inizio del viaggio da Genova
o da Torino – a seconda se il viaggiatore raggiungeva l’Italia per via maritti3 J.J. Lalande, Voyage d’un François en Italie, fait dans les années 1765 et 1766, Paris, Chez Dessaint,
Librairie rue du Foin, 1768, t.VII, ch. VIII, p.167. Si veda anche E. e R. Chevallier, Iter Italicum. Les
voyageurs français à la découverte de l’Italie ancienne, «Studi», CIRVI, BVI – 17, Genève, 1988, pp.
480.
4 Apparteneva alla piccola schiera – solo 36 - di viaggiatori polacchi noti in quanto ci hanno lasciato una testimonianza letteraria o artistica che tra il 1750 e 1830 si recarono in Italia.
5 Oltre al lavoro di W. Dobrowolski, op.cit., si veda M. Cesarano, Stanislaw Kostka Potocki e gli scavi
archeologici a Nola, Archeologia Letteratura Collezionismo, Atti del Convegno dedicato a Jan e
Stanislaw Kostka Potocki, 17-18 aprile 2007, Roma 2008, pp. 174-202.
62
6 Come è noto, le cd. “statue velate” scoperte dal principe d’Elboeuf nel terreno della sua villa di
Portici, giunte prima a Vienna, furono poi trasportate a Dresda presso la residenza del re di Polonia, Augusto III. E’ proprio la figlia del sovrano, la principessa Maria Amalia, che, dopo il suo
matrimonio con Carlo di Borbone, suggerì di riprendere gli scavi nel luogo dove erano venute in
luce le antiche statue.
ma o varcando i valichi alpini – con proseguimento per Firenze e per Roma
che era indubbiamente la meta più importante e di maggior interesse, Napoli
costituiva una possibile metà. La città stessa, però, non rappresentava una
sosta necessaria; era di certo più indispensabile la visita dei dintorni di Napoli (Pozzuoli, la Solfatara, Agnano con la Grotta del Cane, il lago d’Averno
e l’antro della Sibilla) che costituivano il vero polo di attrazione per lo studio
delle antichità campane.
E’ solo dopo la scoperta delle città vesuviane che Napoli divenne una
tappa obbligata e il crocevia principale nel Meridione verso destinazioni più
lontane (Sicilia, Malta, ecc.).
Nel corso del Settecento altri elementi di richiamo e d’interesse dei
viaggiatori per il Regno di Napoli si aggiunsero a quelli degli scavi veri e
propri. Il governo di Carlo III all’inizio del secolo (1734) aveva chiuso quella
fase di decadenza e di mancato adeguamento ai livelli della vita civile e culturale del resto dell’Europa, che era sembrata cosi evidente ai viaggiatori del
Seicento7. Durante gli anni iniziali del regno di suo figlio Ferdinando IV (1759)
alcune riforme importanti e felici iniziative culturali crearono una congiuntura favorevole. Anche se era considerato un monarca ignorante e di scarsa levatura – Ferdinando è passato alla storia con i nomignoli di Re Lazzarone e di
Re Nasone, affibbiatigli dai “lazzari” napoletani che frequentava in giovane
età - egli inaugurò nell’1759, anno della sua salita al trono, il Museo di Capodimonte dove erano stati sistemati i quadri della collezione Farnese, portati
da Roma e da Parma e successivamente (1786)8 fece trasferire a Napoli molte
sculture antiche conservate nei palazzi romani: Palazzi Farnese e Madama,
nella Farnesina e negli Orti Farnesiani sul Palatino, creando quella raccolta
ineguagliata dell’odierno Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Come i viaggiatori del Grand Tour, in particolar modo quello XVIII secolo, Potocki ricercava in Italia, paese che era considerato la culla della Bellezza
antica e moderna, le testimonianze del mondo classico e la possibilità di ammirare, ma anche acquisire, reperti dell’Antichità. La sua visione illuminista
del mondo, cioè che i problemi della civiltà umana possono trovare soluzioni
grazie ai lumi della ragione, ed uno spirito aperto lo spinse ad osservare a
7 Ricordiamo, tra altri, i diari di viaggio degli inglesi che mettevano in guardia contro la sporcizia
delle pensioni e delle trattorie e il malaffare delle donne del luogo.
8 Proprio nell’anno della seconda visita di Potocki a Napoli.
63
Napoli quello che era diventata una delle principali ed insolite attrattive della
natura: i fenomeni vulcanici del Vesuvio! Proprio nel corso del XVIII sec., il
Vesuvio aveva intensificato la sua attività. La frequenza delle eruzioni che
ammonta a quindici nel secolo considerato richiamò l’attenzione di tutta l’Europa sul vulcano, che mostrava rapide e notevoli variazioni nella sua forma
e nelle sue dimensioni. Seguendo una moda che si era diffusa, anche grazie
all’influenza di Sir William Hamilton, Potocki fece due escursioni sul Vesuvio,
nel 1775 e successivamente nel 1786.
E’ ben noto l’impatto che ebbe Sir Hamilton sulla società colta del tempo. Egli, infatti, si appassionò quasi immediatamente dopo il suo arrivo a Napoli nel 1764, non soltanto alle antichità (ceramiche e pitture funerarie)9, ma
anche allo studio dei vulcani e dei fenomeni sismici dell’Italia meridionale.
All’indomani dell’eruzione vesuviana del 1765 e durante tutto il suo soggiorno napoletano, scrisse varie lettere informative alla Royal Society di Londra,
poi pubblicate nel 1772 (Philosophical Transactions of the Royal Society), mentre
preparava la grande pubblicazione dei Campi Phlegraei10.
Sicuramente Potocki conosceva Sir Hamilton e ne condivideva gli interessi, anche se, ovviamente, con minore applicazione a causa dei limiti del
tempo e dei mezzi finanziari.
Naturalmente, l’interesse per i vulcani era già vivo da tempo11. Al richiamo paesaggistico ed alla suggestione dello spettacolo eruttivo medesimo,
si era infatti aggiunto un vivo interesse scientifico per le varie fasi dell’attività
vulcanica e l’Italia offriva una splendida opportunità di confrontarsi direttamente con quelle bocche dell’Inferno. Lungo tutto il XVIII secolo la “gita al
Monte Vesuvio” viene considerata come un’attrazione, una “giornata di curiosità”, come scrive nel 1774 il Fragonard12. Numerosi sono i grandi stranieri
9 Sir Hamilton (1730-1803) fu a Napoli per 36 anni in qualità di ”Inviato straordinario del governo
britannico presso il Regno delle Due Sicilie”. Grande appassionato di arte etrusca, greca e romana, si interessò agli scavi di Ercolano e di Pompei, cui ha dato un certo incentivo grazie all’appoggio della famiglia reale; inoltre, la sua influenza fu determinante, assieme a quella del marchese
Caracciolo, per la ricostituzione dell’Accademia Ercolanese nel 1787. Di questa amicizia con il
Re, abbiamo un gustoso dipinto che raffigura Emma Hamilton che danza la tarantella davanti a
Ferdinando travestito, ai contigiani pure travestiti da popolani e dai popolani veri (fig. 1).
10 Che vide la stampa nel 1776.
11 C.Albore Livadie, Des “curiosités de la Nature aux Sciences de la Terre. L’apport des géologues à
l’histoire de l’archéologie vésuvienne”,in Il Vesuvio e le città vesuviane 1730-1860, Napoli 1998, pp.
31-44.
64
12 In una sua lettera datata “Napoli 23 aprile 1776” scrive “Ed ecco una giornata di curiosità
che hanno lasciato i loro scritti sull’ascensione al vulcano. Nella quasi assenza
di mezzi tecnici di rilevamento13, queste descrizioni letterarie più o meno attente, assieme alle rappresentazioni artistiche (opere pittoriche, “gouaches”
ed incisioni) erano gli unici modi per documentare le eruzioni.
La prima escursione di Potocki - quella del 1775 - è menzionata nella
corrispondenza con il marchese de la Jamaïque14; Potocki ne fa accenno, senza
precisarne la data, anche nella descrizione dell’escursione del 1786.
E’ però sulla seconda escursione, quella del 1786, che vi vorrei intrattenere più specificamente oggi. Ne possediamo una buona documentazione
grazie alla dettagliata descrizione che Potocki ci ha lasciato (9 pagine redatte
su 5 fogli di maggior formato di quello delle lettere intitolate “Voiage au Vésuve en 1786”). Si presenta sotto l’aspetto di una lettera alla moglie e proprio per
questo è stata inclusa nel gruppo delle lettere, reali o solo formali, che scrisse
da Napoli alla moglie Aleksandra Potocka nel corso degli anni 1785-8615.
Dissento, nel merito, dall’opinione di Maria Luisa Bernhard16, secondo
la quale si tratterebbe molto verosimilmente di una forma letteraria, già destinata alla pubblicazione. Il tono familiare, gli accenni a dettagli pratici, gli
errori ortografici, le macchie d’inchiostro e la scrittura affrettata che tende a
sfruttare ogni spazio libero della carta da lettera, anche se nella parte finale
della stessa il Potocki si lascia andare ad espressioni liriche o comunque improntate alla letterature classica (riferimento alle Georgiche, IV libro, in particolare) non confortano l’idea avanzata dalla studiosa.
E’ probabile che la seconda salita del 1786 sia dovuta al desiderio di
osservare i cambiamenti avvenuti nell’aspetto del vulcano dopo la terribiterminata non senza pena e fatica. Si è deciso di visitare il Vesuvio, che ci aspettava per fare
un’eruzione con una bella colata di lava (…). Alcuni di noi, volendo soddisfare ulteriormente la
loro curiosità, cominciarono a salire lungo il torrente di fuoco, desiderando giungere fin sopra
la bocca” (H. Fragonard, Bergeret et Fragonard, Journal inédit d’un voyage en Italie 1773-1774, Paris
1895, p. 301).
13 A. Coppola, Il Vesuvio: rilievo e rappresentazione nel XVIII sec. a. C., in Mons Vesuvius, Sfide e
catastrofi tra paura e scienza, a cura di G. Luongo, Napoli 1997, pp. 207-225.
14 Conservata presso l’Archivio Centrale dei Documenti Antichi a Varsavia: AGAD, APP, no 260Listy Przyjaciół w młodosci St. hr Potockiego w rr. 1772- 1777 pisane.
15 Oggi conservate nell’archivio AGAD, a Varsavia. APP, ms 280. Si ringrazia l’amico W. Dobrowolski per avermi cortesemente procurato copia del manoscritto.
16 La Bernhard pubblica la trascrizione in lingua polacca della lettera “Voyage au Vésuve en
1786” nel suo lavoro su K. Potocki, Wycieczka na Wesuwiusz Stanislawa Kostki Potockiego, in Meander, 7,1952, pp. 465-477. La data segnata nel titolo “en 1786” è stata scritta in un secondo tempo
con un tratto di penna più leggero e sottile.
65
le eruzione dell’agosto 177917, proprio al compimento del XVII secolo dalla
più nota eruzione pompeiana. Quest’eruzione procurò ingenti danni a causa
dell’enorme quantità di scorie eruttate nelle fontane di lava18. Il fenomeno,
peraltro, estremamente impressionante, ci è ben illustrato dalle “gouaches”
che conoscono in quel periodo una grandissima diffusione.
A sollecitare in Polonia la curiosità dei gentiluomini meglio informati
ed a spingerli a visitare gli scavi e addirittura a salire sul vulcano dovette certamente contribuire la pubblicazione nel 1784, su una rivista di Cracovia “Raccolta settimanale delle notizie”, delle lettere de Plinio il Giovane sull’evento
del 79 d. C. accompagnate della descrizione della recente catastrofe vulcanica
del 1779.
Durante il periodo italiano di Potocki, l’attività del cratere era ripresa19.
Agli inizi del 1786 si originarono fratture sul fianco Nord del Gran Cono, come
era avvenuto l’anno precedente. Il vulcano si presentava in quel tempo con il
condotto aperto; la bocca eruttiva era posta al centro di un conetto terminale
intracraterico costituito con l’apporto di scorie che tendeva ad accrescersi con
impulsi esplosivi più o meno continui tra forti eruzioni parossistiche. Il magma
spinto da una pressione interna, a volte traboccava dalla cima del conetto, colando fino a raggiungerne la base. In questo modo,oltre ad aumentare l’altezza
del cono, si andava continuamente a sollevare la spianata su cui esso era poggiato. Quando il fondo del cratere giungeva a livello del bordo craterico esterno, il magma traboccava e si riversava con fluide colate sul fianco esterno del
Gran Cono. Lo spettacolo diventava allora particolarmente imponente e concedeva all’attività degli artisti visioni suggestive. L’aspetto del cratere è quello
raffigurato da Pietro Fabbris nella sua opera nella seconda metà del 700 (fig.2).
L’escursione di Potocki si data attorno alla metà di febbraio, cioè verso
la fine del suo soggiorno a Napoli20. Questa visita ritardata potrebbe sugge17 Come presumeva anche la Bernhard.
18 Quasi tutti gli abitanti di Torre del Greco si diedero alla fuga, riparandosi dove potevano lontano dal vulcano; di 15.000 persone ne rimasero solo 300 in città. Il danno economico fu calcolato
in 200.000 ducati alle “persone destinate da paterno affetto di Sua Maesta” (cfr. A.Nazzaro, Il
Vesuvio. Storia eruttiva e teorie vulcanologiche, Napoli, edizione 2001, p. 163 ss.
19 A.Nazzaro, op.cit., p 167.
66
20 Infatti arrivò da Roma a Napoli il 10 dicembre 1785 e ripartì per Roma dopo il 17 febbraio
e certamente prima di 4 marzo 1786. Spesso però l’ascensione al Vesuvio “prima che Paestum
diventasse visitabile- era la tappa più meridionale del viaggio. Dopo l’ascensione al cratere il
viaggiatore riprendeva la via di casa. Il vulcano era visto quindi come un “punto di svolta essen-
rire che la salita non era nelle sue principali preoccupazioni o che era stata
decisa con una certa riluttanza a causa delle difficoltà da affrontare in questa
fase di forte attività del cratere. Potocki è in compagnia del nipote Eustachy
Sanguszko e di due guide con rispettivi asini presi in affitto a Portici dove
erano arrivati in calessino a due ruote, poi posteggiato sulla piazza, di fronte
al Palazzo Reale: un trespolo per pappagalli, come lo definì Charles de Brosses.
A dorso delle loro cavalcature raggiunsero la base del Vesuvio per proseguire
la salita a piedi. All’epoca vi erano 3 sentieri che conducevano al Vesuvio uno
a N dalla parte di San Sebastiano e di Somma, il secondo ad occidente, con
partenza da Resina/Portici21: – ed è quello utilizzato da Potocki, l’ultimo ad
oriente verso Ottaviano. Dei 3 cammini, il più frequentato era quello da Portici, che era anche il più difficile e forse anche il più lungo (l’ascensione durava
in media cinque ore) (fig.3). E’ proprio la strada scelta da Potocki!
La salita era indubbiamente gravosa a causa della natura del terreno e
dello spesso strato di cenere vulcanica, nella quale si affondava e si scivolava22. I lapilli, i frammenti di lava con bordi taglienti distruggevano le scarpe
e ferivano i piedi. Dopo un’ ora di salita, alla metà del pendio, presso l’Eremo, i viaggiatori si fermarono per tirare il fiato e rifocillarsi (fig.4). Seduti su
un’enorme roccia eruttata dal cratere durante la recente eruzione del 1779,
avevano bevuto un pessimo vino locale che però in quel particolare momento sembrò un nettare divino, particolarmente adatto a rincorare i viaggianti.
Pure il pane sembrò il migliore che avessero mangiato nella loro vita. L’eremo
è costruito sulla collina detta Colle del Salvatore a 660 metri di quota, a circa
metà del cammino che, partendo da Portici, conduce alla vetta. Le lave che
negli quattro ultimi secoli sono scaturite dal Gran Cono del Vesuvio l’hanno
risparmiata grazie alla sua posizione elevata23 e poiché è piuttosto distante
ziale”, cfr. C. Knight, Le gouaches napoletane del Settecento nel contesto storico-artistico del Grand Tour,
in C’era una volta Napoli, Itinerari meravigliosi nelle “gouaches” del sette e ottocento, Napoli
2002, pp.27- 40, p. 36, in part.
21 Passa per l’Atrio del Cavallo all’altezza dell’Eremo e arriva fino al Cratere, cfr. J.J. De Lalande,
op.cit., 1768, t.VII, ch. VIII, p.167. Vedi anche R. De Saint-Non, Description historique et critique de
l’Italie, Paris 1770, t.IV, p.448.
22 Visto la stagione il Vesuvio era innevato anche se Potocki non c’è lo dice. Abbiamo comunque
numerosi quadri che ci illustrano l’aspetto del vulcano in quel periodo.
23 Un quadro di G. De Bottis (1786) raffigura il colle visto dalle balze del Monte Somma. Si può
osservare che il colle era separato da un’altra piccola prominenza detta le Crocelle da una sella
successivamente colmata dai prodotti di eruzioni più recenti.
67
dal cratere è stata anche raramente raggiunta dai piroclastiti (bombe, scorie e
lapilli di grandi dimensioni) lanciati dal vulcano. Per questi motivi, la stessa
località fu prescelta negli anni 1960, come sede dell’Osservatorio Meteorologico Vesuviano, detto oggi “Osservatorio Vesuviano”.
Dopo questo breve riposo, gli escursionisti ripresero la salita, sempre
più difficile, in mezzo alle ceneri e alle colate di lava sempre più spesse e le
scorie sempre più taglienti. Dopo un ora di questo calvario, la piccola comitiva raggiunse il margine della gola che separa il Monte Somma dal Grande
Cono, detta Atrio del Cavallo proprio dal fatto che vi si lasciavano gli animali,
per affrontare l’impresa più improba: la scalata del cono di ceneri alla cui cima
si trovava il cratere del Vesuvio.
Potocki ci confida che la veduta del vulcano era così sconvolgente e
grandiosa che fece immediatamente dimenticare ai visitatori la fatica del viaggio e il dolore delle gambe ferrite. Al centro della conca si riconobbe un monticello, isolato dal fumo e dalle fiamme che lo circondavano. Da questo – il
cosiddetto Gran Cono - si liberava regolarmente, accompagnata da gemiti e
fracassi, una grandine di sassi roventi, pezzi fumosi di scorie, pomici e lava.
I viaggiatori si volevano avvicinare a questa bocca fiammeggiante, ma
la pioggia di sassi e di scorie eruttati improvvisamente dal vulcano rese questo desiderio del tutto irrealizzabile. Infatti, all’epoca il Gran Cono era, soprattutto nella parte sommitale, abbastanza più ripido di quanto sia oggi e
il viaggiatore doveva superare un dislivello di circa 500 metri scegliendo tra
un percorso più sicuro, attraverso la cenere in cui si affondava fino a mezza
gamba, e uno meno faticoso, che però richiedeva maggiore destrezza, lungo
il tormentato paesaggio delle lave rapprese sui pendii (fig. 5). Cosi Potocki
con alcuni compagni dovette accontentarsi di scendere nel fondo del fossato
e di attraversare la lava bollente e fumosa, cercando di evitare una decina
di voragini che emettevano un calore sulfureo difficile da sopportare. Egli si
meravigliò del fatto che tutto attorno era completamente differente da quello
che ricordava dalla precedente ascensione. Il che non sorprende perché tra il
1775 e 1786, il Vesuvio conobbi una serie di eventi eruttivi. Oltre all’eruzione
dell’agosto 1779, che segnò il culmine di una notevole attività stromboliana,
sono documentate efflussi laterali nei 1785 e 1786, che proseguirono anche
negli anni successivi24. Mentre si ricostruiva il conetto terminale, emissioni
laviche erano presenti all’interno dell’Atrio.
68
24 A.Nazzaro, op.cit., p 167; L.Lirer, M.C.Chirosca, R. Munno, P.Petrosino, M.Grimaldi, Il Vesuvio.
Ieri, oggi, domani, Napoli 2005,p .60.
Tornando sul bordo del fossato la compagnia fece una sosta con un
pasto che sembrò assai migliore dal precedente, degno addirittura degli eroi
omerici, e brindò alla salute degli amici rimasti in Polonia. Il tutto accompagnato dal fragore e dai boati dell’ artiglieria vesuviana che gli ricordavano le
salve delle città polacche di Lublin25 e di Grodno. Poi, si mise in cammino per
raggiungere un altro obbiettivo della gita, cioè un torrente di lava che scorreva da 16 mesi dalla bocca del vulcano.
Come già nel 1767, una colata lavica aveva scavalcato nell’agosto 1785
il cosiddetto fosso del Faraone, per proseguire per circa 80 metri sul pendio
nel Fosso della Vetrana. Questi dati sono riportati da Antonio Piaggio che
prendeva nota per William Hamilton delle variazioni avvenute sul vulcano.
L’inventore della macchina per svolgere i papiri della villa ercolanese dei
Pisoni teneva, infatti, un accurato diario dei fenomeni vesuviani. Questo efflusso laterale continuò fino alla fine del 1785, accompagnato da esplosioni
stromboliane di intensità crescente. Nel gennaio 1786, quando Potocki fece
l’ascensione, il Vesuvio si squarciò nuovamente nel settore settentrionale e la
lava a più riprese si incanalò nei Fossi della Vetrana e del Faraone (distruggendo il Romitorio dei Padri Brasiliani) (fig.6), favorita dalle mutate condizioni
morfologiche26. Questo torrente di fuoco continuò a fuoriuscire fino alla fine
del 1787, diventando un punto di attrazione per i viaggiatori, ed in particolare
per quelli che si recavano di notte sul vulcano27.
Il nostro gruppetto progrediva nella densa nuvola bitumico-sulfurea
tenendosi per mano, senza nulla vedere del cammino che seguiva il bordo del
fossato. Finalmente arrivò nel canalone dove correva la colata lavica di cui si
è detto più sopra.
Il racconto di Potocki si fa allora più pressante e drammatico nel descrivere i disaggi incontrati: le loro scarpe erano completamente distrutte; il torrente di lava simile al nero e denso fango scorreva sotto la superficie indurita malgrado il calore e lasciava intravedere il fondo dei crepacci vomitanti di fuoco.
Il cammino era pericolosissimo e uno dei servitori rischiò addirittura la morte,
25 Forse pensa alla consuetudine di tirare a salva con speciali cannoni (wiwatùwka) all’occasione dei ricevimenti di personaggi celebri per accrescere il carattere festoso e solenne della
circostanza.
26 L. Palmieri, Il Vesuvio e la sua storia, Milano 1880.
27 Sull’attività del Vesuvio, si rimanda A. Nazzaro, Il Vesuvio. Storia eruttiva e teorie vulcanologiche,
Liguori edit., Napoli, 2001.
69
mettendo distrattamente il piede in fallo e scivolando verso uno dei crepacci.
Il torrente di lava fiammeggiante giungeva vicino al posto in cui abitava l’eremita francese presso il quale Potocki aveva pranzato cosi male in una
precedente ascensione in cui l’accompagnava la moglie Aleksandra. Al ritorno, sostando presso l’Eremo, la comitiva aveva ritrovato, la dove si era fermata poche ore prima, gli avanzi del loro pranzo. Il vino acquistato a Portici fu
specialmente gradito dall’assettata compagnia. Si vede che dopo l’esperienza
del pasto frugale con la moglie, Potocki aveva pensato bene di portare con se
le vettovaglie. Della dubbia accoglienza del romito abbiamo diverse notizie
ed alcune gustose testimonianze.
Il primo eremita è stato il francese Claude Veléne, detto Frate Claudio,
che si ritirò in quel luogo nel 1750, ci dice l’astronomo francese Joseph Jérome
De Lalande 28. A sua morte, fu sostituito “da un altro Picaro che era stato parrucchiere e soldato”. Elisabeth Vigée Lebrun, nei suoi “Ricordi d’Italia”, racconta di avere consumato sull’eremo nel 1790 un macabro pasto con il vecchio
eremita ormai defunto, nascosto dietro una tenda29.
Nel pomeriggio - dopo le ore 4 –la comitiva cominciò a ridiscendere dal
vulcano. Grazie al bel tempo, si poteva godere dell’ ampia veduta su Napoli e
del suo golfo con Capri, sulle città sepolte e risorte, su Capo Miseno, su Ischia
e Procida. Malgrado la stagione, il crepuscolo si faceva ancora aspettare. Questo panorama evocò in Potocki momenti della storia antica come Tiberio e la
sua vita licenziosa, ma anche visioni di paesaggi classici: Posilippo, l’Averno
con lo Styx, i Campi Elisi, la grotta della Sibilla, la tomba di Virgilio e tanti altri
splendidi posti evocatori di vecchie leggende.
Potocki si lasciò andare a declamazioni liriche: questo bel paesaggio
nonostante fosse segnato dalla distruzione di città una volta fiorenti e poi sepolte sotto ingenti strati di ceneri e torrenti di lava, dalla morte di migliaia di
uomini e donne, vedeva la vita rinascere dopo 18 secoli sopra le macerie30!
28 Ce ne parla J.J. De Lalande, op. cit., t.VII, ch. VIII, p. 168: «il dit qu’il est d’Amiens…étant obligé
de quitter la France où il était dans le service, il se retira sur cette montagne en 1750. Il reçoit les
étrangers, on y trouve du vin, des fruits et quelques raffraichissemens (sic) proportionnés à son
état; mais ceux qui ont envi d’être bien traités, ont soin d’y faire porter des provisions».
29 E. Vigée Lebrun, Ricordi dall’Italia, Palermo 1990, pp. 95 - 98 (Traduzione M. Premoli), in P.
Gasparini-S. Musella, Un viaggio al Vesuvio, Napoli 1991, p. 233.
70
30 Potocki lascia presentire, attraverso le sue osservazioni sulla suggestione romantica del paesaggio e la sua malinconia suscitata dal senso del finito, la passione per il “sublime” che caratterizza la fine del XVIII secolo.
Come una resurrezione dalla tomba!
Le sue riflessioni sul coraggio o sulla stupidità della gente che, malgrado le tragedie accadute nel passato e che possono ripetersi portando morte e
distruzione, costruiscono le loro case ai piedi del Vesuvio preludono le parole
pronunciate qualche decenni più tardi da Goethe. Lo stesso spirito lo riscontriamo nell’avvocato francese Charles Dupaty, spirito liberale ed inquieto, che
Voltaire chiamava il “giovane Socrate di Bordeaux”. Pure Dupaty affidò le sue
impressioni di viaggio ad alcune lettere, raccolte poi nel volume “Lettres sur
l’Italie en 1785”. L’ascensione dettagliatamente descritta è la stessa che fece
Potocki; affine il sentimento che esprime. “Eccolo dunque questo formidabile
vulcano che brucia da tanti secoli, che tante città ha sepolto, che tanta gente ha
ucciso e che continua a minacciare questo vasto territorio, questa Napoli in cui
adesso si ride, si canta, si balla senza pensare sempre e soltanto a lui”.
Gli accenni di Potocki alle ipotesi scientifiche sul fenomeno Vesuvio
sono piuttosto superficiali. Si tratta di semplici accenni a teorie note: «Le Vésuve tire t il de son sein ces matières fusibles qu’il vomit depuis tant de siècles,
ou bien viennent elles par des conduits souterrains se dégorger dans ce grand
laboratoire de la Nature?». Infatti, lascia subito l’argomento con il pretesto che
è da tempo dibattuto e da mente esperti.
Tra la seconda parte del Seicento e la prima metà del Settecento, basandosi sulla Bibbia, sugli scritti di Newton e di Cartesio, alcuni studiosi del
periodo Barocco avevano elaborato diverse teorie che riguardavano la storia
della Terra, i vulcani e i problemi sismici.
Nella descrizione della sua gita Potocki, fa allusione, non fornendo il
nome dell’autore, alla vecchia teoria di Georges Buffon che immaginava che la
fonte del calore fosse situata nel monte stesso, contrapponendola alle opinioni
di altri che, come Athanasius Kircheri (1678), pensavano che le fonti di calore
si trovavano nella profondità della terra e che si univano attraverso lunghi
canali all’interno stesso del vulcano, concepito come una specie di grande laboratorio della Natura.
Accanto alla tradizione popolare che voleva che l’acqua percorresse
il sottosuolo vesuviano in un fiume chiamato Dragone, che, come i draghi,
soffiava il magma attraverso le stesse mofete che si manifestavano pericolosamente dopo le eruzioni, si era iniziato a reagire contro molteplici teorie, le
une più vaghe e fantasiose delle altre, e a dare importanza all’osservazione
71
dettagliata e precisa dei fenomeni. Nasceva la Geologia, che nella seconda
metà del Settecento conoscerà uno sviluppo internazionale.
Tra le più importanti citiamo la teoria del nettunismo di Abraham Gottlob Werner (1749-1817) che attribuiva un ruolo essenziale all’acqua nella formazione delle rocce. Le sue idee vennero diffuse principalmente attraverso i
suoi corsi “che destavano l’entusiasmo degli ascoltatori, infondendo in essi
non solo il gusto ma anche la passione per la sua scienza”, ci dice Georges Cuvier. Il suo lavoro fondamentale completato nel 1777, fu però pubblicato solo
10 anni dopo. Alla sua teoria si opponeva l’inglese James Hutton (1726-1797)
e un gruppo di geologi francesi ed italiani che venivano chiamati vulcanisti (o
plutonisti). Pretendevano che il fuoco, non l’acqua, poteva essere la chiave di
una vasta serie di fenomeni geologici. Il lavoro principale di Hutton “Theory
of the Earth”, verrà pubblicato nel 1788. Ancora prima, Lazzaro Moro (16871740) era rimasto molto impressionato dalle eruzioni vulcaniche di Santorini
nel Mar Egeo e dalla formazione del Monte Nuovo nei Campi Flegrei, e si era
messo a studiare la descrizione di fenomeni simili nell’antichità fatte da Plinio
e da Strabone. Ciò lo indusse a proporre che il sollevamento delle montagne
fosse dovuto ad un’eruzione di gas ardenti e di lava dall’interno della Terra.
Anche Giuseppe Maria Mecalli riprende questa teoria nei suoi lavori del 1754
e del 1761 sul Vesuvio. Si esprime cosi “sotto i monti sono accesi molti fuochi
e si fermentano, come a punto fa il lievito di pane”31.
Pure la teoria della fermentazione delle piriti mantenne a lungo la sua
influenza. Sulla base della diffusa concezione dei vulcani come miniere, il chimico francese Nicolas Lemery (1645-1715) suppose che fosse la pirite, solfuro
di ferro, la causa delle eruzioni vulcaniche. Fece un’esperienza clamorosa –
quella di un vulcano artificiale (zolfo e limatura di ferro ed acqua) – che costituì il modello dominante in vulcanologia fino all’ultimo quarto del XVIII sec.
Già, nel 1633 era stata pubblicata a Cracovia dal gesuita F. Szembek una
memoria scritta a seguito dell’eruzione vesuviana del 1631 alla quale aveva
assistito32. Anche S. Staszic (1755-1826) compie svariate escursioni nei vulcani
spenti dell’Italia centrale per raggiungere anche la Campania dove visita la
Solfatara e il Monte Nuovo. Sale nel febbraio 1791 sul Vesuvio dove assiste
ad un eruzione notturna che descrive nel dettaglio. Ma il più interessante geologo polacco del tempo fu indubbiamente il conte J. M. Borch (1751-1810)
31 G. M. Mecalli, Continuazione delle osservazioni sopra diverse eruzioni del Vesuvio, Napoli 1761.
72
32 F. Szembek, L’incendio tremendo della montagna napoletana, Krakow 1633.
che annuncia a più riprese una sua “Théorie des volcans”, mai pubblicata.
Possiamo solo congetturare che sia legata alle teorie plutoniste di J.Hutton cui
abbiamo accennato sopra (Paronuzzi 1988)33.
Certo, i problemi erano numerosi per gli studiosi e le polemiche erano
accese.
33 P. Paronuzzi, Geologi polacchi in Italia, CIRVI, Genève 1988, pp. 241-258.
73
Conclusione
Come tanti dotti, naturalisti, poeti, e persone di ingegno e di vari interessi, che giunti a Napoli, si soffermarono ad ammirare il Vesuvio, Potocki
descrivere la sua ascensione, ponendo una certa attenzione alla descrizione
del vulcano e alla sua attività.
Il suo resoconto alla moglie è scritto in un francese molto chiaro, anche
se è quello del suo tempo, che denota una profonda cultura, e gli errori di
ortografia sono certamente dovuti ad una certa frettolosità confermata da una
grafia piuttosto bella, ma non sempre leggibilissima. Il suo racconto, a tratto
ironico e schietto, lascia trasparire i primi segni di un’intima partecipazione
al paesaggio, atteggiamento che si ripeterà principalmente nei viaggiatori a
partire dalla metà del secolo del ‘700.
Le considerazioni che quello spettacolo ridestava nella sua anima, risultano però piuttosto banali e consuete. Il Vesuvio costituisce poco più di
una curiosità34.
Avremmo sperato che questa lettera che, certamente costituisce una
chiara testimonianza dei suoi interessi naturalistici, ci consegnasse al di là delle pregnanti riflessioni ispirate a questo spettacolo della natura, osservazioni
sulla società del tempo. Il pittoresco mondo locale è evocato brevemente dal
ricordo dei giovani “lazzaroni”, dalla nota ironica nell’osservare che le guide
prendevano per salire al vulcano meno del prezzo di un asino. E’ rivelatore
dello sguardo contraddittorio che i viaggiatori e gli uomini di cultura ponevano su questa regione che apriva le porte delle terre sconosciute dell’Italia meridionale e quelle del mondo antico, immobilizzato per l’eternità dal furore della
Natura stessa “dans un déshabillé modeste” come scriverà Gérard de Nerval.
74
34 E’ anche significativo l’atteggiamento di un altro nobile viaggiatore Stanislas Poniatowski,
nipote del re, che dopo essere salito nel 1787 sull’Etna e sul Vesuvio, fa rappresentare a Kaniow,
davanti alla zarina Caterina la Grande, uno spettacolo con fuochi d’artificio che rappresentava
il Vesuvio in eruzione. Infatti, il Vesuvio e le sue drammatiche manifestazioni potevano anche
essere lo spunto per spettacoli teatrali e per gustose celie letterarie come quella “spaventosissima
descrizione dello spaventoso spavento” che in occasione dell’eruzione del 1779 l’abate Galiani
scrisse sotto il nome di D. Onofrio Galeota”.
Appendice
«Voiage au Vésuve en 1786»
Vous connaissez Ma Chère Amie les embarras inévitables du moindre petit
départ, tout était prêt: nos chevaux, nos gens, notre cabriolet, nous avions une matinée
à souhait, mais nos rênes s’étant trouvées trop courtes pour mener nous-mêmes35, cela
fit des allés et des venues éternelles, qui firent, au long du jour36 que nous étant levés
d’assez bonne heure nous partîmes assez tard. Mon neveu pressait à grand coup de
fouet les deux Rosses dont j’étais le conducteur, nous rencontrâmes tous les embarras
d’une grande ville, jusqu’aux petits Lazzaroni de Naples qui munis d’une chemise et
souvent sans caleçons, naissaient, vivaient et mourraient dans la rue. Nous étions
presqu’au bout du grand et beau quai de Naples lorsqu’un malheureux escadron de
cavalerie tout déguenillé met obstacle à notre course, la maladresse des cavaliers nous
dédommagea de ce retard, nous arrivâmes à Portici en moins d’une demi heure, en
nous tenant les cotes de rire. Les embarras croissaient sous nos pas, notre compagnon
ne se trouva pas au rendez vous, j’attendis en vain nos provisions et mes gens. Il fallut
partir tous seuls. Nous avions deux ânes et deux hommes qui se taxèrent bien moins
que leurs bêtes, je trouvais que peu d’hommes et même des philosophes se rendent cette
justice. Equipagés de cette manière nous tentâmes d’assaillir le Vésuve, je n’avais pas
mal l’air de Don Quichotte37 et mon neveu toute la tournure de son Ecuier38; ce qu’il
y a de sure39 que nos deux figures nous divertîmes infiniment. Nous fîmes ainsi deux
à trois milles d’Italie en montant insensiblement tantôt sur d’anciennes laves, tantôt
au milieu des vignes et des bruyères. Mon neveu livra plus d’une bataille à son âne,
animal rétif et galant qui appelait les belles à grands cris, et répondait par des ruades
à ses coups d’éperons. Nous arrivâmes enfin à la grande montée: il fallut quitter nos
montures et nous mettre en marche. Nous aperçûmes le compagnon de mon neveu
qui gravissait avec peine au dessus de nos têtes, nous le rejoignîmes bientôt, et cette
35 La Bernard che ha fatto una traduzione del testo francese nella lingua polacca ha operato spesso una traduzione piuttosto libera.
36 Le due parole sono poco leggibili. Sembra potere riconoscere l’espressione “à longtemps”,
forse per “à long terme”. La Bernard traduce “come résultat”.
37 La Bernard facendo qui un errore di interpretazione della parola “air”, intende che Potocki non
ha in questa situazione “les visions de Don Quichotte” (le visioni di Don Quichotte).
38 Evidentemente per “écuyer” (scudiere).
39 Potocki commette a volta errori ortografici come l’aggiunta di una “e” ad alcune parole e
all’infinitivo dei verbi, forse influenzato dalla lingua italiana, raddoppia le consone e omette assai
spesso le virgole.
75
rencontre nous fit le même plaisir que si nous ne nous étions vus de longtemps. Nos
gens et nos provisions arrivèrent au même instant, tout se trouva donc en ordre et
nous redoublâmes de zèle et de courage.
Mon neveu montait depuis une demie heure avec tant d’ardeur qu’il s’en ressenti bientôt, il fut forcé de ralentir la marche, lorsqu’il appris qu’à peine étions nous
au quart de la montée la plus aisée. Le chemin commençait à devenir des plus pénibles. Figurez vous une montagne raide, élevée de trois à quatre cent toises, couverte
de quelques pieds de cendres mêlées de petites pierres où le pied enfonce, reculant à
chaque pas ou retiré avec effort, il se replace à peu près au même endroit. Figurez vous
l’éternelle contrainte d’avancer pour reculer et de s’épuiser pour ainsi dire, en vains
efforts. Les petites pierres blessent, la cendre devenue gravier, remplie les souliers, la
lave que l’on rencontre à tous instants déchire les pieds, car ce ne sont que des scories
raboteuses et tranchantes qui offrent au pied un appui aussi peu solide qu’incommode. Nous avions déjà essuyé tous ces inconvénients, à la moitié de la montée où nous
parvînmes enfin après une heure de marche. Un gros quartier de rocher de cinq à six
aunes de diamètre, nous offrit à tous une table et des chaises que nous trouvâmes délicieuses. Notre mauvais vin de Portici nous parut un restaurant40 parfait et jamais le
pain ne fut meilleur que celui que nous y mangeâmes. Mais ce qui nous frappa le plus,
ce fut d’apprendre que cette masse énorme, qui nous servait de chaises, de tables d’abri
et pour ainsi dire de maison avait été lancée à cette distance par la bouche du volcan
lors de l’éruption de 1779. Un fleuve de feux, une pluie de cendre et de pierres sortant
du sein de la montagne et se rependant au loin, sont un spectacle frappant sans doute,
mais qui se renouvelle à chaque éruption. Celle de 1779 offrit un spectacle tout différent. Une colonne de feu de quatre mille pieds de hauteur s’éleva de la bouche même
du volcan, celle de la fumée fut incommensurable41, les cieux en furent obscurcis. Elle
vomit des fleuves de flammes et de feu pendant des heures entières et lançait au loin
des rochers dont celui sur lequel nous étions assis n’était qu’un faible échantillon (1).
Les orages se formaient autour d’elle. Le tonnerre et la foudre grondaient et frappaient
à tous instants. Lorsqu’on se représente ce spectacle la nuit, le bruit et le mugissement affreux de la montagne, les vagues de la mer éclairées par cette gerbe immense
qui menaçait les cieux et qui semblait vouloir abimer la terre, enfin l’alarme42 et la
consternation avaient du jeter tout Naples à ce spectacle terrible à peine l’imagination
40 L’espressione in francese non è molto felice. Bisogna intendere “nous parut un lieu pour se
restaurer parfait” (ci parse un luogo per restaurarsi perfetto).
41 Traduzione libera della Bernard che invece di incommensurabile traduce “l’altezza della colonna era sconosciuta”.
76
42 Uno sbaglio ortografico “allarme” per alarme.
étonnée peut elle suffire en s’en former une idée.
Il fallut quitter ce beau rêve, qui nous occupa tant que nous restâmes sur notre rocher et nous remettre en marche. Une autre heure se consuma en de nouveaux
efforts bien plus péniblement que la première. Les difficultés croissaient au fur et à
mesure que l’on se rapprochait de la bouche du volcan. C’est-à-dire de leur foyer. Cendres, laves, pierres, scories, tout augmenta, tout devint plus incommode. La montagne est plus rapide, la cendre plus profonde, les pierres plus roulantes, la lave plus
tranchante. Ajoutez y la fatigue d’un long voyage, et vous verrez qu’il n’y avait pas
d’autres moyens d’aller, sans l’espoir d’arriver bientôt. J’aperçu enfin mon guide sur
la cime, quoique je n’en fusse pas éloigné, je suis comme loin de lui, je fais un dernier
effort et j’y perçois enfin mon compagnon me suivant de près. Ici un spectacle nouveau frappa nos yeux et nous fit oublier dans un instant toutes nos fatigues. Nous
étions sur le bord morne de la montagne qui forme une sorte de glacis autour du fossé
profond qui la sépare du sommet du Vésuve où est le cratère ou la bouche du volcan.
Tout offre ici l’image de la destruction, les laves fumantes entassées les unes sur les
autres remplissaient en partie cette profonde cavité, qui semble s’être précédemment
abimée par quelque secousse entre (?) la pointe ou la bouche du Vésuve (qui) s’élève
au milieu et forme un petit monticule séparé d’où sort continuellement une épaisse
fumée mêlée de flammes. A ce bruit le plus affreux succède un morne silence; bientôt
la montagne reprend ses [sourds] gémissements, le bruit croit et le Vésuve lance en
tonnant une grêle de pierres enveloppées d’une fumée ardente, tout se calme (lacune)
et le spectacle toujours grand, toujours nouveau se reproduit à tout moment. C’est ici
que tout parle à l’imagination. C’est ici que la fable même présente un air de vérité,
l’on croit entendre les gémissements des Géants écrasés par le maitre du tonnerre, les
coups [renouvelés] des noirs43 forgerons de Vulcain, où l’enfere44 vomit les flammes
éternelles45.
43 Erroneamente la Bernard legge e traduce “nains”(nani) invece di “noirs” (neri).
44 Errore ortografico: aggiunta di una “e” alla fine della parola.
45 Non si può negare l’influenza della Quarta Georgica che Potocki conosce a memoria.
“Ac veluti lenti Cyclopes fulmina massis
Cum properant: alii taurinis follibus auras
Accipiunt redduntque; alii stridentia tingunt
Aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna:
Illi inter sese magna vi brachia tollunt
In numerum, verantque tenaci forcipe ferrum”.
“Tels les fils de Vulcain, dans les flancs de la terre,
Se hâtent à l’envi de forger le tonnerre:
77
La curiosité nous entrainait, nous voulions avancer vers la bouche même du
volcan que j’avais jadis examinée d’assez prêt, mais nos guides nous retinrent, au
même instant une grêle de pierres lancées par le volcan couvre tout cet espace et nous
fit voire clairement le danger d’une pareille entreprise. Depuis plus d’un an, le Vésuve
est dans une agitation extraordinaire, d’ailleurs le vent poussait les pierres de notre
coté, qui sont pour la plupart légères et ne ressemblent pas à des scories métalliques
ou à une éponge noircie, tout ce que nous puissions faire ce fut de descendre dans le
fossé qui sépare la montagne du cratère où nous fîmes avec peine une centaine de pas
à travers des laves chaudes et fumantes au milieu desquelles plusieurs [ouvertures
comparaissent46] en forme d’entonnoir, les cheminés exhalant une chaleur insoutenable. Tous ces lieux sont pleins de souffre et de sels. Je les trouvais entièrement changés
depuis mon précédent voyage, je ne reconnais rien à l’ancienne forme du cratère qui
s’élève et s’abaisse souvent, s’abime et change de forme à chaque secousse violente.
Remontés sur le bord du fossé nous fîmes un repas digne des héros d’Homère, nous
buâmes à la santé de nos amis de Pologne au bruit de l’artillerie du Vésuve, pour cette
fois ci je me crus à Lublin ou à Grodno47. Le repas ne fut pas long, la fatigue et la faim
en firent les apprêts, nous le trouvâmes délicieux. La nuit ne songeait à se lever, aucun
de nous ne songer à se lever lorsque nos guides nous annoncèrent qu’il était temps
de partire48. Nous avions encore une course pénible à faire, objet promis par la notre
curiosité. Il s’agissait de gagner rejoindre la lave qui coule depuis 16 mois, nos guides
ne nous cachèrent point les difficultés d’une pareille entreprise, mais nous voulions la
décider à tout prix.
Nous cheminions dans les nuages49 en longeant le bord du fossé qui entoure
le cratère. Déjà à cinq ou six cent50 pieds plus bas nous avions senti sortir de dessous
L’un, tour à tour, enferme et déchaine les vents;
L’autre plonge l’acier dans les flots frémissants;
L’autre du fer rougi tourne la masse ardente:
L’Etna tremblant gémit sous l’enclume pesante;
Et leurs bras vigoureux lèvent de lourds marteaux,
Qui tombent en cadence et dom(p)tent les métaux.
46 Lettura incerta.
47 Grondo, oggi Hrodna, è uno dei sei capoluoghi di regione della Bielorussia. Fino al 1793 fu, assieme a Varsavia e Vilnius, una delle sedi dove alternativamente si riuniva il parlamento polacco
(il Sejm). E’ lì che fu in quella data approvata l’ultima divisione della Polonia. Nel 1795 vi morì
Stanisław August Poniatowski, ultimo re di Polonia e granduca di Lituania.
48 Vedi nota 1.
49 La Bernard legge e traduce in modo impreciso “comme dans les nuages”.
78
50 La Bernard omette il numero “cent” (cento).
nos pieds une vapeur chaude qui enveloppa tout le haut de la montagne d’un voile
transparent et léger. Mais ici le vent poussait contre nous les gros nuages du Cratère même, ainsi que l’épaisse fumée de la lave qui coulait dans un vallon voisin. Un
aérostat chassé par les vents au milieu des plus sombres nuages, n’eut pas été plus
embarrassé que nous. A peine entrevoyons nous d’un côté le bord escarpé du fossé qui
nous paraissait de l’abime sans fond, de l’autre la pente raide de la montagne ne nous
offrait qu’un amas confus de nuages sur lesquels nous semblions cheminer. Figurez
vous la chaleur, l’odeur bitumineuse et soufrée de la fumée qui nous enveloppait de toute part où nous marchions à tâtons en nous tenant par la main les uns les autres sans
nous voir, ajoutez y l’incommodité d’un chemin escarpé et étroit, bien plus difficile et
surtout bien plus dangereux que tout ce que nous avions fait jusqu’à ce moment, et
vous vous ferez une idée de tout ce que nous eûmes à souffrir durant plus d’une demi
heure qu’il dura.
Nous nous sentîmes enfin descendre par une pente longue et raide dans la vallée où coule la lave. C’est là que nous revîmes le jour, les nuages restèrent au dessus
de nos têtes. Nous commencions à être en fort mauvais équipage, j’avais à moitié usé
mes gros souliers, mes compagnons n’étaient pas en meilleur état. Mon pauvre neveu
surtout paraissait chaussé à l’antique: les pieds lui sortaient de tous cotés. Un guide
charitable lui prêta ses sabots, sans quoi il eut été impossible d’avancer. La lave sur
laquelle nous avions à marcher était si fraiche et si chaude, que nous nous brulions les
mains en nous cramponnant dessus pour franchire51 les crevaces dont elle est pleine.
Elle présentait la surface inégale des flots agités qui auraient été pris par la gelée. La
lave vive que nous cherchions coulait dessous, nous l’entendions bouillonner sous nos
pieds, nous l’entrevîmes bientôt sous des crevaces profondes. Tel qu’un métal ardent
mis en fusion ce torrent enflammé, tantôt coulait paisiblement, tantôt se précipitant
avec fureur, offrait à l’œil des cascades de feu au fond de ces antres souterrains et profonds qui en redoublait l’éclat et l’horrible beauté. Nous marchions dessus, une voute
légère nous séparait de ces abimes de feu dont les descriptions poétiques du Flegaton52
ne nous donnent qu’une faible idée. Le Vésuve tire t il de son sein ces matières fusibles
qu’il vomit depuis tant de siècles, ou bien viennent elles par des conduits souterrains
se dégorger dans ce grand laboratoire de la Nature? C’est ce que je laisse discuter à
de plus habiles que moi. Depuis des siècles d’habiles physiciens s’épuisent en vaines
51 Vedi note 1 e 2.
52 Fiume fiammeggiante dell’Ade.
79
conjectures, il semble que la nature en montrant aux hommes ce spectacle étonnant ait
voulu mettre leur faiblesse à coté de la grandeur.
Nous ne pouvions cependant nous lasser de cette vue, nous suivions les pentes
à travers des laves affreuses. Chaque crevasse que nous rencontrions nous offrait un
coup d’œil unique et nouveau. Cette curiosité risqua de couter cher à mon vallet de
chambre, le pied lui manqua, il glissa à reculons et fut sur le point de tomber dans une
de ces crevaces au bord de laquelle il se retint à des laves. Malgré cet incident, nos guides eurent de la peine à nous arracher de ce lieu où la nuit aurait pu nous surprendre
si on nous avait laissés faire.
Il est impossible de suivre dans tout son cours ce torrent enflammé après avoir
parcouru des laves impraticables. Il se dégorge à quelques milles de là près de cet
hérémite français (chez lequel, s’il vous en souvient, nous fîmes ce méchant déjeuner
à l’omelette, mais refroidi53, il n’offre plus à cet endroit que l’aspect d’une boue épaisse
et noire qui se condense insensiblement et devient lave solide au bout de quelques
jours. Il fallut enfin reprendre à notre grand regret le chemin de la montagne où nous
éprouvâmes les mêmes difficultés qu’auparavant. A cela près que le vent ayant changé, nous y vîmes plus clair et nous jugeâmes mieux des lieux. Les restes de notre diner
se trouvaient au même endroit où nous les avions laissés. Notre vin surtout nous fut
encore d’une grande ressource. Nous nous restaurâmes, nous nous reposâmes, nous
bûmes une dernière fois à la santé du Vésuve qui nous répondit de son coté avec un
horrible fracas.
Il était plus de quatre heures lorsque nous nous décidâmes à descendre. Mon
neveu avait gagné les devants, il semblait fuir le Vésuve tant la descente était rapide,
elle fut d’une bonne demie heure, j’y mis presque le double, charmé de la beauté du
paysage qui s’offrait à nos yeux et j’en jouissais à satiété54. La journée était belle, je
laissais derrière moi les horreurs du Vésuve, par un contraste frappant le paysage le
plus riant s’étendait à nos pieds. D’un coté ma vue dominait sur cette plaine fertile
qui s’ouvre entre le Vésuve et la mer, théâtre des plus affreuses révolutions. Je me rappelais la mort touchante du bon vieux Pline décrite d’une manière si intéressante par
son neveu (2). Je voyais à mes pieds le tombeau de tant d’hommes et de villes entières
englouties ou abimés. Des fleuves de lave, des monts de cendres s’élevant sur les ruines
d’Herculanum et de Pompeja, ces mêmes villes après 18 deux milles siècles renaissan53 La parentesi è assente. La Bernard non ha tradotto la parte successiva alla parola “déjeuner”.
80
54 Lettura incerta.
tes pour ainsi dire du bain de la lave. D’autres villes, d’autres campagnes construites
sur leurs débris et les hommes insensés ou hardis fixent leur demeure sur le tombeau
de leurs pères. Telle est la vue singulière qu’offre cette cote. Je découvrais au loin tous
les contours de ce vaste et beau bassin, duquel Naples s’élevant en amphithéâtre sert
de fond, ses quais, ses faubourgs embrassant la mer, la ville même suit la pente de ces
collines toujours vertes qui semblent couronner les toits de pampres, [d’oranges et de
lierres55]. Vis à vis Caprée, cette ile fameuse, ce rocher si connu pour les débordements
du monarche qui l’habita s’élève du coin des cieux56, placée à l’entrée même du golfe,
elle laisse entrevoir la mere57 au loin par les deux ouvertures qui sont à ses cotés. Je
découvris enfin vis-à-vis de moi ces coteaux riants du Posilippe, cette retraite chérie
des anciens, cette contrée favorisée des dieux qui a fourni à la fable même ces tableaux
les plus brillants. Les Champs Elisés, l’Averne58, le Styx, l’Achéron, l’antre terrible
de la Sibille, tout est enfermé dans ces lieux, jusqu’au tombeau du poète divin qui les
chanta (3). D’un autre coté, la Nature y a prodigué ses merveilles et l’Antiquité ses
plus beaux restes59. C’est là que la Solfatare60, la Grotte du Chien, les bains brulants
de Néron, se trouvent à coté de Pouzzoles, de Baies, de Cumes, de Misène et de tant
d’autres monuments fameux. Je doute qu’il y ait au monde rien de plus intéressant
dans ce genre que le coup d’œil dont je jouissais et qui s’étendait sur 20 lieux de pays
qui forment le beau cadre du bassin de Naples.
Je descendais sans m’en apercevoir, occupé de tant d’objets différents qui parlaient tous à mon imagination. Je me trouvais insensiblement au bas de la montagne.
Ce fut la partie la moins incommode d’une marche qui dura en tout cinq à six heures.
Nos montures qui nous attendaient nous firent grand plaisir, jamais équipage brillant ne fut d’un meilleur usage que nos bourriques dans ce moment. Nous eûmes
comme compagnon de voyage un paysan naturaliste, qui portant sur sa tête un petit
panier des productions du Vésuve, nous suivait assez lentement. J’eu tout le loisir de
l’examiner, ce petit assortiment me parut si bien choisi que j’en fis l’inventaire. J’y
remarquai d’abord les précieuses ponces que le volcan lance à tout instant. Elles sont
55 Parole poco illeggibili e incerta interpretatione. La Bernard segnale una lacuna per questa
brano.
56 La Bernard legge “de l’eau” (dall’acqua).
57 Voir n.10.
58 Lacuna della Bernard che non riesce a leggere la parola
59 La Bernard legge “rochers”.
60 Lacuna della Bernard che non riesce a leggere la parola
81
si légères qu’elles suivent la direction du vent qui les pousse. Puis les scories, ces corps
spongieux m’ayant pas éprouvé une fusion aussi complète que les laves, surnageaient
dessus, et formaient cette croute raboteuse qui les recouvre. Les laves venaient ensuite. J’en vis de toutes les formes, les plus communes, celles dont presque tout Naples
est pavé sont composées d’une pate grise noirâtre plus ou moins foncées produites
de différentes matières volcaniques. Les belles ressemblent à des marbres, souvent
même à des verres coloriés. L’on en voit de tous les aspects et de différentes couleurs,
cela dépend des matières qui les composaient et des métaux qui les baignaient. Enfin,
les verres, les cristaux, les grenats, les (lacune), les hématites du Volcan61 mêlées de
quelques scories chargées de sels et de soufre fournissaient une bonne partie de cette
collection terreuse qui ne ressemble pas mal à du gros sable62, les rapilles63 ou petites
pierres octogones dont nous eûmes tant à souffrire64, enfin cette fameuse pouzzolane,
ce cinérite connu des anciens et des modernes, et tout ce que contenait la petite boutique de notre naturaliste, dont je choisis quelques pièces ne parut me charger du tout.
J’arrivais à Portici en finissant faisant mes [comptes]. Notre cabriolet nous attendait
au milieu de la Cour du Palais du Roi que le grand chemin côtoyait. J’entrevis dans les
portiques les statues équestres des deux Balbus tirées du Théâtre d’Herculanum, nous
roulions sur ces toits, ils étaient à une trentaine d’années sous nos pieds, sept à huit
laves qui les recouvraient, formant l’épaisse croute sur laquelle Portici est bâti. Tôt
ou tard le même sort semble l’attendre. Mais le temps pourrait avoir effacé jusqu’au
souvenir d’un malheur toujours renaissant. Le Cabinet de Portici livre à la merci du
Vésuve ces beaux restes d’antiquité qu’on lui a arrachés avec beaucoup de peine. Si
jamais ils redeviennent sa proye65, d’autres générations, d’autres peuples66, peut-être,
apprendront de nos malheurs ce que ceux d’Herculanum nous disent en vain. Et qui
sait si cette leçon ne s’est pas répété plus d’une fois. Il y a 50 ans que le (lacune) plus
profond oubli (lacune) l’on ignorait jusqu’à nos jours la place qu’il occupa (5). Plein
de ces idées, nous longions la mer dont les vagues paisibles battaient67 tranquillement
61 Lacuna della Bernard che non riesce a leggere la parola
62 Errore di lettura della Bernard, che traduce “si aggiunge ancora ceneri perchè si chiama cosi
una materia di terrosa, la quale è simile alla sabbia con grandi grani e anche piccoli”.
63 Parola utilizzata al posto di lapilli nei 700 e 800.
64 La lettera “e” è stata ancora questa volta aggiunta all’infinitivo.
65 Per “proie” (it. preda).
66 Non citato dalla Bernard
82
67 Questa pagina è particolarmente trascurata: oltre a due macchie d’inchiostro, si nota una scrittura veloce con cancellazioni e la fine del rigo con andamento verso il basso ed al limite del foglio,
contre les bords, tout était calme, la lune nous prêtait sa bonne clarté, je cheminais
doucement en me livrant à cette douce rêverie. Le moment de notre retour à Naples
fut celui du réveil, nous rentrâmes à nuit tombante (?) par une soirée d’été au cœur
de l’hiver enviant le sort du peuple qui habite, qui jouit sous un ciel heureux les premiers biens de l’homme, d’un climat doux et d’une paix profonde. C’est en opposant
les agréments de ce lieux cher à la Nature au bruit des cours, au fracas de la guerre,
au poids de la grandeur comme qu’a dit Virgile
«Et moi je jouissais d’une retraite obscure,
je m’essayais dans Naples à peindre la Nature»(6)
1) Il y a eu des ponces jusqu’au confin de la Calabre, c’est-à-dire à 60 miles
d’Italie. La cendre chaude fut portée jusque vers l’Adriatique.
2) Voyez la lettre que Pline le Jeune a écrite.
3) Retraite de Tibère.
4) Tombeau de Virgile68.
5) C’est en creusant un puits à Portici qu’Herculanum a été découvert dans
notre siècle par le prince de la Maison de Lorraine.
6) Livre quatrième des Géorgiques de Virgile. Traduction De Delille69.
per cui diventano quasi illeggibili. Le parole sono quasi mai troncate e rimandate da capo, come
se Potocki volesse sfruttare l’intero foglio di carta.
68 C’est à l’entrée de la grotte de Pouzzoles qu’est situé le tombeau présumé de Virgile.
69 Si tratta dell’abate Jacques Delille (1738-1813), la cui traduzione delle Georgiche è apparse in 1769.
La Bernard ha completato con il secondo verso:
«Moi qui, dans ma jeunesse, à l’ombre des vergers,
célébrais les amours et les jeux des bergers»
83
1. Tarantella con Emma Hamilton in presenza del Re Ferdinando vestito da ”lazzarone“, con la camicia
aperta e il berretto da marinaio - Opera di Ignoto. Olio su tela. Fine XXXVIII secolo (forse 1794,
anno di una forte eruzione del Vesuvio che sommerse Torre del Greco che ooare fiammeggiante
sul fondo). Napoli, collezione Santangelo.
Si ringrazia vivamente T. Santangelo per la disponibilità e le notize sul dipinto.
84
2. Conetto intracraterico con colata lavica nell’Atrio del Cavallo, delimitata
dalle pareti della caldera del Monte Somma. Pietro Fabris. Seconda metà del 700.
3. Alle falde del Vesuvio da Portici – Acquarello- Giovan Battista Lusieri (1784).
Collezione privata.
4. L’Ermitage sur le Mont Vésuve, Cracovia, 1781, Museo Nazionale (Department III - Prints, Drawings and Watercolours -r.a 1252).
85
5. Veduta del Vesuvio, qual rimase alquanti giorni dopo l’Eruzione accaduta il mese di Agosto
dell’anno 1779 dalla cima della montagna di Somma dalla banda di Tramontana.
In Gaetano De Bottis. Istoria di vari incendi del Monte Vesuvio, Napoli 1786.
86
6. Veduta del Vesuvio da un Casino che sta dirimpetto al Convento
dei PP. Agostiniani Scalzi in Resina dalla banda di Libeccio.
Incisione su rame-Francesci La Marra. In Gaetano De Bottis, 1786.
Mario Cesarano
•
Perugia
Stanisław Kostka Potocki e Nola:
antiquaria e oltre
Se a nessuna scienza è dato di ottenere progressi d’importanza, senza la costante cooperazione di più individui, che volti allo stesso scopo, siensi dedicati agli studj
medesimi; questa sentenza si verifica sopra tutto nell’archeologia, in cui per la varia
provenienza de’ monumenti, per la loro differente natura, e pei diversi modi di ragionarne, gli sforzi di un solo non possono mai conseguire veri progressi senza l’aiuto
continuato e reciproco di molti altri, che mantenendo fra loro le più attive comunicazioni, facciano copia gli uni agli altri de’ loro lumi e cognizioni.
O. Gérhard 1829
È ben noto che la letteratura archeologica su Nola non sia soddisfacentemente vasta, ancor meno quella pertinente gli studi di antiquaria. Nell’uno
e nell’altro caso le poche pubblicazioni esistenti menzionano i numerosi collezionisti locali e stranieri che tra il XVIII e il XIX secolo hanno costituito le loro
raccolte vascolari attingendo a piene mani alle necropoli nolane, ma quasi inesistenti sono gli studi dedicati in maniera esauriente alle vicende riguardanti
la genesi di ogni singolo episodio collezionistico. Fanno eccezione un saggio
sugli scavi condotti nel 1830 nell’area di Piazza d’Armi dal Reggimento Svizzero d’istanza a Nola e sui vasi recuperati in quel frangente e confluiti nel
Museo di Berna, pubblicato in tedesco in Antike Welt nel 1980 col titolo di Auf
Classichem Boden Gessamelt da A.Lezzi Hafter, C. Isler Kerenyi e R.Donceel1;
il saggio di Claire L. Lyons intitolato Il Museo "Nolano“ di Felice Maria Mastrilli e la cultura del collezionismo a Napoli (1700-1755), edito a Nola nel 19982;
L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze, edito da S. Napolitano nel 2005 a
1 A. Lezzi – Hafter e C. Isler – Kereny e R. Donceel Auf Classichem Boden Gessamelt, “Antike Welt“
sondernummer 1980.
2 C.Lyons, Il Museo ‘nolano’ di Felice Maria Mastrilli e la cultura del collezionismo a Napoli (1700-1755),
T.R. Toscano, a cura di, Nola e il suo territorio, dal secolo XVII al secolo XIX. Momenti di storia culturale
e artistica, “Ager Nolanus” 6, Castellammare di Stabia, 1998, pp. 69-108.
87
Firenze, in massima parte dedicato ai rapporti tra alcuni antiquari nolani - il
padre somasco Gian Stefano Remondini e il marchese Felice Maria Mastrilli - e l’ambiente degli eruditi antiquari fiorentini, primo tra tutti Francesco
Gori3. Per quel che riguarda la presenza di nobili ed intellettuali polacchi a
Nola, fino a qualche anno fa i dati in nostro possesso erano davvero scarsi. La
figura di Stanisław Kostka Potocki appariva fin troppo evanida. In Nola dalle
origini al Medioevo del 1971, E. La Rocca aveva citato un articolo del 1954 di
M.L. Bernhard4, comparso in polacco col titolo di Amfora malarza Edynburskiego w Muzeum Narodowyn w Warszawie, nel quale la studiosa aveva attribuito
al Pittore di Edimburgo un’anfora a figure nere conservata al Museo Nazionale
di Varsavia e confluita, originariamente, nella collezione Potocki attraverso
gli scavi che lo stesso conte aveva praticato a Nola5. Da quel momento quanti
successivamente hanno menzionato il conte Potocki si sono limitati a ripetere
che dei suoi scavi a Nola non si conservasse alcuna traccia se non la menzione
datane nel saggio della Bernhard. Non v’è dubbio che un ostacolo ad una più
approfondita conoscenza non solo di Potocki ma delle vicende di tutti i Polacchi che sono passati per Nola è dato oggetivamente dalle difficoltà per gli studiosi dell’Europa occidentale di confrontarsi con la lingua polacca. Purtroppo
un saggio di Biliński sui Viaggiatori illuministi polacchi sul Vesuvio e nelle città
vesuviane, comparso in italiano negli atti di un convegno su Pompei e l’area
vesuviana nel 19826, ha avuto scarsa diffusione tra gli addetti ai lavori. Del
tutto ignoto, invece, tra archeologi e studiosi di antiquaria nostrani un saggio
di Żaboklicki intitolato L’arte antica nel “Dizionario delle Belle Arti del Disegno”,
1797 di Francesco Milizia e in “O sztuce u dawnych czly Winkelman polski” [Dell’arte degli antichi ovvero l Winckelmann polacco], 1815, di Stanisław Kostka Potocki ,
comparso negli atti di un convegno tenuto nel 1998 ad Oria, in Puglia, dal
Consiglio Nazionale degli Architetti su Francesco Milizia e il Neoclassicismo in
Europa7. Io stesso, rifacendomi a quanto avevo potuto attingere da chi mi ave3 S. Napolitano, L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze: Felice Maria Mastrilli e Gianstefano
Remondini, Firenze 2005.
4 E. La Rocca – D. Angelillo, Nola dalle origini al Medioevo, Napoli 1971, p. 16 nota 8.
5 M.L. Bernhard, Amfora malarza Edynburskiego w Muzeum Narodowyn w Warszawie, “Archeologia”
5, 1955, pp. 170-176.
6 B. Biliński, Viaggiatori illuministi polacchi sul Vesuvio e nelle città vesuviane, “La regione sotterrata
dal Vesuvio. Studi e prospettive”. Atti del Convegno internazionale 11-15 Novembre 1979, Napoli
1982, pp. 41-88.
88
7 K. Żaboklicki , L’arte antica nel Dizionario delle belle arti del disegno, 1797, di Francesco Milizia e in O
sztuce u dawnych czyli Winkelman Polski [Dell’arte degli antichi ovvero il Winckelmann polacco], 1815, di
Stanisław Kostka Potocki, AA.VV., Francesco Milizia e il Neoclassicismo in Europa, “Atti del Convegno
va preceduto, in Nola: un centro della meswgeia campana, edito a Nola nel 2003,
finivo col ripetere la solita scarna notizia sul Potocki, collocandone la vicenda nolana erroneamente nei primi decenni del XIX secolo8. Poco dopo avevo
l’opportunità di leggere il citato articolo di Biliński e di scoprire dalla bibliografia allegata che gli studiosi polacchi avevano dedicato non poca attenzione
a Potocki e alla sua passione antiquaria. Il quasi totale silenzio su quegli studi
da parte dei ricercatori occidentali mi appariva quasi imperdonabile. Mi sembrava come se quel triste muro di Berlino che per tanto tempo aveva segnato
il confine, non solo fisico, tra due mondi, continuasse anche dopo il 1989 ad
alimentare una distanza immotivata tra culture che, per quanto si esprimessero in lingue diverse, facevano pur parte della stessa Europa e condividevano
un passato per tanti aspetti comune. Quanto distanti apparivano quegli anni
Sessanta in cui Gian Pietro Bognetti, che amava definirsi lo “storico dei Longobardi”, chiamato dal 1955 a dirigere l’Istituto di Storia della società e dello
Stato veneziano, “particolarmente convinto della qualità della ricerca archeologica sull’alto medioevo polacco”, pensò di affidare la direzione degli scavi
di Torcello, nella laguna veneziana, a Witold Hensel, direttore dell’Istituto di
Storia della cultura materiale dell’Accademia polacca delle Scienze, e ai suoi
collaboratori, che successivamente avrebbero lavorato anche a Castelseprio in
Italia settentrionale9, giungendo in ambedue i casi alla realizzazione di importantissime pubblicazioni scientifiche10. Sulla scorta di queste riflessioni nell’inverno del 2006 mi recai in visita alla biblioteca dell’Accademia Polacca delle
Scienze a Roma e lì trovai tutti i saggi citati da Biliński a proposito di Potocki.
Lo stesso giorno, 11 gennaio, nelle sale della Biblioteca assistetti alla presentazione di “Barocco. Storia-Letteratura-Arte”, numero speciale in italiano della
rivista polacca Barok. Appresi anche che in quei giorni era in corso una mostra
nella residenza di Potocki alle porte di Varsavia sul Grand Tour e sui viaggi di
Potocki, arricchita dalla pubblicazione di un catalogo delle collezioni d’arte e
antichità conservate al palazzo di Wilanow, edito oltre che in polacco anche in
internazionale di Studi. Oria, Novembre 1998”, Bari 2000, pp. 123-131.
8 M. Cesarano, Nola: un centro della meswgeia campana, Nola 2003, p. 50.
9 S. Gelichi Introduzione all’archeologia medievale. Storia e ricerca in Italia, Roma 20025, pp. 70-78.
10 L. Leciejewicz – E. Tabaczyńska – S. Tabaczyński 1977; M. Dabrowska – L. Leciejewicz - E.
Tabaczyńska - S. Tabaczyński, Castelseprio. Scavi diagnostici 1962-1963, “Sibrium” XIV, 1978-79,
pp. 1-137.
89
inglese11. Durante la presentazione di Barocco, un sottile senso di orgoglio mi
percorse quando Marinetti propose di organizzare una giornata di studi sui
rapporti tra la Polonia e l’Italia nel XVI secolo, concentrando l’attenzione, tra
i tanti, su Giordano Bruno, il “Nolano”; ma ancor più fui soddisfatto quando
Elżbieta Jastrzębowska, direttrice dell’Accademia, mi invitò a intervenire a
un futuro convegno su Stanisław Kostka e Jan Potocki, che si sarebbe tenuto
nell’Aprile del 2007. Negli atti di quell’incontro, editi dall’Accademia a Roma
nel 2008, compaiono in italiano Gran Tour “alla polacca”, di Ewa Manikowska12,
l’intervento di Witold Dobrowolski, Vasi greci nel collezionismo e nelle opinioni
di Stanisław Kostka Potocki13 e il mio saggio intitolato Stanisław Kostka Potocki
e gli scavi archeologici a Nola14, che riprende quello edito nello stesso anno col
titolo Stanisław Kostka Potocki: dalle “tombe etrusche” al “Winckelmann polacco”,
nel numero della rivista Archaeologiae del 200515. Intanto negli ultimi mesi del
2007 Dobrowolski pubblicava a Varsavia una monografia di ampio respiro
sull’intera collezione di vasi antichi di Potocki, edita contemporaneamente
in polacco e in inglese, che raccoglie anche tutta la bibliografia precedente
sull’argomento16.
Le giornate di studio che ora si tengono a Nola segnano una tappa fondamentale di un lungo percorso e abbattono definitivamente quel muro nel
quale il pionieristico articolo di Biliński e il convegno sui Potocki nel 2007
hanno aperto una breccia sempre più larga, favorendo il rinnovo di un antico
legame tra Nola e i Polacchi. Appare suggestivo, in questa sede, ricordare che
11 Wilanów Collection Catalogue, Warsaw 2005.
12 E. Manikowska Gran tour “alla polacca”, E.Jastrzębowska - M.Niewójt, Archeologia Letteratura
Collezionismo, “Atti del Convegno dedicato a Jan e Stanisław Kostka Potocki 17-18 aprile 2007”,
Accademia polacca delle Scienze Biblioteca e Centro di Studi a Roma, Conferenze 123, Roma
2008, pp.163-173.
13 W. Dobrowolski Vasi greci nel collezionismo e nelle opinioni di Stanisław Kostka Potocki,
E.Jastrzębowska - M.Niewójt, Archeologia Letteratura Collezionismo, “Atti del Convegno dedicato a
Jan e Stanisław Kostka Potocki 17-18 aprile 2007”, Accademia polacca delle Scienze Biblioteca e
Centro di Studi a Roma, Conferenze 123, Roma 2008, pp. 203-218.
14 M. Cesarano, Stanislaw Kostka Potocki e gli scavi archeologici a Nola, E.Jastrzębowska - M.Niewójt,
Archeologia Letteratura Collezionismo, “Atti del Convegno dedicato a Jan e Stanisław Kostka Potocki 17-18 aprile 2007”, Accademia polacca delle Scienze Biblioteca e Centro di Studi a Roma,
Conferenze 123, Roma 2008, pp. 174-202.
15 M. Cesarano Stanisław Kostka Potocki: dalle “Tombe etrusche” di Nola al Winckelmann polacco, “Archaelogiae III, 1-2, 2005, (2009), pp. 83-112.
90
16 W. Dobrowolski, Wazy greckie Stanisława Kostki Potockiego, Muzeum Pa¸ac w Wilanowie, Warszawa, 2007.
tra il 1640 e il 1642 sedici delle popolose borgate, note come casali, appartenenti alla città di Nola, furono sotto la giurisdizione civile e criminale del re
di Polonia Ladislao Sigismondo, al quale erano state alienate da Filippo IV il
Cattolico, re di Spagna.
Nel 1594 l’umanista polacco Stanisław Reszka, noto in Europa come
Rescio, scriveva una lettera al famoso poeta connazionale Szymon Szymonowic, conosciuto sotto il nome di Simon Simonides, per invitarlo a visitare
i luoghi virgiliani in Campania, dove, presi dalla suggestione, era possibile
dialogare con gli illustri personaggi dell’antichità, e menzionava Nola, dove
era possibile incontrare il console romano Marcello17. Per l’umanista intimamente legato alla conoscenza delle fonti letterarie antiche era chiaro che la
visita a Nola fosse stimolata più dalla possibilità di rivivere suggestivamente
i grandi momenti storici immortalati dalle pagine di Livio18, che dall’opportunità di osservare i resti superstiti di un’altrimenti anonima antichità, quei resti
descritti appena ottant’anni prima da Ambrogio Leone19, ma la cui evidenza
andava certamente sempre più assottigliandosi se il Lipsius nell’elenco degli
anfiteatri presenti in Italia, redatto nel 1584, aveva taciuto su quello laterizio,
ben descritto dal Leone20.
Eppure a distanza di poco meno di duecento anni Nola diventa una
delle tappe più frequentate dagli intellettuali e dai nobili di tutt’Europa, che
per motivi diplomatici o nel compimento del loro grand tour italiano soggiornano, chi più chi meno, a Napoli (fig.1). Malgrado una discreta crescita culturale, legata prima di tutto all’attività del nuovo seminario vescovile voluto dal
vescovo Trojano Caracciolo del Sole, intorno alla metà del XVIII secolo Nola
non è che una piccola cittadina, priva di quelle attrazioni e di quelle suggestioni che hanno fatto delle maggiori città italiane, Napoli compresa, tappe
immancabili del Grand Tour21 (fig. 2). Ma in una cultura, quella del Settecento, nella quale le ricerche antiquarie sono qualcosa di cui nessuno può fare a
17 B. Biliński, Laudes Campaniae e interviste agli antichi nella lettera dell’umanista polacco Stanisław
Reszka-Rescio dell’anno 1594, “RSS” VIII.1,1991, pp. 89-110.
18 Liv. XXIII, 39, 7; XXIII, 42-46; XXIV, 13, 8-11 e 17.
19 A. Leone, De Nola. Opusculum distinctum, plenum, clarum, doctum, pulchrum, verum, grave, valium et
utile, Venezia 1514, ed.it. P.Barbati, Nola (la terra natia), Napoli 1934, pp. 38-45.
20 J. Lipsius, De Amphitheatris quae extra Romam Libellus, Roma 1584, pp. 8-9.
21 L. Avella, Nola nel secolo dei Lumi, Napoli 2003.
91
meno22, pur in mancanza dei monumentali resti archeologici, che da quegli
anni a tutt’oggi continuano a fare di Pompei ed Ercolano, dei Campi Flegrei e
di Paestum alcuni dei siti antichi più visitati del mondo, Nola, per la ricchezza
delle sue necropoli antiche, non può non diventare luogo privilegiato di rifornimento per il vivace, fiorente e spregiudicato mercato antiquario napoletano.
L’architetto August Moszyński, illuminista polacco tra i più rinomati, di soggiorno a Napoli tra il 1785 e il 1786, annota nel suo Diario che i Napoletani «in
modo meraviglioso sanno sfruttare questa passione degli stranieri»23. La passione è quella di ricercare vasi antichi e di portarli nelle proprie residenze nei
Paesi di appartenenza al momento di lasciare Napoli. Il primo editto emanato
nel 1755 dal Governo borbonico in materia, per così dire, di Beni Culturali, era
nato proprio dalla esigenza di arginare l’emorragia di antichità e opere d’arte
dal Regno ed era stato necessario ribadirne i contenuti in successivi provvedimenti24. L’azione preventiva della legge non ottiene risultati soddisfacenti
e, attraverso un movimentato mercato clandestino o opportuni raggiri alla
legge, un’incommensurabile quantità di vasi antichi provenienti da diversi
siti del Regno delle Due Sicilie finisce nei palazzi signorili d’Europa, preludio
alle collezioni dei più importanti Musei odierni. Nell’opera intitolata Cenni
sulla maniera di rinvenire i vasi fittili italo-greci, sulla loro costruzione, sulle loro
fabbriche più distinte e sulla progressione e decadimento dell’arte vasaria, edita per
ben due volte nella prima metà del XIX secolo, Raffaele Gargiulo, che si firma
“Ajutante al Controlloro del Real Museo Borbonico”, dichiara che:
Dipoi moltissimi amatori e collettori di altre nazioni imitarono questo insigne
uomo [Hamilton] e le ricerche divennero generali per tutta la Magna Grecia; cosicché
in breve tempo questo fortunato suolo ebbe la gloria di fornire il materiale ad innumerabili Musei di Europa25.
Tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima del XIX, forse ancora
oggi, le campagne nolane sono tra le fonti più prodighe del traffico illecito di
vasellame antico. Il commissario reale N. Cimaglia, inviato a Nola a seguito
22 A. Momigliano, Preludio settecentesco a Gibbon, “Rivista storica italiana”, LXXXIX1977, p. 8.
23 B. Biliński, Viaggiatori, p. 56 e pp. 61-69 per la presenza di Moszyński in Campania.
24 P. D’Alconzo, L’anello del re. La tutela del patrimonio storico-artistico nel Regno di Napoli (17341824), Firenze.1999.
92
25 R. Gargiulo, Cenni sulla maniera di rinvenire i vasi fittili italo-greci, sulla loro costruzione, sulle loro
fabbriche più distinte e sulla progressione e decadimento dell’arte vasaria, Napoli 1843, p. 10.
di una denuncia anonima al Regio Governatore di praticare scavi clandestini,
nella relazione che invia al Re, a proposito di quanto avviene nei territori di
Nola, datata 9 ottobre 1785, scrive:
questo disordine non è nuovo in Nola. E questo disordine istesso al mio corto
giudizio no contiene altro difetto che l’inosservanza delle Leggi, che il depauperarsi
ogni giorno il proprio Paese, el vendersi il decoro della Nazione tutto ai Forestieri26.
Ma a fare di Nola uno dei luoghi prescelti dagli stranieri amatori di cose
antiche non è soltanto la possibilità di fare pregiati acquisti. Molti di questi signori possono sperimentarsi autenticamente come provetti archeologi (fig.3).
Nel secondo volume della traduzione polacca di Geschichte der Kunst des Altertums (Sull’arte del disegno presso gli Antichi) di J.J.Winckelmann, che il conte
S.K.Potocki pubblica nel 1815 col titolo di O sztuce u Dawnych czyli Winckelman
Polski (Sull’arte degli Antichi ovvero il Winckelmann Polacco), si legge:
Io stesso durante il mio soggiorno a Napoli ho riunito più di cento vasi etruschi,
nel che mi è servita la facilità che avevano allora gli stranieri di scavare a Nola27.
Con “allora” il conte si riferisce ai mesi del suo secondo soggiorno a
Napoli, tra il 1785 e il 1786, quando ebbe l’occasione di condurre di persona
scavi a Nola. Nella lettera datata 6 gennaio 1786 da Napoli scrive alla moglie
a Varsavia:
presto mi recherò a Nola per assistere agli scavi che lì si fanno.
Il giorno seguente aggiunge allo stesso testo:
sono appena tornato da Nola dove si fanno le scoperte dei vasi Etruschi, Io ho
fatto condurre lavori per conto mio, la fortuna mi ha assistito fino a farmi trovare le
cose più interessanti del mondo, e soprattutto, ho avuto il piacere di levarle con le mie
proprie mani da una tomba nella quale sono restate per almeno duemila anni. Immagi26 S. Napolitano, op. cit., pp. 164-168.
27 S. K. Potocki, O sztuce u dawnych czyli Winkelman Polski, Warszawa 1815, II, p. 55.
93
na un grande masso di pietra […] a 30 o 40 piedi sotto terra, perché tali sono le Tombe
Etrusche, lo scheletro di un morto perfettamente conservato, tra le sue gambe tutto
pieno di piccoli lacrimatoi, ultimi doni dei suoi amici, verso la testa un bel vaso di terra
nera, più grande degli altri, e ai piedi un vaso di dieci o dodici palmi di altezza di una
bellezza unica, evidentemente consacrato al morto dalla sua famiglia, vi si vedono su
ciascun lato due guerrieri armati dalla testa ai piedi che combattono, il che fa ritenere
che il morto fosse un soldato di professione. (…) Io ti invierò un giorno la descrizione
del mio piccolo viaggio a Nola e degli scavi che ivi si fanno, è un’avventura davvero
entusiasmante, e poco costosa.
Nella lettera del 14 gennaio 1786 scrive:
è mio dispiacere non aver tempo per risponderti, ma tu saprai che non faccio
che tornare da Nola dove ho fatto fare scavi in mia presenza.
A distanza di quarant’anni la lettera inviata il 1 febbraio 1825 al marchese Ruffo dal conte di Stackelberg, inviato straordinario e Ministro Plenipotenziario di S.M. l’Imperatore di tutte le Russie, testimonia che la situazione
non è mutata affatto, giacché Nola continua ad essere una sorta di campus
archeologico per gli stranieri28:
Il Principe e la Principessa Galitzinn avendo sentito dire che SM il Re Ferdinando di gloriosa memoria ha accordato a diversi stranieri il permesso di fare scavi a Nola,
desiderano godere dello stesso favore durante le sei settimane che essi hanno ancora
da trascorrere nel reame di Napoli. Si intende che a compensazione delle loro spese
essi prenderebbero soltanto gli oggetti di minor valore29.
Intellettuali e nobili, stranieri e non, collocano i vasi antichi all’interno
delle loro biblioteche, prima di allestire appositi “gabinetti di vasi” (fig.4). In
una lettera scritta al nonno materno al termine del suo grand tour in Europa,
compiuto tra il 1714 e il 1717, Thomas Coke scrive30:
28 ASNa Aff. Int. II, cont. 1000, fasc. 3.
29 Gli interessi antiquarii dei principi Gallitzin a Napoli sono ricordati già per l’epoca napoleonica da A.L.
Millin, Peintures de Vases Antiques vulgarement appelés étrusques, Paris 1838, II, p.35, nota 3.
94
30 S. Napolitano, op. cit., p.17; M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi: archeologia e antiquaria nel
una biblioteca ricercata è in fondo, per un gentleman e per la sua casata, un
grandissimo decoro.
Sono proprio le biblioteche nel corso del Settecento a sostituire gli antichi studioli degli umanisti e la successiva wunderkammer e a diventare cenacoli
in cui eruditi di ogni provenienza si riuniscono per discettare di scienza e di
ogni sorta di argomento culturale, guadagnandosi il titolo di Accademie o di
Musei. Vere e proprie regole per l’allestimento di queste biblioteche generano
una “moda bibliotecaria” che trova un’eco immediata proprio a Nola, nelle
tele del pittore Angelo Mozzillo, databili agli anni ’70 del XVIII secolo, in cui
raffigurazioni di vasi attici a figure rosse, di forme non sempre riscontrabili
nella realtà, trovano posto come sopraporti e sopramensole (fig.5)31. A riempire gli scaffali delle biblioteche sono soprattutto i più ricercati libri sull’Italia e
sulle sue bellezze artistiche. Lo stesso conte Potocki, nel momento in cui parte
per il suo secondo viaggio in Italia, nel 1785, ha tra i suoi scopi quello di comprare libri di tal genere per la sua biblioteca. Nella lettera scritta da Napoli il 16
dicembre 1785 parla alla moglie dell’impaziente attesa dell’arrivo di Aigner,
che ha trovato per lui una copia del prezioso volume edito a Parigi nel 1769 da
J.J. Lalande col titolo Voyage d’un français en Italie, fait dans les années 1765-1766,
contenant l’histoire et les anecdotes les plus singulières de Italie et sa description, che,
chiarisce, aver già egli stesso rinvenuto nella biblioteca di un privato. Accanto
a questo testo, oggi la collezione di libri del Palazzo di Wilanow raccoglie tra
gli altri: Nouveau voyage d’Italie. Avec un Memoire contenent des avis utiles à ceux
qui voudront faire le mesme voyage del 1698, di Francois Marimilien Misson; Voyage d’Italie ou Recueil de notes e de sculpture qu’on voit dans les principales villes
d’Italie del 1769, di Charles Nicolas Cochin; Description historique et critique de
l’Italie ou Nouveaux mémoires sur l’etat acque de son guvernement, des sciences, des
arts, du commerce del 1769, di Jerome Richard. L’attenzione rivolta all’allestimento della biblioteca rimane per Potocki costante nel corso del suo viaggio
e nella lettera del 3 febbraio 1786 informa la moglie che va progettando con
l’aiuto di Aigner la sistemazione in essa dei vasi antichi32.
‘700, Roma 1983, p. 15; W.O. Hassel Portrait of Bibliophile II. Thomas Coke, Earl of Leicester, 16971759, “The Book Collector VIII”, 1959, pp. 249-260.
31 N. Spinosa , Pittura napoletana del Settecento. Dal Rococò al Classicismo, Napoli 1988, pp. 61 e
445.
32 M. Cesarano, Potocki e gli scavi, pp. 176-178; M. Cesarano, Potocki: dalle “Tombe etrusche”, pp.8586.
95
Molti dei libri che riempiono gli scaffali di queste biblioteche sono racconti di viaggio, scritti dagli stessi protagonisti secondo una diffusa moda caratterizzante il Grand Tour. Quelli che tra gli autori di questi volumi si provano
anche nell’entusiasmante esperienza di fare scavi archeologici talvolta annotano dati precisi sulle località nelle quali scavano. Alcuni di essi promuovono
la pubblicazione di cataloghi delle loro collezioni, nei quali oltre alla descrizione dei vasi può trovarsi dichiarata la loro provenienza. La corrispondenza
epistolare tra S.K.Potocki e sua moglie Alessandra ha proprio i tratti di un racconto di viaggio e, come abbiamo potuto leggere, fa spazio all’esperienza fatta
dal conte di aver commissionato scavi e di averne eseguiti in prima persona
a Nola. Quello che, però, risulta estremamente difficile nella quasi totalità dei
casi, non escluso quello di Potocki, è individuare le precise proprietà terriere
nelle quali nelle diverse città gli stranieri hanno condotto le loro ricerche di
antichità, visto che molto raramente vengono citati i fondi o i proprietari terrieri nei cui terreni vengono praticati gli scavi. Nel caso di S.K.Potocki credo,
però, che dal confronto delle sue lettere con altri documenti d’archivio si possa proporre un’ipotesi plausibile sul luogo preciso in cui egli ha il piacere di
tirar fuori dalla terra con le proprie mani alcuni tra i più cari pezzi della sua
raccolta di vasi. Nella lettera del 14 gennaio 1786, scusandosi con la moglie,
Kostka scrive:
è mio dispiacere non aver tempo per risponderti, ma tu saprai che non faccio
che tornare da Nola dove ho fatto fare scavi in mia presenza(…) Tu mi parli di venire
in Italia, è il mio progetto pure, nel quale penso di stabilirmi a Nola, che è un posto
bello per qualche settimana. Madame la governatrice Don Gaudentio e Don Vecchioni,
con i quali ho passato la mia giornata di ieri, sono le persone più amabili di Nola, io
ti inserirei in questa società. Tutto questo per avere il piacere di aprire le tombe e di
spogliare i morti.
96
Fino ad ora non sono riuscito ad identificare «madame la governeuse
Don Gaudentio», moglie probabilmente di un governatore regio. A tal proposito va ricordato che dalla già citata relazione del Cimaglia al re del 9 ottobre
1785 il governatore di Nola, almeno fino a tutto il 1785, risulta essere Don
Sebastiano Buondonno. Credo, invece, che il tanto amabile Don Vecchioni
possa identificarsi con lo stesso Abate Vecchioni insieme al quale il principe
Sanisław Poniatowski assiste a scavi a Nola il 26 novembre 178633. Dobbiamo
ritenere estremamente probabile che gli intellettuali e i nobili polacchi che
giungono a Nola lo facciano attraverso gli stessi canali34. La Manikowska ricorda che i viaggiatori polacchi si distinguono in Francia come in Italia dal
resto degli stranieri per il loro apparire agli occhi degli osservatori come un
gruppo a parte, per il loro stare sempre insieme35. Il loro tour viene praticamente organizzato dagli ambasciatori loro connazionali presenti nelle corti
d’Europa. In Italia è Tommaso Antici, ambasciatore di Sua Maestà Stanislao
Augusto Poniatowski a Roma, ad accogliere gli ospiti polacchi, ad organizzarne il soggiorno e gli spostamenti in Italia e, all’occorrenza, a controllarne ogni
movimento e ogni tipo di relazione sociale. Stando alla corrispondenza che
Antici intrattiene col suo re, il suo “patronato” si estende anche a S.K.Potocki
e, soprattutto, a sua suocera, la principessa Lubomirska, lontana da Varsavia
per il coinvolgimento in un intrigo di corte ai danni del re. Nel momento in
cui la folta carovana della principessa giunge a Napoli, Antici affida i suoi
connazionali alle premure della Principessa di Corigliano, cognata di Francesco Saluzzo, nunzio a Varsavia, e a quelle dell’abate Mattia Zarillo, antiquario
del re. Costui è senza dubbio un personaggio di grosso rilievo tra gli antiquari
napoletani e ben noto anche oltre confine se tanta eco riscuote una lettera a lui
attribuita, datata 1765, nella quale viene malamente criticata l’opera di Winckelmann sulle scoperte di Ercolano e lo stesso studioso tedesco viene definito «un Goto divenuto Antiquario a forza di pratica, non altrimenti, che sono
i Ciceroni celebri di Pozzuoli», il quale scrive in tedesco e non in francese,
«lingua oramai generale, …per non esser capito, che da pochi» 36. Il 24 agosto
del 1784 il Zarrillo viene nominato “Direttore del Museo e Accademia di Capodimonte”. Il Romanelli in Viaggio a Pompei a Pesto e di ritorno ad Ercolano ed
a Pozzuoli del 1817 ricorda a Pompei «una decorosa abitazione, che fu scavata
sotto la direzione dell’abate Zarillo pel generale Championet, da cui prese il
nome»37. Al ruolo istituzionale, però, sembra che il Zarillo alterni anche quello
33 B. Biliński , Viaggiatori, p. 74.
34 Oltre a quelle di Potocki e di Poniatowski, è documentata a Nola anche la visita di Francesco
Bieliński nel gabinetto etrusco di Pietro Vivenzio il 12 giugno del 1790 (B. Biliński, Viaggiatori, pp.
79-81).
35 Manikowska, op. cit., pp. 163-173.
36 M. Zarillo Giudizio dell’opera dell’abbate Winckelmann intorno alle scoverte di Ercolano contenuto in
una lettera (del Sig. Ab. Zarillo) ad un amico, Napoli 1765 s.n.t.
37 D. Romanelli, Viaggio a Pompei a Pesto e di ritorno ad Ercolano ed a Pozzuoli, Napoli 18172, parte
II, p. 169.
97
di mercante d’arte, non sempre nel rispetto della legge. Già in una lettera del
12 agosto 1766, inviata dal Tanucci a S.M. Carlo III, l’abate veniva accusato di
essere immischiato in un traffico illegale di antichità con forestieri. È in questo
contesto che il Zarillo deve aver costruito una rete di contatti con personaggi di Nola, tra cui il Don Vecchioni, al quale deve aver presentato Potocki e
Poniatowski. Il cognome Vecchioni o Vecchione risulta ampiamente diffuso a
Nola nella seconda metà del Settecento38 e potrebbe essere azzardato cercare
di identificare il personaggio che a noi interessa, ma da alcuni documenti risulta esserci un sacerdote don Ignazio Vecchione, coinvolto in scavi archeologici e nella vendita di oggetti antichi a stranieri. Sempre nella relazione del 9
ottobre 1785 inviata al re il Cimaglia annota:
Ultimamente il Sig. Conte di Lamberg Ministro Plenipotenziario del Sig. Imperatore si diresse ad un Prete D.Ignazio Vecchione, il quale avendo fatto cavare in un Podere suo proprio detto la Teglia nel Territ.o di Cimitile ne trasse molto antico prezioso
vasellame, ed i soliti monili di rame che sogliono rinvenirsi negli antichi sepolcri, tutta
la qual robba fu acquistata dal Sig. Conte di Lamberg.
Apprendiamo da una lettera dell’abate Mazzola allegata dal marchese
De la Borde alla sua introduzione alla pubblicazione del catalogo della collezione del conte di Lamberg, che costui compie scavi nelle vicinanze di Nola
tra il 1783 e il 1784, durante il suo mandato di ambasciatore austriaco a Napoli39 (fig.6). Se è giusta la mia proposta di identificare il prete don Ignazio Vecchione del Lamberg con l’abate Vecchione che guida Potocki e Poniatowski,
ci troviamo di fronte a uno di quei personaggi che in Nola, secondo le parole
di Moszyński, «in modo meraviglioso sanno sfruttare questa passione degli
stranieri», il quale vende vasi, ma mette anche a disposizione i suoi terreni
perché i nobili forestieri possano provare in prima persona l’entusiasmo di
tirar fuori dalla terra oggetti antichi.
Grazie ad alcuni documenti d’archivio possiamo tentare di individuare
le proprietà terriere di don Ignazio Vecchione, dove probabilmente scavano
il conte di Lamberg, il principe Poniatowski, il conte Potocki. Il regio decreto
38 L. Avella,op. cit., pp. 357-365.
98
39 A. De La Borde, Collection des vases grecs de M.r Le Comte de Lamberg, I, Paris 1813, pp. X-XIII.
emanato il 14 maggio 1822 per regolamentare gli scavi di antichità di privati
cittadini dispone che coloro che facciano richiesta del permesso per eseguire
scavi, alleghino alla loro domanda il certificato di possesso dei fondi nei quali
intendono scavare o il consenso del proprietario, col relativo documento di
proprietà di quest’ultimo40. A tal proposito conserviamo le richieste di donna
Marianna Vecchione e di don Felice Sirignano, entrambi di Nola, databili tra il
1824 e il 1825, che ci consentono di ricostruire il nucleo familiare del prete don
Ignazio Vecchione, di risalire ai beni terrieri di sua proprietà e di individuarne
l’esatta localizzazione:
S. R. M.
Signore,
Marianna Vecchione Erede del fu Sacerdote don Ignazio Vecchione proprietaria
del Comune di Nola con divote suppliche espone alla M. V., come volendo intraprendere de’ scavi per rinvenire le antichità in un suo fondo descritto nella fede che umilia, sito
in tenimento di detto Comune luogo detto S. Massimo, ne domanda il dovuto permesso a norma del Real decreto de’ 14 maggio 1822. tanto spera dalla M. V. e l’avrà ut Deus.
Marianna Vecchione
La richiedente allega alla sua petizione il documento comprovante il
possesso nel fondo nel quale intende eseguire gli scavi41:
Il Cancelliere Archivario del Comune Capoluogo di Nola.
Certifica, come avendo riscontrato nel Catasto Provvisorio del suddetto Comune formato nell’anno 1813, in esso al foglio 1600 ha ritrovato la seguente partita tra gli
altri beni:
Vecchione Sig.r Ignazio Sacerdote di Nola
Arbustato Seminatorio S.Massimo moggia due in prima classe rendita netta----------lire 149, 60
Nola lì 24 Marzo 1825
Nella stessa data le dichiarazioni della donna vengono certificate da
40 P. D’Alconzo, op. cit., pp. 164-165.
41 Tutto l’incartamento relativo a Marianna Vecchione è conservato in ASNa Aff. Int. II, cont.
1000, fasc. 3.
99
una dichiarazione del sindaco di Nola, Gaetano Palliola.
Seguendo lo stesso iter don Felice Sirignano, dovendo dimostrare che i
terreni nei quali chiede di poter scavare sono di sua proprietà, allega alla domanda l’atto notarile, datato 10 novembre 1824, che attesta che ha acquistato
quei fondi dai fratelli Donato e Felice Vecchione di Nola, eredi del fu sacerdote
don Ignazio Vecchione42:
Certifico io qui sottoscritto Notaio, che nel giorno dieci Novembre di questo
corrente sottoscritto anno stipolai istromento registrato nell’Ufficio del Comune di
Nola nel giorno undeci dello stesso mese, numero progressivo duemilaseicentoquarantasette folio cinquantesimo …, casella quarta, …ventesimo primo, numero primo,
col pagamento di grani ottanta, li germani Fratelli don Felice e don Donato Vecchione
figli entrambi del fu don Nicola del detto Comune di Nola, vendevano liberamente a
don Felice Sirignano figlio del fu don Michele dello stesso sudetto Comune di Nola,
moggia due e passi ottocentoquarantatrè e due ottavi di territorio arbusto seminatorio
con una casa di due membri coverti da lastrici a sole con aia … e colle comodità del
pozzo, forno, lavatoio ristenti in esso, …in tenimento del sudetto Comune di Nola,
nel luogo denominato Strada di Cimitile ossia quartier nuovo, confinanti dalla parte
di Levante col Territorio del Notaio don Felice Rossi, da Ponente col territorio di Don
Andrea Ruggiero, verso mezzogiorno colla pubblica Strada e dalla parte di Setterntrione col territorio degli Eredi del Signor don Pasquale Cocozza, riportate dette moggia
a due e passi ottocentoquarantatrè e trè ottavi di territorio per una maggior estensione
di moggia trè comprese in due partite, ognuna di esso di moggia uno, ….quattrocentocinquanta, e la sudetta Casa di due membri in testa del fu Sacerdote don Ignazio
Vecchione zio paterno di cui predetti germani fratelli don Felice e don Donato, nel
Catasto Provvisorio del cennato Comune di Nola, sotto li numeri novantatrè, novantaquattro e novantacinque, folio milleseicento dello stesso, e quelli per la somma di
ducati millecentocinquantasette, e grani ventitré cioè, ducati millesettantadue e grani
novantacinque suaccennate moggia due, e grani ottocentoquarantatrè, e tre ottavi di
territorio, e ducati novantaquattro e grani ventotto li suddetti due membri di casa ed
aia ….vettovaglie colle suddette comodità di pozzo, forno, e lavatoio, come tutto ciò,
ed altro più ……compravendita al quale vi abbia relazione. Santerasmo li diciannove
100
42 Tutta la documentazione relativa allo scavo del Sirignano, dalla richiesta del permesso alla
“rivela” degli oggetti rinvenuti e alla loro vendita, è conservata in ASNa Aff.Int.II, cont.1000,
fasc. 3.
dicembre milleottocentoventiquattro ed in fede io Notaio Pasquale Lauro figlio del fu
Nicola residente nel Comune di Santerasmo Circondario di Saviano, di presso distretto
di Nola, Provincia di Terra di Lavoro ho apposto il mio segno del Tabellionaro al presente Certificato rilasciato al surriferito don Felice Sirignano.
Il documento testimonia della localizzazione delle proprietà del prete
Ignazio Vecchione acquistate dal Sirignano sulla Strada di Cimitile e precisamente nell’area del “Quartier nuovo”, per il quale si intende la caserma di
cavalleria sita nell’attuale Piazza d’Armi (fig.7). Un altro atto redatto appena
dieci giorni dopo dallo stesso notaio fa riferimento ad altri beni dello stesso
sacerdote in via San Massimo, nel comune di Nola:
Certifico io qui sottoscritto Notaio, che nel giorno venti Novembre di questo corrente sottoscritto anno stipolai istrumento registrato nell’Uffizio del Comune di Nola
nel giorno venticinque dello stesso mese, numero progressivo duemilasettecentottantuno, folio sessantesimo terzo retto, casella prima, volume ventesimo primo, numero
primo, col pagamento di grani ottanta col quale don Donato Vecchione figlio del fu don
Nicola del cennato Comune di Nola, si dichiarò debitore a don Felice Sirignano figlio
del fu don Michele dello stesso suddetto Comune, nella somma di ducati duecentocinque stabilendosi quanto siegue: Per cautela e sicurtà del cennato don Felice Sirignano,
e per la garanzia della sicura soddisfazione di detta somma di ducati duecentocinque,
l’anzidetto don Donato Vecchione ipoteca da di lui favore tutti e qualsivogliano suoi
beni generalmente, e specialmente moggio uno di territorio arbusto seminatorio, delle
due che si è detto essere in comune ed indiviso col di lui german fratello don Felice
Vecchione del cennato Comune di Nola, situato in tenimento del Comune medesimo,
nel luogo denominato Santo Massimo, alliganti col territorio del Signor Geremia Nozzo(?) del suddetto Comune di Nola, Strada pubblica, ed altri confini riscontrate dette
intiere moggia a due di territorio in testa del fu Sacerdote don Ignazio Vecchione zio
paterno del detto don Donato del cennato Comune di Nola, nel Catasto Provvisorio
dello stesso suddetto Comune di Nola, folio milleseicento, numero centotrentanove, di
cui certificato estratto rilasciato nel giorno dodici di questo suddetto corrente mese di
Novembre, e registrato nell’Ufficio del Comune medesimo nello stesso suddetto giorno, numero progressivo duemilaseicentocinquantotto, folio cinquantesimo primo…,
casella quarta, volume ventesimo primo, numero primo, col pagamento di grani venti
in fine di questo istrumento originalmente inserito conservaci.
101
L’atto continua annotando gli obblighi ai quali è tenuto don Donato
Vecchione a favore di don Felice Sirignano. Tra essi vi è il divieto di fare scavi
di antichità finché resta in vita donna Marianna Vecchione:
Si Conviene per patto espresso, e speciale, che restar debba tenuto l’anzidetto don Donato Vecchione, come lo stesso promette …obliga di tenere presso di se la
cennata somma capitale di ducari duecentocinque, durante la vita naturale di donna
Marianna Vecchione figlia del fu don Donato, e di lui zia paterna del cennato Comune di Nola, corrispondendone in tanto da oggi a beneficio del surriferito don Felice
Sirignano gli interessi convenuti in annui ducati venti e grani cinquanta, alla ragione
del dieci per cento, pagabili semestratamente in danaro sonante conante di argenro
di giusto peso, conio e valore ed in questo Regno corrente, e fuori carte di Banco o
cedole e franchi di beni da ….e qualsivogliano pesi Regii o comunali, che vi sono presentemente o verranno imposti per l’avvenire, quali tutti cedere devono a solo danno,
a carico del surriferito don Donato Vecchione, che promette e si obbliga a suo conto
soddisfarlo e pagare al cennato don Felice Sirignano li predetti ducati venti e grani
cinquanta sempre interi, e non mancanti dopo seguita la morte della cennata donna
Marianna Vecchione, restar debba tenuto l’anzidetto don Donato Vecchione come lo
stesso promette, e si obbliga d cedere, ed assegnare al surriferito don Felice Sirignano
l’anzidetto suo moggio di territorio delle cennete moggia due, dovendo l’altro moggio
restare a beneficio del surriferito di lui german fratello don Felice Vecchione. Questa
cesssione dovrà seguire e farsi alla ragione corrente allora, e ….appresso di due Periti
di consenso eliggendi, li quali dovranno tener presente, e calcolare l’apprezzo sulla
vendita sola, che detto moggio uno di territorio potrebbe dare da sotto e sopra, senza
aversi altro riguardo,o prezzo di attenzione per qualunque altra causa niuna eccettuata, e bonificarsi contemporaneamente tutto il più, o meno, che reciprocamente resterà
dovendosi. Intanto durante la vita naturale della cennata donna Marianna Vecchione,
sarà assolutamente vietato al surriferito don Donato Vecchione di far fare qualunque
scavo in detto moggio uno di territorio per trovare sotto terra oggetti di antichità. Praticandosi il contrario dal surriferito don Donato Vecchione sarà soggetto come lo stesso promette e si obbliga all’immediato pagamento di ducati duecento per ragioni di
multa, da cedere in beneficio del detto don Felice Sirignano, come detto ciò ed altro più
diffusamente rilevasi dal surriferito istrumento al quale si abbia relazione. Santerasmo
li diecinove decembre milleotoocentoventiquattro ed in fede io Notaio Pasquale Lauro
figlio del fu Nicola residente nel Comune di Santerasmo, Circondario di Saviano, di102
stretto di Nola, Provincia di Terra di Lavoro ho apposto il segno del mio Tabellionaro
al presente Certificato rilasciato al surriferito don Felice Sirignano.
Dalla lettura di tutti questi documenti risulta che don Ignazio è figlio
di don Donato Vecchione e che alla sua morte i suoi beni vengono ereditati
da sua sorella donna Marianna e da suo fratello don Nicola, che morendo li
lascia ai due figli don Donato e don Felice, che a loro volta ne alienano parte
a don Felice Sirignano. I terreni in questione si trovano a Nola sulla Strada di
Cimitile, nell’area di Piazza d’Armi, e in via San Massimo. Nel XIX secolo le
due strade erano separate da un’area destinata ad uso agricolo e arboricolo.
Oggi la zona è fittamente urbanizzata e via San Massimo e via Cimitile sono
unite da un segmento di via M.De Sena. Considerando che ancora fino a pochi
decenni fa via San Massimo ha segnato il labile confine tra il Comune di Nola
e quello di Cimitile, potremmo collocare nella stessa area anche il podere in
possesso di don Ignazio Vecchione, nominato Teglia, nel Comune di Cimitile,
nel quale scava il conte di Lamberg tra il 1783 e il 1784. Il luogo doveva prendere nome dalla presenza di un tiglio e a tal proposito potrebbe risultare utile
una notizia secondo la quale agli inizi degli anni ’70 del XV secolo il conte
Orso Orsini, feudatario della contea nolana, avrebbe fatto sistemare la zona
all’esterno delle mura cittadine, oltre il cosiddetto Portello, che si estendeva
in direzione dell’area di via San Massimo, con filari di tigli43.
Le proprietà dei Vecchione, dunque, alcune delle quali alienate ai Sirignano, erano comprese nell’area a settentrione del centro abitato, destinata
all’uso funebre, stando ai dati in nostro possesso, almeno a partire dalla seconda metà dell’VIII sec. a.C. In quest’area tra il XV secolo e oggi sono state dissotterrate migliaia di sepolture, la maggior parte scavate durante l’età
moderna, nei secoli d’oro dell’antiquaria. Paradossalmente i vasi provenienti
dalle tombe nolane hanno goduto di minori pubblicazioni dal XX secolo in
poi, il secolo in cui l’archeologia ha assunto i connotati moderni di una scienza, di quante non se ne siano avute precedentemente. A tutt’oggi soltanto le
poche decine di tombe della cosiddetta necropoli “Ronga”, a ridosso di Piazza
d’Armi, sono state oggetto di una pubblicazione scientifica, in senso moderno44, mentre pochi dati preliminari sono stati resi noti a riguardo di sepolture
43 A. Prudenziano, Gli Orsini. Conti di Nola, Marigliano 2006, p. 94.
44 M. Cesarano, Nota su una bottiglia etrusco-corinzia da Nola conservata a Berlino, Fortunelli S., a
cura di, Sertum Perusinum Gemmae oblatum, “Quaderni di Ostraka” 13, 2007, pp. 77-93.
pp. 77-93; M. Cesarano, Nola: segni di differenziazione sociale in alcuni corredi di età orientalizzante e
103
di Via San Massimo e Piazza d’Armi45 e dell’area cosiddetta “Le Torricelle”46.
Le pubblicazioni del XVIII e del XIX secolo, che in gran numero descrivevano
o semplicemente menzionavano vasi attici di provenienza nolana confluiti in
prestigiose collezioni private, dal canto loro raramente annotavano il fondo di
provenienza degli oggetti scavati. Pertanto per quel che riguarda Nola ancora
oggi risulta estremamente difficile procedere ad un sistematico studio delle
sue necropoli, comprendere come si siano evolute nello spazio, quanto e come
siano state organizzate nel rispetto della differenziazione sociale caratterizzante la comunità urbana che in essa seppelliva i propri defunti. Se è giusto
identificare l’amabile don Vecchione del Potocki con il prete don Ignazio Vecchione e concludere che questi sia risultato essere tanto caro al nobile polacco
per la disponibilità a farlo scavare in un suo podere, come già era accaduto al
conte di Lamberg poco prima, possiamo aggiungere un nuovo tassello nella
ricostruzione del puzzle della necropoli posta a nord di Nola, facendone provenire il bel vaso che il conte Potocki in una lettera alla moglie racconta di
aver tirato fuori dalla terra a Nola con le proprie mani, riconosciuto nell’anfora a figure nere che la Bernhard ha attribuito al Pittore di Edimburgo47 (fig.8),
databile intorno al 500 a.C., e i lacrimatoi menzionati dal conte come rinvenuti
accanto allo scheletro, nei quali devono identificarsi delle lekythoi, secondo
una vecchia proposta di Dobrowolski, che trova riscontro nella terminologia
usata da alcuni autorevoli antiquari per i vasi antichi: A. De Iorio nel suo Real
Museo Borbonico-Galleria De’ Vasi, dato alle stampe a Napoli nel 1825 annota
che i termini lacrimale, balsamario e unguentario sono usati per indicare le lekythoi del tipo n. 24 della sua tavola di disegni48 (fig.9); parimenti il Gargiulo fa
corrispondere al lacrimale la lekythos 43 del suo elenco di vasi, corredato dei
rispettivi disegni per una maggiore esemplificazione delle forme rinvenibili
nei sepolcri49 (fig.10).
arcaica, “Italia Antiqua” I, Roma 2004, pp. 77-93; V. Sampaolo Nola preromana, dalle necropoli di Piazza d’Armi – Ronga – S. Massimo, catalogo della mostra di Nola 12/23 dicembre 1985, Nola 1985; M.
Bonghi Jovino - R. Donceel, La necropoli di Nola preromana, Napoli 1969.
45 Sampaolo, op.cit..
46 C. Albore Livadie – G. Mastrolorenzo – G. Vecchio Eruzioni pliniane del Somma-Vesuvio e siti archeologici dell’area nolana, P.G. Guzzo – R. Peroni, a cura di, Archeologia e Vuclanologia in Campania.
Atti del Convegno Pompei 21 dicembre 1996, Napoli1998, pp. 79-83.
47 M.L. Bernhard, op. cit., pp. 170-176; CVA, Varsavia I, p. 14, plate 9, 3, 4.
48 G. Mollo, Saggio introduttivo, P. Vivenzio, Il Museo Vivenzio in Nola, Nola 2003, pp. 7-64., pp.
56-61; A. De Iorio Real Museo Borbonico-Galleria De’ Vasi, Napoli 1825, pp. 123-136.
104
49 R. Gargiulo, Cenni sulla maniera di rinvenire i vasi fittili italo-greci, sulla loro costruzione, sulle loro
Non possiamo definire con certezza se Potocki scavi nei beni del Vecchione posti in via San Massimo o in quelli di Piazza d’Armi, ma possiamo
risalire con certezza ad un altro vaso proveniente da questi ultimi.
Un documento del 3 gennaio 1825 riporta la richiesta da parte di don
Felice Sirignano del «permesso di fare scavi per ricerche di antichità in un suo
fondo recentemente acquistato da’ F.lli Vecchione in Nola». Con lettera del 16
febbraio 1825 il Marchese di S.Agapito, Intendente di Terra di Lavoro, informa
il Ministro Consigliere di Stato Ministro Segretario di Stato di Casa Reale e
degli ordini Cavallereschi, che Sua Maestà ha accordato il chiesto permesso al
Sirignano, mentre da un documento redatto dal Ministro della Polizia Generale è indicato che il fondo interessato dalle ricerche del Sirignano, acquistato
da Donato Vecchione, è sito in Nola sulla Strada di Cimitile.
Le ricerche di don Felice Sirignano sono fruttuose e, dietro il controllo
del De Sena, corrispondente per gli scavi di antichità a Nola per conto della
Commissione per le Antichità e le Belle Arti, e del sindaco di Nola, l’inventore,
a norma di legge, denuncia il rinvenimento di dodici oggetti. Si tratta di dieci
vasi d’argilla e due «conche di bronzo». I pezzi vengono sottoposti al giudizio
della Commissione50. Secondo l’art. 5 del decreto emanato il 14 maggio 1822:
La Commissione, presi al bisogno gli opportuni schiarimenti, farà a Noi conoscere di qual merito sieno gli oggetti, indicando quelli che per la loro eccellenza si
dovranno riguardare come conducenti alla istruzione ed al decoro della nazione, e
proponendo le misure necessarie perché se ne prendano immediatamente i disegni,
da servire all’Accademia Ercolanese per la illustrazione delle antichità patrie, e perché
non sieno in contravvenzione del Real decreto de’ 13 del corrente mese esportati fuori
del Regno. In ogni caso tutti gli oggetti de’ quali si tratta, qualunque ne sia il merito,
verranno considerati come proprietà degl’inventori a’ termini della legge
Ecco il documento redatto dai componenti della Commissione in merito all’incarico affidatole:
fabbriche più distinte e sulla progressione e decadimento dell’arte vasaria, Napol1843, p. 17, tav. 4 n.43.
50 M. Pagano – Prisciandaro, Studio sulle provenienze degli oggetti rinvenuti negli scavi borbonici del
regno di Napoli. Una lettura integrata, coordinata e commentata della documentazione, Napoli 2006, I, p.
278; Ministero della Pubblica Istruzione, a cura di, Documenti inediti per servire alla storia dei Musei
d’Italia, Firenze, Roma 1879, II, p. 53.
105
Napoli 30 Luglio 1825
Eccellenza,
In adempimento de’ pregiatissimi ordini dell’EV de’ 19 Aprile corrente anno,
questa Commissione si reca a dovere di rassegnarle il risultato della corrispondenza
tenuta col Sig. de Sena, corrispondente per gli scavi di Antichità di Nola, relativa agli
oggetti antichi colà rinvenuti dal Signor Sirignano.
Gli oggetti ritrovati dal Sirignano sono dodici, cioè dieci vasi così detti egizi, e
due conche di bronzo, quanti ne annotò il Sindaco di Nola all’Intendente di Terra di Lavoro. Fra tutti questi oggetti merita particolare considerazione il vaso più grande che è
alto un palmo e ¼ per 1 ½ di maggior diametro, scorgendo visi l’importante dipintura
di tre guerrieri armati di lancia, di scudo, e vari animali in bel ordine disposti.
Scarseggiando il Reale Museo Borbonico di vasi così detti egizj51, converrebbe
farsi l’acquisto di questo pregevole vaso; tantoppiù, che il Sig. De Sena , assicura nel
suo rapporto, che in Nola siffatti vasi non sono molto ricercati; il che fa supporre, che
il costo non sarà di gran rimarco. Quando poi non piaccia a Sua Maestà di farne l’acquisto per la classe egizia del Reale Museo Borbonico, questa Commessione le propone
che si tragga un esatto disegno da quel vaso, per quindi conservarsi nell’Archivio della
Società Reale, e si rilasci tanto questo vaso, che gli altri oggetti alla libera proprietà
dell’inventore, Sirignano.
Cav. Arditi
Donato Giglio
Gaspare Selvaggi
Giuliano de Fazio
Gio. Batt.a Finati
Il Sirignano consegna il vaso considerato interessante alla Commissione perché lo esamini:
12 dic.
La Commissione ha esaminato il soprascritto Vaso, esibito dall’inventore Sig.
Sirignano di Nola, e lo ha effettivamente trovato di moltissima importanza e per la
grandezza e pel soggetto che presenta ne’ suoi dipinti. Relativamente al valore del
106
51 La definizione di “egizj” viene assegnata in questi anni alla ceramica con decorazione in stile
orientalizzante, con rappresentazioni di sfingi e altri animali fantastici e non. In un secondo momento gli stessi vasi vengono definiti “tirreno-fenici”.
medesimo si è scissa la Commissione in diversi pareri: il Sig. r Selvaggi lo ha fissato da
500 in 600 ducati; il Sig.r Giglé da 400 in 500. I Sig.ri Arditi e Finati a 300, compresa la
fodera di bronzo nella quale fu rinvenuto.
La vicenda si chiude con l’acquisto del vaso cosiddetto egizio da parte
del Real Museo Borbonico:
Napoli 29 Gennaio del 1826
Eccellenza,
Il Vaso Egizio venduto a Sua Maestà dal Sig.r Felice Sirignano è stato già depositato in questo Real Museo Borbonico, ed io ne acchiudo all’EV l’atto di consegna. Il
proprietario è convenuto pel prezzo di ducati trecento per tal Vaso; siccome alla Commissione fu fatto osservare non solo il detto Vaso, ma anche due altri Vasi di bronzo, a
guisa delle nostre così dette Conche, dentro delle quali fu rinvenuto il Vaso Egizio, così
anche questi altri due Vasi sono stati consegnai in questo Real Museo. Tanto a norma
del R.Rescritto del dì 6 del corrente mese.
Il Direttore De’ Reali Musei, Sopraintendente degli Scavi
Cavalier Arditi.
Un ulteriore documento attesta l’avvenuta immissione del vaso egizio
nel Museo con una più dettagliata descrizione della sua decorazione:
Oggi lì 26 Gennaro 1826. Noi qui sottoscritti Cav. D.n Michele Arditi, Direttore
de’ Reali Musei e Sopraintendente de’ Scavi , D. Giuseppe Campo Controloro …del
Real Museo Borbonico, dopo d’aver esaminato e verificato il Vaso Egizjo acquistato da
S.M. (D.G.) da Don Felice Sirignano di Nola, per la somma di Ducati trecento, giusta
il Real disposto de’ 6 andante, siamo passati a farne la corrispondente discrizione;
cioè il Vaso è dipinto a due ordini in giro; nel primo della parte superiore si osserva
nella facciata principale tre Guerrieri, due in atto di combattere e l’altro morto a terra,
fiancheggiati da due Sfingi alate; nell’altra facciata tre Guerrieri a cavallo e due Genj
alati lateralmente sotto i manichi. Nel secondo ordine evvi otto diversi animali. Sopra
di due manichi, uno de’ quali è incollato e mancante di qualche pezzetto si veggono
altre due sfingi alate, ed in tutto il corpo del vaso vi sono dispersi de’ fiori. È largo
palmo uno e mezzo ed alto palmo uno e quarto. Oltre a questo vi sono ancora due vasi
di bronzo a guisa delle nostre così detta Conche, nelle quali fu rinvenuto il descritto
vaso, come asserì il Sirignano. Quindi passato tutto in consegna ad esso Sig.r Campo,
107
il medesimo dichiara averli ricevuti, per indi piazzati nel Real Museo. Firmati. Cav.
Michele Arditi. Giuseppe Campo.
Per Copia Conforme
Il Direttore De’ Reali Musei, Sopraintendente degli Scavi
Cav. Arditi
Attraverso gli inventari del Real Museo Borbonico redatti a partire
dall’Arditi è possibile seguire la traccia del vaso venduto dal Sirignano e rintracciarlo in una kelébe mesocorinzia52 conservata ancora oggi nei magazzini
del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, attribuita al Gruppo di Samos,
databile intorno al 580 a.C. 53 (figg.11-12).
A questo punto potremmo tentare di restituire una provenienza più
precisa anche ai vasi recuperati a Nola dal conte di Lamberg e dal principe
Poniatowski. Si tratta di ipotesi, che possono essere confermate o smentite
dalla lettura di nuovi documenti di archivio e dalla rilettura di vecchie testimonianze, che non smettono mai di fornire spunti di approfondimento e
nuovi contributi alla conoscenza delle vicende collezionistiche che nei secoli
moderni hanno avuto in Nola e in tante altre località del regno borbonico i
loro imprescindibili centri di rifornimento. Una certezza, e non un’ipotesi, è
che per questa via gli studi di antiquaria possono contribuire una serie di dati
importanti per la comprensione di quel passato studiato più propriamente
dall’archeologia, che, in linea con la citazione del Gérhard che abbiamo apposto come cappello al presente articolo, deve imprescindibilmente giovarsi del
dialogo e del confronto di più discipline54. Per quanto le domande che si pone
oggi l’archeologia siano diverse da quelle a cui cercavano di dare risposte gli
eruditi e gli antiquarii del XIX secolo, non può non colpirci quanto risultino
attuali le illuminate riflessioni che il Gérhard andava facendo quando guardava alle raccolte di antichità diffuse in tutta Europa55:
52 Nei secoli dell’antiquaria la ceramica di produzione corinzia viene classificata dapprima come
“egizja” e successivamente come vasi dipinti nella “maniera tirreno-fenicia” o semplicemente
“fenicia” (cfr. J. De Witte, Description des antiquités et objets d’art qui componente le cabinet de feu M.le
Chevalier E.Durand, Paris 1836, pp. II-III).
53 MANN inv. 80995 (invv. Arditi 2262, Sangiorgio 2520, Heydemann 683). H. Payne Necrocorinthia, Oxford 1971, p. 317, n. 1172.
54 O. Gérhard Osservazioni preliminari, “Annali dell’Istituto di corrispondenza archeologica”,
1829 fasc. I-II, p.3.
108
55 O. Gérhard Osservazioni preliminari, “Annali dell’Istituto di corrispondenza archeologica”,
1829 facc. I-II, pp. 17-18.
Né vogliamo tacere di quelle antichità che forse in non picciol numero trovansi
ne’ Musei pubblici e nelle collezioni particolari della OLANDA, della DANIMARCA,
della POLONIA e della RUSSIA, delle quali speriamo pure di poter dare de’ rapporti
specificati, per formare così a poco a poco un insieme capace di allargare e direm quasi
di perfezionare, i fondamenti dello studio archeologico.
Abbreviazioni
ASN
Liv.
MANN
Archivio di Stato di Napoli
Livius
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
109
1. Mappa dell’Europa con i percorsi del Gran Tour.
2. Lady Tracey Todhunter progetta il suo viaggio in Italia.
110
3. Disegno di tombe scavate a Nola (Millin 1808, p. I).
4. Interno della biblioteca della Reggia di Caserta.
111
5. Particolare di una tela di A.Mozzillo nel Salone Mozzillo nel monastero
di Santa Chiara a Nola.
112
6. Frontespizio dell’opera di A. De La Borde sulla collezione Lamberg.
7. Planimetria di Nola e dintorni.
8. Collezione Potocki, Anfora del Pittore di Edimburgo.
113
9. Tavola delle forme ceramiche da De Iorio.
114
10. Tavola delle forme ceramiche da Gargiulo.
11. Depositi del MANN, cratere corinzio, ca. 580 a.C.
12. Depositi del MANN, cratere corinzio, ca 580 a.C.
115
Salvatore Napolitano
•
New York
Tra scienze ed humanitates.
Percorsi interpretativi per l’antiquaria partenopea
attraverso l’esperienza di Pietro Vivenzio
I. Indirizzi culturali e direttive politiche. Una breve premessa
La seconda metà del Settecento costituì per Napoli, pur tra ambiguità
di posizioni e continui slittamenti metodologici, un momento realmente decisivo sul piano della diffusione e dello sviluppo dei moderni indirizzi di riflessione e ricerca.
La continuità del potere borbonico, impegnato dapprima con Carlo e
poi con Ferdinando a lusingare le più ampie speranze di riforma e riscatto
di una realtà almeno in parte ancora profondamente retriva al cambiamento,
coincise al di fuori del perimetro regnicolo con la epocale trasformazione di
fisionomie culturali e coordinate ideologiche.
Nell’Europa del tempo, e segnatamente nei contesti anglo-francesi, Les
archives du monde di Buffon venivano scandagliati attraverso il reperimento di
oggetti e la lettura attenta degli stessi, selettivamente classificati ed ordinati a
creare nuove tassonomie; mentre l’accesa disputa tra “filosofi” ed “antiquari”
confluiva, attraverso graduali e progressive trasformazioni, in un più generale sforzo di sintesi tra storia naturale e storia umana. Ed anche dalla ricerca
di questo rinnovato equilibrio tra “universale” e “particolare” sarebbero nate
le moderne scienze ottocentesche e le successive sensibilità romantiche.
Tuttavia, a Napoli il continuo contrapporsi di orientamenti conservatori e spinte all’aggiornamento, tanto nelle direttive politiche quanto nelle divagazioni erudite e nelle stesse scelte figurative, favoriva singolari declinazioni
dell’illuminato paradigma conoscitivo che poneva il finale raggiungimento di
una «verità» certa e verificabile attraverso la «comparazione» sistematica dei
«fatti»1; alimentando così una controversa disputa tra “vecchio” e “nuovo” e
1 Il lavoro che si presenta ripercorre, con qualche apertura maggiore ed un corredo iconografico
più ampio, quanto presentato in S. Napolitano, «selvaggio ingegno» ed «occhio avezzo a mirar opere
antiche». Pietro Vivenzio e la dimensione europea della cultura antiquaria a Napoli, “Oebalus”, Rivista di
117
dettando l’impossibilità di descrivere un lineare e coerente processo di sviluppo ed avanzamento della vita culturale cittadina, ancora a lungo pienamente percorsa da una cultura di transizione incentrata sul dialogo costante
tra scienze ed humanitates.
I.2. Prospettive interpretative ed esperienze emblematiche.
I conflitti e le contraddizioni, gli slanci e gli arretramenti della vicenda
culturale settecentesca meridionale emergono con particolare evidenza nelle
mutate sensibilità del gusto per l’antico seguite all’esplorazione delle città vesuviane; evento dalla portata epocale, iniziato nella prima metà del secolo,
tuttavia divenuto di rilevanza internazionale nella seconda metà, tanto da
porsi non come «un mero capitolo di storia dell’archeologia, bensì come momento imprescindibile della storia culturale europea»2.
Studi sulla Campania nell’antichità, n. 4 (dic. 2009), Roma, Bardi editore, pp. 9-40. Per tematiche
analoghe, ma con prospettive d’indagine di volta in volta differenti, si rinvia agli ulteriori contributi richiamati nel corso del saggio.
Di seguito l’elenco delle forme abbreviate con le quali sono stati indicati archivi e biblioteche:
Archivio Storico della Curia Vescovile di Nola: ASCN;
Archivio Storico della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta: ASSN;
Archivio di Stato di Napoli: ASN;
Casa Reale Antica: CRA;
Catasto Onciario: Onciario;
Ministero dell’Interno: Interni;
Pubblica Istruzione: Istruzione;
Maggiordomia Maggiore, Soprintendenza generale di Casa Reale/Archivio Amministrativo: Maggiordomia.
Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli: BNN.
Bibliothèque Nationale de France: BNF.
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: BNCF.
Ove non diversamente indicato, le citazioni riportate sono tratte dagli inediti Sepolcri Nolani di
Pietro Vivenzio. Per l’opera si rinvia a S. NAPOLITANO, «Alles dies mit Rücksicht auf Winckelmann,
aber nicht nach Winckelmann». Gli inediti “Sepolcri Nolani” di Pietro Vivenzio, Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce”, Bologna, Il Mulino, vol. XXIII (2008), pp. 347-377.
Un’edizione critica della stessa, curata da chi scrive, sarà accolta nella collana Testi dell’Istituto
Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce”, edita da Il Mulino di Bologna.
118
2 A. SCHNAPP, La cultura antiquaria nella Napoli del Settecento, in Storia del restauro dei dipinti a
Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del convegno internazionale di studi (Napoli 14-16 ottobre
1999), a cura di M. I. Catalano-G. Prisco, Roma, 2003, p. 1. Per la centralità culturale di Napoli
nell’ultimo venticinquennio del Settecento, e per i continui e complessi rapporti con i centri di
Roma e Firenze, si rinvia a J. BOUTIER, B. MARIN E A. ROMANO, Naples, Rome, Florence. Une
histoire comparée des milieux intellectuels italiens (XVII-XVIII siècles), Rome, 2005, in particolare pp.
114-122 e 613-622. Per una visione d’insieme del periodo che precedette le straordinarie scoperte
di Ercolano e Pompei, cfr. i contributi riuniti in J. RASPI SERRA, A. SCHNAPP (a cura di), Roma
e le nazioni, Roma 1994.
La rivoluzionaria valutazione dell’antichità preparata dal Caylus, sostenitore del ritorno all’antico attraverso l’analisi tecnica e la riproduzione sperimentale del passato, ed attuata dal Winckelmann, attraverso l’individuazione
dei principi fondanti una nuova estetica prevalente durante l’età dei Lumi,
trovava a Napoli uno dei principali luoghi di applicazione; città nella quale il
confronto tra le due tradizioni intellettuali applicate all’esplorazione del passato, tra l’antichità “ricostruita” e quella “sperimentata”, finiva con il risolvere
in qualche misura la stessa antica polarità di derivazione rinascimentale che
opponeva naturalia e artificialia, declinandola in un continuum tra storia della
natura e storia dell’uomo3.
Anche a Napoli, dunque, l’histoire, secondo l’accezione voltairiana
dell’Encyclopédie, si concretizzava nella ricerca di quei monuments incontestables – fonti scritte ed evidenze materiali – che, una volta sottoposti al vaglio
critico della raison, avrebbero consentito una corretta ricostruzione storica dei
luoghi esaminati, descrivendo così un’intera corrente di pensiero che, nata
dallo scetticismo libertino seicentesco ed alimentata nella esclusiva civetteria
dei consessi massonici settecenteschi, vedeva il suo graduale tramonto nel clima di esaltazione romantica che mal digeriva le rigidità del «metodo geometrico» - per dirla con il Fontenelle – di procedere in ogni campo del sapere4.
Tuttavia, pur all’interno di quella sorta di pendolarismo ideologico
(e conseguentemente metodologico) che caratterizzò questo delicato snodo
storico-culturale5, nel contesto meridionale riuscirono ugualmente a delin3 Sulla continuità tra storia della terra e storia dell’umanità (o, meglio, storia delle Nazioni e storia Naturale), concetto centrale dell’Histoire Naturelle di Buffon ma parimenti legato alle analisi di
Ludovico Antonio Muratori ed alla stessa rilettura del panstoricismo vichiano di fine settecento,
cfr. S. NAPOLITANO, «les faits», «la comparaison», «la vérité». Pietro Vivenzio e gli inediti “Sepolcri
Nolani”. Una linea interpretativa per l’antiquaria, la storiografia e la storia dell’arte a Napoli tra Sette
e Ottocento, Annali di Critica d’Arte, Torino, Nino Aragno, n. 6 (2010), [in press]. Sull’origine
dell’archeologia come integrazione tra storia dell’uomo e storia della terra, invece, cfr. A. SCHNAPP,
The discovery of the past: the origins of archaeology, London, British Museum press, 1996, specialmente pp. 179-204.
4 Per questo specifico aspetto si rinvia alla utile ed ancora valida sintesi proposta in L. MUNFORD, Le mythe de la machine, Paris, 1967, pp. 325 ss.
5 Per una trattazione più articolata si vedano, oltre quanto già segnalato, S. NAPOLITANO,
Oscillazioni teoriche nella cultura antiquaria partenopea tra Sette e Ottocento, II Università degli Studi
di Napoli, Ricerche di Dottorato II, a.a. 2008/2009, Caserta 2010, pp. 195-210; ID., Dalla «Fabula» alla «Tabula». Pratiche archeologiche, indirizzi teorici ed esperienze museografiche a Napoli tra Sette
ed Ottocento. Il “caso” Vivenzio, Annali dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, Roma,
Erma di Bretschneider, 2010, [in press]; ID., Filosofia Naturale e proto-archeologia a Napoli. Esperienze
119
earsi alcune esperienze particolarmente significative, finalmente volte alla
concezione di coerenti e globali “progetti culturali” fondati su un aggiornato rapporto di assoluta reciprocità tra l’evidenza dei reperti musealizzati e
l’elaborazione teorica derivata dallo studio degli stessi.
Tra le altre, quella condotta dall’erudito di origini nolane Pietro Vivenzio
(*1754-†1835) appare senza dubbio interessante e, come cercheremo di chiarire,
largamente emblematica di questo lungo e complesso momento di passaggio.
«Illustre archeologo» particolarmente «versato […] nella filosofia, filologia, numismatica ed erudizione Greca e Latina»6, assiduo frequentatore
di alcune tra le più rilevanti personalità erudite del tempo, Pietro Vivenzio
viene generalmente ricordato soltanto in riferimento ai ben più noti fratelli
maggiori Giovanni (*1737-†1815) e Nicola (*1742-†1816), rispettivamente protomedico ed avvocato del fisco, finendo con l’essere ricordato esclusivamente
per l’attività di allestimento della collezione d’antichità vascolari riunita nella
residenza nolana a secondare i desiderata del marchese Nicola, saldamente introdotto nell’entourage di corte e legittimamente alla ricerca di simboli esterni
di status, e di validi strumenti comunicativi nella République des Lettres.
In effetti, gli interessi ed i legami così strettamente interdipendenti tra
i due hanno imposto un’opera di destrutturazione che, fondata su una ricca
messe documentaria inedita, potesse consentire di riconsiderare i termini del
rapporto in maniera al tempo stesso mirata e complessiva, conferendo concretezza alle isolate deduzioni che rivendicavano al più giovane dei Vivenzio
una certa preminenza nel campo delle scienze antiquarie, individuandone
con minore approssimazione la fisionomia intellettuale ed un profilo biografico che, pur lungi dal ritenersi esaustivo, potesse almeno dirsi sufficientemente delineato.
Nicola, animato da un solido lealismo dinastico e da convinte posizioni monarchiche antifrancesi, era pienamente addentro al circuito esterofilo
ed esclusivo attivato dall’Hamilton.
Pietro, savant regnicolo non sempre aggiornato sulle più recenti acquisizioni della scienza antiquaria, eppure capace di slanci coraggiosi ed eccel-
significative e spunti di riflessione, II Università degli Studi di Napoli, Ricerche di Dottorato II, a.a.
2008/2009, Caserta 2010, [in press].
120
6 S. GALLOTTI, Elogio del marchese Nicola Vivenzio, Napoli, Stamp. Masi 1817, pp. 6, 18-19.
lenti intuizioni, discettava lungamente con gli eruditi meridionali ed i colti
grands touristes che, impegnati nel proprio viaggio attraverso il meridione,
si recavano a Nola - molto probabilmente anche per l’intermediazione dello
stesso Hamilton - al fine di ammirare gli oltre duecento reperti vascolari antichi della raccolta e le stesse aree necropolitiche della città antica da cui erano
stati tratti (figg. 1,2,3).
Nicola, in sostanza, ricercava il riconoscimento e la nobilitazione che
non aveva avuto per nascita, ma che sentiva di meritare per il proprio impegno professionale, anche attraverso il possesso di una ricca collezione antiquaria, cui avrebbe ben presto unito una preziosa quadreria ed una «sceltissima
biblioteca» nella residenza napoletana di Palazzo Pignatelli di Monteleone a
Calata Trinità Maggiore (fig. 4).
Pietro, a seguito della morte del padre rimasto a Nola per amministrare
i beni di famiglia, seguiva personalmente le campagne di scavo volute e finanziate dall’influente fratello, coltivando il proprio «selvaggio ingegno»7 nel
campo delle scienze antiquarie.
A fornire un potente e fascinoso modello emulativo all’intera strategia
messa in atto dai Vivenzio era l’appena ricordato ambasciatore inglese William Hamilton, che non a caso aveva concentrato i propri interessi anche sulla
città di Nola, già a partire dal Cinquecento fatta oggetto di massicce campagne di scavo, e tra i principali centri di approvvigionamento del fiorente
mercato antiquario partenopeo del tempo8.
A partire dalla metà degli anni Ottanta, limite intorno al quale è possibile fissare gli esordi dell’attività collezionistica e propriamente proto-archeologica di Pietro, Francesco Bieliński, Friedrich Münter, Stanislao Poniatowski,
Stanislao Kostka Potocki, il conte Carlo Castone Della Torre di Rezzonico, il
barone Trombeski, Mattia Zarrillo, Michele Arditi, Francesco Piranesi, Johann
Heinrich Wilhelm Tischbein, il conte d’Italinsky e, più tardi, Aubin Louis
Millin e Michele Arcangelo Migliarini, solo per citare i maggiori, animarono
lunghi ed appassionati confronti con il Vivenzio intorno alle tipologie vascolari, le tecniche esecutive e decorative della ceramica figurata antica, nonché
7 P. Vivenzio, Gemme antiche per la più parte inedite, Roma, Bourliè 1809, p. 1.
8 Sul mercato partenopeo e sul ruolo che vi svolse il territorio nolano, cfr. S. NAPOLITANO,
L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze. Felice Maria Mastrilli e Gianstefano Remondini, Firenze,
Edifir 2005, pp. 51-69, 75-78 e 119-129.
121
sulla qualità del terreno, le tipologie tombali e le stratigrafie riscontrate durante le campagne di scavo effettuate nel territorio nolano, consuetamente sotto
la supervisione diretta di Pietro. Questi aveva precocemente riconosciuto ed
assimilato lo statuto autonomo della nuova scienza antiquaria, declinandola,
secondo metodologie d’analisi e strumenti d’indagine differenziati, da un
lato in ricerca stilistica, finalizzata alla identificazione delle singole scuole pittoriche antiche, dall’altro in direzione già modernamente proto-archeologica,
connettendosi così a quell’aspetto della ricerca geologica e naturalistica che,
intensificando le osservazioni dirette soprattutto nelle zone vesuviane, era
pervenuta già a partire dai primi del Seicento alla formulazione di interessanti
descrizioni dell’alternarsi degli strati lavici e della natura dei suoli, inserite in
un più ampio quadro volto alla ricostruzione delle vicende storiche della zona9.
Le analisi prodotte da Pietro sarebbero poi confluite, attraverso un lungo e tortuoso iter compositivo e prendendo in esame diversi livelli interpretativi e d’indagine, negli ambiziosi Sepolcri Nolani.
Tuttavia, le continue e crescenti difficoltà economiche che afflissero la
famiglia all’indomani della morte di Nicola (27 agosto del 1816), cui seguì la
vendita della raccolta antiquaria e la conseguente annessione alle collezioni reali nel luglio del 1818, imposero un brusco ridimensionamento di quell’opera,
che finì vittima dei continui ripensamenti dell’autore e finalmente destinata
all’oblio dell’inedito.
Nicola, pienamente permeato da quello stile di vita imposto nella capitale meridionale fin de siecle da sir William Hamilton, continuamente in bilico tra
ostentazione e gelosa contemplazione, aveva voluto unire al genio della “messa in scena” quello della promozione sociale, svelando il disegno di una ricercata immagine di sé nella raccolta di preziose opere d’arte, archeologiche e pittoriche, il cui possesso era rivendicato alla propria famiglia da più generazioni10.
9 Per questi aspetti si rinvia al recente contributo di Maria Toscano, che chiarisce le differenti
prospettive metodologiche proprie alle scuole antiquarie italiana ed inglese, rispettivamente legate – come opportunamente sintetizza la studiosa – l’una ad una dimensione principalmente
storico-filologica, l’altra empiristicamente attenta all’osservazione delle testimonianze materiali
ed ai contesti di scavo; cfr. M. TOSCANO, Gli archivi del mondo. Antiquaria, storia naturale e collezionismo nelsecolo Settecento, Firenze, Edifir 2009.
122
10 A tal fine, particolarmente significative le argomentazioni addotte dallo stesso Nicola nella
disputa che lo contrappose a Francesco Santangelo per il possesso di un presunto bozzetto del
Giudizio Universale, ritenuto di mano di Michelangelo, da «più generazioni nelle raccolte di
famiglia» [Archivio Privato della Famiglia Santangelo, carte non numerate; il testo della lettera è
riportato in P. FARDELLA, Del collezionismo privato di dipinti a Napoli. 1799-1860, tesi di dottorato
Pietro, per quanto gli riuscì, mise la propria erudizione al servizio di
quegli obiettivi, finendo vittima delle sue stesse ambizioni intellettuali, nello
stridente contrasto tra il fulgido scintillio delle frequentazioni cortigiane e cosmopolite di fine secolo, all’interno delle quali maturarono i presupposti per la
realizzazione di un’opera comunque ardita ed ambiziosa, e le restrizioni che
seguirono i conati rivoluzionari e l’occupazione francese, a secondare significativamente la declinante parabola politica, economica e culturale della dinastia borbonica, mai più in grado di replicare i fasti della prima età ferdinandea.
II. La formazione ed i primi interessi antiquari (1754-1806).
Pietro Vivenzio nacque a Nola il 17 luglio del 175411. Non abbiamo notizie certe sulla sua prima formazione, probabilmente affidata allo zio monsignore, Michele Vivenzio, canonico della cattedrale12.
Tuttavia pare improbabile la frequentazione del seminario cittadino, il
cui ricordo non trova alcuna ricorrenza nella produzione erudita - edita e non
- del nostro, ed un suo eventuale coinvolgimento nell’attività di allestimento
del museo d’antichità ivi voluto dal vescovo Trojano Caracciolo del Sole e riunito dal somasco Gianstefano Remondini alla fine degli anni Quaranta13.
di ricerca in “Discipline storiche dell’Arte medievale, moderna e contemporanea. Storia e critica
delle arti figurative nell’Italia meridionale”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, X ciclo, Napoli, 1999, pp. 150-152]; circostanza, questa, che non trova alcuna ulteriore occorrenza nelle fonti documentarie e nella produzione erudita del tempo. Infine, varrà la pena di sottolineare
che tale Agostino Vivenzio, il 4 luglio 1843, indirizza una missiva al Ministro degli Affari Interni
nella quale si legge: «Eccellenza/Agostino de’ Marchesi Vivenzio espone umilmente a V.E., come
trovasi possessore di una scelta collezione di quadri di cui rassegna a V.E. il notamento;/e poiché
desidera che la medesima non vada in mano agli stranieri, ed altronde le critiche circostanze di
sua famiglia non gli permettono di ritenerla; così prega l’Eccellenza Vostra di farla apprezzare
dagli artisti, onde disporne l’acquisto pel Real Museo Borbonico»; cfr. ASN, Pubblica istruzione,
400/9. Tuttavia non sono state rinvenute ulteriori testimonianze utili a ricostruire con maggiore
chiarezza l’intera vicenda.
11 ASCN, Libri Baptizatorum, X, carte non numerate. Fu penultimo di undici figli; cfr. gli atti di
nascita degli altri membri della famiglia in Ivi, VIII, IX e X.
12 Questi «possiede per proprio uso una metà di casa sita nel luogo detto “il Salvatore”, possedendosi l’altra metà dal magnifico D. Felice Vivenzio»; ASN, Onciario/Nola, fascicolo 1027b, f. 119.
13 Tale ipotesi è espressa in A.M. RAO, I Fratelli Vivenzio in T.R. TOSCANO (a cura di), Nola fuori da Nola, Castellamare di Stabia 2001, pp. 232-234. In realtà, andrà chiarito che già nel 1759 il
Remondini si apprestava a lasciare Nola per far ritorno alla natia Genova. Le vicende connesse
all’edificazione del seminario vescovile, all’attività ed alle frequentazioni erudite del somasco sono
ricostruite anche sulla base di documentazione inedita in S. NAPOLITANO, L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze. Felice Maria Mastrilli e Gianstefano Remondini, Firenze 2005, pp. 89-138.
123
Comunque andassero le cose, per sollecitazione dei fratelli maggiori
- attivamente partecipi della République des Lettres e saldamente introdotti
nell’entourage di corte, dal quale provenivano continui stimoli validi a nutrire le numerose istanze a carattere politico e culturale connesse all’attività
collezionistica14 - dovette dedicarsi piuttosto precocemente alle esplorazioni
archeologiche15.
14 Assai suggestiva la puntuale panoramica offerta dagli studi di Alain Schnapp sui fermenti che
animarono il Regno nella seconda metà del Settecento. In particolare, lo studioso pone la storia
dello scavo delle città vesuviane al centro di una più vasta attività di riorganizzazione politicoculturale della corona borbonica, analizzando con singolare lucidità gli aneliti dei viaggiatori
e dei savants che si apprestavano al soggiorno nella capitale meridionale; cfr., in particolare, A.
SCHNAPP, La cultura antiquaria nella Napoli del Settecento, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e
nel Regno nel XIX secolo, Atti del convegno internazionale di studi (Napoli 14-16 ottobre 1999), a cura
di M. I. Catalano, G. Prisco, Roma 2003, pp. 1-16 e ID., Neapolitan effervescence, in «Journal of the
History of Collections», 19, n. 2, (2007), pp. 161-164.
Per certi versi sulla stessa linea i contributi di Anna Maria Rao, che ragiona estesamente sui ruoli
politico-istituzionali dei protagonisti delle vicende antiquarie e sulle metodologie di ricostruzione storica elaborate dalla intelligencija meridionale; cfr. A.M. RAO, Tra erudizione e scienze: l’antiquaria a Napoli alla fine del Settecento, in C. MONTEPAONE (a cura di), L’incidenza dell’antico. Studi
in memoria di Ettore Lepore, vol. III, Napoli 1996, pp. 91-135; EAD., Intellettuali e professioni a Napoli
nel Settecento, in M.L. BERTI e A. PASTORE (a cura di), Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini delle
professioni moderne, Bologna 1997, pp. 41-60; EAD., “Fra il pubblico bene e le lettere”. La corrispondenza di Melchiorre Delfico con François Cacault e Pierre-Michel Hennin, in B. RAZZOTTI, Filosofia storiografia letteratura. Studi in onore di Mario Agrimi, Lanciano 2001, pp. 138-183; e, da ultimo, EAD.,
Antiquaries and politicians in eighteenth-century Naples, in «Journal of the History of Collections»,
19, n. 2, (2007), pp. 165-176. Per gli interessi coltivati in quella che già a partire dalla fine del Seicento veniva a configurarsi come una vera e propria Repubblica delle Lettere, si vedano almeno
E. CHIOSI, “Humanitates” e Scienze. La Reale Accademia di Ferdinando IV: storia di un progetto, “Studi
Storici”, XXX, 1989, pp. 434-456; EAD., Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’Illuminismo, Napoli 1992; EAD., Massoneria e politica, in A.M. RAO (a cura di), Napoli 1799, fra storia
e storiografia, Atti del convegno internazionale di studi (Napoli 24-25 Gennaio 1999), Napoli 2002,
pp. 217-237; EAD., Le “visite” del fuoco. Gli scritti sul Vesuvio, in Ead., Istituzioni e pratiche culturali a
Napoli nel Settecento, Napoli 2004, pp. 75-101.
124
15 In effetti, sebbene Giovanni avesse allestito un gabinetto scientifico già a partire dalla fine degli
anni Ottanta [la notizia è riportata in L. AMMIRATI, I fratelli Vivenzio di Nola: Giovanni, Nicola, Pietro, Nola 1980, p. 18, sulla base di un avviso di vendita dello stesso pubblicato sul “Giornale delle
due Sicilie” il 17 dicembre 1821. A questa segnalazione andrà unito il breve cenno del Tischbein
che ricorda «gli strumenti fisici» del Vivenzio, tuttavia attribuendoli a Nicola: «…M’incontrai di
frequente in società con l’ambasciatore di Tripoli. Una volta stava osservando gli strumenti fisici
presso l’avvocato fiscale Vivenzio. Questi gli mostrò la macchina dell’elettricità ed elettrizzò uno
del suo seguito, che su suo ordine dovette prestarsi a ciò. Affinchè gli fosse chiara l’elettricità,
l’ambasciatore lo toccò proprio nell’occhio …»; cfr. J.H.W. TISCHBEIN, Dalla mia vita. Viaggi e soggiorno a Napoli, a cura di M. NOVELLI RADICE, Napoli 1993, p. 224], pare che il vero animatore
degli interessi collezionistici di famiglia fosse Nicola, nutrito d’interessi antiquari [cfr. le ampie
digressioni storico-mitologiche sulle origini di alcune città meridionali presenti nelle corrispondenze private e nelle opere di stampo storico-erudito per cui si rimanda ad A.M. RAO, L’“amaro
della feudalità”. La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ‘700, Napoli 1984,
passim, (specialmente pp. 250-251 e 292-296); P. MANZI, Nola sulla soglia dell’Ottocento. I fratelli
Vivenzio e la fine di un monumento. Vicende storiche, Nola 1996; A.M. RAO, I Fratelli Vivenzio, cit., pp.
Le prime testimonianze inerenti l’attività di Pietro risalgono all’inizio
degli anni Ottanta. Infatti, il 9 ottobre 1785 Natale Cimaglia, avvocato fiscale
di Casa Reale16, a Nola per verificare l’irregolarità degli scavi condotti in località “le Torricelle”17, tra l’altro scrive al primo ministro Beccadelli Bologna,
marchese della Sambuca, delle attività di scavo intraprese dai figli del governatore cittadino in compagnia di Pietro Vivenzio:
Questi [Reg.o Governadore] adunque avendo in Nola risaputo che bastasse cavare dovunque si volesse, per trarre con profitto antichi arredi di preggio, ha fatto sì
che i due di lui Figli uniti col Reverendo D. Pietro Vivenzio abbiano intrapreso nel Sito
detto “le Torricelle” lo scavamento degli additati antichi sepolcri, dai quali han tratta
copia grande di vasellame di creta, detta volgarmente Etrusca, molti avanzi di monili
di rame, pochi avanzi di ferri serviti per Armi, alcuni anelli assai dozzinali di rame, e
molti monili di ferro serviti di composizioni alle Armi Difensive ed offensive usate in
quei remoti Secoli […] Sicchè dunque Io volli vedere la copia del vasellame e delle altre
antiche rarità esistente in casa del Governatore, e trovai che la copia ragguardevole di
scelte antiche monete, e di pietre intagliate l’abbia egli seco portate dalla città di Puglia. La copia di poi ben grande di Vasellame Etrusco, l’abbia tratta dallo scavamento
fatto nel descritto modo nel territorio nolano. Del Vasellame circa 20 o 25 pezzi sono
veramente pregevoli é per la vernice, é pel disegno, é per le dipinture, ma il dappiù
ch’è ben molto, non ha altro preggio fuorché l’essere antico […] Passai di poi in casa
del Rev. D. Pietro Vivenzio, ed in una stanza trovai riposta una quantità ben grande
221-224], fine intendente di pitture sei-settecentesche e patrocinatore delle operazioni di scavo,
perlopiù effettuate nei possedimenti di famiglia in territorio nolano.
16 Nato a Vieste il 10 febbraio del 1735, fu inviato a Napoli all’età di undici anni, dove venne
avviato alla carriera forense. Stimato frequentatore di colti cenacoli accademici, legato in amicizia
con i maggiori eruditi partenopei del tempo, quali il Mazzocchi, il Martorelli e l’Abate Galiani,
fu nominato avvocato fiscale alla metà degli anni Sessanta. Sul personaggio si veda D. MARTUSCELLI, Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de loro rispettivi ritratti, Napoli,
Nicola Gervasi 1813, pp. 129-141.
17 Per la normativa vigente in materia di beni culturali in quel arco cronologico si rimanda a P.
D’ALCONZO, L’anello del re. Tutela del patrimonio storico-artistico nel Regno di Napoli (1734-1824),
Firenze 1999, pp. 41-77, in particolare pp. 67-72. Tra l’altro, proprio nel 1785 venne emanata una
normativa che regolava gli scavi dei privati proliferanti nelle province del Regno, imponendo
l’obbligo di rendere noto il risultato delle ricerche, e stabilendo per lo Stato la possibilità di acquistare gli oggetti ritenuti di particolare merito; è all’interno delle attività promosse da quell’iniziativa che andrà iscritta l’ispezione del Cimaglia. Quella normativa, non rintracciata all’epoca
dalla studiosa, ma il cui contenuto veniva convincentemente desunto sulla base dell’analisi di
documentazione posteriore, è segnalata e trascritta in S. NAPOLITANO, L’antiquaria settecentesca
tra Napoli e Firenze, cit., pp. 166-167.
125
e più copiosa di sì fatti vasi, anelli e monili tutti ritratti dalla recente scavazione. Dei
vasi ce ne ha molti assai preggevoli, ed uno in specie, e moltissimi che non hanno altro
preggio che l’esteriore bella figura, il bel colore dell’ignota vernice, e l’antichità. Io non
stimai né nell’una, né nell’altra casa far fare inventario, o sequestro veruno. E passai a
vedere personalmente lo scavo nel sito detto “le Torricelle”, ove vi trovai dieci o dodici
uomini impegnati a quel lavoro18.
Il documento, oltre che fornire uno spaccato interessante delle attività
esplorative che andavano conducendosi a Nola nell’ultimo quindicennio del
secolo e dei suoi principali protagonisti19, offre molte importanti informazioni,
utili a datare con ragionevole approssimazione gli esordi dell’attività collezionistica e propriamente archeologica di Pietro alla metà degli anni Ottanta.
Tale ipotesi trova conferma nella testimonianza offerta da Friedrich
Münter, studioso danese a quelle date impegnato nel proprio viaggio attraverso il Meridione d’Italia20, con una tappa nolana considerata irrinunciabile al solo scopo di ammirare gli oltre duecento reperti antichi riuniti nella
collezione Vivenzio21.
18 ASN, CRA, fasc. 1543, f. 121. La trascrizione integrale del documento è in S. NAPOLITANO,
L’antiquaria settecentesca tra Napoli e Firenze, cit., pp. 164-166.
19 Notizie inerenti gli scavi promossi dal governatore Sebastiano Buondonno nel nolano sono state rinvenute in ASN, CRA, fasc. 1543, ff. 120-125-127-128 [i documenti sono pubblicati in Ivi, pp.
164-168]. Ulteriore documentazione inerente il governatore cittadino, anch’essa custodita presso
l’ASN ma riguardante il ritrovamento di statuette bronzee nei pressi della città di Gragnano, è
segnalata in P. D’ALCONZO, L’anello del re, cit., pp. 23-35-143. Che la zona compresa tra le città di
Gragnano e Somma Vesuviana fosse oggetto di massicce attività di scavo è testimoniato anche dai
La Vega, che nel loro Diario di scavo ricordano alcuni tra i più fortunati rinvenimenti risalenti alla
metà degli anni Sessanta; cfr. M. PAGANO, I diari di scavo di Pompei, Ercolano e Stabia di Francesco
e Pietro La Vega (1764-1810). Raccolta e studio di monumenti inediti, Soprintendenza Archeologica di
Pompei. Monografie, 13, Roma 1997, ad vocem “Somma Vesuviana”.
20 Per il Münter, brillante allievo di Christian Gottlob Heynes, si vedano le ancora utili segnalazioni presenti in Ø. ANDREASEN (a cura di), Aus den Tagenbüchern Friedrich Münter. Wander und
Lehrjahre eines Dänischen Gelehrten, Kopenhagen-Leipzig 1937. Sulla sua missione massonica in
Italia (1784-87) cfr. C. FRANCOVICH, Storia della Massoneria in Italia. Dalle origini alla rivoluzione
francese, Firenze, 1975, pp. 381 ss; N. PERRONE, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo 2006. Per la vivace polemica che lo contrappose alla
“polverosa erudizione” dell’erudito fiorentino Domenico Augusto Bracci, tra l’altro riconosciuta
cifra denotativa di un certo orientamento intellettuale italiano, cfr. S. FERRARI, Il freddo calcolo
della “Geschichte”. Heyne e la ricezione di Winckelmann in Italia, in Il primato della scultura: fortuna
dell’antico, fortuna di Canova, Atti della II Settimana di Studi Canoviani (Bassano del Grappa 8-11
novembre 2000), a cura di M. PASTORE STOCCHI, Bassano del Grappa 2004, pp. 46-48.
126
21 Nel proprio diario di viaggio Münter, animatore di una loggia massonica aperta a Roma nel
1785 di cui fu nominato “gran sorvegliante” il pittore Wilhelm Tischbein, ricorda in una lunga
digressione le origini della città di Nola, tra l’altro ricorrendo alla lettura iconografica di alcuni tra
Il 26 novembre del 1785 Stanislao Poniatowski, nipote del re polacco,
assiste a scavi condotti a Nola alla presenza dell’abate Vecchione22, rinvenendo un vaso poi illustrato da Aubin Louis Millin sulla base di una dissertazione
in folio di Ennio Quirino Visconti23, mentre il 12 dicembre dello stesso anno
giungeva a Napoli, per rimanervi due mesi, Stanislaw Kostka Potocki, insigne
statista polacco, scrittore e teorico d’arte, cugino del Poniatowski24. Questi intraprese scavi a Nola, durati poco più di due settimane, traendone tra l’altro
la ben nota anfora a figure nere del pittore di Edimburgo ora al Museo Nazionale di Varsavia25, particolarmente apprezzata dall’abate Mattia Zarrillo,
custode del Museo e della Quadreria di Capodimonte26.
i più significativi reperti vascolari rinvenuti dai Vivenzio; cfr. F. MÜNTER Nachrichten von Neapel
und Sicilien, auf einer Reise in den Jahren 1785 und 1786, Copenhagen, ben Christian Gottlob Proft
1790, pp. 56-65, in particolare pp. 60-62.
22 «… j’ai été à Nola. On a déterré en ma présence par les soins de l’Abbé Vechiano [sic] beaucoup
de squelettes couchant en long et auprès desquels on trouve toujours des vases, mais les beaux se
rencontrent ordinairement dans les tombeaux que l’on croit avoir été situés le long du chemin qui
sont de grands cercueils, tout entourés quelques fois de vases. Le […] en a trouvé un où il y en
avoit quarante …»; in B. BILIŃSKI, Viaggiatori illuministi polacchi sul Vesuvio e nelle città vesuviane,
in La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, Atti del convegno internazionale di studi
(Napoli 11-15 novembre 1979), Napoli 1982, p. 74.
23 A. Dubois Maisonneuve, Introduction a l’Étude des Vases Antiques d’Argile Peints vulgairement
appelés Étrusques accompagnée d’une Collection des plus belles formes ornées de leurs peintures suivie de
planches la plupart inédites pour servir de supplément aux différents recueils de ces monuments, Paris,
Didot L’Aîné 1817, p. 6 nota n. 2. Poco prima, nelle Peintures de vases antiques, Millin illustrò anche
l’anfora nolana dei Vivenzio un tempo appartenuta al Durand, di poi al Pourtales e finalmente al
duc d’Aumale, oggi al Museo di Chantilly; cfr. A. Dubois Maisonneuve, Peintures de Vases Antiques
vulgairement appelés Étrusques tirées de différentes collections et gravées par A. Clener, accompagnées
d’explications par A.L. Millin, II voll., Paris, Didot L’Aîné 1808-1816, tomo II (1816), p. 70. Per il
reperto: L. LAUGIER, De l’Égypte à Pompéi. Le cabinet d’antiques du duc d’Aumale Catalogue de
l’exposition organisée au musée Condé (Chantilly, du 5 juin au 9 septembre 2002), Chantilly 2002,
p. 54; sui passaggi collezionistici: A. Dubois Maisonneuve, Introduction a l’Étude des Vases Antiques,
cit., p. 7 nota n. 1, che pubblica anche una illustrazione del reperto; e G. PATRONI, G. REGA (a
cura di), Vasi dipinti del Museo Vivenzio disegnati da Costanzo Angelini nel 1798, Napoli-Roma 1900,
tavola n. XVII.
24 Sul personaggio e sul suo soggiorno a Napoli si vedano B. BILIŃSKI, Viaggiatori illuministi
polacchi sul Vesuvio e nelle città vesuviane, cit., pp. 54-58; e W. DOBROWLOSKI, Stanislaw Kostka Potocki’s Greek Vases, Varsavia 2007, con bibliografia anteriore. Da ultimo, M. CESARANO, Stanislaw
Kostka Potocki e gli scavi archeologici a Nola, in Archeologia, Letteratura e Collezionismo, Atti del convegno dedicato a Jan e Stanislaw Kostka Potocki (Roma, 17-18 aprile 2007), E. JASTRZĘBOWSSKA,
M. NIEWÓJT (a cura di), Roma 2008, che tuttavia non fornisce rilevanti acquisizioni, limitandosi
all’utilizzo massiccio di materiale documentario e linee interpretative già ampiamente note.
25 Per l’identificazione del reperto si veda M.L. BERNHARD, Amfora Malarza Edynburskiego w
Museum Narodowyn w Warzawie, “Archeologia” 5, 1954, pp. 170-176.
26 L’abate Zarrillo, nato il 26 novembre 1729 a Capodrise (Caserta), fu tra i primi soci dell’Accademia Ercolanese, subentrando nel maggio del 1784 nella direzione del Museo e della Quadreria
al padre Eustachio d’Afflitto, nominato custode della Real Biblioteca, al posto del defunto Dome-
127
Qualche anno dopo, il 20 giugno 1790, lo stesso Zarrillo in compagnia
del conte della Torre di Rezzonico27, del barone Trombeski e del principe Poniatowski, diretti a Napoli di ritorno da Benevento, fecero nuovamente tappa
a Nola, ospiti dei Vivenzio in occasione della festa patronale in onore di san
Paolino, trovandovi anche sir William Hamilton e consorte (fig. 5):
Il venti giugno partii dopo pranzo da Napoli col principe Stanislao Poniatowski, il barone Trombeski e l’abate Zarrillo per Benevento […] Nel ritorno ci fermammo a
pranzo in casa Vivenzio, dove ritrovammo il cavalier Hamilton e Milady sua consorte,
Dame e Cavalieri, che a Nola erano venuti per la festa di S. Paolino. Si portavano in
giro altissime macchine, che da’ popolari si chiamano giglj. Sono queste un informe
amasso d’ornamenti e giganteggiano alcune statue di Santi, e vi sono cantorie piene di
suonatori e con grande celerità si trasportano da un luogo all’altro sulle spalle di molti
robusti uomini, cosicché parsemi assai pericolosa la situazione dell’orchestra pensile
ed ambulante in tanta altezza e per istrade cattive28.
L’ambasciatore inglese dovette essere presente con una certa continuità a Nola in quegli anni, cruciali per la formazione della sua seconda
collezione, come sembrerebbe dimostrare un permesso di scavo rilasciatogli
proprio nel 178929.
Questi riferimenti, che unitamente ad altre testimonianze documentarie inedite chiariscono il ruolo centrale giocato dall’inglese nelle vicende legate alla pubblicazione della collezione antiquaria dei Vivenzio – sulle quali
torneremo nel prossimo capitolo -, rivelano quello che dovette essere un vero
e proprio rapporto elettivo con la città di Nola, in qualche misura testimoniato
nico Malgarbi; cfr., da ultimo, F. STRAZZULLO, Carteggi eruditi del Settecento, Napoli 1993, con
suggerimenti bibliografici, in particolare, pp. 61 e 89.
27 Per il personaggio, interessante e colto frequentatore di ambienti massonici, si rimanda a F.
FEDI, Comunicazione letteraria e “generi massonici” nel Settecento italiano, in “Storia d’Italia”, Annali
21, La Massoneria, a cura di G.M. CAZZANIGA, Torino 2006, pp. 50-81. Per il soggiorno napoletano, si veda da ultimo P. FARDELLA, Antonio Canova a Napoli tra collezionismo e mercato, Napoli
2002, pp. 26-28, con ulteriori riferimenti bio-bibliografici.
28 Il brano, tratto da Opere del cavaliere Carlo Gastone della Torre di Rezzonico (Como 1819), è riportato in F. GENTILE (a cura di), Caserta nei ricordi dei viaggiatori italiani e stranieri, Napoli 1982, pp.
73-74.
128
29 Di un permesso di scavo nel territorio nolano ottenuto dall’Hamilton per 40000 scudi parla
Schiller [J.H.W. TISCHBEIN, Aus meinem Leben, a cura di C.G.W. SCHILLER, 2 voll., Braunschweing 1861, p. VII], che tuttavia non segnala riferimenti documentari.
anche dalla ben nota incisione del Clener (su disegno del Kniep) che ritrae
Hamilton ed Emma, sua seconda consorte, al momento dello scoprimento di
un antico sepolcro nelle campagne nolane30 (fig. 6).
D’altronde, come chiarirà lo stesso Hamilton in un rapporto del 1778
inviato alla Society of Antiquaries di Londra31, la maggior parte dei vasi della
sua prima collezione, un tempo appartenuti a Felice Maria Mastrilli32, provenivano da Nola.
Probabilmente all’intermediazione dell’Hamilton fu dovuta la consuetudine con il ministro russo conte d’Italinsky e con il pittore Wilhelm Tischbein, ricordato da Pietro negli inediti Sepolcri Nolani come «ottimo amico»33,
attivamente partecipi di quel fertile milieu culturale stimolato dall’inglese34.
30 Nella Collection è più volte ricordata la presenza diretta dell’Hamilton all’apertura dei sepolcri;
inoltre, sono ricorrenti le osservazioni sulle tipologie sepolcrali e sui corredi rinvenuti nel nolano;
cfr., ad esempio, Collection of Engravings from Ancient Vases mostly of pure Greek Workmanship discovered in sepulcres in the Kingdom of the Two Sicilies but chiefly in the neighbourhood of Naples during
the course of the years 1789 and 1790, now in the possession of Sir. W. Hamilton, His Britannic Majesty’s
Envoy and Plenipotentiary at the Court of Naples, whit remarks on each vase by the Collector, Naples,
1791-95, pp. 22-24. Tuttavia, nella composizione del Kniep – tradotta in incisione dal Clener l’attenzione ai particolari e la riproduzione fededegna del contesto archeologico, a quel tempo
pratica già ampiamente in uso per le riproduzioni in situ delle antichità e delle pitture vesuviane,
sono tutt’altro che rigorose lasciando piuttosto ampio margine alla idealizzazione dei volti ed alla
grazia delle pose. Per il problema della documentazione delle antichità e delle pitture parietali
antiche rinvenute nelle aree vesuviane si rimanda a P. D’ALCONZO, Picturae excisae. Conservazione e restauro dei dipinti ercolanesi e pompeiani tra XVIII e XIX secolo, Roma 2002 e I. BRAGANTINI,
La documentazione degli affreschi antichi, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX
secolo, cit., pp. 85-96.
Sul pittore Christoph Heinrich Kniep e la sua attività a Napoli, si vedano A.M. NEGRO SPINA,
L’incisione napoletana dell’Ottocento, Napoli 1976, p. 19; All’ombra del Vesuvio. Napoli nella veduta
europea dal Quattrocento all’Ottocento, catalogo della mostra, Napoli 1990, p. 403; A.M. NEGRO
SPINA, Incisori a Napoli. 1779-1802, Napoli 1997, p 39. Per Antoine Clener si rimanda a quanto
segnalato nel capitolo V di questo lavoro.
31 Per questa relazione cfr. I. JENKINS, Nuovi documenti per l’origine della tomba “da Paestum” della
collezione Carafa di Noja, in I Greci in Occidente. La Magna Grecia nelle collezioni del Museo Archeologico
di Napoli, catalogo della mostra a cura di S. De CARO e M.R. BORRIELLO (Napoli 1996), Napoli
1996, pp. 249-251.
32 Sul personaggio e sulla raccolta da questi riunita, interamente confluita nella prima collezione
Hamilton, si vedano C.L. LYONS, The Museo Mastrilli and culture of collecting in Naples, 1700-1755,
in «Journal of the History of Collections», IV (1992), 1, pp. 1-26; e S. NAPOLITANO, L’antiquaria
settecentesca tra Napoli e Firenze, cit., pp. 69-83.
33 Sepolcri Nolani, I, f. 11r.
34 Le dinamiche interne e la fisionomia stessa di quel circuito dal saldo orientamento filo massonico, ancora attendono una puntuale ricostruzione. Importanti notazioni sono in R. CIOFFI,
Immagini della rivoluzione, in La repubblica napoletana del Novantanove. Memoria e mito, catalogo della
mostra (Napoli 1999-2000), Napoli 1999, pp. 90-94; e P. FARDELLA, Riflessi della repubblica sul
collezionismo privato napoletano, in A. PLACANICA e M.R. POLIZZARI (a cura di), Novantanove in
idea: linguaggi miti memorie, Napoli 2002.
Per l’Italinsky, invece, si veda C. KNIGHT, Hamilton a Napoli: cultura, svaghi, civilta di una grande
129
Giunto a Napoli con Goethe, che l’aveva voluto al proprio seguito
nel viaggio da Roma del 1786, e impegnato per un decennio a partire dalla
fine del 1789 nella condirezione, accanto al solimenesco Domenico Mondo,
dell’Accademia di Belle Arti di Napoli35, Tischbein, che tra l’altro possedeva
una raccolta di anfore nolane36, fu assiduo frequentatore dei Vivenzio. In più
punti delle sue Memorie ricorderà le visite effettuate alla residenza nolana al
fine di ammirare i reperti della collezione vascolare37 e particolarmente la
celebre hydria di Kleophrades, della quale, a detta dello Jannelli, trasse anche
«un lucido […] scorrettamente inciso in Parigi dal sig. Clener» 38.
D’altra parte gli anni Novanta, centrali per l’attività politico-istituzionale di Nicola e culminati nella nomina ferdinandea a marchese nel 179739,
capitale europea, Napoli 2003, pp. 191 e 208 nota n. 3. Le visite di quest’ultimo alla collezione Vivenzio sono ricordate in più punti dei Sepolcri Nolani; cfr, ad esempio, Sepolcri, II, f. 244r.
35 Sullo stato della produzione artistica a Napoli alla metà del Settecento, con particolare riferimento alla pittura, e sulla storia dell’Accademia in quegli anni si vedano, oltre i testi base del
Borzelli (1901), della Lorenzetti (1956) della Pinto (1982), ed il ben noto catalogo della mostra
Civiltà del Settecento a Napoli (1980), R. CIOFFI, Ripensando l’arte napoletana del primo Ottocento, in
“ON/OttoNovecento”, 2, 1996, pp. 5-19 e EAD., L’Accademia di Belle Arti di Napoli tra Solimena e
Morelli: 1752-1848, prolusione per l’inaugurazione dell’anno acc. 2003-2004 della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, Giannini Editore, Napoli 2004, pp. 35-59, in particolare
pp. 43-49. Per Domenico Mondo, figlio del celebre letterato Marco ed a sua volta discreto poeta, si
vedano: A. SANSONE, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie, Palermo 1901, p. 415; A. ZAZO, D.
Mondo, un pittore che fu poeta, Napoli 1976; D. CAMPANELLI, Domenico Mondo : un solimenesco in
Terra di Lavoro, Napoli 1997; per i rapporti con il Tischbein, utile: La Vecchioneide. Sonetti composti da
Domenico Mondo, Direttore della Real Accademia di Pittura di Napoli, a cura di A. BORRELLI, Napoli
2006, specialmente p. 36 nota n. 36.
36 Cfr. J.H.W. TISCHBEIN, Figure d’Omero, cit., p. 94, che tuttavia non fornisce ulteriori informazioni o riferimenti.
37 Cfr. J.H.W. TISCHBEIN, Dalla mia vita, cit., pp. 251-253. Dai reperti della collezione nolana,
Tischbein trasse molte delle iconografie poi confluite nelle Figures d’Homère dessinées d’après l’antique, quali ad esempio il bel Nestore, immortalato tra Achille, Agamennone ed altri eroi della
mitologia greca; cfr. J.H.W. TISCHBEIN, Figure d’Omero, cit., pp. 121-122.
38 G. IANNELLI, Brevi Cenni degli scrittori ed uomini illustri della città di Nola e di quelli che si occuparono della medesima città, Caserta 1887, f. 75. Lo stesso Tischbein, riferendosi alla hydria, chiarisce
che «Vivenzio fece [...] incidere in rame questa raffigurazione»; cfr. J.H.W. TISCHBEIN, Dalla mia
vita, cit., p. 252. La tavola dell’hydria, pubblicata in M. Dubois Maisonneuve, Peintures de Vases
Antiques, cit., tomo I (1808), tav. XXVI, fu incisa da Antoine Clener, uno degli allievi coinvolti
nella realizzazione dell’apparato illustrativo della Collection Hamilton; cfr. J.H.W. TISCHBEIN,
Figure d’Omero, cit., p. 97. Molto severo il giudizio espresso su quella illustrazione dall’ercolanese
Bernardo Quaranta, il quale, ripercorrendo brevemente la fortuna critica del reperto, scrive: «finalmente il Millin […] lo pubblicava nella raccolta del Dubois Maisonneuve [...] con disegno così
imperfetto che oltre alle tante alterazioni nelle teste e nell’abbigliamento delle figure, due di esse
vi mancano affatto»; cfr. B. QUARANTA, I fatti della presa di Troia rappresentati sopra un vaso greco
di creta pitturata, Napoli, Stamperia Reale 1846, p. 6.
130
39 Come ha dimostrato Fara Fusco sulla base di documentazione inedita, qualche anno dopo,
coincisero significativamente con un forte incremento dell’attività collezionistica, di solito sotto la supervisione diretta di Pietro, le cui speculazioni erudite
dovettero raggiungere a quelle date un grado sufficientemente articolato di
complessità.
Ne fornisce una interessante ed utile testimonianza diretta il ricordo
di Francesco Bieliński (*1740-†1809), riformatore polacco intriso di cultura illuminata e d’interessi antiquari, che a Napoli trascorse circa quindici mesi tra
il 1790 ed il 179140.
Questi, all’indomani della visita alle “città sepolte”, fece tappa a Nola
intrattenendosi lungamente con Pietro, discettando «dei vasi etruschi» che
numerosi venivano «cavati alla giornata»:
Tant de personnes voient des Vases Étrusques, tant les achètent, tant y sont
trompées et peu connoissent et l’histoire de ces vases et leurs différences. J’ai entendu
plusieurs raisons sur cette matière, mais personne n’en parle avec plus de précisions
et plus de clarté que Don Pietro Vivenzio et tout ce qu’il dit il le démontre d’abord
dans son cabinet à Nola où je suis allé exprès le 12 de juin. C’est sans contredire le plus
beau cabinet des Vases Etrusques qui existe tant par la variété des formes, l’élégance
du dessein comme aussi par le nombre. Je veux tâcher de recueillir ce qu’il m’a dit sur
cette matière 41.
Bieliński continua offrendo un breve resoconto delle informazioni fornitegli dallo stesso Pietro:
il y en a de plusieurs époques, de plusieurs espèces et de plusieurs fabriques.
Les plus fameuses fabriques étoient Avella, Capua, Nola, qui étoit la meilleure de tous.
Les connoisseurs reconnoissent d’abord ceux de Nola par la finesse et l’éclat du vernis,
le tarter mesme ne s’y attache pas, car quand ils sortent de la terre, il suffit de bien essuyer ces vases, ils reprennent leur éclat, tandis que ceux des autres fabriques il faut les
in seguito alla breve esperienza repubblicana, e mentre il Re e la Corte risiedevano a Palermo, il
governo provvisorio del Cardinale Ruffo, fino al ripristino delle Segreterie di Stato, affidava al
marchese Nicola Vivenzio la politica di ricognizione del patrimonio della Corona; cfr. F. FUSCO,
Il ruolo del restauratore di corte a Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Le fonti documentarie, in Storia
del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, cit., pp. 19, 25 e 26
40 Sul personaggio - tra l’altro autore dell’interessante Metodo di educazione descritto in XV lettere
(1755), membro attivo della Commissione per l’educazione Nazionale dal 1773 al 1794 e stretto sodale
di Domenico Venuti - ed il suo viaggio attraverso il Meridione d’Italia si veda B. BILIŃSKI, Viaggiatori illuministi polacchi, cit., pp. 74-83, in cui sono trascritti i brani di seguito riportati.
41 Ivi, p. 79.
131
nettoyer avec l’eau forte, laquelle enlève le tarter sans endommager le vernis. Quand
le vernis noir a été mal donné, il devient couleur de crayon et quand le vase a été
au feu jaune, qui n’est pas couvert de vernis, devient plus foncé. La légèreté, la force
et l’éclat voilà les caractéristiques d’un vase étrusque, la grandeur, la forme de case,
la beauté du dessin voilà ce qui en forme le prix. Les Étrusques mettoient dans les
tombeaux les vases, dans cette époque, brûloient pas les corps comme ensuite faisoient les Romains, on les enterroit en terre vierge, les riches avoient leurs tombeaux faits
de pierres, le pauvre seulement une pierre à la tête et une seconde aux pieds, les tombeaux de Nola étoient couverts en plat et avoient les vases à la tête, les unes suivoient
la direction d’orient en occident, les autres la direction opposée, quelques unes sont
indifféremment placées, on a trouvé tantôt un seul tombeau tantôt plusieurs ensembles, on en a mesme trouvé trois l’un sur l’autre. Toutes ces observations ont donné
aux excavateurs l’art de dire au juste avant d’ouvrir un tombeau et de quelle époque
il est, car on trouve à Nola des tombeaux à l’us d’Avella, et de quelle sorte des vases
on y trouvera. Dans les tombeaux où ont été enterrés des prêtres ou des prêtresses,
on trouve des petites idoles de terre cuite. Sur le haut de chaque tombeau on trouve
de la terre brûlée et des vases cases (ordinairement ce sont les plus beaux et la plupart
des patères de libation) et on conclut que d’abord après avoir enterré un cadavre , on
faisait un feu de sacrifice et les plus beaux vases du défunt, qu’on jetoit ensuite au feu,
servoient aux libations; dans les mesmes tombeaux on trouve très peu42.
Conclude riportando le opinioni del Vivenzio sul significato della parola calos e sulle tecniche esecutive e decorative della ceramica figurata antica:
Les admirateurs de l’antiquité prétendent que les figures sur les vases Etrusques
sont dessinées avant qu’on ait mis le vernis noir et prétendent que les anciens savoient
si bien le dessin qu’ils ne le corrigeoient jamais. Monsieur Vivenzio leur répond modestement en montrant les vases et on peut voir distinctement qu’on commençoit par le
vernis noir seulement à l’endroit où devoit venir la figure, on laissoit une tâche à peu
près de la forme de la figure, quand on retira du four le vase vernissé en noir, on dessinoit la figure et avec une nouvelle couleur noire on remplissoit le vide entre la figure
et le fond, et cette seconde peinture est un peu rehaussée. Quand aux corrections du
dessin on voit sur plusieurs bases les corrections du dessin on voit sur plusieurs bases
132
42 Ivi, p. 80.
les corrections qui ont été faites et principalement sur le beau vase où est représenté
Apollon, donnant le don de la divination à Cassandre, où on peut voir distinctement
un bras effacé et un autre dessiné à sa place43.
La testimonianza del Bieliński, unitamente a quanto riferito nei Feuille
des beaux Arts da Francesco Piranesi, che nell’agosto del 1792 potette probabilmente visitare la raccolta nolana44, chiarisce appieno la complessità delle analisi prodotte dal Vivenzio, che di lì a poco avrebbero trovato compiuta articolazione in una trattazione erudita conclusa entro il 1798, poi andata dispersa45.
Per tradizione familiare saldamente fedele alla dinastia borbonica, Pietro offrì un sostegno particolarmente attivo contro i repubblicani, guadagnandosi anche il titolo di comandante delle milizie urbane46 (fig. 7).
La breve ma significativa parentesi rivoluzionaria, con l’occupazione
militare (20 gennaio 1799) e la proclamazione della Repubblica47, vide la dev43 Ivi, p. 81. L’intera tradizione attributiva meridionale, risalente ai primi del Seicento, aveva riconosciuto nella presenza di epigrafi greche, dipinte o incise, la principale prova per ricondurre agli
antichi Greci i vasi rinvenuti nel Meridione. Comunemente - tuttavia non senza qualche eccessiva
semplificazione - la soluzione alla questione dell’ “origine dei vasi” è assegnata al Winckelmann
ed al Lanzi, che molto discettarono sul problema delle epigrafi. In realtà, attraverso una analisi
più approfondita di alcune pubblicazioni generalmente poco attraversate dagli studi, e ad una
ricca messe documentaria inedita, è stato possibile individuare l’esistenza di un vero e proprio filone meridionale di studi sui vasi, di cui è stato possibile riconoscere l’intera evoluzione sino allo
scontro definitivo con l’imperante “etruscheria” attorno alla metà del Settecento. Per una ampia
ricostruzione delle problematiche cui si è fatto cenno, si rinvia a S. NAPOLITANO, L’antiquaria
settecentesca tra Napoli e Firenze, cit.; e M.E. MASCI, The birth of ancient vase collecting in Naples in
the early eighteenth-century: antiquarian studies, excavations and collections, in «Journal of the History
of Collections», 19, n. 2, (2007), pp. 216-218.
44 «… Dans le même temps qu’il y a cette seconde collection de M. Hamilton un certain chevalier
Vivenzio de Nola en a recueilli une quantité précieuse de ces vases, et cherche à présent de les
faire graver. Les planches ne seront pas de l’exactitude et magnificence de celles d’Hamilton, mais
on débite pourtant de réussir en quelque manière recommandable pour l’attention et exactitude
du dit chevalier …»; citato in R. CAIRA LUMETTI, La cultura dei lumi tra Italia e Svezia. Il ruolo di
Francesco Piranesi, Roma 1990, pp. 308-309.
45 Per le vicende legate alla realizzazione di quell’opera, poi interamente confluita negli inediti
Sepolcri Nolani, cfr. infra, in particolare III.2. Una genesi complessa.
46 In tale veste pubblicò nel 1801 Ne’ funerali della regal principessa delle Sicilie Maria Clementina di
Austria fatti celebrare in Nola dal direttore del reggimento della milizia urbana in quella città Pietro Vivenzio. Per l’impegno politico dei fratelli Vivenzio negli anni della proclamazione della Repubblica
Napoletana si vedano P. MANZI, Nola sulla soglia dell’Ottocento, cit.; L. SORRENTINO, Io muoio
libero e per la repubblica. Vita e opere di Vincenzo Russo ideologo e martire del 1799, Somma Vesuviana
1999, pp. 65, 80; e A. M. RAO, I Fratelli Vivenzio, cit., pp. 214, 224-226. Interessante anche la testimonianza del Conforti [L. CONFORTI, 1799. La Repubblica napoletana e l’anarchia regia: narrazioni,
memorie, documenti inediti, Avellino, Pergola 1890, pp. 180-181], che però confonde il ruolo giocato
da Nicola nell’ambito dei movimenti filoborbonici organizzati nel nolano con quello di Pietro.
47 Una utile traccia per la comprensione degli eventi verificatisi in quegli anni ed i riflessi che
ebbero sulla produzione artistica meridionale coeva è offerta in R. CIOFFI, Alcune considerazioni
133
astazione della residenza napoletana di Nicola, saccheggiata dei dipinti48,
dei mobili e dei libri il 14 giugno del ‘9949. Ancora nel 1814, Nicola cercava
di recuperare un presunto bozzetto del Giudizio Universale, ritenuto di mano
michelangiolesca, acquistato da Francesco Santangelo presso il pittore e mercante Mariani50. E stessa sorte dovette subire la raccolta riunita nella residenza
nolana, a detta dell’Arditi dapprima decurtata dei pezzi migliori al momento
della precipitosa fuga di Giovanni Vivenzio in Sicilia a seguito della corte, poi
sottoposta a sequestro da parte del nuovo governatore cittadino per volontà
sovrana ed infine del tutto smembrata con l’occupazione del palazzo ad opera delle truppe capitanate dal colonnello Pignatelli:
Si è saputo che (…) il primo fratello, medico Vivenzio, essendo partito colla passata Corte per Palermo, si portò i migliori vasi di questo museo; quelli che sono rimasti
sulla produzione artistica durante la Repubblica del ’99, in Napoli e la Repubblica del ’99. Immagini
della Rivoluzione, catalogo della mostra, Napoli 1989; EAD., La pittura di storia e Napoli all’epoca di
Donizetti. Persistenze neoclassiche e barlumi romantici, in F.C. GRECO, R. Di BENEDETTO (a cura
di), Donizetti a Napoli e l’Europa, atti del convegno (Napoli 1997), Napoli 2000, pp. 277-299; e, più
di recente, L.M. MIGLIORINI, A. Di BENEDETTO (a cura di), Memoria del Novantanove. Storie e
immagini della Rivoluzione fra ottocento e Novecento, Napoli 2002. Questi avvenimenti costituirono
a Napoli, come altrove in Italia ed in Europa, la premessa per una massiccia attività, da parte
francese, di vera e propria spoliazione del patrimonio storico-artistico, destinato al grande museo
che, dal 1791, si andava allestendo al Louvre. Per la creazione del Louvre si veda almeno Ch.
SAUNIER, Les conquêtes de la Révolution et de l’Empire, Paris 1902; F.H. TAYLOR, The Taste of Angels: a History of Collecting from Ramses to Napoleon, Boston 1948 [trad. it. di L. SALERNO, Artisti,
principi e mercanti, Torino 1954]; J.D. GOULD, Storia e sviluppo economico, I-II vol., Roma-Bari 1975;
P. WESCHER, Kunstraub unter Napoleon, Berlino 1976 [trad. it. I furti d’arte. Napoleone e la nascita
del Louvre, Torino 1988]; N. PEVSNER, Museums, in A History of Buildings Types, Princeton 1976,
pp. 111-138 [trad. it. I Musei, a cura di L. BASSO PERRESSUT e F. PREMOLI, in I luoghi del museo.
Tipo e forma fra tradizione e innovazione, Roma 1985, pp. 41-85]. Per una più ampia ricostruzione
storica di quegli anni si rinvia a Folle controrivoluzionarie: le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e
napoleonica, a cura di A.M. RAO, Roma 2001.
48 La quadreria è ricordata e descritta in D. ROMANELLI, Napoli antica e moderna, dedicata a S.M.
Ferdinando IV, Re delle Due Sicilie, Napoli, Angelo Trani 1815, p. 118 e S. GALLOTTI, Elogio del marchese Nicola Vivenzio, seguito da vari componimenti, Napoli, stamp. Masi 1817, p. 19.
49 Altri danni furono dovuti ad un incendio doloso del 10 febbraio 1800; cfr. C. De NICOLA, Diario napoletano (dicembre 1798-dicembre 1800), a cura di P. RICCI, Milano 1963, pp. 208, 261 e 277.
134
50 L’intera vicenda è ricostruita sulla base di documentazione inedita in P. FARDELLA, Del collezionismo privato di dipinti a Napoli. 1799-1860, tesi di dottorato di ricerca in “Discipline storiche
dell’Arte medievale, moderna e contemporanea. Storia e critica delle arti figurative nell’Italia
meridionale”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, X ciclo, Napoli 1999, pp. 267-269.
Per il Palazzo Pignatelli di Monteleone a Calata Trinità Maggiore, residenza napoletana di Nicola, si veda Ivi, pp. 253-256. Per l’attività collezionistica di Francesco Santangelo, giureconsulto e
poeta che molto seppe avvantaggiasi delle ottime occasioni d’acquisto che si presentarono in quei
momenti di forte instabilità politica, si rimanda a A. MILANESE, Il Museo Santangelo: storia delle
raccolte di antichità in I Greci in Occidente, cit., pp. 171-180, con bibliografia di riferimento.
come può vedersi, sono de’ comuni, essendovene de’ migliori nella collezione fatta dal
Re. Quando il Governatore di Nola, d’ordine del Re, andò ad annotare questo museo,
trovò che nel tempo della dimora in quella casa del Colonnello Pignatelli, molti vasi
di quelli che vi erano rimasti, erano stati tolti dalle persone di servizio del medesimo
Colonnello, e mandati in Napoli. Questo fatto può sapersi dal medesimo Governatore
che lo ha riferito51.
II. 2. Il “dorato esilio”. Gli anni romani (1806-1809).
A differenza di molti altri funzionari borbonici che si integrarono pienamente nella nuova amministrazione napoleonica, i Vivenzio rimasero
sostanzialmente ai margini della vita politica durante il decennio francese52.
Rifiutati gli allettamenti di Giuseppe Bonaparte53, i Vivenzio dovettero
riparare a Roma poco prima che le truppe francesi assediassero la città di Nola
(3 aprile del 1806)54.
Il catalogo della collezione venne distrutto per evitare che i pezzi
migliori fossero facilmente individuati e trafugati55, e solo una manciata di
reperti portati dai fratelli nella capitale pontificia, tra i quali le otto gemme
di cui diremo tra breve. Fu portato a termine un primo nucleo dei Sepolcri
Nolani, corrispondente all’attuale secondo tomo dell’opera, incentrato sulla
illustrazione delle iconografie di circa quaranta reperti vascolari e preceduto
51 ASSN, IV B 11, 9 ff. 3-4. In realtà, andrà chiarito che non sono state rintracciate ulteriori
testimonianze in merito al coinvolgimento di Giovanni nella realizzazione della raccolta antiquaria.
52 A detta del principe di Canosa, Nicola fu «pienamente negletto» dai Francesi; cfr. A.M. RAO,
L’“amaro della feudalità”, cit., p. 271 ed anche EAD., I Fratelli Vivenzio, cit., p. 224. Per un bilancio
dell’intero periodo rivoluzionario e napoleonico a Napoli si rinvia a A.M. RAO, P. VILLANI,
Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli 1995.
53 Come hanno chiarito i fondamentali studi di Carlo Capra, Renata De Lorenzo ed Anna Maria
Rao, l’età napoleonica vide un reclutamento delle energie intellettuali al servizio del potere senza
paragoni con le età precedenti e successive. In particolare, a Nicola venne offerto da Giuseppe di
entrare a far parte dei tribunali riformati assieme a Dragonetti, presidente del commercio, Mascaro, vice presidente di Casa Reale, Aversa, avvocato della Corona, ed il consigliere Parise; cfr. C.
De NICOLA, Diario napoletano, cit., pp. 331-338.
54 A quelle date risalgono la demolizione dell’obelisco fatto erigere dai Vivenzio per celebrare la
temporanea vittoria della corona borbonica sui rivoluzionari e l’arresto di una tale Diomira, ricordata da De Nicola come «appartenente alla casa del già governatore don Pietro Vivenzio»; cfr.
Ivi., p. 240. L’intera vicenda è ricostruita, non priva di qualche ingenuità e numerose inesattezze,
in P. MANZI, Nola sulla soglia dell’Ottocento, cit.
55 ASN, Interni, I Inventario, 993/8.
135
da una breve ma articolata digressione sulle origini della città di Nola, ma la
pubblicazione dell’opera venne rimandata anche a causa dell’uscita di scena
dell’ambasciatore Hamilton nel 1803, come si è detto autentico promotore di
quella prima iniziativa editoriale.
È facilmente intuibile la valenza che dovette assumere il soggiorno romano per Pietro, che d’altronde in una lettera diretta all’accademico ercolanese
Bartolomeo Pessetti56, poi inclusa tra i capitoli addizionali del primo tomo dei Sepolcri, ricorderà quel periodo come uno tra i più felici della propria esistenza57.
Le esperienze compiute da Pietro dovettero svolgersi verosimilmente
nel corso di un triennio chiaramente decisivo per la sua formazione, ma sul
quale possediamo ancora poche e generiche informazioni che certamente non
soddisfano i nostri interrogativi, dal momento che conosciamo assai sommariamente i percorsi attraverso i quali acquisì una cultura per alcuni versi propriamente storico-artistica precocemente solida ed estesa anche al campo tecnico.
Roma, “capitale universale delle arti”, luogo per eccellenza dell’arte
classica, con il suo vasto mercato internazionale, con la splendida opulenza
delle collezioni patrizie, la presenza dei maggiori mecenati, artisti e trattatisti
del tempo, poteva costituire uno straordinario crocevia di esperienze anche
profondamente differenti, sebbene accomunate dalla volontà di aggiornarsi
su quelle nuove tendenze spiritualistiche e puristiche che, sotto il nume tutelare di Raffaello, modificheranno radicalmente l’indirizzo complessivo delle
arti a partire dai primi dell’Ottocento58.
Villa Albani, Villa Medici, Palazzo Venezia e Palazzo Farnese, residenza
dell’ambasciatore borbonico presso la Santa Sede, erano i luoghi maggiormente significativi della «sola città dove si può utilmente stabilire una scuola
56 Nato a Napoli il 12 agosto del 1768, Pessetti, già professore di archeologia greca presso la Regia
Università di Napoli, fu nominato accademico ercolanese nel 1807; cfr. G. CASTALDI, Della regale
Accademia Ercolanese dalla sua fondazione sinora, con cenno biografico de’ suoi soci ordinari, Napoli,
Porcelli 1840, pp. 199-200.
57 Cfr., ad esempio, Sepolcri Nolani, I, ff. 279r-297r.
136
58 Un utile quadro introduttivo ai rapporti politico-culturali venutisi a determinare tra Napoli
e Roma nella prima metà del secolo XIX è in S. SUSINNO, Napoli e Roma: la formazione artistica
nella “capitale universale delle arti”, in Civiltà dell’Ottocento. Cultura e società, catalogo della mostra
(Napoli 1997-98), Napoli 1998, pp. 83-91, da cui desumiamo molte delle informazioni alle quali
facciamo riferimento. Sullo stesso argomento, ma con una prospettiva differente, si veda anche L.
BARROERO, S. SUSINNO, Roma arcadica capitale universale delle arti del disegno, in “Studi di Storia
dell’Arte”, X (1999), pp. 89-178.
di perfezione per le arti del disegno»59; lì venivano indirizzati gli “intendenti
d’arte” al fine di aggiornarli sugli indirizzi artistici e sui nuovi stimoli forniti
dallo studio della “gran maniera” di Raffaello e Michelangelo, di cui la città
era novellamente fonte.
Tuttavia, non siamo riusciti a reperire informazioni utili a delineare con
sufficiente chiarezza non solo i tempi certi, ma anche le stesse frequentazioni
e gli interessi maturati nel corso di quel forzato soggiorno, particolarmente
prolifico soprattutto per Pietro, che potette entrare in contatto con alcuni tra
i più noti collezionisti del tempo, quali l’inglese James Millingen, ed i circuiti
artistici dell’Accademia di San Luca 60.
In particolare, pare che avesse stretto un profondo e duraturo sodalizio
con il pittore Arcangelo Michele Migliarini (*1779-†1865) 61, portavoce dei classicisti intransigenti riuniti intorno alla cosiddetta “Accademia dei Pensieri” di
Felice Giani62, cui il 12 aprile del 1822, da Nola, domanda aggiornamenti sulla
scena artistica romana e sui successi del pittore Vincenzo Camuccini e del suo
maestro Pietro Benvenuti, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze63:
59 Statuto del Pensionato artistico a Roma (Napoli, 31 luglio 1813), citato in C. LORENZETTI, L’Accademia di Belle Arti di Napoli (1752-1952), Firenze 1952, p. 379.
60 Su questa importante istituzione si veda almeno C. PIETRANGELI (a cura di), L’Accademia
Nazionale di San Luca, Roma 1974, con suggerimenti e spunti ancora validi, e le utili riflessioni
espresse dallo stesso Costanzo Angelini in Alcune idee per promuovere le arti liberali, Napoli, 1821,
p. 23. Sugli artisti che gravitavano in quell’orbita, per maggiori informazioni sul ruolo dei concorsi accademici nell’ambito della formazione dei giovani artisti e sul ruolo didattico che questi
svolgevano, si consulti A. CIPRIANI, Aequa Potestas. Le arti in gara a Roma nel Settecento, catalogo
della mostra (Roma, Accademia di San Luca, 22 settembre-31 ottobre 2000), Roma 2000; e, da
ultimo, A. VILLARI, Dall’antico e dal moderno: la gipsoteca dell’Accademia di San Luca (1804-1873), in
Le scuole mute e le scuole parlanti. Studi e documenti sull’Accademia di San Luca nell’Ottocento, a cura
di P. PICARDI e P.P. RACIOPPI, Roma 2002, pp. 133-168.
61 Per il Migliarini, tra l’altro autore nel 1827, unitamente a Francesco Inghirami, dell’inventario
delle raccolte del Museo Venuti (cfr. Biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona, ms. 551), si
rimanda allo storico contributo di N. NIERI CALAMARI, Arcangelo Michele Migliarini, 1779-1865,
etruscologo ed egittologo, Roma 1931; ed al recente A. Auf Der HEYDE, Arcangelo Michele Migliarini
(1779-1865): formazione artistica, divagazioni critiche e rapporti con il collezionismo di un antiquario
ottocentesco, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia”, IV
Serie, 2003 (2006), 1/2, pp. 263-303.
62 Per l’interessante circuito attivato dal Giani si rinvia a C. POPPI, Avanguardia e accademia: nascita di un’osmosi conflittuale, in Il primo ‘800 italiano. La pittura tra passato e futuro, catalogo della
mostra a cura di R. Barilli, Milano 1992, pp. 32-43; e più di recente A. OTTANI CAVINA, Felice
Giani 1758-1823 e la cultura di fine secolo, 2 voll., Milano 1999, I, pp. 34-41, 79-81. Per gli impulsi che
l’“Accademia de’ Pensieri” dette alla didattica artistica del primo Ottocento, cfr. C. SISI, L’educazione accademica, in Maestà di Roma – Da Napoleone all’unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma
2003) a cura di S. PINTO, L. BARROERO e F. MAZZOCCA, Milano 2003, pp. 279-281.
63 Com’è noto, la formazione romana è alla base dell’esperienza artistica dei direttori delle Accademie di Belle Arti degli stati preunitari; cfr. S. SUSINNO, Napoli e Roma, cit., in particolare p.
137
Di grazia ditemi, che n’è stato del vos.ro cartone acquerellato del Giudizio? Io
mene sovvengo ad ogni ora. Sà che tale opera vi fece onore. E’l Sig. Benvenuti è in
fortuna, e di buon salute in Firenze? Che grande uomo! Che ve ne pare! Si grida saltare dal secolo il Cav. Camuccini? Oh sciocchezza; ma tutto va col tempo; e questo è il
ricorso dalle ragioni, disposto dal nostro Giambattista Vico64.
I riflessi della frequentazione di quel fervido circuito artistico che - in
perfetto allineamento ai nuovi ideali neoclassici - tanto precocemente aveva
saputo cogliere le sperimentazioni primitiviste delle stampe flaxmaniane,
sono ben riconoscibili nelle Lettere sopra i colossi del Quirinale pubblicate da
Pietro a Roma nel 1809, per i tipi dell’editore Francesco Bourliè, indirizzate
allo stesso Pietro Benvenuti e dedicate a Carlo Fea65.
Le Lettere risalgono rispettivamente al 15 febbraio ed al 21 maggio del
1807, e partecipano dell’ampio dibattito inaugurato qualche anno prima dal
Canova con la pubblicazione di un breve scritto a stampa in cui veniva proposta una diversa sistemazione dei due Dioscuri del Quirinale66.
La prima prende spunto dalla richiesta effettuata dallo stesso Benvenu90, nota n. 3. Sul Benvenuti, tra i più assidui frequentatori del colto cenacolo attivato da Louise
Bénigne Gagneraux, si vedano A. ANDANTI, Sulla formazione di Pietro Benvenuti tra Firenze e
Roma e i ritratti di Ferdinando III e di Luisa Amalia di Toscana nella Fraternita dei Laici di Arezzo, in
“Rivista d’Arte”, a. XL, Serie IV, vol. IV, (1988), pp. 369-386; F. CRISTELLI, Notizie e documenti sulla
fortuna goduta da Pietro Benvenuti ai suoi tempi, in “Annali Aretini”, n. 3, 1995 e L. FORNASARI,
Pietro Benvenuti, Firenze 2004.
64 Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, Gonnelli 43.112. La lettera è parzialmente trascritta in
A. Auf Der HEYDE, Arcangelo Michele Migliarini, cit., p. 269 nota n. 15. In questa stessa lettera, assai interessante il ricordo del pittore Ferdinando Mori, autore del corredo illustrativo delle Lettere
Scientifiche di Vario Argomento pubblicate da Nicola a Roma nel 1809, a sottolineare ulteriormente
la convinta adesione da parte dei Vivenzio ai milieux intellectuels neoclassici romani.
65 Per la figura del Fea, nominato Commissario alle Antichità ed agli Scavi già nell’estate del
1800 dal generale Naselli dell’esercito napoletano che presidiava Roma in attesa del rientro del
pontefice, si vedano: O. ROSSI PINELLI, Carlo Fea e il chirografo del 1802, in «Ricerche di storia
dell’arte», 8 (1978-79), pp. 27-41; R. T. Ridley, In defence of the cultural patrimony: Carlo Fea goes to
court, in “Xenia Antiqua”, 5, 1996, pp. 143 – 158; IDEM, The Pope’s Archeologist. The Life and Times
of Carlo Fea, Roma 2000.
138
66 Le due statue virili della piazza del Quirinale raffigurano i Dioscuri mentre trattengono per le
briglie i cavalli scalpitanti, ed appartengono probabilmente all’antico tempio di Serapide edificato da Caracalla sul monte nel 217 a.C.. Sotto papa Sisto V le statue furono collocate sulla nuova
piazza, dopo un lungo restauro terminato nel 1585. Per il Serapeo si vedano A. SANNA, L’attività
edilizia di Settimio Severo: sulla ubicazione del tempio di Eracle e Dioniso (Cassio Dione LXXVI, 16, 3-4),
“Ostraka”, 14, 2005, pp. 187 ss; e R. TAYLOR, Hadrian’s Serapeum in Rome, AJA 108, 2004, spec. pp.
240 ss, con elenco dei rinvenimenti di arredi architettonici e mobili.
Per l’opera di Canova, data alle stampe nel 1802, si rinvia a G.I. MELLINI, Canoviana, in «Antichità Viva», I, 1990, pp. 21-30; e L. CICOGNARA, Biografia di Antonio Canova, Venezia, Missiaglia
1823, pp. 6-11.
ti al momento del suo rientro a Firenze per la realizzazione del calco in gesso
di uno solo dei due colossi del Quirinale, meritevoli entrambi a detta di Pietro
di prendere posto in una Accademia, per fornire l’esempio ai giovani artisti;
la seconda, invece, è sostanzialmente incentrata sul tentativo di ricostruzione
della composizione originaria del blocco, del quale è fornito anche una esemplificazione grafica di mano anonima (figg. 8,9,10,11).
Ad ogni modo, è utile sottolineare in entrambe innanzitutto una orgogliosa consapevolezza dei propri mezzi intellettuali e della propria competenza in campo antiquario e propriamente archeologico67, il raffronto pressoché
continuo con le opere dell’antichità principalmente appartenenti alla raccolta
nolana68, con un prevedibile riferimento di fondo al mondo degli artisti e della
produzione pittorica69.
Anche nell’altra opera pubblicata a Roma, le Gemme antiche per la più
parte inedite, permarrà il riferimento ai «giovani artefici ed agli incisori»70, ai
reperti vascolari della propria collezione71, ai marmi e bassorilievi delle principali raccolte romane72.
Molto interessante, infine, quanto dichiara nell’Avvertenza al lettore:
e comecchè scarso sia il numero di queste Gemme, alcune ve n’ha di così grande
importanza, che ben meritar potrieno esse sole lo studio d’ogni più illustre Antiquario,
non che di me, il quale fui educato in una Provincia del Regno di Napoli, ove il mio
selvaggio ingegno crescendo senza certa instituzione, trascorse a suo piacimento73.
Tuttavia l’opera è molto lontana dal proporsi come un reale impegno
erudito. In effetti, pare che le Gemme possano essere considerate come una
sorta di catalogo di vendita dei soli beni che Pietro potette portare con sé al
momento della fuga da Nola, pubblicate allo scopo di diffonderne la cono67 Cfr. P. VIVENZIO, Lettere, cit., pp. 6, 7, 14.
68 Ivi, pp. 17-19.
69 Interessante, a tal riguardo, l’incipit stesso della prima Lettera; cfr. Ivi, pp. 5-6.
70 «… Ma a Voi rivolgendomi ora o giovani artefici, e a Voi specialmente o incisori, quest’è il
bell’esempio che vi propongo a emulare. In però chè siate certi che i buoni conoscitori ravvisano
in questo cavo il sublime stil greco, quello cioè che ammirassi ne’ pochi monumenti restatici dal
miglior tempo per l’arti»; P. VIVENZIO, Gemme antiche per la più parte inedite, Roma, F. Bourlié
1809, p. 24. Sull’importanza dell’incisione riproduttiva ed il suo linguaggio nella nascente storiografia artistica torneremo nel prossimo paragrafo.
71 Ivi, pp. 3, 9, 10, 19 nota n. 14.
72 Ivi, pp. 23, 24.
73 Ivi, p. I.
139
scenza, accrescendone così il valore74.
Le descrizioni sono essenziali, pochi i raffronti con opere analoghe,
scarne le letture iconografiche dei soggetti raffigurati nelle belle incisioni di
Bartolomeo Pinelli (figg. 12,13).
Al contrario, estremamente interessanti - almeno sul piano metodologico - le acquisizioni in merito alla storia del popolamento della Campania ed
alla ricostruzione dei mores degli antichi desunte dalle analisi dei reperti, con
particolare riferimento ai riti funerari. Per la prima corniola, infine, rinvenuta
nel 1797 nella celebre hydria di Kleophrades, è proposta una attenta analisi
iconografica, anche al fine di chiarire e dimostrare la «greca maniera» del reperto ed il rapporto con il vaso in cui fu rinvenuto75.
In effetti, al di là di ogni formale proclamazione d’umiltà, il triennio romano dovette lasciare profondi riflessi nella speculazione erudita del nostro,
particolarmente ravvisabili in un accresciuto interesse per il dato disegnativo
puro, e per il valore esemplare che la pittura vascolare antica poteva assumere
anche per la produzione artistica contemporanea, soprattutto per la pittura
celebrativa e di storia, in cui il valore compositivo, con la disposizione dei
gruppi di figure, unitamente a quello lineare e stilistico assume un ruolo centrale, dettando i tempi della narrazione76.
74 Poco convincente, a nostro giudizio, l’idea espressa da Flavio Castaldo, secondo il quale Pietro
concepì le Gemme in funzione di catalogo di vendita per reperti appartenenti ad altri collezionisti;
cfr. F. CASTALDO, La sepoltura dell’ “hydria Vivenzio”, in “Annali di archeologia e storia antica”,
nuova serie n. 13-14, Napoli 2006-2007, pp. 177-178. Innanzitutto si tenga presente che il nome di
Pietro non era noto a tal punto da motivare il proprio impegno nelle attività di connoisseurship,
strettamente interrelate a finalità economiche e quindi alla riconoscibilità stessa dell’erudito coinvolto. Inoltre, il riferimento pressoché continuo alla raccolta antiquaria di famiglia riunita a Nola
mal si accorderebbe alla provenienza delle gemme da altre collezioni, il cui nome tra l’altro non
trova alcuna ricorrenza nell’opera. Un ulteriore raffronto utile credo sia fornito dallo stesso Catalogo ragionato del Museo Vivenzio [stilato da Pietro nel novembre del 1816, allorché, morto Nicola
(27 agosto 1816), la collezione venne offerta in vendita al Real Museo Borbonico; opera in folio,
d’ora in avanti: Catalogo 1816] nel quale non è fatto cenno ai reperti, verosimilmente confluiti nel
mercato antiquario romano. Sul fervore antiquario scatenato dalle gemme antiche, e dalle loro copie settecentesche, cfr. C. GASPARRI, Gemme antiche in età neoclassica. Egmagmata, Gazofilaci, Dactyliothecae, in “Prospettiva”, 8 (1977), pp. 25-35; e D. LEWIS, the last Gems: Italian Neoclassical Gem
Engravings and their Impressions, in Engraved Gems: Survivals and Revivals, edited by C.M. BROWN,
“Studies in the History of Art”, 54, National Gallery of Art, Washington 1997, pp. 292-305.
75 P. VIVENZIO, Gemme antiche, cit., pp. 9-12 e Catalogo 1816, p. 118.
140
76 Per quanto attiene i Sepolcri, particolarmente significative le aggiunte alla tavola XLI raffigurante le Feste in onore di Giove, presumibilmente apposte all’indomani del soggiorno romano; cfr.
Sepolcri Nolani, II, f. 310r. Un ulteriore, interessante tema di riflessione, anche questo sollecitato dal
“dorato esilio” romano, è costituito dal rapporto tra pittura e statuaria su cui Pietro si sofferma
particolarmente nel capitolo XIX del primo tomo; cfr., tra l’altro, Sepolcri Nolani, I, ff. 259r-260r.
II. 3. Il rientro a Napoli e gli ultimi anni di attività (1809-1835).
I Vivenzio dovettero rientrare nel Regno solo alla fine del 1809, quando
venne nuovamente offerta a Nicola la possibilità di collaborare a quella generale politica di riforme attivate dai napoleonidi in quegli anni. Tuttavia, sebbene Nicola optasse per un atteggiamento moderatamente collaborazionista,
la sua posizione dovette essere comunque defilata, preferendo in molti casi il
cimento in questioni erudite77.
Significativi, a tal riguardo, i rapporti con Aubin Louis Millin, a Napoli
nella primavera del 181278. L’inedito Journal de Voyage riunito dall’erudito francese testimonia, infatti, della visita di quest’ultimo al cabinet Vivenzio in data
28 maggio e del lungo ed appassionato confronto avuto in quell’occasione con
Pietro sulla qualità del terreno e le stratigrafie di scavo riscontrate nel nolano,
nonché sulle tipologie vascolari ed il dato disegnativo antico79.
77 Cfr., ad esempio, N. VIVENZIO, Delle antiche provincie del Regno di Napoli e loro governo, Napoli
1811. Che Nicola fosse animato da un solido lealismo dinastico e da convinte posizioni monarchiche antifrancesi è dimostrato e chiaramente sottolineato – in evidente concordanza con il “restaurato” scenario politico - anche dalla conclusione della Istoria del Regno di Napoli del 1816: «…
Nel primo tempo che i francesi occuparono il regno condotti da Giuseppe, e quando poi vi venne
da re il generale Murat, sovvertirono e distrussero interamente tutto l’ordine del governo e della
pubblica amministrazione […] Per contenere il popolo nel timore, e nella depressione, come pur
tutti quelli che credevano avversi al loro governo, stabilirono delle commissioni straordinarie le
quali con ricercati pretesti d’immaginarie congiure condannarono a morte in Napoli e nelle provincie un numero tanto grande d’innocenti ed onesti cittadini che fa orrore di ricordarlo; ed altri
molti furono mandati in lontano e penoso esilio. Si aggiunsero a questo le violente circoscrizioni,
che venivano rinnovate in ogni anno …»; cfr. Ivi, pp. 271-272.
78 Sul personaggio, interessante figura di erudito dalla cultura enciclopedica di matrice illuministica, autore di numerose pubblicazioni a carattere antiquario, si vedano le preziose indicazioni di
É. POMMIER, L’art de la Liberté. Doctrines et débats de la Révolution française, Paris 1991; e A. CASTORINA, Un “observateur de l’homme” e lo studio dell’archeologia. Note su A.L. Millin, Prospettiva 69
(1993), pp. 88-93 e AA.VV., Aubin Louis Millin et l’Allemagne. Le Magasin encyclopédique. Les lettres
à Karl August Böttiger, Zürich-New York 2005. Infine, nell’attesa della pubblicazione degli Atti
del convegno dedicato al Millin tenutosi recentemente, si vedano C. RÉTAT, Revers de la science.
Aubin-Louis Millin, Alexandre Lenoir, in Rêver l’archéologie au XIXème siècle: de la science à l’imaginaire,
Saint-Étienne 2001, pp. 99- 115; S. JAUBERT, A.F. LAURENS, Recueils de vases antiques dans la
première moitié du XIXème siècle. Entre Musées de papier et mise en place de sériations iconographiques,
techniques et typologiques, in «Journal des Savants», janvier-juin 2005, pp. 56 – 90.
79 Della collezione Vivenzio - come s’è visto ben nota al Millin già dai primi anni del secolo, ai
tempi della stesura delle dissertazioni per le Peintures des vases antiques curate dal Dubois Maisonneuve - l’erudito francese aveva parlato anche in un rapporto, purtroppo mutilo, datato Napoli 20
aprile 1812, contenuto nel fascicoletto Studi di Statue e sostanzialmente centrato sull’illustrazione
della collezione statuaria di Carolina Murat. Alla metà di ottobre dello stesso anno, Millin ebbe
l’occasione di vedere le illustrazioni dei vasi Vivenzio mostrategli dallo stesso Costanzo Angelini,
da lui sollecitato a realizzare 25 copie a stampa di quella pregevole opera destinandole alla vendita: «… j’arrive malheureusement après la lecture / d’une mémoire du père André, on y parle /
141
Da quell’incontro e dalle dotte discettazioni che ne derivarono, prese
vita l’interessante esemplificazione grafica della coupe d’une excavation faite
près de l’Ancienne ville de Nola, poi pubblicata nella seconda edizione delle
Peinture de vases antiques del Dubois Maisonneuve (planche CI), e sostanzialmente fedele alle indicazioni fornite dallo stesso Pietro nel primo tomo dei
Sepolcri Nolani80.
Piuttosto difficile riuscire a stabilire cosa fosse accaduto alla collezione
vascolare in quel lungo arco di tempo compreso tra il soggiorno romano ed il
rientro a Napoli.
Pare che la raccolta fosse stata messa sotto sequestro, mentre Carolina
si era recata più volte a Nola per «osservare operazioni di qualche scavo di
antichità»81.
Infatti, il 4 maggio del 1808 il Ministro dell’Interno Miot incarica Michele Arditi, nominato Direttore del Museo Reale e Soprintendente Generale
agli Scavi poco più di un anno prima82, di recarsi a Nola «trovandosi messa
de nouvelles. Je vais voir un assez mauvais buste de la / reine chez un sculpteur ou plutôt un /
figuriste dont le nom est inutile puis / à l’école de peinture. Elle est dirigée par / M. Angiolini. J’y
trouve tous les jeunes gens / occupés à dessiner les médailles de M. Carelli / ce qui doit être très
commode et très économique / pour lui. M. Angiolini me fait voir sa / Psyché c’est une figure
pâle conduite on ne / sait pourquoi par un amour enfant qui / porte un flambeau on ignorerait
que / c’est Psyché si elle ne tenait pas un / flambeau dans sa main./ Cette (….) me parait imbue
des préjugés du maitre et entrer dans le style manière des Boucher et des Doyens. M. Angiolini
me fit voir le beau vase / de Vivenzio (gravure) dessin qu’il a fait avec un / soin autre (…) ainsi
que d’autres vases qu’il / a très bien (gravé) dessiné et fait graver. En couleur, il ne la publie pas
faute / d’argent pour l’impression des planches et / l’acquisition du papier. Je l’ai cependant /
tellement engagé à donner cet ouvrage / qu’il va pouvoir le faire. 25 copies doivent / lui payer
ces premiers frais …». Il voyage di Millin, da cui ricavo le informazioni riportate, è custodito
presso la Bibliothèque Nationale de France/Arsenal, mss. 6369-6373; il passo citato è in ms. 6372,
carte non numerate.
80 Cfr. Sepolcri Nolani, I, ff. 53r-68r, 81r-96r, in cui è la descrizione puntuale ed estesa degli strati di
terreno riscontati e delle rispettive produzioni ceramiche ivi rinvenute. Per questi aspetti si rinvia
al capitolo IV di questo lavoro.
81 Una prima visita dovette avvenire il 24 giugno del 1808; cfr. ASSN V B6 4. La regina dovette
ritornare più volte a Nola. Sicuramente vi fece ritorno nel febbraio del 1809, in compagnia del marito (cfr. Monitore Napolitano, 7 marzo 1809, n. 316), e più tardi, il 20 aprile del 1811, avendo modo
di visitare la collezione d’antichità riunita dal Vescovo Torrusio nel Palazzo Vescovile cittadino
(cfr. Monitore delle Due Sicilie, a. 1811, n. 68). La «collezione di vasi italo-greci di Mons. Torrusio»,
ricordata tra l’altro anche nelle relazioni del Gerhard che seguirono il suo primo viaggio in Magna Grecia, pubblicate alla fine del 1829, verrà poi offerta in vendita al Real Museo Borbonico nel
1854, tuttavia senza che le trattative andassero in porto; cfr. ASN, Istruzione, 437/II 49.
142
82 Michele Arditi, uomo di passaggio tra la fase tardo borbonica e quella murattiana, ricoprì per
più di un ventennio la carica di direttore del Museo e Soprintendete agli Scavi. Per la sua attività
si vedano A.M. RAO, L’“amaro della feudalità”, cit., pp. 295-296 e A. MILANESE, Il Museo Reale
di Napoli al tempo di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Le prime sistemazioni del Museo delle
sotto il sequestro una raccolta di vasi antichi esistente in casa dei signori Vivenzio», per valutarne l’eventuale acquisizione alle collezioni reali83.
Arditi riferisce che il museo, «prima disposto con molto ordine e simmetria in due stanze che dai Vivenzio si erano fabbricate apposta per conservare
questo museo», fu rinvenuto «in una stanza, confusamente disordinato»84. Il
governatore cittadino infatti - continua Arditi - fu costretto dal colonnello Pignatelli, al tempo in cui questi occupò la residenza nolana dei Vivenzio, «a levare il museo dalle stanze dove era e portarlo in un’altra vecchia camera della
stessa casa, dove fu portato confusamente ed in disordine»85.
In realtà, pare che il Pignatelli avesse sottratto alla collezione almeno
una quarantina di pezzi, secondo quando riferito dallo stesso Pietro al Millin:
Ses vases ne sont plus chez lui m(ais) à / Nola du moins à ce qu’il dit il parait /
qu’il les a cachés il prétend qu’ils sont / à Palerme (…) il dit qu’un général Napolitain
lui en a pris86.
Le trattative per l’acquisizione nelle collezioni reali dovettero procedere a rilento sino al punto di arrestarsi del tutto, per essere poi riprese
all’indomani della Restaurazione, quando il Real Museo Borbonico di Napoli
sarà fatto oggetto di un’intensa attività di riorganizzazione ed allestimento87.
Nel frattempo, Nicola era morto il 27 agosto del 181688, disponendo la
vendita dei suoi beni, non escluso il museo nolano e la ricca quadreria, poichè
«dal di loro prezzo dovrà farsene sicuro impiego per poter proseguirsi da’ […]
Statue e delle altre raccolte, in «Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte», s.
III, XIX-XX (1996-1997) [ma 1998], pp. 356-360.
83 ASSN, IV B 11, 9, f. 3.
84 Ivi, f. 4.
85 Ibidem.
86 A.L. Millin, Voyage en Italie, Bibliothèque Nationale de France/Arsenal, ms. 6371, carte non
numerate.
87 Il decreto che istituiva il Real Museo Borbonico fu emanato il 22 febbraio del 1816, a sancire
la rinnovata forza della dinastia regnante; cfr. Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle
Due Sicilie, Napoli 1816-24, anno 1816, n. 228, pp. 153-155. D’altronde anche l’acquisto di un altro rilevante nucleo collezionistico, il Museo Borgiano, trattato da Gioacchino con il tramite del
Monsignor Capecelatro, fu perfezionato da Ferdinando solo dopo la Restaurazione; sul museo
borgiano si veda La Collezione Borgia, curiosità e tesori da ogni parte del mondo, catalogo della mostra
(Velletri-Napoli, 2001), a cura di M. NOCCA, Napoli 2001.
88 Cfr. S. GALLOTTI, Elogio, cit. e C. De NICOLA, Diario napoletano, cit., p. 59.
143
miei eredi una comoda assistenza»89.
Il 30 ottobre dello stesso anno, quindi, Pietro richiede la mediazione
dell’intendente della provincia Calajanni al fine di ottenere il permesso di recarsi in Nola per poter stilare un nuovo inventario della collezione, tenuto
conto che «l’inventario di tutti gli oggetti antichi contenuti nel Museo fu prudenza bruciarlo allorquando vennero ad occupare il regno le truppe francesi,
per così salvare il meglio e il più interessante della collezione»90.
Alla seconda metà di novembre del 1816 andrà quindi datato il Catalogo
ragionato del Museo Vivenzio compilato da Pietro e dedicato alla memoria del
fratello Nicola91.
Il 19 marzo 1817, il ministro degli Affari Interni aveva richiesto ad Arditi di esprimersi circa il valore economico dell’intera collezione. Questi, a
Nola il successivo 16 giugno, compila un dettagliato elenco dei reperti, indicandone la singola valutazione, per un totale di 34.315 ducati92. Inoltre, nel
rapporto stilato al ministro il 12 luglio riporta un’interessante informazione
secondo la quale per la sola hydria sarebbero stati offerti «in un altro tempo
[…] il prezzo di 10-12.000 ducati»93.
Ricevuto parere favorevole dal sovrano, il 30 luglio dello stesso anno94
vennero disposti i termini dell’acquisto, chiariti dal ministro Naselli in una
lettera del 8 luglio 1818 inviata ad Arditi, incaricato di darne notizia ai Vi89 ASSN, IV B 11, 9, ff. 23-58.
90 ASN, Interni, I Inventario, 993/8. Evidentemente Pietro dovette ritenere ancora vigenti i decreti
costrittivi che obbligavano la famiglia all’esilio dalla città di Nola, probabilmente a causa dei
movimenti organizzati a sostegno della monarchia borbonica nel ‘99. In realtà, su un piccolo
foglio sciolto appartenente a questo stesso fascicolo, ma privo di segnatura, si legge un breve
appunto: «Al M. dell’Interno/13 nov. 1816 / D. Pietro Vivenzio non avendo ricevuto dal Ministro
alcun ordine di restarsi in Napoli, non può dal medesimo ottenere la permissione di recarsi in
Nola, come ha chiesto. Si servirà quindi di fargli sapere da quale autorità gli è stato comunicato
il divieto di uscire dalla capitale».
91 Errata la datazione al 1815 proposta dalla Rao; cfr. A.M. RAO, I Fratelli Vivenzio, cit., p. 234. Alle
interpretazioni delle iconografie vascolari fornite da Pietro nel Catalogo faranno continuamente
riferimento, tra gli altri, Lorenzo Giustiniani [L. GIUSTINIANI, Guida per lo Real Museo Borbonico,
Napoli, Imprimerie française 1822, pp. 82, 124, 144, 148] e Bernardo Quaranta [B. QUARANTA, I
fatti della presa di Troia, cit.].
92 ASSN, IV B 11, 9, ff. 5-10.
93 Ivi, ff. 11-12. Ugualmente rilevanti le notizie secondo cui gli eredi del marchese Vivenzio alla
vendita avrebbero ceduto anche gli armadi e le mensole in gesso fatte appositamente realizzare
nell’ambito di un coerente disegno museografico, così da preservare il «buon ordine con cui il
museo è disposto».
144
94 Ivi, f. 13.
venzio. Il pagamento di 30.000 ducati sarebbe stato corrisposto a partire dal
1821, addizionato di un interesse del tre per cento a seguire dal giorno della
consegna dei reperti95.
Il 29 luglio del 1818 l’intera collezione, comprendente anche un singolare «strumento musico di forma non ancora conosciuta ed un braccialetto e
una cintura dello stesso metallo» oltre che iscrizioni osche e latine «ed alcuni
altri oggetti antichi i quali nel catalogo non erano compresi»96, venne annessa
al patrimonio reale.
La conclusione delle trattative vedrà entusiasta l’Arditi, felice per un
acquisto che avrebbe reso il Museo Reale Borbonico «superiore a qualunque
altro museo d’Europa nel genere dei vasi antichi»97.
Arditi, inoltre, diede da subito incarico agli architetti reali Maresca e
Bonucci di stilare un preventivo di spesa per la realizzazione di «quattro armadi di noce e dodici tronchi di colonnette ove collocare i vasi del fu marchese
Vivenzio», tenuto conto che i tavolini e le mensole consegnate da Pietro «son
cose ignobili assai e non degne che sopra si abbiano riposti oggetti di tanta
importanza»98.
Le trattative di vendita fornirono al nostro l’occasione di stringere i rapporti con l’Arditi, che d’altronde riconobbe nel più giovane dei Vivenzio un
attendibile referente, valido ad informare sulle continue attività di scavo che
andavano svolgendosi nel nolano, il più delle volte in spregio della normativa
di tutela vigente99.
95 Ivi, ff. 14-15.
96 Ivi, f. 16.
97 Ibidem. La frase è in qualche misura riecheggiata dal Gallotti [Elogio, cit., pp. 18-19] e, in più
punti, dal biografo Mazzarella da Cerreto [Biografie degli uomini illustri, tomo VI, Napoli 1819].
L’acquisto del Museo Vivenzio sarà ricordato con precisione pressoché in tutte le guide ottocentesche del Real Museo; cfr. ad esempio G.B. FINATI, Il Regal Museo Borbonico descritto da Giovan
Battista Finati, Napoli, G. De Bonis 1819. (p. XX); e L. GIUSTINIANI, Guida, cit., pp. 82, 124, 144,
148. Ugualmente, Gabriele Iannelli segnala quella acquisizione, fornendo però un’informazione
errata secondo la quale: «… Quasi tutta questa superba collezione del museo Vivenzio venne
acquistata dalla Real Casa de’ Borboni ed affidata al famoso artista Costanzo Angelini, il quale
concepì il disegno di fare la pubblicazione de’ principali vasi in appositi rami …»; G. IANNELLI,
Brevi Cenni, cit., ff. 194-195.
98 ASN, Interni, I Inventario, 997/15.
99 Sugli “sconci” compiuti negli scavi di Nola in quegli anni, che dovettero raggiungere una
gravità tale da spingere lo stesso Arditi a proporre una modifica della legge sulla proprietà degli
oggetti rinvenuti negli scavi [cfr., in particolare, ASSN V B6 2 ], si veda anche A. CASTORINA,
“Copia grande di antichi sepolcri”. Sugli scavi delle necropoli in Italia meridionale tra Settecento e inizio Ottocento, in «Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte», s. III, XIX-XX
145
Così, nella primavera del 1824 Arditi si rivolge a Pietro per individuare
due persone fidate che possano svolgere attività di sorveglianza agli scavi.
Pronta la replica del Vivenzio, che in una missiva del 25 aprile segnala il nipote Giovanni Saggese e Gaspare Cocuzza, indicandone dapprima
l’attaccamento alla corona e sottolineandone poi la stretta dipendenza dal
proprio giudizio in merito alla segnalazione delle antichità rinvenute, eventualmente acquisibili al patrimonio regio100. Infine, Pietro segnala chiaramente
la propria disponibilità nel fornire puntuali informazioni su tutti gli aspetti
legati al florido commercio d’antichità nel territorio nolano101.
Nel frattempo, spinto dalle crescenti difficoltà economiche seguite alla
morte di Nicola, nonostante le precarie condizioni di salute tenta di ottenere
un nuovo permesso di scavo, senza tralasciare di prendere vigorosamente le
difese del nipote Giovanni Saggese, citato in giudizio dai Buonaguro102.
Il permesso, dapprima negato103, giungerà solo nel marzo del 1826
quando avrà occasione di rinvenire «un’urna nolana con otto figure rappresentanti un sacrificio di Bacco», poi proposta in vendita al Real Museo Borbonico104.
Nell’estate dell’anno successivo avanzerà nuovamente domanda per
«ottenere il permesso di fare scavi per ricerca di antichità nel campo militare di Nola», rinvenendo a novembre alcuni idoletti rappresentanti Bacco
ed Apollo, una maschera di terracotta acroma raffigurante la dea Nemesi,
(1996-1997) [ma 1998], pp. 333-334.
100 ASSN V B6 4. In particolare, Gaspare Cocuzza fu in contatto anche con il Gerhard, al quale
fornì tra l’altro il disegno di alcuni vasi antichi rinvenuti a Nola sul finire degli anni Venti. La
notizia è riportata in A. CASTORINA, “Copia grande di antichi sepolcri”, cit., p. 309.
101 Già qualche mese dopo, con una missiva datata 29 agosto 1824 [ASSN V B6 4, f. 2], informa
dell’acquisto di una partita di vasi condotta dall’architetto Vincenzo Lamberti, personaggio noto
nel nolano per aver condotto altre campagne di scavo [ASN, Istruzione, 331/44 e ASSN V B6
4, f. 2] e per aver intentato un processo a Raffaele Gargiulo e Giuseppe De Crescenzo, accusati
d’aver interrotto illecitamente l’acquisto di una partita d’oggetti antichi [ASN, Interni, I Inventario,
1000/5]. Sull’architetto Vincenzo Lamberti, «vivente amatore napoletano» in contatto con l’abate
Angelo Comolli, si vedano le utili segnalazioni in B. De DOMINICI, Vite de’ pittori, scultori ed
architetti napoletani, Napoli 2003, edizione commentata a cura di F. SRICCHIA SANTORO e A.
ZEZZA, pp. XIX-XX nota n. 35. Ulteriori notazioni sull’attività collezionistica del personaggio
sono in M.R. BORRIELLO, Il collezionismo minore: dallo scavo ai negozianti di anticaglie, in I Greci in
Occidente, cit., p. 224.
102 Ivi, f. 5. Notizie inerenti le attività di scavo intraprese dai fratelli Gioacchino e Sabato Buonaguro sono in ASSN V B6 4, f. 8.
103 Ivi, f. 3.
146
104 ASSN V B6 6, ff. 1-5.
oltrechè una «langella ed un vase a tre manichi figurati di creta nolana (…)
frammentati in duecento pezzi»105, anch’essa poi entrata nelle collezioni reali.
Sofferente di una fastidiosa artrosi che ne limitava i movimenti, impedito finanche nella scrittura106, e fiaccato dalle crescenti difficoltà economiche,
ugualmente non cessò di lavorare ai Sepolcri Nolani. Spentosi il 4 novembre
del 1835107, venne seppellito a Nola, al fianco della sorella Maria, nella Chiesa
di S. Maria della Stella108.
105 ASSN V B6 9, ff. 1-10.
106 Già il 29 agosto del ’24, tra l’altro, aveva scritto all’Arditi: «… scusate il carattere, son diventato vecchio e le mani non più reggo per scriver …»; di poi a novembre: «Sig. Cavaliere
Gentilissimo, non ho risposto subito perché ero a letto di dove sono, per ritrovarmi molto innanzi
negli anni e il malore ai lombi che soffro da tanti anni mi ha renduto inabile a camminare …»; ed
infine nel dicembre successivo: «Sig. Cavaliere, benchè a letto da molto tempo, pure non lasciai
di rispondere alla sua gentilissima …»; ASSN V B6 4, ff. 2, 4, 5. Non emergono, neanche nella
citata lettera al Migliarini [ove invece si legge: « Carissimo Amico (…) Io sono molto avanzato
negli anni, e più nei malanni, che di già mi tormentavano in Roma, in guisa che posso a stento
caminare un poco col bastone»; Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze, Gonnelli 43.112], le presunte lamentele sulla propria cecità segnalate dalla Castorina; cfr. A. CASTORINA, “Copia grande
di antichi sepolcri”, cit., p. 330 nota n. 93.
107 L. AMMIRATI, I fratelli Vivenzio di Nola, cit., p. 28.
108 Cfr. il testamento di «Donna Maria Vivenzio» in ASSN IV B 11/9, ff. 23-58.
147
1. Anonimo, Un negozio di antiquariato a Napoli, 1798, Roma, collezione privata
2. Pietro Fabris, Concerto, olio su tela, 1771, Scottish National Portrait Gallery, Edinburgo.
148
3. Pietro Fabris, Scena di duello, olio su tela, 1771, Scottish National Portrait Gallery, Edinburgo.
4. Ferdinando Mori, Marchese Nicola Vivenzio, incisione datata 1809, in S. GALLOTTI, Elogio del
marchese Nicola Vivenzio, Napoli, stamp. Masi 1817.
149
5. Jules Amigues, Procession à Nole, en Campanie, à l’occasion de la fête des Li,
in Le Monde Illustré, ante 1861.
150
6. A. Clener (su disegno di G. H. Kniep), William Hamilton assiste allo scavo di una tomba nei pressi
di Nola (da Collection of Engravings from Ancient Vases mostly of pure Greek Workmanship discovered
in sepulcres in the Kingdom of the Two Sicilies but chiefly in the neighbourhood of Naples during the
course of the years 1789 and 1790, now in the possession of Sir W. Hamilton, His Britannic Majesty’s
Envoy and Plenipotentiary at the Court of Naples, whit remarks on each vase by the Collector,
Naples 1791-95, vol. I).
7. Vincenzo Scarpati, Obelisco innalzato nella Città di Nola, l’altezza è palmi Sessanta, incisione, in N.
VIVENZIO, Per la solenne dedicazione della croce nella città di Nola in memoria della restituita
felicità del Regno, Napoli, Stamp. Reale, 1800.
8. Giovanni Battista Piranesi, Veduta della Piazza di Monte Cavallo, incisione, 1746-1748.
151
9. Sistemazione dei Dioscuri del Quirinale, in P. VIVENZIO,
Lettere sopra i colossi del Quirinale, Roma, Bourliè 1809, tav. I
152
10. Sistemazione dei Dioscuri del Quirinale, in P. VIVENZIO,
Lettere sopra i colossi del Quirinale, Roma, Bourliè 1809, tav. II
11. Sistemazione dei Dioscuri del Quirinale, in P. VIVENZIO,
Lettere sopra i colossi del Quirinale, Roma, Bourliè 1809, tav. III.
12. Bartolomeo Pinelli, Sardonica creduta il Suggello di Areo Re dei Lacedemoni, P. VIVENZIO,
Gemme antiche per la più parte inedite, Roma, F. Bourlié 1809, tav. I.
153
13. Bartolomeo Pinelli, Achille Cacciatore, in P. VIVENZIO,
Gemme antiche per la più parte inedite, Roma, F. Bourlié 1809, tav. XI.
154
Jerzy Miziołek
•
Varsavia
“En danseuse d’Herculanum”.
Qualche osservazione sulla fortuna
della pittura pompeiana in Polonia
Quasi mezzo secolo dopo aver visto Pompei, quando nel 1825 venne a Varsavia
un artista itinerante con panorami di luoghi singolari, ne ero ancora così impressionato
che passai quasi un’ora seduto davanti a una veduta della sola Pompei, disdegnando
tutte le altre […]. Secondo me è uno dei più interessanti monumenti del mondo antico1.
Così scriveva nelle sue Memorie Julian Ursyn Niemcewicz, uno dei più
illustri polacchi dei tempi dell’Illuminismo. Gli scavi archeologici di Ercolano
(1710 e dal 1738), di Pompei (dal 1748) e di Stabia (dal 1749) appartengono
agli eventi più importanti nella storia della cultura moderna. Portarono alla
scoperta di dipinti, sculture ed altre opere d’arte che nella seconda metà del
Settecento e durante quasi tutto l’Ottocento sarebbero stati ammirati in molte
parti del mondo2. Con i motivi rinvenuti nelle città vesuviane si ornarono
padiglioni, tavoli, piatti, tazzine; in seguito numerose nobildonne, quali la celebre Emma Hamilton, e in Polonia Maria Mirska (in un dipinto del 1808 di
Jan Rustem, oggi al Museo Nazionale di Varsavia) si fecero ritrarre in atteggiamenti pompeiani3.
1 J. U. Niemcewicz, Pamiętnik czasów moich, Tarnów 1880, p. 95.
2 Pompeii as Source and Inspiration: Reflections In Eighteenth- and Nineteenth-Century Art (An Exhibition: Ann Arbor, The University of Michigan Museum of Art, 7 IV–15 V 1977), Ann Arbor 1977;
R. Ajello, F. Bologna, M. Gigante, F. Zevi, Le antichità di Ercolano, Napoli 1988; Antiquity Recovered.
The Legacy of Pompeii and Herculaneum, ed. by V. C. Gardner and J. L. Seydl, Los Angeles 2007;
M. P. Guidobaldi, Pietro Giovanni Guzzo (ed.), Ercolano. Tre secoli di scoperte, catalogo della mostra, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 16 ottobre 2008-13 aprile 2009, Napoli 2009; Ricordi
dell’antico. Sculture, porcellane e arredi all’epoca del Grand Tour, a cura di A. d’Agliano e L. Melegati,
Milano 2008, con ampia bibliografia.
3 L.-A. Touchette, Sir William Hamilton’s ‘Pantomime Mistress`: Emma Hamilton and Her Attitudes,
in: The Impact of Italy. The Grand Tour and Beyond, ed. C. Hornsby, London 2000, pp. 123-146; J.
Miziołek, Muse, baccanti e centauri. I capolavori della pittura pompeiana e la loro fortuna in Polonia,
Varsavia 2010, fig. 11 e passim.
155
Nei saloni dei palazzi e delle ville palladiane, come a Mała Wieś nei
pressi di Varsavia, si dipingevano gli affreschi con il Vesuvio in fiamme (ill.1)
e nei giardini - per il divertimento degli ospiti - venivano costruiti vulcani
artificiali sbuffanti fumo e fuoco4. Nella Dissertazione sul giardinaggio inglese
del 1774, August F. Moszyński si dilungava su immaginifiche ricostruzioni
del golfo di Napoli: “La collina artificiale là in fondo, in mezzo alla scena, rappresenta il Vesuvio. Pietre calcinate e torrenti di lava alludono alle eruzioni. Si
sale in cima per pigiare in un intaglio i fuochi d’artificio che di notte faranno
fiamme, e di giorno copia di fumo. In qualche anfratto sono state celate le
macchine che con i magli dei fabbri producono boati vesuviani, assordanti
da sembrar veri. Un cratere davanti alla grotta […] da dove si vede una fucina infuocata. Quattro automi, quattro ciclopi, quattro giganti seminudi si
accaniscono su lingotti di ferro; un uomo, uno solo in carne e ossa […] attiva
macchine e mantici che è possibile udire al momento della messa in posizione
dei congegni a comando dei magli”5.
Alla diffusione dei temi ercolanesi e pompeiani diedero un contributo
senza pari gli otto volumi de Le Antichità di Ercolano esposte (1757-1792) nelle
quali si trovavano le incisioni di tutte le pitture più importanti e di altri oggetti
d’arte scoperti durante gli scavi. Niente ne spiega meglio l’importanza di una
lettera dell’abate Ferdinando Galiani al ministro Bernardo Tanucci del 1767:
“Tutti gli orefici, i bigiuttieri, pittori di carrozze e di sovraporte, tappezzieri,
ornamentisti hanno bisogno di questo libro […] Non si fanno più bronzi, intagli, pitture che non si copino dall’Ercolano”6. Fino al 1764 i dipinti venivano
staccati dalle pareti e portati al Museo di Portici che, nel 1739, ne contava 31,
nel 1748 – 400, nel 1750 – circa 600, nel 1756 – oltre 700, e nel 1762, quando si
dava alle stampe il III volume de Le Antichità, addirittura 12007.
Dalla metà del Settecento in poi numerosi polacchi visitarono Napoli,
le città mummificate e i tesori riportativi alla luce. Tra i viaggiatori più noti,
oltre a Julian Ursyn Niemcewicz e August F. Moszyński, si contano Tadeusz
4 Miziołek, Muse, baccanti e centauri, cit., Figg. 1-2.
5 A. Morawińska, Augusta Fryderyka Moszyńskiego ‘Rozprawa o ogrodnictwie angielskim' 1774,
Wrocław, Warszawa, Kraków, Gdańsk 1977, p.144.
6 www.picture.l.u-tokyo.ac.jp/arc/ercolano/ses/ses_i.html, p. 8.
156
7 M.L. Nava in: Rosso pompeiano. La decorazione pittorica nelle collezioni del Museo di Napoli e a Pompei, a cura di M. L. Nava, R. Paris, R. Friggeri, (catalogo della mostra), Roma, Museo Nazionale
Romano, Palazzo Massimo alle Terme, 20 dicembre 2007-31 marzo 2008, Milano 2007, p. 27.
Kościuszko, Stanisław Staszic, Adam Mickiewicz, Juliusz Słowacki, Cyprian
K. Norwid, Józef I. Kraszewski e Henryk H. Siemiradzki8. Alcuni non si accontentavano di guide, libri e opuscoli sugli scavi e andavano a spulciare
copiosi trattati, rivelandosi in qualche caso acuti studiosi dei classici. Nelle
lettere dall’Italia del 1783 Kajetan Węgierski si misurò con una disamina scrupolosa delle lettere di Plinio il Giovane a Tacito (VI, 16; VI, 20) sull’esplosione
del Vesuvio e la morte nei suoi miasmi dello zio Plinio il Vecchio. Alcuni di
questi viaggiatori, come Pelagia Sapieha e il principe Stanislao Poniatowski,
ordinavano ritratti con il vulcano sullo sfondo; il primo di questi venne eseguito da Elisabetta Vigée Le Brun, il secondo da Angelica Kauffmann (ill. 2)9.
La tragedia delle città vesuviane ebbe un’eco nella tetra cronaca politica della spartizione della Polonia nell’ultimo quarto del Settecento da parte della
Russia, Prussia ed Austria. “Ma perché, o cielo” – si lamentava Niemcewicz
nelle sue già citate Memorie – “non mi fu dato di vivere a Pompei, e di esservi
sommerso: non assisterei oggi alla morte della patria”10.
Con tanta plurisecolare passione dei polacchi per le città vesuviane
stridono i pochi studi sulla conoscenza degli scavi e la presenza delle pitture
ivi rinvenute nella cultura artistica polacca. Lo stato di ricerche assai povero,
solo in piccola parte può essere colmato dai pregevoli contributi di Bronisław
Biliński, Tomasz Mikocki e, da ultimo, di Aleksandra Bernatowicz11. Gli anni a
cavallo tra il 2009 e il 2010, ennesimo anniversario dell’eruzione del Vesuvio e
terzo centenario delle prime esplorazioni di Ercolano, potrebbero fornire l’occasione e gli stimoli giusti per colmare certe lacune. In queste note ci limiteremo a segnalare alcuni spunti meritevoli, in un’altra sede, di approfondimento:
1/ il gruppo di acquerelli di un album settecentesco: Desseins enluminés
des peintures trouvées à Herculanum, ora nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca dell’Università di Varsavia, vol. 513;
8 B. Biliński, Viaggiatori illuministi polacchi sul Vesuvio e nelle città vesuviane, La regione sotterrata dal
Vesuvio. Studi e prospettive. Atti del Convegno Internazionale, 11-15 novembre 1979, Napoli 1982, pp.
41-88
9 A. Busiri Vici, I Poniatowski e Roma, Firenze 1971, p.144.
10 Niemcewicz 1880, p. 95
11 B. Biliński, Francesco Bieliński: un viaggiatore polacco a Napoli e a Locri nel 1790-1791, “Klearchos”,
37-40, 1968, pp. 13-38; Id., Viaggiatori, cit., ; T. Mikocki, À la recherche de l’art antique les voyageurs
polonais en Italie dans les années 1750-1830, Wrocław-Warszawa 1988, pp. 96-111; A. Bernatowicz,
’Herculanum i Pompeje do wszystkiego dawały wzory i modele’. O kilku neopompejańskich dekoracjach
w Polsce, in: Polska i Europa w dobie nowożytnej. Prace naukowe dedykowane Profesorowi Juliuszowi A.
Chrościckiemu , Warszawa 2009, pp. 241-249
157
2/ alcune copie su tela di dipinti pompeiani nonché di incisioni a colori
conservate nel Castello di Łańcut;
3/ un bel ricalco della Pantera marina di Stabia nel giardino chiamato
Arkadia, nei pressi di Varsavia, e
4/ alcune opere neopompeiane al Museo Nazionale di Varsavia.
La conoscenza degli scavi nella Polonia del Sette e Ottocento:
qualche esempio
Stanislao Augusto Poniatowski (1764-1795), l’ultimo re di Polonia, seguiva le scoperte archeologiche nelle città vesuviane con viva passione. Il volume 513 contenente i bellissimi acquarelli della sua collezione (dal 1818 nel
Gabinetto delle Stampe della Biblioteca dell’Università di Varsavia) n’è una
prova inconfutabile e tutt’altro che isolata. Il re non s’era mai recato in Italia
eppure, oltre a Le Antichità di Ercolano esposte, possedeva ben 30 volumi dedicati agli scavi e diverse riproduzioni delle più belle tra le opere scoperte nelle
città vesuviane. Fu l’illustre mecenate di numerosi polacchi che si recavano
in Italia alla ricerca di oggetti d’arte12. Nel 1790, nella sua residenza estiva al
parco detto Łazienki, nel cuore di Varsavia, venne costruito un teatro a imitazione di quello riportato alla luce a Ercolano e già noto in tutta l’Europa grazie
alle celebri incisioni di Giovanbattista e Francesco Piranesi, acquistate anche
dal sovrano.
Non meno di lui interessato alle città vesuviane era suo nipote, il già
menzionato principe Stanislao, autore, nel 1785, di un’avvincente descrizione di Pompei ed Ercolano, stabilitosi poco dopo in Italia13. Dal suo Diario,
perlopiù inedito, apprendiamo la data – 20 settembre 1785 – della sua prima
visita ad Ercolano e il nome della sua guida: il direttore degli scavi Francesco
La Vega. L’indomani, 21 settembre, il principe si recò a Pompei. Nel brano
dedicato a quella visita ricordava anche la prima, del 1775: “Ho trovato che le
pitture di questo grazioso edificio [il tempio d’Iside], così come quelle degli
altri, hanno sofferto dal 1775, anno in cui sono stato qui, di un degrado che
le ha rese quasi irriconoscibili. La scarsa cura che si ha nella manutenzione di
12 Busiri Vici 1971, passim.
158
13 Id., fig. 64.
questi edifici fa sì che sia forse un bene per le arti che lo scavo proceda così a
rilento e che si siano ricoperti gli edifici già scavati”14.
Tra i polacchi recatisi in dotto pellegrinaggio ai piedi del Vesuvio spicca
il nome del conte Stanisław Kostka Potocki (1755-1821), che da alcuni viene
tuttora confuso con il cugino Jan Potocki, autore del celeberrimo Manoscritto
trovato a Saragozza. Dal 1772 al 1774 fu allievo dell’Accademia Reale di Torino, in patria organizzatore di scuole, scrittore e teorico d’arte, legato all’Italia
da molteplici legami e attività di ricerca e cultura, come gli scavi a Nola nel
178615. Sua anche un’avvincente descrizione di due spedizioni, una del 1776,
l’altra del 1786, sul Vesuvio in fiamme. Così come fu in larga parte sua, la
lungimirante idea di far acquistare nel 1818 all’Università i Desseins enluminés
des peintures trouvées à Herculanum (noto come Vol. 513), già del re Stanislao
Augusto. Con l’aiuto di due artisti italiani - Giuseppe Manocchi e Vincenzo
Brenna - Potocki aveva ricostruito negli anni 1777/78, in trenta ottimi disegni
colorati di gran formato, la villa di Plinio il Giovane a Laurentum nei pressi di
Ostia. Nella cenatio della villa ci si imbatte in una citazione pressoché fedele
del celebre affresco raffigurante il Centauro Chirone e Achille scoperto nel 1739
nella cosiddetta Basilica, in realtà l’Augusteo16. Al Centauro Chirone, eseguito
dall’artista incaricato da Potocki, manca la finezza del capolavoro ercolanense; si ha, anzi, l’impressione che il pittore li avesse dipinti pensando all’originale, ma senza averlo dinanzi, quindi a memoria (ill. 3). Un’altra copia del
capolavoro di Ercolano, questa volta del tutto sofisticata, fa parte dell’album
sopramenzionato di acquerelli dell’Università di Varsavia17.
A questo punto vale la pena menzionare i cosiddetti quadri viventi, modellati sulle pitture pompeiane e un paragone fatto da un professore
dell’Università di Varsavia. Si tratta di Fryderyk Skarbek, il padrino di Fryderyk Chopin, già professore di economia, che paragonava Varsavia ad Ercola14 Qualche brano del suo Diario, conservato presso l’Archivio degli Atti Antichi a Varsavia, viene
citato da Biliński, Viaggiatori, cit. e da Miziołek , Muse, baccanti e centauri, cit., Appendice 1.
15 W. Dobrowolski, Stanislaw Kostka Potocki’s Greek Vases. A Study Attempt at the Reconstruction of
the Collection, Warsaw 2007.
16 J. Miziołek, «Pliny the Younger’s Villa Laurentina as Viewed by Count Stanislas Potocki :
Between 18-Century Archaeology and a Beoclassical Vision», in: Archeologia-letteratura-collezionismo. Atti del Convegno dedicato a Jan e Stanisław Kostka Potocki 17-18 aprile 2007, a cura di E.
Jastrzębowska e M. Niewójt, Roma 2008, pp. 219-248 , fig. 17.
17 Miziołek , Muse, baccanti e centauri, cit., fig. 43.
159
no. “Non ho visitato – scriveva Skarbek - gli scavi di Ercolano e Pompei, ma
mi sono fatto un’idea di quelle città sotterranee osservando, all’epoca della
dominazione prussiana, i palazzi di Varsavia, un tempo ritrovo della nazione
e di tutta l’alta società”18. Va ricordato che Varsavia era stata prussiana dalla caduta del Regno di Polonia nel 1795 alla costituzione del Granducato di
Varsavia nel 1807, tempi nei quali subì un grande degrado. Come è ben noto
ancora negli anni Venti del Novecento per raggiungere Ercolano, città sotterranea, si dovevano attraversare gallerie scavate nella lava19. Di gran lunga più
agevole era stata la dissepoltura di Pompei, coperta di cenere e di pomice. Ma
Skarbek non lo sapeva.
Ercolano faceva capolino anche nei quadri viventi che, all’epoca, soleva
mettere in scena l’aristocrazia polacca. In una pagina delle memorie scritte a
due mani da Edward Dembowski e sua sorella, leggiamo: “Nella casa della
consorte di Stanisław Potocki nous avons arrangé des tableaux. Io e la signorina
Laura (Potocka) abbiamo disposto, preparato e diretto tutto, e tutto è andato
a meraviglia. Di quadri viventi, nella nostra galleria ne abbiamo esposti sei.
Nel primo, une femme de Rubens, si è esibita la moglie di Antoni Potocki (poi
Branicka). Nel secondo si è vista la moglie di Aleksander Potocki, baccante
con un grappolo d’uva, spiata da un satirello nascosto tra le piante: Ludwik
Kicki. Per il terzo la signora Sobolewska ha indossato i panni della Sibilla del
Dominichino (…). Si è disposta la sala in modo da separare ogni quadro con
transenne di statue viventi: tra queste, Lorcia en danseuse d’Herculanum, la signora Gabryela (Gutakowska in Zabiełło) en Psyché, io en Vestale e la signorina
Teresa (Kicka) répresentait une femme faisant danser le Cupidon”20. Lorcia indossò
di certo un abito modellato sulle vesti delle Danzatrici rinvenute verso il 1750
nella Villa di Cicerone a Pompei e raffigurate nei nostri acquerelli univeristari,
rilegati nel Vol. 513 e nelle incisioni del Castello di Łańcut.
Tra i polacchi che nella prima metà dell’Ottocento si recarono in visita
alle pendici del Vesuvio, spiccano dei nomi davvero famosi: Adam Mickiewi18 F. Skarbek, Pamiętniki Seglasa, Warszawa 1959 (prima ed. 1829), p. 101.
19 August F. Moszyński nell’interessantissimo Diario di viaggio in Italia e Francia (1785/1786), in
cui si riferisce anche alla sua prima visita ad Ercolano nel 1747, descrive tra l’altro i “sotteranei”
del teatro ercolanese ; si veda Biliński, Viaggiatori, cit., pp. 61-69. Il Diario è scritto in francese ed
è conservato nella Biblioteca Czartoryski a Cracovia; esiste una traduzione polacca di esso, che è
in certe pari abbreviata.
160
20 L. Dembowski, Moje wspomnienia [I miei ricordi], vol. 1, Petersburg 1898, p. 214.
cz, Juliusz Słowacki e Edward A. Odyniec. “Peccato che tutti questi addobbi
– notava Mickiewicz in una lettera – siano stati staccati per essere portati al
Museo. Dei dipinti di Pompei avrei l’animo di scrivere un libro o almeno una
comunicazione accademica. Pochi dipinti moderni non sfigurerebbero accanto a questi meravigliosi affreschi d’incomparabile disegno. Nessuna galleria
d’arte mi ha impressionato tanto […]”21. All’amico del vate Edward Odyniec
le città vesuviane avevano evocato i massimi capolavori della letteratura antica: “Si era creduto che [il Vesuvio] fosse un vulcano da secoli spento, e che,
delle sue esplosioni, si fosse dimenticata la storia. E invece pensa che sorpresa! Si è imposto al mondo da vecchio e da cieco come aveva fatto Omero. Di’
ciò che vuoi, ma L’Iliade, L’Odissea e Pompei sono monumenti, le immagini
credo più vivide del passato. La pietra di paragone sta in questo. Non so da
dove mi sia venuto questo pensiero, ma ne ho preso spunto per una conversazione allegra e briosa su due opere e due autori, Omero e Vesuvio. Il primo la
sua eroina, Troia la riportò alla luce, ridandole vita mentre il secondo, la sua,
la ricoprì sotto le ceneri […]”22.
I “Desseins enluminés des peintures trouvées à Herculanum” conservati nel
Gabinetto delle Stampe della Biblioteca dell’Università di Varsavia
Il grande volume della collezione del re Stanislao Augusto, indicato
dalla segnatura: Zb. Król. (Collezione Reale) Vol. 513 è intitolato Desseins enluminés des peintures trouvées à Herculanum consta di 38 acquerelli, ricalcanti i più
bei dipinti parietali scoperti nel Settecento dagli archeologi a Ercolano, Pompei e Stabia. Non è noto quando questi acquarelli, rilegati insieme con cinque incisioni colorate dei dipinti della Domus Aurea, siano entrate a far parte
della collezione reale. Forse furono comperate, come le incisioni del Castello
di Łańcut, da o tramite Moszyński. Ad ogni modo, le cornici e la rilegatura,
tipiche della biblioteca reale, sono senz’altro settecentesche. Ma chi ne fu l’autore e dove furono eseguite? Forse nella bottega romana di Ludovico Mirri;
l’ipotesi vale anche per le incisioni, rilegate insieme, dei dipinti della Domus
Aurea. Ma è un’ipotesi da sottopporre, insieme con altre, riguardanti la tec21 A. Mickiewicz, Dzieła wszystkie, vol. XIV: Listy, vol. I , Warszawa 1955, p. 251.
22 E. Odyniec, Listy z podróży, vol. 2, Warszawa1961, pp. 370-371.
161
nica di esecuzione dei dipinti pompeiani (acquerello? incisione a colori?), a
un’approfondita verifica possibilmente nell’ambito di uno studio monografico del Volume 51323. Ancora una curiosità sul conto del Mirri: negli archivi
romani si è conservato un piccolo annuncio della sua casa editrice, apparso
nel 1784 sull’Antologia Romana che segnalava la pubblicazione di una serie di
incisioni a colori con figure mitologiche ispirate alle Antichità di Ercolano. Stando all’annuncio, le incisioni dovevano essere venti. Mirri, assieme ad artisti e
commercianti della sua cerchia, poteva visionare con relativa facilità tanto i
dipinti riportati alla luce dagli scavi vesuviani, quanto le incisioni prodotte a
Portici, presso il Museo Ercolanense, dalla cosiddetta Scuola di Portici diretta
dal romano Camillo Paderni24.
I Desseins enluminés des peintures trouvées à Herculanum ricordano le
Peintures d’Herculanum, un album di 48 riproduzioni conservato al Louvre, già
oggetto di studi di alcuni studiosi francesi, di cui qui giova riportare questo
passo: “Nelle Peintures d’Herculanum il colore è applicato su incisioni all’acquaforte dai tratti molto leggeri, quasi invisibili. In un formato più grande, e
talvolta aggiungendo elementi nuovi rispetto agli affreschi originali, le tavole
riprendono una scelta di incisioni riprodotte nei primi quattro tomi delle Antichità di Ercolano […]”25. Va notato che l’album di Varsavia conta 38 riproduzioni, cinque non incluse nell’album del Louvre.
Com’è risaputo, molti dei dipinti rinvenuti sono copie di capolavori dell’arte ellenistica andati dispersi. Poiché non tutti gli affreschi vesuviani
raggiungevano la perfezione dei modelli greci, nelle copie sott’esame si cercò
di migliorarli. Gli acquerelli e le incisioni colorate del Settecento sono spesso
artisticamente superiori alle opere vesuviane e quindi più vicine all’originale
greco. Ciò vale senz’altro per la maggioranza degli acquerelli dell’Università
di Varsavia, a partire dalle copie dei dipinti della ville di Cicerone raffiguranti
le cosiddette Danzatrici e di Giulia Felice, che mostrano Apollo e le otto Muse,
23 Si veda Miziołek, Muse, baccanti e centauri, cit, che offre solo osservazioni preliminari sul Vol.
513 ma riproduce tutti 38 gli acquarelli .
24 M. Forcellino, Camillo Paderni Romano e l’immagine stolica degli scali di Pompei, Ercolano e Stabia,
Roma 1999; Herculanense Museum. Laboratorio sull’antico nella Reggia di Portici, a cura di R. Cantilena e A. Porzio, Napoli 2008.
162
25 C. Napoleone, M.-N. Pinot de Villechénon, Ercolano e Pompei. Gli affreschi nelle illustrazioni neoclassiche dell’album delle “Peintures d’Herculanum” conservato al Louvre, Milano 2000, p. 12. Si veda
anche M. N. Pinot de Villechenon-Lepionte, Rome, Herculanum et Pompéi: deux albums gravés et
aquarelles de la fin du XVIIIe siècle au Louvre, « Revue du Louvre », 5/6, 1989, pp. 289-299.
di cui solo alcune possiamo riprodurre in questa sede.
Le rovine della villa detta del Cicerone, scoperte nel 1749, furono riseppellite di lì a poco. Nel frattempo se ne erano portati via, e pertanto sottratti al
loro ambiente, tutti i dipinti parietali, oggi al Museo Archeologico di Napoli26.
“Le più belle fra tutte – scriveva nel 1762 Johann J. Winckelmann - sono le
figure delle Danzatrici e dei centauri lunghi circa una spanna sopra fondo
nero, le quali si vede che sono un lavoro di grande maestro; poiché sono fluide
quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle grazie”27. Gli
affreschi, di grande bellezza, disvelano l’immaginazione e la finezza dei pittori antichi: la magia della danza, l’incanto della musica, l’estasi del galoppo
sottolineato qua e là da tirso e corone di vite. Winckelmann ha rilevato che lo
sfondo di questi dipinti è nero e ben contrasta con lo sfondo chiaro di quelli
della Casa di Giulia Felice dedicati ad Apollo e alle Muse. Le Danzatrici della
villa di Cicerone personificano lo spirito della Natura; invasate da Dioniso e
dalla sua mistica furia, dominano le fiere. Le Danzatrici, tutte superbe; ma una
in particolare, slanciata, con cembali e corona in testa, vestita di un leggiadro
celeste, magnifica, di una bellezza mozzafiato (ill. 4). Tutto qui è degno di
attenzione. Anche i cembali. Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli ve
ne sono di simili, in bronzo, congiunti con una catenella. Furono rinvenuti
a Pompei, in diversi luoghi, tra cui la Casa di Giulia Felice. Si notano anche
in un dipinto raffigurante oggetti del culto dionisiaco. Forse, piuttosto che
cembali, sono dei sonagli, strumento dei culti orientali: di Iside, di Cibele, di
Dioniso28. Come i tamburelli, facevano un gran baccano, suscitando l’ira dei
più sobri Romani.
La proprietà immobiliare di Giulia Felice, sita presso l’anfiteatro di
Pompei, fu riportata in superficie nel 1755-57 e quindi reinterrata29. Gli affreschi ivi rinvenuti furono offerti nel 1802 a Napoleone, e da allora si trovano al
Louvre; i dipinti in questione rappresentano otto Muse - identificabili grazie
alle iscrizioni in greco e agli attributi (maschera teatrale, globo terracqueo,
26 Rosso pompeiano 2007, pp. 161-162; Pittura pompeiana 2009, pp. 128-131.
27 J. J. Winckelmann, Le scoperte di Ercolano. Nota introduttiva e Appendice di Franco Strazzullo, Napoli 1981, p. 87. Si veda anche interessantissime osservazioni riguardo la fortuna delle Danzattrici
nell’arte europea di A. Ottani Cavina, Il Settecento e l’antico, in: Storia dell’arte italiana, parte seconda, vol. 2, Torino 1982, pp. 599–660: 643-646.
28 Storie da un’eruzione. Pompei, Ercolano, Oplontis, a cura di A. D’Ambrosio, P. G. Guzzo, M. Mastroroberto, Milano 2003, pp. 392-393.
29 Ibid., pp. 386-391.
163
lira) - al seguito di Apollo con la cetra30. Le copie, sia quelle dell’Università di
Varsavia (ill. 5-6) che quelle di Łańcut (ill. 7), sono idealizzate. Il dio: giovane,
bello, seminudo, siede su un trono dorato; sulla sua testa, su cui con gesto
caratteristico ha poggiato la mano, una corona d’alloro: poiché non è soltanto
dio della luce, ma è anche protettore di poeti, di musicisti e di ogni studioso.
Rispetto all’incisione del secondo volume de Le Antichità di Ercolano, il viso di
Apollo, sia nel vol. 513 sia nell’incisione colorata del Castello di Łańcut, è molto più bello. Apollo nella versione di Varsavia è pressoché uguale a quello di
Łańcut; l’uno e l’altro, assai diversi da quello dell’album parigino: al Louvre
Apollo è più magro (si guardi il petto), ha la testa reclinata e il suo panneggio
un po’ meno raffinato31. Apollo Musagete dona ispirazione e auguri ai poeti.
Vorrebbe dirsi: al pari di Dioniso. Ma sarebbe solo in parte, poiché l’ispirazione di Apollo è più temperata. E proprio alla temperanza, anzi a un’impassibile
quiete che si atteggiano, nelle pose e nei visi, le otto Muse – Calliope, Urania,
Tersicore, Melpomene, Talia, Erato, Polinnia, Clio - scoperte nella Casa di
Giulia Felice. Tutte belle e giovani in tonache e chitoni o clavi di vario colore:
azzurri, verdi, rossi, bianchi e gialli. Come Apollo, recano in testa corone d’alloro, e nelle mani i loro attributi32.
Ultima Musa - Euterpe, della lirica monodica e dell’auletica, con l’aulos,
un flauto a due canne, manca nella Casa di Giulia Felice; e, pertanto, anche
nella nostra raccolta universitaria di acquerelli. Essa si trova, però, tra le incisioni colorate della collezione di Łańcut (ill. 7). Può supporsi che Moszyński,
primo proprietario di queste incisioni, avesse commissionato un’immagine
della musa mancante. L’Euterpe di Łańcut è modellata su un’Euterpe (ill. 8)
rinvenuta nel 1774 con le statue delle altre Muse in una Villa, detta di Cassio,
a Tivoli, e già nel 1775 acquistata per i Musei Vaticani. La somiglianza tra la
statua da più di due secoli al Vaticano e la nostra incisione colorata è impressionante. Poco dopo la scoperta di Tivoli, negli 1786-88, le Muse e Apollo funsero da prototipi a una famosa serie di biscuit prodotti da Giovanni Volpato
nella sua manifattura romana33.
30 V. Tran Tam Tinth, Catalogue des peintures romaines (Latium et Campanie) du Musee du
Louvre, Paris 1974, pp. 25-34.
31 Napoleone, Pinot de Villechénon 2000, tav. 1.
32 Sulle raffigurazioni di Apollo e Muse nell’antichità si veda: Musa pensosa. L’immagine dell’intellettuale nell’antichità (Catalogo della mostra presso il Colosseo, 19 febbraio -20 agosto, 2006),
Milano 2006.
164
33 Ricordi dell’antico 2008, pp. 234-235.
Qualche dipinto neopompeiano nelle collezioni
del Museo Nazionale di Varsavia
Al Museo Nazionale di Varsavia si hanno tre eloquenti esempi di ricezione dell’arte delle città vesuviane nella seconda metà del Settecento e nel
primo Ottocento. Il primo è un piccolo quadro diviso in sette campi, di cui
cinque sembrano interpretazioni o fedeli copie di dipinti pompeiani, il secondo - un bel ventaglio, ben conservato, e infine il terzo un bellissimo acquarello
di Antoni Brodowski. A differenza del ventaglio, già riprodotto una volta, il
quadro, in deposito a lunga scadenza presso il Museo, non è stato finora pubblicato (ill. 9). Nel campo mediano, il più grande, un uomo bello, seminudo,
dorme sotto ad un alberello; lo osserva una giovane che avanza da destra
preceduta da Cupido. Basta uno sguardo per capire che il dipinto, del IV stile
pompeiano, ricalca quasi senza nulla variare un affresco raffigurante Endimione e Selene, scoperto in una casa di Pompei (V 5,10) e riprodotto nel terzo
volume de Le Antichità di Ercolano. L’originale, staccato immediatamente dopo
la scoperta, è ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli34. Il pittore del
Settecento e l’autore dell’incisione ne hanno soltanto “perfezionato” qualche
dettaglio, trasformando l’affresco pompeiano in un’alquanto sdolcinata scenetta rococò. Anche uno dei personaggi a sinistra del campo mediano è tratto
da un acquerello dal terzo volume de Le Antichità, copia della celebre Flora, o
Primavera, della Villa di Arianna di Stabia35. L’autore, non ancora identificato,
pur spigliato nel richiamo al dipinto antico, non ne ha tradito né il fascino
né la grazia. I personaggi femminili degli altri campi sono liberamente tratti
dalle Danzatrici della Villa detta di Cicerone.
Anche il ventaglio segue le ricette dell’epoca, fatte di motivi classici
e di ammirazione per l’arte antica; è di pelle caprina, dipinto a tempera con
qualche eccesso di monotonia, col sostegno di madreperla rivestito d’oro,
già proprietà di Aleksandra Engelhardt - Branicka (ill. 10). Della nobildonna
sappiamo poco, nonostante un suo ritratto in miniatura nella collezione del
Museo Nazionale di Varsavia. Questa volta i modelli per la decorazione provengono non solo da Pompei ma anche da Roma. I motivi pompeiani sono
34 Rosso pompeiano 2007, p. 130.
35 La pittura pompeiana, a cura di I. Bragantini – V. Sampaolo, Napoli 2009, pp.436-437.
165
facilmente da identificarsi nelle Danzatrici della Villa detta di Cicerone, incise
nel primo volume de Le Antichità di Ercolano e raffigurate nel Vol. 513 del Gabinetto delle Stampe della Biblioteca dell’Università di Varsavia. Al primo
sguardo riconosciamo la celebre menade con cembali (ill. 4). L’immagine di
maggior spessore, raffigurante una donna in tenero colloquio con un nudo
fanciullo, proviene da un’altra opera settecentesca, anch’essa famosa, Le Vestigia delle Terme di Tito (ma trattasi della Domus Aurea), pubblicata da Ludovico
Mirri nel 1776 in collaborazione con Franciszek Smuglewicz, Vincenzo Brenna
e Marco Carloni; si tratta dell’incisione n. 50, in cui, a sinistra, compare anche
un adulto36. Il pittore chiamato a decorare il ventaglio si concentrò sulla donna
con il fanciullo, dipingendo da ambo i lati uccelli dai lunghi colli, anch’essi
ripresi dalla bordatura dell’incisione n. 50, riuscendo a giustapporre, nel ristretto spazio di un ventaglio, motivi raccolti in due delle tradizionali mete
del grand tour: Roma e le città vesuviane.
Ancorché pubblicati solo recentemente, gli acquerelli del Vol. 513 furono sicuramente studiati, in particolare negli anni 1818-1832. Passarono per
molte mani come provano le impronte, specie sulle rilegature del periodo del
re Stanislao Augusto Poniatowski. Quasi certamente se ne avvalse, per i suoi
corsi, Jan Feliks Piwarski, primo direttore del Gabinetto delle Stampe. L’Università di Varsavia contava infatti una Sezione di Belle Arti con corsi di pittura,
scultura e architettura, dove i docenti mettevano a disposizione molte opere
mantenute nel Gabinetto delle Stampe, tra cui i sopraccitati acquerelli. Anche
Antoni Brodowski il più stimato docente di pittura ne subì il fascino, come
dimostra il progetto, mai realizzato, delle decorazioni per la Sala da Ballo del
Teatro Grande, suggestionato dalle Danzatrici della villa di Cicerone (ill. 11)37.
Il bellissimo acquerello di Brodowski è un trittico sorretto ai lati da pilastri in forma di capitelli ionici. Nella parte centrale, su uno sfondo di nubi,
tra il bruno e il grigio, una coppia danzante. La donna - che indossa una veste
gialla, chiara, in basso agitata dal vento, e sulla veste un chitone bianco - guarda a destra e sembra spiccare il volo con un agile movimento dei piedi scalzi
buttati all’indietro. La testa è reclinata dalla parte opposta a quella in cui si
36 Ludovico Mirri, Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture, Roma 1776; M.-N. Pinot de Villechenon, Domus Aurea : La decorazione pittorica del palazzo neroniano nell’album delle « Terme di Tito »
conservato al Louvre, Milano 2002.
166
37 J. Sienkiewicz, Projektowane dekoracje ścienne Teatru Narodowego[Progetti di decorazioni parietali del
Teatro Nazionale], “Studja do Dziejów Sztuki w Polsce”, vol. 2, 1930, pp. 65-80.
protende il corpo; nella mano sinistra una lira poggiata sul petto; la destra,
forse, intenta a pizzicare le corde. Dietro di lei avanza saltelloni un giovane
scalzo; anche lui veste un chitone, ma di diverso colore, verde. Il giovane, riccioluto, dispiega sopra la sua compagna uno scialle rosso che s’inarca; muove
il capo quasi volesse toccarla, lei ricambia; e nel punto preciso dell’incrocio
delle diagonali la coppia s’incontra, si unisce, diventa un tutt’uno. Il dipinto
sembra modellato su due affreschi della Domus Aurea, riprodotti nelle Vestigia delle Terme di Tito: il primo raffigura Arianna e Dioniso, il secondo Marte
e Venere38. In entrambi, le coppie che si librano nello spazio, hanno un velo
inarcato dalla brezza. Quanto alle due coppie danzanti ai lati del trittico, è
fuori dubbio che Brodowski si fosse ispirato alle Danzatrici pompeiane. Ma le
rivisitò a modo suo e delle baccanti con i cembali, raffigurate in tutti i campi
del trittico, s’ingegnò, con buon esito, a dare una versione personale.
Come emulo dei maestri antichi Brodowski aveva avuto un valente predecessore in Jan Rustem, pittore della città e dell’Università di Vilna. Prima di
stabilirsi in Lituania Rustem, armeno, s’era formato a Varsavia nella bottega
di Jean P.Norblin, poi nello studio pittorico del Castello Reale. Nel suo Ritratto
di Maria Mirska, Barbara Szumska e Adam Napoleon Mirski (ill. 12), del 1808 circa,
la signora Mirska, la danzatrice con i cembali, modello della più tarda danzatrice di Brodowski, è a sua volta modellata sulla stupenda Danzatrice del volume 51339. Avrà seguitato, Jan Rustem, ad averla in mente, elargendo consigli
per i tableaux vivants che, come si è già appreso dalle Memorie dei Dembowski,
la bella società di Varsavia inscenava all’epoca con grande diletto.
L’Arcadia nei pressi di Łowicz e il Castello di Łańcut.
Sopra ogni cosa, ispirato dall’arte delle città vesuviane, spicca uno
splendido ricalco dell’opera rinvenuta nella Villa di Arianna a Stabia40. Si
tratta della cosidetta Pantera marina, eseguita in stucco, ornamento di un padiglione, noto come la Casa dell’Arciprete, nel parco fondato nel 1778 dalla
principessa Helena Radziwiłł nei dintorni di Łowicz (ill. 13)41. Il parco, chia38 Pinot de Villechenon, Domus Aurea , cit., tav. 41.
39 Nessuno si è mai reso conto che la raffigurazione di Maria Mirska fu ispirato da un dipinto
pompeiano; l’opera è stata pubblicata diverse volte.
40 Sulle scoperte a Stabia e la Villa di Arianna si veda: A. C. Livadie ( a cura di), In Stabiano. Cultura e archeologia da Stabiae, Castemare di Stabia 2001; P.G. Guzzo, G. Bonifacio, A. M. Sodo, Otium
ludens – Stabiae – at the heart of the Roman Empire, Castellammare di Stabia – Napoli 2007.
41 J. S. Curl, Arkadia, Poland: Gardens of Allusions, “Garden History” 23, (1) 1995, pp. 91–112. Questa
167
mato Arkadia, consta di un lago, di un’isola di pioppi, dei Campi Elisi, di una
grotta di Sibilla, di un arco greco, di un Tempio di Diana, di una Casa del
Burgravio, di un acquedotto, di un teatro e di un circo. L’opera, nota come
Pantera marina, raffigura una donna nuda, vista di spalle, distesa sul dorso di
un ibrido: muso e zampe di pantera o altra fiera, dorso e coda di un animale
acquatico. La donna lo abbevera versando il contenuto di una brocca in una
patera che tiene sotto il muso della bestia. L’iscrizione sotto il bassorilievo
eseguito da Francesco Maria Staggi recita: “L’Espérance nourrit un Chimère
et la Vie s’écoule”. Quindi nell’Arkadia la Pantera di Stabia, incisa nel secondo
volume de Le Antichità di Ercolano, divenne Chimera. L’affascinante ibrido di
Stabia non riscosse un successo pari a quello de La Venditrice degli amorini,
ritrovata nella stessa villa, ma nel Sette e Ottocento vi si ricorse per decorare
piani di tavoli e tavolini, mobili e porcellane. Di quei tavolini uno è oggi tra
i più importanti elementi dell’arredo del Gabinetto Pompeiano presso il Castello di Łańcut, commissionato dalla princessa Elżbieta Lubomirska verso la
fine del Settecento. Va notato che la princessa passò in Italia quasi due anni
(1785-87), dove acquistò molte opere d’arte – quadri e sculture42.
Lo stupendo Gabinetto Pompeiano, anticamera del Gabinetto Cinese
(sic!), finora quasi inedito, ospita diverse copie di ottima fattura non soltanto
di dipinti di Ercolano e Pompei, ma anche di Stabia, quali La venditrice degli
amorini, L’attore re (ovvero Amleto di Ercolano), Un poeta pensoso , La toeletta delle
donne (ovvero Vestizione della sacerdotessa), Amorini che giocano con una maschera
teatrale, Il pappagallo che tira un carretto (ovvero La cicala e il pappagallo) (ill. 14)43.
In più vi sono state esposte bellissime copie di pitture della Villa Negroni di
Roma, che furono con ogni probabilità acquistate durante il suddetto grand
tour della principessa; sul retro di uno dei dipinti si legge “à madame la Princesse Lubomirska”44.
ovvia ispirazione della Chimera non è stata notata ne da Curl ne da altri studiosi dell’Arkadia ; si
veda J. Miziołek “In the pure taste of Trajan’s century”. Preliminary observations on Pliny the Younger’s
Laurentina as imagined by Count Stanisław Kostka Potocki, “Światowit”, 2006, VI, fasc A, pp. 25-42.
42 B. Majewska-Myszkowska, Mecenat artystyczny Izabelli z Czartoryskich Lubomirskiej[Il mecenatismo artistico di Izabela Czartoryska in Lubomirska (1736-1816)], Wrocław, Warszawa, Kraków, Gdańsk
1976.
43 Per una più ampia analisi del Gabinetto si veda Miziołek, Muse, baccanti e centauri, cit, cap. IV:
“L’Arcadia, nei presi di Łowicz. Il Castello di Łańcut. La Pantera marina”. Sulla fortuna de La
venditrice degli amorini tratta, tra l’altro, R. Rosenblum, Trasformazioni nell’arte. Iconografia e stile tra
Neoclassicismo e Romanticismo, trad. M. Sanfilippo, Roma 2002 (2-nda ed.), pp. 45-46, figg. 1-5.
168
44 Miziołek, Muse, baccanti e centauri, cit., passim. Riguardo gli afreschi rinvenuti nella Villa Negroni e la loro fortuna si veda: H. Joyce, The Ancient Frescoes from the Villa Negroni and Their Influence in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, “The Art Bulletin” LXV, 1983, pp. 423-440.
Basta un’occhiata più attenta per capire che i dipinti del Gabinetto
Pompeiano furono mutuati direttamente dagli originali senza passare per incisioni su rame o acqueforti e, degli originali, riflettono anche lo stato di conservazione: ad esempio, le crepe e le lacune de La venditrice degli amorini (ill.
15). Il copista non provò a migliorare l’originale, a differenza di quanto fecero
Giovanni Morghen (sua la relativa incisione del terzo volume delle Antichità
di Ercolano), Noel Le Mire (sua un’incisione tratta da un disegno di Charles
Monnet), e l’autore dell’acquerello del vol. 513 della Biblioteca Universitaria
di Varsavia che s’impegnò a trasformare l’antico dipinto visto forse in un’incisione di seconda mano, in un vero capolavoro.
Al Castello di Łańcut la presenza delle città vesuviane va ben oltre il
Gabinetto. Nella bella galleria di sculture si hanno: un’iscrizione, Herculanum;
una copia in marmo del Satiro ebbro; altre sculture della Villa dei Papiri; cinque
copie settecentesche in bronzo di busti della stessa Villa: Bacco, un filosofo,
Seneca, Terenzio, Epaminonda, probabilmente acquistati insieme con le copie
dei dipinti. Quindi, nel giardino, una copia di un tavolo sostenuto da trapezofori a forma di felino, rinvenuto nella Casa di Cornelio Rufo. Portatovi con alcune tempere napoletane, tra cui la Baia di Napoli, il tavolo arricchì la collezione del Castello nella seconda metà dell’Ottocento45. Malgrado la morte della
principessa Lubomirska, a Łańcut l’interesse per le città vesuviane non si era
quindi attenuato. E vi è vivo tuttora. Negli ultimi decenni si sono acquistati
pregevoli ventagli settecenteschi, uno raffigurante l’eruzione del vulcano, e
– già menzionate – le diciassette incisioni colorate con baccanti o danzatrici
rinvenute nella Villa di Cicerone e nei praedia di Giulia Felice a Pompei.
45 B. Trojnar, Rzeźba w Muzeum-Zamku w Łańcucie. Dzieje kolekcji, ekspozycja, katalog [Storia di
una collezione, mostra, catalogo], Łańcut 2006.
169
Invece della conclusione
L’interesse per le citta’ vesuviane avrebbe retto per tutto l’Otto e il Novecento come provano i quadri di Józef I. Kraszewski, Henryk H. Siemiradzki
(Una serata a Pompei, La siesta del patrizio), Aleksender Świeszewski e Jerzy
Nowosielski, autore di una singolare Villa dei Misteri. Ne La siesta del patrizio
del 1881 (ora in una collezione privata), che sembra essere ambientata nella
Baia di Napoli o addirittura nella zona suburbana di Pompei, si riconosce
facilmente uno dei più celebri tripodi pompeiani con le sfingi del Tempio di
Iside (ill. 16) e la bellissima statua di Diana, già appartenuta alla collezione romana di Palazzo Braschi, ora a Monaco di Baviera46. L’artista cercava di adornare anche la facciata della villa sullo sfondo, con le pitture in stile pompeiano dal caratteristico colore rosso. Del tripode soprammenzionato Siemiradzki
era letteralmente innamorato, tanto da richiamarlo in uno dei suoi più famosi
quadri, intitolato Fryne, oggi nel Museo Russo di San Pietroburgo.
Da ultimo si è avvicinato alle tematiche vesuviane e pompeiane Igor
Mitoraj, allievo di Tadeusz Kantor, famoso ben oltre l’Italia, dove da tempo
lavora. I suoi Vulcano (ill. 17), Pompeiani II e Pompeiani III, autentici capolavori
esposti nell’autunno dell’anno scorso a Varsavia, rievocano, fino oltre le soglia
del III millennio un irrinunciabile caposaldo dell’ arte italiana e polacca.
170
46 J. Miziołek, I due capolavori di Henryk Siemiradzki: Le torce di Nerone” e Il Giudizio di Paride ovvero
Il trionfo di Venere, “Pegassus”, (in corso di stampa).
1. Salone Varsoviense a Mała Wieś con la veduta della Baia di Napoli e del Vesuvio,
affresco, fine Settecento.
2. Angelica Kauffmann, Ritratto del principe Stanisław Poniatowski, (copia settecentesca)
olio su tela, secondo metà del Settecento, Poznań, Museo Nazionale.
171
3. Vincenzo Brenna (?), Decorazione della cenatio nella Villa di Plinio il Giovane nella visione del conte
Stanisław K. Potocki, disegno colorato su carta, Varsavia Biblioteca Nazionale.
172
4. Menade che danza al ritmo dei cembali, acquerello,(copia del 1785 circa di un frammento
parietale rinvenuto nella cosiddetta Villa di Cicerone di Pompei, riprodotta nelle Antichità di
Ercolano, tomo I, tav. XXI), Warszawa, Gabinet Rycin, Biblioteca Universitaria.
5. Apollo con cetra, acquerello, copia di un dipinto della casa di Giulia Felice a Pompei,
1785 circa, Warszawa, Gabinet Rycin, Biblioteca Universitaria.
6. La Musa Urania, portettrice dell’astronomia, attributi: compasso e globo,
copia di un dipinto della casa di Giulia Felice a Pompei, 1785 circa, Warszawa,
Gabinet Rycin, Biblioteca Universitaria.
173
7. La Musa Euterpe, protettrice della poesia lisica; attributo: un aulos,
cioè un flauto doppio, Castello – Museo di Łańcut.
174
8. Giovanni Volpato, La Musa Euterpe, biscuit, 1786, copia della statua
rinvenuta a Tivoli nel 1774, ora Musei Vaticani .
9. Autore ignoto, Ventaglio unilaterale con motivi della Domus aurea e di Pompei,
secondo metà del Settecento, Warszawa, Museo Nazionale.
10. Autore ignoto, Quadro d’ispirazione pompeiana, secondo metà del Settecento,
proprietà privata, deposito del Museo Nazionale di Varsavia.
175
11. Antoni Brodowski, Progetto della decorazione della Sala da Ballo del Teatro Grande di Varsavia,
acquarello su carta, Warszawa, Museo Nazionale.
176
12. Jan Rustem, Ritratto di Maria Mirska, Barbara Szumska e Adam Napoleon Mirski, 1808 circa, olio
su tela, Warszawa, Museo Nazionale.
13. Il Gabinetto Pompeiano del Castello di Łańcut, fine del Settecento con qualche rifacimento
ottocentesco.
14. Chimera ovvero Pantera marina, decorazione del colombario
della Casa dell’Arciprete dell’Arcadia.
177
15. La venditrice degli amorini, coppia settecentesca su tela dell’affresco rinvenuto
nella Villa di Arianna a Stabia, Gabinetto Pompeiano del Castello di Łańcut.
16. Henryk Hektor Siemiradzki, La siesta del patrizio, olio su tela, 1881,
collezione privata in Polonia.
178
16. Igor Mitoraj, Volcano, bronzo, 2007, proprieta’ dello scultore.
179
Elżbieta Jastrzębowska
•
Varsavia
Libagioni funebri sulla tomba di San Felice
a Nola/Cimitile fra l’antichità tardiva
e l’alto medioevo
O felix Felice tuo tibi praesule Nola, / inclita ciue sacro, caelesti firma patrono
/ postque ipsam titulos Romam sortita secundos, / quae prius imperio tantum et uictricibus armis, / nunc et apostolicis terrarum est prima sepulchris!1 Infatti, a Roma il culto degli Apostoli fu non solo il più antico e il più
importante, ma anche il più diversificato rispetto a quello di San Felice confessore, non martire, morto alla fine del III secolo, al quale Paolino di Nola era
devotissimo e per il quale ogni 14 gennaio componeva un carme natalizio2.
Ciò nonostante, le testimonianze letterarie relative al culto di San Felice sono
in quel tempo di gran lunga più numerose rispetto a quelle degli Apostoli,
come si nota già dalla lettura dei carmini. Esaminando le testimonianze archeologiche, possiamo notare numerose somiglianze fra Nola (oggi Cimitile) e
Roma. Vorrei presentare qui un aspetto di questa comparazione che riguarda
le testimonianze di origine pagana, molto diffuse anche nell’antico mondo
cristiano. Trenta anni fa mi sono occupata di una forma di questa tradizione,
cioè dei riti funebri di origine pagana dei cristiani sulla via Appia ad catacum1 Paolino di Nola, Carme 143, pp. 26-30: CSEL 20/2, 1894, p. 45.
2 Inclite confessor, meritis et nomine Felix, / mens pietate potens, summi mens accola caeli / nec minus in
totis experta potentia terris, / qui dominum Christum non uincta uoce professus / contemnendo truces meruisti euadere poenas, / deuotamque animam tormenta per omnia Christo / sponte tua iussus laxatis reddere
membris / liquisti uacuos rabidis lictoribus artus, / uectus in aetherium sine sanguine martyr honorem,
Paolino di Nola, Carme 12, 1-9, CSEL 20, 1894, pp. 42-43. Per la data della morte del San Felice
vedi ultimamante con la bibliografia anteriore: D. Korol, La tomba ed il “mausoleo” di San Felice di
Nola, confessore del III secolo. Nuove ricerche riguardo agli inizi del luogo di pellegrinaggio paleocristiano
a Cimitile/Nola, in Il complesso basilicale di Cimitile: Patrimonio culturale dell’umanità?, Oberhausen
2007, p. 93.
181
bas. Si tratta delle libagioni e dei banchetti funebri in memoria degli Apostoli
e dei semplici morti, presi in esame in base alle testimonianze dei monumenti
situati sotto e accanto la basilica degli Apostoli (oggi San Sebastiano)3. Fra di
esse, un posto di rilievo occupa la cosiddetta Triclia, scoperta da Paul Styger
nel 1915 (fig. 1), situata sotto la basilica odierna, che formava in origine solo
la navata centrale della basilica Apostolorum4. La prima basilica sostituì la Triclia della metà del III secolo, che aveva la funzione di una schola collegi, eretta
dai cristiani sotto il regno di Massenzio, o iniziata negli anni 306-312 e poi
ultimata sotto Costantino5. La cosiddetta basilica circiforme era il più antico
grande edificio di culto cristiano a Roma, che serviva per celebrare l’eucaristia
in memoria degli apostoli Pietro e Paolo, sepolti altrove (in Vaticano e sulla
via Ostiense), e dei cristiani sepolti all’interno di essa. Veniva usata per tutti i
riti funebri, soprattutto per i banchetti, inoltre era un luogo di sepoltura, un
grande cimitero con centinaia di tombe sotterranee situate negli ipogei, nelle
catacombe e nel pavimento della basilica ed anche nei mausolei attorno ad
essa. In origine, la Triclia faceva parte di una tipica schola collegi funeratici ed
era composta da seguenti elementi: due portici, un banco lungo le pareti del
portico principale, cioè la triclia, con le pareti che raffiguravano un giardino,
una cisterna, una fontana, un cunicolo di scarico d’acqua, un cortile, un pozzo
d’acqua fresca e una nicchia in cui probabilmente doveva essere collocata una
statua per il culto. Tale schola all’entrata del cimitero serviva per gli incontri dei
soci del collegio che commemoravano i morti con il vino, pane nelle sportulae
e il pesce. Sulle pareti della Triclia sono stati scoperti centinaia di graffiti dedicati agli apostoli Pietro e Paolo (con la data consolare del 260), che confermano
3 E. Jastrzębowska, Untersuchungen zum christlichen Totenmahl aufgrund der Monumente des 3. und
4. Jhs unter Basilika des hl. Sebastian in Rom, Frankfurt 1981.
4 P. Styger, Scavi a San Sebastiano, scoperta di una memoria degli Apostoli Pietro e Paolo e del corpo di
San Fabiano Papa e martire, «Römische Quartalschrift», 29 (1915), pp. 73-109; idem, Gli Apostoli
Pietro e Paolo ad Catacumbas sulla via Appia, ibidem pp. 149-208; idem, Il monumento apostolico della
via Appia, «Dissertazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», ser. XIII (1918), pp.
3-112.
182
5 E. Jastrzębowska, La basilique des Apôtres à Rome, fondation de Constantin ou de Maxence? in Recueil
d’Hommage à H. Stern, Paris 1982, 223-229; eadem, S. Sebastiano. La più antica basilica cristiana di
Roma, in Ecclesiae Urbis, Atti del Congresso internazionale di Studi sulle Chiese di Roma, Roma 4-10.
09. 2000, Città del Vaticano 2002, pp.1141-1155. Per la più recente pubblicazione maggiore della
basilica Apostolorum - però con la datazione tradizionale della costruzione della basilica al tempo
di Costantino - vedi: A. M. Nieddu, La basilica Apostolorum sulla via Appia e l’area cimiteriale circostante, Città del Vaticano 2009.
un evento ben conosciuto grazie al Calendario 354, nel quale sotto la data
del 29 giugno viene menzionata una festa: Petri in Catacumbas et Pauli Ostense
Tusco et Basso consulibus6, cioè il 258, l’anno delle persecuzioni di Valeriano,
quando l’accesso al vicino cimitero cristiano (S. Callisto) fu vietato sotto pena
di morte7. Fra le invocazioni agli apostoli (petite, rogate), vengono menzionate
le libagioni: Petro et Paulo Tomius Coelius refrigerium feci8, oppure refrigerav[it]
[F]elicissimus cum s[uis]9 e anche at Paulu[m] et Pet[rum] refri[geravi]10. In tutti
questi casi il verbo refrigerare significa letteralmente rinfrescare, bere.
Nella zona della basilica Apostolorum sono state trovate anche altre
testimonianze delle libagioni, come i tubi fittili sopra le tombe (fig. 2), più
antichi o contemporanei della Triclia, al nord di essa, nei mausolei-colombari
(nn. 7 e 10) della loro seconda fase (nel III secolo) e in un colombario al nord
della basilica11. È ormai ben risaputo che i romani portavano spesso le viviande (vino, latte e miele) sulle tombe dei loro morti nelle diverse occasioni,
soprattutto nel giorno del compleanno del morto (dies natalis), il quale per i
cristiani coincideva con il giorno della morte; poi anche il 21 febbraio (Feralia)
e il 22 febbraio (Cara cognatio, Caristia), cioè alla fine della settimana consacrata
ai morti Parentalia12. Direttamente sotto il cortile della Triclia è stato trovato un
banco per gli incontri funebri, accompagnati probabilmente dalle libagioni,
dei proprietari del mausoleo sottostante di Marcus Clodius Hermes (detto
anche il Mausoleo X), della seconda metà del II secolo13. Vale a dire che nella
seconda fase (anni trenta del III secolo) il mausoleo apparteneva a un collegium funeraticium e sembra che la Triclia sia stata eretta come la schola per lo
6 Per i graffiti della Triclia vedi sopratutto: Styger, Scavi a San Sebastiano, op. cit. (n. 3), pp. 80-94;
idem, Monumento, op. cit. (n. 3), pp. 57-89; R. Marichal, La date des graffiti de la basilique de St. Sébastien à Rome, «Compts Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 1953, 60-68; A.
Ferrua, Inscriptiones Christianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores. Nova series, 5. Coemeteria
reliqua Viae Appiae, vol. V, 1977, nos 12907-13096.
7 Jastrzębowska, Untersuchungen, op. cit. (n. 2), p. 79, n. 111, 112.
8 Ferrua, op. cit. (n. 5), no 12981.
9 Ibidem, no 12942.
10 Ibidem, no 13003.
11 Nieddu, op. cit. (n. 4), pp. 276-277, fig. 321.
12 Jastrzębowska, op. cit. (n. 2), pp. 179-181. Vedi anche la più recente pubblicazione a sul tema:
M. Marinone, I riti funebri, in Christiana Loca. Lo spazio cristiano nella Roma del primo millenio, Roma
2000, pp. 71-80.
13 F. Tolotti, Memorie degli Apostoli in Catacumbas, Città del Vaticano 1953, pp. 125-126;
Jastrzębowska, op. cit. (n. 2), p. 50.
183
stesso collegio oppure per il collegio degli Innocentiorum del vicino Mausoleo
Y, cioè per uno o due collegi insieme14. Anche nelle tombe del IV secolo nel pavimento della basilica Apostolorum Styger ha trovato nel 1915 numerosi frammenti di tubi di bronzo che servivano a introdurre delle viviande15. Fino agli
anni novanta del secolo scorso si è discusso sulla natura di queste viviande,
nel contesto delle libagioni (vino, latte e miele) o in quanto unguenti (olio di
nardo)16. A favore della prima ipotesi ci sono le testimonianze archeologiche,
già menzionate nel contesto della zona della Triclia ed altre che verranno presentate qui in seguito. L’ultima ipotesi si basa soprattutto su un frammento
del carme 21 di Paulino di Nola del 407 dove è stato descritto l’uso di calare i
vasetti in fori (foramina) nella lastra sulla tomba di San Felice a Nola per trarre
fuori la polvere con il nardo che veniva versato prima di calare i vasetti17.
Infatti sopra la tomba di San Felice a Nola è stata scoperta una lastra di
marmo con due fori, cioè i foramina, che dopo gli ultimi lavori di restauro sono
ben visibili e che, grazie al recente studio di Carlo Ebanista, sono stati anche
pubblicati in dettaglio18. I due fori circolari (fig. 3) del diametro di 10 e 8,5 cm
si trovano nella lastra marmorea di reimpiego impiantata sul vaso di marmo
a corpo troncoconico, pure di reimpiego (un mortaio?), con l’imboccatura di
37 cm19. Il vaso fu murato fra la lastra marmorea e i due laterizi che coprivano
direttamente la tomba di San Felice. Dei due fori, solo quello meridionale comunica direttamente con il vaso; in origine il foro meridionale era coperto con
un tappo di marmo, invece il foro settentrionale, più piccolo, era chiuso con
un coperchio di metallo20. La lastra marmorea (fig. 4) fu in origine, cioè nella
prima metà del I secolo d. C., decorata con un fregio vegetale e il kyma lesbio,
14 Ibidem, pp. 52-56, 78.
15 Styger, Monumento, op. cit. (n. 3), pp. 18-19.
16 Nieddu, op. cit. (n. 4), pp. 127-130, fig.146, n. 554.
17 Ista superficies tabulae gemino patet ore / praebens infuso subiecta foramina nardi. quae cineris sancti
ueniens a sede reposta / sanctificat medicans arcana spiritus aura, / haec subito infusos solito sibi more liquores / uascula de tumulo terra subeunte biberunt, / quique loco dederant nardum, exhaurire parantes, / ut
sibi iam ferrent, mira nouitate repletis / pro nardo uasclis cumulum erumpentis harenae / inueniunt pauidique manus cum puluere multo / faucibus a tumuli retrahunt, Paolino di Nola, Carme 21, 590-600, CSEL
20/2, 1894, pp. 175-176; C. Ebanista, La tomba di S. Felice nel santuario di Cimitile a cinquant’anni
dalla scoperta, Marigliano 2006, p. 37; Korol, op. cit. (n. 2), p. 91.
18 C. Ebanista, Et manet in mediis quasi gemma intersita tectis. La basilica di S. Felice a Cimitile:
storia degli scavi, fasi edilizie, reperti, «Memorie dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti
in Napoli», XV, 2003, p. 101; idem, La tomba, op. cit. (n. 17), 32-35; Korol, op. cit. (n. 2), pp. 91-92,
Tav. 1-7.
19 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), p. 32, fig. 12; Korol, op. cit. (n. 2), p. 91, Tav 5.
184
20 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), p. 36, fig. 87.
ma su di essa era stata raffigurata anche un’altra immagine, secondaria, in
rilievo del Pastore con una pecora sulle spalle, del cosiddetto tipo del Buon
Pastore21. La prima, benché modesta testimonianza di San Felice risale agli
inizi del IV secolo (303-305) e non è qui rilevante se il Mausoleo A sia stato
eretto come un edificio autonomo oppure collegato agli altri mausolei (B e C)
ad est22. Per quanto riguarda la lastra marmorea con i due fori, si deve notare,
che essa fu impiantata dentro il Mausoleo A dopo la sua costruzione e che si
trovava all’interno di quel edificio subito dietro e al livello della sua soglia23.
Queste osservazioni riguardano soltanto la cronologia della successione della
lastra, collocata nel mausoleo già costruito, e non si riferiscono in alcun modo
alla cronologia complessiva dei due monumenti. Infatti, sembra che la lastra
sia stata inserita nel mausoleo subito dopo o durante la sua costruzione, perché fin dall’inizio era destinata ai pellegrini. Altrimenti nessuno avrebbe il
motivo per entrare all’interno del mausoleo. Dalla stratigrafia della disposizione risulta che la costruzione del mausoleo e il reimpiego della lastra (come
anche del vaso) sulla tomba a Nola dovrebbe risalire agli anni 303-305 circa24.
Carlo Ebanista e Hugo Brandenburg paragonano giustamente la lastra di San Felice di Nola con le due lastre marmoree sulla tomba di San Paolo
a Roma (fig. 5)25. Quest’ultime sono state descritte e ricopiate da Virginio
Vespignani che ha avuto modo di vederle in occasione della ricostruzione
della basilica di San Paolo fuori le mura dopo l’incendio del 1823. Gli appunti
contenuti nei taccuini di Vespignani sono stati successivamente elaborati nello
studio di Hartmann Grisar del 189226. Successivamente, le lastre di San Paolo
sono state oggetto di numerose analisi compiute da vari studiosi, ma il loro
studio più dettagliato risale agli ultimi scavi realizzati negli anni 2002-200327.
21 Ibidem, pp. 33-36, fig. 13, 15 e 86; Korol, op. cit. (n. 2), p. 92, fig. 9 con la giusta critica
dell’interpretazione troppo sofisticata della rappresentazione del Buon Pastore.
22 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), pp. 30-31, fig. 11; Korol, op. cit. (n. 2), pp. 90-91.
23 Ibidem, p. 92; che imputa ingiustamente l’opinione contraria a Ebanista che ha pure considerato il reimpiego della lastra posteriore alla costruzione del mausoleo, Ebanista, La tomba, op. cit.
(n. 17), pp. 31-32.
24 Korol, op. cit. (n. 2), p. 96.
25 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), pp. 39-41, fig. 18; H. Brandenburg, Introduzione, in Il complesso basilicale di Cimitile: Patrimonio culturale dell’umanità, Oberhausen 2007, pp. 30-31.
26 H. Grisar, Die Grabplatte des Hl. Paulus. Neue Studien über die römischen Apostelgräber, «Römische
Quartalschrift für christlichen Altertumskunde und Kirchengeschichte», VI-1/2, 1892, pp. 119153.
27 G. Filippi, Indice della raccolta epigrafica di San Paolo fuori le mura, Città del Vaticano, 1998, p.
125; idem, La tomba di San Paolo e le fasi della basilica tra il IV e VII secolo. Primi risultati di indagini
archeologiche e ricerche d’archivio, «Bolletino dei monumenti, musei e gallerie pontificie», 24, 2004,
185
Le lastre sono due, ma portano una sola iscrizione: Paulo / Apostolo Mart[yri];
sulla lastra con il nome dell’apostolo sono tutt’oggi visibili due fori quadrangolari (a traverso le lettere UL) e un foro tondo (sotto la lettera A). Sotto la
lastra e tutti i fori si trovano tre pozzetti verticali (uniti insieme) che attraversano la muratura fra la lastra e il sottostante sarcofago apostolico con il coperchio perforato direttamente sotto il foro circolare della lastra marmorea28.
Dagli ultimi scavi risulta che il sarcofago di San Paolo si trova sul pavimento
della basilica dei Tre Imperatori del 390, mentre le due lastre marmoree con
l’iscrizione, secondo lo studio di Francesco Tolotti che risale agli anni ottanta
del secolo scorso, ultimamente aggiornato in quel punto da Giorgio Filippi,
furono messe in verticale sui fianchi dell’altare-tomba dell’Apostolo29. Le lastre sono state collocate in orizzontale (come lo sono oggi) ancora più tardi,
cioè durante la ristrutturazione del presbiterio sotto Leone Magno (440-461)30.
Da tutto ciò risulta dunque, che le lastre “coprono” il sarcofago di San Paolo
a livello molto più alto (66 cm) della lastra con i due fori e il Buon Pastore
sulla tomba di San Felice a Nola (22 cm), dove, come abbiamo già detto, non
ci sono i pozzetti ma c’è un vaso. Un altro dato sembra però essere ancora più
rilevante, e cioè che ambedue le strutture sulle tombe venerate a Roma e Nola
risalgono a tempi diversi, distanti tra loro almeno di 150 anni. Ci si può domandare quando e a che scopo furono fatti i fori nella lastra con il nome di San
Paolo e perché i fori quadrangolari avevano danneggiato l’iscrizione, e ancora
che scopo avessero i pozzetti. Sembrerebbe che il foro circolare fosse il più
antico, fatto per il monumento tombale nella basilica costantiniana o prima.
Purtroppo oggi non si hanno più notizie di come erano sistemate le due lastre
in quel periodo sulla tomba apostolica. Forse tutto era sistemato come l’ha
suggerito Giulio Belvederi31. In tal caso sembra probabile, che il foro circolare
pp. 214-216, fig. 13-14; idem, Die Ergebnissse der neuen Ausgrabungen am Grab des Apostels Paulus,
«Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung», 112, 2005-2006,
pp. 279-280, fig. 3, 5; idem, Recenti ricerche nella Basilica di San Paolo fuori le mura, in Il complesso
basilicale di Cimitile: Patrimonio culturale dell’umanità? Oberhausen 2007, pp. 123-137.
Per la bibliografia anteriore vedi: Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), p. 40, n. 115.
28 Filippi, La tomba, op. cit. (n. 27), fig. 13-14; Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), p. 41, fig. 19; Filippi,
Recenti ricerche, op. cit. (n. 27), p. 331, CTav. 11 e 15.
29 F. Tolotti, Le confessioni succedutesi sul sepolcro di S. Paolo, «Rivista di Archeologia Cristiana», 59,
1983, pp. 136-139, fig. 20; Filippi, Die Ergebnisse, op. cit. (n. 24), pp. 281-285, fig. 6, 10; idem, Recenti
ricerche, op. cit (n. 27), pp. 331-133, fig. CTav. 11 e 13.
30 Filippi, Die Ergebnisse, op. cit. (n. 27), pp. 285, 287, fig. 8; idem, Recenti ricerche, op. cit., (n. 27), p.
331, fig. CTav. 14 e 16 - II fase.
186
31 G. Belvederi, L’origine della basilica Ostiense, «Rivista di Archeologia Cristiana», 22, 1946, pp.
132-134, fig. 8; Filippi, Die Ergebnisse, op. cit. (n. 27), p. 279, fig 2; idem, Recenti ricerche, op. cit., (n.
servisse nei tempi più remoti per le libagioni e che i due fori quadrangolari,
che insieme ai pozzetti erano stati eseguiti successivamente, nel V secolo, e
servivano a introdurre i brandea, cioè le reliquie secondarie per i pellegrini
alla tomba di Paolo32. Non vorrei dilungarmi qui sulla discussione, tanto vivace quanto speculativa, perché già il fatto dello spostamento del sarcofago
apostolico e della lastra con il nome di Paolo dalla sua sistemazione originaria
nella basilica costantiniana, all’altare-tomba, nella basilica dei Tre Imperatori,
fa sì che la lastra non può essere usata come argomento per la ricostruzione
della disposizione del monumento nolano. È probabile che il vaso del III secolo di Nola e i pozzetti del V secolo di Roma fossero destinati a scopi diversi:
il primo per le libagioni e i secondi per i brandea. L’unica cosa simile fra le
due lastre sono solo i fori circolari, di cui due infatti furono chiusi con un
coperchio metallico, il foro meridionale di Nola e il foro circolare di Roma33.
Per quanto riguarda le lastre tombali con i fori circolari dei secoli IIIV, ce ne sono diversi esempi e più significativi rispetto a quelli che Carlo
Ebanista ha preso in considerazione34. Come è stato già detto, l’uso di versare
le viviande nelle tombe pagane e pure in quelle cristiane era in quell’epoca
molto diffuso. Vorrei presentare qui solo quattro esempi meno conosciuti,
ma molto significativi di questa usanza, vale a dire: due lastre pagane anteriori al reimpiego della lastra sulla tomba di San Felice; una lastra cristiana
all’incirca contemporanea a quella della tomba di San Felice, ed in fine una
lastra poco posteriore ad essa. L’iscrizione del Museo Nazionale Romano (fig.
6) è di Aphius Libertus Augusti invitator, l’amatissimo marito di Ulpia Priscilla,
che predispose una tomba per lui, se stessa e per tutti i loro discendenti35.
Nel mezzo della lastra si trova una cavità semisferica, abbastanza profonda
con tre piccoli fori al centro. Il bordo della cavità fu sottolineato da una linea
semplicemente incisa con due ansae laterali. L’altro epitaffio dell’Accademia
Americana di Roma (fig. 7) è dedicato a una bambina di sei anni e due mesi, il
cui nome non viene menzionato, però in compenso vengono citati i nomi dei
27), p. 126, CTav. 8.
32 Ebanista, La tomba, op. cit., (n. 17), p. 40, n. 116.
33 Ibidem, pp. 36, 40.
34 Ibidem, pp. 37-39.
35 CIL VI, 7010; H. Solin, Analecta epigraphica, Arctos 32, 1998, p. 242; EDR R029207 del 22.04.2007
(Silvia Orlandi).
187
suoi genitori: Neria Pallas e Nerius Aprio. Anche qui al centro della lastra si
trova una profonda cavità semisferica con un foro in mezzo36. È estremamente
difficile datare entrambe le iscrizioni, anche se la prima, a causa del nome
della donna, Ulpia Priscilla, potrebbe essere datata al II secolo. Alla fine del
III o all’inizio del IV secolo si data invece l’iscrizione del Museo Pio-Cristiano
del Vaticano (fig. 8) di Veratius Nikator, con quattro cavità tonde, piatte, ma
perforate37. Veratius dedicò l’iscrizione a Lazaria, Iulia, Onesime e ai bambini
benemerenti. La scrittura è greca, ma la lingua è il latino incolto; ci sono anche
delle immagini incise di Giona sputato dal Mostro Marino, del Buon Pastore,
di un leone (probabilmente uno dei due leoni di Daniele) e di un’ancora, che
si trova più in basso rispetto ad altre immagini. Sopra e sotto le immagini incise sulla lastra vi sono quattro cavità perforate, anche se nella maggioranza
delle fotografie pubblicate del calco di gesso della lastra i fori non sono visibili. Tuttavia, grazie all’analisi dettagliata di Jan Partyka la presenza dei fori è
stata ben confermata38. Nella collezione dei Musei Vaticani (fig. 9) si trova invece l’iscrizione di Iusta “santissima e degnissima”, alla quale il felice marito
dedicò questo epitaffio39. La seconda e la terza riga dell’iscrizione è fiancata
dalle due cavità, con cinque fori in ciascuna, e da due segni di Chrismon, cioè
del monogramma greco di Cristo di tipo costantiniano (X e P), il quale indica
non solo che l’iscrizione potrebbe essere datata al IV secolo, ma anche che la
defunta Iusta era una cristiana. Le lastre tombali qui menzionate si trovano
oggi nei musei, però non vi è alcun dubbio che in origine furono disposte
direttamente sulle tombe e che i fori servivano per le libagioni.
In Africa Settentrionale sono state trovate altre disposizioni sulle
tombe pagane e cristiane che servivano per lo stesso rito e nello stesso periodo. Si tratta delle tavole sulle tombe (mensae) in rilievo o in mosaico. A Tipasa
(Algeria) per esempio, nella Necropoli Occidentale del IV/V secolo, sono stati
scoperti, accanto a dei tavolini di questo genere, i letti semicircolari (stibadia)
in muratura40. Fra di loro si trova uno stibadium addirittura con un condotto
36 CIL, VI, 35911.
37 J. S. Partyka, L’épitaphe de Veratius Nikatoras: notes archéologiques, épigraphiques et iconologiques,
«Rivista di archeologia cristiana», 63, 1987, pp. 257-291 con la precedente bibliografia sul tema.
38 Ibidem, pp. 265-272.
39 Ibidem, pp. 267-268, n. 24, fig. 3.
188
40 M. Bouchenaki, Nouvelle inscription à Tipasa, «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen
Instituts, Römische Abteilung», 81, 1974, pp. 302-311; idem, Fouilles de la nécropole occidentale de
d’acqua lungo il lato interiore, cioè attorno alla mensa, dove passava l’acqua
proveniente dalla vicina cisterna che serviva per sciacquare le mani durante il
banchetto. Fra i tavolini di Tipasa c’è una mensa quadrata in mosaico che ha
un iscrizione molto significativa: In [Christo] Deo. Pax et concordia sit convivio
nostro41. Niente potrebbe caratterizzare al meglio l’atmosfera di pace e concordia auspicabile per un incontro in memoria dei cari defunti di famiglia. Ad
ogni modo, in Africa i banchetti funebri erano molto frequenti non solo per
onorare la memoria dei comuni defunti, ma soprattutto per ricordare i martiri,
come è ben noto dalle critiche nei confronti di questi in coemeteriis ebrietates et
luxuriosa convivia pronunciate da parte di Sant’Agostino42.
Nell’atmosfera di pace e fraternità dovevano svolgersi anche i banchetti funebri di Roma che erano più antichi rispetto a quei africani (320-360) e
che furono raffigurati nelle catacombe romane, soprattutto nelle cosiddette
regioni delle Vecchie e Nuove Agapi nelle catacombe di Marcellino e Pietro
sulla via Casilina43. Nelle tredici scene dei banchetti ivi rappresentati (fig. 10,
11) c’è sempre un grande cuscino (pulvinum) dello stibadium con i partecipanti
che cambiano di numero (da tre a sei), donne e bambini compresi. I festeggianti bevono, mangiano, parlano e richiamano con dei gesti vivaci la servitù.
Le serve di solito sono due e, come risulta dalle iscrizioni sopra dipinte, portano nomi di Agape ed Irene; una volta appare anche Sabina. Si possono leggere
le iscrizioni degli ordini impartiti dai convitati: da calda, porge calda, misce mi,
misce nobis. Si tratta quindi di servire l’acqua calda o di allungare il vino con
l’acqua riscaldata, come usavano gli antichi romani. In queste pitture, accanto
a una scena che rappresenta un convivio, troviamo raffigurato anche un recipiente, poco più grande, poggiato su un tavolino a tre piedi, che doveva servire a scaldare l’acqua. I convivi cristiani, le famose agape, indipendentemente
dalla loro causa, il funerale, l’anniversario della morte di un famoso martire
oppure altra occasione di tutt’altro genere, si svolgevano in un clima di pace,
amore, gioia nel Signore e volontà di aiutarsi a vicenda. I due nomi femminili
Tipasa (Matares) 1968-72, Alger 1975, pp. 32-45.
41 Ibidem, p. 41, fig. 37; P. A. Février, A propos du repas funéraire. Culte et sociabilité “In Christo Deo.
Pax et concordia sit convivio nostro”, «Cahiers Archéologiques», 26, 1977, pp. 29-45.
42 Agostino, Ep. 22, I, 6, CSEL 34/1, 1895, p. 58; vedi anche quasi tutta Ep. 29; F. van der Meer,
Augustinus der Seelsorger, Leben und Wirken eines Kirchenvaters, Köln 1951, pp. 533-544.
43 E. Jastrzębowska, Les scènes de banquet dans les peintures et sculptures chrétuennes des IIIe et IVe
siècles, «Recherches Augustiniennes», 14, 1979, pp. 19-28.
189
ricorrenti nelle iscrizioni che accompagnano le scene, Agape e Irene, non devono essere intesi solo come i nomi comuni delle donne realmente vissute
nell’ambiente cristiano, ma devono essere interpretati simbolicamente come
una sorta di personificazione di fraternità, carità e pace, le tre virtù molto
importanti e significative per gli incontri conviviali organizzati dai cristiani in
occasione delle celebrazioni commemorative in onore dei defunti allestiti sui
sepolcri e nei dintorni.
La stessa atmosfera del banchetto funebre aveva lodato Paulino di
Nola nella lettera al suo amico Pammachius nel 397. Si tratta di un grande
banchetto offerto al popolo romano dopo la morte di Paulina, la moglie del
noto e ricco senatore romano: uidere enim mihi uideor tota illa religiosa miserandae plebis examina, illos pietatis diuinae alumnos tantis influere penitus agminibus
in amplissimam gloriosi Petri basilicam per illam uenerabilem regiam cerula eminus
fronte ridentem, ut tota et intra basilicam et pro ianuis atrii et pro gradibus campi
spatia coartentur. uideo congregatos ita distincte per accubitus ordinari et profluis
omnes saturari cibis, ut ante oculos euangelicae benedictionis ubertas eorumque populorum imago uersetur, quos quinque panibus et duobus piscibus panis ipse uerus et
aquae uiuae piscis Christus expleuit44.
Non doveva essere diversamente a Nola, dove l’autore della lettera si
era stabilito nel 395 e dove ogni 14 gennaio si festeggiava il dies natalis di San
Felice: Venit festa dies caelo, celeberrima terris, / natalem Felicis agens, qua corpore
terris / occidit et Christo superis est natus in astris, / caelestem nanctus sine sanguine
martyr honorem45. Dalla tarda età costantiniana non esisteva più né il primo
Mausoleo A, né i mausolei B e C, ma le sepolture che vi si trovavano prima
retro sanctos erano rimaste46. Sopra la tomba di San Felice era stata eretta la
cosiddetta aula Feliciana con l’abside a nord e con l’entrata a sud attraverso
una specie di trifora monumentale; questa aula, nella seconda metà del IV
secolo, fu ingrandita verso est nella forma della Basilica Vetus a tre navate con
l’abside orientale47. Lo spazio attorno la tomba di San Felice sul pavimento di
44 Paolino di Nola, Ep. 13, 11, CSEL 29/1, 1894, p. 93.
45 Ididem, Carme 14, 1-4, CSEL 20/2, 1894, pp. 45-46.
46 Korol, op. cit. (n. 2), pp. 95-95.
190
47 Vedi soprattutto: D. Korol, Il cimitero paleocristiano e gli edifici soprastanti le tembe dei santi Felice
e Paolino a Cimitile-Nola, Marigliano 1988; idem, I sepolcreti paleocristiani e l’aula soprastante le tombe
dei santi Felice e Paolino a Cimitile, Nola, in Didattica e territorio. Corso di formazione per docenti in
servizio, Nola 1990, pp. 133-164; idem, Neues zur Geschichte der verehrten Gräber und des zentralen
questo complesso si è riempito nel frattempo con le tombe ad corpus. La lastra
marmorea sulla tomba di San Felice con i fori e il Buon Pastore doveva essere visibile ed accessibile ai tutti coloro che vi si recavano, perché si trovava
subito dietro l’entrata al complesso, situata sempre nello stesso posto a sud.
Non sappiamo per quanto tempo la lastra con i due fori era rimasta aperta
ed accessibile ai pellegrini. Secondo Carlo Ebanista “rimase esposta a lungo,
dal momento che lo sfregamento devozionale ha quasi cancellato la figura del
crioforo e il girale su gran parte del lato nord”48. Probabilmente in questo periodo i due fori della lastra cambiarono la loro funzione originale e non servivano più alle libagioni, ma a calare i vasetti con il nardo e trarre fuori la polvere
con il nardo “sacrificato”, come lo descrisse Paolino nel carme 2149. Sembra
che questo cambiamento coincidesse con il cambiamento delle usanze funebri
in generale, fortemente voluto dagli ecclesiastici, come notava Sant’Agostino
alla fine del IV secolo. Secondo lui, i vescovi avevano già proibito sulla maggior parte del territorio italiano, la vecchia usanza pagana delle libagioni sulle
tombe, ampiamente ancora diffusa in Africa50.
Paolino venne a Nola con sua moglie Tharasia nel momento in cui
il complesso della città era ormai diventato una forte attrazione per via dei
pellegrinaggi alla tomba di San Felice. Pontius Meropius Paulinus (353-431) è
nato in una famiglia benestante, senatoriale in Gallia; grazie al suo maestro e
amico Ausonio, ricevette a Bordeaux un’approfondita istruzione, che lo aiutò
nello sviluppo del suo talento letterario51. Nel 379 divenne il proconsole della
Campania; fu battezzato dopo la morte di suo figlio nel 390. Proprio a causa
della sua devozione particolare per San Felice, traslocò a Nola nel 395. Un
anno dopo l’arrivo in città, il 14 gennaio 396, Paolino lodò la grande venerazione per il Santo Patrono nolano, esagerando sicuramente un po’, come fanno i
poeti: Lucani coeunt populi, coit Apula pubes / et Calabri et cuncti quos adluit aestus
Bezirks des Pilgerheiligtums in Cimitile-Nola, «Jahrbuch für Antike und Christentum» 35, 1992, pp.
83-119; Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), pp. 49-57; Korol, La tomba ed il “mausoleo”, op. cit. (n. 2),
pp. 96-98; T. Lehmann, Überlegungen zur Bestatung im spätantiken Kirchenbau: die Beispiele Cimitile,
Rom und Trier, in Il complesso basilicale di Cimitile: Patrimonio culturale dell’umanità? Oberhausen
2007, pp. 176-178.
48 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), p. 43.
49 Vedi sopra n. 17.
50 Agostino, Ep. 22, 4, CSEL 34/1, 1895, p. 120, vedi sopra n. 39.
51 Per Paolino di Nola vedi sopratutto: D. E. Trout, Paulinus of Nola. Life, Letters and Poems, Berkleley/London 1999.
191
uterque, / qui laeua et dextra Latium circumsonat unda; / et bis ter denas Campania
laeta per urbes / ceu propriis gaudet festis, quos moenibus amplis / diues habet Capua
et quos pulchra Neapolis aut quos / Gaurus alit, laeta exercent qui Massica quique
/ Ufentem Sarnumque bibunt, qui sicca Tanagri / quique colunt rigui felicia culta
Galaesi, / quos Atina potens, quos mater Aricia mittit. / ipsaque caelestum sacris
procerum monumentis / Roma Petro Pauloque potens rarescere gaudet / huius honore
diei portaeque ex ore Capenae milia profundens ad amicae moenia Nolae dimittit duodena decem per milia denso / agmine; confertis longe latet Appia turbis52.
Otto anni più tardi Paolino, nel carme natalizio del 402, ritorna a parlare delle grandi schiere di pellegrini che vengono a Nola e che vi passano
tutta la notte della vigilia del 14 gennaio con allegria, gioia e preghiere, però
anche con pasti e vino: haec adsueta diu sacris seruire profanis / uentre deo, tandem
conuertitur aduena Christo, / dum sanctorum opera in Christo mirantur aperta. /
cernite quam multi coeant ex omnibus agris / quamque pie rudibus decepti mentibus
errent. / longinquas liquere domus, spreuere pruinas / non gelidi feruente fide; et nunc
ecce frequentes / per totam et uigiles extendunt gaudia noctem, / laetitia somnos, tenebras funalibus arcent (...) ignoscenda tamen puto talia paruis / gaudia quae ducunt
epulis, quia mentibus error / inrepsit rudibus; nec tantae conscia culpae / semplicitas
pietate cadit, male credula sanctos / perfusis halante mero gaudere sepulchris53.
Ritornando alle testimonianze archeologiche a Nola, bisogna ricordarsi, che la lastra marmorea con i due foramina e con la rappresentazione del
Buon Pastore sulla tomba di San Felice rimase, secondo gli ultimi studi, ben
visibile ed accessibile fino agli anni 401-403. In quel periodo Paolino costruì al
nord della Basilica Vetus, sul posto dell’abside della vecchia aula Feliciana, la
nuova e molto più grande Basilica Nova. Invece sulla tomba del Santo Paolino
fece erigere un recinto marmoreo con le transenne54. La parte orientale della
lastra marmorea si trovò in questo modo chiusa all’interno del recinto, ma la
sua parte occidentale, con i foramina, ne rimase fuori. Le foramina erano difficilmente accessibili a causa della strettezza del passaggio di 1 m appena fra il recinto di Paolino e il muro occidentale della vecchia aula Feliciana che non era
ancora stato distrutto. Il recinto sulla tomba fu costruito con le transenne, dalle
52 Paolino di Nola, Carme 14, 55-70, CSEL 20/2, 1894, pp. 47-48.
53 Paolino di Nola, Carme 27, 549-567, CSEL 20, 1894, 286-287.
192
54 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), pp. 56-61, 65-68, fig. 36, pp. 105-107; Korol, La tomba ed il
“mausoleo”, op. cit. (n. 2), p. 97; Lehmann, op. cit. (n. 47), pp. 177-178.
quali solo una piccola parte inferiore a est è ancora conservata in situ. Nel 1960
le transenne sono state rifatte e coperte con una mensa dell’altare (fig. 12). La
Basilica Nova di Paolino, perpendicolare alla Basilica Vetus, aveva anch’essa tre
navate, era però più grande. La sua abside tricora orientata a nord è tutt’oggi
visibile e mostra i resti di un pavimento in opus sectile, di un rivestimento
marmoreo delle pareti e del basamento della cattedra vescovile nel centro.
Paolino divenne vescovo di Nola solo nel 409/410, dopo la morte di Tharasia.
Paolino morì il 22 giugno 431 e fu sepolto accanto a San Felice, in una tomba
collocata in orizzontale e a sud rispetto a quella di San Felice. La sua tomba
si trova sullo stesso livello della lastra marmorea, racchiusa in un recinto
“gemello” a quello della tomba di San Felice55. All’inizio del VI secolo, sopra
entrambe le tombe, circa 15 cm più in alto, è stata eretta un’edicola decorata
da mosaici, che si vede ancora oggi, luogo di sepoltura dei vescovi di Nola56.
Sembrerebbe quindi che, a partire dall’inizio del V secolo, le libagioni
non si svolgessero più direttamente sulla tomba di San Felice, il che però non
significa che il loro uso è stato del tutto abbandonato a Nola. Nell’area a ovest dall’edicola mosaicata, dentro una larga abside, (la cosiddetta, 9 cappella
della Madonna del Carmine, eretta nel 530 circa), sono stati scoperti molti
frammenti di vasi ceramici e vitrei da mensa, insieme ai resti di un pasto “ascrivibile ad un arco cronologico racchiuso tra la tarda antichità ed il primo
alto medioevo”57. Un analisi dettagliata delle ceramiche e dei vetri permette
di datarli ai secoli V-VII58. In quell’epoca, la parete occidentale della vecchia
aula Feliciana non esisteva più, i conviventi pellegrini avevano ben in vista la
tomba di San Felice con il recinto, con delle transenne e con l’edicola mosaica55 Ebanista, La tomba, op. cit. (n. 17), fig. 91 e 104; Korol, La tomba ed il “mausoleo”, op. cit., (n. 2), p.
97, CTav. 21c.
56 D. Korol, La cosiddetta edicola mosaicata di Cimitile/Nola, in Cimitile e Paolino di Nola. La tomba di
S. Felice e il centro di pellerinaggio. 30 anni di ricerche, Città del Vaticano 2003, pp. 209-227; Ebanista,
La tomba, op. cit. (n. 17), fig. 20 e 42. Per lo sviluppo di tutto complesso a Nola vedi sopratutto: T.
Lehmann, Lo sviluppo del complesso archeologico a Cimitile/Nola, «Boreas», 13, 1990, pp. 75-88; idem,
“(Unum) ex tribus sacris universi orbis Coemeteriis”. Kurzführer zu den spätantiken Bauten des
Pilgerheiligtums des heiligen Felix in Cimitile, Nola, in Cimitile di Nola. Inizi dell’arte cristiana e tradizioni locali, Oberhausen 2004, pp. 67-146; idem, Paulinus Nolanus und die Basilica Nova in Cimitile/
Nola. Studien zu einem zentralen Denkmal der spätantik-frühchristlichen Architektur, Wiesbaben 2004;
idem, Überlegungen, op. cit. (n. 47), pp. 174-180.
57 L. Pani Ermini, Recenti indagini nel complesso martiriale di S. Felice a Cimitile, «Rivista di Archeologia Cristiana», 69, 1993, p. 224.
58 M. I. Marchetti Naldoni, I maretiali ceramici, «Rivista di Archeologia Cristiana», 69, 1993, p. 303;
D. Stiaffini, I materiali vitrei, ibidem, pp. 312-313.
193
ta. Si può dunque concludere dicendo che la vecchia usanza di commemorare
il Santo con il pasto e il vino nelle strette vicinanze della sua tomba è rimasta
viva a Nola fino all’epoca altomedioevale. Tutti i monumenti sopra nominati
rappresentano una catena interessantissima, anche se spezzata, dello sviluppo
del rito funerario pagano sulle tombe e degli incontri dei membri dei collegi
funebri, che avevano luogo non necessariamente direttamente sopra le tombe,
a partire dagli incontri dei cristiani, costretti dalle persecuzioni a riunirsi lontano dalle tombe degli Apostoli (ad catacumas) fino al culto dei santi Felice e
Paolo sulle tombe, però non più con le libagioni ma con i vasetti e i brandea.
194
1. Triclia sulla via Appia, Roma, (P. Styger, Römische Märtyrergrüfte, Berlin 1935, pl.16).
2. Tubo fittile sopra una tomba nel colombario no 7 accanto alla Triclia (fot. Autrice).
195
3. Fori circolari nella lastra sopra la tomba di San Felice, Nola (fot. Autrice).
196
4. Lastra di marmo sopra la tomba di San Felice, Nola (Ebanista, La tomba, op. cit., p. 35, fig. 15).
5. Lastra di marmo con i fori sulla tomba di San Paolo, Roma
(P. Testini, Archeologia cristiana, Bari 1980, p. 195, fig. 49).
6. Lastra funeraria di Aphius con i fori, Museo Nazionale Romano (dis. Autrice).
197
7. Lastra funeraria di Neria Pallas con un foro, Accademia Americana, Roma (dis. Autrice).
198
8. Lastra funeraria di Veratius Nikator con i fori, Museo Pio-Cristiano,
Vaticano (L. Perret, Catacombes de Rome, vol. V, Paris 1855, pl. 77).
9. Lastra funeraria di Iusta con i fori, Musei Vaticani (dis. Autrice).
10. Banchetto nel cubicolo di Tricliniarca, catacombe di Marcellino e Pietro, Roma (dis. Autrice).
199
11. Banchetto dell’arcosolio, catacombe di Marcellino e Pietro, Roma (dis. Autrice).
200
12. Altare sulla tomba di San Felice, Nola (fot. Auricle).
Abstracts
–•–
Pasquale Terracciano
Artisti, banchieri ed eretici: il volto degli italiani
nella Polonia del Cinquecento
[email protected]
This paper will describe the physiognomy of the italian community in Poland in XVI
century. On the basis of a first phase characterized by commercial trades, the connection between the italian emigration and the poland demand has been nourished by
the passion for the renaissance. Poet as Callimaco Esperiente, and artist as Bartolomeo
Berrecci and Francesco Fiorentino, received an enthusiastic patronage by the Jagiellonic dynasty.
The cultural relationship has been completed with a political event: the marriage
between Bona Sforza and Sigismund the Elder.
After this point, the “italians” exercited a strong influence on the Krakow’s court. A
new element changed the lines of italian community at the middle of the century: the
emigration, cross the Switzerland, of a large number italian radical reformers.
They seek a State without stakes; their activity indeed put a strong influence on the
spirituality of the Polish Brethern, particularly in regard to the Trinitarian doctrines
•
Ewa Manikowska
L’impatto del Grand Tour sulle collezioni artistiche
in Polonia ai tempi di Stanislao Augusto
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This article analyses the impact of the Italian tradition on art collecting in the PolishLithuanian Commonwealth in the second half of the 18th century. Firstly, it shows the
importance of the Grand Tour on the formation of aristocratic collections. An overview
of foreign travels of Poles and Lithuanians is presented. It is noticed that the “Polish
Tour” apparently did not differ from the English or French one: similar paths were
followed, similar guides read, similar souvenirs bought. It is argued, however, that
the national context is an important element of the cultural phenomenon of the Grand
Tour. In fact, the travel was experienced with other Polish co-travellers and consumed
also at home. Secondly, this article explains that the travel was the main factor for the
formation of Polish aristocratic collections. These reflected the market offer at the various stages of the travel, in particular Italian, French, English and German. This article
focuses on the Italian elements of these collections. It argues that the Polish collections
included all the main elements of the Italian Grand Tour and of the neoclassical tradi-
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tion. In this context, it presents the collecting strategies of the king Stanislaus Augustus. The monarch never went to Italy, but the importance accorded in his patronage
and collecting to the elements rooted in the Grand Tour cultural context clearly testify
the highest status acquired by the Italian tradition in the collecting of the period.
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Witold Dobrowolski
Polish travellers in Campania and knowledge of Greek pottery in Poland
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During his travels in France and Italy during the years 1785-86, August Moszynski,
artistic adviser to King Stanislaw August Poniatowski, visited Tuscany and expressed
interest in Etruscan pottery (red-figured Volterra ware and ‘bucchero’). Knowledge of
ancient, especially Greek, pottery was widespread in particular among Polish travellers and collectors who sojourned in Campania and Naples during the 1780s and 90s.
Following a fashion made popular by Sir William Hamilton, an illustrious group of
Polish aristocrats (St. K. Potocki, Izabela Lubomirska, Michal Walicki and others) acquired their own collections of Greek vases. For some (Izabela Lubomirska and Elena
Radziwil), the principal aim was to "modernize" the decoration of their homes in socalled Etruscan style; others (Potocki and Bielinski), enriched by their experience, included information about the vases in their writings. Vase paintings and sculpture,
until then scarce in contemporary Polish collections, became of fundamental importance in the spread of Neoclassicism in Polish art. This article describes the essential
events of this period.
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Claude Albore Livadie
Un viaggiatore polacco della seconda metà del Settecento
e la realtà vesuviana del tempo
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A Polish traveller in the second half of the eighteenth century and contemporary Mount Vesuvius.
Towards the end of his sojourn in Naples, in mid-February 1786, Stanislaw Kostka Potocki, following a fashion made popular by Sir William Hamilton, made a brief excursion to Mount Vesuvius. He gave a lively description of the visit in a letter to his wife
Alessandra, now in the AGAD archive in Warsaw.
The voyage in Campania in the company of his young relative Eustachy Sanguszko,
which included a guided tour riding donkeys, stimulated his naturalistic, as well as
archaeological, interests.
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Mario Cesarano
Stanisław Kostka Potocki e Nola: antiquaria e oltre
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If we read the letters wrote by count S.K. Potocki to his wife from Naples and the documents preserved at State Archives at Naples we can find the landed property where S.K.
Potocki conducted the excavations at Nola and discovered the grave with the Edinburgh
Painter amphora. Probably the polish prince Poniatowski and the Austrian count of
Lamberg conducted their excavations in the same place. In the 1825, Mr. Felice Sirignano excavated in the same farm-land and discovered a Corinthian vase, now at Naples.
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Salvatore Napolitano
Tra scienze ed humanitates.
Percorsi interpretativi per l’antiquaria partenopea
attraverso l’esperienza di Pietro Vivenzio.
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The second half of the eighteenth century, amid ambiguity of positions and continuous
methodological deviations, was a decisive period for the diffusion and development of
the modern research method in Naples.
The continuity of the Bourbon ideology, first with Carlo (King of Naples from 1734)
and then with his son Ferdinando (†1825), revived the greatest hopes for reform,
which were contrary to the current mood that was still deeply reactionary to change;
it coincided with the southern Kingdom’s epoch-making transformation of cultural
physiognomies and ideological coordinates.
At the same time in Europe, more precisely within the context of England and France,
Les archives du monde of Buffon was analyzed through the retrieval of objects and their
careful reading, by their selective classifying and ordering to create a new classification of knowledge. Similarly, the heated dispute between “philosophers” and “antiquarians” underwent gradual and progressive transformations, in a more general effort to synthesize “natural history” and “human history”. This improved equilibrium
between the “universal” and “particular” ploughed the way for the growth of modern
nineteenth-century sciences and later Romantic sensibilities.
As a matter of fact, in Naples the continuous clashes between conservative orientations
and those pushing towards modernization, within the political directives as well as in
the erudite digressions within the same figurative choices, favoured an unusual decline of the Enlightenment cognitive paradigm in which the final attainment of one set
of “truth” is certain and verifiable through the systematic “comparison” of the “facts”.
This decline fuelled the controversial dispute between “old” and “new”, making it impossible to describe a linear and coherent process of development and advancement for
the cultural life of Naples, a city that would still be amply crossed for a long time by a culture in transition and centred on the constant dialogue between sciences and humanities.
One possible way to follow the evolution of this complex historical and historiographi-
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cal knot in a less approximate manner would by no doubt be the reconstruction of
everyone’s biographies, individual itineraries, taking part in the orientations that will
guide the family strategies.
In this sense, the existential and intellectual trajectories of the Vivenzio brothers –
mainly of the youngest of the three: Pietro – appear not only particularly significant on
the cultural level, but also representative of the possibilities of emancipation and success that were offered to the “cultural nobility” of the southern capital between the end
of the eighteenth century and thirty years in the beginning of the nineteenth century.
Pietro Vivenzio (more or less intensely but continuously involved in the writing of a
big scale work: the unpublished Sepolcri Nolani) knew how to free himself from an outof date “pansofica” view, following the reference to the theoretic and historiographic
models offered by the works of Winckelmann and del Mengs, the determining acquisition of the Bacon and Locke’s theory, and the complete assimilation of the Vico’s historicism and the Lanzi’s theory. However, the constant tension between old and new
scholarship, and the querelle of an era that saw (according to Manzoni’s famous definition) “two centuries armed against each other”, recreate the physiognomy of a scholar
in syntonism with the contradictions of his time, and able, only partly, to accomplish
the process that would finally lead him (according to the appropriate Quatremere de
Quincy’s definition) “de l’analyse à la synthèse”.
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Jerzy Miziołek
“En danseuse d’Herculanum”.
Qualche osservazione sulla fortuna della pittura pompeiana in Polonia
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This paper deals with the reception in eighteenth and nineteenth century Poland of
paintings and other art objects uncovered in the towns of Vesuvius (Herculaneum,
Pompei and Stabiae). This subject has as yet been little studied. The first part presents observations concerning Polish travellers, such as August F. Moszyński, Count
Stanisław K. Potocki, Prince Stanisław Poniatowski and Adam Mickiewicz who, during their Grand Tours, visited Naples and its surroundings and recorded this fact in
their letters or memoirs; some of the latter are still unpublished. The next parts of the
paper focus on: 1/ some late- eighteenth century colour reproductions of the paintings
discovered in Pompeian villas – in the praedia di Iulia Felix and the so-called villa of
Cicero; 2/ three paintings and a fan housed in the National Museum in Warsaw, which
are inspired by famous frescoes uncovered at Pompei and Rome; 3/ an interesting
depiction of Chimaera in stucco, being a copy of the famous Panthera marina found
in the Villa of Ariadna at Stabiae, and 4/ the Pompeian Room at Łańcut Castle. The
aforementioned reproductions, executed most probably in Rome, belong to the Print
Room of the University of Warsaw and to Łańcut Castle; the first set includes 38 watercolours, and the second 17 coloured engravings. Both these reproductions and the
engravings in the Le Antichità di Ercolano esposte were used by the artists who executed the
fan and the paintings in the National Museum in Warsaw. Of particular interest is the
watercolour produced by Antoni Brodowski in the mid-1820s, which very creatively combines several ancient paintings in a beautiful triptych-like composition. An interesting combination of themes and decorative motives taken from a variety of sources – including
an antique gem and a painting – is to be found in one of the drawings commissioned
by Count Potocki in the 1770s, being part of an interesting project of the restitution
on paper of the famous Villa of Pliny the Younger at Laurentum. The scene depicting
the Centaur Chiron and Achilles in the villa’s cenatio was adapted from a painting found
in the so-called basilica at Herculaneum. Even if the poses of both protagonists differ
somewhat from the original, there is no doubt that the scene was patterned on one
of the etchings in the first volume of Le Antichità di Ercolano esposte or on a coloured
version of it to be found in a plate in the Print Collection of the University of Warsaw Library and in the Louvre. In its conclusion, the paper makes some observations
concerning a painting by Henryk Siemiradzki, a contemporary of Alma Tadema. The
painting entitled Siesta of a Patrician, (1881), now in a private collection, shows a suburban villa in the background and the famous tripod from the Temple of Isis at Pompei
in the forefront.
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Elżbieta Jastrzębowska
Funerary libation on the grave of Saint Felix at Nola/Cimitile
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The marble slab with two holes, preserved on the tomb of Saint Felix at Nola,
brings to mind traditional funerary libations which were a common custom in the pagan cult of the dead. Testifying to this custom are epitaphs of ordinary Romans from
the 3rd and 4th century bearing pierced holes, as well as a variety of testimony for
funerary libations in the ad Catacumbas complex on via Appia in Rome. Since 258 Christians used to commemorate the apostles Peter and Paul with libations annually on
June 29 in the Triclia there. In the 4th century they continued to do so in the basilica of
the Apostles that was erected on the spot, as well as in St. Peter’s on the Vatican, where, according to a report by Paulinus from Nola, Pammachius held a huge banquet to
remember his dead wife Pauline. It was a common tradition in the 4th century to commemorate with banquets the memory of ordinary Christians. In North Africa martyrs
were honored in this fashion, a fact suggested both by the presence of masonry stibadia
and mosaic mensae in the cemeteries, as well as by the letters of Bishop Augustine of
Hippona condemning this pagan custom. On the other hand, comparing the slab with
holes from the tomb of St Felix in Nola with two slabs containing a single inscription
and three holes on the tomb of St Paul in Rome, together with another text of Paulinus,
reveals how the original function of the holes in the slab from Nola had changed. In
the 5th century they no longer served the purpose of pouring libations into the grave,
but were used to introduce oils into the worshipped tomb and bring them out again in
order to obtain in this way replacement relics. Even so, the archaeological testimony
is that pilgrims arriving en masse in Nola from the end of the 4th century continued to
spend the eve before January 14 every year on banquets in honor of the saint.
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finito di stampare nel mese di giugno 2010
nelle officine digitali e tipolitografiche de
l’arcael’arco s.r.l.
in nola (na)