Divina Commedia. Paradiso

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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto III
Cielo I, della Luna. Anime che non compirono i voti. Piccarda Donati. I vari gradi di beatitudine.
L’anima “de la gran Costanza”.
Beatrice, “quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,/ di bella verità m’avea scoperto... il dolce
aspetto”, la realtà delle macchie lunari. Dante ci dice “provando e riprovando”, con questa espressione la figura retorica dell’isteron proteron - inverte l’ordine della lezione magistrale che prima “riprova”,
ossia confuta la tesi degli avversari, poi “prova”, dimostra la sua verità.
Dante, già con gli occhi chini, fisso alla spiegazione, alza poi lo sguardo per dichiararsi convinto,
quando intravede qualcosa di strano che attira la sua attenzione, “quale per vetri trasparenti e tersi,/ o
ver per acque nitide e tranquille”; con le due similitudini, dello specchio a vetri e dello specchio di
acque immuni da increspature, Dante vuol dirci che vede immagini chiare sì, ma non distinte come le
vediamo nella realtà, come in uno specchio appunto, e allora si volge per vedere le persone lì, a suo
avviso, rispecchiate. Se Narciso aveva scambiato la sua immagine riflessa nell’acqua per realtà, egli
incorre nell’errore contrario, scambia la realtà per immagine; e si gira “li occhi torsi”, ma “nulla vidi, e
ritorsili avanti” a riguardare negli occhi di Beatrice, alla ricerca di una soluzione all’enigma. La guida lo
incoraggia “non ti maravigliar perch’io sorrida”, aveva infatti sorriso alle perplessità di Dante, e gli
spiega come il suo modo di comprendere, di ragionare, “il tuo püeril coto”, sia ancora legato ai sensi:
“vere sustanze son ciò che tu vedi”; non solo sono anime vere, ma dice anche la ragione perché quelle
anime si trovino in questo primo cielo, esse sono “qui rilegate per manco di voto”; sono persone che,
dopo avere emesso i voti religiosi, di povertà, di obbedienza e di castità, secondo una certa regola
monastica, non li hanno portati a termine; se poi vuole saperne di più, allora “parla con esse e odi e
credi”, e assicura che la loro testimonianza è degna di fede “la verace luce che le appaga/ da sé non
lascia lor torcer li piedi”.
Dante coglie l’occasione e “com’uom cui troppa voglia smaga”, per quel grande desiderio di sapere, si
gira verso “l’ombra che parea più vaga/ di ragionar”, a dire della corrispondenza di intenti fra lui e le
anime del paradiso. Il nostro pellegrino, appena alle soglie del beato regno, assapora già quella dolcezza
“che, non gustata, non s’intende mai”, di cui è partecipe quel “ben creato spirito”, espressione con cui
Dante gratifica l’anima beata che gli sta di fronte: gli sia dunque cortese e, quasi con piaggeria, così gli
si rivolge: “mi contenti/ del nome tuo e de la vostra sorte”. Come non rispondere? “ond’ella, pronta e
con occhi ridenti”, a sottolineare la gioiosa sollecitudine, preludio al discorso sulla carità: “la nostra
carità non serra porte/ a giusta voglia”, secondo la regola che informa tutto il paradiso; e “i’ fui nel
mondo vergine sorella”, monaca; e Dante potrebbe riconoscerla, non fosse per il nuovo stato che la
rende “più bella”, “riconoscerai ch’i’ son Piccarda”, e qui beata, benché “in la spera più tarda”, più
lenta e più lontana dall’Empireo, sede di Dio. Quanto alla beatitudine però, dice Piccarda, essa è
completa, “li nostri affetti, che solo infiammati/ son nel piacer de lo Spirito Santo,/ letizian del suo
ordine formati”, in sintonia con lo Spirito Santo che è Amore per eccellenza; e, comunque, la ragione
del fatto che lei, insieme alle altre anime della sua condizione, si trovi nel cielo più basso e lontano, così
la spiega “e questa sorte che par giù cotanto,/ però n’è data, perché fuor negletti/ li nostri voti, e vòti in
alcun canto”, voti in qualche modo mancanti.
Prima di ulteriori domande, Dante si scusa di non aver riconosciuto l’amica d’infanzia: “ne’ mirabili
aspetti/ vostri risplende non so che divino/ che vi tramuta da’ primi concetti”; ma ora è in grado di la
riconoscerla bene. Ma un dubbio compare a turbargli la mente, come si possa essere pienamente felici
sapendo di essere nel grado infimo, seppur della beatitudine, e “voi che siete qui felici,/ disiderate voi
più alto loco/ per più vedere e per più farvi amici?”. Come già Beatrice poco prima, anche Piccarda
sorride “con quelle altr’ombre sorrise un poco”, di un sorriso di paziente comprensione; a colpire Dante
è non solo la coralità delle anime, ma anche quell’essere“tanto lieta/ ch’arder parea d’amor nel primo
foco”, come a dire così illuminata dall’amore divino, come tra i vivi si vede il volto di una fanciulla
sotto l’effetto del primo amore. Dante dunque comprende che la loro felicità è grande, ma non si
capacita come possa essere completa; per questo usa il lessico del desiderio, che esprime mancanza di
qualcosa.
E allora ne ascolti la ragione. Vige nel Paradiso una regola, comune a tutta la corte celeste, “frate, la
nostra volontà quïeta/ virtù di carità, che fa volerne/ sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta”, ossia
l’ardore del nostro amore verso Dio, “virtù di carità” è tale da appagare completamente il nostro
desiderio di amarlo “la nostra volontà”. L’esempio che la Scolastica porta è quello dei vasi, diversi per
grandezza, contenitori diversi, ma una volta pieni, di più non possono contenere, anche se di acqua ce ne
sarebbe ancora tanta; e spiega ancora la beata ombra “se disïassimo esser più superne,/ foran discordi li
nostri disiri/ dal voler di colui che qui ne cerne”, se cioè desiderassimo la beatitudine delle anime di
altri cieli saremmo in disaccordo con la volontà divina che così dispone. Il concetto di un rimpianto non
si accorda con la regola suprema del paradiso che è amore pieno per tutti, “s’essere in carità è qui
necesse”. Se si osserva attentamente la natura di carità, si comprenderà agevolmente che non può esservi
spazio per ulteriori desideri, a significare senso di vuoto, di incompletezza, di mancanza. E questo
perché “è formale ad esto beato esse/ tenersi dentro a la divina voglia,/ perch’una fansi nostre voglie
stesse”, formale significa che è dell’essenza della beatitudine la conformità del volere dei beati con
quello divino, non già perché sia un precetto, ma perché è così di natura sua: è un consenso unanime,
quasi una identificazione del comprendere e del volere con Dio: “e ‘n sua volontade è nostra pace”;
“ell’è quel mare al qual tutto si move/ ciò ch’ella crïa o che natura face”: tutti gli esseri, beati compresi,
anzi soprattutto quelli, hanno in Dio la causa finale che li appaga “che tu sempiterni/ desiderato”.
E non ci sfugga l’ulteriore richiamo al mare, “lo gran mar de l’essere” del I canto e all’ampia metafora
del pelago del II canto.
“Chiaro mi fu allor come ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/ del sommo ben d’un modo non
vi piove”, comprende ora Dante come, pur nella diversità del grado di beatitudine, essa sia piena in
“ogne dove” del paradiso, in alto come in basso, nel primo come nell’ultimo cielo.
Si osservino i corsivi e i latinismi di alcune voci, necesse, esse, etsi; a sottolineare il discorso
argomentativo della Scolastica, a conferma che anche il discorso di Piccarda è una lectio.
“Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia/ e d’un altro rimane ancora la gola,/ di quel si chere e di quel si
ringrazia”, così Dante ringrazia del cibo ammannito sulla carità, e un altro ne chiede, “qual fu la tela/
onde non trasse infino a co la spuola”: che cosa significa questo “manco di voto”, perché Piccarda e le
altre non hanno portato a termine i loro voti, pur detto con la metafora della spola?
“Perfetta vita e alto merto inciela/ donna più sù” riprende Piccarda, in un cielo più alto vive beata S.
Chiara “a la cui norma/ nel vostro mondo giù si veste e vela,/ perché fino al morir si vegghi e dorma/
con quello sposo ch’ogne voto accetta”, e dunque la nostra beata, “dal mondo, per seguirla, giovinetta/
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi/ e promisi la via de la sua setta”, rivestita del saio delle clarisse, e
sotto quella Regola, aveva emesso voti solenni, perpetui, “fino al morir”, sposa di quello sposo con il
quale vegliare e dormire, osservando quei voti, mediante i quali l’amore rende conformi al divino sposo.
Ma “uomini poi, a mal più ch’a bene usi,/ fuor mi rapiron de la dolce chiostra”; quale sia stata poi la
sua vita, poco importa, come poco importa dire chi l’ha rapita, forse per un residuo pudore fraterno. Qui
finisce la sua storia.
Continua solo per dire di chi le sta accanto, infatti “più facce a parlar pronte” erano apparse a Dante.
Mirabile è il gioco di scambi: “ciò ch’io dico di me, di sé intende”, vicenda parallela; e ciò che Piccarda
dice di Costanza, vale anche per sé “ma poi che pur al mondo fu rivolta/ contra suo grado e contra
buona usanza, non fu del vel del cor già mai disciolta”: e questo è il motivo della loro beatitudine. Detto
appunto di Costanza d’Altavilla. Indi, al canto dell’ Ave, Maria “vanio/ come per acqua cupa cosa
grave”. Ci sorprende questo svanire “per acqua cupa” quando, all’inizio, la similitudine era “per acque
nitide e tranquille,/ non si profonde che i fondi sien persi”, a dire, forse, di una missione compiuta.
Dante con lo sguardo la segue fin che “la perse”, poi “volsesi al segno di maggior disio”, a Beatrice, ma
“quella folgorò nel mïo sguardo/ sì che da prima il viso non sofferse”, a rendere più tarda un’ulteriore
domanda, così folgorato!