regioni di montagna
Transcript
regioni di montagna
SE IL GOTTARDO SI TROVASSE NEL SOTTOCENERI… - gennaio 2011 Immaginiamo che per necessità di manutenzione del fondo stradale si prospetti la chiusura del ponte di Melide per almeno tre anni. Con la variante di forse consentirne la riapertura nel cuore dell’estate, ma in tal caso con la conseguenza di protrarre il blocco da settembre a giugno sull’arco di quattro, cinque o più anni. Come minimo, scoppierebbe la rivoluzione! E a calmare le acque non basterebbe certo il fatto che la ferrovia, lì di fianco, continuerebbe a funzionare normalmente. Se poi qualcuno avesse la brillante idea di suggerire la creazione di “barche-navetta” per il trasbordo di auto e passeggeri, la proposta apparirebbe subito sfottente e le reazioni sarebbero all’altezza della provocazione. Non diversamente andrebbero le cose se si prospettasse la chiusura per tre, quattro o più anni (o anche solo per qualche mese!) dell’aeroporto di Agno, e la creazione di un servizio di mongolfiere in sostituzione del più inquinante traffico aereo. In un caso come nell’altro, si può esserne certi, tutto il “Ticino che conta” – governo, partiti, sindacati, associazioni economiche, enti turistici e chissà quanti altri ancora – scatterebbero all’unisono a denunciare il massacro dell’economia cantonale, l’inammissibile discriminazione inferta al Ticino, lo sfregio alla coesione nazionale e via strepitando. E le alternative citate verrebbero considerate pagliacciate improponibili se non offensive, tanto che neppure i verdi più spinti oserebbero a farle proprie. Del tutto diversa è invece la reazione - anzi, la mancanza di reazioni - alla prospettata chiusura della galleria stradale del San Gottardo. Convinti forse che il Gottardo si trovi nei pressi del polo nord, o comunque lontanissimo dal Ticino che conta, gli ambienti citati sembrano non preoccuparsi per nulla delle conseguenze di tale chiusura. Solo il vituperato governo, a dispetto della mancata progettualità di cui lo accusa chi la sa lunga, qualcosa ha tentato. Dagli altri ambienti… silenzio di tomba! Taluni sembrano anzi perfino compiacersi dell’ipotesi di un ripristino dei treni-navetta, che nella loro fantasia vedono forse circondati da un’aureola di romanticismo “d’antan”. Questa acquiescenza supina, anche verso le recenti dichiarazioni della consigliera federale On. Leuthard, è certamente favorita da due menzogne ripetute a getto continuo: quella secondo cui opporsi alla chiusura equivarrebbe a realizzare il “doppio tubo”, e quella secondo cui ciò infrangerebbe addirittura la Costituzione federale. Orbene, a parte il fatto che un’analisi attenta dell’articolo costituzionale smentirebbe sicuramente detta versione, qui non si tratta di “raddoppiare” nulla bensì di opporsi a una chiusura mai avallata dal popolo! La differenza è palese. Se proprio si teme un aumento delle capacità di transito, si adotti la soluzione ipotizzata dal Canton Uri: la costruzione di una nuova galleria che consenta – una volta terminata – la chiusura di quella “vecchia” (con risparmio quindi dei costi necessari alla sua modernizzazione). Per quanto sopracenerino impenitente devo proprio dire: peccato che il Gottardo non si trovi nel Sottoceneri. Se lo fosse, gli ostruzionismi al suo mantenimento in funzione sparirebbero d’incanto! TURISMO E REGIONI DI MONTAGNA – giugno 2011 Un interessante servizio televisivo, trasmesso qualche settimana fa dalla TSI, prendendo lo spunto dal progetto di “rilancio” delle terme di Acquarossa, ha focalizzato l’attenzione sui problemi del turismo ticinese. Vale la pena di ritornarvi per esaminare la questione del turismo nelle regioni di montagna. La trasmissione ha infatti messo a confronto la nostra realtà con quella di Scuol, nella bassa Engadina, per le cure termali (in riferimento appunto al citato progetto di Acquarossa), come pure con l’Alto Adige e con il Vorarlberg, per quanto riguarda più in generale il tema “turismo e ambiente”. Dal confronto è risultato chiaro che le regioni citate sanno approfittare dei loro “atouts” in misura decisamente maggiore alla nostra, Evidentemente, ogni caso ha caratteristiche proprie, per cui non è detto che quel che funziona magari a meraviglia in una determinata situazione possa funzionare allo stesso modo in un’altra. Sta comunque di fatto che informarsi su quel che avviene in realtà simili alla nostra, non è mai inutile. L’esempio degli altri Per quel che riguarda l’Engadina, l’indicazione scaturita dal servizio televisivo è l’opportunità di diversificare l’offerta il più possibile, al fine di ridurre al minimo le “stagioni morte”, e da poter avere una frequenza di ospiti ripartita più o meno regolarmente sull’arco di almeno 8-10 mesi. Ciò consente infatti di sfruttare al meglio le infrastrutture, come pure le ricadute economiche generate dai turisti a beneficio di negozi, ristoranti ecc..Per quanto riguarda invece l’Alto Adige e il Vorarlberg, la scelta adottata in entrambi i casi è stata quella di ricercare tutte le possibili sinergie fra la presenza turistica e le altre attività praticate sul territorio, a cominciare dall’agricoltura. Dalle interviste ai responsabili locali, è pure emerso l’invito esplicito, rivolto alle autorità politiche, ad impegnarsi a contrastare lo spopolamento delle valli. Ciò in considerazione del fatto che luoghi deserti non invogliano nessuno a soggiornarvi. Difficoltà oggettive Si tratta, evidentemente, di soluzioni più facili da indicare che da realizzare. E questo già per il semplice fatto che l’offerta dipende essenzialmente dall’iniziativa privata. L’ente pubblico può sì fungere da stimolo, mediante aiuti di vario genere (diretti o indiretti), ma non può sopperire alle mancanze degli operator. Tanto meno può incidere sulla politica dei prezzi o sulla qualità dell’accoglienza. Occorre peraltro considerare che anche gli stessi imprenditori hanno solo uno spazio di manovra ristretto. Il fatto che il costo della vita - e di conseguenza i prezzi - siano, da noi ben più elevati che all’estero, non può che incidere negativamente sulla concorrenzialità del nostro turismo rispetto a quello di regioni con caratteristiche ambientali o paesaggistiche simili. Non diverso è il discorso sul personale, che ovviamente non può essere “fabbricato su misura”. Albergatori, ristoratori ecc. devono assumere quello che trovano. Ciò non deve però indurre a un rassegnato fatalismo. Deva anzi spingere a contrastarlo. Che cosa si può fare? In Ticino, è ancora possibile agire secondo le indicazioni menzionate? Considerato come l’agricoltura sia ormai ridotta ai minimi termini, la prima indicazione appare difficile da realizzare. A peggiorare le cose vi è poi il degrado territoriale avvenuto negli ultimi decenni in varie parti del nostro Cantone; degrado che lo rende il Ticino sempre meno attrattivo dal punto di vista turistico (in questo senso, tanto il Vorarlberg quanto l’Alto Adige, come pure l’Engadina, hanno saputo agire con ben maggiore avvedutezza, evitando certe brutture architettoniche che imperversano invece da noi). Per quel che riguarda infine lo spopolamento delle valli, non si può fare a meno di constatare come le misure adottate, ad esempio in materia di viabilità, di infrastrutture di base ecc., per quanto apprezzabili, non hanno certo invertito la tendenza. Resta comunque il fatto che per le regioni di montagna il turismo rappresenta un potenziale di sviluppo basilare. Ne deriva che tra i responsabili politici locali e i rappresentanti del settore dovrebbe aver luogo un dialogo costruttivo. Nel nostro Cantone ciò è reso ulteriormente difficile dal fatto che il turismo, per tradizione inveterata, è considerato essenzialmente in relazione alla regione dei laghi, mentre le zone più discoste sono viste un po’ come “parenti poveri”. E’ una situazione che va decisamente contrastata. UNA RISORSA DA VALORIZZARE – luglio 2011 Sono stato recentemente la Carinzia, Land austriaco ai confini con il Friuli e la Slovenia. Due sono le impressioni più significative che ne ho ricavato e sulle quali vorrei soffermarmi, date le potenziali affinità con la nostra regione: l’accorto sfruttamento turistico delle caratteristiche locali e l’accentuata valorizzazione del patrimonio forestale. Lo sfruttamento turistico La regione ha un carattere prevalentemente alpino, o meglio pre-alpino. Salvo nella parte a nord-ovest, nel pressi del Grossglockner (3795 m.s.m.), che la separa dal Salisburghese, le cime non oltrepassano i 2’2002’300 metri e non hanno la maestosità delle Alpi vere e proprie. Hanno però il pregio di essere facilmente accessibili a chiunque, per passeggiate poco impegnative lungo i comodi sentieri che collegano i vari alpeggi, a breve distanza l’uno dall’altro. Si tratta di mandrie solitamente di piccole dimensioni, che danno tuttavia a quelle aree un carattere inconfondibilmente alpestre. A facilitare questo tipo di turismo vi sono poi innumerevoli impianti di risalita e numerose quanto comode strade carrozzabili, che consentono di collegare il fondovalle con le zone in alta quota. Unico neo: la richiesta, invero assai esosa, di un pedaggio di ben 29 Euro per poter transitare sulla strada che attraversa il parco del Grossglockner (vi immaginate che cosa succederebbe da noi se una tassa di accesso simile, fosse anche meno esosa, fosse richiesta per transitare dai passi alpini, sia pure con lo “zuccherino” di poter rimanere tutto il giorno all’interno del parco?!). Le attrazioni paesaggistiche, ovviamente, non bastano a “trattenere” a lungo i turisti in loco. Ciò riesce però facilmente grazie a una serie di infrastrutture complementari, quali campi da tennis e da golf, piscine, attrezzature termali e impianti “fitness”, parchi-gioco ecc., oltre naturalmente a molti alberghi, pensioni e affini. Il tutto molto curato anche dal punto di vista architettonico, come del resto lo sono gli innumerevoli alberghi e gli altri edifici sia abitativi che commerciali o industriali. Largo impiego del legname A colpire maggiormente i visitatori è però soprattutto l’impiego su vastissima scala del legname prodotto dalle ampie superfici boschive. Lo testimoniano i depositi di legname e le segherie che si incontrano dappertutto, e lo confermano le innumerevoli costruzioni di legno che si vedono ad ogni pie’ sospinto. Non si tratta solo dei tradizionali châlets (pure assai numerosi, anche nell’ambito degli alberghi), ma anche di molte altre costruzioni di stile moderno. Si va dalle case d’abitazione, ai negozi, alle banche ai più svariati manufatti minori: autorimesse, locali per deposito di attrezzi, stazioni di bus, cappelle, albi comunali, parapetti su ponti e terrazze, staccionate per la delimitazione di giardini, per la recinzione del bestiame ecc. La famigliarità con l’impiego di questo materiale consente pure numerose “variazioni sul tema”, cosicché i manufatti (ad esempio le paratie anti-rumore) risultano spesso pregevoli anche alla vista. Ma se tutto ciò lo si nota anche in altre parti dell’Austria, e qua e là pure in Svizzera, la cosa più inaspettata che balza all’occhio è il largo utilizzo del legno sottoforma di scandole, per la copertura dei tetti. Per ovvie ragioni di lotta contro gli incendi, sulle case d’abitazione ciò avviene in misura limitata. Trova invece larga applicazione per quanto concerne la copertura delle altre costruzioni citate, ad esempio sui tetti delle chiese. Quello che da noi è solo reminiscenza storica, in qualche cascina di montagna, in Corinzia è insomma “moneta corrente”, non relegata nei peraltro interessanti musei (cito ad es. quello del legno di Gnesau, a poca distanza da Feldkirchen o l’”Handwerkmueum” di Baldramsdorf, nei pressi della bella cittadina di Millstatt). Ebbene, prendere esempio da quanto si fa in Austria sarebbe più che opportuno anche alle nostre latitudini. Ovviamente nessuno si illude che - nonostante l’abbondanza di legname che esiste anche da noi, – sia possibile un impiego di questa materia prima su così ampia scala. Almeno un po’ in questa direzione si dovrebbe comunque andare. Contrariamente a quel che spesso si pensa, le nostre risorse forestali non servono solo a produrre legno da energia, ma anche da opera! Se non altro, per le abbondanti possibilità di lavoro che la valorizzazione di questa materia prima permette. MONTAGNA VIVA? - ottobre 2011 Negli ultimi tempi, sui responsabili dell’applicazione della NPR (Nuova politica regionale) nel nostro Cantone sono piovute parecchie critiche, prevenienti da varie parti. Il fatto che nel corso del quadriennio che sta per terminare, dei 51 milioni di franchi disponibili per progetti rientranti sotto questo “cappello” ne siano stati utilizzati meno di 6, mentre i 45 milioni rimanenti (ossia quasi il 90!) sono andati praticamente “persi”, non può che irritare. Ciò a maggior ragione dal momento che a subirne le conseguenze sono soprattutto le regioni di montagna, già in difficoltà per altre cause. Ma per meglio inquadrare la questione, occorre tener presenti almeno tre dati di fatto, che mi pare vengano ignorati un po’ troppo facilmente. Il primo è che contrariamente a quanto avveniva in passato con la LIM - legge sull’aiuto agli investimenti nelle regioni di montagna - con la NPR i progetti di sviluppo vengono sussidiati solo se rientrano in una delle cosiddette filiere riconosciute dalla Confederazione per il rispettivo Cantone. Il che esclude quindi iniziative magari interessanti, ma non conformi a quanto stabilito in dette convenzioni. Un secondo motivo sta nell’incredibile ritardo con cui i nuovi Enti regionali di sviluppo (ERS) e le relative Agenzie si sono messi in moto. Ciò dipende soprattutto dai malcelati tentativi dei Municipi di alcuni Comuni-polo (Bellinzona in primis) di assicurarsi un dominio quasi coloniale all’interno della rispettiva regione. Una terza causa ha invece origini più lontane. Risale infatti ad almeno 7-8 anni fa, quando il Governo di allora ebbe la malaugurata idea di sopprimere l’Ufficio regioni di montagna, diretto con competenza e dinamismo da Tarcisio Cima, per integrarlo in un’altra unità amministrativa, con compiti più vasti ma meno specifici. I nuovi responsabili avranno anche svolto i loro compiti in modo corretto, ma certo senza quel “fuoco sacro” che animava Cima, e che sicuramente avrebbe impedito che il passaggio ai nuovi Enti avvenisse così al rallentatore come purtroppo è successo. Che fare? Come relatore della legge di applicazione della NPR, insieme al collega Fabio Bacchetta-Cattori (che da attento giurista ne ha “cesellato” i vari articoli) avevamo cercato di fare in modo che le disposizioni non fossero troppo burocratiche. Ma una legge cantonale di applicazione, per sua natura, non può scostarsi troppo dalla legge federale di riferimento, per cui una certa macchinosità di fondo è inevitabilmente rimasta. Il Cantone ha tuttavia la possibilità di adottare misure complementari, per sostenere autonomamente quei progetti che fossero ritenuti interessanti per la creazione di posti di lavoro, anche se non rientrano nelle famose “filiere”. Occorre però che progetti di questo genere vengano presentati! E di questo compito dovrebbero farsi carico in primo luogo gli ERS. Lo sapranno o lo vorranno fare, o preferiranno dedicarsi ad altro? Lo vedremo. Sta comunque di fatto che ora “la palla” è soprattutto nel loro campo. E’ pertanto da auspicare che questo compito lo prendano sul serio, affinché l’obiettivo che le regioni di montagna tornino ad essere vive e vitali non rimanga uno slogan elettorale di alcuni idealisti, peraltro ben intenzionati, ma divenga una realtà di fatto! DOPO LA VOTAZIONE SULLE RESIDENZE SECONDARIE aprile 2012 La votazione federale dello scorso 11 marzo sull’iniziativa per la limitazione delle residenze secondarie è finita come si sa. Ciò non deve però dar luogo a rassegnazione, ma essere da sprone a un’azione più incisiva. Le cause di una sconfitta Perché ha prevalso il sì? Credo che la risposta sia semplice: perché gli avversari dell’iniziativa l’hanno presa, come si suol dire, sotto gamba, ritenendo che la coloritura… “verde antico” del suo principale promotore (Franz Weber) l’avrebbe condannata alla sconfitta. Se così non è stato, lo si deve in primo luogo all’insufficiente mobilitazione dei contrari. I cittadini hanno quindi percepito poco quali sarebbero state le conseguenze negative della proposta (il blocco quasi integrale dell’attività edile nelle regioni di montagna). Se in tutti i Cantoni alpini l’opposizione fosse stata così netta come in Vallese, dove i contrari sono stati ben il 73%, la debole maggioranza popolare a favore - poco più di 20 mila voti sul totale della Svizzera - sarebbe stata ribaltata. Purtroppo, anche i Cantoni che si sono sì espressi contro, come il Ticino, l’hanno fatto con maggioranze poco convinte (55-60%), dunque insufficienti. Vi è poi una seconda causa. In passato, nelle località maggiormente prese di mira dalla speculazione, gli interventi a tutela dell’ambiente, salvo eccezioni, non hanno brillato per prontezza ed incisività. La nuova legge che avrebbe dovuto regolamentare la questione, oltre ad essere giunta in ritardo, a molti è apparsa poco credibile. Fa comunque specie vedere come le regioni urbane si siano dimostrate insensibili al “grido di dolore” delle regioni di montagna. Agire “cum grano salis” A questo punto, giova poco “piangere sul latte versato”. Occorre trovare il modo per uscire dall’”impasse” e vegliare a che l’applicazione del princìpio costituzionale votato avvenga “cum grano salis”. In particolare – come bene ha scritto Tarcisio Cima in un suo commento – bisogna riuscire a sottrarre alla definizione di “residenze secondarie” quelle che tali non sono. Purtroppo, le dichiarazioni della consigliera federale On. Leuthard, che si è affrettata a invitare i Comuni che già superano la percentuale di residenze secondarie consentita dall’iniziativa (20%) a non più rilasciare nuovi permessi, lasciano un po’ perplessi. Non essendo ancora definito che cosa sia da intendere esattamente per “abitazione secondaria”, né tanto meno quali edifici possano essere esclusi dal computo, tale intervento, più che fare chiarezza, ha aumentato la confusione. In un certo senso ci fa tornare indietro di quarant’anni, ai tempi del famoso DFU (Decreto federale urgente), che bloccò per tre o quattro anni ogni intervento edilizio “fuori zona”. Oggi le cose rischiano di essere ancora peggiori, perché ad essere “off limits” non saranno solo determinate zone, ma intere regioni. E’ vero che le decisioni popolari vanno rispettate, ma come mai in questo caso a Berna si ha tanta fretta, mentre in altri casi (v. trasferimento del traffico di transito su rotaia) da quasi vent’anni si continua a “menare il can per l’aia”? Si ha l’impressione che sulle residenze secondarie si faccia la voce grossa avendo a che fare “solo” con le regioni di montagna, mentre con la ben più potente lobby degli autotrasportatori ci si guardi bene dal fare altrettanto… Per risolvere le questioni in sospeso, occorre che il Ticino – d’ intesa con gli altri Cantoni interessati – sappia far valere le sue ragioni: giuridiche, economiche e politiche. Altrimenti fra vent’anni saremo ancora “ai piedi della scala”! UN PIANO MARSHALL PER LE VALLI? – aprile 2013 Che cosa è stato il Piano Marhall? L’idea ha un precedente illustre, dal quale il sindaco di Biasca Jean-Francois Dominé ha preso lo spunto: quello del piano di aiuti messo in atto dal governo degli Stati Uniti dopo il 1945 per aiutare i paesi europei usciti dalla seconda guerra mondiale con le ossa rotte. Fortunatamente ciò non ha un legame diretto con la situazione odierna delle valli ticinesi, ma nell’ambito della comunicazione l’importante è lanciare un messaggio in grado di attirare l’attenzione, e da questo punto di vista, la trovata del sindaco di Biasca è stata azzeccata. Il Piano Marhall, detto così dal nome del Generale George Marshall (1880-1959), a quel momento ministro degli esteri americano, derivò da un’idea semplice quanto geniale: quella di creare un fondo di aiuti a favore della rinascita economica - dei paesi europei che si fossero alleati con gli Stati Uniti. Aiutando gli europei in difficoltà, l’America aiutava dunque le proprie industrie nella ricerca di sbocchi all’esportazione. Un paragone azzardato, ma… Trasferire questo precedente sulla nostra piccola realtà cantonale è sicuramente apparire forzato. In realtà – “toute proprotion gardée” – il paragone ha un sua logica. Le nostre valli, pur non uscendo, fortunatamente, da situazioni di conflitto armato, negli ultimi decenni hanno subito in modo pesante gli effetti, per esse quasi solo negativi, della globalizzazione. La quale, a livello ticinese, ha favorito solo le regioni vicine alla frontiera, mentre ha provocato un vistoso arretramento del nord del Cantone. La realtà del “Ticino a due velocità” deriva da questo dato di fatto, non già dalle maggiori o minori capacità che qualcuno ha il malvezzo di attribuire, un po’ cretinescamente, a caratteristiche forse perfino antropologhe di chi abita nel “dinamico Sottoceneri” o piuttosto nel “ritardato Sopraceneri”. Ma al di là di queste polemiche, la proposta Dominé mette in rilievo come lo squilibrio fra le due parti del Cantone non sia nell’interesse di nessuno, neppure delle regioni più fortunate. Su un territorio piccolo come il nostro, il fatto che due parti, neppure geograficamente ben distinte, si sviluppino a ritmi diversi è sicuramente dannoso per l’insieme. Da qui l’idea che aiutare le valli a superare le loro difficoltà non è tanto filantropia, quanto piuttosto una scelta di interesse generale. Urge un cambiamento di mentalità Per far attuare questo obbiettivo, urge tuttavia un profondo cambiamento di mentalità. Purtroppo nel nostro Cantone è invalsa da tempo la tendenza a considerare qualunque spesa fatta dall’ente pubblico in zona urbana come un investimento. e a considerare invece qualunque spesa analoga in una zona periferica come assistenzialismo. Un esempio? Per favorire l’”assorbimento” della Val Colla da parte di Lugano, il Cantone ha sganciato senza patemi d’animo quaranta milioni di franchi. Per l’aggregazione dei Comuni dell’Onsernone, il governo, in prima battuta, si era detto disposto a spenderne… quattro! (poi, con grande sforzo, portati a dieci). Anche la “Nuova politica regionale della Confederazione” è focalizzata sui centri urbani. Affinché questa mentalità deleteria cambi, occorre dunque uno sforzo da parte di tutti! UNA GALLERIA SOTTO IL SASSELLO? – novembre 2013 L’idea circolava già una cinquantina di anni fa. Chi ha i capelli un po’ grigi forse se ne ricorda. Poi – complice la prematura scomparsa del consigliere di Stato Franco Zorzi, che ne era il sostenitore più autorevole – è entrata nel dimenticatoio. Ora è stata rispolverata sindaco del Comune di Lavizzara, Michele Rotanzi, e ripresa dal settimanale “Azione”. Occorre infatti ricordare che all’epoca dei grandi lavori della Maggia vi era l’intenzione di realizzare una galleria sotto il Sassello, tra Nante e Fusio, per il trasporto del materiale necessario alla realizzazione delle opere idroelettriche. Lo Studio di ingegneria Fratelli Guscetti di Ambrì era anzi già stato incaricato di elaborare un progetto di massima. L’idea venne poi accantonata, a quanto pare, su pressione di ambienti locarnesi interessati ai mandati e ai traporti per la diga del Naret. Al suo posto venne realizzata una teleferica da Rodi a Fusio, che passava sopra il Campolungo; collegamento poi abbandonato e del quale oggi rimane solo la funivia da Rodi al lago Tremorgio. Un tema tornato di attualità A riprendere il discorso è stato, come detto, il sindaco Rotanzi, che in occasione del 1. agosto, approfittando della presenza in valle della consigliera federale Doris Leuthard, ha gettato, come si suol dire, il sasso nello stagno. A suo parere si tratterebbe di realizzare una “galleria turistica”, della lunghezza di neanche 4 km, la quale potrebbe funzionare anche a una sola corsia, a traffico alternato regolato da semafori. Naturalmente, la consigliera federale non ha potuto né voluto “sbilanciarsi”. L’idea è però stata ripresa nei giorni seguenti da uno striscione esposto lungo la cantonale della Vallemaggia e successivamente dall’arch. Germano Mattei, che con il consueto entusiasmo ha indirizzato alla stessa On. Leuthard una lettera aperta sul tema. A suo dire, la galleria del Sassello avrebbe il vantaggio di aprire la Vallemaggia verso nord, il che ridurrebbe di parecchio le distanze con l’Altipiano svizzero, ridando alla valle (prosegue l’autore) una vitale boccata di ossigeno dal punto di vista economico e demografico. La questione merita dunque di essere perlomeno discussa. Vantaggi e svantaggi Ma il discorso fatto per la Vallemaggia vale anche per la nostra regione? Non è detto. A parte il fatto che i collegamenti con l’Altipiano da noi già esistono (con effetti, invero, non solo positivi…), l’unico vantaggio certo della realizzazione ipotizzata sarebbe quello di rendere più diretto e più celere il collegamento con la Vallemaggia stessa - ciò che comunque rischia di interessare a pochi - e (forse) con il Locarnese. Dico forse, perché se l’eventuale galleria fosse solo a traffico alternato (oppure si trattasse, secondo una variante sostenuta da Mattei, di un tunnel ferroviario con treni-navetta) la sua attrattività non sarebbe granché. Certo, non si può escludere che qualche turista prenda questa “scorciatoia”, alleggerendo così il carico dell’autostrada. Potrebbe anche darsi che, prima o dopo il passaggio, qualcuno si fermi, con effetti positivi per il commercio. Difficilmente il vantaggio sarebbe però tale da giustificare i costi, indubbiamente elevati, dell’operazione. Musica del futuro In astratto, l’idea è comunque attraente. In concreto, appare però scarsamente probabile che essa abbia più possibilità di riuscita di quante ne ebbe cinquant’anni fa. Quello dei costi, ad es., è oggi è un tema che non può essere trattato alla leggera… A complicare le cose vi è poi l’articolo costituzionale dell’Iniziativa della Alpi, che vieta di aumentare la capacità di transito veicolare in territorio alpino. Essendo l’ipotesi in parola molto più modesta di quella, contestatissima, di completare la galleria del Gottardo, anche l’opposizione dovrebbe essere meno accanita, tuttavia… A meno che (come immagina il sempre ardimentoso Mattei), dopo l’apertura dell’AlpTransit”, nell’ormai vicinissimo 2016, la Leventina non riesca a trovare un collegamento diretto con la ferrovia Furka-Oberalp, o (guardando più lontano) con il collegamento “orizzontale” tra Zermatt e San Moritz. Basterebbe (si fa per dire!) riuscire ad innestare su quella la vecchia linea del Gottardo. Ma questa è – tutt’al più – musica del futuro… ATTENTI AL LUPO! – marzo 2014 La coesistenza tra il lupo e le attività rurali tradizionali è possibile? Se la risposta fosse davvero affermativa, come sostengono gli “amici del lupo”, le preoccupazioni non avrebbero evidentemente ragion d’essere. Tale presenza potrebbe perfino costituire, come sostengono taluni, un richiamo di tipo turistico per le regioni interessate. Se viceversa la convivenza risultasse problematica, come almeno a prima vista parrebbe, occorre porsi una ulteriore domanda: la precedenza dev’essere data alle attività dell’uomo, come tradizione vorrebbe, o ai diritti del predatore, come sostengono a gran voce certi ambientalisti da salotto? Un problema anche ticinese Se fino a non molti anni fa, alle nostre latitudini, le discussioni sulla presenza del lupo potevano sembrare dispute puramente accademiche, da qualche anno la questione ha assunto un rilievo sempre più reale. In Vallemaggia, ad esempio, poco prima di Natale, uno o più di questi predatori ha sbranato in pochi giorni oltre venti tra pecore e capre. In Leventina, casi del genere sono avvenuti con una certa frequenza già negli anni scorsi. Naturalmente ciò non commuove gli “ambientalisti” di cui sopra. Dall’alto del loro asserito sapere, costoro tacciano perciò di ignorante chiunque non si associ al loro giubilo, o “addirittura” se ne preoccupi. Per essi, il fatto che alcuni animali ne uccidano altri, anche facendone scempio, è un dato di natura da accettare così com’è, e sul quale non vale neppure la pena di spendere parole. Ma sarà così anche per gli allevatori affezionati ai loro animali? Ci si permetta di dubitarne! Autorità latitanti In risposta ad una mozione del sottoscritto e dell’allora collega Cleto Ferrari, il Consiglio di Stato, pur ammettendo che già a quel momento (maggio 2008) nelle Tre Valli erano già state accertate ben 63 uccisioni di animali domestici ad opera del predatore, si accontentava di annunciare la formazione di un Gruppo di lavoro incaricato (cito) di “seguire l’evolversi della situazione a livello cantonale, nazionale e transfrontaliero, nonché gli studi scientifici ad esso associati”. Più concretamente (si fa per dire!) il messaggio parlava poi dell’’"elaborazione dell’opuscolo informativo “Vivere con il lupo”, rivolto agli allevatori di bestiame minuto" e della formazione di "una rete di allevatori che stanno facendo esperienze con i vari aspetti della protezione delle greggi (cani da protezione, recinti elettrici, gestione del gregge)" nonché di "corsi di formazione e incontri informativi". Il tutto per concludere che “l’informazione alle Autorità, alle cerchie interessate e all’opinione pubblica è già sufficientemente garantita"… Che fare? Ma pensare di fronteggiare una situazione del tutto nuova solo immettendo nei greggi i cani di protezione è un’ingenuità che è ben lungi dal risolvere i problemi. Ammesso e non concesso che non minacci direttamente l’uomo, la presenza del lupo è una minaccia per l’economia rurale. Senza contare che i famosi cani di protezione, a dispetto di tutte le assicurazioni degli esperti, a molti fanno comprensibilmente paura; motivo per cui non poche persone rinunciano a frequentare la montagna. Ma forse è proprio questo che vogliono i “lupofili”... Che fare allora? Se non altro si potrebbe allentare la protezione assoluta di cui questo predatore beneficia. Se anziché consentirgli 25 predazioni di animali domestici prima di eventualmente consentirne l’abbattimento, si abbassasse questa soglia, le cose potrebbero già migliorare. Almeno da noi una simile suggestione non dovrebbe essere tabù. Altrimenti vorrà dire che la civiltà rurale è definitivamente morta e sepolta! Sì AL CREDITO PER GLI IMPIANTI DI RISALITA (intervento in Gran Consiglio a nome del Gruppo PLR, maggio 2014) Il Gruppo liberale-radicale prende atto, pur senza particolare entusiasmo (per i motivi che dirò) del Messaggio e del Rapporto in oggetto. Appoggerà comunque il decreto legislativo che ci viene sottoposto, in virtù soprattutto di tre considerazioni. La prima è che si tratta del seguito logico all’adesione decisa dal Gran Consiglio lo scorso 23 settembre (condivisa anche da gran parte del nostro Gruppo) al precedente Rapporto elaborato su questo tema dalla Commissione della Gestione; rapporto con il quale si sollecitava appunto il Governo a presentare un Messaggio “nell’ottica (cito) di garantire la sicurezza degli utenti anche nelle stazioni turistiche del Nara, di Campo Blenio, di Carì e di Bosco Gurin”. Al riguardo, ribadiamo l'importanza della decisione della Commissione della Gestione di istituire un gremito formato dai comuni sede, dagli Enti regionali si viluppo, dagli Enti turistici locali e dal Cantone stesso per trovare soluzioni durature e strategie comuni, confermando così una nostra visione proposta formulata a suo tempo anche dal nostro Partito. La seconda motivazione del voto favorevole sta nel fatto che il credito richiesto, di 1,6 milioni di franchi ripartiti sull’arco di tre anni - ovvero di un importo ben inferiore ad altri che, talvolta, passano pressoché inosservati – contribuirà a garantire la sicurezza degli impianti e, al tempo stesso, a dare una “boccata d’ossigeno” finanziaria alle stazioni invernali ticinesi. E ciò nell’interesse, non solo (e non tanto) delle regioni periferiche in cui gli stessi sono ubicati, ma soprattutto dei frequentatori provenienti dal resto del Cantone. Una terza considerazione che ci porta a sostenere questi impianti, è la constatazione che molti Comuni sono oggi direttamente coinvolti nella proprietà, o almeno nella gestione degli stessi. Ciò dimostra che gli enti locali valutano positivamente l’indotto di tali impianti. Questo coinvolgimento dei Comuni dovrebbe però essere una premessa indispensabile per giustificare il ruolo sussidiario del Cantone. Viceversa, dove l’impegno comunale non è esplicito, non si vede perché il Cantone dovrebbe intervenire Nel caso specifico si tratta di un investimento – modesto, ripeto – che è sì a fondo perso, ma che è da considerare, direttamente o indirettamente, a favore non solo delle persone che vi lavorano (spetto già da non sottovalutare), ma più in generale di tutta la popolazione ticinese, per la pratica di uno sport che nel corso degli anni (a dispetto di talune critiche) è divenuto vieppiù popolare. Occorre pure considerare che, per loro natura, gli impianti sportivi – di qualunque sport – ben difficilmente sono in grado di reggersi finanziariamente solo “sulle proprie gambe”. Ciò non toglie che, come dicevo, la proposta in esame susciti (nel nostro Gruppo, e presumiamo anche in altri) pure talune riserve, per cui la nostra adesione, come dicevo, è lungi dall’essere entusiastica, e da parte di alcuni colleghi potrebbe anche non esserci. Ciò principalmente a causa del fatto che la trasparenza dei conti non sembra essere di casa in tutte le situazioni. Ci chiediamo ad esempio come mai la stazione di Bosco Gurin, con un numero di frequentatori sensibilmente maggiore a quello di altre, presenti poi risultati più negativi. Verosimilmente, laddove i Comuni partecipano direttamente alla gestione la trasparenza viene assicurata, mentre in altri casi la stessa lascia ancora a desiderare. Sorge quasi il dubbio che qualche stazione scorpori le attività più redditizie (in particolare la ristorazione), per poter mostrare delle perdite. Anche se i contributi di cui discutiamo vengono erogati sulla base dei costi di manutenzione, una riflessione al riguardo si impone. Sperando che qualcuno possa rispondere in modo convincente a questo interrogativo (che riteniamo non solo lecito, ma doveroso), e che in futuro si riesca a ottenere la necessaria trasparenza dei conti da parte di tutte le stazioni che beneficiano di questi aiuti, confermo l’adesione di quasi tutto il Gruppo PLR al Rapporto commissionale. UNA BUONA IDEA - agosto 2014 L’intervista nella quale il consigliere di Stato on. Bertoli ha lanciato l’idea di creare una società mista, pubblico-privata, per l’acquisizione di terreni da destinare ad attività industriali ad alto valore aggiunto, in grado di occupare soprattutto manodopera indigena, ha perlomeno il merito di aver sollevato un problema serio. Anche se di difficile attuazione, la proposta dovrebbe inoltre contribuire ad innalzare il dibattito pubblico ad un livello un po’ superiore a quello delle acque stagnanti in cui si è impantanato negli ultimi anni. Lo dimostra, tra l’altro, il fatto che diversi rappresentanti di associazioni economiche, solitamente per nulla inclini ad appoggiare idee di esponenti socialisti, hanno dichiarato – seppure con tutte le riserve del caso – di considerare la suggestione degna, se non altro, di approfondimento. Certo, in un ordinamento liberale non è lo Stato che deve dirigere l’economia. Non deve però succedere neppure l’inverso, ovvero che le attività economiche impediscano alla politica di agire, o la condizionino oltre misura nei campi di attività che le sono propri, come ad es. quello della pianificazione territoriale. In questi casi non si tratta infatti più di liberalismo, ma di anarchia. E’ purtroppo quanto in sostanza è successo negli scorsi anni, nei quali abbiamo assistito a non poche iniziative caotiche, per giunta con effetti territorialmente squilibrati. Ciò, lungi dal favorire la collettività, ha causato innumerevoli problemi: da quelli del traffico (che toccherà comunque ancora allo Stato risolvere!) ad un vertiginoso aumento del costo dei terreni, e di conseguenza degli affitti, contribuendo pure ad attirare migliaia di frontalieri. La serie di sgravi, e perfino di esoneri fiscali, più che favorire lo sviluppo del Cantone ha insomma favorito talune aziende in fuga dalla vicina Repubblica. E i “cocci” rimangono a noi… Alla proposta dell’on. Bertoli si può comunque muovere almeno una critica. Il consigliere di Stato ha infatti parlato del territorio fra Chiasso e Biasca, come se il nord del Cantone (dove, tra l’altro, l’industria ticinese ha storicamente mossi i primi passi!) non esistesse neppure. Bene ha fatto perciò Gianni Guidicelli, deputato e sindacalista, a “rilanciare” l’idea precisando che occorrerebbe cominciare ad attuarla nelle regioni maggiormente in difficoltà. Del resto, lo Stato, più che andare a rimorchio delle tendenze “spontanee” del mercato, dovrebbe apporvi dei correttivi. E in quest’ottica impegnarsi in primis per il necessario riequilibrio territoriale!