Il concetto di educazione nella filosofia moderna

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Il concetto di educazione nella filosofia moderna
Comenio: il problema del metodo e la “pansofia”
In filosofia il Seicento è il secolo del metodo. Sia i filosofi sia gli scienziati affrontano i
problemi delle loro discipline elaborando ex novo un metodo efficace, nel tentativo di
strappare alla natura i suoi segreti. Per tutti si trattava di edificare una scienza e una filosofia su fondamenta di certezza.
Il rigore del metodo appare lo strumento migliore per realizzare un simile programma. E un po’ in tutti i campi si procede ricominciando da zero, senza tenere conto dei
risultati del passato, non perché li si ritenga del tutto erronei, ma perché essi non forniscono quel punto di partenza certo su cui, con metodo rigoroso, si potrà costruire
l’edificio del sapere. Il rigore del metodo presuppone una fondazione ex novo, perché solo così si avrà garanzia del buon esito: un metodo corretto basato su fondamenta
incerte darebbe risultati incerti. La forza del metodo, d’altra parte, è nella sua controllabilità: si potranno sempre ripercorrerne le tappe e si potrà sottoporne ad altri la coerenza. Così fanno regolarmente gli scienziati, così fa lo stesso Cartesio che instaura un
fitto dialogo con altri filosofi discutendo con loro nelle sue Meditazioni metafisiche.
Comenio1 ha provato a trattare il tema dell’educazione ponendo il problema del metodo. Il suo progetto ruota attorno a un ideale da lui denominato “pansofia”. Il termine è
di derivazione greca e indica la sintesi unitaria e globale della totalità del sapere, nella sintesi armoniosa di filosofia, teologia e scienze. Essendo uno solo l’Autore della natura, delle Scritture e della mente umana che a entrambe guarda, Comenio riteneva necessario recuperare la capacità di gettare uno sguardo unitario su tutte e tre le branche
del sapere. Come Cartesio, Comenio ricercava una mathesis universalis, una chiave universale per intendere la natura dell’uomo e delle cose, e si chiedeva quali fossero i
fondamenti metodologici ed epistemologici attorno a cui costruirla.
Fornito di una grandissima erudizione e di una profonda conoscenza di almeno dodici lingue e culture, iniziò a delineare degli schemi di corrispondenze, analogie, rimandi
incrociati che dovevano costituire la base di un lavoro la cui continuazione era idealmente affidata ai discepoli e ai dotti delle generazioni successive: il progetto, tuttavia,
rimase sostanzialmente incompiuto.
Il suo ideale pansofico si traduce in una specifica elaborazione pedagogica. La formula con cui si può riassumere la sua idea di fondo è «omnibus, omnia, omnino», cioè
insegnare «a tutti, tutto, completamente».
Per quanto riguarda i destinatari dell’insegnamento, Comenio è profondamente convinto della necessità di evitare ogni forma di esclusione, in nome dell’ideale umanista a
cui è profondamente legato:
«Tutti coloro che nascono uomini, nascono per il medesimo fine fondamentale: per
essere uomo, e cioè creatura razionale, signora delle altre creature, immagine vera del
suo creatore».
Le scuole devono essere pertanto «officine di umanità». La differenza profonda, rispetto
ai filosofi antichi, del modo in cui Comenio concepisce l’educazione dipende dalla diversa concezione dell’uomo. In ciascun uomo come in ciascuna donna, di qualsiasi condizione sociale ed economica, Comenio vede una persona dotata degli stessi diritti. La
natura umana è universale. L’umanesimo italiano ed europeo, da cui deriva questo concetto, non fa che sottolineare in modo radicale una tesi che ha origine dalla concezione
cristiana della persona; tuttavia invano si cercherebbe nei filosofi cristiani fino a questo
momento una simile idea di universalità.
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Insegnare tutto non significa per Comenio riempire la mente di sterili nozioni per coprire l’area dello scibile universale, ma dotare ciascuno dei principi per entrare con profitto
in tutte le aree della conoscenza, senza preclusioni di alcun tipo e secondo modalità adatte all’età degli allievi.
Insegnare completamente significa far sì che i principi delle discipline, di cui si è
detto, siano organicamente connessi gli uni agli altri, in modo che il sapere risultante sia
unitario.
«Nelle scuole si deve insegnare tutto a tutti: ciò non significa che tutti devono acquistare conoscenza di tutte le scienze e di tutte le arti, perché ciò non è per sua natura né
utile né possibile a nessuno […]. E tuttavia tutti devono imparare a conoscere il fondamento, la ragione e il fine di tutte le cose principali, perché chiunque è messo al mondo,
c’è messo non soltanto perché faccia da spettatore, ma da attore».
Mezzo universale per l’educazione è la lingua, al cui insegnamento Comenio ha dedicato energie significative: in una delle sue opere di maggiore fortuna, la Janua linguarum
reserata, cioè La porta delle lingue dischiusa, ha indicato i vari livelli di apprendimento
linguistico, con particolare attenzione al latino, presentando anche analogie e differenze
sul piano lessicale e grammaticale tra le diverse lingue a lui note.
Anche sul versante delle strategie didattiche si coglie il riflesso dell’anelito pansofico
che si traduce in quello che nella Didactica magna (la Grande Didattica) egli chiama il
«metodo universale».
«La pedagogia è un’arte che deve saper imitare la natura e deve in qualche modo
far sì che il discente ripercorra per ogni disciplina che apprende lo stesso tipo di itinerario che la natura fa compiere nel processo di sviluppo dal bambino all’adulto.»
La pansofia, dunque, è per Comenio la risposta filosofica, teorica, al problema di realizzare al meglio le potenzialità di ciascun essere umano: la didattica ne è la risposta operativa.
Locke: il problema educativo nel primo Illuminismo
Uno dei caratteri fondamentali dell’Illuminismo è il rifiuto di considerare gli uomini diversi tra loro per nascita; le differenze che si riscontrano tra gli uomini sono soltanto in
piccola parte frutto della loro natura, tutto il resto dipende dall’educazione, e in particolar modo dall’influenza della società sulla loro formazione. Gli illuministi sono stati,
con profonda convinzione, i progettisti di una nuova società; hanno proposto una nuova
visione dell’uomo, essenzialmente basata sull’idea di eguaglianza garantita dalla ragione, eguale per tutti, e hanno così sviluppato uno degli aspetti centrali dell’umanesimo
proposto da Comenio, l’idea di una educazione per tutti.
Non sorprende quindi che nell’Illuminismo vi sia stata la più grande attenzione per
l’educazione e per il rapporto tra la formazione dell’uomo e la costruzione di una società nuova, che permetta di vivere in libertà ed eguaglianza. Torna in primo piano il legame tra la sfera dell’educazione dell’uomo e quella del cittadino che abbiamo osservato al tempo della polis greca; questo tema era rimasto in ombra per tutto il Medioevo a
favore di un altro tema, sempre di derivazione greca, quello della virtù e di chi può insegnarla. Si tratta per gli illuministi di ripensare la società in modo tale che essa consenta agli uomini di vivere nella pienezza del loro essere tali. Il termine virtù in filosofi
come Locke o Rousseau non indica l’adesione a un modello ideale o a un insieme di valori di natura religiosa, ma la piena realizzazione dell’uomo integrale. Al centro di
questa personalità è la ragione, l’autonoma ragione, quella che Kant considererà istitutrice di un tribunale di fronte a cui ogni sapere deve essere portato.
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Locke visse nell’epoca in cui dalle ceneri della vecchia società medioevale nasceva
l’Inghilterra moderna, colonialista, capitalista, con un sistema politico basato sulla centralità del Parlamento e sulla divisione dei poteri. Locke ha concepito la filosofia essenzialmente come un’indagine sulla mente, condotta al fine di acquisire gli strumenti perché l’uomo possa governare se stesso nel modo migliore. All’inizio della sua opera più
importante, il Saggio sull’intelletto umano, descrive in questi termini lo scopo della filosofia:
«scoprire quelle misure mediante le quali una creatura razionale, posta nello stato
in cui l’uomo si trova in questo mondo, può e deve governare le sue opinioni e le azioni
che ne dipendono».
L’obiettivo è esprimibile in termini di virtù, che è un carattere individuale e sociale allo
stesso tempo. Torna dunque la nozione di virtù abbinata alla felicità come scopo
dell’azione educativa. Nella sua opera pedagogica, i Pensieri sull’educazione, scrive:
«Io colloco la virtù come la prima e più necessaria di quelle qualità delle quali ha
bisogno l’uomo […]: essa è assolutamente indispensabile per procurargli la stima e la
benevolenza degli altri e renderlo accetto […] a se stesso. Senza di essa, io credo che
non sarà felice né in questo mondo né nell’altro».
Ora, che cosa è la virtù per una creatura razionale? È il governo razionale di se stesso e
delle cose che da lui dipendono in modo coerente non solo con la propria ragione, ma
con quella di tutti gli altri uomini, secondo quell’idea di eguaglianza che costituisce il
leit motiv dell’Illuminismo.
Locke prima che un filosofo è un medico e nella sua opera pedagogica dedica grande
attenzione all’educazione del corpo, anche se l’interesse primario riguarda l’educazione
della mente. Locke insiste che quest’educazione va iniziata al più presto, nel senso che i
bambini vanno trattati sin da piccolissimi come creature ragionevoli:
«Intendo che dovete far sentire loro con la moderazione del vostro contegno e la
compostezza anche nelle vostre correzioni, che ciò che voi fate è ragionevole in sé e che
è loro utile e necessario, e che non è per capriccio, per passione o per bizzarria se comandate o proibite loro qualche cosa».
Lo stesso discorso vale per l’idea di Dio, cui il bambino va abituato sin da piccolissimo,
presentando la sua figura come quella del Signore e Creatore dell’universo:
«Ditegli soltanto, quando si presenti l’occasione, che Dio ha fatto e governa ogni
cosa, che sente e vede tutto e che ricolma di ogni sorta di beni coloro che l’amano e
l’obbediscono».
Vico: il bambino è come un uomo primitivo
Vico, come diversi altri illuministi, è attento al problema della formazione integrale della persona e sottolinea la somiglianza tra il bambino e l’uomo primitivo. Pur non avendo
dedicato opere specifiche al tema dell’educazione, tuttavia soprattutto nelle Orazioni
inaugurali, in particolare nella De nostri temporis studiorum ratione, l’accostamento
tra uomo primitivo e bambino gli consente di dare precise indicazioni su che cosa significhi educare una persona nella pienezza delle sue facoltà.
Per Vico il bambino è prima senso, poi memoria, immaginazione, intuizione, inventiva; soltanto dopo è razionalità. Va quindi rivalutata l’educazione umanistico-letteraria,
rimandando a una età più avanzata l’educazione mediante astrazioni, vale a dire
l’educazione scientifica.
Alle verità assolute e dogmatiche va preferito il processo conoscitivo attraverso cui è
accertato il vero. E poiché «verum factum est», va preferita la conoscenza problematica
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e «per causas». Essenziale è educare attraverso la storia, mostrando la genesi dei fatti, perché ciò che si fa è ciò che davvero si può conoscere.
In Vico anche l’educazione è strettamente connessa alla sua visione dell’uomo e del
vero. Tutto discende da due idee: la rivalutazione delle facoltà non razionali
dell’uomo; la concezione del vero come fatto.
Vico è quindi sulla linea degli altri illuministi nell’idea di un’educazione per tutti che
abbia come scopo quello di garantire lo sviluppo dell’uomo nella pienezza delle sue facoltà e che permetta quindi di coniugare virtù e felicità.
Rousseau: l’educazione come valorizzazione della propria natura
La figura di Rousseau è davvero fondamentale per la storia del concetto di educazione.
Vi è anzi chi sostiene che il suo lungo romanzo-saggio dedicato all’educazione,
l’Emilio, sia l’opera fondamentale della pedagogia filosofica moderna, quasi un testo di
rifondazione della disciplina. È però necessario ricordare che il periodo che va dai primi
anni del Seicento alla fine del Settecento vede la rifondazione moderna di diverse discipline che avevano già una loro storia secolare: è, ad esempio, il caso dell’estetica.
Tornare alla natura e rispettarla: è questo l’aspetto più noto della filosofia di
Rousseau. La tesi di fondo è espressa moltissime volte nei suoi scritti. Restiamo
all’Emilio che si apre con queste parole:
«Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani
dell’uomo».
Il gusto della chiarezza e della forza espressiva porta Rousseau alla contrapposizione tra
natura e uomo – oggi diremmo natura/cultura –, ma in questo modo la tesi si presta a un
equivoco, perché l’uomo non è altra cosa dalla natura. Rousseau non pensa che il mondo superiore della coscienza e della cultura abbia una radice diversa dalla natura stessa.
L’uomo, in quanto parte della natura, potrà essere veramente se stesso solo rispettando la sua natura, divenendo ciò che egli è. L’errore della cultura umana nella storia è stato quello di non comprendere questa elementare verità e ricorrere a una complessa e artificiale costruzione culturale e sociale fondata su principi diversi dalla semplice natura. Nelle prime opere (il Discorso sulle scienze e sulle arti e il Discorso sulla
disuguaglianza) Rousseau analizza come ciò sia potuto accadere. Nell’Emilio e nel
Contratto sociale mostra come sia possibile rispettare la natura rispettivamente nella
formazione dell’uomo e della società politica e culturale.
Tuttavia, se l’uomo è natura, non è forse la natura stessa che, nella storia, ha giocato
contro se stessa? Dobbiamo intendere la storia dell’uomo e le sue deviazioni come una
sorta di malattia della natura?
Esaminiamo più da vicino la natura dell’uomo. Rousseau non è un cartesiano: per lui
l’uomo non è interamente riconducibile alla stessa natura delle cose. Le sue facoltà spirituali sono viste come un superiore livello della vita della natura che s’innesta sulla
semplice materia. Non si tratta dell’adesione a una visione dualistica dell’uomo, a una
cartesiana scissione dell’uomo in anima e corpo. Rousseau ha invece una visione profondamente organica dell’uomo: la vita superiore della coscienza si innesta sulla vita
biologica, la dinamica del corpo si prolunga nella dinamica della coscienza senza riuscire a sopraffarne l’autonomia. La creativa dinamica della coscienza a sua volta vive e
opera nella multiforme vita delle passioni, delle affezioni, delle sensazioni.
Rousseau coniuga pertanto una forte accentuazione della base materiale
dell’uomo (la sua concezione del piacere ricorda da vicino l’epicureismo) con una altrettanto forte accentuazione dell’autonomia della vita spirituale che si eleva su questa
base. La natura umana non è dunque pienamente riconducibile alla natura delle cose
che, in quanto opera delle «mani dell’Autore delle cose», è realtà complessa e moltepli-
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ce. Rispettare la natura non significa ridurre l’uomo alla dinamica delle forze oggettive
che dominano il mondo materiale, di cui egli è parte: significa coniugare in unità
l’organica duplicità naturale dell’uomo, materiale e spirituale.
La società dunque potrà essere costruita nel rispetto della natura dell’uomo solo se diverrà essa stessa organica: i bisogni tanto materiali quanto spirituali dell’uomo devono
trovarvi soddisfazione, la dinamica meccanicistica delle forze materiali e la dinamica
creativa della vita spirituale devono esservi conciliate.
Il fulcro della concezione pedagogica di Rousseau è ben espresso dall’idea della originaria bontà della natura umana. Questa tesi non ha molto a che vedere con l’idea
che sia esistito storicamente uno stato di natura in cui gli uomini vivevano liberi e felici
in una condizione presociale e prestatuale. Rousseau stesso ci allontana da questa interpretazione. La natura dell’uomo è l’insieme delle componenti fisiche e psichiche che
compongono la sua persona viste nella dimensione temporale dell’evoluzione.
Quest’ultima precisazione è importante perché è la chiave di volta del suo sistema pedagogico.
Possiamo allora così sintetizzare l’idea di Rousseau: la natura umana è in sé buona,
ma deve svilupparsi nel tempo attraverso l’educazione, il rapporto con gli uomini e con
la società; quindi il fine dell’educazione e quello della natura coincidono: rendere
l’uomo libero e felice. Il processo di evoluzione può però degenerare e rendere l’uomo
schiavo.
Poiché questa degenerazione si è storicamente attuata nello sviluppo della civiltà,
Rousseau diviene un critico radicale della società del suo tempo e propugna una inversione di rotta e il ritorno a una vita “naturale”. La pedagogia condotta secondo i principi della natura è strumento per l’edificazione di una società libera e giusta, indispensabile alla vita del singolo. Non si dà educazione se non nel rapporto interumano. ra
umana. Il processo educativo è un rapporto profondo tra uomini che mettono in gioco se
stessi collaborando a un progetto globale di trasformazione e realizzazione della persona: l’obiettivo è formare l’uomo e il cittadino.
In questo contesto si deve inquadrare il fondamentale concetto di educazione negativa.
Rousseau sottolinea che se il fanciullo impara dal maestro, si instaura tra i due un rapporto di autorità, che genera necessariamente la dipendenza del fanciullo dalla volontà e
dall’intelletto di un altro, rendendolo schiavo. Al contrario, se l’uomo impara dalle cose,
acquisirà la conoscenza della realtà esterna e allo stesso tempo delle proprie capacità
subendo non la volontà di un altro, ma solo l’oggettivo limite posto dalle sue capacità e
dalle condizioni esteriori in cui opera. Egli sarà tanto libero quanto la natura, sua e del
mondo, glielo consentirà. Secondo l’educazione negativa maestra del fanciullo è
l’esperienza del mondo: compito dell’educatore è quello di garantire la possibilità che il
fanciullo compia esperienze adeguate alle sue capacità nel rispetto della vera natura delle cose.
V’è qui il pericolo, segnalato dagli interpreti a volte con accenti molto duri, che il
maestro sia in realtà un vero dominatore del fanciullo, addirittura un plagiatore che opera facendogli credere di essere libero nei suoi rapporti con le cose. Se infatti le esperienze del giovane sono pilotate dal maestro, questi utilizza uno strumento effettivamente
oggettivo, piegato però a un fine nascosto al fanciullo certamente soggettivo. Siamo in
presenza dell’aporia fondamentale di ogni educazione nella libertà: non c’è forse contraddizione tra la libertà e il concetto di educazione, come rapporto tra un uomo per forza di cose dotato di autorità su un altro che non la possiede? Il tema non è esplicitamente trattato da Rousseau, che sotto alcuni aspetti tratteggia il suo precettore come il legislatore di uno Stato (il parallelo con il Contratto sociale è illuminante in merito), ma i
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lettori della sua opera sono stati stimolati a porlo con forza e questo è oggi uno dei temi
centrali della riflessione teorica in pedagogia.
Il principio dell’educazione negativa apre il discorso sulla gradualità del rapporto pedagogico. Rousseau ha enunciato per primo con consapevolezza teorica questo principio, che è oggi uno dei fondamentali della pedagogia. L’educazione risponde a
un’esigenza naturale, ha gli stessi scopi della natura. Ma la natura dell’uomo prevede un
lunghissimo periodo di sviluppo delle facoltà del bambino al quale corrisponde
un’altrettanto lunga evoluzione dei suoi interessi. Il maestro dunque dovrà sempre rispettare l’uomo, non considerando il bambino un uomo più piccolo, ma una persona dotata di caratteristiche proprie scomparse nell’adulto. Perciò qualsiasi esperienza dovrà
essere calibrata sulla capacità del bambino di recepirla. La natura umana implica livelli
diversi di sviluppo delle facoltà del bambino a cui corrispondono interessi diversi; il
rapporto educativo rispetta la gradualità tanto delle facoltà quanto degli interessi.
Per questo motivo l’educazione religiosa e quella politica vengono rimandate moltissimo nella vita di Emilio, pur costituendo un momento assolutamente essenziale della
formazione dell’uomo e del cittadino. Se al giovane queste realtà fossero proposte prima, non le capirebbe e sarebbe passivo di fronte a esse, cioè schiavo e non libero.
In ultimo, poiché vera maestra è l’esperienza e questa deve corrispondere alle reali
capacità delle facoltà del giovane, Rousseau enuncia un principio di fondamentale importanza per l’attivismo moderno, sostenendo che il bambino impara dall’azione che egli compie sulle cose e dalla reazione che ne riceve. L’educazione deve avvenire attraverso l’azione, in un rapporto interattivo col mondo umano e naturale. Anche per questo
motivo Rousseau dedica tanta attenzione al lavoro manuale e alla vita a contatto con la
natura.
Condorcet, educazione e uguaglianza
Condorcet è il filosofo e uomo politico che nel 1792 presentò all’Assemblea legislativa
il progetto più completo e organico di riforma dell’educazione nella Francia rivoluzionaria. Il suo principio ispiratore è di matrice prettamente illuminista: l’istruzione rende
liberi dai pregiudizi e quindi dalla miseria. Pertanto lo scopo principale di
un’educazione nazionale è di offrire a tutti i mezzi per provvedere ai propri bisogni ed
esercitare i propri diritti, così da contribuire al benessere comune nel quadro di
un’effettiva uguaglianza degli individui. Infatti nel riconoscimento del dovere dello Stato di dare a tutti, donne comprese, la possibilità di ricevere un insegnamento completo,
verranno rimosse le disparità economiche e di sesso, che sono storiche e non naturali,
mentre saranno le capacità individuali a determinare il grado di istruzione raggiungibile
da ciascuno.
Nel progetto di Condorcet la scuola resta sostanzialmente libera dallo Stato, poiché
«nessun potere pubblico deve avere l’autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l’insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica».
La scuola dovrà limitarsi all’istruzione, a un insegnamento rigorosamente fondato
sull’oggettività dei fatti, evitando di trasmettere opinioni politiche o religiose che sono
di competenza delle famiglie e delle Chiese. Dunque il legame tra la formazione
dell’uomo e la formazione del cittadino è garantito, ma lo Stato come organizzazione
politica deve rispettare fino in fondo la libertà di insegnamento. La sfera della cultura è
pienamente autonoma, dal momento che la ragione non può sottostare a un’autorità superiore.
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Kant: educazione e ragione
La non soggezione della ragione umana ad alcuna autorità è una tesi cara agli illuministi. Kant la fa propria nel celebre articolo Che cos’è l’Illuminismo?, in cui scrive:
«L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare
a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di
un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti
della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’Illuminismo».
Tuttavia, uno stato di minorità nella vita di ciascuna persona esiste, ed è la minore età: il
problema dell’educazione è quindi per l’Illuminismo una questione centrale, perché si
tratta di realizzare nell’adulto quella capacità di servirsi del proprio intelletto che restituisce pienamente l’uomo alla dignità della sua persona.
Il concetto filosofico di educazione non è quindi problematico per Kant: si tratta solo
di trovare la formula per rendere l’uomo a se stesso. A patto naturalmente che si accetti
che l’uomo sia davvero se stesso, vale a dire una creatura razionale, dotata di piena autonomia morale, come vuole la Critica della ragion pratica. Se, invece, si preferisce
mantenere l’uomo in uno stato di minorità, l’Illuminismo ha il dovere di ricordare
all’umanità che l’uomo non tende naturalmente al bene, ma diviene un essere morale
soltanto quando diventa consapevole dell’autonomia della propria ragione che lo rende
libero. Ora, soltanto da questa libertà c’è da aspettarsi il rispetto delle altre persone (è la
seconda formula dell’imperativo categorico) e dunque l’effettiva universalità
dell’azione umana. Altrimenti, non resta che rassegnarsi a una società fatta di uomini in
perenne conflitto tra loro: quando infatti gli uomini non si lasciano guidare dalla loro
ragione universale (imperativo categorico) ma dai loro interessi (imperativi ipotetici),
entrano in conflitto tra loro perché gli interessi divergono. È quindi interesse pubblico
l’educazione dei cittadini alla libertà della ragione, e ancora una volta la formazione
dell’uomo deve coniugarsi con la formazione del cittadino.
Anche in Kant l’educazione porta alla coppia virtù-felicità, o almeno la favorisce. Per
Kant infatti (come è detto nella Critica della Ragion Pratica) la virtù è l’adesione della
volontà ai principi della ragione (quindi seguire l’imperativo categorico e non quelli ipotetici), mentre la felicità è l’accordo delle proprie inclinazioni con la propria ragione.
Ma c’è un problema: le proprie inclinazioni non sono spontaneamente in accordo
con la ragione; lo sono soltanto se vengono educate a esserlo. L’educazione è pertanto il processo attraverso cui tutte le facoltà dell’uomo, comprese le inclinazioni del cuore, sono orientate alla luce della ragione.
Kant sa che questo processo è destinato a infrangersi contro difficoltà insormontabile
e che l’ideale di un uomo pienamente razionale è irraggiungibile. Tuttavia l’educazione
è la via maestra per andare in questa direzione:
«I fanciulli non devono essere educati con riferimento allo stato presente del genere
umano, ma in relazione a uno stato migliore realizzabile nell’avvenire, conformemente,
cioè, alla idea di umanità e della sua propria destinazione. […] La Provvidenza ha voluto che l’uomo fosse obbligato a trarre da se stesso il bene e, per così dire, essa disse
all’uomo: “Va nel mondo: io ti ho dotato di tutte le disposizioni al bene, spetta a te svilupparle in modo che la tua felicità o la tua infelicità dipendano soltanto te stesso”.»
[Lezioni di Pedagogia]
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Jan Amos Komensky, pedagogista ceco (1592-1670), è considerato il fondatore della moderna pedagogia.